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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - La letteratura comparata
Indice
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culturale che corrisponde anche a una metamorfosi del romanzo, soffermandoci sul processo di
ibridazione e contaminazione della letteratura con le altre arti e gli altri media, che possiamo
Tra gli obiettivi figura quello di comunicare la capacità di comprendere e riconoscere gli
aspetti formali di un’opera – per intenderci, quelle forme che differenziano un testo estetico da un
nei testi di modi tipici di determinati generi, e il loro intrecciarsi e mescolarsi nel testo. La capacità
di saper leggere o guardare un’opera comporta inoltra la comprensione delle ragioni del piacere
del testo esperito dagli spettatori, a partire da quelle strategie che stabiliscono la relazione tra
Le prime due lezioni sono dedicate a introdurre la disciplina della letteratura comparata, e
della critica letteraria, e attraverso l’analisi di casi studio specifici. Il metodo è quello classico della
comparatistica: il metodo dei campioni introdotto dal critico e filologo Erich Auerbach nella sua
fondamentale opera Mimesis: un percorso critico attraverso la letteratura occidentale che muove
dai testi fondatori, l’Odissea e la Bibbia, e arriva fino a Virginia Woolf e a Proust, incentrato
temperie culturali. Dunque, una selezione di opere, e all’interno di queste, una selezione di brani
ritenuti da Auerbach a loro volta rappresentativi dell’intera opera a livello tematico e formale.
che parte dal romanzo dell’Ottocento, attraversa il modernismo e la letteratura del tardo
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Novecento, e arriva fino all’Italia degli anni Zero riflettendo costantemente su temi, generi, la
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Inizio questa lezione con una definizione del campo proveniente dal comparatista Henry H.
particolare e lo studio dei rapporti tra letteratura, da una parte, e, dall’altra, altre aree della
conoscenza e delle opinioni, come le arti (per es. la pittura, la scultura, l’architettura, la musica), la
filosofia, le scienze sociali (come la politica, l’economia, la sociologia), le scienze, la religione etc.
In breve, è il confronto tra una letteratura e un’altra o altre, e il confronto tra la letteratura e altre
La comparsa istituzionale del termine risale al 1816, anno in cui fu pubblicata in Francia una
serie di antologie per l’insegnamento letterario dal titolo Cours de littérature comparée, mentre
invece il corrispettivo inglese, comparative literature, compare per la prima volta in una lettera di
Matthew Arnold del 1848. La prima cattedra fu istituita in America nel 1890 a Harvard, e in Europa
all’università di Lione nel 1897. L’espressione entrò in uso con Paul van Tieghem, autore dell’articolo
La notion de littérature comparée del 1906 e del trattato La littérature comparée del 1931. Prima di
Goethe.
Come ricorda un grande comparatista italiano, Massimo Fusillo, «La cosa importante da
esprime insoddisfazione per la categoria di letteratura nazionale: si preoccupa per il ruolo che la
letteratura tedesca, da poco affacciatasi sulla scena europea, potrà svolgere in futuro, ma nello
stesso tempo si apre al confronto con le culture altre e con il mondo orientale (in particolare un
romanzo cinese). Un confronto che lo porterà a comporre una delle sue opere più affascinanti: Il
divano occidentale orientale, costruito come un dialogo con il poeta persiano Hāfez. […] Per
quanto non sviluppi un pensiero sistematico in proposito, e resti sempre ancorato a una visione
classicistica, Goethe coglie con singolare preveggenza alcuni tratti pregnanti: per lui la letteratura
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mondiale non implica un’unificazione progressiva di un mondo sempre più omogeneo, come
auspicavano Marx ed Engels e come paventano oggi molti intellettuali apocalittici, ma scaturisce
da una continua tensione fra il locale e l’universale (quella zona ibrida che oggi chiamiamo
interdipendenza tra culture nazionali, libera circolazione delle idee e la fine delle guerre, solo con
Van Tieghem il concetto di letteratura comparata “si riferisce a una disciplina specifica, rivolta sia
allo studio della modernità e dotata di suoi metodi, di suoi programmi di una coscienza storica”2.
Come spiega Fusillo, autore di libri considerati “classici” della disciplina [come L’altro e lo
Nata agli inizi dell’Ottocento come disciplina che metteva a confronto due autori o due
opere che erano stati sicuramente in stretto contatto (ad esempio l’influsso di Boccaccio su
plurale che affrontava l’irradiazione di generi e temi in diverse epoche e culture (il modello
americano succeduto a quello francese), e poi inglobando il confronto fra letteratura e altre arti,
disciplina, mi affido alle sue parole, tratte dalla nuova edizione del manuale di Letterature
«Stare da entrambe le parti di uno specchio»: Thomas Stearns Eliot descrive così al critico
Ivor Armstrong Richards nel 1924 l’esperienza di leggere testi remoti nel tempo e nello spazio, come
quelli in sanscrito. Questa bella metafora, ripresa di recente in un libro di teoria della
comparatistica sui rapporti fra Oriente e Occidente, rende perfettamente la sfida ardua che la
letteratura comparata ha da sempre affrontato (2011). Nell’immaginario umano, nel cinema, nella
1
M Fusillo, Introduzione. Passato presente futuro, in F. de Cristofaro, a cura di, Letterature comparate, Roma, Carocci, pp.
14-15.
2 N. Gardini, Letteratura comparata, p. 5.
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psicanalisi, lo specchio è una metafora potente per evocare l’alterità: vedere sé stesso come un
altro, come un doppio asimmetrico, e costruire così la propria identità attraverso il confronto,
comprese anche tutte le connotazioni di elusività che l’oggetto comporta. Stare da entrambe le
parti di uno specchio significa in fondo valorizzare un elemento che è alla base dell’atto di
confrontare, oltre a essere fondamentale in ogni relazione umana: l’empatia. Confrontare diverse
letterature, generi, linguaggi, saperi implica identificarsi pienamente con l’alterità in tutte le sue
Come spiega Fusillo, ricordare Goethe è importante perché «la Weltliteratur ha avuto uno
sviluppo vertiginoso con la piena modernità, a partire dalla rivoluzione industriale, che con le sue
innovazioni tecnologiche ha fatto circolare sempre di più le opere letterarie, fino alla nostra epoca
e alla rivoluzione digitale, che sta ridisegnando i concetti stessi di testo, autore, lettura e proprietà
intellettuale».
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«Negli ultimi anni del Novecento si è assistito a tentativi sempre meno sporadici e
occasionali di reintrodurre la comparatistica nelle nostre università. Tra i più attivi sostenitori della
disciplina in ambito istituzionale è stato Remo Ceserani, autore di numerosi saggi metodologici
dell’Associazione per gli studi di teoria e storia comparata della letteratura, tramite tra America ed
Partiamo dalla delimitazione del campo riprendendo una sintesi di Ceserani tratta dal suo
“letteratura generale”, si intende lo studio delle letterature su base non ristrettamente nazionale (o
nazionalistica).
Oltre che dello studio dei rapporti e confronti tra le diverse tradizioni letterarie, la disciplina
si occupa anche:
retorica e stilistica
sociologia letteraria; dei rapporti tra i diversi codici della comunicazione culturale
musica
storia letteraria
multiculturalismo
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Si tratta di una disciplina di studio che gode di forte prestigio in gran parte delle università
del mondo, ha istituzioni molto solide in Francia e negli Stati Uniti, in paesi piccoli o d’incrocio
culturale come per esempio l’Ungheria, la Romania, l’Olanda, il Portogallo o il Sudafrica, in paesi
che hanno una lunga tradizione di chiusura su di sé ma desiderano aprirsi verso il resto del mondo
come la Cina, e anche in paesi grandi ed emergenti come l’India, il Brasile o il Giappone, mentre
incontra non poche difficoltà ad avere un suo posto dignitoso nel sistema culturale e universitario
italiano.
La disciplina ebbe in tutta Europa, Italia compresa, una notevole fioritura nella seconda
metà dell’Ottocento, nell’atmosfera culturale positivistica (in analogia con altre forme di
università nel corso del Novecento. A questa espulsione contribuì indirettamente, con le sue idee
metodologiche degli studi di letteratura comparata che venivano condotti in Italia in quei tempi,
spesso ridotti a pura erudizione positivistica. Tuttavia, Croce ammetteva la legittimità di molti studi
comparativi: nel campo della storia delle idee o della critica dei temi letterari.
Una figura importante della comparatistica a livello mondiale è René Wellek, nato a
Vienna, di origine ceca ed emigrato in America alla fine degli anni Trenta. Wellek fu protagonista a
letteratura comparata (AILC/ICLA), della polemica contro la scuola comparatista francese. I suoi
interventi, tra i quali il capitolo di Theory of Literature (1949), intitolato General, Comparative, and
tendenze positivistiche. Ecco un brano dal suo discorso tenuto al secondo congresso
[…] Quello che io, e molti altri, sosteniamo è l’abbandono dei concetti meccanistici e
fattualistici ereditati dall’Ottocento a favore della vera critica. Critica significa interesse per i valori
e le qualità, per una comprensione dei testi che incorpora la loro storicità e quindi richiede una
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storia della critica per consentire tale comprensione; essa, infine, significa una prospettiva
internazionale che preveda il lontano ideale di una storia letteraria e di una disciplina di studio con
caratteri universali.5
Il modello che proponeva Wellek era di un lavoro critico su base non nazionale, incentrato
sulla grande tradizione letteraria europea, ispirato alle scuole filosofiche ed estetiche “alte” del
moderna, la critica stilistica, il formalismo russo e lo strutturalismo praghese. Sul piano degli studi
letterari, gli ispiratori erano i grandi romanisti come il tedesco Ernst Robert Curtius, l’austriaco Leo
Spitzer e il tedesco Erich Auerbach, del quale è importante ricordare il suo capolavoro –
considerato un classico della disciplina – Mimesis, scritto a Istanbul negli anni della Seconda guerra
tradizione latina umanistica e quella moderna francese, e propugnato l’incontro tra filologia
denazionalizzazione dei dipartimenti, e del superamento della divisione tra storici e critici della
letteratura.
Va detto che in questa concezione gli studi letterari, e anche la creatività letteraria,
rapporto con la realtà sociale era scarso o inesistente. Successivamente si sono affermate nuove
scuole e nuove ideologie, alcune di queste in rapporto con le trasformazioni della società; oltre
alla linguistica hanno iniziato ad avere un ruolo importante la retorica, l’informatica, la teoria delle
comunicazioni; agli studi letterari si sono affiancati quelli cinematografici, e in generale, c’è stato
Uno degli effetti più interessanti della crisi è stato l’effetto che, sui concetti e sui metodi
guida degli studi comparati hanno avuto i movimenti di rivendicazione dell’identità razziale (Black
Studies, Ethnic Studies) o sessuale (Gender and Women Studies, Queer Studies). Al contempo,
5 Il discorso è stato pubblicato qui: R. Wellek The Crisis of Comparative literature, in Concepts of Criticism, pp. 19-20 e 36;
trad. it. Concetti di critica, Boni, Bologna, 1970.
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recupero dell’identità e della soggettività negata espresso dagli studies si veniva a scontrare con
generale.
Un altro aspetto della crisi riguardò la critica all’eurocentrismo che caratterizzava diverse
espressioni della disciplina. Le nuove prospettive del multiculturalismo apertesi in America in seguito
a cambiamenti sociali e culturali profondi, alla sempre più forte presenza, alla difesa e alla
riscoperta delle proprie radici culturali da parte delle molte componenti etniche che costituiscono
il mosaico culturale americano (i neri di origine africana, gli ispano-americani, i caraibici di cultura
francofona, gli asiatici ecc.). Tuttavia, la rivendicazione delle specificità delle singole tradizioni
prospettiva più ambia e globale, costituita dai nuovi assetti mondiali tipici dell’età postcoloniale e
globale.
4. Generi e forme
qualsiasi testo – quando ce lo troviamo davanti sullo scaffale di una libreria reale o virtuale,
quando ci viene consigliato da una recensione, quando siamo i terminali temporanei d’un fortuito
«La definizione dei generi letterari costituisce uno dei problemi più dibattuti della
comparatistica e della teoria letteraria fin dal Cinquecento, quando su basi aristoteliche, nasce
una moderna teoria dei generi. Un’altra tappa fondamentale nella storia della teoria dei generi va
6 F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, (2014) 2020, p. 33.
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collocata in età romantica, quando Hegel, nell’Estetica, distingue i tre generi dell’epica
(oggettiva), della lirica (soggettiva) e del dramma (sintesi delle altre due). Dopo quello di Hegel il
contributo più significativo alla teoria dei generi è stato L’evoluzione dei generi nella storia della
letteratura (1890) di Ferdinand Brunetière – un monumento del positivismo -, che coniuga la teoria
Una volta estratte certe caratteristiche dall’archetipo, lo studio dei generi può essere
solamente «uno studio delle sue trasformazioni, cioè del modo e del grado in cui i tratti distintivi,
isolati in un certo numero di opere in base alla somiglianza dell’una con le altre, si sono mantenuti
e/o perduti nel corso della storia»8. Come ha scritto Claudio Guillen, autore di uno dei più
comparata:
Storicamente i generi occupano uno spazio le cui componenti evolvono nel corso dei
secoli. Sono modelli che vanno cambiando e che ci tocca, in ciascun caso particolare situare nel
sistema o polisistema letterario che sostiene un momento determinato nella evoluzione delle forme
poetiche.9
Che cos’è un genere? E di conseguenza, in termini più pragmatici: a cosa serve? Che
contributo porta allo studio della letteratura? Per rispondere al meglio a queste questioni mi
rifaccio alla lucida riflessione di Federico Bertoni, docente di Teoria della letteratura presso
l’Università di Bologna, esposta nel suo recente libro Letteratura. Teorie, metodi, strumenti:
Di fatto, le concezioni essenzialiste che lo vedono come un’entità “reale”, dotata di vita
propria e identità sostanziale, si iscrivono in paradigmi teorici ormai impraticabili, che si tratti della
filosofia hegeliana o del positivismo ottocentesco. [..] Da parte nostra, non possiamo che
collocarci nell’orizzonte più scettico che domina il Novecento, quando non mancano teorie e
riclassificazioni anche molto complesse ([…] ma il genere diventa una categoria aperta e fluida, a
codificazione debole, una cornice che deve essere continuamente spostata e riposizionata […].
7 N. Gardini, Letteratura comparata. Metodi, periodi, generi, Milano, Mondadori, 2002, p. 15.
8 Ibidem.
9 C. Guillen, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 153.
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Già nel 1925, in un saggio intitolato La costruzione dell’intreccio, Boris Tomaševskij notava che dei
generi è impossibile dare “una qualsiasi classificazione logica e definitiva. La loro ripartizione è
sempre storica, cioè vale solo per un periodo storico determinato; inoltre essa si fonda
piena modernità, vengono meno i presupposti che ne fondavano lo statuto e il ruolo nelle epoche
precedenti. Innanzitutto si allenta o si rompe del tutto il nesso tra specificazioni tematiche e opzioni
espressive, quell’intersezione funzionale tra modi e oggetti dell’imitazione che – l’abbiamo visto – è
il principio generativo del concetto di genere. Nella concezione classica, dalla Poetica di Aristotele
fino al Romanticismo, il genere definisce infatti una serie di rapporti convenzionali tra il piano del
contenuto e il piano dell’espressione, un nesso di interdipendenza tra forme e temi in assenza del
quale «non vi è genere» […]. Ad esempio, la tragedia si trova all’intersezione tra un modo di
termini di ceto (personaggi d’alto rango), andamento della trama (rovescio di fortuna, catastrofe,
esito nefasto), peculiarità tematiche (colpa, hybris, crudeltà degli dèi, ironia del destino, conflitto
inconciliabile ecc.).
D’altra parte, come nota Paolo Bagni, «tra l’opera e il genere non è (più) pensabile una
modo di una esecuzione di un modello, esempio di una regola, sia come condivisione,
incarnazione di un’essenza» (Bagni, 1997, p. 44). Di per sé, una fondata e sistematica teoria dei
generi presuppone che singoli elementi (i testi) vengano raggruppati in classi logiche (i generi) sulla
base di relazioni d’appartenenza, nel senso che un elemento x appartiene alla classe Y quando ne
condivide tutte le proprietà, secondo la proposizione «x è un Y» (ad esempio, «la Fedra di Racine è
una tragedia»). In realtà le cose non sono mai così semplici nemmeno in epoche a forte
normatività poetica, nemmeno per i generi classici della tradizione: difficilmente si trovano singoli
testi che esemplificano perfettamente tutte le proprietà della classe generica, e che quindi
possono essere identificati in modo univoco come parti di un insieme, con il relativo nome di
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genere (poema epico, tragedia, commedia ecc.). Nel suo commento alla Poetica del 1548,
Francesco Robortello nota puntigliosamente che solo Edipo re soddisfa in modo perfetto le
condizioni poste da Aristotele per la tragedia. Figurarsi dopo la svolta romantica, con il tramonto
delle poetiche normative e lo sviluppo di nuovi generi (primo fra tutti il romanzo) che hanno
Dunque, una nozione centrale e persistente che però si sfalda tra le mani, sia sul filo della
storia letteraria che di un ricco dibattito teorico in cui regnano confusioni terminologiche,
paradigmi scientifici non regge. I generi non sono (come) le specie della biologia, definite da
precisi tratti morfologici e fisiologici, programmate da un codice genetico che si trasmette (anche
dell’individuo al gruppo. Non sono nemmeno vere classi logiche, perché il rapporto di implicazione
dei singoli elementi nella classe è troppo aleatorio, variabile nel tempo e nello spazio, ridotto nei
fatti a casi puramente teorici. Nel migliore dei casi sono classi empiriche, «stabilite con l’osservanza
del dato storico o al limite con l’estrapolazione a partire da questo dato, vale a dire con un
In termini operativi, una buona soluzione è concepire il genere come un fattore intermedio,
un’interfaccia semiotica, una maglia di quella complessa catena comunicativa che unisce
l’autore e il lettore di un testo. Sul fronte della produzione, i generi sono programmi, manuali di
istruzioni, modelli di scrittura, sistemi codificati di possibilità tematiche e stilistiche che un autore
trova nel suo repertorio, nella cultura letteraria che ha a disposizione. Ovviamente il valore
modellizzante di questo programma (che è anche un primo schema di interpretazione del mondo)
dipende da uno specifico campo di tensione, storicamente mutevole, che è il rapporto fra
Predomina ad esempio nelle fasi di classicismo o poetica normativa, quando gli scrittori tendono a
produrre opere che si conformano a modelli ideali e a precise regole compositive, spesso
codificate da manuali o trattati. Oggi incide soprattutto nell’ambito della letteratura di genere o
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paraletteratura […], che struttura i reparti delle librerie postmoderne e restituisce a questa antica
paraletteraria è infatti una produzione che funziona secondo la più ovvia logica di genere: cornici
editoriali chiare, spesso incluse in apposite collane, marche testuali riconoscibili e ripetizione
sistematica degli stessi motivi, personaggi, schemi narrativi, cliché. Se «tutti i generi letterari sono
iterazione insistente, moltiplicazione […]. Così ogni (sotto)genere acquisisce e rafforza le sue
peculiarità, include automaticamente i testi che vi si conformano, diventa subito riconoscibile per
un affezionato pubblico di riferimento. Anche violare le regole del gioco significa confermare,
benché in negativo, il valore strutturante della cornice generica. Se scrivo un romanzo poliziesco so
gradualmente, con un dosaggio calibrato di suspense e sorpresa. Magari so che esiste tutta una
tradizione del giallo “problematico” (Chandler, Dürrenmatt, Sciascia), molto meno razionale e
prevedibile della detective story classica alla Conan Doyle. Ma se mi chiamo Carlo Emilio Gadda e
scrivo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un romanzo poliziesco in cui c’è un investigatore
filosofo e psicologo, teorico della molteplicità delle cause e dell’infinita complessità del mondo, in
cui l’indagine sul delitto si perde in mille rivoli con l’aggrovigliarsi della trama e lascia il giallo
contenitore generico.
Il genere agisce infatti in modo simmetrico sul versante del lettore. Delinea un orizzonte
d’attesa e funziona come uno «schema di ricezione» […], un codice di lettura, un pacchetto di
regole convenzionali con cui il lettore decodifica il testo attraverso processi di conferma, smentita,
letteraria acquisita attraverso la scuola, la critica, la lettura di altri testi, la familiarità con certi
sottogeneri, i circuiti di produzione editoriale o il semplice sentito dire. «Si può dire che un genere
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sia una funzione convenzionale del linguaggio, una particolare relazione con il mondo che serve
come norma o aspettativa per guidare il lettore nel suo incontro con il testo» […]. Se appunto
(possibilmente) una convincente soluzione del caso. Se il nome di genere è commedia mi aspetto
un lieto fine, di solito un matrimonio. Se ho davanti agli occhi un sonetto so che il testo, a
prescindere dal contenuto, si dispone in due quartine e due terzine di endecasillabi variamente
rimati tra di loro. Se leggo I promessi sposi sapendo che è un romanzo storico, magari dopo che
diatribe teoriche sul nuovo genere, interpreto meglio i documenti d’archivio citati nel testo, la
sulla peste e il complesso rapporto paratestuale tra il romanzo e la Storia della colonna infame.
profondamente legati alle circostanze storiche, ai sistemi di valori, alle ideologie, ai tratti costitutivi
Con altre parole, quelle di Francesco De Cristofaro, «[…] prima insomma di entrare nel
sistema complesso della cultura, un testo si forma, ovvero si costituisce e si cristallizza secondo
l’idea di letteratura che una tradizione, un contesto storico e un soggetto autoriale hanno
negoziato nel tempo. Nelle arti, come non si danno generi puri, non si danno nemmeno forme
pure, esecuzioni non mediate di protocolli estetici: tra la messa a punto d’una poetica e la sua
attuazione poietica (parole entrambe derivate da poieo, “fare”) si frappongono una miriade di
filtri, di scarti, di rifrazioni, che possono giungere persino a invertire il rapporto logico/cronologico fra
i due momenti, facendo del primo una sorta di risarcimento concettuale ex post dell’altro». 11
Se la nozione di genere è invasiva nelle posizioni della critica, nei dintorni dei testi e nei
cataloghi delle biblioteche, anche quella di “forme” non manca di sfaccettature e declinazioni.
«Forme, difatti, si dicono sia le figure, i procedimenti, i trucchi e i ferri del mestiere con cui “si fa”
un’opera (dalla rima al parallelismo, dallo stream of consciousness alla digressione), sia le
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costellazioni dei modelli al di là del genere in cui essa idealmente si colloca: si pensi – e saranno
non a caso i principali aspetti di cui si tratterà qui – alle molte rinascite moderne dell’epos,
12 Ibidem.
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Emanuela Piga Bruni - La letteratura comparata
Bibliografia
(2020).
Ceserani, Remo, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999.
(2014) 2020.
Mondadori, 2002.
Mondadori, 2002.
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Emanuela Piga Bruni - Critica tematica e intermedialità
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Emanuela Piga Bruni - Critica tematica e intermedialità
1. La critica tematica
In questa lezione sono tratteggiate le caratteristiche della critica tematica, una corrente
importante della letteratura comparata. Per sintetizzare alcune questioni principali, riporterò qui
una selezione di brani rilevanti tratta da un utile strumento metodologico, il manuale di letterature
comparate curato da Francesco De Cristofaro, di cui è appena uscita la seconda edizione. 1 Inizio
Di Rocco ricorda come nella seconda metà del Novecento la critica tematica abbia
rivelato una straordinaria vitalità, attestata anche dall’interesse che diverse discipline, dal folklore
alla psicologia, linguistica e letteratura, hanno manifestato per questo campo di indagine.
«Benché si sia parlato di un «ritorno della critica tematica» […]2, tuttavia l’attenzione per questo
approccio critico non è mai venuta meno, anzi spesso si è rinnovata proprio grazie alla svolta da
parte di chi aveva abbracciato altre posizioni quali ad esempio quella dello strutturalismo e della
semiotica. Lavori significativi che hanno segnato la direzione degli studi in questo settore sono
spesso opera di studiosi che hanno alle spalle altre esperienze, come Claude Bremond e Thomas
Pavel, rispettivamente due autorità della semiotica e dello strutturalismo che hanno curato,
«Nel panorama italiano si possono ricondurre al campo tematico gli studi di Mario Praz sulla
storia della cultura e del gusto (1930) e, in tempi più recenti, quelli di Cesare Segre, il quale dopo
l’interesse per la semiotica è approdato alla critica tematica con scritti di fondamentale interesse
per l’evoluzione di questo campo di indagine». […] «In anni più recenti devono sicuramente essere
menzionati i significativi interventi di Ceserani, Giglioli, Pellini Viti e altri sul numero 58 di “Allegoria”,
che riprendono il discorso sulla critica tematica riattualizzandolo e fornendo importanti spunti di
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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riflessione per un campo di indagine che dalla fine del Novecento ha conosciuto notevoli
Recentemente è comparso in Italia il Dizionario dei temi letterari curato da Ceserani, Domenichelli
e Fasano (2007). Quest’opera parte dalle premesse teoriche esposte da Matteo Lefèvre in Tema e
motivo nella critica letteraria (in “Allegoria”, n. 45, 2003). Tenendo conto del dibattito che negli
anni si è venuto a creare intorno alla critica tematica, il Dizionario dei temi disegna un percorso ora
di tipo cronologico, ora basato su un approccio tipologico, seguendo un criterio che mira a
evidenziare una rete di connessioni all’interno della quale il tema vive e si evolve. Gli itinerari
tracciati per i singoli temi non sono, infatti, limitati alla letteratura, bensì laddove possibile si aprono
anche ad altre discipline quali la musica, l’opera e le arti figurative».4 «In realtà, come dimostrano
questi brevi accenni, il discorso sulla critica tematica affonda le radici nel passato e conosce
importanti sviluppi nel presente. A questo proposito le opere di Stith Thompson, Ernst R. Curtius e
Northrop Frye hanno aperto spazi importanti per successivi sviluppi. Il primo, compilando un nutrito
corpus di motivi del folklore, ha stimolato la ricerca e la riflessione che ben presto si è estesa anche
alla letteratura; Curtius, oltre a disegnare una mappa delle radici della letteratura moderna, in
Letteratura europea e Medio Evo latino presenta al lettore una discussione incentrata sui topoi
fondanti della tradizione letteraria occidentale; Frye con Anatomia della critica si inserisce nel
discorso della tematologia individuando i grandi archetipi letterari. […] Accanto a questi studi di
carattere più marcatamente teorico, si sviluppa anche una ricerca che ripercorre l’evoluzione di
temi e topoi in letteratura. A riprova di ciò possiamo menzionare il tema del Faust che sembra
attraversare tutta la letteratura tedesca (e non solo, basti pensare a Too Far to Walk di John Hersey
negli Stati Uniti, una delle ultime incarnazioni di questo mito moderno) dal Faustbuch (fine xv
secolo) al Doktor Faustus di Thomas Mann, passando ovviamente per il capolavoro di Goethe. […]
In Italia Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura di Francesco Orlando (1993) costituisce
4 E. Di Rocco, Temi, motivi, topoi, in F. De Cristofaro, Letterature comparate, Roma, Carocci (2014), 2020, pp. 109- 110.
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un esempio paradigmatico di critica tematica. Per quanto riguarda i miti, potremmo ricordare
5 Ivi, p. 113.
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«Benché nella seconda metà del Novecento l’approccio tematico sia stato al centro degli
interessi degli studiosi di letteratura e non solo (basti ricordare qui l’opera di Aby Warburg e Erwin
Panofsky), non si può però certo dire che la critica tematica sia emersa soltanto in epoca
moderna. La letteratura, infatti, riflette sul significato del tema fin dall’antichità, tanto da poter
tracciare un percorso che attraversa tutta la tradizione letteraria occidentale».6 Nella premessa al
Dizionario dei temi letterari, i curatori affermano come «tema e motivo siano termini
interscambiabili, nel senso che ogni motivo può diventare tema, e ogni tema motivo, a seconda
dell’estensione e della capacità di strutturazione tematica che tema o motivo assumono nelle
singole opere o nel macrotesto della tradizione letteraria» (Ceserani, Domenichelli, Fasano, 2007, p.
vii). Domenichelli, uno dei curatori del Dizionario, sostiene che «la differenza tra motivo e tema non
ha dunque gran ragione d’essere nell’analisi di un tema nella tradizione [...], ma, di contro, può
avere ragion d’essere nell’analisi di un’opera come nozione differenziale, d’ordine sia quantitativo
che funzionale» (Domenichelli, 2008a, p. 41).7 «La discussione moderna sull’argomento deve molto
all’analisi teorica di Tomaševskij (Tematika, 1925) per il quale il tema di un testo è formato di tanti
temi minori, più o meno unitari, che a loro volta presentano altri elementi tematici, di dimensioni
inferiori, i motivi. Questi sono combinati e disposti secondo un ordine particolare che può seguire
un criterio causale- temporale (dando vita alle storie), oppure possono essere simultanei, come
avviene nelle lettere o nelle liriche. Gli elementi tematici sono presentati nella storia (l’azione di per
sé), mentre l’ordine causale-temporale emerge nella trama (che descrive il modo in cui il lettore
coinvolge gli studiosi del folklore, i quali ritengono che il tema di un testo emerga soltanto a
un’analisi della trama e che esso varii in dipendenza delle variazioni di alcuni intrecci costanti». […]
«Per quanto riguarda il viaggio, non c’è dubbio che l’Odissea costituisca il modello classico
6 Ivi, p. 114.
7 Ivi, p. 116.
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Ulisse, come ha dimostrato Boitani (1992): dall’antichità alla modernità, dal nostos al viaggio di
«La definizione dei motivi è una delle aree di maggiore incertezza nel campo della critica.
[…] Dai formalisti ai flokloristi russi le definizioni sono state molteplici e differenziate, con diverse
convergenza con l’ambito della musica, riportando alcune osservazioni di una voce importante
come quella di Ernst Robert Curtius a proposito dell’Ulisse di Joyce, che mi pare particolarmente
utile in termini di indicazioni di metodo quando si affronta un testo letterario. Prima, ricordo
brevemente due momenti rilevanti: «Il primo a parlare del motivo con riferimento alla letteratura è
stato Goethe, il quale nel corso delle sue conversazioni con Eckermann afferma: «la vera forza, la
vera efficacia di una poesia [risiedono] nella situazione, nei motivi» […]9. Sulla scia di Goethe, pur
attribuendo maggior importanza alla crescita organica della mente del poeta che non agli
strumenti e ai materiali della sua arte, Wilhelm Dilthey sostiene che il motivo può essere pienamente
compreso soltanto quando esaminato in relazione ad altri motivi e che il numero dei motivi è
limitato (Dilthey, [Gesammelte Schriften. Die Geistige Welt] 1924, p. 216), prospettando così di fatto
la possibilità di una loro classificazione». […] Il termine “motivo” compare per la prima volta
nell’Encyclopédie di Diderot nel 1765, dove la voce Motif si concentra sull’opera del Settecento,
riconoscendo nel motivo «l’idea principale dell’aria, quella che costituisce il carattere del canto e
della sua declamazione» («la principale pensée d’un air, celle qui constitue le caractere de son
chant & de sa déclamation»), e «quello distintivo del genio musicale» («ce qui constitue le plus
«Dalla musica la tecnica si diffonde anche nelle altre arti dove il motivo viene considerato
l’idea unificante dell’opera: basta menzionare esempi come Thomas Mann, James Joyce e
Thomas S. Eliot per capire quanto il Leitmotiv abbia influenzato la letteratura moderna.
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Agli inizi del Novecento, qualche anno dopo la pubblicazione di Ulysses (1922), in un saggio
fondamentale sul capolavoro di James Joyce Ernst R. Curtius sottolinea l’importanza della tecnica
una serie di variazioni. È questa una delle tecniche che Joyce ha ripreso dalle composizioni
musicale, ha questo di particolare: che il tema, incomprensibile quando appare la prima volta,
«Dopo aver rilevato l’analogia tra la letteratura e la musica, Curtius richiama nello specifico
la tecnica del Leitmotiv e, sulla base di alcuni esempi tratti da Ulysses, scrive:
Il procedimento che usa Joyce dovrebbe essere diventato più chiaro: il testo
apparentemente senza significato [...] è una composizione calcolata fin nei minimi particolari che
naturalmente si riesce a capire solo se si è letto tutto il capitolo, e molto attentamente. Questa
tecnica letteraria è una trasposizione esatta della tecnica musicale basata su motivi: più
esattamente della tecnica wagneriana del Leitmotiv. Con la sola differenza che un motivo
musicale è concluso in sé stesso e appaga esteticamente; cioè si può ascoltare con piacere un
Leitmotiv wagneriano anche se non si conosce il significato dei rapporti [...]. Il motivo della parola,
invece, rimane un frammento senza senso, e assume il suo significato soltanto nella connessione
«Occuparsi di critica tematica vuol dire anche interessarsi ai topoi letterari, a quei luoghi
comuni, eredità in parte della retorica antica dove, come insegnano in particolare in Cicerone e
reperimento degli argomenti del discorso che, presenti nella mente dell’oratore, vengono
richiamati attraverso la memoria. […] A questo riguardo, qualsiasi discussione del topos letterario
11E.R. Curtius (1929), James Joyce e il suo Ulysses, in Id., Letteratura della letteratura, a cura di L. Ritter Santini, il Mulino,
Bologna 1984, p. 109.
12E.R. Curtius (1929), James Joyce e il suo Ulysses, in Id., Letteratura della letteratura, a cura di L. Ritter Santini, il Mulino,
Bologna 1984, p. 116. Cit. in Di Rocco, p. 120.
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non può non partire dallo studio monumentale di Curtius, il quale in Letteratura europea e Medio
Evo latino pone il topos al centro della tradizione letteraria europea in quanto assicura la continuità
e la memoria dall’antichità alla modernità. Basterebbe scorrere l’indice del volume di Curtius per
trovare un elenco pressoché esaustivo dei topoi letterari più diffusi che la letteratura moderna ha
ereditato dal Medioevo latino. A questi infiniti altri se ne possono aggiungere, non necessariamente
provenienti dalla tradizione latina: pensiamo ad esempio al topos dell’amor cortese, oppure a
quelli che si cristallizzano intorno al genere eroicomico come rielaborazioni di precedenti classici.
[…] Se nell’antichità il viaggio nel mondo della morte si configura anche come percorso iniziatico
che può essere individuale (Ulisse) oppure presentarsi come investitura di una missione futura di cui
l’eroe è all’oscuro (Enea), in Leopardi la discesa all’Ade culmina con il riso sprezzante delle anime
verso le illusioni umane. Nelle sue versioni moderne il topos della discesa all’Ade diventa ricerca del
tempo perduto con Proust, oppure viaggio al termine della notte in Céline, mentre in Underworld di
DeLillo un’enorme discarica rappresenta la versione moderna dell’Ade. La discesa agli Inferi non è
che uno dei topoi che, insieme all’invocazione alla musa, al concilio degli dèi, al catalogo dei
guerrieri, ai sogni profetici, all’ekphrasis delle armi e ai giochi funebri, contribuiscono a definire il
«Altro diffusissimo luogo comune è quello del locus amoenus che deriva dal motivo del
giardino. Quest’ultimo affonda le radici nell’Eden della Bibbia»;13 o ancora, quello dell’isola, nelle
sue innumerevoli varianti: «come paradiso perduto, luogo di perdizione, della meraviglia e del
Oltre a essere legato a un tema vasto e particolarmente fertile come quello del viaggio,
intorno a questo topos si coagulano motivi letterari fondamentali quali ad esempio la nostalgia,
l’esilio e la scoperta. Le immagini archetipiche dell’isola possono essere rinvenute nell’Odissea, sia
nella sezione dedicata agli apologhi di Ulisse (libri ix-xii), sia nel resto del poema. Nel lungo
racconto ad Alcinoo l’eroe omerico narra di isole incantate e misteriose, dall’isola di Polifemo, a
quella galleggiante di Eolo, a quelle incantate di Circe e Calipso oppure delle Sirene. Nel resto del
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poema Omero presenta al lettore Scheria, terra a metà tra il sogno e la realtà, tra il mondo degli
dèi e quello degli uomini, una sorta di paradiso terrestre ante litteram, e Itaca approdo finale di
Ulisse. Queste sono le immagini alla base di alcune tra le più famose storie narrate nel romanzo
moderno: da Robinson Crusoe di Defoe a Gulliver’s Travels di Swift, a The Lord of the Flies di Golding
per arrivare nella letteratura contemporanea alle mirabili storie A jangada de pedra (Zattera di
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Per introdurre questa declinazione specifica della letteratura comparata, ovvero della
relazione della letteratura con le altre arti, mi rifarò al capitolo del manuale, sopra menzionato,
dedicato al tema. Troverete qui di seguito dei brani estratti dalla chiara e ricca rassegna proposta
«La letteratura si pone da sempre in dialogo anche con le altre arti. La pittura, la musica, il
teatro, il cinema, l’architettura, la fotografia tessono con la letteratura una rete di citazioni, riprese,
rimodulazioni, influenze e prestiti difficile da districare quanto evidente se si guarda alla storia della
letteratura e delle altre arti con sguardo sincronico. La letteratura comparata, che si fonda sullo
studio delle relazioni tra testi di lingue, culture ed epoche diverse, non può non occuparsi dunque,
per proprio statuto, anche dei rapporti che la letteratura intesse con altre «sfere dell’espressione
umana» […] dotate di specifici linguaggi, codici e modi di rappresentazione 15. Questo assioma è
pienamente condiviso, in linea teorica, da tutti coloro che si occupano di comparatistica e prima
di tutto da quegli studiosi che, da Warren e Wellek in poi, hanno cercato di delimitare il campo e
codificare le regole del gioco di una disciplina dal naturale «statuto fluttuante» (Fusillo, Polacco,
2005, p. 9)16
Alla relazione tra le arti, poste tutte rigorosamente sullo stesso piano nel tentativo di sfatare il
plurisecolare pregiudizio letterariocentrico, si guarda negli ultimi decenni alla luce dei due concetti
chiave di ibridazione (tra i linguaggi e tra le forme) e di contaminazione (il termine, di origine
romantica, non può non accogliere oggi anche un significato politico). L’opportunità di porre la
15L’espressione «sfere dell’espressione umana» è tratta da un importante testo teorico di letteratura comparata: C. Guillén
(1985), Entre lo uno y lo diverso. Introducción a la literatura comparada, Editorial Crítica, Barcelona (trad. it. L’uno e il
molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, il Mulino, Bologna 1992, p. 151.
16 E. Abignente, La letteratura e le altre arti, in Letterature comparate, a cura di F. De Cristofaro, cit., p. 167. L’autrice si
riferisce al volume curato da M. Fusillo e M. Polacco, (2005), La letteratura e le altre arti. Atti del convegno annuale
dell’Associazione di teoria e studi di letteratura comparata, numero monografico di “Contemporanea”, n. 3.
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letteratura all’interno di un processo più ampio e complesso di trasformazione delle modalità e dei
mezzi di espressione artistica, unita alla preoccupazione di liberare il campo da quelle gerarchie
tra “arti egemoni” e “arti ancelle” che hanno viziato per secoli gli studi inter artes, si traducono
nella necessità di adottare una «visione impura, da contrapporre al feticismo del testo che
dominava, invece, nel periodo strutturalista» (Fusillo, Polacco, 2005, p. 10): l’unica visione oggi in
grado di affrontare con profondità e ampiezza di sguardo la questione del rapporto tra la
«Tale approccio è certamente debitore alla prospettiva dei visual studies, inaugurata negli
anni Ottanta da William J. T. Mitchell in Iconology: Image, Text, Ideology (1986), che pone lo studio
dei rapporti tra letteratura e arti visive, e più esattamente tra testo e immagine, nello specchio di
una realtà culturale profondamente mutata nei suoi paradigmi interpretativi dopo essere stata
attraversata da un autentico «visual turn». Il rapporto, teso e contrastato, tra parole e immagini –
intese come insieme di pictures e images (Mitchell, 2005)17 – che si registra nella società
Testuale e visuale sono infatti due categorie ormai insufficienti per interpretare fenomeni
complessi come l’ekphrasis e più in generale i rapporti tra letteratura e arti visive: non si può parlare
di letteratura e arti visive oggi senza considerare la funzione dello sguardo (inteso come punto di
vista, connotazioni di gender e di potere) e del dispositivo (ovvero il tipo di media utilizzato) (cfr.
Cometa, 2012)». 18
«Tornando invece, dopo questa breve digressione, al campo specifico delle relazioni tra
letteratura e arti figurative, non possono essere tralasciati quei casi in cui testo e immagine
concorrono alla composizione di un’opera dando vita a vere e proprie forme miste. Se nel caso
17Nota mia: Abignente si riferisce qui a un testo classico dei visual studies, W. J. T. Mitchell (1986), Iconology: Image, Text,
Ideology, University of Chicago Press, Chicago (il)-London
E. Abignente, La letteratura e le altre arti, in Letterature comparate, a cura di F. De Cristofaro, cit., p. 171. Nota mia:
18
Abignente cita il libro di Michele Cometa, id. (2012), La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Raffaello
Cortina Editore, Milano.
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delle illustrazioni di romanzi, pratica piuttosto diffusa nell’editoria ottocentesca (si pensi alle
consumo per attrarre un vasto pubblico, le immagini svolgevano una funzione, se non di servizio,
senz’altro di corredo alla parola scritta, vi sono forme miste in cui testo e immagine risultano
inscindibili e l’eliminazione di uno dei due produrrebbe un deficit di comprensione: è il caso degli
iconotesti (emblemi, fumetti), in cui testo e immagine condividono lo stesso supporto, e degli
iconismi (poesia visiva, poesia concreta), dove intrattengono un rapporto di tipo simbiotico (cfr.
Contaminazioni complesse tra testo e immagine che danno vita a forme miste più o meno
compiute si verificano anche nel caso, interessantissimo anche perché denso di risvolti di tipo
Warburg, dalla Chambre claire di Barthes ad Austerlitz di Sebald, l’accostamento tra parola scritta
(di tipo narrativo o saggistico) e immagini fotografiche, che non fungono da semplici illustrazioni
Letteratura e cinema
«La profonda relazione che la letteratura intesse con la musica e con le arti dello spettacolo
si pone sotto il segno della transcodificazione, dell’adattamento, della riscrittura. L’opera musicale,
la danza, il teatro, il cinema traghettano e veicolano nel loro specifico codice espressivo materiale
attinto, molto spesso, da quell’enorme serbatoio di temi, trame e personaggi che è la letteratura,
intesa come insieme di poesia e prosa, letteratura colta, folklorica e popolare, e mitologia. Questa
migrazione avviene prima di tutto sul piano contenutistico e consiste nella riscrittura di un mito o
anche il percorso inverso: quello che avviene cioè nel caso in cui alcune tecniche artistiche
migrano in letteratura. Basti pensare alla tecnica wagneriana del Leitmotiv che Thomas Mann
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importa nella scrittura romanzesca o all’estetica del montaggio e del frammento che la scrittura
«È però soprattutto con il cinema che la letteratura ha intrattenuto, nell’ultimo secolo, il
rapporto più intimo e significativo. Se per la sua capacità di fondere in un’unica grande macchina
rappresentativa molteplici linguaggi e codici espressivi il cinema è stato considerato come l’erede
novecentesco del melodramma, o meglio ancora dell’opera d’arte totale wagneriana, il punto di
contatto più forte con il discorso letterario è sicuramente dato dalla constatazione che il cinema,
diversamente dalle altre arti, condivide con la letteratura, e nello specifico con il romanzo, il
procedimento stesso della narrazione. Arte del tempo e dello spazio, il cinema si occupa, come la
Al di là degli specifici strumenti espressivi messi in campo dalle due arti – la visualità offre
certo al cinema potenzialità moltiplicate rispetto alla descrizione su carta –, cinema e narrativa
compiono una serie di operazioni comuni inerenti all’ingranaggio della narrazione: dalla scelta del
soggetto alla posizione del narratore rispetto alla storia narrata, dal ruolo affidato ai personaggi
alle tecniche adoperate per tenere viva l’attenzione del lettore/ spettatore. Nel narrare una storia,
i due linguaggi ricorrono a strategie comuni tanto nell’organizzazione delle sequenze narrative – si
pensi al ricorso alla figura del flashback che capovolge nell’intreccio l’ordinato susseguirsi di eventi
della fabula – quanto nei meccanismi messi in campo per dosare la tensione del plot creando
effetti di sorpresa e di suspense – come avviene con il ricorso alla tecnica del cliffhanger.
Il territorio di confine tra narrativa e cinema è un campo di studi di cui non possono non
rispetto ai meccanismi stessi della narrazione dei quali si serve, talvolta, anche in senso autoriflessivo
e metadiegetico.
riscrivere – trame che peraltro, se efficaci, vengono riproposte potenzialmente all’infinito secondo
19 Ivi, p. 176.
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la consolidata pratica del remake. Il percorso in senso inverso, però, è altrettanto significativo. Per
un procedimento di rifrazione o effetto rebound per citare Genette (1983, p. 49; cfr. anche Costa,
2000; Ivaldi, 2011)20, la narrativa si appropria, più o meno coscientemente, di alcuni procedimenti
tipici del linguaggio cinematografico per riproporli sulla pagina scritta. Si pensi, in primo luogo, alla
tecnica del montaggio, che nella teoria di Ejzenštejn assume i tratti di una vera e propria estetica e
che la letteratura incamera e rielabora dando vita a opere narrative che procedono per tagli,
cuciture e accostamenti inattesi e che finiscono per proporre una nuova idea di temporalità. Una
simile appropriazione può avvenire, talvolta, anche in maniera inconscia o involontaria: l’esempio
classico è quello di Proust, che non amava il cinema ma nella cui opera è stato da subito
riconosciuto dai primi lettori e critici della Recherche un meccanismo di «montaggio a posteriori
dell’esperienza vissuta» (Masecchia, 2009, p. 9; cfr. anche Albano, 1997, p. 69)21. Un altro caso
interessante è quello delle continue allusioni e citazioni nel romanzo postmoderno a tecniche di
inquadratura cinematografica a cui, fingendo di porsi dietro alla macchina da presa (cfr. Genette,
1983, p. 49), lo scrittore ricorre per assumere, nella narrazione, punti di vista e prospettive insolite: è
quanto avviene in alcuni passaggi dei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie (cfr. Saba, 2008).
Se tracciare una grammatica delle reciproche influenze tra letteratura e cinema sarebbe
oggi poco produttivo e se appare in modo sempre più evidente come sarebbe riduttivo leggere il
loro rapporto soltanto alla luce di un’idea di imitazione (cfr. Maggitti, [Lo schermo tra le righe.
Cinema e letteratura nel Novecento] 2007; Fusillo [Estetica della letteratura], 2009), una delle altre
sfide in gioco negli ultimi anni è anche quella di svuotare definitivamente di senso il criterio della
fedeltà all’originale che ha dominato per lunghi anni il dibattito attorno alla diffusissima pratica
20Nota mia: Qui Abignente cita un classico della teoria della letteratura: G. Genette (1982), Palimpsestes. La littérature au
second degré, Seuil, Paris (trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997); seguono poi i riferimenti
a degli studi dedicati alla relazione tra cinema e letteratura: A. Costa (1993), Immagine di un’immagine. Cinema e
letteratura, Utet, Torino; F. Ivaldi (2011), Effetto rebound. Quando la letteratura imita il cinema, Felici, Ghezzano (PI).
21Nota mia: I riferimenti sono a due testi dedicati alle relazioni tra cinema e letteratura: A. Masecchia (2009), Al cinema con
Proust, Marsilio, Venezia; L. Albano (a cura di) (1997), Il racconto tra letteratura e cinema, Bulzoni, Roma.
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Emanuela Piga Bruni - Critica tematica e intermedialità
adattamenti, che ha ricevuto nuovo impulso dagli studi di Linda Hutcheon (2006) e a cui è stato di
recente dedicato un numero monografico della rivista “Between” (Fusillo, Hutcheon, Guglielmi,
2012)22, parte dal presupposto che ogni opera, anche laddove si ponga come trasposizione di
un’altra, vada considerata come nuova opera dotata della propria originalità e indipendenza dal
interpretazione e risente dello «sforzo ermeneutico congiunto» di autore e spettatore nel «riattivare
letture pregresse» (cfr. Masecchia, 2009, p. 16), sarebbe del tutto inadeguato continuare a porre il
problema nei termini di un rapporto tra originale e copia, archetipo e imitazione. Un esempio
particolarmente emblematico in tal senso è quello dei film che Luchino Visconti trasse da opere
narrative: Il Gattopardo, Morte a Venezia, Senso non sono certo semplici trasposizioni ma vere e
proprie interpretazioni che portano chiara la firma del regista e che finiscono per illuminare tra
l’altro di ulteriori significati e risvolti simbolici i già densissimi testi di partenza, innescando un
meccanismo fecondo di reciproci scambi e ibridazioni tra opere di primo e di secondo grado.
L’oscillazione tra i termini di adattamento, che conserva il sapore di una certa superiorità
dell’originale sul testo di secondo grado, e transcodificazione, che pone l’attenzione sul passaggio
di codice e sulla traduzione tra linguaggi […] potrebbe risolversi in questo senso con l’adozione del
termine di “ri-creazione”, che già Ejzenštejn utilizzava […] e che tiene conto probabilmente meglio
degli altri di quel doppio sforzo, ermeneutico e creativo, con il quale fa necessariamente i conti chi
si appresta a rappresentare con stile, strumenti e forme nuove un’opera già scritta da altri». 23
22 M. Fusillo, L. Hutcheon, M. Guglielmi (a cura di) (2012), L’adattamento: le trasformazioni delle storie nei passaggi di codice,
numero monografico di “Between”, vol. 2, n. 4; il numero è disponibile qui, ed è open access:
https://ojs.unica.it/index.php/between/issue/view/20.
23 Ivi, pp. 180-182.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - Critica tematica e intermedialità
Bibliografia
Albano, Luisa (a cura di) (1997), Il racconto tra letteratura e cinema, Bulzoni,
Roma.
(2020).
Torino.
(2014) 2020.
1997).
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Emanuela Piga Bruni - Critica tematica e intermedialità
access: https://ojs.unica.it/index.php/between/issue/view/20.
Mondadori, 2002.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
Indice
1. VISIONE E FORMA.................................................................................................................................... 3
2. ERICH AUERBACH: MIMESIS .................................................................................................................... 4
3. IL MEZZO E IL FINALE ATTRAVERSO I GENERI ......................................................................................... 8
4. L’INFINITO INTRATTENIMENTO ............................................................................................................... 10
5. IL SENSO DELLA FINE, TRA EPICA E ROMANZO ................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
1. Visione e forma
In questa lezione ci soffermeremo sul piacere del testo, e cercheremo in evidenziare quei
meccanismi formali alla base dell’esperienza estetica, e che differenziano il testo artistico, che sia
letterario o audiovisivo. Uno strumento utile è dato dalla categoria di genere letterario, una sorta di
definizione che fornisce al lettore/spettatore un’idea di cosa aspettarsi da un testo. Nel romanzo, e
in generale, nei testi contemporanei, è più raro trovare delle distinzioni rigide in merito al genere,
scoprire negli intrecci letterari i nodi le figure, i rilievi inediti che segnalano l’operare simultaneo
d’una esperienza vissuta e di una messa in opera».2 Come afferma Jean Rousset, l’arte risiede nella
solidarietà d’un universo mentale e d’una costruzione sensibile, d’una visione e d’una forma.3
del pubblico, incluso il sentimento di empatia verso i personaggi, andremo alla ricerca dei diversi
dispositivi che possono spiegare una tale affezione. In questo ambito interdisciplinare e
intermediale, tra parola scritta e immagine in movimento, la mappa di orientamento è data dalla
1 Cfr. R. Wellen - A. Warren, Teoria della letteratura (1942), Bologna, Il Mulino, 1956; G. Genette, Figure III. Discorso del
racconto (1972), Torino, Einaudi 2006; N. Frye (1957), Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi, 2000; J.M.
Schaeffer, Che cos’è un genere letterario (1989), Parma, Pratiche, 1992; P. Bagni, Genere, Firenze, La Nuova Italia, 1997; P.
Zanotti, Il modo romanzesco, Roma-Bari, Laterza, 1998; F. Amigoni, Il modo mimetico-realistico, Roma-Bari, Laterza, 2011; S.
Zatti, Il modo epico, cit.
2 J. Rousset, Forma e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel (1962), Torino, Einaudi, 1976, p. 3.
3 Ibidem.
4 Ivi, p.13.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
In questo corso affronterò i vari argomenti procedendo sulla scorta della lezione di un
classico della teoria della letteratura, Mimesis di Erich Auerbach.5 In questo libro Auerbach
attraversa la storia della letteratura occidentale, partendo dai testi fondatori – come la Bibbia e
l’Odissea – e arrivando fino a due testi capitali del modernismo, La ricerca del tempo perduto di
Marcel Proust e Al Faro di Virginia Woolf. Il metodo utilizzato è quello dei campioni, ovvero lavorare
sui testi partendo dalla selezione di campioni testuali significativi, dai quali è possibile fare un
della separazione degli stili per una rappresentazione realista della realtà, e nel primo capitolo, La
cicatrice di Ulisse, si sofferma sulla grammatica delle digressioni che regola l’alternarsi dei piani
narrati in due testi fondatori della cultura occidentale, l’Odissea e la Bibbia. Nel capitolo, dedicato
al commento del canto XIX dell’Odissea, Auerbach analizza la grammatica delle digressioni che
caratterizza il testo omerico. Nel riferirsi all’episodio della lavatura del piede, in cui Euriclea
riconosce Ulisse dalla cicatrice alla coscia, Auerbach illumina la modalità con cui è inserita nel
testo la lunghissima digressione che risale alla giovinezza di Ulisse e narra come questi, si procurò la
ferita nel corso di una caccia al cinghiale presso suo nonno Autolico.
Auerbach sottolinea come tutto questo sia «raccontato con precisione e con lentezza», i
sentimenti siano manifestati con un «discorso minuzioso, fluido, diretto», e «tempo e spazio
abbondanti» siano concessi anche a una «descrizione ordinata delle suppellettili, all’assistenza
all’ospite, ai gesti».6 Solo al concludersi della lunga digressione Euriclea riconosce Ulisse, facendo
cadere bruscamente, per la sorpresa e l’emozione, il piede nel catino. Qui Auerbach afferma che
realtà produce l’effetto contrario, ovvero, distensione. L’ampia e ricca descrizione della caccia,
5 Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur (1953), trad. it. Mimesis. Il realismo nella
letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 2000.
6 Ivi, p. 3.
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«con tutti i suoi piaceri e la ricchezza delle sue immagini idilliache», conquista l’ascoltatore per tutto
il tempo del racconto fino a fargli per dimenticare quello che accadeva prima, al momento della
Intento proprio d’una digressione, che esalti la tensione ritardandola» –– «è non riempire del
tutto il momento presente, non fare dimenticare la crisi, di cui con ansia si aspetta lo scioglimento,
distruggendo così anche lo stato di “tensione”. Crisi e tensione debbono conservarsi, debbono
rimaner presenti nello sfondo. Ma Omero, e su di ciò torneremo, non conosce sfondo. Quello che
egli racconta è sempre e soltanto presente, e riempie completamente la scena e l’anima dello
spettatore.7
Per mostrare come «questo trascorrere delle cose» avvenga «in primo piano», e come «le
molte digressioni, e questo continuo andare innanzi e ritornare», non creino mai una specie di
prospettiva spaziale e temporale, Auerbach si sofferma sulla forma sintattica con cui Omero
parentesi sintattica della proposizione relativa, in cui «si insinua insospettata una proposizione
principale «che si svincola adagio adagio dalla subordinazione» fino a tornare al punto
Auerbach confronta il testo omerico con la Bibbia, scegliendo il racconto del sacrificio di
Isacco come brano da cui partire per illuminare la diversità delle forme testuali. Al «presente
ugualmente oggettivato e illuminato» di Omero segue un mondo in cui il non detto, la lacuna,
l’ellissi si riempiono di un significato nuovo e profondo. Non ci viene detto nulla del luogo da dove
parla Dio, e nemmeno delle ragioni che motivano la sua terribile richiesta ad Abramo. «Inopinato
ed enigmatico egli arriva sulla scena da altezze o profondità sconosciute, e grida: - Abramo!».9
Come un’apparizione senza figura, Dio parla da un luogo sconosciuto, così come Abramo, che
non è descritto nella sua concreta presenza, ma del quale ci viene suggerita la sua disposizione
all’obbedienza. Il lettore deve collegare in un quadro più ampio «le brevi parole, staccate, non
7 Ivi, pp. 4-5. È curioso come Auerbach parli qui di “spettatore”, quasi a voler sottolineare il carattere visivo dell’esperienza.
8 Ivi, p. 8.
9 Ivi, p. 9.
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preparate in alcun modo e duramente urtanti fra di loro»; «il resto rimane nel buio» e sta a chi
legge colmare ciò che non è detto ma alluso, rimandato all’atto ermeneutico. Auerbach spiega
l’essenzialità del collegamento sintattico, la totale assenza di aggettivi e descrizioni dei luoghi
attraversati nel corso del viaggio compiuto da Abramo per recarsi al luogo indicato da Dio per il
sacrificio; i dialoghi sono frammentari, lasciano inespresse le emozioni dei personaggi e sono
funzionali allo sviluppo dell’azione. La distensione che caratterizza il gioco alternato tra i diversi
piani del racconto in Omero lascia lo spazio a una tensione oppressiva, irradiata da un vuoto in cui
Auerbach evidenzia come nei racconti biblici, gli uomini abbiano «maggior profondità di
tempo, di destino e di coscienza» e pensieri e sensazioni siano molto più complessi e intricati. Una
differenza cruciale rispetto al testo omerico risiede nelle motivazioni dell’agire: le azioni di Abramo
non si spiegano soltanto con il suo carattere e con quello che gli accade nel momento, ma sono
profondamente determinate dalla storia precedente, 10 che gli conferisce quella specifica
impronta individuale che muta nel tempo. Se in Omero la molteplicità della vita psichica appare
nel succedersi e nell’alternarsi delle passioni, gli scrittori ebraici esprimono la compresenza e il
conflitto dei diversi strati della coscienza. Per queste ragioni, Auerbach individua una componente
tragica nell’epicità del testo biblico, in quella «tensione che ci schiaccia», in quel trattenere il
respiro in un tempo vuoto, inserito tra un passato carico di storia e un futuro gravido di
conseguenze. In questa sospensione, i fatti psichici, fatti abissali, pervadono uno sfondo spaziale
Tirando le fila dell’analisi comparativa di Auerbach tra le caratteristiche stilistiche dei due
testi fondatori, secondo lo studioso lo stile che caratterizza il racconto omerico è dettagliato,
caratterizzato dalla mancanza di sfondo. Il modello del periodare epico è accompagnato dalla
mancanza di tensione. Al contrario, nella Bibbia domina l’ellissi, la reticenza. Le lacune e il non
detto vanno a intensificare la presenza del contrasto. Il patto tra Abramo e Dio spiega
10 Ivi, p. 14.
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l’obbedienza di Adamo, non sono fornite altre spiegazioni. Tuttavia, anche se i mezzi stilistici sono
meno ricchi e più schematici, la narrazione è drammaticamente umana. Il testo biblico richiede
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Ragionare sulle forme di un’opera conduce a riflettere sulla relazione che l’autore stabilisce
tra il finale e il corpo del testo. Con riferimento alla tragedia, e in generale al racconto, Aristotele
afferma:
È intero ciò che ha un principio, un mezzo e una fine. È principio ciò che non è di necessità
dopo altro, mentre dopo di esso qualcosa d’altro per sua natura esiste o viene a essere; al
contrario, è fine ciò che per sua natura necessariamente o per lo più esiste dopo altro e dopo di
esso non c’è niente altro; mezzo è ciò che è dopo altro e dopo di sé ha altro. Bisogna dunque che
i racconti composti bene né comincino da dove a caso capita, né finiscano dove a caso capita,
Nelle sue riflessioni su epos e romanzo, Michail Bachtin osserva come quest’ultimo richieda
una compiutezza esterna e formale, soprattutto a livello di intreccio. Mentre l’epopea può essere
incompleta, «poiché la struttura del tutto si ripete in ogni parte» e «il racconto può cominciare e
finire in qualsiasi momento senza che la compiutezza ne risenta», nel romanzo «son caratteristici lo
Desiderio e resistenza, dilazione del testo e attesa del lettore sono poli di una dialettica che
strutturava già un precedente illustre come l’Orlando Furioso. Nel sottolineare l’importanza del
tema dell’“errore” nel poema, Sergio Zatti rileva come questo si manifesti «tanto nello spazio (come
devianza, ovvero diversione, digressione)» con la figura di Orlando, «quanto nel tempo (come
differimento, ovvero sospensione, incertezza)» con la figura di Ruggiero. 13 Zatti mostra come «una
letterale applicazione della tecnica di suspense» caratterizzi il canto X: quando Ruggiero salva
Angelica dall’orca marina e si appresta a fare valere i suoi diritti di salvatore, «la frustrazione del suo
desiderio si rispecchia nell’attesa del lettore, entrambi differiti, sospesi» 14. Osserva come Ariosto
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maliziosamente motivata con l’eccessiva durata del canto, replica sul versante
mittente/destinatario le frustrazioni che infligge al personaggio nel suo rapporto con l’oggetto di
desiderio»15. Ricorda anche come Daniel Javitch abbia individuato due tipi di interruzione del
racconto del Furioso: «una, in cui la narrazione è sospesa alla fine del canto e ripresa, secondo
norma, nel canto successivo; l’altra, che cade in un punto qualsiasi del canto senza
suspense e «frustra il desiderio di continuità del lettore, sottomettendolo alla medesima esperienza
l’interpretazione della sua forma nell’economia dell’opera 17. Nel corso delle dispute
cinquecentesche emerge la tensione tra «la tendenza digressiva del modo romanzesco e la
volontà di chiusura testuale del modo epico» 18. In questo contesto, la chiusura del poema
ariostesco prende la forma di un ritorno all’epica, necessario «per stabilire un limite all’errare
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 36. Qui S. Zatti si riferisce al saggio di D. Javitch, Cantus interruptus in the Orlando Furioso, in «Modern Language
Notes», 9, 1 (1980), pp. 66-80.
17 Tra i vari studi, cfr. F. Kermode, Il senso della fine (1966), Milano, Rizzoli, 1972; B.H. Smith, Poetic Closure: A Study on How
Poems Ends, University of Chicago Press, 1968; D.H. Richter, Fable's End: Completeness and Closure in Rethorical Fiction,
University of Chicago Press, 1974; J.H. Miller, The problematic of ending in narrative, in «Nineteenth-Century Fiction», 33/1,
1978; D.A. Miller, Narrative and Its Discontents: Problems of Closure in the Traditional Novel, Princeton University Press, 1981;
D.H. Roberts - F.M. Dunn - D. Fowler, (a cura di), Classical Closure. Reading the End in Greek and Latin Literature, Princeton,
1997; B. Traversetti, Explicit. L’immaginario romanzesco e le forme del finale, Cosenza, Pellegrini, 2004; N. Carroll, Narrative
Closure in Cinema, Routledge Companion to the Philosophy of Film, London, New York, Routledge, 2008; M. Torgovnick,
Closure in the Novel, Princeton University Press, 1981.
18 S. Zatti, Il modo epico, Bari, Laterza, 200, p. 104 e sgg.
19 Ivi, p. 105.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
4. L’infinito intrattenimento
Lʼidea stessa di avventura è legata a quel che deve accadere (ad-venire): in questo senso
unʼavventura è unʼazione in cui inizi sono scelti dai finali e in funzioni dei medesimi. La possibilità
dell’esistenza di significati insiti in una trama e in una sequenza temporale dipende dalla sua
consapevolezza anticipata che esiste un finale e che la sua forza è sufficiente a creare una
struttura adeguata: essere interminabile vorrebbe dire essere privo di significato, e la mancanza di
Brooks chiarisce come i vari incidenti della narrazione siano letti come «annunci e
promesse» della visione organica e coerente del finale, che rappresenta «la metafora cui si può
giungere attraverso una catena di metonimie: al di là della massa delle pagine centrali non
ancora lette, il finale invoca l’inizio, lo trasforma e lo arricchisce» 21. In questa direzione, Roland
Barthes afferma:
leggibile, come se lo prendesse una paura ossessiva: quella di omettere una giuntura. È la paura
della dimenticanza che genera l'apparenza di una logica delle azioni: [...] il leggibile ha orrore del
vuoto. Che cosa sarebbe il racconto di un viaggio in cui si dicesse che si resta senza essere arrivati,
che si viaggia senza essere partiti, - in cui non si dicesse mai che essendo partiti si arriva o non si
arriva? Questo racconto sarebbe uno scandalo, l'estenuazione, per emorragia, della leggibilità.22
Con il termine closure, Marianne Torgovnick designa il processo per cui un romanzo
Barbara Herr Smith e di David Richter, che nei loro studi rispettivamente sul finale nella poesia e nel
20 P. Brooks, Reading for the Plot (1984), Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino, Einaudi, 1995, p. 102.
21 Ibidem.
22 R. Barthes, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973, pp. 98-99.
23 «As I use the term, “closure” designates the process by which a novel reaches an adequate and appropriate conclusion
or, at least, what the author hopes or believes is an adequate, appropriate conclusion. My use of the term closure
corresponds to what Barbara Herrnstein Smith in Poetic Closure calls the integrity of a lyric and what David Richter in Fable’s
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
Nelle pagine sul carattere generale dell’epica, Hegel afferma che è con l’epopea che il
genere epico trova la sua conclusione realmente poetica. A differenza di quanto accade nelle
altre forme dell’epica, in cui manca la rappresentazione vera e propria della realtà umana, la
raffigurazione della realtà e il carattere di azione individuale– che «nasce da unico centro e in esso
cerca la propria unità e conchiusione» – conferiscono all’epopea «la visione di una totalità in sé
compiuta»24.
Questo mondo totale e nello stesso tempo raccolto in modo del tutto individuale deve poi
procedere nella sua realizzazione con calma, senza che esso da un punto di vista pratico o
drammatico corra in fretta verso la meta e il risultato dei fini, cosicché noi al contrario possiamo
indugiare in ciò che si svolge e immergerci nei singoli quadri del cammino e goderli in tutti i
particolari.
L’importanza della conclusione, l’atmosfera di una totalità che contenga tutte le parti
dell’opera, l’immersione lenta attraverso i singoli snodi e il divenire dei personaggi sono elementi
che concorrono a definire l’esperienza provata dal lettore. Molti aspetti dell’estetica hegeliana
sono ripresi da Lukács in Teoria del romanzo quando insiste sull’importanza del middle
nell’economia dell’opera epica. Nell’affermare la natura processuale del romanzo, Lukács esclude
la compiutezza sul piano del contenuto e sostiene che l’equilibro è raggiunto nella forma
[…] il romanzo, con la sua intrinseca natura di processo, esclude la compitezza solo sul
piano del contenuto, mentre in quanto forma rappresenta un equilibrio tra l’essere e il divenire
che, certo, è instabile, ma saldamente instabile, e in quanto idea del divenire si fa stato,
End calls the completeness of an apologue – a sense that nothing necessary has been omitted from a work». M. Torgovnick,
Closure in the Novel, Princeton University Press, 1981, p. 6.
24 G.W.F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, ed. digitale.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
condizione, e, così mutando, si nega e si eleva [aufhebt] ad essere normativo del divenire: «la via è
eterogeneo, non è necessario che esibisca coerenza strutturale. Le sue diramazioni, le trame
Scrive che la differenza strutturale tra epopea e romanzo sta nel carattere di «continuum organico-
preservato nella forma: diversamente dall’epopea, «le parti relativamente indipendenti […]
devono avere un preciso significato compositivo e architettonico». Se l’infinità della pura materia
epica è intrinsecamente organica, l’illimitatezza discreta della materia del romanzo, a causa della
sua “cattiva infinità“27, ha bisogno di limiti per diventare forma28. Al contrario, nell’epopea
la figura centrale e le sue avventure decisive formano un insieme organizzato in sé e per sé,
completamente l’uno dall’altra: a contare sono determinati momenti di grande intensità, affini ai
punti culminanti dell’intero, momenti il cui significato si esaurisce nel formarsi o nel dissolversi di forti
tensioni29.
Non distanti sono le riflessioni di Michail Bachtin, seppure in una prospettiva diversa,
metastoricista e “rovesciata di segno” rispetto alla visione hegeliana e lukacsiana 30. Nel saggio
25 G. Lukács, Teoria del romanzo (1920), trad. it. Teoria del romanzo, Milano, SE, 2004, pp. 65-66.
26 Ivi, p. 68.
27 Ivi, p. 73. Per Lukács la “cattiva infinità” insita nella forma del romanzo è superabile attraverso la forma biografica.
28 Ivi, pp. 68-73. Cfr. M. Fusillo, Fra epica e romanzo, in Il romanzo, vol. 3: Le forme, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002,
pp. 10-11.
29 Ivi, p. 74.
30 Cfr. M. Fusillo, Fra epica e romanzo, cit., pp. 5-34. Lukács inscrive la sua teoria del romanzo nel solco della formula
hegeliana dell’epica borghese, che vede nell’epica la forma originaria per eccellenza, espressione di un’epoca che non
conosceva dissonanza tra io e mondo. Specularmente, Bachtin rinviene nell’epica «il polo negativo che implica monolicità,
monologicità, staticità, chiusura nel passato assoluto, cristallizzazione nel canone; mentre il romanzo è il polo positivo che
implica plurivocità, dialogicità, dinamismo, e che diventa quasi metafora di uno spirito antigerarchico e antiautoritario, di
una linea culturale carnevalesca e dionisiaca». Ivi, pp. 6-7.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
l’epopea è indifferente all’inizio formale e può essere incompleta (cioè può ricevere una
fine quasi arbitraria). Il passato assoluto è chiuso e compiuto sia nel tutto sia in ogni sua parte.
Continua più avanti: «Si può cominciare il racconto quasi da ogni momento e si può finirlo
quasi in ogni momento. L’Iliade è un ritaglio casuale del ciclo troiano». Osserva ad esempio che in
un romanzo l’inumazione di Ettore non potrebbe in alcun modo costituire un vero finale, mentre
invece, nel caso dell’opera omerica, la compiutezza epica non ne risente. Ricorda inoltre come
l’interesse per la fine («come finirà la guerra? chi vincerà?») sia assolutamente escluso per motivi
Lo specifico “interesse del seguito” (che cosa avverrà dopo) e l’“interesse della fine” (come
andrà a finire) sono caratteristici soltanto del romanzo e sono possibili soltanto nella zona della
vicinanza e del contatto (nella zona dell’immagine di lontananza essi sono impossibili)» 32.
Il carattere assoluto del passato epico, «privo di graduali passaggi che lo leghino al
presente», esclude nel mondo epico alcuna «incompiutezza, apertura, problematicità. Non vi è
lasciata alcuna scappatoia verso il futuro; è autosufficiente e non richiede né presuppone alcuna
con il presente e coinvolto nel divenire del mondo, rafforza nell’intreccio le esigenze di una
contrapposizione tra epica e romanzo muti a seconda del momento storico34. Un caso esemplare
è quello delle dispute cinquecentesche, in cui l’epica, attraverso la rilettura di Aristotele, era vista
come un modello chiuso e unitario, mentre il romanzo era criticato per la sua disorganicità e
incompiutezza35. In una fase successiva, nell’equiparare Guerra e pace all’Iliade, Tolstoj esprime
dell’epica come “un blocco monolitico e organico, inattingibile nella sua assolutezza“.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
una concezione ancora diversa, che vede nel romanzo borghese una struttura chiusa e artificiale
in opposizione alla «maggiore aderenza al ritmo continuo della natura e della storia» nella forma
epica36. Se, con Fusillo, abbandoniamo la distinzione tra epica autentica ed epica letteraria, tra i
diversi esempi che costellano la storia della letteratura occidentale vediamo nel poema
cavalleresco, e in particolare con l’Ariosto, lo stretto e sincronico intreccio tra epica e romanzo 37.
Ancora nel quadro della riflessione hegeliana, di fronte alla difficoltà di classificare da un
punto di vista formale alcuni «testi sacri dell’Occidente moderno», Franco Moretti ha parlato di
«epica moderna», in virtù delle numerose somiglianze strutturali che legano queste opere a un
lontano passato38. In una traiettoria che va dal Faust a Cent’anni di solitudine, per Moretti
l’elemento centrale che contrassegna l’epica moderna è la «discrepanza tra la voglia totalizzante
dell’epica, e la realtà suddivisa del mondo moderno». Tra le caratteristiche che accomunano le
combinazione tra le parti. La forma incline alle digressioni e alla proliferazione di episodi periferici
che si collocano a lato dell’Azione fondamentale favorisce la sperimentazione polifonica 39. Inoltre,
Moretti sottolinea come la storicità di queste opere emerga in virtù delle loro imperfezioni e dal
carattere di capolavori mancati.40 Se David Quint vede nell’epica una forma improntata alla
linearità, che organizza gli eventi verso una conclusione definitiva senza alternative possibili, 41
Moretti sottolinea come le opere dell’epica moderna presentino invece finali deboli, indecisi, «che
non chiudono il testo e non ne fissano il senso una volta per tutte»: «l’unità di questa forma non
risiede in una conclusione definitiva, bensì nella sua perenne capacità di riaprirsi» 42.
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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo
Bibliografia
• Brooks, Peter, Reading for the Plot (1984), Trame. Intenzionalità e progetto nel
• Fusillo, Massimo, Fra epica e romanzo, in Il romanzo. Le forme, vol. III, a cura
• Moretti, Franco, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a
• Zatti, Sergio, Il Furioso fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990.
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Emanuela Piga Bruni - Il vort ice dell’intreccio
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Emanuela Piga Bruni - Il vort ice dell’intreccio
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Il vort ice dell’intreccio
I primi passi del feuilleton francese, come spazio tipografico ospitante materiali eterogenei,
risalgono all’inizio dell’800. Prima del fondo-pagina dei quotidiani, romanzi a puntate erano stati
pubblicati sulle riviste letterarie come la Revue de deux mondes e la Revue de Paris. Il primo
supplemento fu quello del Journal des Débats, composto da annunci, recensioni teatrali, bollettini
di vario genere, per accogliere progressivamente racconti di viaggi, novelle e infine romanzi
Sempre nel 1836, in Francia, Émile de Girardin, lancia il quotidiano «La Presse» e pubblica il
romanzo La Vieille Fille. L’obiettivo del fondatore del nuovo quotidiano è di guadagnare grazie al l e
inserzioni pubblicitarie, permettendo così l’abbassamento del costo dell’abbonamento. Nel creare
il terreno per il successo di giornale e romanzieri, l’evento porterà all’accentuazione delle tecniche
narrative volte a mantenere vivo l’interesse degli abbonati, essenziale per la sopravvivenza del
giornale.
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In realtà, La Vieille Fille non appare nel rez-de-chaussé del giornale, ma nelle colonne
all’interno della rubrica Variétés ospitata nelle pagine interne del quotidiano 1. Successivamente si
diffonderà sempre di più la stampa dei romanzi nel formato del feuilleton, dalle opere di Balzac a
quelle più popolari, come Les Trois Mousquetaires di Alexandre Dumas (1844), pubblicato dal
Siècle, il quotidiano fondato nel 1836 da Armand Dutacq in competizione con La Presse.
l’ultima puntata del romanzo di Charles Dickens. In diverse sue opere, la forma seriale della
distribuzione incide sul finale della puntata, che si chiude con un effetto di suspense, generando
nel lettore un sentimento di attesa della risoluzione dello snodo narrativo. La traccia di questo tipo
1 P. Pellini, Miti e termiti ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa incarnare la modernità, in H. de Balzac, La Vieille Fille (1836), trad. it.
La signorina Cormon, a cura di P. Pellini, Palermo, Sellerio, 2015.
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di distribuzione permane nella ristampa in forma di libro, in cui dal taglio del capitolo si riconosce il
taglio della puntata. Dopo il successo ottenuto dai bozzetti di Dickens Sketches by Boz, nel 1836-37,
sul Morning Chronichle, esce a puntate mensili The Pickwick Papers. Successivamente, lo scrittore
fonda e dirige la rivista «All the Year Round» (1859), che tra il 1860 e il 1861 pubblica a puntate
settimanali A Tale of Two Cities e Great Expectations, oltre a uno dei primi classici del genere
I meccanismi della serialità distributiva non riguardavano solo i romanzi popolari, ma anche
le opere dei grandi romanzieri realisti. Ci si riferisce a quei romanzi che costituiscono tutt’oggi i
capolavori del genere, come La fiera delle vanità di W. M. Thackeray (1847-1848), Madame Bovary
di Flaubert (1856), Grandi speranze di Charles Dickens (1860-61), Middlemarch di George Eliot
(1871-72), Ritratto di signora di Henry James (1880-81), tra i vari. Romanzi oggi chiamati “classici”
ma che al tempo uscivano a puntate per ragioni di distribuzione e di struttura industriale. Gli inserti
settimanali o mensili andavano infine a comporre i cofanetti che ricordano i moderni dvd box che
arredano le librerie.
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2 Suspense e sorpresa
chaussé, il romanzo a puntate inglese occupa le colonne del fascicolo allegato alla rivista. In
entrambi i casi, nelle opere più appartenenti al genere popolare, a dominare il ritmo dell’intreccio
è l’iterazione della suspense, che chiude e governa il finale di molte puntate nel cosiddetto twist, il
giro di vite, chiamato oggi cliffhanger nei moderni serial TV. Come ha mostrato Seymour Chatman,
carattere effimero, la suspense è un fenomeno più complesso, che si basa su uno stato di
dell’avvenimento. Chatman precisa come suspense e sorpresa siano termini complementari e non
concatenazione di eventi può avere inizio con una sorpresa, trasformarsi in un intreccio di suspense
e poi terminare con un capovolgimento, vale a dire eludendo le attese – un’altra sorpresa»
(Chatman 2003: 59-60). Chatman cita come esempio classico Grandi speranze e mostra come
l’intreccio del romanzo sia caratterizzato da una vera e propria associazione suspens e-sorpresa.
L’immagine seguente riposta la pubblicazione del primo episodio di Grandi speranze sulla
rivista fondata e diretta da Dickens, All the Year Round. Alla sinistra si può osservare l’incipit, alla
destra il finale dell’episodio, che si conclude co n il giovane protagonista, Pip, che si precipita
affannato verso le paludi a consegnare la lima e il pasticcio di carne al forzato evaso che l’ha
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La sorpresa iniziale è lo shock che Pip ha quando Magwi tch lo agguanta all’improvviso nel
cimitero; l’episodio conduce a un crescendo di suspense provocato dal furto del cibo e della lima
[...]. La suspense è in parte alleviata dalla consegna a Magwitch. Pip non deve più temere per la
sua pelle. Ma il lettore avverte una doppia suspense, quella della storia, cioè la paura di Pip stesso,
e quella del discorso, per cui prevede guai di cui Pip non è ancora a conoscenza. Pip prende tutto
quello che gli viene a mano [...]. Un pasticcio di maiale desta particolarment e l’attenzione: il
pasticcio è destinato al pranzo di Natale e noi temiamo per Pip una nuova ondata di avvenimenti .
Il sospetto si rivela esatto: dopo il budino [… ] sua sorella ordina improvvisamente a Joe “piatti pul i t i
– freddi”. La suspense che abbiamo provato è ora giustificata, ma per Pip l’effetto è di sorpresa
[...]. La sorpresa di Pip si muta in una suspense insopportabile: “Abbandonai la gamba del tavo l o e
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fuggii con quanta forza avevo”. Solo per essere fermato da una nuova sorpresa (nella storia): i
Sulla temporalità della suspense aveva riflettuto anche Roland Barthes, sottolineando come
in questo tipo di movimento l’accento cada sulla struttura fondamentalmente “interrogativa” della
narrazione, che si basa su una domanda (o su una serie di domande) a cui la storia, con il suo
Il “suspense” [...] si lega in modo evidente alla domanda: una domanda vitale la cui
risposta, incerta, tarda in maniera particolare. Ogni racconto, a quanto pare, comporta
occidentale, per quanto semplificate siano le sue strutture, a quattro domande principali, a
quattro tipi di “suspense”: due suspense d’essere e due suspense di fare. Secondo il primo tipo di
suspense, il racconto assolve la funzione di ritardare e di rispondere alla domanda Chi? (Chi ha
[… ] ci sono dei racconti la cui conclusione è conosciuta dal lettore fin dall’inizio e la cui
struttura è non di meno sospensiva: la domanda verte allora sul modo in cui l’esito sarà raggiunto.
dell’ineluttabilità, quanto quel tipo di racconto di cui si sa in anticipo il risultato, per poi risalire alle
L’analisi dello studioso francese si focalizza sull’elemento dilatorio all’origine del ritmo della
narrazione. Il ritardo con cui il racconto risponde alla domanda rivela la dinamica paradossale del
testo, che deve «mantenere l’enigma nel vuoto iniziale della sua risposta», in una costante tensione
tra l'inarrestabile movimento in avanti della storia e l’azione contraria esercitata dal codice
2 Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film (1978), Milano, Il Saggiatore,
2003.
3 Roland Barthes, Maschile, femminile, neutro (1970).
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ermeneutico, che dispone «nel flusso del discorso dei ritardi (zig -zag, fermate, deviazioni)» (1973:
72-73) .
Come spiega Roland Barthes in un celebre saggio, S/Z, incentrato sull’analisi del racconto
di Balzac, Sarrazine:
La dinamica del testo [...] è paradossale: è una dinamica statica: il problema è quello di
mantenere l’enigma nel vuoto iniziale della sua risposta; laddove le frasi fingono lo “svolgimento”
della storia e non possono impedirsi di portare, spostare questa storia, il codice ermeneutico
esercita un’azione contraria: deve disporre nel flusso del discorso dei ritardi (zig -zag, fermate,
deviazioni); la sua struttura è essenzialmente reattiva giacché oppone all’avanzata ineluttabile del
linguaggio un gioco scaglionato di fermate: costituisce, tra la domanda e la risposta, tutto uno
spazio dilatorio, il cui emblema potrebbe essere la “reticenza”, quella figura retorica che
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Un esempio calzante di una struttura narrativa dilatoria può essere dato dal feuilleton più
celebre dell’Ottocento francese, Les Mystères de Paris di Eugène Sue. L’arco narrativo principale
del romanzo è costituito dalla ricerca intrapresa dal Granduca Rodolphe de Gerolstein della figlia,
ceduta all’età di sei anni dalla perfida e ambiziosa madre Sarah Mac Gregor. Spinto anche dal
senso di colpa per la morte del padre, Rodolphe vaga nei meandri della città per punire i
delinquenti e soccorrere i miserabili, ai quali offre una possibilità di riabilitazione. In una delle sue
perlustrazioni negli oscuri vicoli della Cité si imbatte così, senza saperlo, nella figlia perduta,
soprannominata da alcuni la Goualeuse per la voce cristallina, da altri Fleur -de-Marie per la natura
angelica. Nello spirito e nell’aspetto la giovane è rimasta incredibilmente pura, nonostante abbia
trascorso l’infanzia mendicando nei bassifondi di Parigi e sia stata costretta alla prostituzione da
protettore dei deboli, dall’altro spietato giustiziere, con gli attributi dell’onnipotenza. Pur non
sapendo di aver incontrato sua figlia, conquistato dalla grazia e dalla sua triste sorte, Rodolphe la
prende in custodia e la porta a vivere con sé nel podere di Bouqueval. In un ambiente sereno,
circondata dalla natura e protetta dall’affetto della signora Georges, Fleur -de-Marie rifiorisce, ma
cade anche in balia di tormenti interiori dovuti ai sensi di colpa per la vita passata. Il suo tormento
è acuito dall’incontro con la coetanea Clara, cresciuta nell’innocenza e ignara del suo passato
Come in Grandi speranze, anche in quest’opera la fine del capitolo coincide di frequente
con il finale della puntata, che anticipa la continuazione della storia in una brusca chiusura.
Prendiamo come esempio le vicende che ruotano intorno al rapimento di Fleur-de-Marie. Senza
sapere di stare pianificando l’ennesima sventura di colei che è sua figlia, Sarah Mac Gregor
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recluta – insieme ad altri due delinquenti, il Maître d’école e Tortillard – la Chouette, la stessa
crudele donna che aveva cresciuto la fanciulla nello sfruttamento e nella tortura.
Se il finale del capitolo 22 della seconda parte si conclude con l’immagine dei tre villains
posizionati nel luogo dell’imboscata, lo sviluppo dell’azione, con i ritardi tipici del meccanismo
dilatorio si distribuisce in diversi capitoli della terza parte, occupando i finali dei capitoli 1 e 12 e si
chiude infine nel 14. Al termine del capitolo 12 è introdotta da queste parole:
Peu d’instants après, la Goualeuse sortait de la ferme afin de se rendre au presbytère par le
chemin creux où la veille le Maître d’école et Tortillard étaient convenus de se retrouver. (Sue 1963:
256)
[trad. it.: «Poco dopo, la Goualeuse usciva dalla fattoria; ma per recarsi alla canonica
doveva seguire quella strada incassata in cui il giorno prima la vecchia, il Maître d’école e Tortillard
Il rapimento si compie infine alla fine del capitolo 14 quando la fanciulla, nel percorrere la
strada che congiunge il podere con la canonica, viene aggredita, legata e imbavagliata
dall’ignobile trio:
Quelques minutes après, la Goualeuse était transportée dans le fiacre conduit par Barbillon,
quoiqu’il fit nuit, les stores de cette voiture étaient soigneusement fermées, et le trois complices se
dirigèrent, avec leur victime presque expirante, vers la plaine Saint -Denis, où Tom les attendait.
(ibid.: 260)
A questo punto anziché sollevare i lettori dalla suspense innescata dal rapimento in corso,
Eugène Sue decide di sviluppare altri sentieri narrativi, lasciando in trepidante attesa il suo pubblico
eterogeneo, che andava dalle governanti agli operai. Infatti la puntata successiva, il capitolo 15,
inizia con: «Le lecteur nous excusera d’abandonner une de nos héroïnes dans une situation si
critique, situation dont nous dirons plus tard le dénoûment» (ivi: 260).
Prima di conoscere la sorte della sventurata, verremo introdotti alle vicende di Clémence
d’Harville, conosceremo le sventure dei Morel causate dal perfido notaio Jaques Ferrand, faremo
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conoscenza con la sartina Rigolette e saremo edotti sulle truffe del signor di Saint -Remy, per citare
solo alcuni dei filoni narrativi. Ritroveremo la Goualeuse ben trentadue capitoli dopo, in uno dei
numerosi intrecci delle trame parallele: la marchesa d’Harville, che si è data alla causa di
questa attività nel famigerato carcere di Saint -Lazare, dove – per vicende alterne che scopriremo
Per opera di Jacques Ferrand, nello stesso carcere finisce un altro “giovane innocente e
Coupe-en-deux, raccontata dal “bardo” Pique-Vinaigre al cerchio di detenuti paganti riunitisi per
ascoltare la narrazione. Con le sue sapienti interruzioni e divagazioni, il galeotto, esperto narratore,
tiene avvinti al suo racconto gli ascoltatori, che fremono per conoscere la conclusione della storia.
Mise en abîme del romanzo stesso, il racconto fittizio di Pique-Vinaigre evoca la dinamica narrativ a
contenuta nel romanzo stesso di Sue, la cui pubblicazione seriale, segmentata da interruzioni
strategiche, generava nei lettori uno stato febbrile di attesa. A questo proposito, Paolo Tortonese
[… ] si nutre del proprio rinvio, si gonfia di una privazione, si compiace nel tormento. Più si
aspetta a godere, più si gode, ma il godimento vero non sta alla fine dell’attesa. Non avviene
quando scompare l’ostacolo e si svela il finale: sta invece proprio in ciò che impedisce e
nasconde, nel pungolo sadico della dilazione, nella tortura del vedersi sfuggire la preda. (Tortonese
2002: 143)
Intrinseco alla forma stessa della serialità narrativa, l’andamento dilatorio tipico della
suspense ricorre anche nei serial moderni, e soprattutto in quelli appartenenti al genere poliziesco.
Come è stato detto dagli studi sulla televisione, nel testo televisivo, a ogni intensificazione
passionale segue immediatamente una distensione che permette alla serie di ritornare all’equilibrio
attanziale iniziale: «in altre parole, se in ogni episodio di un poliziesco si arriva a un climax di
tensione quando si sta per arrestare il criminale, è poi previsto dallo schema della serie che nel
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finale la tensione sia stemperata in modo da riportare la situazione allo stato iniziale» (Grignaffini
2008: 165).
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Bibliografia
lunga durata?”, Il romanzo. Temi, luoghi, eroi, Ed. Franco Moretti, Torino,
• Bory, J.L, Eugène Sue. Le roi du roman populaire, Paris, Hachette, 1962.
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Emanuela Piga Bruni - Il vort ice dell’intreccio
• Dickens, Charles, The Pickwick Papers (1836), trad. it. Il circolo Pickwick,
• I d., Great Expectations (1860-61), trad. it. Grandi speranze, Torino, Einaudi,
1998.
• I d., Our mutual friend (1865), trad. it. Il nostro comune amico, Ed. C. Pagetti,
2006.
1976.
• Moretti, Franco (ed.), Il romanzo. Cultura del romanzo, Torino, Einaudi, 2002,
Vol. I .
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Jacques Pauv ert editeur, 1963, trad. it. I misteri di Parigi, intr. di Umberto Eco,
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo storico
Nell’Ottocento, tra i diversi romanzi pubblicati a puntate, figura il genere del romanzo
storico. Tra gli esponenti più celebri, si pensi a Ivanohe di Walter Scott, I promessi sposi di Alessandro
Manzoni, o Guerra e pace di Tolstoj. In questa lezione saranno forniti dei cenni sulla storia e le
Da sempre attuale, la riflessione sul rapporto tra letteratura e storia trova spazio già nelle
pagine della Poetica di Aristotele, in cui il filosofo contrappone i due ambiti argomentando che «Lo
storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi [...] si distinguono invece in questo:
l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire». Da questo presupposto, Aristotele
considera la poesia di maggiore fondamento teorico e più importante della storia poiché «dice
Alla base del romanzo storico sta il rapporto problematico tra storia e finzione. Un rapporto
che può essere anche ambiguo, nella sua dinamica tra fatti realmente accaduti e storie inventate,
tra personaggi storici e personaggi letterari, e in generale, tra le due modalità discorsive del
racconto fattuale e del racconto finzionale. Nel corso dei secoli, la forma della contrapposizione
netta che lega i due termini sfuma sempre di più a favore dell’intreccio. Il romanzo storico
tradizionale – soprattutto nella versione di Manzoni – presupponeva una distinzione netta tra fatti
reali e fatti immaginari, anzi l’effetto dipendeva dalla capacità del lettore di non confondere
questi piani. Nel romanzo contemporaneo, le trame nitide che compongono l’intreccio di questi
due elementi diventano sempre di più ingredienti solubili di una composizione generata dalla
mescolanza, in cui i confini tra vero, falso e finto, in alcune narrazioni sono sempre più labili. Di pari
passo, la riflessione critica si interroga sempre di più sull’intreccio tra documento storico e
invenzione narrativa. In particolare, nelle fasi successive della modernità, a partire dal primo
1 Aristotele, Poetica, IX, 151b, tr. it. a cura di P. Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 63.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo storico
contrapposizione tra fatto e finzione si sfuma, diventa sempre più confusa con vaste aree di
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo storico
La relazione tra letteratura e storia acquista un rilievo crescente nel corso della modernità
borghese. Nell’alveo del romanticismo e di una nuova coscienza storicista nasce e si sviluppa il
romanzo storico, una delle forme narrative più importanti in questo ambito. Su questo genere
letterario resta tutt’oggi imprescindibile la lezione di György Lukács, raccolta nel suo saggio Der
historische Roman.16 «Rappresentare i destini individuali in cui i problemi dell’epoca trovino la loro
espressione al tempo stesso immediata e tipica»: questa è per Lukács l’anima del romanzo storico.
Dal punto di vista artistico, l’elemento decisivo per la riuscita dell’opera è la rappresentazione del
contenuto sociale e psicologico del destino narrato, raccontato nel suo collegamento con le
grandi questioni tipiche della vita del popolo.17 Al centro della riuscita estetica dell’opera per
Lukács è l’immediatezza dei rapporti della vita con gli avvenimenti storici, mentre la capacità più
preziosa dell’autore di romanzi storici risiede nel saper inventare «uomini e destini in cui appaiano in
forma immediata gli importanti contenuti, problemi, tendenze ecc. umano-sociali di un’epoca».
Per Lukács, è essenziale che la scrittura di questo genere muova dalla vita del popolo e
rappresenti la storia dal basso;18 una suggestiva definizione che sarà ripresa negli anni Settanta da
È evidente come in Lukács la riflessione sul romanzo storico affondi le radici nel rapporto
dello scrittore con la realtà e con i problemi sociali del suo tempo: «Il rapporto dello scrittore con la
storia non è qualcosa di speciale o di isolato, ma è un importante elemento costitutivo del suo
rapporto con la realtà intera e in special modo con quella sociale». 2Per lui, la forma classica del
romanzo storico nasce dal grande romanzo sociale e acquisisce profondità grazie alla prospettiva
storica.3
Il romanzo storico percorre le tappe individuate da Lukács come significative nel cammino
del genere: l’epoca d’oro del romanzo storico, cioè “la forma classica”, incarnata al massimo da
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo storico
soprattutto da Victor Hugo; e infine, nella prospettiva dell’autore, la decadenza del romanzo
borghese, da Flaubert al naturalismo e simbolismo. La perdita del nesso tra destini individuali e
destini generali è per Lukács la causa principale della decadenza del genere.
se i pensieri e i sentimenti, le opinioni e le esperienze vissute dagli uomini che agiscono nel romanzo
storico vengono sviluppate organicamente in tutta la loro concreta complicazione dalle concrete
condizioni di esistenza del tempo». La narrazione astratta della base esistenziale produce dei
personaggi rappresentati solo dal lato psicologico, senza il controllo dei fatti concreti della realtà, «i
soli capaci di mostrare allo scrittore quali specie di sentimenti e di pensieri siano in genere possibili
La frattura fra gli avvenimenti storici e la psicologia dei personaggi determina la perdita
psicologia dei personaggi sono dunque le caratteristiche deteriori che Lukács individua in quella
Nell’ultima parte del libro Lukács si misura con la sua contemporaneità: il romanzo
antifascista del Novecento, che per lo studioso trova la sua maggiore espressione nella prosa di
Heinrich Mann. Se l’analisi lukácsiana delle caratteristiche del romanzo storico continua a essere un
riferimento imprescindibile e un modello altissimo di critica letteraria (al di là dei suoi giudizi di
valore, che qui non sono condivisi), la conclusione del libro si incanala più strettamente
Il libro si conclude con uno sguardo fiducioso sul futuro, caratterizzato dall’armonia tra
destini individuali e destini generali in una società liberata dall’ingiustizia sociale. Da un punto di
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pienezza della realtà sociale attraverso la tendenza all’epica.5 Se per quanto riguarda le
condizioni materiali il nuovo romanzo storico si situerà agli antipodi di quello classico, il ritorno «alla
genuina grandezza epica» avrà l’effetto di «richiamare in vita le leggi generali della grande
5 Ivi., p. 487.
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I grandi personaggi storici rappresentati dai classici hanno la funzione artistica di sintetizzare
un’epoca, una volta che siano stati resi concreti e tali da poter essere rivissuti da noi in forma
immediata.6
Per Lukács, nei classici del romanzo storico le grandi figure non si sviluppano quasi mai sotto
gli occhi del lettore. L’evoluzione, la genesi dell’“individuo storico universale” ha luogo nel popolo.
In questo Lukács riprende la riflessione fatta a suo tempo da Balzac, quando faceva notare come
in Walter Scott le grandi figure apparissero sempre in quei punti in cui lo esigeva la necessità
oggettiva dei movimenti popolari. Esse allora si presentano già compiute ai nostri occhi, come
sintesi e supreme espressioni di questo sviluppo. I personaggi storici sono grandi in quanto
posseggono questa “forza sintetica”: la capacità di risolvere i problemi che agitano più
profondamente la vita del popolo. «Sovrastano il popolo di una testa nella statura spirituale, come
gli eroi di Omero nella statura fisica. Ma sono grandi storicamente proprio perché sovrastano il
popolo appunto solo della testa, perché danno alle questioni concrete del popolo la soluzione
concreta che è possibile e necessaria dal punto di vista storico-sociale. Questa grandezza
costituisce, in molti casi, al tempo stesso il loro limite».7 In sintesi, nei classici le grandi figure storiche
Da una prospettiva più recente, vediamo che non sono molto dissimili le riflessioni di Roland
Barthes sull’uso del personaggio storico nei romanzi. Barthes sottolinea come sia proprio la scarsa
importanza nell’economia dell’opera a conferire al personaggio storico «il suo peso esatto di
introdotti nella finzione lateralmente, obliquamente, di passaggio, dipinti sullo scenario, non
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staccati sulla scena». Qualora il personaggio storico dovesse assumere la sua importanza reale, «il
realtà [...]: bisognerebbe farli parlare, e, come impostori, sarebbero smascherati». 9 Al contrario, se
sono solo mescolati ai loro vicini fittizi, citati come all’appello di una semplice riunione mondana, la
loro modestia, «come una chiusa che pareggi due livelli, mette sullo stesso piano il romanzo e la
storia: reintegrano il romanzo come famiglia, e come avi contraddittoriamente celebri e irrisori,
danno al romanzesco il lustro della realtà, non quello della gloria: sono effetti superlativi di reale».
Per Roland Barthes l’“effetto di reale” è il «fondamento di quel verosimile inconfessato che
Per Philippe Hamon, citare un nome storicamente “pieno di senso”, come Napoleone o
racconto, alla trama e alle avventure degli altri personaggi) rappresenta quindi, nel discorso
“barometro” sulla parete, il “mogano” delle sedie di Mme Aubin, il pezzo di “sapone azzurro in un
piatto sbreccato” della stanza di Felicité in Un coeur simple).10 Hamon inserisce i personaggi storici
(come Napoleone III nei Rougon-Macquart, o Richelieu in Dumas) nella categoria dei personaggi-
referenziali, in compagnia dei personaggi mitologici, come Venere o Giove, dei personaggi
allegorici, come l’amore o l’odio, o dei personaggi sociali, come l’operaio, il cavaliere o il picaro.
proporzionale al grado di partecipazione del lettore alla cultura corrispondente («devono essere
“ancoraggio” referenziale, e rinviano al grande «Testo dell’ideologia, dei clichés o della cultura».
9 R. Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1970, tr. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973. Si veda il paragrafo “Il personaggio storico”.
10 Cfr. Ph. Hamon, Pour un statut sémiologique du personnage (1972), tr. it. “Per uno statuto semiologico del personaggio”,
in Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Pratiche, Parma 1977.
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Essi assicurano ciò che Barthes chiama l’“effetto di reale” e molto spesso partecipano alla
Lukács afferma che per rendere evidenti i motivi sociali e umani dell’agire, gli avvenimenti
di scarsa importanza esteriore e le circostanze in apparenza poco rilevanti sono più funzionali dei
grandi drammi della storia universale.12 In questo aspetto risiede, secondo il teorico ungherese, la
differenza profonda tra il romanzo storico e l’epopea. Il carattere nazionale degli argomenti
dell’epoca e il rapporto tra individuo e popolo nell’età degli eroi esigono che nell’epos la figura
più importante abbia una posizione centrale, mentre nel romanzo storico è soltanto una figura di
contorno. L’aneddoto anziché il grande evento sembra essere più atto a comunicare i tratti
rilevanti di un’epoca.
11 Ivi, p. 92.
12 G. Lukács, Il romanzo storico, cit. p. 42.
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Come esempio di un romanzo storico che mette in scena dei personaggi realmente esistiti
In questo romanzo possiamo osservare che a livello formale i dialoghi tra i personaggi storici
(Robespierre, Danton, Marat) sono identici nello stile a quelli tra personaggi finzionali (Cimourdain,
l’attenzione di Hugo per qualcosa che andava al di là del resoconto dei fatti, dall’altra la storia
inventati che siano, colti nelle loro determinazioni storico-politiche. Non c’è duplicità, non c’è una
psicologia del personaggio che sia indipendente dalle opinioni politiche o dalla situazione storica,
non esiste un piano privato e un piano pubblico, non ci sono le microstorie che si fondono nella
grande storia, come ad esempio in A Tale of Two Cities (1859) di Charles Dickens. I protagonisti del
romanzo storico di Victor Hugo non sono eroi medi. Come nel dramma storico, sebbene non esclusi
del tutto, i motivi umani “privati” sono ridotti a quanto è drammaticamente necessario per
caratterizzare le grandi personalità nel loro rapporto coi problemi della vita del popolo 13.
gli Chouans (1829) di Honoré de Balzac, o i romanzi fondatori Ivanhoe (1820) di Walter Scott e I
promessi sposi (1827) di Alessandro Manzoni, dove i personaggi storici compaiono come
ancoraggio referenziale, limitandosi a breve comparse che non interferiscono con lo sviluppo della
trama. Anche nel Novantatré i protagonisti sono personaggi fittizi e Robespierre, Danton e Marat
occupano la scena in una parte delimitata del romanzo. Tuttavia, all’interno della parte che li
contiene i tre rivoluzionari non sono introdotti nella finzione in una modalità “di passaggio”, “dipinti
13Per quanto riguarda analogie e differenze tra dramma storico e romanzo storico si veda di György Lukács (1937), Il
romanzo storico, Torino, Einaudi, 1965.
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sullo scenario” e “non staccati sulla scena”, come spiega Roland Barthes nelle sue riflessioni sul
personaggio storico a partire dalle considerazioni di Proust su Balzac 14. E soprattutto, sono lontani
dall’essere meri dispositivi di effet de réel del discorso realista, al pari di “un barometro” o di un
personaggi15.
possiamo considerare che anche nel nostro caso le idee, il diverso atteggiamento dei personaggi
di fronte allo stesso problema, ossia la salvaguardia della Rivoluzione dai suoi nemici, sono «tratti
distintivi della loro personalità, come profonde e vive caratteristiche dell’essere loro». Come per
Socrate, Alcibiade, Aristofane e altri ancora, «le idee dei singoli personaggi non sono risultati astratti
e generali, ma è tutta la personalità di ognuno di essi che si accentra nel ragionamento, nel modo
di impostare e di risolvere il problema»17. Anche nel dramma moderno, come ha rilevato Peter
Szondi, continua a essere centrale la sfera del “tra”, il mondo di rapporti intersoggettivi espresso
stilisticamente nella forma del dialogo (1961). “Espressione della lotta, dell’urto degli uomini tra
loro”18, nel Novantatré il dialogo illustra plasticamente e con potenza drammatica i rapporti di
forza tra i tre rivoluzionari, che rappresentano la Montagna (Danton), il Comitato di salute pubblica
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che Robespierre assegna a Cimourdain, con pieni poteri su colui che scoprirà essere il suo figlio
spirituale, Gauvain.
Inesorabile e assoluto sono gli aggettivi che connotano più frequentemente Cimourdain,
così come clemenza e coraggio sono i termini ricorrenti per l'altra figura fittizia protagonista del
romanzo, Gauvain, eroe solare di chiara discendenza arturiana. Espressione simbolica del
Vescovato, il romanzesco Cimourdain entra in scena nella stessa modalità con cui sono raccontati
i tre personaggi prelevati dalla Storia. Non c’è nessuna transizione sintattica o interpuntiva a
segnalare il cambio di statuto del personaggio, che appartiene formalmente allo stesso discorso.
Così come non compare nessuno scarto stilistico: la figura di Cimourdain è descritta
contrappunto alle caratteristiche espresse fino a quel momento dalle altre tre figure. Da un punto
di vista della geografia simbolica delle figure, Cimourdain riverbera, proiettandole nella sfera
incorruttibilità, costituendosi come una sorta di doppio, sebbene più nobile e disinteressato. Nel
nesso che lega il suo destino privato ai problemi collettivi del suo tempo risiede la tipicità del
personaggio.
Il suo ingresso è raccontato dallo stesso narratore onnisciente e riflessivo, in un unico grand
récit. La stessa cosa avviene quando, dopo un altro Elenco Immane di nomi storici realmente
esistiti, si fanno i nomi del marchese di Lantenac, capo dei vandeani, e del capitano della colonna
in Vandea di cui Cimourdain sarà rappresentante in missione, ovvero il romanzesco, per nome e
statuto, Gauvain.
19 Si veda Ph. Hamon, Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, cit. , p. 92.
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Nonostante il loro carattere di personaggi fittizi, al pari dei loro corrispettivi storici
Robespierre, Danton, Marat, le vicende umane di Cimourdain e Gauvain illuminano quei tratti che
li rendono “individui storici universali”, “in virtù dei quali s’innalzano e tramontano tragicamente” 20.
La storia è alla portata dei personaggi, e nella frammentazione del racconto storico in una
A parte Gauvain, che con la sua caratterizzazione evolutiva costituisce il vero scarto, tutti i
nell’epica, specchio della violenza storica. Concepiti in modo semplice, statici ma non per questo
meno interessanti, i loro attributi individuali e collettivi sono scolpiti in maniera vivida e incisiva. La
forza della caratterizzazione sta anche nella descrizione accurata dei loro tratti esteriori, correlativi
fisici di stati mentali e disposizioni morali. L’insieme di queste componenti si manifesta, nella sua
forma più netta, nella sfera intersoggettiva del dialogo. “Fasci di relazioni” 22, i personaggi si
definiscono per opposizione o affinità, e ognuno di essi contribuisce con la sua rappresentazione a
20 Il riferimento è alla riflessione di Lukács, rivolta al trattamento drammatico di personaggi storici come Il conte di
Carmagnola (A. Manzoni), Boris Godunov (A. Puškin) e Danton (G. Büchner), opere che riescono secondo l’autore a
tradurre le forze motrici storico-sociali nell’azione e reazione di concreti individui in lotta (Il romanzo storico, p. 210).
21 Si veda il critico Guy Rosa, ibidem.
22 Mi riferisco a una delle definizioni che Philippe Hamon dà della categoria di personaggio, ibid.: 94.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo storico
Bibliografia
Einaudi, 1988.
Ginzburg, Carlo, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2007.
Pratiche, 1977.
"Bouquins", 2002.
Lukács, György, Der Historische Roman (1957); trad. it. Il romanzo storico,
luogo nella tragedia (1820), Ed. Barnaba Maj, Firenze, Aletheia, 1999.
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Indice
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numerosi esempi, in questa lezione ci soffermeremo sul racconto della Rivoluzione francese in
Quatrevingt-treize (Novantatré) di Victor Hugo, definito da Lukács come «il primo grande poema
storico in cui il nuovo spirito dell’umanesimo di protesta abbia cercato di dominare la storia del
passato». Parafrasando lo storico Erich Hobsbawm, se ci interroghiamo sul tempo e sul luogo in cui
si trova Victor Hugo al momento della sua riflessione sulla Rivoluzione francese, lo troviamo, nel
1871, nella Parigi sconvolta dalle violenze legate alla repressione della Comune: un evento storico
dagli esiti catastrofici, che porta a 25.000 esecuzioni sommarie, deportazioni, carcere a vita e altre
disgrazie ai suoi protagonisti. Anche se il progetto del libro inizia ben prima, nel biennio 1862-1863, è
certo che gli anni della redazione dell’opera siano stati segnati da questo evento traumatico, il cui
effetto ha influito sulle tonalità del romanzo uscito poi nel 1874, agli albori della Terza Repubblica.
seconda del "tempo e del luogo in cui si trovava l'osservatore" 1. Nel corso del primo centenario, la
valenza politica della ricorrenza non era assolutamente messa in dubbio, ma la paura dominante
in Europa, era quella dell'estensione della democrazia politica a tutte le società parlamentari
europee.
Dal 1870 in poi la Francia aveva optato per la Repubblica e la democrazia e tutti, anche gli
Con il romanzo Il novantatré, (Quatre-vingt-treize, 1874), pubblicato agli albori della Terza
Repubblica, Victor Hugo mette in scena la Rivoluzione attraverso una narrazione possente che –
1
Eric J. Hobsbawm, Echi della Marsigliese, Milano, Rizzoli, 1991.
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nella commistione di personaggi storici e personaggi di finzione e nello scenario della rivolta in
Vandea e del Terrore – rende in figura idee e passioni di quel tempo grandioso e terribile.
«Nous sommes 89 aussi bien que 93» dichiara Hugo nel William Shakespeare ([1864] 1973:
302) – opera di poesia e critica leggibile come continuazione di Les Misérables e prefazione al
futuro Quatre-vingt-treize – in cui dipinge il XIX secolo come figlio della Rivoluzione francese, «mère
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La riflessione sulla necessità della violenza nella storia coinvolge la produzione artistica di
Hugo a partire dal colpo di stato di Luigi Bonaparte (1851) dispiegandosi in tutto il periodo dall'esilio
a Guernesey fino al ritorno in patria. Il trauma vissuto di fronte al bagno di sangue della repressione
della Comune nel 1871 si riflette nel cambiamento tonale della narrazione ravvisabile nel
passaggio dai Miserabili (1862, pubblicato a rivoluzione non ancora conclusa) al Novantatré (1874,
qualche anno dopo gli eventi della Comune). In questo passaggio la narrazione titanica delle
barricate lascia il posto a una rappresentazione che attraverso i conflitti morali dei personaggi si fa
Nei Miserabili i tratti del vecchio convenzionale G. sono fissati in una rappresentazione
augusta e monumentale: «uno di quei grandi ottuagenari che fanno la meraviglia del fisiologo».
Come scrisse Hugo nel romanzo stesso, la rivoluzione ebbe molti di questi uomini proporzionati
all'epoca». Nel romanzo, la potenza di questo personaggio è tale da spingere il buon vescovo
Myriel a chiedere la benedizione proprio a colui che veniva considerato dall'opinione pubblica
tipica della Restaurazione un mostro, un "quasi regicida"(ibid.: 38). Così il vecchio convenzionale,
interpellato da Myriel sul suo presunto voto per la morte del Re, al quale peraltro non prese parte,
risponde:
J'ai voté la fin du tyran. C'est-à-dire la fin de la prostitution pour la femme, la fin de
[trad. it. «Ho votato la fine del tiranno. Ossia la fine della prostituzione per la donna, la fine
della schiavitù per l'uomo, la fine delle tenebre per il fanciullo. Nel votare la Repubblica ho votato
tutto questo”]
"La rivoluzione francese è la sagra dell'umanità" e il Novantatré "lo scoppio del tuono" dopo
una nube durata mille e cinquecento anni (p. 42). Già in queste pagine il Novantatré è
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rivolge all'Ideale, così come nel Novantatré, la mente del personaggio principale, il giovane
Gauvain, poco prima dell'esecuzione, si proietta verso un futuro utopico. Dodici anni più tardi la
figura marmorea e immersa nel sole del vecchio convenzionale assumerà un'altra curvatura
polarità di un campo simbolico dominato dalla necessità rivoluzionaria e dal primato dell'umano,
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3. Novantatré: la trama
Francia, 1793: l'ex prete Cimourdain, commissario delegato con pieni poteri dal Comitato
della salute pubblica, ha l'incarico di fermare e uccidere il capo della rivolta in Vandea – il
Marchese di Lantenac – per salvare la Repubblica. A tale scopo, viene delegato da Robespierre
capitano Gauvain. Come afferma Marat, il capitano dal sangue nobile è segnato da un unico
difetto: la clemenza. È su questo punto che Cimourdain dovrà essere inflessibile: le leggi interiori dei
vincoli familiari e degli affetti devono essere subalterne al decreto della Convenzione, che
commina la pena di morte a chiunque aiuti un ribelle prigioniero a fuggire. Gauvain dovrà essere
inesorabile contro suo zio Lantenac, e Cimourdain dovrà essere inesorabile verso il suo adorato ex
Quello che sembrava essere considerato impensabile nei tempi assoluti in cui si svolge la
vicenda si compie: commosso dal gesto pietoso di Lantenac, che nel salvare i tre bambini
imprigionati nell'incendio della Torgue si consegna alla colonna repubblicana, Gauvain decide di
liberare il generale nemico: la notte prima dell'esecuzione lo fa fuggire dalla cripta in cui era
Partendo dal processo che lega a doppia mandata intreccio e personaggi, le cui identità si
costruiscono nello snodarsi del racconto, in questa lezione ci soffermeremo sulle questioni morali e
politiche affrontate nel romanzo, concentrando l’attenzione sul modo in cui la narrazione e il
Cimourdain e nel tormentato eroismo di Gauvain, danno corpo alla riflessione sui diversi concetti di
rivoluzione, umanità e pietà. L'analisi si concentrerà su quei passi in cui emerge l'adesione dei
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Arrigo Stara, critico letterario, ricorda come in Hegel la distinzione tra i "caratteri eroici" della
letteratura del passato e i personaggi delle opere romantiche si articoli «sulla base della
progressiva riduzione della sfera individuale che investe il nuovo protagonista letterario. Mentre gli
sottostavano unicamente alla propria legge e le cui azioni non erano soggette a “un giudizio e a
un tribunale”, i personaggi della letteratura romantica sarebbero riusciti tanto più credibili quanto
più fosse stata resa “l'enormità della scissione” «fra la dimensione della legge e quella
dell'individuo»2. Partendo dal presupposto che “nella realtà attuale l'ambito per figure ideali è
molto limitato”, nell’Estetica Hegel scrive che per il nuovo protagonista romantico le possibilità di
azione e di scelta sarebbero state molto più limitate a causa dei «rapporti sociali sussistenti» che
La figura di Gauvain, il cui nome riverbera il cavaliere modello della leggenda arturiana e la
cui luminosità eredita le caratteristiche di eroe solare (nella tradizione la sua forza cresce con il sole
e tocca l'apice a mezzogiorno), sembra incarnare la voce di una realtà possibile in uno stato di
eccezione improntato su una logica binaria che esclude le terze vie. Figura estremamente sensibile
al mutare degli eventi, Gauvain non agisce in modo predeterminato, aderendo pedissequamente
ai dettami che il suo ruolo gli impone, ma si espone alla relazione e coglie il divenire degli altri,
L'uscire fuori da sé del valoroso capitano, il suo mettersi nei panni degli altri e l'accogliere le
ragioni dell'altro fino a introiettarle come voce interlocutrice nel monologo interiore, segna la
trasformazione dell'eroe. Il registro epico, annunciato nel primo paragrafo (Temps de luttes
épiques) e al suo acme nella contrapposizione imponente della torre-fortezza Tourgue e della
Ghigliottina, perde la sua connotazione estetizzante fino a farsi riflessione sulla violenza: i campi di
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battaglia lasciano spazio all'arena della coscienza. Il personaggio appartenente al tempo delle
lotte epiche si trasfigura nel momento della dimensione tragica della Scelta, che coincide con il
La "curvatura" del personaggio è narrata a partire dal libro sesto (C'est apres la victoire qu'a
lieu le combat) e settimo (Féodalité et révolution) della terza parte (En Vendée), quando
Lantenac, messosi in salvo nella foresta dopo essere scampato all'incendio della Tourgue, ritorna di
sua libera scelta nella Torre per salvare i tre bambini, finendo così catturato dalle forze
repubblicane. L'appartenenza dei bambini alla categoria dei miserabili, dunque senza legami di
sangue o di classe con il marchese, lo rende ancora più nobile agli occhi di Gauvain. Il capitano
non può accettare il capovolgimento dei ruoli: di fronte al gesto umano di Lantenac, coloro che
dovrebbero essere i paladini della giustizia e della libertà, nel volerlo giustiziare si cristallizzano nella
L'homme du passé irait en avant, et l'homme de l'avenir en arrière! L'homme des barbaries
et des superstitions ouvrirait des ailes subites, et planerait, et regarderait ramper sous lui, dans de la
fange et dans de la nuit, l'homme de l'idéal! Gauvain resterait à plat ventre dans la vieille ornière
féroce, tandis que Lantenac irait dans le sublime courir les aventures!
[trad. it. «L'uomo del passato marcerebbe verso l'avvenire, mentre Gauvain farebbe il
cammino inverso? Non era possibile. L'uomo della barbarie e della superstizione avrebbe ali per
salire in alto mentre l'uomo dell'ideale sarebbe condannato al fango e alle tenebre! Gauvain
stagnerebbe nel solco della ferocia, mentre Lantenac salirebbe nel regno delle sublimi avventure»]
fronte agli ultimi avvenimenti, la frase del suo ex precettore, «cela ne te regarde plus», suona al
Lantenac non appare più agli occhi di Gauvain come lo stesso uomo: da assassino "fanatico della
regalità e della feudalità" assume le sembianze di un eroe con un'anima e con un cuore,
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo storico-ideologico: Victor Hugo
inducendo Gauvain a sentirsi sconfitto dall'arma delle bontà. In questo intervallo dell'azione,
determinato da un pensiero che sgorga dalle profondità del suo essere, si inserisce la questione del
vincolo di sangue tra zio e nipote, fino a quel momento subordinata agli orrori commessi da
Di fronte alla "trasfigurazione" del marchese, Gauvain sente che la mutevolezza degli
avvenimenti pone un quesito che richiede giustizia. Egli si sente "sottoposto a un interrogatorio"
(trad. it.: 677) e chiamato a renderne conto davanti a un giudice, la sua coscienza:
[trad. it. «Gauvain, repubblicano, credeva e viveva nell'assoluto ed ora gli si palesava un
assoluto inifinitamente superiore. Al disopra di tutta la verità rivoluzionaria, brilla la verità umana»].
spostamento del punto di vista, che lo rende quasi un dialogo tanto l'altro è incluso nell'orizzonte
dell'io. Da un lato emerge la straordinarietà degli ultimi avvenimenti determinati dal gesto di
Lantenac, che ha inaugurato il prodigio più grande, la vittoria dell'umano sull'inumano grazie allo
strumento simbolo degli inermi e degli innocenti: la culla; il gesto di Lantenac inaugura l'ingresso
dei valori di umanità e pietà, che spazzano via le regole e la disumanizzazione indotta dallo stato
d'eccezione, ingresso di fronte al quale Gauvain non può sottrarsi. Dall'altro, si fa sentire con forza
la voce dell'orizzonte politico all'interno del quale si inseriscono le azioni di Gauvain: la lotta contro
nemici interni ed esterni. Il contesto è quello della guerra civile, del fanatismo, della legge del
taglione e delle necessità della guerra. La liberazione di Lantenac significa tradire la causa della
rivoluzione e riaccendere la lotta sanguinaria in Vandea, una lotta che avrebbe insanguinato
nuovamente i boschi e le città della Bretagna. Dopo mesi di guerra finalmente il nemico pubblico
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numero uno della Rivoluzione era stato catturato e la sua uccisione avrebbe posto fine alle
Nel ricordare che Lantenac aveva salvato i bambini, una voce dentro di sé afferma il
prodigio del gesto del marchese, l'altra ricorda che era stato lui stesso a rinchiuderli nella Tourgue,
a usarli come ostaggi esponendoli ai pericoli e a comandare all'Imanus l'incendio. Alla luce di
questo ragionamento, si dice Gauvain, l'unico merito di Lantenac è quello di non aver persistito
nell'inumanità. La coscienza del risveglio della pietà in colui che era considerato una belva si
alterna alla consapevolezza delle conseguenze che una sua liberazione innescherebbe: la morte
di altre creature innocenti, lo sbarco degli inglesi, la rivoluzione sconfitta, la Bretagna devastata.
Tuttavia la logica del ragionamento non ha la stessa forza dell'emergere del sentimento, di una
voce che ritiene che il sacrificio e l'altruismo di Lantenac costituiscano un fatto che non è possibile
ignorare:
Le raisonnement disait une chose; le sentiment en disait une autre; les deux conseils étaient
contraires. Le raisonnement n'est que la raison; le sentiment est souvent la conscience; l'un vient de
l'homme, l'autre de plus haut. C'est ce qui fait que le sentiment a moins de clarté et plus de
puissance.
Gauvain hésitait.
[trad. it. «Il ragionamento non è che logica; il sentimento è spesso tutta la coscienza; l'uno
proviene dall'uomo, l'altro da sfere infinitamente superiori. Il sentimento non abbisogna di luce
Gauvain esitava».]
Nell’indifferenziazione formale del trattamento del referente, che fa sì che il reale entri
costitutive della prismaticità del Novantatré, romanzo storico che accoglie dentro di sé le modalità
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Da un lato, con il suo farsi forza di legge, Cimourdain incarna la volonté Une di Robespierre
tragicità della sua figura sta nell’immedesimazione con lo spirito dell’epoca, che lo spinge a una
decisione strettamente connessa ai conflitti vissuti nell’epoca del Terrore rivoluzionario. Dall’altro, la
personaggio che si riflette sulla sua curvatura. L’ultima parte del romanzo, “En Vendée”, ci fa
entrare nella psiche del personaggio, descritta nel suo lacerarsi e giudicarsi. Questo passaggio,
con il presentare al lettore un finale lontano dal compromesso consolatorio del melodramma, lo
immerge nel tragico. Gauvain – nell’origliare i propri discorsi, affrontare la possibilità di un’alterità
stesso”.
che il conflitto trova “la sua espressione più tangibile e adeguata”. Le caratteristiche di “elevatezza
del pensiero”, “capacità di autocoscienza” e “consapevolezza del proprio destino”, unite alla
capacità di “librarsi al di sopra della pura individualità” – ossia i tratti che Lukács attribuisce alla
figura, per lui artisticamente necessaria, dell’eroe (ibid.) – emergono nel corso del suo monologo
interiore. Nel suo Saggio sul tragico (1961) Peter Szondi ricorda come per Kierkegaard, nella
tragedia greca, il tramonto dell’eroe non fosse soltanto una conseguenza della sua impresa, ma
anche un patire. Nella forma del monologo come processo vitale appare la dialettica della Legge
universale e della coscienza privata, così come nel carattere di discorso non pronunciato a voce,
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Dans la Tourgue étaient condensés quinze cents ans, le moyen âge, le vasselage, la glèbe,
la féodalité; dans la guillotine une année, 93; et ces douze mois faisaient contre-poids à ces quinze
siècles.
Confrontation tragique.
[trad. it. «La Tourgue: millecinquecento anni di storia, il medioevo, il vassallaggio, la gleba, il
feudalesimo. La ghigliottina: la storia di un solo anno, il 93. Dodici mesi controbilanciavano quindici
Il tribunale è collocato sulla sommità della torre, Cimourdain siede con l'uniforme completa
controcanto alla mobilità del viso di Gauvain, radioso e con il pensiero rivolto all'avvenire. I suoi
ultimi gesti, lo sguardo dell'eroe verso Cimourdain e le ultime parole, "Vive la République",
rimandano fino alla fine alla forza del sentimento e all'inseguimento del sogno.
L'ultima visione di Gauvain, che lo accompagna fino alla ghigliottina, lo trasporta dalla
violenza del presente verso un futuro utopico, nel quale epica morale e poesia si fondono. Come
ne Les Misérables, anche qui il dialogo tra i due personaggi implica il rovesciamento dei ruoli: l'ex-
precettore e sacerdote Cimourdain tace di fronte alla "luce d'alba" che brilla negli occhi di
Gauvain, al suo innalzarsi verso la sfera luminosa di una "verità più alta" che esorbita dai confini
angusti della politica; così come il vescovo Myriel riconosce l'umanità e l'idealismo del vecchio
La ragione di Cimourdain finisce con il coniugarsi con la morte; come Robespierre, egli è
capace di infliggerla e non si tira indietro di fronte al sacrificio della persona più amata al mondo,
premessa della propria morte. Come il Bruto delle tragedie di Shakespeare e Voltaire, la sua
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volontà monolitica, la volonté "Une" di Robespierre, diventa assenza di volontà e di libero arbitrio:
Come ha spiegato lo storico Simon Schama nel suo libro dedicato alla Rivoluzione francese,
Cittadini, di fronte al dilagare della rivolta in Vandea e alle disfatte sul fronte militare, per rafforzare
i poteri dello Stato, la Convenzione inviò dal 6 marzo nei dipartimenti i répresentants-en-mission,
versione rivoluzionaria degli antichi "intendenti del Re", “incarnazioni viaggianti del potere sovrano".
Il compito loro affidato consisteva, in gran parte, nell'occuparsi di questioni giudiziarie e penali. I
passi successivi furono la creazione a Parigi del Tribunale rivoluzionario, incaricato di giudicare i
compresi) scoperto a fomentare una ribellione. Chi risultava colpevole doveva essere fucilato
Nel romanzo, l’immenso affetto di Cimourdain per Gauvain viene confinato nella sfera degli
interessi particolari, nocivi alla volontà generale e al bene comune. Il verdetto sull'eroe non viene
mai messo in questione; così come il futuro scavalca il presente, la decisione precede qualsiasi
inquieto dei suoi pensieri; egli procede dialetticamente verso la decisione finale, tenendo fermo il
contatto con la propria anima, spogliata dall'ideologia. La sua umanità si fa carico della sofferenza
necessaria a generare il "progresso" ed esprime la coscienza delle lacerazioni che attraversano vita
Come scrive Lukács nel suo saggio “Romanzo storico e dramma storico” (seppur in
riferimento ai conflitti di classe), l’epilogo tragico del conflitto drammatico non va inteso in un senso
astrattamente pessimistico, poiché pur «nel terrore dell’inevitabile rovina degli uomini migliori della
società», ogni dramma veramente grande esprime al tempo stesso anche un’approvazione della
vita e un’esaltazione dell’umana grandezza (1965: 156). Nel Novantatré, in nome della sua fede
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nella Rivoluzione, il sacrificio dell’eroe trascende la sua esperienza personale e investe l’intera
Quasi un secolo dopo l’evento, il romanzo di Victor Hugo sulla Rivoluzione francese è un
una prospettiva di lunga durata che vede l’evento ancora in corso nelle sue diramazioni che
portano agli eventi sanguinosi della Comune, e ancora lacerato dalla tensione utopica e dal
conflitto tra pietà e terrore. La frattura tra utopia e storia si riflette nella forza drammatica della
scrittura di Hugo, che nel rendere la dismisura dell’epoca, – e qui mi servo delle parole di Peter
Brooks a proposito del modo melodrammatico – forza «le possibilità intrinseche del significante, e a
sua volta lo rende smisurato, sproporzionato, sempre teso a raggiungere un senso che gli sfugge»
(1976). Lo sforzo dell’arte melodrammatica di far emergere nel modo più netto possibile forze
latenti e abissi del significato (ibid.), si combina qui con quel lavoro sul linguaggio praticato
dall’arte realista, volto a illuminare i pensieri e i sentimenti essenziali impliciti nelle aspirazioni umane,
saldando espressione personale e grandi problemi sociali. Nella collisione delle forze opposte
incarnate dai personaggi risiede la forza drammatica del romanzo – mentre il dialogo della cripta,
il vagare nel vuoto dello sguardo di Gauvain nel tentativo di intravedere il futuro, rappresenta
Per questo Il Novantatré è una grande riflessione filosofica, oltre che letteraria, sulla
Rivoluzione, in cui la filosofia ritrova se stessa nella tragedia e ripristina il legame con la storia.
Passaggio messo in figura in Gauvain, che dalle caratteristiche solari di eroe epico, passa
attraverso la scissione e nel confronto con il negativo diviene eroe che pensa, eroe intellettuale.
Sia il pensiero dialettico di Gauvain, personificazione del tragico in quanto dialettica, che il
concludersi della trama, nell’insuperabilità dell’antitesi tra assoluto umano e assoluto rivoluzionario,
rispecchiano quella legge formale dell’annientamento e della salvezza insita nel rovesciamento
degli opposti che Peter Szondi vede come costituiva del tragico (1961).
e determinano la tragica paradossalità della sorte dell’eroe. In quello stato di eccezione che è lo
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spazio del pianoro antistante alla Tourgue, per mano della forza di legge incarnata in Cimourdain,
Gauvain è giustiziato in nome di quel futuro che augura a tutti gli uomini. Il romanzo si chiude, ma
la contraddizione resta, così come la struttura enigmatica dell’esperienza, che contiene la forza
Attraverso i personaggi del Novantatré, Victor Hugo mette in scena i conflitti e le scissioni
portati dalla rivoluzione francese, centrali in una tragedia ineludibile nella transizione verso il mondo
nuovo.
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Bibliografia
Benjamin, Walter, "Per una critica della violenza", Angelus Novus, Torino,
Einaudi, 1995.
Hugo, Victor, Les Misérables (1862), trad. it. I miserabili, Torino, Einaudi, 2006.
1952, 2 voll.
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Indice
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Nella logica di Cimourdain, il Terrore è l'unica via percorribile per realizzare la libertà,
l'eguaglianza e la fraternità. Come sosteneva Saint-Just, «La forza non fa né il diritto, né la ragione.
Ma è forse impossibile farne a meno per far rispettare il diritto e la ragione». L'ex-prete, con i suoi
pieni poteri, rappresenta la “forza-di legge” costretta a muoversi in quello che lui stesso considera
lo spazio della necessità, o in altri termini lo spazio vuoto del diritto, e applica una norma
inesorabilmente scollata dalla realtà e inscritta nel terreno della violenza senza logos. Il pianoro sul
quale si erge la ghigliottina diventa un non-luogo determinato dalla sospensione delle leggi che
vincolano l'azione di chi ricopre il ruolo provvisorio di giudice. Cimourdain commina la pena
consapevole che la sua scelta significa la sua stessa distruzione: egli si ucciderà gettandosi dalla
torre nello stesso momento in cui la mannaia calerà sul collo dell'eroe. Il suo io monolitico delimita
al tempo stesso l'enorme sofferenza e la violenza esercitata anche contro di sé: infatti l'ex-
precettore non può sopravvivere al suo figlio spirituale, il dolore è nel segno della dismisura.
incondizionata ai principi del giacobinismo, in una dimensione atemporale che non si apre al
mutare degli eventi e degli individui. Al contrario, la scelta di Gauvain – nel momento della
un giudizio che kantianamente non può esimersi di pensare il particolare come contenuto nel
Repubblica che vede i diritti dell'uomo al primo posto. Nell'ora della decisione, Gauvain si figura di
fronte al tribunale della Convenzione – che pone al centro la causa della Rivoluzione e la
Enrico Testa ha sottolineato come in molti romanzi contemporanei la prima possibilità del
soggetto risieda nel suo essere coinvolto in un compito a cui non può sottrarsi, l'obbligazione e il
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legame, ed identifica queste caratteristiche come tipiche del personaggio relativo, che ritrova già
trasformazione che nel corso delle vicende perviene a una nuova coscienza del rapporto con gli
altri, e sottolinea le implicazioni etiche che si ripercuotono nella narrazione (ibid., p.42). Con la sua
Gauvain di Victor Hugo sembra possedere queste caratteristiche senza rinunciare alla statura e
all'azione dell'eroe.
Nell’Estetica (I, 288), Hegel afferma: «L'azione è la più chiara messa in luce dell'individuo,
della sua disposizione d'animo, come dei suoi fini; ciò che l'uomo è nel più profondo del suo intimo,
viene a realtà solo con il suo agire...». Hegel continua spiegando come il personaggio romantico
superi il suo dissidio interiore attraverso l'azione, nella quale la situazione si scioglie e l'individuo si
immerge nel conflitto rivelando la sua vera natura. Da questo processo si sprigiona il “Pathos”,
concetto che Hegel vuole mantenere assolutamente distinto da quello di “passione” (I, 305)1.
Tornando al personaggio romantico, Hegel afferma che solo in circostanze eccezionali gli è
concesso di raccogliere in se stesso «l'intero ambito di ciò che ha fatto» (I, 248). Gauvain si muove
in un mondo dominato da delle leggi legate allo stato di eccezione della guerra civile e in questa
situazione trova la forza per superare il proprio dissidio interiore e rivelare la sua vera natura nel
conflitto dell'azione. «Di queste occasioni di suprema sintesi tra “situazione e azione” nella vita di
ciascuno ve ne è, scrive Hegel, “una sola”, “nel corso della quale l'individuo rivela ciò che è,
mentre prima di essa ciò era noto pressapoco solo per nome e per la sua esteriorità” (Stara 2004, p.
126).
1 Per una sintesi di questo argomento trattato nell'Estetica di Hegel si veda il volume di Arrigo Stara (2004, p. 126).
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Come ha spiegato Victor Brombert nel suo studio dedicato a Hugo, nel Novantatré la
logica dell'umano si scontra con la logica della valutazione politica, l'etica del presente con quella
del futuro, in una dialettica che interroga «la distanza tra i mezzi della rivoluzione (sollevazioni,
(sempre un mezzo rispetto a un fine) dell'ottica rivoluzionaria, per Gauvain non perde la
connotazione di "violenza pura"; il suo criterio di critica della violenza non rinuncia a voler
distinguere nella sfera dei mezzi. La stessa logica lo spingerà più avanti, nel corso dell'incontro con
l'ex-precettore, ad esprimersi contro l'obbligo dell'impiego universale della violenza come mezzo ai
fini dello stato previsto dalla coscrizione obbligatoria: «Voi sostenete il servizio militare obbligatorio.
Contro chi? Contro degli altri uomini. Io sono contrario ad ogni servizio militare. Io voglio la pace»
perdita del senso delle sue azioni e instaurano l'esigenza di fermarsi a ripensare ai fondamenti e alle
Est-ce donc que la révolution avait pour but de dénaturer l'homme? Est-ce pour briser la
famille, est-ce pour étouffer l'humanité, qu'elle était faite? Loin de là. C'est pour affirmer ces réalités
suprêmes, et non pour les nier, que 89 avait surgi. Renverser les bastilles, c'est délivrer l'humanité;
[Trad. it. «La rivoluzione avrebbe dunque il compito di snaturare l'uomo? Si attua una
rivoluzione per spezzare la famiglia e soffocare l'umanità? No, certamente no. È piuttosto per
riaffermare queste supreme verità, non per negarle, che si è avuto l'89. Abbattere le bastiglie e
2Victor Brombert, Victor Hugo e il romanzo visionario, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 265.
3 Walter Benjamin, "Per una critica della violenza", Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995.
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rivoluzione e l'avvento del popolo, e il popolo è l'uomo. Il fondamento di tutto resta l'umanità e
l'impellenza di una scelta che non fa sconti: se Lantenac ha affermato il valore dell'umanità
mettendo in secondo piano la lotta realista, Gauvain sente che tocca a lui affermare il valore della
percorre il sentiero che lo conduce alla cripta in cui è tenuto prigioniero Lantenac nell'attesa del
processo: riverberi dell'incendio morente si stagliano su uno scenario dominato da un velo di fumo,
da giochi di luci e ombre e dall'alternarsi di chiarori e oscurità. Nel corso del dialogo tra i due
personaggi, l'ancêtre ribadisce la sua fedeltà ai concetti di tradizione, famiglia e rispetto verso le
vecchie leggi, per lui rientranti nei veri concetti di virtù e giustizia. Indicando la cripta in cui è tenuto
Vous n'exigez sans doute pas que je crie Liberté, Egalité, Fraternité? Ceci est une ancienne
chambre de ma maison; jadis les seigneurs y mettaient les manants; maintenant les manants y
[trad. it. «Spero che non pretendiate ch'io urli Libertà, Eguaglianza, Fraternità? Questa è una
vecchia stanza della mia casa; un tempo, i signori vi rinchiudevano la canaglia; oggi, la canaglia
vi rinchiude i gentiluomini»]
La divisione della società in classi è considerata da Lantenac come un dato naturale, il cui
raffinata élite aristocratica della quale anche il nipote fa parte, compiuta per mano di criminali e
briganti cammuffati da filantropi. Egli accusa Voltaire e Rousseau come responsabili del pensiero
criminale, in una genealogia che da Voltaire conduce a Marat: «Tant qu'il y aura des Arouet, il y
aura des Marat» . «I libri creano delitti» continua Lantenac, per il quale gli unici diritti che contano
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sono i diritti del sangue, l'eredità degli antenati. Il diritto invocato dalla Rivoluzione per il marchese
equivale al regicidio e al deicidio ed egli non può accettare che il nipote, discendente delle più
nobili famiglie della Bretagna, si sia schierato con coloro che per Lantenac sono degli assassini e
dei miserabili, artefici della decadenza della società. Il marchese chiama Gauvain, con disprezzo,
"citoyen" e accusa i rivoluzionari di avere sconvolto una società ben ordinata e i suoi valori, di voler
distruggere le grandezze antiche e di voler cancellare gli eroi in nome dei cosiddetti "uomini nuovi".
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incarnano in Cimourdain. La sua volontà granitica, sorda al mutare degli eventi, resiste a qualsiasi
incrinatura e deviazione dal sentiero preordinato. L'ex-sacerdote è la figura che incarna la "forza di
legge", il valore supremo degli atti statuali espressi dalle assemblee rappresentative del Popolo e la
loro applicazione anche a quei decreti che non sono formalmente leggi, ma che nello stato
d'eccezione prendono una forza analoga. Per giustificare le misure rivoluzionarie, nei suoi discorsi
alla Convenzione Robespierre dichiarava: “Citoyens [...] vous confondez encore la situation d'un
peuple en révolution avec celle d'un peuple dont il gouvernement est affermi». Come ricorda
Giorgio Agamben, la «"forza-di-legge" fluttua come un elemento indeterminato, che può essere
rivendicato tanto dall'autorità statuale (che agisca come dittatura commissaria) che da
Al momento del processo, «Arbitro e giudice nello stesso tempo», presidente della corte
marziale – composta da lui stesso, il capitano Guechamps e il sergente Radoub – Cimourdain siede
al centro del tribunale davanti a un fascio di bandiere tricolori, con davanti sul tavolo un
bastoncino di cera rossa, il sigillo della repubblica, e ai lati la dichiarazione di “fuori legge” e il
«immobile come lo può essere un uomo fulminato. Non poteva più respirare. Grosse gocce di
sudore gli imperlavano la fronte» (696-697). Da quel momento in poi, Cimourdain sceglie di
coincidere totalmente con il suo ruolo e sceglie la via della disumanizzazione: si sigilla e diventa un
macigno, la cui superficie è immune da crepe o incrinature. Dal tu passa al voi e riserva a Gauvain
la procedura consueta della condanna capitale: l'interrogatorio tra le sciabole. Gauvain rinuncia
necessaria per salvare l'onore. Al momento del voto, il capitano Guechamp pone la legge al di
sopra di tutto: nel dichiarare che la pietà di Gauvain ha messo in pericolo la patria, vota la sua
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morte; Radoub salutando militarmente il capitano nega lo statuto di condannato e offre la sua vita
in cambio; per il sergente, il gesto di Gauvain non è altro che un'ulteriore conferma della sua
cura e umanità, il discorso di Radoub va alla sostanza delle cose: nel ricordare alla corte il disonore
che avrebbe ricoperto il battaglione del Berretto rosso qualora si fosse reso colpevole della morte
Est-ce que c'est ça qu'on voulait? Alors mangeons-nous les uns les autres. Je me connais en
politique aussi bien que vous qui êtes là, j'étais du club de la section des Piques. Sapristi! nous nous
abrutissons à la fin! Je résume ma façon de voir. Je n'aime pas les choses qui ont l'inconvénient de
[Trad. it. «Si voleva ottenere questo risultato? Allora, divoriamoci a vicenda. Io me ne
intendo di politica, come voi. Appartenevo alla sezione delle Picche. Alla malora! noi ci stiamo
abbrutendo! Voglio riassumervi il mio punto di vista. Io non amo le cose che hanno l'inconveniente
Cimourdain, ormai indurito, vota e condanna Gauvain alla pena di morte. Il suo volto,
contratto da un'orribile smorfia, testimonia per un momento la lacerazione causata nell'animo dal
trionfo dell'applicazione della legge e dallo sconquasso della distruzione dell'umano. L'ex-prete
non obbedisce che alla propria coscienza, “un imperativo misterioso noto a lui solo”. Egli
rappresenta la volontà, una e monolitica, non negoziabile e dotata di pieni poteri: dietro di lui si
Cimourdain incarna la virtù repubblicana, la ragione spogliata dal desiderio, che per il
rispetto delle leggi e della patria pretende la rinuncia a se stessi e il sacrificio dei propri più cari
interessi. Da buon giacobino, la sua morale è quella degli stoici: l'etica è interpretata nell'orizzonte
Se nella finzione, Cimourdain avesse risposto all'accorato appello di Radoub, che ricordava
quanto la Repubblica fosse debitrice verso Gauvain, sicuramente la risposta avrebbe ricalcato la
retorica del discorso di Robespierre dell'11 Germinale dell'anno II (31 marzo 1794), quando,
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all'indomani dell'arresto di Danton e Desmoulins, Robespierre affermò che quello che essi avevano
fatto per la Francia e la Rivoluzione non aveva più importanza. In questa visione, il popolo e la
rivoluzione sono un assoluto di fronte al quale il singolo perde di importanza. Nel Novantatré, di
fronte alla scelta tra la violenza della legge rivoluzionaria, che pone come priorità assoluta la tutela
della Repubblica e il futuro della Francia, e l'amore per il suo figlio spirituale, Cimourdain proclama
il destino di Gauvain: la ghigliottina. Egli ignora l'accorato appello all'umanità e alla ragionevolezza
di Radoub e fa pesare il suo voto determinando l'applicazione del decreto della Convenzione:
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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4. Il dialogo
Su un piano formale, un elemento fondamentale del romanzo è costituito dal dialogo, non
a caso strumento costitutivo anche della tragedia e dei testi drammaturgici in generale. E’ nota,
L’umanità di Cimourdain emerge nel corso della sua visita notturna a Gauvain, quando,
entrato nella cripta lo osserva dormire con sguardo materno e, travolto dal sentimento ispiratogli
dalla vista dell'eroe che dorme il sonno del giusto, si porta le mani sugli occhi. Svegliatosi, Gauvain
chiama Cimourdain "Maestro" e il "tu" ritorna tra loro: l'intimità della cripta ospita il profondo legame
che lega i due, il padre-maestro e il figlio-allievo. In questi brani, l'incedere della narrazione,
scandita dai gesti (la divisione del pane) e dai dialoghi, ricalca i momenti della liturgia evangelica.
Gauvain legge la realtà in divenire e il dilagare della violenza in una prospettiva a lungo
Les grandes choses s'ébauchent. Ce que la révolution fait en ce moment est mystérieux.
Derrière l'oeuvre visible il y a l'œuvre invisible. L'une cache l'autre. L'œuvre visible est farouche,
l'oeuvre invisible est sublime. En cet instant je distingue tout très nettement. C'est étrange et beau. Il
a bien fallu se servir des matériaux du passé. De là cet extraordinaire 93. Sous un échafaudage de
[trad. it. «Le grandi cose prendono forma. Misterioso è ciò che in questo momento fa la
Rivoluzione. Dietro l'ʹopera visibile, sta l'ʹopera invisibile. Una cela l'ʹaltra. L'ʹopera visibile è feroce,
l'ʹinvisibile è sublime. In questo momento vedo tutto con estrema chiarezza. È strano e bello. È stato
indispensabile servirsi dei materiali del passato. Ne è derivato questo straordinario Novantatré.
quale nascerà il definitivo, «la repubblica dell'assoluto: diritti e doveri paralleli, imposta
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disopra di tutto e di tutti la legge». Qui la visione di Gauvain diverge da quella del suo maestro: il
giovane mira alla Repubblica dell'ideale, governata dall'amore e tenuta insieme dall'armonia: «Au-
dessus de la balance il y a la lyre. Votre république dose, mesure et règle l'homme; la mienne
l'emporte en plein azur; c'est la différence qu'il y a entre un théorème et un aigle». [Trad. it. «Più in
alto della bilancia, sta la lira. La vostra repubblica vuol dosare, misurare regolare; la mia vuol
reciproci rimproveri che i due personaggi si rivolgono, uno alla ricerca dell'uomo euclideo, l'altro
dell'uomo creato da Omero. Cimourdain mira alla distribuzione dei beni, Gauvain fa un passo oltre
e aspira «alle infinite concessioni reciproche che ciascuno deve fare a tutti e tutti a ciascuno» e
che costituiscono il «vero fondamento della vita sociale». Per l'ex-prete «nulla esiste, all'infuori del
Il giovane oltrepassa con la mente gli obiettivi nell'agenda della guerra per contemplare un
mondo possibile che vede l'abolizione della guerra, la scienza applicata ai bisogni dell'umanità, la
condizione della donna pari per diritti a quella dell'uomo nel rispetto della differenza, in una visione
nella quale Dio è in ogni cosa. I concetti di possibile e impossibile marcano i diversi sentieri percorsi
– Pas toujours. Si l'on rudoie l'utopie, on la tue. Rien n'est plus sans défense que l'œuf.
– Il faut pourtant saisir l'utopie, lui imposer le joug du réel, et l'encadrer dans le fait. L'idée
abstraite doit se transformer en idée concrète; ce qu'elle perd en beauté, elle le regagne en utilité;
elle est moindre, mais meilleure. Il faut que le droit entre dans la loi; et, quand le droit s'est fait loi, il
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– Il faut le prendre.
– Vivant.
[Trad. it:
“Non sempre. Se si bistratta l'ʹutopia, la si uccide. Nulla v'ʹè di più indifeso dell'ʹuovo.”
“Ma l'ʹutopia va imbrigliata, bisogna imporle il giogo del reale e inserirla nella concretezza.
L'ʹidea astratta deve trasformarsi in realtà; quando essa perde in bellezza, lo guadagna in utilità; è
inferiore, ma migliore. Bisogna che il diritto compenetri la legge; e, fattosi legge, il diritto è assoluto.
“Bisogna catturarlo.”
“Ma vivo”»]
La tensione utopica del giovane e il volo della mente verso un mondo governato
dall'armonia e dall'amore danno corpo a un concetto di "possibile" che travalica l'orizzonte politico
abbracciato dalla morale rivoluzionaria. Cimourdain sostiene la necessità di incanalare l'utopia nel
"giogo della realtà" e di rendere concreta un'idea astratta, pur al prezzo di rimpicciolirla, e
soprattutto di trasformare il diritto in legge, affinché si riveli assoluto. Gauvain afferma che "ogni
secolo compirà la sua opera, oggi di civismo, domani di umanità"; approva il corso degli eventi
perché ritiene che la condizione attuale sia quella della tempesta e afferma: «Per una quercia
fulminata, intere foreste sono risanate [...] La civilizzazione era malata, questo vento impetuoso
irresistibile la guarisce [...] io capisco la violenza del vento che spazza via ogni cosa». Attraverso la
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metafora della natura è affrontata la questione del Terrore, che Gauvain comprende nel divenire
Di fronte all'impeto e alla passione che Gauvain esprime nel suo argomentare, Cimourdain
si ritrova spesso, nonostante le obiezioni e la fermezza del suo punto di vista, in una posizione di
ascolto. La costruzione di un mondo possibile basato sull'amore, sulla libertà e sulla coscienza
domina il discorso di Gauvain fino all'alba, fin quando alla domanda di Cimourdain sull'oggetto dei
L'atmosfera liturgica della divisione del pane tra Gauvain e Cimourdain, l'incedere
evangelico del dialogo preannunciano il tema del sacrificio: l'alba del giorno dopo illumina sul
pianoro una costruzione in legno che non è la croce ma una ghigliottina. La descrizione si sofferma
sulla sua tecnologia rozza, grottesca ma al tempo stesso mostruosa, e il fronteggiarsi delle due
costruzioni, la Tourgue e la ghigliottina, simboli e dispositivi della violenza storica, crea un'antitesi
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Emanuela Piga Bruni - Personaggio e Rivoluzione: Novantatré di Victor Hugo
Bibliografia
Benjamin, Walter, "Per una critica della violenza", Angelus Novus, Torino,
Einaudi, 1995.
Hugo, Victor, Les Misérables (1862), trad. it. I miserabili, Torino, Einaudi, 2006.
1952, 2 voll.
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Emanuela Piga Bruni - Novantatré di Victor Hugo: una poetica dell’eccesso
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Indice
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Inizio questa lezione con una citazione di Umberto Eco, tratta dal suo saggio Poetica
dell’Eccesso:
È Hugo il più grande romanziere francese del suo secolo? Potremmo preferirgli, e con
buone ragioni, Stendhal, o Balzac, o Flaubert, ma poi si rilegge Novantatré e si è affascinati dal
potere dell’Eccesso.1
Nel suo Il romanzo storico (1957), György Lukács interpreta il romanzo di Victor Hugo Quatre-
vingt-treize, uscito nel 1874 e tradotto in Italia con il titolo Il Novantatré, come «il primo grande
poema storico in cui il nuovo spirito dell’umanesimo di protesta abbia cercato di dominare la storia
del passato» (1965: 352). In tempi più recenti, Umberto Eco vi legge l’intenzione di raccontare «non
la storia di quello che alcuni uomini hanno fatto bensì la storia di quello che la Storia ha costretto
quegli uomini a fare, indipendentemente dalla loro volontà, sovente minata dalla
contraddizione».2
Il vasto lavoro di documentazione storica è raccolto nel Reliquat (2002), dal quale emerge
l’interesse di Victor Hugo, personificazione dello scrittore engagé, per i protagonisti ufficiali della
Rivoluzione. Nella sezione Les dirigeants révolutionnaires sono studiati Danton, Marat e Robespierre,
ma anche Santerre, Hébert e altri, insieme agli usi, costumi e linguaggi del tempo. Come ha
evidenziato Guy Rosa (1975), a parte la sezione sulla Vandea, gli eventi storici sono disseminati
nell’opera come in un quadro (tableau); più che ordinati cronologicamente nell’intreccio, sono
frammenti sparsi che si offrono come pagine strappate da un libro, esattamente come fanno i
bambini del romanzo con il libro di San Bartolomeo 3. Lo studioso francese sottolinea come la Storia
non determini l’intreccio ma costituisca piuttosto il materiale per lo sviluppo dell’intreccio (intrigue),
dal bosco della Saudraie a Jersey, passando per Herbes-en-Pail fino a Parigi, prima di tornare in
1 Umberto Eco, “Poetica dell’eccesso. Victor Hugo, Novantatré, 1873”, Il Romanzo. Lezioni, Ed. Franco Moretti, Torino,
Einaudi, V, 2002.
2 U. Eco, cit.
3 Si veda della terza parte, En Vendée, il libro terzo, Le massacre de Saint Barthélemy.
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Vandea, alla presa di Dol e infine all’assedio della Tourgue. Se in Nôtre dame de Paris (1831) o nei
Misérables (1862) l’intreccio è interrotto da digressioni esplicite, e nei Travailleurs de la mer (1866) la
storia precede il romanzesco, qui c’è un unico narratore che fonde in un unico racconto le serie
degli eventi storici e degli eventi fittizi, avvalendosi delle stesse forme espressive 4.
4 Cfr. Ibid.
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Frutto della monumentale ricerca, la tecnica della verosimiglianza storica è unita nel
narrativa, la scena narrata in Le cabaret du Paon (À Paris, libro secondo), ha una funzione centrale
ricostruisce i dialoghi possibili dei protagonisti della Rivoluzione francese e mette in figura passioni,
sentimenti, discorsi che furono alla base degli avvenimenti. Dal punto di vista dell’ancoraggio
referenziale, Robespierre, Danton e Marat rinviano a quello che Philippe Hamon chiama il “grande
Testo dell’ideologia, dei cliché o della cultura” 5, in questo caso uno dei massimi eventi fondatori
della cultura occidentale, la Rivoluzione francese. Protagonisti ed eventi sono dati qui come
sottotesto dall’autore, che lascia al lettore la ricostruzione di quanto non viene raccontato.
Al pari di tanti drammaturghi dell’epoca, Victor Hugo partecipa agli allestimenti delle
scenografie delle sue pièce teatrali, come nel caso dell’Hernani o di Lucrèce Borge, e
quest’esperienza si riflette nella tendenza ecfrastica che connota nei suoi romanzi ritratti e
descrizioni ambientali. «Ogni descrizione letteraria è una vista» secondo Roland Barthes (1970), e
l’affermazione vale sicuramente per l’incipit del capitolo, la cui vividezza descrittiva richiama sia la
composizione figurativa di un oggetto dipinto sia la plasticità drammatica di una messa in scena
teatrale. In queste pagine la costruzione iconografica evoca i forti contrasti di un quadro a olio di
Caravaggio: sullo sfondo dell’oscurità della bettola, la luce della lampada illumina l’irradiarsi della
spiccano il pallore, i tic nervosi e la fredda eleganza di Robespierre, il colore sanguigno, l’eloquio e
il gesticolare acceso di Danton, in uno scontro titanico che viene moltiplicato dallo sguardo
5 Philippe Hamon, “Pour un statut sémiologique du personnage” (1972), tr. it. “Per uno statuto semiologico del personaggio”,
in Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Pratiche Parma 1977, p. 92.
6 Ritratto fisico individuale e ritratto morale. Su questo tema si veda di Pierluigi Pellini, La descrizione, Roma-Bari, Laterza,
1998.
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allucinato di Marat, idolo del popolo e termometro del sottosuolo parigino, l’uomo che vede già
tutto e che, in questo avvenire, vede già un Danton condannato a morte da Robespierre.
Alla descrizione della situazione, che mostra i tre disposti ognuno ai lati di un tavolo, segue
viso pallido, le labbra sottili, lo sguardo freddo di Robespierre si fondono con la descrizione del suo
abbigliamento, dallo sparato di pizzo pieghettato alle scarpe con fibbia di argento. A
la cui cravatta sfatta sul panciotto aperto accompagna il volto butterato segnato da passioni
violente e contrastanti. Alla contrapposizione speculare dei due segue la figura obliqua di Marat,
associata, nella rievocazione del colorito giallastro del volto, nella “bocca enorme e orrenda”,
un’intelligenza malsana e di una capacità di manipolazione vicina alla crudeltà (Hugo 1985, III:
872). La dialettica si gioca tra la minuzia della descrizione, l’atmosfera di realtà ottenuta grazie alla
concettuale e visiva l’immaginazione morale del tempo si incarna nella teatralizzazione dei
personaggi e nella struttura metaforica della prosa. Non a caso Peter Brooks individua le origini del
melodramma nel contesto della Rivoluzione francese e degli anni immediatamente successivi.
Interpretato come reazione alla perdita del concetto del Sacro, delle sue istituzioni (Chiesa e
popolare e, come afferma Charles Nodier, “arte democratica”7. Brooks sottolinea come fosse la
stessa lotta incessante della Rivoluzione contro i suoi nemici interni ed esterni – denunciati come
malvagi corruttori della moralità, da affrontare ed eliminare per garantire il trionfo della virtù – a
produrre il melodramma.
7Si veda Peter Brooks, The Melodramatic Imagination (1976); trad. it. L’immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche,
1986, p. 32.
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Emanuela Piga Bruni - Novantatré di Victor Hugo: una poetica dell’eccesso
Specularmente, con immaginazione melodrammatica, Hugo mette in scena nel dialogo tra
i tre rivoluzionari la dialettica del conflitto all’origine di quel grande melodramma storico. Ognuno
dei tre personaggi individua infatti in una cosa diversa il pericolo per la Repubblica.
Hugo costruisce la scena, vero e proprio dramma retorico impregnato di storia ed enargeia8:
– On l’extermine.
Et il reprit:
– Calmez-vous, dit une troisième voix, il est partout; et vous êtes perdus. (Hugo, Ibid.: 873)
8Dal greco antico, termine che indica vividezza e immediatezza espressiva, e che compare di frequente nei discorsi sulla
conoscenza storica e l’arte oratoria. Non a caso nel suo libro Vero, falso, finto, Carlo Ginzburg dopo alcune pagine
dedicate a questo concetto situato “ai confini tra storiografia e retorica” prosegue includendo nell’ambito semantico la
pittura, citando l’analogia di Platone del discorso come rappresentazione di una figura viva. Si veda su questo tema, Carlo
Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 17-21.
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Emanuela Piga Bruni - Novantatré di Victor Hugo: una poetica dell’eccesso
«Sterminarlo.»
E ripigliò:
Il sorriso di Marat – “sorriso di nano” che fa svanire il “riso del colosso” (Danton) – prelude a
un intervento torrenziale scandito dalla reiterazione ossessiva della frase «ho denunciato»,
personaggi. È, questa, una delle tante declinazioni di quello che Umberto Eco ha chiamato
“l’Elenco immane”, considerato uno dei principali motori della poetica dell’Eccesso che
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popolari si unisce alla profonda consapevolezza di se stesso, come il personaggio non manca di
sottolineare: «J’ai l’habitude de dire la veille ce que vous autres vous dites le lendemain» (876) [«Ho
l’abitudine di dire la vigilia quel che voialtri direte il giorno dopo» (114)]. Nel corso del suo
monologo febbrile, Marat rivendica tutte le azioni commesse, in quanto funzionali alla sua
convinzione: «Le danger n’est ni à Londres, comme le croit Robespierre, ni à Berlin, comme le croit
Danton; il est à Paris» (877) [«Il pericolo non sta né a Londra, come invece crede Robespierre, né a
Berlino, come invece crede Danton; sta a Parigi» (115)], annidato nel “cumulo di bische”, in quella
“massa di club”. La sua è una visione frutto di una percezione paranoica che vede cospirazioni
ovunque, sa tutto e sa leggere le future mosse dei suoi interlocutori. Tra le caratteristiche di Marat
che emergono dal dialogo figura anche l’attenta osservazione delle debolezze altrui:
Je suis l’œil énorme du peuple, et du fond de ma cave, je regarde. Oui, je vois, oui
j’entends, oui, je sais. Les petites choses vous suffisent. Vous vous admirez. Robespierre se fait
contempler par sa madame de Chalabre, la fille de ce marquis de Chalabre qui fit le whist avec
Louis XV le soir de l’éxécution de Damiens. Oui, on porte haut la tête. Saint-Just habite une cravate.
Legendre est correct; lévite neuve et gilet blanc, et un jabot pour faire oublier son tablier.
Robespierre s’imagine que l’histoire voudra savoir qu’il avait une redingote olive à la Constituante
et un habit bleu-ciel à la Convention. Il a son portrait sur tous les murs de sa chambre…(Ibid.: 879)
[Io sono l’occhio enorme del popolo e, dal fondo della mia caverna, sorveglio. Si, io vedo,
si, io odo, si, io so. Le piccole cose a voi bastano. Voi siete in ammirazione davanti a voi stessi.
che ha giocato a whist con Luigi XV la sera dell’esecuzione di Damiens. E che arie! Saint-Just abita
dentro una cravatta. Legendre è la correttezza in persona: prefettizia nuova e panciotto candido
e una gala per far dimenticare il grembiule d’un tempo. Robespierre si immagina che la storia
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pretenderà di sapere se aveva una finanziera color oliva alla Costituzione e un completo azzurro
cielo alla Convenzione. I muri della sua stanza sono tappezzati di ritratti… (119)]
Il confronto tra Marat e Robespierre cresce via via di intensità e attraversa questioni cruciali,
come la controversa commistione tra aristocratici e rivoluzionari; il facile rischio, dal quale nessuno
mistero:
– Tu as tort, Marat.
Tous se retournèrent. Pendant l’explosion de Marat, et sans qu’ils s’en fussent apercus,
[…]
– Il est de l’Évêché, repondit Marat d’une voix où l’on sentait on ne sait quelle soumission.
[Proprio in quella, una voce si levò dal fondo della sala, e la voce disse:
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Emanuela Piga Bruni - Novantatré di Victor Hugo: una poetica dell’eccesso
Tutti volsero il capo. Durante la tirata di Marat, senza che se ne avvedessero qualcuno era
[..]
Danton e Robespierre lo conoscevano. Avevano più volte notato, nelle tribune della
Convenzione riservate al pubblico, quell’uomo potente e oscuro, salutato con deferenza dal
«E’ del Vescovato » rispose per lui Marat con voce nella quale si avvertiva un vago tono di
sottomissione.
rappresentazione della loro fisionomia intellettuale (cfr. Lukács 1953), la descrizione dei tratti
individuali dei personaggi non manca di sfumare nell’ambito più astratto e retorico delle
considerazioni di carattere universale sul genere umano e la Storia. Per Peter Brooks, nel
personificare forze contrapposte e conflitti, i personaggi di Hugo si limitano alla emersione di forze
successivamente dai romanzieri di quello che è stato definito da Franco Moretti “il secolo serio”,
ovvero l’Ottocento (2001). Premesso che la sua analisi è rivolta ai drammi teatrali di Hugo,
rappresentati negli anni ‘30 del secolo, non possiamo non osservare come la volontà generale di
Robespierre e la sua lotta alla vandea, lo spirito rivoluzionario di Danton e la sua concentrazione sul
fronte bellico esterno, l'ossessione denunciataria, la paranoia complottista e lo spirito del popolo di
Marat pervadano completamente la fisionomia e l’essenza dei personaggi. Tali tratti individuali e
collettivi polarizzano integralmente la sfera intra homines del romanzo, quello spazio di relazione
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intersoggettivo definito da Guido Mazzoni “il paradigma ottocentesco” (2011) 10e che in Victor
Hugo è assolutamente centrale. Diceva Charles Nodier, «Attenzione a non sbagliare: non era cosa
da poco il melodramma: era la morale della Rivoluzione!» 11 Non per nulla i dialoghi dei tre
rivoluzionari, che sembrano svolgersi su un palco teatrale, attraverso le forme del melodrammatico
ci danno la temperatura della struttura del sentire dell’epoca, proiettandoci in quella dimensione
che Manzoni definisce dominio della poesia, passata sotto silenzio dalla storia 12.
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Emanuela Piga Bruni - Novantatré di Victor Hugo: una poetica dell’eccesso
Bibliografia
Id., L’effet de reel (1968); trad. it. “L’effetto di reale” (1968), Il brusio della
Pratiche, 1977.
"Bouquins", 2002.
Lukács, György, Der Historische Roman (1957); trad. it. Il romanzo storico,
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Emanuela Piga Bruni - Novantatré di Victor Hugo: una poetica dell’eccesso
Moretti, Franco, “Il secolo serio”, La cultura del romanzo, Ed. Franco Moretti,
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Emanuela Piga Bruni - L’ibridazione dei generi nel romanzo
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Emanuela Piga Bruni - L’ibridazione dei generi nel romanzo
Indice
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Emanuela Piga Bruni - L’ibridazione dei generi nel romanzo
1. Genere e modo
Campo vasto e articolato, caratterizzato da molteplici teorie, la riflessione sui generi letterari
affonda le sue radici nell’antichità, da Platone, passando per Aristotele, fino all’Estetica di Hegel.
teoria dei «modi d’invenzione» fondata, sulle differenze di levatura tra l’eroe e il lettore o
«Se superiore come tipo sia agli altri uomini che al loro ambiente, l’eroe è un essere divino e
la sua storia sarà un mito nella normale accezione di storia di un dio. Tali storie hanno un posto
importante nella letteratura, ma sono di regola al di fuori delle normali categorie letterarie».
«Se superiore in grado agli altri uomini ed al suo ambiente, l’eroe è il tipico eroe del
romance, le cui azioni sono meravigliose, ma che è un essere umano. Questo eroe si muove in un
mondo in cui le normali leggi di natura sono in certa misura sospese: prodigi di coraggio e di
resistenza, innaturali per noi, sono per lui naturali; e, una volta fissati i postulati del romance, armi
incantate, animali parlanti, streghe ed orchi terrificanti, talismani miracolosi non violano la legge di
probabilità. In questo caso passiamo dal mito propriamente detto alla leggenda, al racconto
popolare…».
«Se superiore in grado agli altri uomini, ma non al suo ambiente naturale, l’eroe è un capo.
Possiede autorità, passioni e capacità di espressione molto più grandi delle nostre, ma ciò che egli
fa è soggetto sia alla critica sociale “che all’ordine della natura. È l’eroe del modo alto-mimetico,
di gran parte dell’epica e della tragedia, ed è il tipo di eroe che interessa particolarmente
Aristotele».
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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«“Se non è superiore né agli altri uomini né al suo ambiente, l’eroe è uno come noi: siamo
sensibili alla sua comune umanità e chiediamo al poeta l’obbedienza agli stessi canoni di
probabilità che sono presenti nella nostra esperienza. È l’eroe del modo basso-mimetico tipico di
gran parte delle commedie e della narrativa realistica. «Alto» e «basso» non hanno le connotazioni
«Se inferiore a noi per forza o per intelligenza, così da darci l’impressione di osservare
dall’alto una scena di impedimento, frustrazione o assurdità, l’eroe appartiene al modo ironico.
Questo accade anche quando il lettore ha la sensazione di trovarsi o di potersi trovare nella stessa
situazione, giudicata però dal punto di vista di chi gode una maggiore libertà».
Ricorda come a volte un autore abbia trovato qualche difficoltà nell’usare a questo livello
la parola «eroe», che nei modi precedenti ha un significato più ristretto. Thackeray, per esempio, si
Nel contemporaneo, le distinzioni tra i generi si sono fatte più sfumate, rendendo difficile la
temi provenienti da numerosi generi, Guido Mazzoni, nel suo libro Teoria del romanzo, scrive: «Se il
primo tratto che definisce il romanzo nell’accezione moderna del termine è la forma narrativa, il
Per questo motivo ci soffermeremo sul concetto di modo, uno strumento più duttile e utile
per comprendere le caratteristiche stilistiche di un testo. Per questo tipo di analisi, è sempre utile
consultare gli studi del teorico della letteratura francese Gerard Genette, il quale ci spiega che:
possiamo narrare più o meno quel che narriamo, e narrarlo secondo vari punti di vista; la
nostra categoria del modo narrativo si riferisce precisamente a una simile capacità, e alle
suoi gradi; il racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno
diretta, e sembrare così (per riprendere una metafora spaziale corrente e pratica, a condizione di
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non prenderla alla lettera) a più o meno grande distanza da quel che esso racconta; può anche
scegliere di dosare l'informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro
uniforme, ma a seconda delle capacità di conoscenza del « punto di vista» che ha deciso di
adottare.
dell'informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la nostra visione di un quadro
dipende, per la precisione, dalla distanza che ci separa da esso, e per l'estensione, dalla nostra
posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da schermo.
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2. Il modo romanzesco
Per questo paragrafo ci affideremo allo studio sul romanzesco compiuto da Paolo Zanotti.2
Dal punto di vista letterario, scrive, romanzesca è un’opera con un intreccio ricco di colpi di scena
cavallereschi, in quanto scritti romanice, vale a dire non in latino ma in una delle lingue derivate
dal latino sul territorio dell’ex impero romano). All’inverosimiglianza di intreccio tipica dei romanzi
interiorizzato: ‘romanzesco’ si identifica quasi con ‘romantico’ (i due aggettivi hanno forti legami),
e allora ‘romanzesco’ vuol dire anche sentimentale, passionale, sognante, suggestivo, misterioso,
pittoresco. In queste accezioni, ‘romanzesco’ cessa di riferirsi propriamente alle opere letterarie ma
diventa più che altro l’indicazione di un’atmosfera o anche di un tipo umano: il sognatore,
l’idealista. Don Chisciotte diventa il grande mito romantico del sognatore incompreso dal mondo.
una serie “di caratteristiche che non si trovano nel genere letterario che è diventato l’accezione
principale del termine ‘romanzo’: il grande romanzo ottocentesco di Manzoni e Verga, Balzac e
Il fatto che nel termine ‘romanzo’ possano essere individuati due generi distinti diventa più
immediatamente comprensibile se si passa alla lingua inglese, dove in effetti esistono per indicare il
romanzo i due termini novel e romance, il primo per indicare il romanzo realistico, il secondo quello
irrealistico.
cavalleresche in versi scritte in quella lingua (anche nell’italiano del Cinquecento ‘romanzo’
significava ‘poema cavalleresco’), poi per estensione (e questa è una definizione soprattutto
settecentesca, quando il concetto di romance si chiarisce a causa del confronto con la nascente
tradizione del novel) una narrazione in prosa che racconta fatti lontani dalla vita ordinaria, o
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perché meravigliosi o perché appartenenti a un universo sociale lontano da quello del lettore
(storie di nobili, storie esotiche). Al limite, romance può indicare semplicemente una storia d’amore
Un prevalere del ‘modo romanzesco’ nel testo farà gravitare un determinato romanzo
nell’ambito del romance. Come spiega Zanotti, «il romance non è un genere letterario codificato
come l’epica o la tragedia; al limite può comprendere al suo interno dei generi particolari, come il
romanzo cortese, o dei sottogeneri del romanzo ottocentesco, come il romanzo di cappa e
spada. Il romance è piuttosto quello che si può definire un modo, cioè una serie di costanti
diversi».
Zanotti ricorda come il dibattito critico su novel e romance inizi in Inghilterra proprio nella
seconda metà del Settecento. Si può leggere nel primo testo importante sull’argomento, The
Progress of Romance, 1785 (Il percorso del ‘romance’) di Clara Reeve (1729-1807), lei stessa
Romance è una favola eroica, che tratta di persone e di cose favolose; novel è una
linguaggio elevato e nobile, ciò che non è mai successo, né probabilmente succederà mai.
probabilmente non sono mai esistiti. Scott, nei suoi romanzi, tentò di conciliare le dimensioni di
novel e romance.
Un classico esempio di romance è “Il castello di Otranto (The Castle of Otranto, 1764), il
primo esempio di un genere, il ‘romanzo gotico’, che, con le sue storie di castelli, meraviglie,
persecuzioni e spettri avrebbe avuto larga fortuna tra i due secoli. Il libro si presenta come una
compimento di una maledizione che grava sul protagonista, Manfred. Come rileva Zanotti,
nonostante i difetti narrativi di Walpole, tutti gli elementi tipici del gotico sono già presenti: l’eroe
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satanico, la fanciulla perseguitata, il castello misterioso e labirintico, ingombro di ritratti dei signori
passati che, in qualche modo, sembrano indirizzare il corso dei vivi. Osserva anche come la ripresa
romanzesca di Walpole si attui soprattutto tramite soluzioni teatrali: la maggior parte del romanzo è
Il primo romanzo di Scott, Waverley (1814), appartiene al genere del romanzo storico, ma
come avviene in altri casi, il romanzo unisce descrizioni realistiche a scene ascrivibili al romance.
Nel riassumere la trama, Zanotti ricorda come Waverley derivi dal nome del protagonista, Edward
Waverley, un giovane inglese romantico (lettore di poemi cavallereschi), che entra nell’esercito e
va in Scozia. «Qui viene affascinato dalle tradizioni scozzesi, oltre che da Rose (una ragazza
abbastanza borghese) e Flora (più complessa e infiammata dall’antica poesia celtica). Waverley
finisce per unirsi all’esercito scozzese nella rivolta giacobita del 1745. Si tratta di una causa persa,
ma, avendo salvato un ufficiale inglese nella battaglia decisiva, Waverley viene graziato. E sposa
Rose. Il romance, dunque, viene confinato a una precisa età dell’uomo (la giovinezza), a un
preciso periodo storico (il passato, le società tradizionali) e a un preciso luogo (la Scozia, dove il
Un altro romanzo storico, in cui si possono rilevare stilemi del romanzo gotico e il nostro I
Partito dai romanzi di Scott, anche Manzoni ambienta il suo romanzo nel passato sulla base
di un’accurata indagine storica. La Storia serve a contenere gli eccessi del romanzesco. L’altro
punto di riferimento che Manzoni, nel periodo in cui scrive, non poteva eludere è quello della
narrativa gotica. Facendo riferimento al Castello di Otranto di Walpole, si può notare come
l’Innominato, nella sua livida grandezza iniziale, sia uno dei discendenti letterari di Manfred:
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore
dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai
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Uscito a puntate sul «Journal des Débats» tra il 1844 e il 1846, il romanzo «è uno di quei
famigerati e lunghissimi romanzi d’appendice che tenevano in sospeso vari strati di pubblico da
una settimana all’altra. La trama del Montecristo, molto varia in superficie, è in qualche modo
lineare, perché tutto può essere ricondotto a un singolo motivo: la vendetta del conte. Edmond
Dantès, giovane e promettente marinaio marsigliese, viene fatto imprigionare sotto false accuse
da amici invidiosi, e questo proprio nel giorno delle sue nozze con la bella catalana Mercedes. Il
romanzo è spesso citato per la ricorrenza di un topos classico: l’agnizione, ovvero il riconoscimento
trama.
«Ma insomma, che cosa ti ho fatto? – gridò Villefort, la cui mente cominciava a non
distinguere tra ragione e demenza, in una nebbia che non è più sogno e non è ancora risveglio, –
«Mi avete condannato a una morte lenta e orribile, avete ucciso mio padre, mi avete tolto
“Sono lo spettro di uno sventurato che avete sepolto nelle segrete del castello d’If. A
questo spettro, finalmente uscito dalla sua tomba, Dio ha messo la maschera del conte di
Come spiega Zanotti, «La società in cui si muove Montecristo è dunque organizzata
secondo criteri melodrammatici: buoni e cattivi. Edmond Dantès è inoltre un eroe pienamente
consapevole, privo delle incertezze e delle ingenuità di Waverley o Renzo. O almeno lo è nella
seconda parte. Nella prima è un ragazzino ingenuo, nella seconda è invece coltissimo e
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intelligentissimo e si muove con piena consapevolezza nelle miserie della società della
Che tipo di personaggio è dunque l’Edmond Dantès della seconda parte? Ha alcuni tratti
Ma è soprattutto quello che è stato definito un «superuomo di massa», vale a dire un personaggio
eccezionale (tipico del romanzo d’appendice “che ripara i torti della società per iniziativa
superuomo particolarmente ‘sociale’, ma si può osservare che i personaggi contro cui deve
compiere le sue vendette sono dei ricchi che si son fatti strada con il tradimento e la disonestà. La
prima parte del Montecristo, in quest’ottica, non ha dunque altra funzione che quella di fornire un
pretesto a quanto segue: dà al conte la macchia oscura dell’eroe romantico e il mandato del
punitore. Il «superuomo di massa» è insomma la proiezione all’interno del testo del principio
consolatorio della narrazione. Di più: è una nuova forma di razionalizzazione delle forze
meravigliose che reggono il romance: in mancanza della fiducia nella magia, una specie di
superuomo dirige i destini degli uomini in un modo che a loro sembra ‘magico’.
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Quasi un secolo dopo l’evento, il romanzo di Victor Hugo sulla Rivoluzione francese è un
una prospettiva di lunga durata che vede l’evento ancora in corso nelle sue diramazioni che
portano agli eventi sanguinosi della Comune, e ancora lacerato dalla tensione utopica e dal
Nell’indifferenziazione formale del trattamento del referente, che fa sì che il reale entri
La frattura tra utopia e storia si riflette nella forza drammatica della scrittura di Hugo, che nel
rendere la dismisura dell’epoca, – e qui mi servo delle parole di Peter Brooks a proposito del modo
melodrammatico – forza «le possibilità intrinseche del significante, e a sua volta lo rende smisurato,
sproporzionato, sempre teso a raggiungere un senso che gli sfugge» (1976). Lo sforzo dell’arte
melodrammatica di far emergere nel modo più netto possibile forze latenti e abissi del significato
(ibid.), si combina qui con quel lavoro sul linguaggio praticato dall’arte realista, volto a illuminare i
pensieri e i sentimenti essenziali impliciti nelle aspirazioni umane, saldando espressione personale e
Come scrive Peter Brooks, il modo melodrammatico forza «le possibilità intrinseche del
significante, e a sua volta lo rende smisurato, sproporzionato, sempre teso a raggiungere un senso
Lo sforzo dell’arte melodrammatica di far emergere nel modo più netto possibile forze
latenti e abissi del significato (ibid.), si combina qui con quel lavoro sul linguaggio praticato
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dall’arte realista, volto a illuminare i pensieri e i sentimenti essenziali impliciti nelle aspirazioni umane,
Nel Novantatré, nella collisione delle forze opposte incarnate dai personaggi risiede la forza
drammatica del romanzo – mentre il dialogo della cripta, il vagare nel vuoto dello sguardo di
Gauvain nel tentativo di intravedere il futuro, rappresenta l’interrogazione stessa sull’essenza del
Per questo Quatrevingt-treize è una grande riflessione filosofica, oltre che letteraria, sulla
Rivoluzione, in cui la filosofia ritrova se stessa nella tragedia e ripristina il legame con la storia.
Passaggio messo in figura in Gauvain, che dalle caratteristiche solari di eroe epico, passa
attraverso la scissione e nel confronto con il negativo diviene eroe che pensa, eroe intellettuale.
e determinano la tragica paradossalità della sorte dell’eroe. In quello stato di eccezione che è lo
spazio del pianoro antistante alla Tourgue, per mano della forza di legge incarnata in Cimourdain,
Gauvain è giustiziato in nome di quel futuro che augura a tutti gli uomini. Il romanzo si chiude, ma
la contraddizione resta, così come la struttura enigmatica dell’esperienza, che contiene la forza
Sia il pensiero dialettico di Gauvain, personificazione del tragico in quanto dialettica, che il
concludersi della trama, nell’insuperabilità dell’antitesi tra assoluto umano e assoluto rivoluzionario,
rispecchiano quella legge formale dell’annientamento e della salvezza insita nel rovesciamento
degli opposti che Peter Szondi vede come costituiva del tragico (1961).
Victor Hugo si immerge in quell’éclectisme littéraire che Balzac, riferendosi a Walter Scott,
individua nel romanzo storico, l’unico che possa «produrre una rappresentazione del mondo come
In realtà Balzac riteneva Victor Hugo come «il più eminente talento della Letteratura delle
Immagini» (339), ma quegli elementi che egli attribuiva all’éclectisme littéraire, ossia «l’introduzione
5Honoré de Balzac, Études sur M. Beyle (1840); trad. it. Studi su Beyle, Poetica del romanzo. Prefazioni e altri scritti teorici,
Milano, Sansoni, 2000. Va detto che la riflessione di Balzac, contenuta nel saggio Études sur M. Beyle, è del 1840, per cui di
gran lunga antecedente alla pubblicazione del romanzo storico di Victor Hugo (1873).
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - L’ibridazione dei generi nel romanzo
dell’elemento drammatico, dell’immagine, del quadro, della descrizione, del dialogo» da lui
ritenuti indispensabili nella moderna letteratura sono tutti presenti nella struttura monumentale di
342)
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Emanuela Piga Bruni - L’ibridazione dei generi nel romanzo
Bibliografia
de Balzac, Honoré, Études sur M. Beyle (1840); trad. it. Studi su Beyle, Poetica
Montecristo.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
realista, sebbene in molti casi, come quello di Balzac e Dickens, i due modelli convivessero nelle
“Nozione che varia da cultura a cultura”, il realismo è un concetto dai contorni multipli ed
evanescenti, caratterizzato da una storia che affonda le sue radici nella filosofia scolastica (Bertoni
2007). Alla fine del Settecento, saranno F. Schiller e F. Schlegel a utilizzare il termine in ambito
artistico, facendo riferimento agli “scrittori realisti”, ancora in un’accezione vaga che troverà
Termine ad alta circolazione […] il destino del realismo è quello di non morire, di rigenerarsi,
di sopravvivere alle insofferenze di critici e scrittori per risorgere a nuova vita: è il destino di chi è
stato innalzato, lusingato, brandito come un’arma contro il vecchio, poi a sua volta disprezzato e
combattuto in nome del nuovo; e capace, a ogni passaggio, di riapparire in forme camaleontiche
In questa lezione ci soffermeremo su alcuni tratti tipici del realismo, sia a livello tematico,
come la rappresentazione “seria” della vita quotidiana (caratteristica principe individuata da Erich
Auerbach, 1946) e delle “grandi forze sociali” e “basi economiche dello sviluppo storico” (Lukács
1970: 60), sia a livello stilistico, con l’osservazione di forme testuali caratterizzate da una pienezza
descrittiva volta a procurare “l’effetto di reale, fondamento di quel verosimile inconfessato che
costituisce l’estetica di tutte le opere correnti della modernità” (Barthes 1988: 158). Secondo
Lukács, la “peculiarità dell’antico, grande realismo, del realismo di Diderot e di Balzac” è una
“forma d’espressione che trascende la vita quotidiana”, che nel suo essere “socialmente e per il
suo contenuto sempre conforme alla realtà” (1970: 186) è in grado di rappresentare i caratteri
umanamente e socialmente “tipici” (ivi, 60). Per “grande romanzo realista”, si intende qui un
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
fenomeno storicamente determinato, circoscrivibile tra gli anni Trenta e gli anni Novanta
dell’Ottocento, divenuto in seguito “la pietra di paragone per stabilire il ‘grado di realismo’ delle
La struttura della serialità affonda le sue radici nelle antiche tradizioni orali e nelle saghe
medievali (Dionne 2008), e si sviluppa in senso moderno con i processi di industrializzazione che
coinvolgono l’occidente a partire dal diciannovesimo secolo. Charles Dickens era un grande
comunicatore e divulgatore della sua opera, le sue letture pubbliche erano dei veri e propri eventi
di massa. Si può dire che in un certo senso lo scrittore sia stato un precursore del worldwide
puntate nell’inserto del settimanale Harper’s Weekly e illustrata da John McLenan, precedette di
una settimana la pubblicazione inglese, mentre l’edizione in volume uscì per la prima volta in
Figura 1
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
Figura 2
I meccanismi della serialità riguardano anche la distribuzione dei grandi romanzi realisti. Ci si
riferisce a quei romanzi che costituiscono tutt’oggi i capolavori del genere, come La fiera della
vanità (Vanity Fair) di W.M. Thackeray (1847-1848), Madame Bovary di Flaubert (1856), Grandi
speranze (Great Expectations) di Charles Dickens (1860-61), Middlemarch di George Eliot (1871-72),
Ritratto di signora (The Portrait of a Lady) di Henry James (1880-81), per citarne qualcuno tra i più
noti. Romanzi oggi chiamati “classici” ma che al tempo uscivano a puntate per ragioni di
distribuzione e di struttura industriale. Gli inserti settimanali o mensili andavano infine a comporre i
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Oltre ai finali costruiti sul twist, propri dei romanzi a dominante popolare, la serialità narrativa
un basso livello di suspense e un alto tasso descrittivo. Con queste caratteristiche si presenta il
primo feuilleton francese pubblicato in Francia da Émile de Girardin, La Vieille fille di Balzac. L’anno
è il 1836, lo stesso che vede la pubblicazione, aldilà della Manica, del primo romanzo a puntate di
Prima puntata della Vieille Fille di Honoré de Balzac, La Presse, 23 ottobre 1836.
come il brano in questione si concluda con la visita di Suzanne al cavaliere de Valois. Si tratta di un
dunque. Se confrontiamo il testo con l’edizione pubblicata in volume l’anno seguente (1837),
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possiamo riscontrare che, a differenza della versione a puntate, il brano è disposto in un punto
intermedio del racconto che non corrisponde al finale del capitolo (sinistra dell’immagine).
Confronto tra il finale di puntata della Vieille fille pubblicato sul quotidiano «La Presse» (1836)
Questo perché scrittori come Balzac e George Eliot non miravano a conquistare il lettore
con il ritmo dilatorio della suspence; il loro intento era differente e comportava una differenza di
ritmo. Anziché trascinare il lettore nel vortice dell’intreccio essi miravano ad immergerlo
dall’abbondanza di dettagli, in cui occorre muoversi a passo lento. Nel suo studio sul teatro, una
sfera largamente influenzata nell’Ottocento prima dal realismo e poi dal naturalismo, Èmile Zola
scriveva:
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conducano via via ad una conclusione finale, si prende semplicemente nella vita la storia di un
processo verbale e niente altro; non ha che il pregio dell’osservazione esatta, della penetrazione
più o meno profonda, dell’analisi, del collegamento logico dei fatti”. (Zola 1881)
collocazione socio-economica dei personaggi al loro profilo psicologico, dai costumi ad arredi,
scenari urbani e paesaggi, senza tralasciare l’affresco storico e i grandi movimenti sociali, politici e
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
Tutte caratteristiche presenti in quel sottogenere del romanzo realista ottocentesco che è il
Bildungsroman, il romanzo di formazione, dalla sua forma ascendente rappresentata dal Wilhelm
Meister di Goethe (1795-96), con la sua sintesi perfetta tra la spinta all’autodeterminazione e le
esigenze della socializzazione (cfr. Moretti 1987), all’incrinatura di quella dialettica con le figure di
Julien Sorel (Le Rouge et le noir, tr. It. Il rosso e il nero, 1830), Lucien de Rubempré (Le Illusions
perdues, tr. it. Le illusioni perdute, 1837-43) o Maggie Tulliver (The Mill on the Floss, tr. it. Il mulino sulla
Floss, 1861), fino alla dissoluzione di questa circolarità con l’avvento del romanzo novecentesco e
faceva ponendo al centro simbolicamente la gioventù, “concreto segno sensibile della nuova
epoca”, alla ricerca di un senso nel futuro anziché nel passato. Come ha spiegato Hegel nella sua
Estetica (1838), la “prosa della vita reale”, con il suo conflitto tra pulsioni soggettive e pressioni
sociali, è stato l’oggetto della rappresentazione del grande realismo, da Honoré de Balzac a
Charles Dickens.
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metropoli. Con Grandi speranze Dickens intendeva raffigurare, insieme alle vicende di Pip, i molti
mobilità sociale, lo sviluppo della ferrovia, le riforme giuridiche nel codice penale, il miglioramento
dell'istruzione. Eventi che non rimangono sullo sfondo, ma che entrano nella vita delle persone
maschera sociale che si istituì con l’avvento della società industriale in Gran Bretagna. Esemplare
in questo senso Wemming, personaggio di Grandi speranze, il quale nella sua abitazione a
Walsworth, sobborgo residenziale nella periferia londinese, rivela a Pip un'esistenza morale
sconosciuta al suo principale, l’avvocato Jaggers. Nel quotidiano pendolarismo che segna la
separazione tra sfera privata e sfera pubblica – dai luoghi oscuri dell’East End, passando per la
frenesia della vita professionale nella City, fino alla tranquillità di Walsworth – risiede difatti uno dei
Dalle pagine che illustrano la campagna inglese e le rive del fiume Floss intorno al Mulino
Darcote (Eliot 1861), alla minuziosa descrizione di quell’”edificio slavato, freddo, silenzioso” che è
casa Grandet, con il suo “orologio da muro di rame”, “la cappa del camino in pietra bianca, mal
cura del dettaglio si riflette nella descrizione dei vestiti, dal “gilè di velluto a righe color giallo e
pulce, abbottonato fino al collo”, l’ampia “giubba marrone a falde larghe” e il cappello da
quacchero di M. Grandet (ibidem), fino ai particolari dei raffinati e sofisticati abiti parigini di Lucien
de Rubempré, con i loro tagli, tessuti, colori e accessori (Le illusioni perdute, 1837-43).
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
Uno dei tratti che accomunavano gli esponenti del realismo ottocentesco era il
dettaglio trascurabile della borsetta durante il suicidio di Anna Karenina” (Bertoni 2007: 29).
L’assenza del cliffhanger nei finali di puntata si può leggere come una conseguenza della
prevalenza del modo realista anziché di quello melodrammatico, proprio del romanzo popolare
alla Eugène Sue o Alexandre Dumas, in cui è la creatività dell’intreccio e dei colpi di scena a farla
da padrone.
Con i romanzi di George Eliot o Henry James, il lettore non si limita a seguire passivamente la
personaggi dal significato problematico. La possibilità di entrare con maggior profondità e lentezza
nel tessuto di personaggi e relazioni è una delle peculiarità data da questo genere, caratterizzato
dall’introspezione psicologica e dal racconto dell’evoluzione dei personaggi, descritti nelle loro
determinazioni sociali.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
Bibliografia
it. L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Torino, Einaudi, 2000.
Bertoni, F., Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi. 2007.
Honoré de Balzac, H., Eugènie Grandet (1833); trad. it. Milano, Garzanti,
2011.
Id. La Vieille fille (1836); trad. it. a cura di P. Pellini, La signorina Cormon,
Id., Illusions perdues (1837-43); trad. it. Illusioni perdute, Milano, Garzanti, 1982.
Dickens, C., The Pickwick Papers (1836); trad. it. Il circolo Pickwick, Milano,
Adelphi, 1961.
Id., Great Expectations (1860-61); trad. it. Grandi speranze, Torino, Einaudi,
1998.
Bompiani, 1971.
Eliot, G., The Mill on the Floss (1861); trad. it. Il mulino sulla Floss, Milano,
Mondadori 1980.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo a puntate dell’Ottocento: i grandi realisti
Flaubert, G., Madame Bovary (1856); trad. it. Madame Bovary, Milano,
Garzanti, 1978.
Goethe, J.W., Wilhelm Meisters Lehrjahre (1795-96); trad. it. Wilhelm Meister:
Hegel, G.W.F., Vorlesungen über die Ästhetik (1835); trad. it. Estetica, Torino,
Einaudi, 1978.
James, H., The Portrait of a Lady (1880-81); trad. it. Ritratto di signora, Torino,
Einaudi, 2006.
Lukàcs, G. (1946). Balzac, Stendhal, Zola e Nagy orosz realisták; trad. it. Saggi
Id. (2015). Miti e termiti, ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa
Stendhal (1830), Le Rouge et le noir; trad. it. Il rosso e il nero: cronaca del
Thackeray, W.M. (1847 -1848), Vanity Fair; trad. it. La fiera delle vanità,
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
Come si legge nell’importante libro di Michail Bachtin dedicato alla poetica di Dostoevskij,
l'impressione che si tratti non di un solo artista che ha scritto romanzi e racconti, ma di una serie di
interventi filosofici pronunciati da alcuni pensatori: Raskol'nikov, Myškin, Stavrogin, Ivan Karamazov,
Con gli eroi si polemizza, dagli eroi si impara, si cerca di sviluppare le loro concezioni in un
autore di un proprio compiuto ideologema, e non come oggetto della finale visione artistica di
Dostoevskij. Per la coscienza dei critici la compiuta diretta intenzionalità delle parole dell'eroe
spezza la superficie monologica del romanzo e chiama a una risposta immediata, come se l'eroe
fosse non l'oggetto della parola dell'autore, ma l'integro e legittimo portatore della sua propria
parola.
Dostoevskij – continua Bachtin – «crea non schiavi silenziosi (come Zeus), ma uomini liberi,
atti a stare accanto al loro creatore, a non condividerne le opinioni e persino a ribellarsi contro di
lui».
La pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l'autentica polifonia delle
di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di caratteri e destini per entro un unitario
mondo oggettivo e alla luce di un'unitaria coscienza poetica, ma qui appunto una pluralità di
coscienze equivalenti con i loro propri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità,
Bachtin spiega come la pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte e
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
dei romanzi di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di caratteri e destini entro un
unitario mondo oggettivo e alla luce di un'unitaria coscienza poetica, ma una pluralità di
coscienze equivalenti con i loro propri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità,
Gli eroi principali di Dostoevskij sono veramente, nello stesso disegno creativo dell'artista,
non soltanto oggetti della parola dell'autore, ma anche soggetti della propria parola
immediatamente significante. La parola dell'eroe, quindi, non è qui esaurita affatto dalle consuete
ideologica propria dell'autore. La coscienza dell'eroe è data come una coscienza altra, estranea,
ma nello stesso tempo essa non si reifica, non si chiude, non diventa semplice oggetto della
coscienza dell'autore.
Da qui la celebre teoria di Bachtin di Dostoevskij come il creatore del romanzo polifonico, di
un genere romanzesco sostanzialmente nuovo in quel tempo. Ed è per questo – continua – che la
sua opera non rientra in alcuna trama, non si sottomette ad alcuno degli schemi storico-letterari
che siamo soliti applicare ai fenomeni del romanzo europeo. Nelle sue opere compare un eroe la
cui voce è costruita così come si costruisce la voce dell'autore nel romanzo di tipo ordinario. La
parola dell'eroe su se stesso e sul mondo è pienamente autonoma come l'ordinaria parola
dell'autore; essa non è assoggettata all'immagine oggettuale dell'eroe come una delle sue
caratteristiche, ma neppure serve da altoparlante della voce dell'autore. Affermare l'«io» altrui non
come oggetto ma come altro soggetto, tale è il principio della visione del mondo di Dostoevskij.
Riprendendo lo studio di Ivanov, Bachtin ricorda che «Affermare l'altrui «io» – il «tu sei» – è […] il
compito che gli eroi di Dostoevskij devono risolvere al fine di superare il proprio solipsismo etico, la
propria «idealistica» coscienza separata e trasformare l'altro uomo da ombra in realtà vera. Alla
base della catastrofe tragica in Dostoevskij sta sempre l'isolamento solipsistico della coscienza
Per tal modo l'affermazione della coscienza altrui quale soggetto autonomo e non quale
oggetto è il postulato etico-religioso determinante il contenuto del romanzo (la catastrofe della
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
coscienza isolata). Lo studio di Bachtin si concentra sulla poetica e la stilistica del grande scrittore
russo, fino a quel momento lasciata dalla critica in secondo piano rispetto alla dimensione
determinati mezzi artistici: prima di tutto la libertà e l'autonomia loro nella struttura stessa del
romanzo rispetto all'autore, più esattamente – rispetto alle consuete determinazioni estrinsecantesi
e compientisi dell'autore. Il che non significa, s'intende, che l'eroe fuoriesca dal disegno dell'autore.
Al contrario, la sua autonomia e libertà rientrano proprio in tale disegno. La relativa libertà dell'eroe
non infrange la rigorosa determinatezza della costruzione, sottolinea Bachtin nella sua analisi.
Questa nuova impostazione dell'eroe in Dostoevskij è raggiunta non mediante la scelta del tema
astrattamente preso (benché, naturalmente, anche questa abbia il suo significato), ma grazie a
tutto l'insieme dei particolari procedimenti artistici di costruzione del romanzo che per la prima
volta sono introdotti da Dostoevskij.” In merito all’importante concetto di polifonia, da lui introdotto
significato di un'analogia figurata. L'immagine della “polifonia e del contrappunto indica soltanto i
nuovi problemi che sorgono quando la costruzione del romanzo esorbita dai limiti della consueta
unità monologica, così come nel la musica nuovi problemi si sono presentati quando si è andati
oltre la singola voce. Ma i materiali della musica e del romanzo sono troppo differenti perché si
possa parlare di qualcosa di più di una semplice analogia o metafora. Questa metafora è però da
noi trasformata nel termine «romanzo polifonico» poiché non troviamo un'espressione più adatta.
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
Da quel che noi nell’arte poetica chiamiamo tragedia esso [il romanzo di Dostoevskij] si
distingue, se prescindiamo dalla forma esteriore narrativa e teniamo conto solo della struttura
interna del racconto, soltanto per il fatto che invece delle poche semplici linee di un’azione
abbiamo di fronte a noi, per così dire, una tragedia potenziata. Come se vedessimo la tragedia
attraverso una lente d’ingrandimento e trovassimo che nel suo tessuto cellulare si ripete e si
imprime lo stesso principio antinomico, al quale è sottoposto tutto l’organismo. Ogni cellula porta in
sé il seme di una evoluzione agonistica, e se il tutto è catastrofico, lo è anche ogni singolo nodo in
piccolo. Così si spiega quella legge del ritmo epico in Dostoevskij originale e corrispondente in
pieno all’essenza della tragedia, legge che gradualmente accresce il peso degli avvenimenti e
In molte opere di Dostoevskij -continua Ivanon – la catastrofe è adombrata fin dal principio.
Con le sue parole, potremmo definire la sua opera come “tragedia romanzo”, per la rilevanza
della presenza del modo catastrofico. In Delitto e castigo, Raskòl’nikov è il giovane uomo
dominato da un’idea, da una concezione astratta e razionale del bene, per la quale ogni mezzo è
Nella sua lettura, Michail Bachtin si confronta con la critica precedente, e in particolare con
Ivanov e la sua teoria della tragedia-romanzo. Per Bachtin, l'eroe di Dostoevskij è l'intellettuale-
raznocinec [colui che non appartiene alla classe nobiliare ma è in possesso di un buon grado
dall'humus e dalla terra, il rappresentante di una «stirpe fortuita». Quest'uomo stabilisce particolari
rapporti con un'idea: egli è indifeso davanti ad essa e al suo potere poiché non è radicato
nell'esistenza ed è privo di una tradizione culturale. Egli diventa ««L'uomo dell'idea», l'uomo
1
V. Ivanov, La tragedia romanzo, in Dostoevskij. Tragedia, mito, mistica (1932), Il Mulino, Bologna 1994, p. 40.
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posseduto dall'idea. L'idea diventa in lui un'idea-forza che determina e deforma imperiosamente
la sua coscienza e la sua vita. L'idea conduce una vita autonoma nella coscienza dell'eroe: non è
l'eroe che vive, ma l'idea, e il romanziere non narra la vita dell'eroe, bensì la vita dell'idea in lui; lo
possiede e non il “solito momento biografico (come, ad esempio, in Tolstoj o Turgenev). Di qui
scaturisce la definizione del romanzo di Dostoevskij come «romanzo ideologico», ricorda Bachtin,
specificando tuttavia come nel suo caso non si tratti del solito romanzo di idee, del romanzo con
un'idea:
e sociale giacché egli la considerava fattore determinante della società intellettuale. Ma la cosa
non va intesa nel senso che e gli abbia scritto romanzi d'idee, racconti a tesi e che quindi sia un
artista tendenzioso, più filosofo che poeta. Egli non ha scritto romanzi con un'idea, romanzi filosofici
nello stile del diciottesimo secolo, ma romanzi sull'idea. Come per gli altri romanzieri l'oggetto
centrale poteva essere l'avventura, l'aneddoto, il tipo psicologico, il quadro di genere oppure
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dostoevskijana. In Delitto e castigo diversi brani si misurano con il passaggio della “cosa” da un
manifesta in vari modi a seconda dell’interlocutore, della sua situazione emotiva, dell’intento che si
prefigge. La vediamo nella sua forma sprezzante e follemente provocatoria nel dialogo con
Zamëtov, incontrato il giorno in cui riemerge dal buio delirio in cui era caduto a seguito dello
Razumichin e finisce in una bettola a consultare i giornali dei giorni precedenti alla ricerca morbosa
di articoli sull’omicidio della vecchia usuraia. In quella circostanza rincontra casualmente Zamëtov,
colloquio con Porfirij Petrovič sulla cambiale scaduta e al successivo svenimento di Raskòl’nikov,
avvenuto platealmente nel momento in cui l’argomento degli astanti era scivolato sul delitto. Nel
secondo incontro con Zamëtov, il ragionamento di Raskòl’nikov procede per via paradossale, e
manifesta al contempo, in uno stato convulso di eccitazione, il desiderio di affermare per via
retorica la sua superiorità di uomo straordinario, al quale tutto è permesso. Così gli si rivolge:
«Ve lo dirò dopo quello che c’è da sentire, mentre adesso, mio carissimo, vi comunico… no,
meglio, “vi confesso”… No, nemmeno questo va bene: “depongo, e voi prendetene”, ecco così!
Così depongo che ho letto, mi sono interessato… ho cercato… ho rinvenuto…» Raskòl’nikov strinse
gli occhi, e rimase in attesa «ho rinvenuto, e per questo motivo sono venuto qua dentro, ho
sussurro, accostando il proprio volto vicinissimo al volto di Zamëtov. Zamëtov lo guardò dritto, a
bruciapelo, senza muoversi e senza allontanare il proprio volto dal volto di lui. La cosa che in
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
seguito sembrò più strana a Zamëtov fu che per un minuto esatto tra loro si protrasse il silenzio, e
instillandogli sospetti sul suo stesso conto che verranno solertemente riferiti dal funzionario a Porfirij,
innescando così l’accanita indagine del commissario di quartiere. In questa scena, esitazioni,
pause, e silenzi si fanno estremamente significanti e comunicano ciò che sfugge alla
personaggi.
Un altro brano che pone al centro il racconto del delitto è quello che narra gli istanti che
Raskòl’nikov, giunte a Pietroburgo. Proprio nel momento in cui diverse questioni problematiche si
sono definite e risolte con l’annullamento del matrimonio di Dunja con Lužin, la conseguente gioia
congeda bruscamente dichiarando il suo desiderio di essere lasciato da solo. Tra lo stupore e il
dispiacere dei suoi cari abbandona la stanza e aspetta l’amico alla fine del corridoio, al quale
intima:
«Te lo dico una volta per tutte: non domandarmi mai nulla. Non ho nulla da risponderti…
Non venire a casa mia. Forse sarò io a venire qua… Lasciami perdere, ma loro… non lasciarle. Mi
hai capito?»
Nel corridoio c’era buio; ma loro stavano in piedi vicino a una lampada. Per un minuto si
guardarono l’un l’altro, in silenzio. Razumichin ricordò in seguito questo minuto per tutta la vita. Lo
sguardo ardente e fisso di Raskòl’nikov s’andava facendo sempre più intenso, gli penetrava
nell’anima, nella coscienza. All’improvviso Razumichin trasalì. Era come se qualcosa di strano fosse
avvenuto tra loro… Una certa idea d’era insinuata, una sorta d’allusione; qualcosa d’orribile,
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
come un morto.3
Al centro del brano domina con forza espressiva qualcosa che non viene mai detto. La
rivelazione del delitto è narrata non dal dialogo, ma esattamente dalle pause tra una frase e
l’altra, e si sedimenta negli interstizi tra le parole. Nella lacuna risiede il racconto del tema cruciale:
il racconto di quella cosa che, in un istantaneo avvicinamento delle due coscienze, passa da
un’interiorità all’altra. In maniera simile avviene nel brano in cui Raskòl’nikov rivela il delitto a Sonja,
con la differenza che a spingerlo a rivelarsi non sono la rabbia e provocazione ma il bisogno di
comunione con Sonja, suscitato dall’amore che il giovane prova per lei. Giunto da lei, Raskòl’nikov
le ricorda il motivo della sua visita, ovvero la rivelazione dell’identità dell’assassino. Inizia
ricostruendo sommariamente la scena, compiuta da un lui, e dunque narrata in terza persona, per
poi chiedere a Sonja, dopo un “terribile minuto” passato in silenzio, e come qualcuno che si butti
E come ebbe detto ciò, di nuovo la ben nota sensazione di poco prima gli raggelò
improvvisamente l’anima: egli guardò Sonja, e all’improvviso sul volto di lei vide il volto di Lizaveta.
Rammentò chiaramente l’espressione del volto di Lizaveta mentre le si stava avvicinando con la
scure in mano, quando quella s’era rifugiata accanto alla parete per sfuggirgli, con il braccio
proteso in avanti e un autentico spavento infantile dipinto sul volto, proprio come fanno i bambini
inquieti l’oggetto che li intimorisce, per poi indietreggiare e, protendendo in avanti il braccino,
prepararsi a scoppiare in pianto. Quasi la stessa cosa si stava adesso verificando anche con Sonja:
con la stessa impotenza, con lo stesso spavento, ella lo guardò a lungo e all’improvviso, proteso in
avanti il braccio sinistro, leggermente, appena appena, gli si aggrappò con le dita al petto e
lentamente cominciò ad alzarsi dal letto allontanandosi sempre più da lui, mentre lo sguardo che
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
gli teneva fisso addosso si faceva sempre più immobile. Il terrore di lei improvvisamente si
comunicò anche a lui: esattamente lo stesso spavento si dipinse sul volto di Raskòl’nikov, che si
mise a guardarla in quello stesso modo e persino quasi con lo stesso sorriso infantile.
Anche in questo brano con la rappresentazione della densità semantica del silenzio è
4 Ivi, p. 507.
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
L’arco evolutivo di Raskòl’nikov segue linee diverse, il suo delitto nasce da un miscuglio
fisionomia – che esprime piuttosto l’intellettuale dotato di estrema sensibilità – con il ruolo di
criminale e assassino. A questo si aggiunge l’incontro con Sonjia, figura salvifica, e un percorso
successivo del personaggio nel quadro della redenzione che si collega alla concezione religiosa
Razumichin, di fronte alla richiesta del commissario, Raskòl’nikov precisa le idee di un suo articolo
scritto tempo prima, in cui enuncia la teoria degli uomini straordinari: da una parte «persone per
loro natura conservatrici e per bene, che vivono nell’obbedienza e amano obbedire», dall’altra
«quelli della seconda categoria», che invece, «violano tutti la legge, sono dei distruttori». Una zona
oscura, dove vivono uomini che per la loro straordinarietà paiono godere del diritto (un diritto non
ufficiale, ma morale, filosofico) di abbracciare il delitto in nome di una superiore verità, ma anche
di una superiore identità. Tant’è che il delitto non è più tale se commesso da loro. Con accenti
nietzschiani, si potrebbe dire che la loro è una vita jenseits vom Gut und Böse, al di là del bene e
del male.
[Porfirij Petrovič] Nel suo articolo tutto sta nel fatto che gli uomini si dividono in ‘ordinari’ e
‘straordinari’. Quelli ordinari, devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge,
perché essi, vedete un po’, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di
compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d’essere
Raskòlnikov sorrise di nuovo. Aveva capito subito come stavano le cose e dove volevano
- “Quel che dice il mio articolo non è precisamente questo,” prese a dire in tono semplice e
modesto. “D’altronde, riconosco che ne avete esposto il contenuto quasi fedelmente e perfino, se
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
volete, del tutto fedelmente...” era come se gli facesse piacere ammettere quest’ultima possibilità.
“L’unica differenza è che io non sostengo affatto che gli uomini straordinari debbano
necessariamente o siano costretti a compiere iniquità d’ogni specie, come voi dite. Fra l’altro,
credo che un articolo del genere non l’avrebbero nemmeno lasciato pubblicare. Io ho
semplicemente formulato l’ipotesi che un uomo ‘straordinario’ abbia il diritto... non un diritto
ufficiale, beninteso... di permettere alla propria coscienza di scavalcare certi... certi ostacoli, e ciò
esclusivamente nel caso in cui l’esecuzione di un suo progetto (talvolta, magari, salutare per
ma allo stesso tempo ad esibire la sua superiorità. Nella prima parte del romanzo l’esigenza del
reperimento di risorse per la madre e la sorella è la melodia di fondo, la ragione che spinge
Raskòl’nikov a compiere il delitto; via via, l’altra ragione, di matrice ideologica e individualistica,
prende sempre maggiore forza nel romanzo, fino alla confessione di fronte a Sonjia, in cui dichiara:
Non ho ucciso per aiutare mia madre, sciocchezze! Non ho ucciso per avere i mezzi e il
per me stesso, per me solo… Non era tanto il denaro che mi occorreva , quanto un’altra cosa…
Avevo bisogno di sapere, e di saperlo subito, se io ero un uomo oppure un pidocchio come tutti; se
sarei stato capace di trasgredire o no; se avrei avuto il coraggio di chinarmi e di prendere, oppure
Come scrive Dostoevskij, la figura di Raskòl’nikov «esprime l’idea d’un orgoglio smisurato, di
superbia e di disprezzo per la società» . «Il suo atto, esercitando una libertà assoluta e arbitraria» -
osserva Pareyson - «doveva dimostrarlo capace di tale libertà, e collocarlo subito tra gli esseri
eccezionali».
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Emanuela Piga Bruni - Tra polifonia e tragedia: Dostoevskij
Bibliografia
1990.
Gardini, Nicola, Lacuna. Saggio sul non detto, Torino, Einaudi, 2014.
Garelli G., Filosofie del tragico. L’ambiguo destino della catarsi, Milano, Bruno
Mondadori, 2001.
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Emanuela Piga Bruni - Il passaggio tra Ottocento e Novecento
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Emanuela Piga Bruni - Il passaggio tra Ottocento e Novecento
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Emanuela Piga Bruni - Il passaggio tra Ottocento e Novecento
1914-18: Grande guerra; impatto devastante non solo sulla vita delle persone e sui beni
materiali, ma anche sulle coscienze, sulla mentalità; trauma collettivo dalle proporzioni inaudite
1899, Freud pubblica L’interpretazione dei sogni e dà inizio a quella che è stata definita “la
terza rivoluzione copernicana” nella storia dell’umanità (radicale ridiscussione della centralità
1905, Einstein formula la teoria della relatività ristretta (a cui seguirà, 1916, la teoria della
relatività generale);
1903-1911: Planck sviluppa la teoria dei quanti, che rivoluziona completamente la concezione
della fisica;
1900-01: Husserl pubblica le Ricerche logiche; (e nel 1913 le Idee per una fenomenologia pura
Il campo della tecnica e delle invenzioni tecnologiche, che incidono enormemente sul
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Tra fine 800 e primi anni del 900, Marconi inventa la radio, e in generale si sviluppano le
Sviluppo dei trasporti: auto, aereo, grandi transatlantici ecc. (le distanze si accorciano, cambia
Questo susseguirsi di scoperte, invenzioni, rivoluzioni, ha (se non proprio un influsso diretto) un
riscontro, una consonanza con i mutamenti che scuotono il campo dell’espressione artistica. Vale
Nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della prima guerra mondiale una serie di radicali
cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di
materiale per questo nuovo orientamento; sviluppi culturali indipendenti quali il romanzo del ‘flusso
coscienza: il risultato fu una trasformazione delle dimensioni della vita e del pensiero.1
Con una tesi di questo tipo si apre anche il grande percorso di Giacomo Debenedetti nel
Le prime origini della pittura cubista cadono suppergiù negli stessi anni, i primi di questo
secolo, in cui Planck formula la teoria dei quanta, Einstein trasformando l’equazione di Michelson-
Morley scrive le equazioni della relatività e Freud porta la psicologia del profondo a quella tappa
decisiva che è rappresentata dal libro sull’interpretazione dei sogni. Sono altrettanti avvenimenti
che sfaccettano e significano, nei loro campi diversi e rispettivi, quello che [si può chiamare] un
nuovo sistema di coordinate dell’uomo nel mondo, una nuova percezione che l’uomo ha della
struttura e quindi un nuovo sentimento e giudizio del mondo, e del proprio essere ed esserci nel
1
S. Kern, Th e C u l t u r e o f Ti m e a n d S p a c e 1 8 8 0 - 1 9 1 8 ( 1 9 8 3 ) , t r a d . i t . I l t e m p o e l o s p a z i o : L a p e r c e z i o n e
del mondo tra Otto e Novecento , Bol ogna, Il M ulino, 2007 , p . 7.
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mondo. E senza dubbio, nella misura in cui si è davvero stabilito un nuovo sistema di coordinate, se
ne debbono riscontrare gli effetti anche in letteratura, e tanto più nel romanzo.2
Un “nuovo sistema di coordinate” cambia dunque la concezione della storia, della natura,
retrospettivamente, in prospettiva storica, si ha il senso di una brusca cesura, di una rottura, quasi di
dell’uomo in rapporto alla realtà. Ovviamente, si tratta anche di una semplificazione storiografica:
la storia non è mai così univoca e lineare: fenomeni molto complessi, frastagliati, che non si
compiono ovunque allo stesso modo e con la stessa velocità. Tuttavia, le tendenze culturali
dominanti dell’epoca vanno in questa direzione, creano un senso di rottura con il passato,
testimonianze dei contemporanei sono numerosissime, e non lasciano dubbi sul fatto che nell’aria
Come scrive Mario Lavagetto, nel suo studio Svevo e la crisi del romanzo europeo:
Il secolo [...] nasce in modo fortemente traumatico, grazie a una cesura radicale dopo la
quale “niente sarà più come prima” e i confini del possibile e dell’impossibile risulteranno
drasticamente modificati. È come se lungo un arco molto ampio – che va dalla musica alla
filosofia, dalla fisica al romanzo – fossero stati predisposti dei detonatori che, in rapida sequenza,
condizioni stesse di lavoro; a trasformare il modo in cui i singoli pensano se stessi e il mondo che li
2 Giacomo Debenedettti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1976, pp. 3-4.
3Mario Lavagetto, Svevo e la crisi del romanzo europeo, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura
di A. Asor Rosa, Einaudi, pp. 245-67 (anche con il titolo Svevo nella terra degli orfani, in Lavorare con piccoli indizi, Bollati
Boringhieri, pp. 277-298)
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Gli effetti e le reazioni di questo mutamento sono molteplici. In primo luogo, c’è un grande
senso di disorientamento, accompagnato da una grande crisi di valori, che è anche un portato
della cultura fin de siècle (si pensi al decadentismo, e al suo senso della fine di una civiltà). Tra gli
stabili, i punti di riferimento a cui l’uomo era da tempo abituato. In generale, tendono a saltare
mentalità ottocentesca, secondo cui il mondo “era ordinato gerarchicamente con un posto
proprio per ogni cosa” (Kern, p. 259). Inoltre, viene meno un modello univoco di spiegazione del
mondo, come era stato bene o male quello elaborato dal sapere ottocentesco, culminato nel
Anche nella percezione dello spazio e del tempo, come ha mostrato Kern, subentra un
senso di fluidità, di eterogeneità degli orizzonti spazio-temporali; spazio e tempo non sono più
categorie assolute, universalmente stabili, ma fattori relativi, legati a particolari sistemi di riferimento
e alla percezione soggettiva dell’individuo. L’uomo si sente gettato in un mondo sempre più
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Il senso della crisi è messo in luce da Erich Auerbach, alla fine del suo libro Mimesis:
I cambiamenti veloci produssero una confusione tanto maggiore, in quanto non era
possibile abbracciarli nel loro insieme; essi si manifestarono contemporaneamente in molte singole
sfere della scienza, della tecnica e dell’economia, cosicché nessuno, neanche coloro che ne
erano a capo, poterono prevedere e giudicare le situazioni nuove che ne risultarono. […]
antiche certezze, è la crisi del concetto di identità, la progressiva dissoluzione dell’io, dell’uomo in
quanto soggetto unitario. Si tratta di qualcosa che permea profondamente, che quasi ossessiona
scientificamente fondata di una tendenza generale, che si può riscontrare in moltissime espressioni
la scoperta sconvolgente (Freud) che “L’io non è padrone in casa propria”, e che bisogna fare
i conti con un Altro (lui lo chiama Es), con una sorta di “doppio” oscuro e spesso minaccioso
Tutto questo, ovviamente, influisce profondamente sullo statuto del personaggio. D’altra
parte, questo senso della crisi non si esaurisce in un ripiegamento, nella percezione di una
negatività, di un disagio, ma alimenta anche una spinta propulsiva, spesso euforica, che mira a un
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conoscenza e di espressione. L’esigenza del nuovo impone di superare (e in certi casi di rifiutare) le
acquisizioni del secolo precedente, per mettere a punto nuovi strumenti di indagine e di verifica
Tra i molti che si potrebbero citare, un documento importante è costituito dal testo di
Kandinsky, Lo spirituale nell’arte (1912), che insieme a Franz Marc e altri faceva parte del gruppo
Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), un gruppo di artisti formatosi a Monaco di Baviera nel 1911, e che
costituì, con Die Brücke, uno dei due nuclei fondamentali dell'espressionismo tedesco. Il testo è
Si apre, anzi si è già aperta, una grande stagione: il risveglio spirituale […] Siamo sulla soglia
di una delle più grandi epoche che l’umanità abbia mai vissuto, l’epoca della grande spiritualità.
[…] Rispecchiare gli avvenimenti artistici direttamente connessi a questa svolta e i fatti necessari a
illuminarli anche in altri campi della vita spirituale, è il nostro primo e massimo obiettivo” (p. 249)
scopriamo che tutto è ancora intatto, inespresso, vergine, inesplorato. Il mondo si apre dinanzi a
noi in tutta la sua purezza: i nostri passi tremano. Se vogliamo osare e camminare, dobbiamo
Una testimonianza per noi ancora più pertinente è rappresentata dal famoso saggio di
Virginia Woolf, Mr Bennett and Mrs Brown (1924), che individua una “frattura generazionale” tra i
romanzieri della sua generazione (i georgiani) e quelli della generazione precedente (gli
edoardiani)4:
Nel o intorno al dicembre 1910 il carattere umano [human character] è cambiata […] Tutte
le relazioni umane sono mutate – quelle tra padroni e servi, mariti e mogli, genitori e figli. E quando
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E così si è iniziato a fracassare e a distruggere. È ciò che sentiamo tutto intorno a noi, nelle
poesie e nei romanzi e nelle biografie, perfino negli articoli di giornale e nei saggi, il rumore di cose
rotte e cadenti, sfondate e distrutte. […] I segni di tutto questo sono evidenti ovunque. La
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traduce in una reazione decisa contro la tradizione e le poetiche di fine Ottocento. In generale: la
letteratura (e l’arte) del primo Novecento si pone all’insegna della negazione, della contestazione,
del rifiuto dei canoni tradizionali e delle convenzioni precedenti (ad esempio le avanguardie), in
minore misura, nei vari paesi) aveva egemonizzato gli ultimi decenni dell’Ottocento: il Naturalismo
(e più in generale la tradizione del grande realismo ottocentesco). In effetti, tutti i presupposti della
ribaltati. In primo luogo, si sfalda la fede nell’esistenza di una realtà esterna, oggettiva, verificabile
(“positiva”), che il romanzo possa indagare e rappresentare con la massima precisione possibile, in
termini oggettivi e “scientifici”. In questa visione, la realtà tende a dissolversi, a perdere la sua
soggettività, di una prospettiva parziale e circoscritta. In questo modo viene meno anche la visione
unitaria della realtà, c’è un processo di frammentazione: le prospettive da cui può essere osservata
sono molteplici, sfaccettate, spesso in contrasto tra di loro, ed è impossibile ricondurre questo
prisma a una visione universale e unitaria. Tra le conseguenze sul piano formale:
Il baricentro si sposta dall’esterno all’interno, dalla descrizione di una realtà oggettiva all’analisi
Oggetto della narrazione non sono più dei presunti fatti obiettivi, ma il riflesso dei fatti nella
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Il secondo presupposto che viene messo in discussione riguarda l’idea che sia possibile:
Costruire un unico modello esplicativo, un modello universale che possa spiegare le cause dei
Stabilire una gerarchia ben precisa del significato e dell’importanza dei fenomeni.
afferma: «L’oggetto [...], per il romanzo tradizionale, prenovecentesco, non può, non deve mai
Viene meno un modello unico di spiegazione del mondo, e dunque non si può più stabilire in
modo assoluto che cosa è significativo, rilevante, e quindi degno di rappresentazione letteraria
Sembra che il criterio della scelta, dell’arbitrio con cui il romanziere selezionava i suoi materiali
dal grande serbatoio della vita, li ordinava, li organizzava in una struttura precisa, sia
completamente cambiato;
E l’attenzione tende a spostarsi proprio sui fatti e sugli oggetti apparentemente insignificanti,
banali, casuali – quelli che il romanzo classico avrebbe sicuramente trascurato, o lasciato in
secondo piano.
Nel suo libro Le poetiche di Joyce, Umberto Eco scrive (a proposito dell’Ulisse):
Il principio dell’essenziale [...] fa sì che nel romanzo tradizionale non si dica affatto che il
protagonista si è soffiato il naso, a meno che questo atto “conti” qualcosa al fine dell’azione. Se
non conta è un atto insignificante, romanzescamente “stupido”. Ora, con Joyce abbiamo
l’assunzione di pieno diritto di tutti gli atti stupidi della vita quotidiana quale materia narrativa. [...]
ciò che prima era inessenziale diventa centro dell’azione, nel romanzo non accadono più grandi
cose importanti, ma accadono tutte le piccole cose, senza mutuo legame, nel flusso incoerente
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del loro sopravvenire, i pensieri come i gesti, le associazioni di idee come tutti gli automatismi del
comportamento.5
Ai tempi nostri si è avuto uno spostamento di accento; molti scrittori rappresentano i piccoli
fatti insignificanti per amore dei fatti stessi, o piuttosto quale fonte di motivi, di penetrazione
prospettica in un ambiente, in una coscienza o nello sfondo del tempo; essi hanno rinunciato a
rappresentare la storia dei loro personaggi con la pretesa di una compiutezza esteriore,
esteriori del destino. Il romanzo gigantesco di James Joyce, un’opera enciclopedica, specchio di
Dublino, dell’Irlanda, specchio anche dell’Europa e dei suoi millenni, ha per cornice la giornata
esteriormente insignificante d’un professore di ginnasio e d’un agente di avvisi pubblicitari; esso
comprende meno di 24 ore della loro vita, simile al romanzo To the Lighthouse di Virginia Woolf,
che rappresenta parti di due giorni molto distanti nel tempo [...]. Proust rappresenta giornate e ore
singole di epoche diverse, però alle svolte esteriori del destino, che frattanto hanno colpito i
anticipazioni, senza che in esse sia posta la mira del racconto; spesso devono essere completate
dal lettore; il modo in cui nel testo citato si parla della morte del padre, cioè occasionalmente, per
accenni o anticipazioni, ne è un buon esempio. Questo spostamento del centro di gravità esprime
quasi uno spostamento di fiducia; si attribuisce meno importanza alle grandi svolte esteriori e ai
colpi del destino, come se da essi non possa scaturire nulla di decisivo per l’oggetto; si ha fiducia
invece che un qualunque fatto della vita scelto casualmente contenga in ogni momento e possa
rappresentare la somma dei destini; si ha fiducia maggiore nelle sintesi, ottenute con l’esaurire un
fatto quotidiano, piuttosto che nella trattazione completa in ordine cronologico” (II,331-32).
In sintesi, l’interesse non si concentra sugli “avvenimenti essenziali”, sulle grandi svolte del
destino, ma su piccoli fenomeni della vita quotidiana che [attenzione] possono, in determinate
condizioni, rivelare significati segreti, inaspettati, impercettibili per lo sguardo dello scrittore
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naturalista. Questo ci porta alla messa in discussione del terzo presupposto, ovvero dell’idea che il
mondo si esaurisca nella sfera del visibile, di ciò che è direttamente esperibile, nei fenomeni
percepiti dai sensi e sottoponibili ad analisi e verifica da parte della ragione. Tutto questo viene
minato alle radici dalle scoperte scientifiche e filosofiche, dalla psicoanalisi, dalla fisica
Il versante diurno, razionale della realtà e della vita umana cela un versante notturno, un
“emisfero d’ombra”6 che la luce della ragione e della scienza ottocentesca non è in grado di
illuminare;
E si intuisce che questa regione inesplorata, avvolta in un cono d’ombra, è l’unica importante,
l’unica che valga la pena conoscere; È lì che forse si può trovare il significato essenziale
dell’esperienza, quello che è drammaticamente venuto meno con il crollo degli antichi valori; È
lì che la vita può essere colta alle sue scaturigini, nelle sue radici profonde, al di là di quello che
emerge alla superficie degli eventi, dei fenomeni, dei comportamenti esteriori (ad esempio, la
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Emanuela Piga Bruni - Il passaggio tra Ottocento e Novecento
Bibliografiai
pp. 245-67 (anche con il titolo Svevo nella terra degli orfani, in Id., Lavorare
Kern, Stephen, The Culture of Time and Space 1880-1918 (1983), trad. it. Il
i
Questa lezione, insieme alle altre lezioni del modulo sul Modernismo, è tratta dagli appunti del prof. Federico Bertoni,
docente di Teoria della letteratura, con il quale ho collaborato presso l’Università di Bologna. Previo il suo consenso, e data
la qualità del materiale didattico, ho ritenuto utile metterlo a disposizione anche delle/degli studentesse/i di questo corso.
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
Data la vastità dell’argomento, questa lezione mira a indicare alcuni punti molto generali
riguardanti Marcel Proust e la sua opera maggiore. Inizio con il ricordare come Proust sia uno degli
esponenti principali del grande modernismo europeo, e come si sia formato e abbia scritto in
In ambito letterario, e in particolare nel romanzo, in quegli anni si assisteva a una fase di
grande sperimentazione: in contesti culturali diversi, con forme e modalità del tutto peculiari, si
registrava un attacco convergente contro l’edificio del romanzo classico, che veniva
Cambia la concezione della trama, la gestione del tempo narrativo, lo statuto del
personaggio, la funzione del narratore; cambia il baricentro stesso della narrazione, che si colloca
in modo sempre più netto nella soggettività, nel mondo interiore dei personaggi, nel labirinto di
un’identità sempre più complessa e frammentata. Gli stessi presupposti su cui si fondava il romanzo
radicalmente, in molti casi scompaiono, e vengono sostituiti da esigenze e obiettivi nuovi, spesso
quantistica, ecc.).
concezione generale della vita umana. Si tratta di teoria che non viene sviluppata in modo
sistematico in saggi o trattati, ma calata nel corpo stesso del romanzo, come sua ragion d’essere,
come sua sostanza profonda. È una concezione che assegna all’arte un ruolo prioritario, quasi
salvifico: la creazione artistica, il diventare artista, è l’unica cosa che possa dare senso alla vita; c’è
un naufragio generale, una distruzione sistematica e implacabile di tutti gli aspetti dell’esistenza
(l’amicizia, l’amore, la politica, la storia, la vita sociale), e alla fine da questo naufragio si salva solo
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
Questa convinzione viene tematizzata all’interno dell’opera stessa, nel senso che il tema di
fondo di La Recherche du Temps perdu (La ricerca del tempo perduto) è la ricerca di una
vocazione artistica, la storia di un uomo che vive diverse esperienze, cerca il suo destino e alla fine
(in seguito a una sorta di rivelazione, di illuminazione) capisce che il suo destino è l’arte, e che tutto
quello che ha vissuto dovrà riversarsi in un libro – il libro che lui comincia a scrivere alla fine della
storia, e il libro stesso che noi abbiamo appena finito di leggere, in un meccanismo circolare e
potenzialmente infinito.
La memoria: non tanto quella che Proust chiama «memoria volontaria», fondata
che si manifesta nella vita di tutti i giorni, nell’abitudine, nella vita sociale, nella
vera identità e che non è del tutto comunicabile agli altri, ma resta chiusa
nell’abisso dell’interiorità;
religiosa ma una trascendenza laica: l’idea che la vita non si esaurisce nella sfera
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2. Poetica e opere
specifico, che Proust definisce «intermittenze del cuore» e che rappresentano l’ossatura
Le intermittenze del cuore sono i pilastri che sostengono La Recherche: sono momenti
improvvisi di rivelazione, del tutto involontari, causati per lo più da una percezione sensoriale, che
risvegliano la memoria involontaria, resuscitano il passato e ci fanno accedere alla parte più
Lo spiega bene il grande critico Giacomo Debenedetti nel suo Rileggere Proust:
Le “intermittenze” sono l’improvvisa rivelazione che c’è dell’altro, che quelle certezze,
fiducie, abitudini sulle quali avevamo riposato non erano che una crosta, apparentemente solida
e compatta, capace di reggere il nostro peso; ma sotto di essa, si nasconde la vera realtà,
sfuggente alle nostre percezioni ordinarie, alle regole su cui il nostro vivere riposava, e che
La carriera letteraria di Proust è tutt’altro che lineare, tanto è vero che i contemporanei
hanno fatto fatica a capire la novità dirompente rappresentata dalla sua opera.
Proust è uno di quegli scrittori che sembrano nati per scrivere un unico libro, un libro-summa
in cui si deposita la parte essenziale della loro vita, del loro pensiero, del loro sforzo di elaborazione
artistica. L’opera non arriva subito, ma è preceduta da una serie di tentativi, di abbozzi, anche di
passi falsi che lo portano fuori strada. Si tratta di testi dal carattere frammentario o incompiuto:
una serie di pastiches, esercizi di stile, in cui il giovane scrittore si esercita a imitare il
Una serie di brevi articoli o saggi su vari argomenti, spesso di carattere letterario, ma
non solo;
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Un romanzo rimasto incompiuto, Jean Santeuil, scritto in terza persona ma con un forte
carattere autobiografico;
saggio polemico per contestare il metodo di uno dei critici più influenti dell’epoca e
che poi si sviluppa in direzioni imprevedibili, accoglie riflessioni generali sulla letteratura,
analisi di alcuni grandi scrittori (Balzac, Baudelaire, Flaubert) e anche alcuni spezzoni
narrativi in cui appaiono personaggi del futuro romanzo; anche questo incompiuto.
accanito e labirintico che dura molti anni. Sostiene di avere scritto di seguito la parte iniziale del
libro (primo volume) e quella finale (di quello che diventerà il settimo e ultimo), cioè di avere avuto
ben presente fin dall’inizio il piano complessivo dell’opera e quale sarebbe stata la conclusione;
Questo per rispondere alle critiche di chi, dopo la pubblicazione del primo volume nel 1913,
diceva che il libro non aveva né capo né coda, era completamente sconclusionato, senza trama,
Tra questi due grandi pilastri, Proust procede per espansione e accumulazione graduale:
scrive una serie di episodi intermedi che si dilatano, crescono su se stessi, dando origine a vari
volumi;
volumi, in un arco di tempo abbastanza lungo (concluso dalla sua morte, 1922: ultimi tre volumi
escono postumi):
1919: A l’ombre des jeunes filles en fleur (All’ombra delle fanciulle in fiore)
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
Anche se ha un’organicità di fondo, sia tematica che strutturale, l’opera deve essere
considerata incompiuta, nel senso che Proust non ha avuto il tempo di rivedere definitivamente gli
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
immensa opera; un capitolo del tutto particolare, che da un lato si inserisce in modo organico
delle caratteristiche peculiari che lo differenziano dal resto dell’opera, che ne fanno un oggetto a
parte, relativamente autonomo rispetto all’insieme in cui è collocato (e infatti, anche dal punto di
vista editoriale, è possibile estrapolarlo, anche se con tutte le cautele del caso…).
La storia di Swann si trova nel primo volume dell’opera, La strada di Swann, che è articolata
in tre sezioni:
Alla fine della prima parte, il narratore annuncia così l’inserimento di questa storia:
Certo, quando si avvicinava il mattino, da tempo era dissipata la breve incertezza del mio
nell’oscurità, e – orientandomi con la sola memoria, o prendendo in aiuto, come indicazione, una
debole luce intravista, ai piedi della quale situavo le tende della finestra – l’avevo ricostruita per
intero e arredata come un architetto e un tappezziere che rispettino l’apertura originaria delle
finestre e delle porte, avevo riabbassato gli specchi e ricollocato il cassettone al suo solito posto
[…] Ma appena il giorno – e non più il riflesso di un’ultima brace su una bacchetta di rame che
avevo scambiato per esso – tracciava nell’oscurità, e come col gesso, la sua prima riga bianca e
rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava il vano della porta, dove l’avevo situata per
errore, mentre “per farle posto, lo scrittorio, che la mia memoria aveva maldestramente installato
là, fuggiva in gran fretta, spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del
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corridoio; un cortiletto campeggiava nel luogo dove, un attimo prima, si apriva la stanza da
bagno, e la dimora che avevo ricostruito nelle tenebre era andata a raggiungere le dimore
intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga da quel pallido segno tracciato sulle tende dal dito
Poi, conclusa la storia di Swann, si riprende con la vicenda principale (riprendendo il motivo
Tra le camere di cui evocavo più spesso l’immagine nelle mie notti d’insonnia, nessuna era
più dissimile dalle camere di Combray, pervase da un’atmosfera granulosa, satura di polline,
commestibile e devota, di quella del Grand–Hôtel de la Plage, a Balbec, i cui muri verniciati a
smalto contenevano, come le pareti levigate di una piscina, rese azzurre dall’acqua, un’aria pura,
celeste e salina.
Un amore di Swann è dunque anche una lunga parentesi narrativa, che interrompe
temporaneamente la storia del protagonista e che ha delle caratteristiche del tutto peculiari,
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La voce narrante
La ricerca del tempo perduto è scritto in prima persona (narrazione autodiegetica), tranne
La voce narrante è sempre la stessa, ma in questa parte il narratore non parla di sé, non è un
Punto di vista
Il punto di vista è molto ambiguo, con una serie di elementi contraddittori: siamo sempre nel
quadro generale di un romanzo in prima persona, in cui dunque non può esserci narrazione
onnisciente, ma per lunghi tratti questa prima persona viene come cancellata, dissimulata, c’è
Molto spesso il narratore si comporta come se fosse onnisciente, come se conoscesse tutto
della storia di Swann, come se potesse penetrare nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti reconditi e
nelle sue motivazioni segrete. È vero che ogni tanto giustifica le informazioni che ci comunica,
menziona le sue fonti, dice ad esempio che certe cose gli sono state raccontate dallo stesso
Swann, e tuttavia questo non basta per rendere plausibile una narrazione così informata e
dettagliata (bisogna sottoscrivere una sorta di patto: cioè accettare che il narratore possa usare “il
Protagonista
In questa sezione il protagonista cambia, non è più l’io narrante (Marcel) ma Charles
Swann, un amico di famiglia che compare già nelle prime sequenze, apparirà più volte nei volumi
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Tempo
Dal punto di vista temporale, la storia di Swann è una lunga analessi esterna: cioè è
collocata in un passato remoto che precede la nascita del narratore, quindi l’inizio della storia
principale; è una sorta di antefatto che comporta un ritorno indietro nel tempo. Queste sono le
peculiarità, gli elementi differenziali e distintivi rispetto al resto dell’opera, di carattere soprattutto
formale.
ricorrenti che creano un gioco di specchi tra la storia di Swann e la storia principale. Come se fosse
una specie di romanzo nel romanzo, o un exemplum, una storia esemplare che ha il compito di
illuminare quella principale, di illustrare in forma ridotta alcune tematiche di fondo. Tra queste, uno
dei temi principali del romanzo, l’amore: l’amore di Swann per Odette è il prototipo, il modello
degli amori del narratore, con tutte le fasi che attraversa: innamoramento, idealizzazione, gelosia,
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5. Swann e Marcel
Chi è Charles Swann e qual è il suo rapporto con il narratore? Perché la sua storia viene
ed è un amico di famiglia, in particolare del nonno del narratore. Compare nelle primissime pagine
del romanzo, quando fa visita alla famiglia nella casa di campagna di Combray e il narratore
ancora bambino sente il campanello che suona e annuncia la sua visita (questo è uno dei ricordi
di infanzia più ricorrenti). La famiglia di Swann ha una proprietà nei dintorni di Combray, e si tratta
proprio di quella «parte di Swann» verso la quale il narratore fa una serie di passeggiate e che dà il
titolo al primo volume dell’opera. Viene detto subito che ha fatto un cattivo matrimonio, che ha
sposato una donna molto al di sotto di lui, sulla quale circolano molti pettegolezzi da parte della
borghesia di Combray;
La famiglia del narratore lo considera un caro amico, molto alla buona, senza sapere che è
un grande snob, una delle personalità più in vista del bel mondo parigino, «amico prediletto del
conte di Parigi e del principe di Galles», uno degli uomini più eleganti e più introdotti nella vita
mondana del Faubourg Saint-Germain (e molto amico soprattutto degli aristocratici Guermantes).
Un’altra caratteristica importante risiede nel suo rapporto con l’arte: Swann ha una grande
cultura artistica, soprattutto pittorica: ha fatto studi e ricerche in questo ambito, in particolare su
ostile nei suoi confronti, perché le sue visite tengono impegnata la famiglia e soprattutto
impediscono alla madre di salire nella sua camera per dargli il bacio della buonanotte. In seguito,
questi sentimenti cambiano completamente quando il narratore scopre che Swann è anche il
padre di Gilberte, cioè la prima ragazza di cui si innamora, che incontrerà – nel corso delle sue
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
Al di là di questi rapporti diretti, c’è una relazione sotterranea che lega Swann e il narratore,
e che fa di lui uno dei personaggi-chiave di tutto il romanzo, una specie di alter ego del narratore
stesso. Intanto c’è un’affinità di carattere, sottolineata dallo stesso narratore, e c’è soprattutto il
rapporto con l’arte, con la dimensione estetica. Si tratta di un rapporto fatto di analogie, di ulteriori
affinità: Swann è un grande cultore di cose artistiche, è lui che contribuisce a iniziare il narratore
alla pittura, alla letteratura, all’architettura, gli fornisce una serie di indicazioni che formano il suo
gusto.
sensazioni immateriali», si ferma a uno stadio superficiale nell’esperienza estetica, e soprattutto non
Da questo punto di vista, l’intuizione più suggestiva resta sempre quella di Debenedetti, in
Rileggere Proust:
Così isolato, così staccato, questo episodio non cessa tuttavia di essere come un grande
sovrapporta, o meglio un bassorilievo che, all’ingresso di quel musicale e tragico inferno, dove poi
ci sprofonderemo in compagnia del personaggio che dice je, ne riassume i gironi, le torture, i
peccati e soprattutto la vicenda per cui si cade nel peccato capitale – il tempo perduto – e lo si
paga senza espiarlo. […] Swann è il più tipico, fascinoso e scoraggiante fabbricatore di tempo
perduto. […] Swann è un freddoloso morale, oltre che fisico: uno che si tiene al riparo dalla vita, in
un certo senso ritraendosene, creando di fronte alla vita quella impermeabilità, quel vuoto che
crea nel suo cervello, allorquando sente avvicinarsi un pensiero impegnativo e inopportuno,
tormentoso, difficile. […] Ha ottenuto il successo mondano, che è già un riconoscimento della sua
persona; ma inadeguato, meno meritorio e appagante, in paragone con quel riconoscimento che
gli sarebbe venuto in grazia di un’opera da lui creata, veramente “sua”. In un certo senso,
nell’aridità che gli è subentrata, si difende anche dall’amore: ha molte avventure, piuttosto
segrete, ma sceglie il tipo della donna formosa, sana, quasi sempre di una classe sociale alquanto
più bassa della sua o di quella che lui frequenta: la donna che appaga i suoi sensi, ma non la sua
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spiritualità, prelevata anzi al di fuori di questa spiritualità. […] Sono donne, dalle quali certo non si
scocca per lui l’invito a cercare qualche cosa in loro di ineffabile, l’anima segreta che le
apparenze annunciano insieme ed occultano. Sono narcotici che lo aiutano a dimenticare l’ansia
Possiamo ormai fare un passo più in là, non limitarci più a suggerire analogie, e dire qual è la
nostra opinione: il grande capitolo sull’amore di Swann è, proiettato sulla più visibile e accessibile
delle passioni umane, il movimento di psicologia coatta di tutta la Recherche [cioè la ricerca di
una misteriosa verità delle cose, non visibile nella loro apparenza]; messo a carico di un
personaggio a cui non è concessa la grazia, a cui tocca subire il travaglio del destino, senza
poterne appurare le rivelazioni. Swann, come si è detto, rimane nel limbo del “tempo perduto” […]
L’interesse palpitante, drammatico della Recherche, la sua forza di propulsione, anche nel senso
della dinamica narrativa, viene dal fatto che il protagonista rischia per migliaia di pagine, e per
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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto
Bibliografiai
Curtius, Ernst Robert, Marcel Proust, a cura di Lea Ritter Santini, Bologna, Il mulino,
1985.
Mondadori, 1982.
Spitzer, Leo, Stilstudien (1928), trad. it. Marcel Proust e altri saggi di letteratura
André Ferré, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1954, 3 voll., trad. it. Alla
ricerca del tempo perduto, Ed. Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Einaudi-
Tadié, Jean-Yves, Proust, le dossier (1983), trad. it. Proust. L'opera, la vita, la critica,
i
Questa lezione, insieme alle altre lezioni del modulo sul Modernismo, è tratta dagli appunti del prof. Federico Bertoni,
docente di Teoria della letteratura, con il quale ho collaborato presso l’Università di Bologna. Previo il suo consenso, e data
la qualità del materiale didattico, ho ritenuto utile metterlo a disposizione anche delle/degli studentesse/i di questo corso.
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
Questa lezione mira a fornire un esempio di critica tematica a partire da un classico della
letteratura modernista, La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Il campo di indagine è qui
ristretto alla sezione Un amore di Swann, un romanzo dentro il romanzo. Sarà illustrato il modo in cui
questo testo rappresenta una delle esperienze fondamentali della vita umana, nonché tema
romanzesco per eccellenza: la passione amorosa. L’analisi è compiuta partendo da quei brani
che mostrano le dinamiche misteriose del desiderio, e mettono in scena un soggetto amoroso che
L’oggetto della lezione, e del commento, non è ovviamente l’amore in quanto tale, ma
quello che, con le parole di Roland Barthes, possiamo chiamare il discorso amoroso 1, cioè l’amore
Come in molte altre opere della letteratura occidentale, risalta nel romanzo il monopolio
del discorso amoroso da parte di Swann, attraverso una gestione particolare del punto di vista per
cui la donna amata, Odette, viene descritta e rappresentata in gran parte attraverso gli occhi
dell’innamorato, tanto che non abbiamo modo di sapere come sia “realmente” la donna al di
fuori di questo sguardo soggetti. La sua vita interiore non ci viene mostrata.
Insieme alla passione amorosa, è rappresentata anche la crisi del desiderio, ravvisabile
nell’esibizione stessa del desiderio, che viene tradotto in discorso e alimentato da un immenso
repertorio di modelli artistici e letterari. Una crisi che può essere letta come un sintomo di quella
frattura tra pensiero e azione, tra piano dell’immaginario e piano dell’esperienza che è uno dei
tratti distintivi della modernità. Mascherando un vuoto, una mancanza esistenziale, il desiderio
esibito diventa una forma di inautenticità, o di vanità. Stendhal, in Dell’amore, affermava come
1
Il riferimento è al libro di Roland Barthes Frammenti di un discorso amoroso (1977).
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
questo tipo di amore aspiri «a reputarsi grande passione», ma in realtà sia «del tutto artificioso»,
Il romanzo illustra anche una specifica declinazione del desiderio, quella che René Girard,
tratta di una struttura triangolare del desiderio che si ritrova in molti romanzi. In questo quadro,
l’eroe, invece di mirare direttamente a un oggetto desiderato (gloria, successo, amore), passa
attraverso la mediazione di un modello, che funge da mediatore. Questo modello orienta il suo
desiderio e gli fornisce l’esempio da imitare; per il soggetto è fonte ispiratrice di cosa deve
dell’individuo: non sceglie più gli oggetti del suo desiderio, ma è Amadigi che deve scegliere per
lui. Il discepolo si precipita verso gli oggetti che gli indica, o che sembra indicargli, il modello di ogni
cavalleria. Chiameremo questo modello il mediatore del desiderio. […] Nella maggior parte delle
opere di finzione, i personaggi desiderano in modo più semplice di Don Chisciotte. Non c’è il
mediatore, ma ci sono solo il soggetto e l’oggetto […] il desiderio è sempre spontaneo. Può
sempre essere rappresentato da una semlice linea retta che collega il soggetto e l’oggetto. / La
linea retta è presente, nel desiderio di Don Chisciotte, ma non è l’essenziale. Al di sopra di questa
linea, c’è il mediatore che si irraggia al tempo stesso verso il soggetto e verso l’oggetto. La
Noteremo il ruolo importante della memoria culturale e della tradizione letteraria: attraverso
la passione di Swann per Odette, l’opera illustra una serie di costanti e di motivi convenzionali, e
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2. L’amore di Swann
Iniziamo partendo dal rapporto di Swann con le donne. In Rileggere Proust, Debenedetti
parla di una completa «dissociazione della prostituta dalla compagna», nel senso che Swann
cerca donne che sono l’opposto del suo tipo, sia in senso fisico che in senso sociale. Si può
vita pubblica, Swann è il raffinato cultore d’arte che apprezza la bellezza nobile e ideale ritratta
dai grandi maestri della pittura; è lo snob che frequenta gli ambienti più eleganti e le dame più
altolocate della buona società; dall’altro, nel versante privato e in parte clandestino della sua vita,
Swann cerca la soddisfazione dei sensi con donne volgari, fisicamente molto formose, che
Con una formula un po’ paradossale, potremmo dire che Swann ama donne che non
ama:
coinvolgono nel profondo, che non smuovono davvero nulla a livello interiore; che gli danno il
piacere dei sensi, ma visto come un triste surrogato di una felicità irraggiungibile, di un ideale che
non può essere mai posseduto. Un altro prestigioso specialista di Proust, il critico Ernst Robert Curtius,
E così segue quella discesa da una felicità irraggiungibile dell’amore alla ricerca senza
felicità del piacere. Cercare il piacere nella sensazione materiale e sapere che questo tradimento
dell’anima toglie al piacere il suo fiorire – questo è il lutto carnale del mondo proustiano.
La sua relazione con Odette è doppiamente paradossale, sia per l’ambiente in cui si
sviluppa, sia per le caratteristiche specifiche di questo personaggio. La storia di Swann e Odette si
svolge sotto la tutela e il controllo dei Verdurin, che sono quanto di più lontano dalle inclinazioni
sociali di Swann: essi rappresentano il démi-monde, termine che nell’Ottocento indicava quegli
ambienti equivoci che non erano né borghesia né “gran mondo”. Odette stessa non è
minimamente il suo tipo, non ha nulla che possa piacergli, nemmeno le qualità fisiche che trova
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nelle donne frequentate abitualmente. Riconosce che è bella, ma di una bellezza che non gli dice
nulla.
Il ruolo del desiderio mimetico: Swann si innamora in parte per interposta persona,
perché l’amico gli parla di Odette; inoltre, anche in seguito, si capisce che il desiderio
di Swann è indotto o alimentato dal confronto o dall’aperta rivalità con altri uomini.
La crisi del desiderio: Swann non desidera Odette, la quale, anzi, gli ispira un senso di
«repulsione».
In alcuni brani si parla dello «scarso gusto, il disgusto quasi che gli avevano ispirato, prima
che si innamorasse di lei i tratti espressivi di Odette». È solo con uno sforzo deliberato, con una
strana opera di autoconvincimento che Swann supera questo ostacolo e riesce a innamorarsi di
narcisista del suo sentimento. Debenedetti sosteneva che Swann è un uomo che ha bisogno di
conferme, con il bisogno di essere continuamente rassicurato sulle sue qualità, su ciò che può
vanità e un forte senso di autocompiacimento, spesso accentuato dal fatto di compromettersi con
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3. L’idealizzazione dell’amata
che è in parte il risultato di uno sforzo volontario e volontaristico, non basato su un desiderio
amato. Si rivela qui il potere formidabile dell’immagine, che costruisce una rappresentazione
È significativo il fatto che in Swann l’amore cresca non quando Odette è con lui, ma
quando è assente; o dopo i loro incontri, quando egli rievoca la figura di lei nella memoria, o
Una spia del ruolo dell’immagine, intesa come “immaginario”, è quando usa il termine
probabile che questo termine provenga da Stendhal, nella sua opera De l’amour, dove indica
appunto il processo di fissazione dell’essere amato in un’immagine. Sono numerosi i brani in cui
emerge come l’interesse che Swann prova per lei non abbia nulla a che fare la persona reale, ma
Tutto questo esprime una specie di scissione, un divario incolmabile tra il soggetto e
l’oggetto del desiderio, tra il sentimento dell’innamorato e la persona reale che dovrebbe ispirare
Swann, e la «persona stessa di Odette» non ha alcun ruolo effettivo. C’è un dissidio, una
coincidenza mancata tra quello che lui prova e la persona reale, tanto che deve fare uno sforzo
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
4. Il ruolo dell’arte
La pittura
Nel caso di Swann, più esplicitamente che negli altri esempi già visti, questo processo di
idealizzazione e di trasfigurazione immaginaria della donna amata passa attraverso il filtro dell’arte,
[…] forse perché la pienezza d’impressioni che provava da qualche tempo, benché gli
fosse venuta piuttosto con l’amore della musica, gli aveva arricchito anche il gusto per la pittura,
quella volta fu più profondo (e doveva esercitare su Swann un influsso durevole) il piacere che
provò in quel momento nel constatare la rassomiglianza di Odette con la Sefora di quel Sandro di
Mariano al quale non si dà più volentieri il soprannome di Botticelli da quando, invece della vera
opera del pittore, evoca l’idea scipita e falsa che se ne è divulgata. Non stimò più il volto di
Odette in base alla migliore o peggiore qualità delle guance e alla dolcezza meramente carnale
che supponeva di dover trovare toccandole con le labbra se mai avesse osato baciarla, ma
come una matassa di linee sottili e belle che i suoi sguardi dipanarono seguendo la curva del loro
avvolgimento, congiungendo la cadenza della nuca all’effusione dei capelli e alla flessione delle
palpebre, come in un ritratto di “lei nel quale il suo tipo diventava intelligibile e chiaro.
da allora, cercò di ritrovarlo, sia che stesse accanto a Odette, sia che soltanto la pensasse; e
benché senza dubbio al capolavoro fiorentino ci tenesse solo perché lo ritrovava in lei, tuttavia
questa rassomiglianza conferiva bellezza anche a lei, la rendeva più preziosa. Swann si rimproverò
di avere misconosciuto il pregio di un essere che al grande Sandro sarebbe parso adorabile, e si
compiacque che il piacere che provava a vedere Odette trovasse giustificazione nella propria
cultura estetica. […] La parola «opera fiorentina» rese un gran servigio a Swann. Come un titolo
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abilitante, gli permise di far penetrare l’immagine di Odette in un mondo di sogni dove finora non
donna, che diventa una figura disincarnata, ridotta alle due dimensioni di una immagine pittorica.
C’è un duplice processo di astrazione, di riduzione della persona a una immagine artificiale: non
solo Odette, come altre persone conosciute da Swann, viene assimilata a un ritratto, a una
immagine dipinta che sostituisce la sua identità, ma viene ricondotta alla logica dello stereotipo,
dunque nemmeno alla realtà effettiva dell’arte di Botticelli, ma all’idea banalizzata e superficiale
Da qui in poi, ogni sua percezione di Odette viene filtrata da questo modello, l’immagine di
repertorio si sovrappone alla figura reale, quasi la copre e la sostituisce proprio come un simulacro.
Swann, che cerca di ingannarsi, cerca di farsi piacere una donna che non gli piace,
contravvenendo tra l’altro a una regola costante della sua vita. In questo caso, ha l’impressione
illusoria di conciliare il suo desiderio fisico e il suo ideale estetico, il tutto grazie all’arte.
In modo molto evidente, il modello della pittura serve per nobilitare la figura di Odette, per
conferirle dei pregi che non ha. Troviamo in questi brani una illustrazione magistrale e specifica di
quell’atteggiamento definibile come misogino, attraverso cui la donna viene espulsa dall’orizzonte
sentimentale dell’innamorato, espropriata della sua identità, di una soggettività, di una personalità
individuale
È importante notare il ruolo del linguaggio: è l’espressione «opera fiorentina» a costruire una
categoria estetica in cui trova posto l’immagine idealizzata di Odette. Questo comporta anche la
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
Swann si comporta come un Pigmalione in formato minore, che non ha nemmeno la forza
creativa per creare la sua immagine artistica, ma utilizza le immagini create da altri e addirittura
La musica
Questo processo di estetizzazione della figura femminile non utilizza solo il medium artistico
più congeniale a Swann, cioè la pittura, ma anche un’altra arte, alla quale comincia ad
In modo ancora più evidente, data la natura immateriale del mezzo attraverso cui si
esprime, la musica produce una smaterializzazione di Odette, un assorbimento della persona reale
in una dimensione interiore, ideale, quasi metafisica. In questo modo, l’esperienza estetica
prodotta dall’ascolto della musica si identifica con il sentimento provato da Swann, in un certo
Nel caso di Swann non si tratta tanto della musica in generale, ma di un’opera specifica
che ascolta per la prima volta in casa dei Verdurin: la sonata di Vinteuil (personaggio che
compare più volte nella Recherche), e in particolare una «piccola frase» musicale che ricorre
all’interno dell’opera. Questa «piccola frase» si associa indissolubilmente al suo innamoramento per
Odette, diventa «l’inno nazionale» del loro amore. Ogni volta che la sente, Swann si sente
trasportato in un’atmosfera misteriosa e quasi magica che strappa Odette alla sua contingenza,
Troviamo anche in questo tema quella tensione metafisica che è alla base dell’estetica di
Proust: l’idea che la superficie dei fenomeni esteriori e materiali possa essere trascesa da una
capacità di penetrazione interiore che svela la realtà essenziale delle cose. L’arte – e in particolare
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
la musica – è lo strumento privilegiato per giungere a questa rivelazione, per mettere in moto quei
fenomeni che Proust chiama «intermittenze del cuore» e che sono l’unico modo per accedere al
l’ironico, il disilluso Swann, la musica manifesta «la presenza di una di quelle realtà invisibili alle quali
In brani come questi si avverte maggiormente la voce del narratore e la sua visione delle
cose, soprattutto in rapporto alla funzione dell’arte, considerata come l’unico modo per dare
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
5. Desiderio e gelosia
Dagli aspetti trattati finora, emerge che Proust ha una visione estremamente scettica e
pessimista dell’amore; l’amore è una delle tante esperienze illusorie di cui è costellata la vita
umana, è un inganno, una costruzione menzognera con cui ci illudiamo di arrivare alla felicità, ma
L’amore è una «malattia» (paragone che ricorre più volte), un «male» da estirpare, del
quale bisogna liberarsi per accedere a qualcosa di più nobile e di più puro, fondato nella propria
Ernst Curtius afferma che in Proust, l’amore è considerato come una malattia, una
riconosciuta come illusione. Quello che si può chiamare il pessimismo di Proust risulta da una
dell’amore. Sembra che abbia scritto i suoi libri semplicemente per svelare questa assoluta
insufficienza dell’amore»; L’amore è per Proust una malattia che può essere momentaneamente
anestetizzata ma non può venir guarita. Il compimento dell’amore sarebbe possibile solo nel
possesso, ma nessuna creatura umana può possederne un’altra. Questo vale già per l’unione dei
corpi: “l’atto del possesso fisico, nel quale d’altronde non si possiede nulla”. Tanto più vale per il
Questa visione pessimistica è legata anche alla natura del desiderio, che secondo Proust è
desiderio «rappresenta la nostra aspirazione all’assoluto», e come tale si dà solo come mancanza,
come assenza, come tensione verso qualcosa che non potrà mai essere raggiunto.
Non è un caso che Swann si innamori di Odette nel momento in cui non la trova, in cui
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
Un tema fondamentale del romanzo è la gelosia. In un certo senso, l’amore di Swann tende
a risolversi quasi interamente nella gelosia di Swann, che è l’aspetto propriamente patologico del
suo sentimento; viene paragonata a una «piovra» che estende ovunque i suoi tentacoli.
Significativo è il fatto che Swann diventi geloso quando si accorge che non può possedere
interamente Odette, quando vede che «Odette aveva una vita che non era interamente sua».
meccanismo che sta alla base di tutto il libro: la ricerca della verità, l’interrogazione delle
apparenze per decifrare il segreto che si nasconde dietro di loro. In Rileggere Proust afferma:
L’amore diventa il simbolo della “ricerca” tipica, cioè il tentativo di conoscere l’interno delle
cose, apparso dietro l’inviolabilità enigmatica e seducente, dietro il muro invalicabile del loro
apparire ed esistere per se stesse. Dalla sera in cui ha desiderato la cosa impossibile – il possesso di
un altro essere – Swann diventa geloso: l’amore di Swann si identifica, si risolve interamente nella
gelosia di Swann. E ci dà l’esemplare condensato e per eccellenza di quello che vedremo ripetersi
negli altri amori, di cui parla il libro. Ci dà, a guardare sotto il linguaggio dell’amore, il segreto che
alimenta la ricerca di Proust, […] fa nascere il libro». La Recherche «si svolge come un continuo
interrogatorio di gelosia. Proust si trova come in uno stato di dipendenza coatta di fronte alla
realtà, alla verità degli aspetti – mondo esterno, natura, sentimenti – ch’egli deve appurare ed
esprimere: dipendenza analoga a quella dell’innamorato di fronte alla persona che soggioga.
Il filosofo francese Gilles Deleuze, nella sua opera Proust e i segni, insiste sulla decifrazione
dei segni:
Innamorarsi significa individualizzare qualcuno attraverso i segni che porta o che emette.
[…] L’essere amato appare come un segno, un’“anima”: esprime un mondo possibile a noi
sconosciuto. L’amato implica, avviluppa, imprigiona un mondo che bisogna decifrare, cioè
interpretare. Si tratta anzi di una pluralità di mondi; il pluralismo dell’amore non riguarda solo la
molteplicità degli esseri amati, ma la molteplicità delle anime o dei mondi contenuti in essi. Amare
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
significa cercare di spiegare, di sviluppare questi mondi sconosciuti che restano avviluppati
nell’amato. […] C’è dunque una contraddizione dell’amore. Non possiamo interpretare i segni di
un essere amato senza sfociare in questi mondi che non ci hanno aspettato per prendere forma,
che si sono formati con altre persone, e nei quali noi siamo un oggetto in mezzo agli altri. L’amante
desidera che l’amato gli dedichi le sue preferenze, i suoi gesti e le sue carezze. Ma i gesti
dell’amato, nel momento stesso in cui si rivolgono a noi e ci vengono dedicati, continuano a
esprimere questo mondo sconosciuto che ci esclude. […] La prima legge dell’amore è soggettiva:
gelosia si spinge più lontano nella ricerca e nell’interpretazione dei segni. È la destinazione
dell’amore, la sua finalità. In effetti, è inevitabile che i segni di un essere amato, nel momento in cui
D’altra parte, questo meccanismo della gelosia – e della ricerca della verità − è molto
ambivalente. Per capirlo, basta leggere un episodio in cui Swann cerca di sorprendere Odette con
un amante: È notte; dopo essersi visti a casa di Odette, lui se ne va, torna a casa sua, ma viene
colto dal sospetto che forse lei ha un altro appuntamento; Così torna verso casa di Odette, si
apposta in strada, fuori dalla finestra, e vede la luce accesa attraverso le persiane; è convinto che
ci sia un altro uomo. In questa fase dell’episodio, sembra cercare la verità con grande
determinazione. Qui, la curiosità del geloso viene ricondotta a un bisogno più generale, a una
ricerca della verità che si può manifestare anche in altri ambiti della vita. In realtà, Swann viene
colto da qualche dubbio, ma insiste, finché non sopravviene un piccolo colpo di scena, un
Dal punto di vista tecnico, siamo di fronte a quello che Freud chiamerebbe un «atto
mancato». Nonostante la determinazione che Swann mostra nelle fasi precedenti, tutto si smonta
in un attimo, e subentra un sentimento di sollievo: è felice di non aver scoperto quello che
torna a casa; non va verso la vera casa di Odette per verificare ulteriormente i suoi sospetti.
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
In altri termini: Swann, che apparentemente cerca la verità, in realtà non la vuole trovare,
non vuole sapere nulla, vuole ingannarsi, perché la conquista della verità distruggerebbe l’edificio
microscopio, i suoi interrogatori da aguzzino, Swann crede di andare in cerca dei fatti e delle
prove; ha quell’avidità della smentita definitiva di cui solo la disperazione è capace, quel “voler
sapere” che si annunzia alla sofferenza come un punto fermo, e viceversa non è che sete di una
maggiore concretezza nel soffrire. In realtà, il lavoro è un altro. I due opposti proverbi che “la
gelosia acceca” e che la “gelosia apre gli occhi” sono ugualmente veri.
Così, Swann procede in questa ricerca tormentosa in cui la realtà gli mette continuamente
di fronte ciò che non vorrebbe sapere. Sospetta, trova le prove dei tradimenti di Odette, ma al
vedere.
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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust
Bibliografia
voll., trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Ed. Mariolina Bongiovanni
Curtius, Ernst Robert, Marcel Proust, a cura di Lea Ritter Santini, Bologna, Il
mulino, 1985.
Mondadori, 1982.
Bompiani,1965.
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
Virginia Woolf nasce a Londra nel 1882, in una famiglia della tarda aristocrazia vittoriana. Si
affermato, critico e storiografo; la madre è Julia Duckworth (nata Jackson), e quando sposa
Stephen nel 1878 si tratta della sua seconda esperienza di matrimonio. Julia è vedova con tre figli,
e dal secondo matrimonio avrà altri quattro figli; di questi, Virginia sarà la terza. Secondo le regole
della buona società vittoriana, Virginia viene educata in gran parte in casa, soprattutto dai
genitori stessi. Fin da subito, manifesta un carattere molto nervoso, ipersensibile; in più, trascorre
che la segneranno profondamente. Tra questi, ricordo la morte della madre, avvenuta nel 1895,
seguita da quella della sorella acquisita Stella. Pe tutta la vita la scrittrice, pur avendo una natura
gioiosa e ironica, e con molte amicizie importanti, soffre di crisi depressive che la porteranno al
Dopo la morte del padre, l’avventura intellettuale di Virginia Woolf entra nel vivo: già negli
anni precedenti, grazie al fratello Thoby (entrato a Cambridge nel 1899), era entrata in contatto
con alcuni intellettuali di spicco della cultura inglese. Nel 1904 si trasferisce con i due fratelli – Thoby
e Adrian – e con la sorella Vanessa nel quartiere di Bloomsbury, e dà vita a una sorta di cenacolo
culturale londinese per quasi trent’anni; un ambiente molto brillante e stimolante. Nel 1905 deve
affrontare un nuovo lutto familiare: la perdita dell’amato fratello Thoby, che muore di tifo. Nel 1912
sposa uno dei membri del gruppo, Leonard Woolf, famoso intellettuale, scienziato politico; con lui,
tra l’altro, darà vita (1917) a una casa editrice – la “Hogarth Press” – che pubblicherà, oltre agli
stessi libri della Woolf, varie opere dei più significativi scrittori modernisti (ad. es. T.S. Eliot, E.M. Forster,
Katherine Mansfield).
In questo periodo incomincia a dedicarsi alla produzione narrativa: nel 1913 esce il suo
primo romanzo, The Voyage Out (La crociera); nel 1920 esce il secondo, Night and Day. Seguono:
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1922: Altro romanzo, il primo importante: Jacob’s Room, iniziato nel 1920;
1923: Inizia a lavorare a uno dei suoi capolavori, Mrs Dalloway, che uscirà nel 1925
che rivela grande lucidità teorica e anche molta attenzione al dibattito culturale e all’attualità
letteraria:
1913: Inizia a tenere un diario in cui annota riflessioni sulla scrittura (pubblicato parzialmente
1917: Inizia a collaborare con il “Times Literary Supplement”, per il quale scrive articoli e
recensioni;
1923: Pubblica un saggio molto importante, Mr Bennett and Mrs Brown, che rappresenta
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
Virginia Woolf è impegnata su vari fronti: la collaborazione con il Times Literary Supplement, e al
contempo la stesura di nuovi saggi, che saranno poi raccolti e pubblicati in un volume. Il primo
nucleo del progetto è un racconto, intitolato Mrs Dalloway in Bond Street, scritto nel 1922; l’idea si
sviluppa in un progetto più ampio, come la Woolf annota nel suo Diario
14 ott. 1922: «La signora Dalloway si è ramificata in un libro; abbozzo qui uno studio della
pazzia e del suicidio; il mondo visto dal sano e dal pazzo, fianco a fianco… o qualche
29 ott. 1922: «Voglio elaborare La signora Dalloway. Voglio preordinare questo libro
– I temi di fondo del libro: la pazzia, il suicidio, soprattutto il confronto drammatico tra la vita e
B. STESURA
Passano alcuni mesi, e nel maggio 1923 si mette a pensare seriamente al romanzo, che in
questa fase dovrebbe intitolarsi The Hours. Un aspetto che colpisce, e che certamente caratterizza
la stesura di questo libro (come di altri), è la difficoltà, quasi il senso di pericolo che la Woolf avverte
scrivendolo, come se accettasse una sfida, come se si confrontasse con qualcosa di molto
rischioso.
«Prevedo, per tornare alle Ore, che questa sarà una lotta infernale. Il disegno è così strano
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
dubbio originale e m’interessa moltissimo. Vorrei scrivere e scrivere, a gran velocità, con
accanimento. Inutile dire che non posso riuscirci. Fra tre settimane sarò del tutto inaridita»
(96).
«Interminabile lotta con Le ore, che si dimostra uno dei miei libri più stuzzicanti e insieme
più riottosi. Ha parti bellissime e parti bruttissime; m’interessa molto; non so smettere di
Così, passo dopo passo, riesce finalmente a giungere alla scena finale e quindi alla
conclusione del libro, che le provoca un enorme senso di liberazione (nel frattempo il libro ha
cambiato titolo):
Parla dell’«ultimo tratto della Signora Dalloway. Ci sono arrivata: alla festa, finalmente, che
dovrà avere inizio in cucina e lentamente risalire in tutta la casa. Dovrà essere un pezzo
Annota «un fatto strabiliante, le ultima parole dell’ultima pagina della Signora Dalloway […]
Comunque le avevo scritte otto giorni fa. “Ella era là”, e mi sentii felice di essermene liberata,
perché era stata una grande tensione nelle ultime settimane, e tuttavia più fresca
mentalmente […] Senza dubbio mi sento liberata con maggiore pienezza del solito dal libro
C. REVISIONE E PUBBLICAZIONE
Così, nei mesi successivi, Woolf si dedica a un lavoro di rilettura e di revisione, e prepara il
libro per la stampa. Il libro viene pubblicato nel maggio 1925 dall’editore Harcourt Brace, in un
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
periodo in cui la Woolf comincia già a progettare un nuovo romanzo, che sarà To the Lighthouse
(1927).
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Prima di iniziare l’analisi, vorrei mettere a fuoco alcuni problemi tecnici che la Woolf cerca
di affrontare, e sui quali riflette. Le questioni che affronta sono essenzialmente: 1) I personaggi; 2) Il
Un aspetto molto importante del libro risiede nella natura relazionale dei personaggi (in
particolare di Mrs Dalloway), che non si definiscono e prendono vita in se stessi, nella loro identità
autonoma. I personaggi si definiscono attraverso i rapporti che instaurano con gli altri, nel modo in
cui vengono visti e giudicati da questi, nel modo in cui condividono più o meno esplicitamente
Per quanto riguarda il rapporto tra i personaggi e il tempo, possiamo dire che in questo
romanzo Woolf mette a punto una delle sue grandi scoperte tecniche, cioè il tunneling process,
che consiste nello scavare delle gallerie nel tempo e nella mente dei personaggi, per mettere in
comunicazione piani temporali diversi. In altri termini, mentre il tempo cronologico (orologio)
scorre, la Woolf ci proietta nelle menti dei personaggi e ci immerge in una durata puramente
interiore, in cui eventi del passato, del presente o del futuro si mescolano continuamente tra loro,
«Avrei molto da dire a proposito delle Ore e della mia scoperta: come io scavi bellissime
caverne dietro i miei personaggi; questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità,
profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al
momento giusto».
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
«Mi è toccato brancolare un anno intero per scoprire ciò che io chiamo il mio procedere
per gallerie [my tunneling process]: in questo modo racconto il passato a rate, come e quanto mi
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
Proviamo ad affrontare la lettura del libro per avere una prima impressione. Il libro inizia così:
For Lucy had her work cut out for her. The doors would be taken off their hinges;
Rumpelmayer’s men were coming. And then, thought Clarissa Dalloway, what a morning—fresh as
Quanto a Lucy aveva già il suo daffare. Si dovevano togliere le porte dai cardini; gli uomini
di Rumpelmayer sarebbero arrivati tra poco. E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina - fresca
come se fosse stata appena creata per dei bambini su una spiaggia.]
Le prime parole del libro replicano perfettamente il titolo, Mrs Dalloway, e in questo modo
Il libro inizia in medias res, senza introduzioni e preparazioni; il lettore viene calato
direttamente nella situazione, in una scena che è già iniziata, di cui però non conosciamo ancora il
nominati, come se noi li conoscessimo già, come se sapessimo perfettamente non solo chi è Mrs
determinativo, per es. the flowers, che di per sé viola una norma grammaticale, ma che appunto
È importante la presenza del verbo pensò, in quanto fa subito slittare i piani della
al mondo interiore di Clarissa, alla sua percezione, alle sue emozioni. È in qualche modo anche un
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primo segnale indirizzato al lettore, se vogliamo un’implicita indicazione di poetica sul tipo di
scrittura e sul tipo di romanzo che si trova di fronte. Infatti, tutto il capoverso successivo è
What a lark! What a plunge! For so it had always seemed to her, when, with a little squeak
of the hinges, which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at
Bourton into the open air. How fresh, how calm, stiller than this of course, the air was in the early
morning; like the flap of a wave; the kiss of a wave; chill and sharp and yet (for a girl of eighteen as
she then was) solemn, feeling as she did, standing there at the open window, that something awful
was about to happen; looking at the flowers, at the trees with the smoke winding off them and the
rooks rising, falling; standing and looking until Peter Walsh said, “Musing among the vegetables?”—
was that it? — “I prefer men to cauliflowers” — was that it? He must have said it at breakfast one
morning when she had gone out on to the terrace — Peter Walsh. He would be back from India
one of these days, June or July, she forgot which, for his letters were awfully dull; it was his sayings
one remembered; his eyes, his pocket-knife, his smile, his grumpiness and, when millions of things
had utterly vanished — how strange it was! — a few sayings like this about cabbages.
[Che gioia! Che terrore! Sempre aveva avuto questa impressione, quando con un leggero
cigolio dei cardini, lo stesso che sentì proprio ora, a Bourton spalancava le persiane e si tuffava
nell'aria aperta. Com'era fresca, calma, più ferma di qui, naturalmente, l'aria la mattina presto,
pareva il tocco di un'onda, il bacio di un'onda; fredda e pungente, e (per una diciottenne
com'era lei allora) solenne, perché in piedi di fronte alla finestra aperta, lei aveva allora la
sensazione che sarebbe successo qualcosa di tremendo, mentre continuava a fissare i fiori, e gli
alberi che emergevano dalla nebbia che a cerchi si sollevava fra le cornacchie in volo. E stava lì e
guardava, quando Peter Walsh disse: "In meditazione tra le verze?" Disse così? O disse: "Io
preferisco gli uomini ai cavoli"? Doveva averlo detto a colazione una mattina che lei era uscita sul
terrazzo - Peter Walsh. Stava per tornare dall'India, sì, uno di questi giorni, in giugno o a luglio forse,
non ricordava bene, perché le sue lettere erano così noiose; ma certe sue espressioni rimanevano
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
impresse, gli occhi, il temperino, il sorriso, quel suo modo di fare scontroso, e tra milioni di cose
ormai del tutto svanite - com'era strano! - alcune espressioni, come questa dei cavoli.]
Questo è un’illustrazione perfetta di quello che la stessa Woolf chiamava tunneling process,
cioè procedere per gallerie, scavare delle gallerie dentro i personaggi e la loro percezione del
tempo e della vita. Siamo completamente immersi nella soggettività e nel mondo interiore di
Clarissa, in tutta la sua complessità – fatta di percezioni presenti, di ricordi, di giudizi, di sentimenti
per altre persone. È importante notare l’intreccio di piani temporali, tra presente e passato,
evidenziati dall’uso degli avverbi di tempo: ora, allora, uno di questi giorni ecc. A livello tematico,
osserviamo subito la rilevanza della memoria. A tale proposito, notare la transizione tra un ricordo
scena precisa, il dialogo con Peter Walsh (un personaggio che ancora non conosciamo, ma che
avrà un ruolo importante nel romanzo). Nel capoverso successivo c’è un cambiamento
importante:
She stiffened a little on the kerb, waiting for Durtnall’s van to pass. A charming woman,
Scrope Purvis thought her (knowing her as one does know people who live next door to one in
Westminster); a touch of the bird about her, of the jay, blue-green, light, vivacious, though she was
over fifty, and grown very white since her illness. There she perched, never seeing him, waiting to
[Si irrigidì appena sul marciapiede, aspettando che passasse il furgone di Durtnall. Una
donna affascinante, pensò di lei Scrope Purvis (che la conosceva come ci si conosce tra vicini a
Westminster); somigliava a un uccello, a una gazza verde-azzurra, esile, vivace, malgrado avesse
più di cinquant'anni, e le fossero venuti tanti capelli bianchi dopo la malattia. Se ne stava posata lì,
Anche questo brano illustra in modo esemplare il modo di procedere della Woolf: c’è una
brusca transizione dall’interno all’esterno del personaggio, che ora viene visto da fuori, viene
descritto nelle sue azioni e nel suo aspetto fisico; inoltre, si tratta di uno sguardo esterno che prima
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è sostanzialmente oggettivo, impersonale, e che poi – ruotando sempre sul verbo pensò – diventa
soggettivo, si incarna in un altro personaggio che osserva Clarissa, registra i dettagli del suo aspetto
malattia). Il testo va ancora a capo, e nel capoverso successivo c’è un nuovo spostamento nella
soggettività della protagonista. Vediamo che molte cose si mescolano in modo apparentemente
confuso nella percezione e nel pensiero di Clarissa, non attraverso una logica razionale, ma
queste:
La percezione del tempo (tema centrale del libro e di tutta la sua opera): il tempo vissuto
segnato e quasi materializzato («cerchi di piombo») dai rintocchi del Big Ben, che scandisce
il ritmo di tutto il libro, battendo le ore dalla mattina (qui sono le 10.00) fino alla sera (cfr.
Lo spazio, la percezione di Londra, dello spazio urbano di una metropoli di inizio Novecento
E al centro di tutto questo – il passare del tempo, la gente nelle strade – c’è la percezione
della vita, il tema centrale del libro e di tutta l’opera di Woolf. In tutto questo, emerge
l’atteggiamento del personaggio verso la vita, un atteggiamento positivo, di amore per la vita
(connotazioni del nome: clarus), che però nasconde anche un connotato di classe (vedi) e forse
una certa ingenuità, una forma di volontarismo, che diventa oggetto di un’ironia implicita. Tanto è
vero che il brano successivo introduce degli argomenti tragici, tutt’altro che lieti (la guerra, la
morte), con i quali Clarissa dovrà confrontarsi suo malgrado. I pensieri nefasti vengono allontanati,
vengono volontariamente cancellati da questa adesione entusiastica alla vita, che però ha
sociale, e esprime una caratteristica di fondo della personalità di Clarissa (e in parte anche di
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
Virginia Woolf) che è lo snobismo; Il tutto si riassume e converge in quello che sarà l’evento
culminante e conclusivo di questa giornata, cioè la festa che Clarissa ha organizzato in casa sua
(per questo è uscita a comprare i fiori); una festa che però sarà un po’ diversa da come lei la
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
5. Trama e montaggio
Il libro non è diviso in capitoli, ma è formato da sequenze narrative separate da brevi spazi
bianchi. Dunque non c’è un’articolazione evidente, una scansione ben strutturata del materiale,
ma un unico sviluppo narrativo suddiviso in vari episodi. Come in quasi tutti i romanzi di Woolf (e di
molti autori modernisti), la prima impressione è che sia un libro sostanzialmente senza trama, in cui
“non succede nulla”, con un ritmo lento, in cui il lettore non viene trascinato dagli avvenimenti,
Il romanzo racconta una normalissima giornata di giugno nella Londra degli anni Venti, dal
mattino alle 10 (quando esce per comprare i fiori), fino alla notte (festa). Si tratta di una giornata
(anche polemico) con il modello di Joyce, che – esteriormente – aveva costruito Ulisse in base allo
stesso principio: il racconto di una giornata qualunque nella Dublino del primo Novecento (16
È importante ricordare come per questi scrittori cambi il baricentro dell’interesse narrativo,
che non risiede più nella trama in senso classico e nella concatenazione funzionale degli
avvenimenti. Non abbiamo più a che fare con la descrizione verosimile e oggettiva di un certo
impercettibili della vita interiore. Al centro della prosa sono avvenimenti banali, quotidiani,
pensieri, delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi. Tutto questo non vuol dire che il romanzo
della Woolf sia un romanzo sconclusionato, in cui davvero non succede nulla. Al contrario,
succedono anche cose gravi, drammatiche, in primo luogo il suicidio di uno dei protagonisti,
sembra guidata dal caso, da incontri fortuiti, dai movimenti capricciosi della mente dei
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway
Bibliografia
Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
2017.
i Questa lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità agli studenti/esse dell’Universitas Mercatorum di accedere a questo
materiale.
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Emanuela Piga Bruni - Tempo e poetica in Mrs. Dalloway di Virginia Woolf
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Emanuela Piga Bruni - Tempo e poetica in Mrs. Dalloway di Virginia Woolf
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Emanuela Piga Bruni - Tempo e poetica in Mrs. Dalloway di Virginia Woolf
1. I livelli temporali
Questa lezione è dedicata a una delle opere maggiori di Virginia Woolf, Mrs. Dalloway.
L’attenzione è dedicata a due aspetti molto importanti, che mostrano la stretta interconnessione
generale, costituisce uno degli aspetti centrali di tutta l’opera di Woolf. Possiamo individuare
diverse articolazioni del tempo narrativo che si intrecciano e si sovrappongono nel romanzo. Ma
For having lived in Westminster—how many years now? over twenty, -- one feels even in the
midst of the traffic, or waking at night, Clarissa was positive, a particular hush, or solemnity; an
indescribable pause; a suspense (but that might be her heart, affected, they said, by influenza)
First a warning, musical; then the hour, irrevocable. The leaden circles dissolved in the air.
For Heaven only knows why one loves it so, how one sees it so, making it up, building it round
one, tumbling it, creating it every moment afresh; but the veriest frumps, the most dejected of
miseries sitting on doorsteps ( drink their downfall ) do the same; can’t be dealt with , she felt
positive, by Acts of Parliament for that very reason: they love life. In people’s eyes, in the swing,
tramp, and trudge; in the bellow and the uproar; the carriages, motor cars, omnibuses, vans ,
sandwich men shuffling and swinging ; brass bands; barrell organs; in the triumph and the jingle and
the strange high singing of some aeroplane overhead was what she loved; life; London; this
moment of June…
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - Tempo e poetica in Mrs. Dalloway di Virginia Woolf
[Poiché il semplice fatto di vivere a Westminster - da quanti anni ormai? più di venti -
impone indiscutibilmente (Clarissa lo affermava) sia pur nel bel mezzo del viavai d’una piazza, o
destandosi all’improvviso la notte, una particolare calma, anzi solennità; una pausa che non si
saprebbe descrivere; un sostar della vita (ma questo poteva ben essere il cuore, indebolito
dall’influenza) nell’attimo prima che Big Ben suoni le ore. Ecco il rintocco! Prima è un monito,
musicale, poi l’ora, irrevocabile. I plumbei circoli si dissolvevano per l’aria. Poveri di spirito che
siamo, pensava Clarissa, attraversando Victoria Street. Dio solo sa perché l’amiamo così, la
vediamo così, perché ce la facciamo così, costruendola attorno al nostro io per poi scomporla, e
ricrearla da capo a ogni momento; eppure l’ultima delle pitocche, i più sciagurati rifiuti umani
seduti sui gradini delle porte (istupiditi dal bere) non farebbero altrimenti; e per quella precisa
ragione non c’è legge né decreto che possa domarli: perché amano la vita. Negli occhi dei
passanti, nella foga del brulichio cittadino, nel muggito e nel frastuono, nel trepestio e
organetti, nella nota trionfante e nello strano altissimo canto di un aereo che ronzava su in cielo
era ciò che ella amava: la vita, Londra, e quell’attimo di giugno. Poiché si era a metà di giugno.]
La manifestazione del tempo più esplicita, più facile da cogliere riguarda il tempo
cronologico, ovvero il tempo dell’orologio che scorre tra le 10 della mattina e la tarda serata o la
notte di questa giornata di giugno. Si tratta di un tempo percettibile a livello sensoriale, quasi
materializzato dai rintocchi del Big Ben (o di altri orologi pubblici) che battono le ore, che
scandiscono il passare del tempo e il procedere della vicenda. Potete rintracciare questo motivo
nella prima scena del testo (citata sopra): il Big Ben che batte «l’ora, irrevocabile» (si capisce che
sono le 10 di mattina). Poco più avanti leggiamo: «le campane batterono undici rintocchi». Poi, in
un episodio successivo, si sente il «Big Ben che batte la mezz’ora» [11.30], e un altro orologio gli fa
subito eco.
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[Prendiamo, per esempio, Peter Walsh. Un uomo simpatico, intelligente, ricco d’idee. Non
c’era che Peter, si volesse sapere qualcosa su Pope, diciamo, o Addison, o discorrere
semplicemente del più e del meno, a chi somiglia il tale o il tal altro, e il significato di certe cose.
Peter l’aveva sempre aiutata; Peter le aveva prestato dei libri. Eppure, guardate le donne che
amava volgari, triviali, banali. Peter innamorato - era venuto a trovarla dopo tanti anni, e di che
cosa aveva parlato? Di se stesso. "Orribile passione!" pensò Clarissa. "Passione degradante!" E il suo
pensiero seguiva la sua Elizabeth e la Kilman, che andavano ai Magazzini dell’Unione Militare.
Era straordinario, strano, anzi commovente, vedere la vecchia signora (da tanti anni erano
vicini di casa) allontanarsi dalla finestra come se fosse attaccata a quel suono, a quella corda
musicale. Per quanto gigantesco fosse quel suono, aveva una certa analogia con lei. Penetrava
giù, giù dentro la vita quotidiana, e il momento diventava solenne. I rintocchi, immaginò Clarissa,
Questi sono vari esempi di brani in cui emerge il tempo nella sua dimensione strettamente
cronologica.
Il tempo segnato dagli orologi (e dai calendari) è quello che, in termini tecnici, si chiama
tempo della storia, cioè la cronologia degli avvenimenti, il tempo della vicenda nella sua
successione “naturale”. Ma, di fatto, quasi nessun testo narrativo segue rigorosamente il tempo
della storia: Intanto perché non può materialmente raccontare tutto, anche quando l’arco
cronologico preso in considerazione è abbastanza breve come in questo caso; poi perché
rispetto alla linea del tempo naturale, cronologico (ad es., per fornire al lettore informazioni sui
personaggi, sulla loro vita precedente). Inoltre, va detto che nessun testo narrativo può fare a
meno di certi effetti di ritmo, che accelerano o rallentano la narrazione. Dunque, oltre al tempo
della storia esiste un tempo del racconto. Si tratta del tempo dell’organizzazione narrativa, del
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modo in cui gli avvenimenti vengono raccontati nel testo. È un modo che non necessariamente
(anzi quasi mai) coincide con la sequenza “naturale” in cui si sono svolti i fatti; per questo il tempo
del racconto fa uso di vari artifici costruttivi (inversioni e spostamenti dell’ordine degli eventi,
Nel romanzo, troviamo per esempio dei vuoti, dei salti temporali, quelle che tecnicamente
si chiamano ellissi, cioè segmenti temporali che non vengono raccontati. Per esempio, dopo la
prima sequenza del testo, che descrive la passeggiata di Mrs Dalloway fino al negozio del fioraio,
l’attenzione si sposta sull’altro personaggio principale, Septimus Warren Smith. La scena lo descrive
camminare per la strada con sua moglie, e poi andare in un parco. Alla fine di questa sequenza,
dopo uno spazio bianco, ritroviamo Clarissa (che avevamo lasciato dal fioraio) mentre rientra in
casa. Tutto il tragitto della protagonista verso casa viene tralasciato, c’è un vuoto, un’ellissi che
contiene un pezzo di storia che non viene raccontato, è omesso, ma al contempo, è desunto dal
lettore.
Un altro tipico artificio temporale è la cosiddetta analessi (flashback), cioè un salto indietro
nel tempo, lo spostamento a un punto precedente della storia, che può essere ovviamente
anteriore al momento in cui è iniziata. Per esempio, a un certo punto Woolf ha bisogno di fornire al
lettore alcune informazioni sul passato di Septimus. Ci vengono date informazioni sulla sua
giovinezza, il lavoro, le vicende sentimentali, e soprattutto sulla guerra, alla quale partecipa come
Sono informazioni dalla natura frammentaria ma indispensabili per mettere a fuoco il personaggio
e capire la sua situazione presente, il suo squilibrio mentale, le sue fobie, le sue allucinazioni, i suoi
atteggiamenti paranoici. Nel farlo, Woolf interrompe la narrazione degli avvenimenti presenti per
per lo stile narrativo della Woolf, almeno per lo stile che comincia a sviluppare e a mettere a punto
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proprio in Mrs Dalloway. Questo brano è caratterizzato da una tecnica classica, una prospettiva
esterna e abbastanza oggettiva, cioè quella del narratore onnisciente che conosce il passato dei
suoi personaggi e lo racconta al lettore per dargli una serie di informazioni. In realtà, nella maggior
parte dei casi Woolf rievoca il passato dei personaggi attraverso i personaggi stessi, attraverso la
soggettività della loro coscienza, attraverso i ricordi che si sviluppano nella loro mente. Questo ci
riporta ovviamente al ruolo della memoria e al tunneling process, al «procedere per gallerie» nelle
menti dei personaggi, mettendo in comunicazione diversi piani temporali, in un continuo intreccio
di presente, passato e futuro. Ci riporta anche a una terza e importantissima declinazione del
tempo nel romanzo: il tempo interiore, il tempo della vita psichica, che ha un ritmo, una durata e
Non è un tempo lineare ma un “tempo misto”, per il quale i tempi della grammatica sono
inadeguati (come ha notato un’importante studiosa di Woolf, nonché sua traduttrice, Nadia
Fusini). Per esempio, alcune esperienze molto importanti del passato di Clarissa vengono
raccontate attraverso i suoi pensieri e ricordi. Un esempio è la scena in cui si sta pettinando in
camera sua, e alla mente affiorano i ricordi della sua amicizia (molto vicina all’amore) con Sally
Seton.
Lying awake, the floor creaked; the lit house was suddenly darkened, and if she raised her
head she could just hear the click of the handle released as gently as possible by Richard, who
slipped upstairs in his socks and then, as often as not, dropped his hot-water bottle and swore! How
she laughed!!
But this question of love (she thought, putting her coat away), this falling in love with
women. Take Sally Seton; her relation in the old days with Sally Seton. Had not that, after all, been
love??
oscurava, e alzando il capo ella “udiva il clic della maniglia abbassata il più dolcemente possibile
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da Richard, il quale saliva in punta di piedi, senza scarpe, e il più delle volte lasciava cadere la
boccia dell’acqua calda e bestemmiava! Ah, come rideva lei! Questa faccenda dell’amore (ella
vi pensava, riponendo la giacca), dell’amore tra donne… Prendiamo Sally Seton; i suoi rapporti
con lei, in altri tempi. Non era stato amore, dopo tutto? Ella sedeva in terra - era stata quella la sua
prima impressione di Sally - sedeva in terra, le braccia attorno alle ginocchia, e fumava una
sigaretta. “She sat on the floor—that was her first impression of Sally—she sat on the floor with her
Il tempo distruttore
Virginia Woolf gioca con il tempo in modo estremamente sofisticato: il presente di questa
giornata raccontata dall’inizio alla fine, e scandita dal battere delle ore, si intreccia con altre
dimensioni temporali, nelle quali i personaggi e le loro vite attuali acquistano profondità.
Acquistano inoltre uno spessore temporale che è quello del loro passato, della loro storia
individuale, magari lontanissima da ciò che sono poi diventati ma che rimane viva in loro, è
temporale è anche quella della Storia, dell’esperienza collettiva, perché in varie occasioni la Woolf
allude al momento storico in cui siamo e alla guerra e alle ferite che ha lasciato, e in particolare
nell’animo di Septimus.
Tutto questo è legato a una quarta e ultima declinazione del tempo che possiamo
individuare: il tempo come agente distruttore, il tempo come grande forza storica e naturale (quasi
cosmica) che annienta la vita degli uomini, rivela la loro precarietà, e in qualche modo coincide
con la morte. Anche il rintocco degli orologi pubblici allude a questo processo distruttivo, che
sgretola lentamente e inesorabilmente la vita umana, oppure, il passaggio del tempo può essere
letto sul volto di una persona. Ad esempio, questo aspetto affiora anche nelle prime pagine,
quando la gente vede passare per le vie di Londra una macchina in cui viaggia qualche
malinconia che pervade molte pagine della scrittrice, e che ha suffragato molte letture in chiave
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negativa, pessimistica, con tutta una serie di riferimenti più o meno pertinenti alla sua stessa
esperienza biografica alle continue crisi nervose, agli squilibri mentali, e infine al suicidio. Resta
sempre la coscienza della fragilità della vita umana, e la sua impermanenza, come lo si può
evincere dalla frase: «Anche l’amore distruggeva ogni cosa. Tutto ciò che era bello, tutto ciò che
era vero moriva». Tuttavia, è fondamentale ricordare sempre che si tratta di una faccia della
medaglia: il fascino profondo della scrittura della Woolf sta in una continua tensione tra la vita e la
morte. La sua ricerca artistica è un’avventura molto rischiosa tra le cose ultime, le cose
fondamentali dell’esistenza umana. Da un lato, è presente una percezione molto acuta del dolore,
della morte, dell’inevitabile distruzione a cui andrà incontro non solo il singolo individuo ma
l’umanità nel suo complesso – cosa che alimenta il pensiero di quella che Leopardi chiamava
«l’infinita vanità del tutto» (cfr. To the Lighthouse: «perfino il ciottolo contro cui sbatte lo stivale
sopravvivrà a Shakespeare»). Dall’altro, emerge con forza l’amore indistruttibile nei confronti della
vita, un atteggiamento positivo verso il mondo e le persone, che si manifesta soprattutto nelle
inspiegabili (cfr. Liliana Rampello, Il canto del mondo reale). È importante ricordare che questi due
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Muovo da questo romanzo, e anche dalla riflessione teorica di Virginia Woolf, per dire
qualcosa di più preciso sul personaggio nel quadro del romanzo modernista.
Abbiamo visto che i personaggi non vengono presentati in modo tradizionale, ma vengono
messi in scena come se noi li conoscessimo già. Infatti, non ci viene fornito un ritratto completo, un
profilo sociologico, una caratterizzazione psicologica o morale che preceda la loro entrata in
scena. Quasi tutte le informazioni su di loro vengono disseminate nel testo, e nella maggior parte
dei casi vengono fornite in modo implicito, o indiretto, spesso attraverso i pensieri e i giudizi dei
personaggi stessi. Per esempio, l’aspetto fisico di Clarissa non viene descritto esplicitamente, non
viene mai tracciato un ritratto nel senso classico, ma ci sono solo alcune pennellate disseminate
nel testo, alcune notazioni descrittive che spesso passano attraverso gli occhi o i pensieri di altri
personaggi:
A charming woman, Scrope Purvis thought her (knowing her as one does know people who
live next door to one in Westminster); a touch of the bird about her, of the jay, blue-green, light,
vivacious, though she was over fifty, and grown very white since her illness.
[Una donna graziosa, la giudicò Scrope Purvis (egli la conosceva come ci si conosce tra
verdazzurro, lieve, vivace, quantunque avesse varcato la cinquantina e fatto molti capelli bianchi
Poco dopo, è lei stessa che riflette sul suo corpo, del quale non è molto soddisfatta:
Instead of which she had a narrow pea-stick figure; a ridiculous little face, beaked like a
bird’s. That she held herself well was true; and had nice hands and feet; and dressed well,
considering that she spent little. But often now this body she wore (she stopped to look at a Dutch
picture), this body, with all its capacities, seemed nothing—nothing at all. She had the oddest
sense of being herself invisible; unseen; unknown; there being no more marrying, no more having of
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children now, but only this astonishing and rather solemn progress with the rest of them, up Bond
Street, this being Mrs. Dalloway; not even Clarissa anymore; this being Mrs. Richard Dalloway.
[E invece aveva una figurina magra come una pertica da fagioli, e una ridicola faccetta
con un nasino a becco d’uccello. Però si manteneva bene, bisognava riconoscerlo; e mani e piedi
li aveva belli; e si vestiva discretamente, considerando che spendeva poco. Ma spesso le pareva
che quel corpo ch’ella abitava (si fermò a guardare un quadro di scuola olandese), quel corpo
con tutte le sue qualità, fosse ben poca cosa, per non dir nulla affatto. La coglieva un
singolarissimo senso d’essere invisibile di passare inosservata, sconosciuta; non era più una donna
sposata, ora, non aveva più figli, non restava che una, la quale seguiva con tutti gli altri la
stupefacente e alquanto solenne processione su per Bond Street. Essere la signora Dalloway;
She felt very young; at the same time unspeakably aged. She sliced like a knife through
everything; at the same time was outside, looking on. She had a perpetual sense, as she watched
the taxi cabs, of being out , out , far out to sea and alone; she always had the feeling that it was
very , very dangerous to live even one day. Not that she thought herself clever, or much out of the
ordinary. How she had got through life on the few twigs of knowledge Fraulein Daniels gave them
she could not think. [...] Her only gift was knowing people almost by instinct, she thought, walking
on. If you put her in a room with some one, up went her back like a cat’s; or she purred.
[Si sentiva assai giovane; e al tempo stesso, indicibilmente attempata. Penetrava attraverso
la vita come una lama di coltello; e al tempo stesso restava al di fuori, spettatrice. Guardando il
viavai dei tassì, aveva un perpetuo senso d’esser lontana, lontanissima sul mare, e sola; sempre
aveva la sensazione che la vita, anche d’un sol giorno, fosse molto, oh molto pericolosa. Non
ch’ella si credesse molto intelligente, o nemmeno una persona fuor dell’ordinario. Come avesse
potuto cavarsela nella vita, con le scarse briciole di scienza che aveva dato loro Fraulein Daniels,
non lo capiva davvero. […] Un unico dono aveva, quello di conoscere le persone quasi per istinto,
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ella pensava, riprendendo il cammino. Se si trovava a tu per tu con qualcuno, ecco che subito
Più avanti, è uno dei personaggi principali – Peter Walsh – che pensa al suo aspetto:
There was always something cold in Clarissa, he thought. She had always, even as a girl, a
sort of timidity, which in middle age becomes conventionality, and then it’s all up, it’s all up, he
thought, looking rather drearily into the glassy depths, and wondering whether by calling at that
“hour he had annoyed her; overcome with shame suddenly at having been a fool; wept; been
[“C’è sempre stato in Clarissa qualcosa di freddo” egli pensava. "Ha sempre avuto, anche
da ragazza, una certa timidezza, che con la maturità diventa poi banalità, e poi è finita, è finita…"
E alquanto cupo egli fissava lo sguardo entro le vitree profondità, e si domandava se con la sua
visita a quell’ora non avesse disturbato Clarissa. E “improvvisamente si vergognò per essersi
mostrato così sciocco; per aver pianto, per aver fatto il sentimentale, dicendole tutto come al
(soprattutto) a Peter Walsh, che è stato sul punto di sposarla (ma lei ha rifiutato) e che
ora, tornato a Londra dopo molti anni passati in India, pensa continuamente a lei.
Ci sono in particolare due sequenze, incentrate su Peter, in cui veniamo a sapere molte
È fondamentalmente una snob – Peter la definisce «una donna di società», che tiene
È atea, si è costruita «una sorta di religiosità atea che consisteva nel fare il bene per
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una poetica che la Woolf ha cercato di definire anche a livello teorico, soprattutto nei suoi saggi.
C’è un saggio in particolare, molto importante e incentrato proprio sul personaggio: Mr Bennett
and Mrs Brown. Si tratta di un saggio che, tra parentesi, ha una vicenda editoriale abbastanza
complicata. La prima versione, intitolata Mr Bennett and Mrs Brown, viene pubblicata nel
novembre del 1923 sul «New York Evening Post», per essere successivamente poi ripresa in altre
riviste. Il saggio viene poi rielaborato in uno scritto successivo, Character in Fiction, pubblicato nel
luglio 1924 su «Criterion», diretta da T.S. Eliot. E quindi, sempre nel 1924, questo testo viene
ripubblicato dalla Hogarth Press in forma di libretto autonomo, con il titolo originario Mr Bennett
Il saggio sviluppa una tesi radicale, molto militante, fondata sulla contrapposizione netta tra
due generazioni di scrittori, su una «frattura» generazionale che ha segnato la letteratura inglese
intorno al 1910:
Galsworthy, Wells;
stessa.
senza dubbio l’elemento più importante di un testo narrativo. Il saggio inizia dicendo che la sua
stessa vocazione narrativa, il fatto di avere dedicato la vita alla scrittura, nasce dalla visione di un
personaggio:
«Una piccola figura è sorta davanti a me – la figura di un uomo, o di una donna, che ha
detto: “Mi chiamo Brown. Prendimi, se ci riesci”. Molti romanzieri vivono la stessa esperienza. Un
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signor Brown, Smith o Jones gli va incontro e dice, nel modo più seducente e affascinante del
mondo: “Vieni e prendimi, se ci riesci”. Così […] annaspano un volume dopo l’altro, passando i
migliori anni della loro vita nell’inseguimento, e il più delle volte ricevendo ben poco denaro in
cambio. Pochi prendono il fantasma; i più si devono accontentare di un brandello del suo vestito,
«Credo che tutti i romanzi […] abbiano a che fare con il personaggio, ed è per esprimere il
personaggio – non per predicare dottrine, cantare canzoni o celebrare le glorie dell’Impero
britannico – che la forma del romanzo, così goffa, verbosa e non drammatica, così ricca, elastica
e viva, è stata sviluppata. Per esprimere il personaggio, ho detto; ma vi renderete subito conto che
In altri termini, dice la Woolf: esistono moltissimi modi per costruire un personaggio; esistono
tecniche, strumenti, convenzioni a cui gli autori delle varie epoche si sono rifatti. E il punto è proprio
questo: Le convenzioni utilizzate dai romanzieri precedenti non funzionano più, perché, come
spiega, «human character changed»: andare a scuola da loro per imparare a costruire un
Si assiste chiaramente alla formulazione di un dissenso radicale sugli obiettivi e sui metodi
della narrativa. Tanto che un romanziere della vecchia scuola come Arnold Bennett accusa i
giovani scrittori di non saper costruire personaggi veri, reali, convincenti, mentre, agli occhi di
Woolf, sono i personaggi di Bennett e di quelli come lui ad apparire vuoti, incompleti, dei pupazzi
senza vita. È il problema della relatività dei giudizi, e della stessa nozione di “realtà”; continua la
scrittrice:
sopravvivere. Altrimenti è destinato a morire. E tuttavia mi chiedo: che cos’è la realtà? E chi sono i
giudici della realtà? Un personaggio può apparire reale al signor Bennett e del tutto irreale a me».
Per illustrare la sua tesi, Woolf racconta un aneddoto personale, rievocando un viaggio in
treno in cui si trovò per caso nello scompartimento con due sconosciuti, che chiama Mr. Smith e
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Mrs Brown. Osservandoli, ascoltando frammenti di conversazioni, intuisce che qualche dramma
segreto sta turbando la vita della donna, e prova una grande compassione per lei, un forte senso
personaggio che andava compreso, in qualche modo aggredito, svelato nelle sue emozioni e nei
suoi pensieri segreti. Viceversa, ragiona la Woolf, un romanziere come Bennett si metterebbe a
descrivere lo scompartimento del treno, il paesaggio che si vede dal finestrino, il tipo di guanti
indossati dalla signora Brown, il prezzo del suo vestito ecc., con il risultato di farsi sfuggire la cosa più
«Il signor Bennett non ha guardato una sola volta la signora Brown nel suo angolo. Sta lì
seduta nell’angolo dello scompartimento […] e nessuno degli scrittori edoardiani l’ha osservata più
di tanto. Hanno guardato con grande forza, penetrazione e simpatia fuori dal finestrino […] ma
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Emanuela Piga Bruni - Tempo e poetica in Mrs. Dalloway di Virginia Woolf
Bibliografia
Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
2017.
Virginia Woolf, Mrs. Dalloway (1925), trad. it. di A. Scalero, La signora Dalloway,
i
Questa lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità di accedere a questo materiale didattico agli/alle studenti/esse
dell’Universitas Mercatorum.
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Emanuela Piga Bruni - Mrs. Dalloway di Virginia Woolf: il prisma delle coscienze
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Emanuela Piga Bruni - Mrs. Dalloway di Virginia Woolf: il prisma delle coscienze
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Mrs. Dalloway di Virginia Woolf: il prisma delle coscienze
In Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, i personaggi vengano presentati e caratterizzati per lo più
nell’aspetto fisico del personaggio, nell’arredamento della casa in cui abita, o nel modo in cui si
veste, il suo lavoro, la classe sociale a cui appartiene, ma nella sua vita, nei suoi drammi interiori, in
quel flusso inafferrabile di impressioni che attraversa la sua mente in un momento qualunque. La
personaggio di Septimus. Nei brani in cui è narrata la passeggiata di Septimus al parco con la
moglie Lucrezia, ci viene mostrata dalla scrittrice la rappresentazione “dall’interno” di una mente
Tutti i personaggi del romanzo, concepiti e costruiti in questo modo, entrano a far parte di
un piano ben preciso. Hanno dei ruoli, fanno parte di un sistema fondato su una rete di relazioni
molto complesse. Si tratta di relazioni spesso ambigue, basate su sentimenti contraddittori. Sono
sostanza fluida e inafferrabile con cui la Woolf costruisce il suo romanzo: il tempo.
Septimus, i quali, a livello di ruoli narrativi, possono essere definiti protagonista e deuteragonista. Per
classe sociale, esperienze vissute, temperamento, sembrano due personaggi opposti, ma in realtà
profonda, su cui ruota tutto il romanzo e che rimanda al rapporto tra la vita e la morte.
Il loro legame viene suggerito già nelle prime sequenze del romanzo, dal modo in cui Woolf
connette i vari segmenti narrativi, in una sofisticata opera di montaggio. La prima scena descrive la
passeggiata di Clarissa per le vie di Londra, da casa sua fino al negozio del fioraio (Mulberry) in
Bond Street. Mentre è nel negozio a scegliere i fiori, si sente un rumore violento, «uno sparo nella
strada», che in realtà è provocato da un’automobile (su cui si pensa viaggi qualche autorità, o il
Primo Ministro o addirittura la Regina). A questo punto la scena si sposta fuori dal negozio, in strada,
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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con i passanti che si mettono a guardare questa macchina con grande curiosità; finché,
l’attenzione si sposta su un personaggio in particolare, Septimus, che sta camminando nella strada
proprio lì davanti:
The violent explosion which made Mrs. Dalloway jump and Miss Pym go to the window and
apologise came from a motor car which had drawn to the side of the pavement precisely
opposite Mulberry’s shop window [….] Septimus Warren Smith , who found himself unable to pass ,
heard him … Septimus Warren Smith, aged about thirty , pale-faced , bead-nosed , wearing brown
shoes and a shabby overcoat , with hazel eyes which had that look of apprehension in them which
[La violenta esplosione che aveva fatto trasalire la signora Dalloway, inducendo Miss Pym
marciapiede, proprio davanti al negozio di Mulberry. […] Lo udì Septimus Warren Smith, che non
Septimus Warren Smith, sui trent’anni circa, pallido in viso, il naso aquilino, portava scarpe
marrone e un soprabito sdrucito, e aveva negli occhi color nocciola quell’aria apprensiva che
Le pagine successive descrivono gli spostamenti di Septimus e della moglie per le strade di
Londra. I due personaggi si sfiorano senza conoscersi, passano a pochi metri l’uno dall’altro, e
ovviamente questo doppio fuoco della narrazione – che segue prima Clarissa, poi Septimus –
suggerisce l’esistenza di un legame indiretto tra di loro, che verrà sviluppato nel corso della
narrazione.
A prima vista i due personaggi sono estremamente diversi: Clarissa è una donna ricca,
elegante, che appartiene all’alta società londinese (suo marito è un membro del Parlamento),
vive in una delle zone più esclusive di Londra, ha una bella casa, molti domestici, e una delle sue
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Septimus viene dalla piccola borghesia, ha un aspetto misero, è vestito male, ha sposato
una ragazza italiana, vive in una casa modesta, e soprattutto è un reduce profondamente
nervoso.
Clarissa ama la vita, in tutte le sue forme, tenta di ricavare il massimo piacere dalle sue esperienze,
anzi, la sua passione per le feste deriva proprio dall’amore per la vita. Mentre Septimus, anche a
causa del trauma che ha subito, ha un concetto estremamente negativo della vita e dell’umanità,
Eppure, nonostante queste enormi differenze, alcuni legami sotterranei sembrano collegare
così positivo nei confronti della vita, rivela delle ombre, degli aspetti profondamente malinconici:
spesso prova un senso di esclusione, di assenza, di solitudine, come se non potesse partecipare
davvero alle esperienze che vive. E per quanto abbia tutto (ricchezza, qualità umane ecc.), sente
che le manca qualcosa, sente una specie di vuoto al centro del suo essere. In questo senso,
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2. Il punto di vista
Ci soffermiamo ora, in maniera più tecnica, sulla forte connotazione soggettiva della
narrazione, che è incentrata soprattutto sulle coscienze dei personaggi, sul loro punto di vista e
sulla loro vita interiore. Questo implica l’attenzione all’importanza dei legami, del sistema di
relazioni che collega le varie coscienze e che in un certo senso struttura la trama del romanzo.
Esiste un legame profondo tra questi due aspetti, anche a livello di tecnica narrativa: perché
spesso, le relazioni tra i personaggi vengono costruite, mediate attraverso la gestione del punto di
vista, di quella che tecnicamente si chiama focalizzazione narrativa. In generale è difficile dare
una definizione univoca ed esauriente di punto di vista, che è una delle categorie narratologiche
più ambigue e controverse. Possiamo in questa sede affermare che si tratta della prospettiva da
cui la storia viene osservata, e quindi comunicata al lettore. Più tecnicamente, è uno strumento di
narratore decide di trasmetterci. In sostanza, è il filtro attraverso cui possiamo accedere alla storia,
o – per usare una metafora classica – è la finestra dalla quale guardiamo i personaggi e gli
cosiddetto “narratore onnisciente”, un narratore che sta al di sopra dei personaggi. Questo
narratore può compiere salti nel tempo e nello spazio; può raccontare vicende che si svolgono
contemporaneamente in luoghi diversi; può infine indagare la vita interiore di tutti i personaggi,
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focalizzazione zero. Si tratta dunque di un racconto non focalizzato, e non filtrato da nessuna
prospettiva particolare.
come quelli di James Joyce, Virginia Woolf, e prima di loro, Henry James, che è stato il primo ad
che fare con un narratore non onnisciente, e che filtra tutta la rappresentazione attraverso la
coscienza, la soggettività di uno o più personaggi. Dunque, la prospettiva qui non è superiore ai
personaggi, ma interna a uno di essi; è possibile vedere, sapere, conoscere solo ciò che vede, sa e
conosce il personaggio. Il mondo esterno ci appare attraverso i suoi sensi, le sue percezioni e le sue
possibilità conoscitive.
Insomma, il narratore ha un livello di sapere uguale a quello del personaggio: racconta solo
quello che il personaggio può verosimilmente percepire e sapere, compreso naturalmente il suo
Con Genette diciamo che è un racconto a focalizzazione interna: si assiste alla restrizione,
Ci sarebbe poi una terza possibilità (più che altro teorica, o possibile solo in porzioni molto
limitate della narrazione), in cui il narratore ci mostra i fatti e i personaggi solo dall’esterno, con una
interpretazione, non ci rivela nulla sui pensieri o sulle motivazioni interiori che spingono i personaggi,
ma si limita esclusivamente a descrivere quello che si vede o che si sente a livello empirico, cioè i
gesti esteriori e i dialoghi. Un po’ come una cinepresa, infatti si tratta di uno stile narrativo molto
influenzato dal cinema. In questo ambito, uno degli esempi che si citano di solito è Ernest
Hemingway, seguito da altri narratori americani. In questo caso, il narratore ha un livello di sapere
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3. La rappresentazione multiprospettica
Seppur si sia parlato di soggettività della percezione, nel caso di Mrs. Dalloway, non
generale, nei testi narrativi il rapporto di focalizzazione non è sempre costante ma è soggetto a
segmento narrativo determinato, che può essere brevissimo. La distinzione tra di diversi punti di
vista, d’altra parte, non è sempre tanto precisa come ci potrebbe far credere la semplice
In effetti, nel romanzo, non sempre ci troviamo di fronte a una focalizzazione interna: ci
sono porzioni narrate con tecnica più tradizionale, da parte di un narratore onnisciente che ci
Prendiamo come esempio la scena al parco, quando una bambina va a sbattere contro le
gambe di Lucrezia:
I can’t stand it any longer, she was saying, having left Septimus , who wasn’t Septimus any
longer , to say hard , cruel , wicked things , to talk to himself, to talk to a dead man , on the seat
over there ; when the child ran full tilt into her , fell flat , and burst out crying.
That was comforting rather. She stood her upright, dusted her frock, kissed her .
[Aveva lasciato Septimus che non era più Septimus, là sulla panchina, a dire cose dure,
crudeli, ingiuste, a parlare da solo, o a un morto, laggiù sulla panchina; quando la bimba le si gettò
tra le gambe, cadde lunga distesa, e ruppe in lagrime. Lucrezia, che la raddrizzò e le spolverò il
In questo caso è opportuno chiedersi: Chi osserva le azioni della bambina? Le informazioni
sulla bambina non possono provenire né da Peter né da Lucrezia, che non la conoscono.
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Detto questo, se dovessimo individuare una dominante per quanto riguarda la gestione del
punto di vista, non c’è dubbio che si tratti della prospettiva ristretta o focalizzazione interna, che
naturalmente accentua la connotazione soggettiva e anche relativa della narrazione, con tutti i
limiti conoscitivi che questo comporta. Un esempio molto eloquente lo si ritrova nella stessa
sequenza ambientata al parco: prima c’è un’immersione nella coscienza alienata di Septimus, che
ha le allucinazioni, si agita in modo scomposto, discute con la moglie. Poi il punto di vista si sposta
“It is time”, said Rezia . The word “ time” split its husk ; poured its riches
over him; and from his lips fell like shells; like shavings from a plane , without his making them
, hard , white , imperishable words , and flew to attach themselves to their places in an ode to Time
; an immortal ode to Time. He sang. Evans answered from behind the tree. The dead were in
Thessaly, Evans sang, among the orchids. There they waited till the War was over, and now the
dead, now Evans himself -- “For God’s sake don’t come” Septimus cried out.
The time, Septimus, Rezia repeated. “What is the time?? He was talking, he was starting, this
“I will tell you the time, said Septimus, very slowly, very drowsily, smiling mysteriously. As he sat
smiling at the dead man in the grey suit the quarter struck—the quarter to twelve.
And that is being young, Peter Walsh thought as he passed them. To be having an awful
scene—the poor girl looked absolutely desperate—in the middle of the morning. But what was it
about, he wondered, what had the young man in the overcoat been saying to her to make her
look like that; what awful fix had they got themselves into, both to look so desperate as that on a
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La parola "tempo" spaccò il suo guscio, riversò su di lui le sue ricchezze; e dalle sue labbra
caddero, senza ch’egli le formasse, come scaglie, come trucioli da una pialla, dure bianche
imperiture parole e volarono a incastrarsi al loro posto in un’ode: un’ode immortale, al tempo. Egli
cantò.
Evans gli rispondeva di dietro all’albero. I morti sono in Tessaglia, cantava Evans, tra le
orchidee. là attenderanno sino a che la guerra sia finita, e ora i morti, e ora Evans stesso… "Per
amor di Dio non ti avvicinare!" gridò Septimus, che non se la sentiva di vedere un morto. […] L’ora,
Septimus" disse Rezia. "Che ore sono?" Septimus parlava, gesticolava. L’uomo doveva essersene
accorto; li guardava. "L’ora? Adesso te la dico, l’ora" disse Septimus lentissimo, come assonnato, e
rivolse al morto in grigio un sorriso sibillino. E mentre sorrideva, suonarono i tre quarti: le dodici.
“meno un quarto. Ecco che cosa significa essere giovani" meditava Peter Walsh, passando oltre
quei due. Farsi una scenata (la povera giovane pareva proprio disperata, a mezzo del mattino).
"Ma che cosa sarà successo" egli si domandò; "che cosa le avrà detto quel giovanotto col
soprabito, per ridurla in quello stato? In che razza d’impicci si saranno cacciati, perché tutt’e due
abbiano una faccia così stravolta, con questo bel mattino d’estate?]
3.1 Transizioni
Questo è il tipico ritmo della narrazione di Virginia Woolf. Come formula prevalente,
possiamo parlare di una focalizzazione interna variabile, di una tecnica multiprospettica, quasi
prismatica, in cui il pdv si sposta continuamente. Sono presenti delle transizioni (spesso rapidissime)
tra un personaggio e l’altro, che spesso vengono marcate esplicitamente da verba sentiendi, verbi
significativo. Nelle prime sequenze, dopo che Clarissa è andata a comprare i fiori e l’attenzione si è
spostata su Septimus e la moglie che passeggiano a Regent’s Park, c’è tutta una parte che ha
Lucrezia come personaggio focale. Lucrezia si allontana per un attimo da Septimus per andare a
una fontana e intanto riflette sulla sua situazione, è assolutamente disperata, si augura addirittura
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che il marito muoia; e mentre si allontana lo guarda. Poi ci spostiamo nella mente allucinata di
Egli se n’era andato, se n’era andato come aveva minacciato - per togliersi la vita, per
gettarsi sotto un carro! Ma no; eccolo ancora là, solo sulla panchina, col soprabito sdrucito; le
gambe accavallate, lo sguardo fisso, parlava da solo. […] Qui c’era la sua mano; qui i morti.
Bianche forme si adunavano dietro la cancellata là di faccia. Ma egli non osava guardare. Evans
[…]
l’attenzione del marito su cose reali: vedere qualche spettacolo di varietà, giocare al cricket -
ecco, quello “era il gioco che ci voleva, diceva il dottor Holmes, un simpatico gioco all’aria
aperta, proprio il gioco adatto per suo marito. "Guarda" ella ripeté.
Quindi il punto di vista si sposta su un altro personaggio che si avvicina a loro per chiedere
informazioni:
“Per la stazione della metropolitana di Regent’s Park? Potete dirmi dove si va, per la
stazione della metropolitana?" Era Maisie Johnson che s’informava. Da due giorni appena era
arrivata da Edimburgo "Non da questa parte - di là!" esclamò Rezia, affrettandosi ad allontanarla
con un gesto perché non vedesse Septimus. Parevano un po' strambi, tutti e due, pensò Maisie
Johnson. Tutto pareva strambo quaggiù. Si trovava a Londra per la prima volta, era venuta per
impiegarsi dallo zio che abitava in Leadenhall Street, e ora quella coppia, incontrata men “tre al
mattino attraversava il parco, l’aveva fatta sussultare; la giovane donna aveva l’aria forestiera,
Finché – con un ulteriore spostamento del punto di vista la stessa Masie diventa oggetto
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Perché non era rimasta a casa? Ella piangeva, tormentando il pomo della cancellata di
ferro.
"Quella ragazza" pensava la signora Dempster (la quale metteva da parte gli avanzi di
pane per gli scoiattoli e spesso veniva a far colazione in Regent’s Park) "dev’esser nata ieri"; e
opinò che, veramente era meglio essere un po' energici, non troppo fiduciosi, e non aspettarsi
In questo modo Woolf crea una serie di legami tra i vari personaggi, anche quando non si
conoscono. Si tratta di legami che si costruiscono appunto attraverso gli sguardi, i pensieri e gli
metropoli modernista, i personaggi vengono avvolti in una specie di rete che corre sotto la
È molto interessante anche la scena dell’incontro tra due personaggi che invece si
conoscono bene, che hanno condiviso molte esperienze anche se non si vedono da molto tempo.
Si tratta di Clarissa e Peter Walsh, e della scena in cui lui si presenta inaspettatamente a casa di lei.
In questo caso notiamo una serie di transizioni molto rapide e ravvicinate, con un’alternanza che ci
fa spostare tra le due menti dei personaggi, e un effetto di illuminazione reciproca: ogni
personaggio prende rilievo attraverso lo sguardo dell’altro, quasi ad evocare la tecnica filmica
campo/controcampo. Tra l’altro, Woolf sottolinea che questi due personaggi hanno un rapporto
particolare, fatto di sguardi, di intuizioni, che permette loro di capirsi al volo. È un rapporto che non
ha bisogno di parole.
3.2 Coralità
L’obiettivo particolare a cui mira spesso Virginia Woolf è l’effetto di coralità, di
moltiplicazione dei punti di vista, ottenuto attraverso la gestione multiprospettica della narrazione.
Un esempio è fornito dal brano sul passaggio della macchina per Bond Street fino a Buckingham
Palace. La scena è narrata attraverso il convergere degli sguardi dei vari personaggi che
osservano, commentano e fanno congetture. Prima Clarissa nel negozio di fiori, poi Septimus e la
moglie, quindi tante altre figure della folla. Un'altra tecnica simile si riscontra anche nella scena del
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passaggio dell’aeroplano, che attira gli sguardi di vari soggetti: prima la folla (e di alcuni
personaggi in particolare), poi Lucrezia, poi Septimus. In seguito riappare alla signora Dempster, e
L’esempio forse più pertinente di rappresentazione corale si trova alla fine del romanzo,
nella scena della festa in cui convergono tutti i personaggi e tutti i fili della trama. È una scena
molto complessa anche tecnicamente (e che non a caso, come ha scritto Woolf stessa, ha
richiesto molta fatica in fase di stesura), al cui centro c’è ovviamente Clarissa, che è un po’ il
baricentro di tutto, che organizza, accoglie gli invitati, cerca di metterli a loro agio ecc. In questo
brano ruotano tanti altri personaggi, i cui sguardi e pensieri si alternano in una visione frammentata
e policentrica.
personaggio che vive nel tempo, che è soggetto al cambiamento e che definisce la sua
«I loro tratti più evidenti [dei personaggi relativi] sono sinteticamente riassumibili nella terna
di temporalità, mutabilità e relazione. Partecipano del tempo che hanno avuto in sorte; nel corso
del racconto modificano per crisi o sviluppo […] psicologia e comportamenti; e, non
monadicamente isolati, si lasciano coinvolgere in più rapporti […]. Eleggono, insomma, […] il
sentimento della relazione come guida della loro esistenza. E, almeno tendenzialmente,
diverse. È una capacità che si ritrova, per esempio, anche in un altro straordinario personaggio
femminile, Mrs Ramsay, la protagonista di To the Lighthouse, altra opera maggiore di Woolf. In
Woolf, questa capacità è una prerogativa tipicamente femminile, perché le donne sono
generose, sono coloro che danno, che creano la vita (ovviamente anche in senso biologico), che
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sono capaci di mettersi nei panni degli altri, mentre gli uomini appaiono spesso prigionieri della loro
Dunque, anche le sue caratteristiche apparentemente negative (lo snobismo, una certa
frivolezza) sono legate a questo potere relazionale, perché il suo salotto non è tanto una fiera delle
vanità, quanto il luogo in cui molte esistenze diverse vengono a contatto, si incrociano, entrano in
relazione tra loro, ruotando intorno a lei. E questo è il motivo per cui organizza le sue feste, come
quella che chiude il romanzo: non una gratificazione personale ma un’«offerta» rivolta agli altri.
She must go back to them. But what an extraordinary night! She felt somehow very like
him—the young man who had killed himself. She felt glad that he had done it; thrown it away. The
clock was striking. The leaden circles dissolved in the air. He made her feel the beauty; made her
feel the fun. But she must go back. She must assemble. She must find Sally and Peter. And she
Doveva tornare dai suoi ospiti. Ma che notte straordinaria! Senza saperne la ragione, ella si
sentiva affine a lui - al giovane che s’era ucciso. Era contenta che così avesse fatto; buttato via la
vita, mentre altri seguitavano a vivere. L’orologio batteva l’ora. I plumbei circoli si dissolvevano
nell’aria. Ma ella doveva tornare là, riordinare le proprie idee, ritrovare Sally e Peter. E uscì dal
salottino.
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Bibliografia
Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
2017.
iQuesta lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità di accedere a questo materiale didattico agli/alle studenti/esse
dell’Universitas Mercatorum.
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Emanuela Piga Bruni - Il primo Novecento: Al faro di Virginia Woolf
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Indice
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porta in molte direzioni, spesso diversissime tra di loro, e che però trova un comune denominatore:
strumentazioni conoscitive e stilistiche nel rendere conto di una visione del mondo molto più
complessa. L’istanza primaria è di andare oltre i fenomeni, e cogliere una realtà essenziale al di là
E una realtà profonda, nascosta, segreta: una realtà ulteriore che lo scrittore ha il compito
Giacomo Debenedetti, nel suo libro Il romanzo del Novecento, afferma: «Il compito è di
vedere “che cosa si nasconde dietro le cose”. Una seconda realtà, per dirla in breve, più profonda
e stabile e vera di quella vistosamente e sensibilmente presentata dalla loro apparenza» (p. 295).
Non a caso, i protagonisti delle opere di James Joyce, di Marcel Proust, di Virginia Woolf, di
Katherine Mansfield sono esseri dalla sensibilità eccezionale, dotati di un senso in più rispetto agli
di avere estasi, rivelazioni, improvvise illuminazioni (si pensi alle epifanie narrate da Joyce; o
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Emanuela Piga Bruni - Il primo Novecento: Al faro di Virginia Woolf
Questa nuova sensibilità, questa nuova concezione del mondo e della funzione dell’arte,
esercita un profondo influsso su tutti gli aspetti costitutivi della narrazione. Si dice che i romanzieri
del primo Novecento hanno rivoluzionato l’impianto del romanzo classico: ed effettivamente il loro
strade) viene sferrato contro tutti i piani della struttura narrativa. Cade l’imperativo mimetico, il
dogma della verosimiglianza, almeno per come erano intesi nell’Ottocento. Tende a venir meno la
guida sicura, attendibile, autorevole, del narratore onnisciente, che nel romanzo classico:
sviluppo teleologico
prospettiva viene affidata al personaggio, o addirittura a diversi personaggi, che offrono una
visione soggettiva, parziale, relativa, incapace di stabilire con sicurezza il significato degli eventi.
Spesso il narratore diventa inattendibile, e di conseguenza, il compito del lettore diventa molto più
dell’insignificante. Il primo effetto è quello di una rarefazione degli eventi (succede ben poco), di
uno sfaldamento dei loro rapporti reciproci e dei legami di causa/effetto, come se quella grande
macchina che era stata l’intreccio del romanzo ottocentesco si inceppasse e incominciasse a
girare a vuoto. Il tempo narrativo non ubbidisce più a una rigida concatenazione, a un ordine
digressioni, salti temporali, ellissi che sospendono il corso lineare del tempo. Gli avvenimenti non
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Emanuela Piga Bruni - Il primo Novecento: Al faro di Virginia Woolf
vengono misurati in base alla loro durata effettiva, cronometrica, ma in base ai riflessi, alle
risonanze che hanno nella coscienza dei personaggi. La nuova unità di misura è una durata
dell’inconscio e la teoria di Freud incide profondamente sulla crisi dell’identità personale, dell’io
unitario, del cogito cartesiano. Tutto questo va a incrinare la stabilità stessa del personaggio
romanzesco, che si presenta come essere diviso, interiormente scisso, incapace di padroneggiare
quell’altro, quel doppio, che agisce dentro di lui (si veda anche l’opera di Pirandello, o la figura di
Zeno Cosini in Svevo). Il personaggio, in molti casi perde anche i segni esteriori della sua identità, a
partire dal nome, come nel caso di K., il protagonista dei romanzi di Kafka.
Infine, si sperimentano nuove tecniche narrative, percepite come una grossa rottura
formale. Si assiste nella prosa allo spostamento di prospettiva, a un prevalere del racconto
mettono in campo meccanismi psichici fondati (ad es.) sull’associazione di idee, sul flusso
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Emanuela Piga Bruni - Il primo Novecento: Al faro di Virginia Woolf
Proviamo a vedere quanto detto sopra nel concreto di un testo. Lo facciamo a partire da
una delle opere maggiori di Virginia Woolf, To the Lighthouse (Al faro), pubblicata nel 1927 e
fortemente rappresentativa di questi mutamenti nelle poetiche degli scrittori di quel periodo.
Partiamo dal commento dell’incipit, caratterizzato da un attacco in medias res. Osserviamo che il
testo inizia con una battuta di dialogo, che costituisce la risposta a una domanda implicita;
veniamo proiettati in una conversazione già iniziata. Il brano è concentrato sulla figura di James,
che deduciamo essere il figlio della narratrice. Incorniciati tra il “sì, se…” della madre, e il “no” del
“Yes, of course, if it’s fine tomorrow,’ said Mrs. Ramsay. ‘But you’ll have to be up with the
lark,’ she added. / To her son these words conveyed an extraordinary joy, as if it were settled the
expedition2 were bound to take place, and the wonder to which he had looked forward, for years
and years it seemed, was, after a night’s darkness and a day’s sail, within touch. Since he
belonged, even at the age of six, to that great clan which cannot keep this feeling separate from
that, but must let future prospects, with their joys and sorrows, cloud what is actually at hand, since
to such people even in earliest childhood any turn in the wheel of sensation has the power to
crystallise and transfix the moment upon which its gloom or radiance rests “James Ramsay, sitting
on the floor cutting out pictures from the illustrated catalogue of the Army and Navy Stores,3
endowed the picture of a refrigerator as his mother spoke with heavenly bliss. […] / ‘But,’ said his
father, stopping in front of the drawing-room window, ‘it won’t be fine.’ / Had there been an axe
handy, a poker, or any weapon that would have gashed a hole in his “father’s breast and killed
– Sí, certo, se domani è bel tempo, – disse la signora Ramsay. – Ma dovrai alzarti con le
allodole, – aggiunse. / A suo figlio quelle parole diedero una gioia immensa, come se la spedizione
dovesse senz’altro aver luogo, e l’evento che aveva tanto atteso, per anni e anni gli sembrava,
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fosse infine, oltre il buio di una notte e la navigazione di un giorno, a portata di mano. Poiché
apparteneva, già all’età di sei anni, a quella categoria di persone che non sanno tenere separate
le proprie emozioni e lasciano che i progetti futuri, con le loro gioie e dolori, oscurino ciò che
invece possiedono, e poiché per questo tipo di persone sin dalla piú tenera infanzia ogni scarto
nella ruota delle sensazioni ha il potere di cristallizzare e fissare l’attimo su cui allunga la sua ombra
o la sua luce, James Ramsay, che era seduto per terra e ritagliava figure dal catalogo illustrato
degli Army & Navy Stores, alle parole della madre riversò sulla figura di un frigorifero una celestiale
beatitudine. […] / – Ma, – disse il padre, fermandosi davanti alla finestra del salotto, – non sarà bel
tempo. / Se nella stanza ci fosse stata un’ascia, un attizzatoio, o qualunque altro oggetto
contundente con cui squarciare il petto di suo padre e ucciderlo, lí e subito, James l’avrebbe
afferrato.
Sul piano tecnico, l’ingresso nel testo è brusco, ellittico, carico di sottintesi; a poco a poco ci
vengono fornite delle informazioni che ci permettono di mettere a fuoco la situazione: il nome, il
bambino che sta ritagliando delle figure, ecc. Via via, comprendiamo che siamo in una casa sul
mare (nelle Ebridi), e che il dialogo con cui si apre il romanzo verte sul progetto di una gita in barca
pensata per il giorno dopo, verso il faro che sorge su un’isola lì vicino1. È una gita che il figlio – dal
dalla sua prospettiva infantile, sembra avvolta in un alone magico, carica di un significato
decisivo.
Il progetto è però reso incerto dal tempo meteorologico, che minaccia di essere cattivo,
Tutta la prima parte del romanzo si svolge in questo scenario (o nella casa, o negli
immediati dintorni), e copre un’unica giornata; e si consuma appunto nell’attesa di questa gita al
faro, che (come verremo a sapere più avanti) non si farà, proprio a causa del maltempo. Si tratta
di una scena dal forte valore simbolico, e che apre il romanzo mettendo al centro una struttura
triangolare: la cellula-base della famiglia (padre, madre, figlio), con la peculiarità degli equilibri e
1Ispirato al Godrevy Lighthouse, il faro che sorge su un isolotto nei pressi di St. Ives in Cornovaglia, dove Virginia Woolf passò
diverse estati da bambina con la famiglia.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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dei rapporti affettivi (da un lato affetto e complicità; dall’altro ostilità e odio), e quindi anche con
la netta contrapposizione tra i sessi (una problematica centrale nella prosa di Woolf). Il tema, tra
l’altro, si riallaccia indirettamente alla genesi del libro, al materiale biografico da cui è nato, e
Ora sono tutta tesa verso il desiderio di abbandonare il giornalismo e mettermi al lavoro su
To the Lighthouse. Sarà piuttosto corto; vi sarà un ritratto completo di papà; e della mamma; e poi
St. Ives; e l’infanzia; e tutte le solite cose che cerco di metterci dentro: vita, morte, ecc. Ma il centro
è il personaggio di papà, seduto in barca, che recita ‘Noi perimmo, ciascuno era solo’, mentre
È sicuramente il suo libro più autobiografico, soprattutto sul piano della caratterizzazione dei
personaggi: Le figure fittizie dei genitori nel romanzo (Mr. e Mrs. Ramsay, che hanno 10 figli) sono
evidenti trasposizioni dei genitori reali della Woolf. Sono due figure che incarnano una netta
contrapposizione tra i sessi, tra i valori di cui uomini e donne sono rispettivamente portatori.
Rivelano inoltre un trattamento molto differenziato, in cui i valori positivi tendono a riversarsi quasi
esclusivamente sulla donna, sulla madre (centro simbolico del libro), a scapito del padre, figura
caratterizzata in negativo, bersaglio di una satira e di una parodia spesso feroce. Mr Ramsay è un
grande filosofo, totalmente egocentrico, e narcisista, che pensa solo alla sua gloria – ai libri che
deve scrivere, alle lezioni che deve tenere, e non si accorge del valore preziosissimo delle cose
quotidiane che gli stanno intorno, la famiglia, e soprattutto la moglie, la signora Ramsay. È
qualcuno che è capace solo di ricevere e non di dare, e che sfrutta la straordinaria generosità
umana e affettiva della moglie fino a esaurirla, fino ad ucciderla. La figura della madre ha un ruolo
centrale nel romanzo. Ricordo l’importanza, quando si interpreta un’opera dalla matrice
autobiografica, del non schiacciare l’opera sulla vita, in quanto non si tratta di una trasposizione
meccanica del ricordo e dell’esperienza vissuta. In Al faro, Virginia Woolf fa risorgere i suoi ricordi e
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l’esperienza, a volte mescolando varie figure tra loro, oppure modificando tutta una serie di
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4. La struttura narrativa
Il romanzo ha una struttura molto elaborata, calcolata in ogni minimo dettaglio, attraverso
tutta una serie di equilibri e di rimandi interni. A livello macrostrutturale, si nota una chiara simmetria
Prima (più lunga), La finestra, divisa a sua volta in 19 capitoletti numerati; verte su un’unica
Terza, Il faro, 13 capitoletti, il ritmo narrativo rallenta di nuovo, e – come nella prima parte –
maniera corrispondere alla rottura formale operata dal romanzo novecentesco. Gli avvenimenti
sono minimi, è un romanzo in cui non succede quasi nulla, e il cui intreccio esteriore verte su due
azioni parallele: la gita al faro e la realizzazione di un quadro. Si tratta di due azioni che
l’adempimento successivo.
Prima parte: a) Progetto di una gita al faro da compiere all’indomani, incerta per tempo
meteo; b) Tentativo di Lily Briscoe di dipingere un quadro che raffigura Mrs Ramsay con
Seconda parte: Passaggio del tempo, in cui molte cose cambiano (morti);
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Terza parte: Ritorno nella casa, dove le due azioni rimaste interrotte (gita e quadro) si
L’interesse della Woolf non si concentra tanto sugli avvenimenti in quanto tali, ma sulle
risonanze psicologiche ed emotive che suscitano nella mente dei personaggi, in generale sulla vita
l’insignificanza degli avvenimenti esterni, rispetto all’inesauribile ricchezza dei pensieri, delle
emozioni e dei sentimenti che li accompagnano; anche il trattamento del tempo narrativo risente
di questa fondamentale dicotomia tra l’esterno e l’interno. Mentre il tempo cronologico (il tempo
dell’orologio) scorre, la Woolf ci proietta nelle menti dei personaggi e ci immerge in una durata
puramente interiore, in cui eventi del passato, del presente o del futuro si mescolano
continuamente tra loro, spezzando qualunque linearità cronologica. Questi aspetti sono fortementi
connessi alla tecnica woolfiana del tunneling process, lo scavare gallerie nelle menti dei
personaggi, che sono immersi in una rete di relazioni che li lega l’un l’altro.
«Avrei molto da dire a proposito delle Ore e della mia scoperta: come io scavi bellissime
caverne dietro i miei personaggi; questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità,
profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al
«Mi è toccato brancolare un anno intero per scoprire ciò che io chiamo il mio procedere
per gallerie [my tunneling process]: in questo modo racconto il passato a rate, come e quanto mi
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Vediamo alcuni esempi, per osservare concretamente le scelte stilistiche della Woolf e i
tratti salienti del romanzo (l’inconsistenza della trama, la rarefazione degli eventi esteriori,
l’attenzione alla vita interiore dei personaggi, il trattamento del tempo attraverso il tunneling
process…). Il capitolo 4 è incentrato su altri due personaggi del romanzo, che abitano nel villaggio
Lily Briscoe: Giovane pittrice; non è sposata, e vive da sola; si percepisce come una
persona grigia, insignificante, inadeguata, soprattutto di fianco alla bellezza, quasi alla luce
che sembra irradiarsi dalla sig.ra Ramsay, per la quale ha una sorta di venerazione
William Bankes: scienziato, famoso botanico; vedovo, ormai piuttosto anziano; amico di
Le prime pagine del capitolo sono incentrate sulla sfera del guardare, del vedere e
dell’essere visti; è presente una elaborata regia di sguardi che istituisce una rete di correlazioni tra i
vari personaggi. Come in quasi tutta la prima parte del romanzo, Lily è nel giardino di fronte alla
casa, con il suo cavalletto, intenta a dipingere. Cerca di ritrarre le figure di Mrs Ramsay e di James
che sono dentro la casa (lui sta ritagliando delle figurine), incorniciati dalla finestra. È evidente
come la finestra rappresenti un motivo centrale (lo segnala anche il titolo della sezione). In primis, si
tratta della finestra materiale della casa, attraverso la quale si guarda e si è guardati. La finestra
costituisce inoltre il mediatore percettivo tra l’interno e l’esterno, tra chi sta dentro e guarda fuori, e
chi sta fuori e guarda dentro. Ma possiede anche un chiaro valore metaforico, che rimanda:
Da un lato al processo artistico = figura della cornice del quadro che Lily sta dipingendo;
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Dall’altro a una dinamica psicologica: Metafora di uno sguardo che passa dall’esterno
l’interiorità
Indeed, he almost knocked her easel over, coming down upon her with his hands waving,
shouting out ‘Boldly we rode and well’, but, mercifully, he turned sharp, and rode off, to die
gloriously she supposed upon the heights of Balaclava. Never was anybody at once so ridiculous
and so alarming. But so long as he kept like that, waving, shouting, she was safe; he would not
stand still and look at her picture. And that was what Lily Briscoe could not have endured. Even
while she looked at the mass, at the line, at the colour, at Mrs. Ramsay sitting in the window with
James, she kept a feeler on her surroundings lest someone should creep up, and suddenly she
should find her picture looked at. But now, with all her senses quickened as they were, looking,
straining, till the colour of the wall and the jacmanna beyond burnt into her eyes, she was aware of
someone coming out of the house, coming towards her; but somehow divined, from the footfall,
Poco mancò che ribaltasse il cavalletto, piombandole addosso agitando le mani e urlando
«Eretti cavalcammo e coraggiosi», ma, grazie al cielo, fece una svolta brusca e si allontanò al
galoppo, per morire gloriosamente immaginò lei sulle alture di Balaklava. Nessun altro riusciva a
essere cosí ridicolo e allo stesso tempo inquietante. Ma finché continuava cosí, agitando le mani,
urlando, lei era salva; non si sarebbe piantato lí a guardare il quadro. Cosa che Lily Briscoe non
avrebbe sopportato. Anche mentre osservava la massa, la linea, il colore, la signora Ramsay nel
vano della finestra con James, tendeva un’antenna sull’ambiente circostante per timore che
qualcuno si avvicinasse furtivo, e di trovarselo lí che guardava il suo quadro. Ma ora, con tutti i sensi
all’erta, osservando, concentratissima, finché il colore del muro e piú oltre la jacmanna le
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divamparono negli occhi, intuí che qualcuno era uscito di casa e veniva verso di lei; ma in
fanno una passeggiata nei dintorni della casa; mentre camminano, il testo apre continui squarci
all’interno delle loro menti. I gesti esterni, le azioni, i dialoghi sono ridotti al minimo, vengono
appena suggeriti; e tutta l’attenzione si concentra sui loro pensieri e le loro emozioni, che vengono
all’altro.
Bankes, che pensa al passato e alla sua amicizia con il sig. Ramsay (è l’argomento principale della
naturali (mare, onde, dune), che mettono in moto i pensieri, sembrano materializzare il significato
dei sentimenti, dei moti interiori, dei rapporti affettivi. Più avanti, con uno dei frequenti spostamenti
di prospettiva, l’attenzione si sposta di nuovo su Lily, che mette a confronto mentalmente quei due
uomini (Bankes, che le sta accanto; e Ramsay, di cui stanno parlando). E’ importante considerare
che tutto questo dialogo avviene nella testa di Lily: è un discorso silenzioso, che immagina di
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Emanuela Piga Bruni - Il primo Novecento: Al faro di Virginia Woolf
Bibliografia
Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
2017.
Virginia Woolf, To the Lighthouse (1927), trad. it. di A.L. Zazo, Gita al faro, in
Feltrinelli.
i
Questa lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità di accedere a questo materiale didattico agli/alle studenti/esse
dell’Universitas Mercatorum.
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Emanuela Piga Bruni - Infanzia, natura, sorellanza: Virginia Woolf e Vanessa Bell
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Emanuela Piga Bruni - Infanzia, natura, sorellanza: Virginia Woolf e Vanessa Bell
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Infanzia, natura, sorellanza: Virginia Woolf e Vanessa Bell
Prestigiosa rappresentante del Bloomsbury Group, Virginia Woolf (nata Stephen, a Londra,
nel 1882) fu scrittrice, saggista e critica dalla forte personalità, caratterizzata dall’impegno libertario
e a favore dei diritti civili e della parità tra i sessi. Tra le sue opere maggiori figurano Mrs. Dalloway
Con il marito Leonard Woolf diresse una casa editrice londinese, la prestigiosa The Hogarth
Press, che pubblicò, oltre ai suoi testi, opere importanti come l’Ulisse di Joyce. Nella loro abitazione,
situata vicino al British Museum, si riuniva il gruppo di intellettuali chiamato Bloomsbury Group.
I due primi romanzi della scrittrice, The voyage out (La crociera, 1915) e Night and day
(1919), seppur caratterizzati da raffinati mezzi espressivi, non si distaccano ancora dalla tecnica
narrativa tradizionale. Il sovvertimento delle classiche forme della narrativa ottocentesca, che
comprende il racconto della vita interiore, e degli effetti della realtà esteriore sulla coscienza,
comparirà nelle opere narrative successive, tra le quali: Jacob's room (La stanza di Jacob, 1922),
Mrs. Dalloway (La signora Dalloway, 1925); To the Lighthouse (Al faro, 1927); Orlando (1928), The
Waves (Le onde, 1931), The Years (Gli anni, 1937). È importante ricordare anche le due biografie:
Flush (1933), dedicata al cane di Elizabeth Barret Browning, e la biografia dedicata al caro amico
e critico d’arte Roger Fry (1940). Molto importanti per la critica letteraria e il pensiero politico sono
Virginia Woolf pubblicò inoltre diverse raccolte di saggi critici e politici, tra i quali figurano, e di
notevole importanza: A Room of one's Own (Una stanza tutta per sé, 1929); The common Reader
(due serie, rispettivamente 1925 e 1932), Three Guineas (Le tre ghinee, 1938).
sorella Virginia, al gruppo di Bloomsbury, e moglie del critico d’arte Clive Bell. Fu inoltre membro,
insieme al fondatore Roger Fry e all’artista Duncan Grant, degli Omega Workshops, un'impresa di
design fondata nel luglio del 1913, con sede al 33 di Fitzroy Square, a Londra. L’obiettivo degli
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Allieva di John Singer Sargent alla Royal Academy, la produzione di Vanessa Bell
comprende ritratti, tra i quali figurano quelli della sorella, paesaggi e nature morte. Sebbene resti
nell’ambito del figurativo, la sua opera è caratterizzata da una forte componente astratta,
presente sia nei suoi quadri che nelle sue opere grafiche, come i disegni per le copertine delle
prime edizioni dei libri di Virginia Woolf. Il quadro che è considerato il suo capolavoro, sul quale ci
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Ci soffermeremo ora su alcuni passaggi, tratti dagli scritti autobiografici di Virginia Woolf,
Avvenne così che Nessa e io formassimo una cospirazione molto intima. In quel mondo
pieno di uomini, che andavano e venivano, in quella grande casa piena di stanze, noi ci
formammo un nostro nucleo privato. Lo visualizzo come un piccolo fragile centro di vita intensa: di
istintiva comprensione, chiuso nel grande guscio riecheggiante della casa di Hyde Gate Park. […]
Insieme costruivamo il nostro punto di vista, e di lì osservavamo il mondo, un mondo che appariva
a entrambe uguale.
«Non ti pare strano? Forse tu stimoli il senso letterario in me così come dici che io stimolo il
tuo senso pittorico»1, continua la scrittrice in una lettera a Vanessa, a proposito di una storia da lei
Virginia, la quale ne trasse un racconto intitolato Le falene (The Moths) che poi divenne il romanzo
Le onde (The Waves). Anche la prosa di Virginia influenzava Vanessa, che nel corso di uno
scambio sull’illustrazione per Il riflettore (The Searchlight), nel definire il racconto quasi troppo ricco
di stimoli per la sua resa in immagini aveva ribadito quanto la scrittura della sorella fosse fonte di
ispirazione per la sua arte2. Dalle lettere e dai diari emerge il forte legame che stringeva le due
sorelle, la stima, l’influenza reciproca, nonché la condivisione costante delle riflessioni sulla poetica
1
Virginia Woolf, Cambiamento di prospettiva. Lettere 1923-38, a cura di Nigel Nicolson - Joanne Trautmann, trad. it. di Silvia
Gariglio, III, 8 maggio 1927, Torino, Einaudi, 1982, p. 470.
2 Cit. in FRANCES SPALDING, Vanessa Bell (1983), London, Phoenix, 1996, p. 309.
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«Tu credi che abbiamo gli stessi occhi, e solo occhiali diversi? Io direi che sono legata a te
Come osserva Jane Dunn, «Vanessa era anche il suo pubblico. Era per lei che Virginia
scriveva, e la sua approvazione era ciò che contava di più: “Ho sempre la sensazione di scrivere
Dopo aver letto Al faro, e aver riconosciuto i genitori nei signori Ramsay, Vanessa le aveva
scritto: «Vedi, almeno per quello che riguarda la tua capacità di dipingere un ritratto, tu mi sembri
un’artista superlativa»5. Non solo ammirava il genio della sorella, ma ne era influenzata: le aveva
dichiarato, per esempio, di come da due anni stesse cercando di realizzare un quadro raffigurante
un pavimento ricoperto di giocattoli6 e che riuscire a metterli in relazione tra loro e con le altre
figure, con lo spazio e la luce, avrebbe significato per lei qualcosa di molto vicino a ciò che
Virginia aveva compiuto con le Onde7. Vanessa si sofferma sulla capacità del romanzo di
generare un’esperienza profonda, e specifica come questo non sia dovuto, per quel che la
riguarda, solamente al fatto di rileggere nella morte di Percival la trasfigurazione della scomparsa
del loro amato fratello Thoby, ma alla capacità di Virginia di elevare i sentimenti umani oltre la
complicità tra donne. L’intimità è espressa dalla convergenza curvilinea delle figure e dalla quinta
del tendaggio che le racchiude, sullo sfondo i colori vivaci dell’aiuola fiorita conferiscono vitalità
alla scena.
3 «Do you think we have the same pair of eyes, only different spectacles? I rather think I’m more nearly attached to you than
sisters should be», da VIRGINIA WOOLF, Leave the Letters till we’re dead. The Letters of Virginia Woolf 1936-41, a cura di NIGEL
NICOLSON - JOANNE TRAUTMANN, 17 agosto 1937, The Hogarth Press, London, p. 158.
4 JANE DUNN, Sorelle e complici. Vanessa Bell e Virginia Woolf (1990), Milano, Bollati Boringhieri, 1995, p. 209. La frase di Virginia
Woolf è tratta da: Un riflesso dell'altro. Lettere 1929-1931, a cura di NIGEL NICOLSON - JOANNE TRAUTMANN, trad. it. di CAMILLO
PENNATI, IV, Torino, Einaudi, 1985, p. 483.
5 Brano di una lettera riprodotto in JANE DUNN, Sorelle e complici, cit., p. 210.
6 Sfortunatamente andato distrutto nel corso dei bombardamenti durante la guerra. È stato identificato da Frances
Spalding in The Nursery, dipinto negli anni ’30, e di cui resta una fotografia.
7 Cfr. DIANE F. GILLESPIE, The Sister’s Arts. The Writing and Painting of Virginia Woolf and Vanessa Bell, Syracuse University Press,
1988, p. 199.
8 «I think you have made one’s human feelings into something less personal». Cit. in The Sister’s Arts, ibid.
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Dopo aver rivisto il quadro nella mostra del 1928, Virginia le scrisse:
«Mi pare che tu sia una pittrice grandissima. Ma sostengo per giunta che hai il dono
dell’ironia e quello di comunicare squarci di vita: sei una narratrice di gran spirito, capace di
evocare una situazione in una maniera che suscita la mia invidia. Chissà se riuscirei a tradurre le Tre
Donne in prosa»9.
autoironiche, come ad esempio: «la gente dirà, che coppia di talento! Bè, sarebbe stato più
piacevole se avesse detto: Virginia era piena di talento; la vecchia cara Vanessa era un tipo
casalingo. Ahimè, ahimè, adesso non lo potranno più dire». Sorprende come alcuni studi non
abbiano colto l’ironia di questi brani e li abbiano interpretati alla lettera: questo è probabilmente
uno dei fraintendimenti comuni sulla vita e l’opera di Virginia Woolf, così come lo stereotipo
secondo cui fosse sì geniale, ma depressa e malinconica. «Creatura di riso e movimento», dotata
di una notevole «capacità di gioia» e dal riso contagioso 10, Virginia Woolf amava la vita, le
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amicizie, il divertimento e il gioco, inclusi gli affilati e temibili esercizi di ironia a spese altrui e
proprie11.
11Per un rovesciamento di questa visione, cfr. Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005.
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3. L’infanzia in Cornovaglia
«Ma a ripensarci nulla di quanto avemmo da bambini influì tanto, ebbe tanta importanza
per noi, quanto le nostre estati in Cornovaglia», scrive Virginia Woolf, in un brano contenuto nella
dell’infanzia: non un semplice sfondo, ma un luogo che arriva a incidere «sul tono e sul ritmo,
arrivando a decidere la natura stessa» dell’opera d’arte 12. Nel 1881 Leslie Stephen, padre di
Virginia e Vanessa, aveva acquistato Talland House, una magnifica casa bianca con giardino alla
periferia di St. Ives, da cui si godeva della vista della spiaggia di Porthminster e del Godrevy
Lighthouse, il faro in lontananza. La famiglia trascorse in questa casa le estati dal 1881 al 1895,
anno della morte della madre Julia. In questi luoghi Virginia e Vanessa passarono parte
catturare falene, a esplorare la costa camminando a lungo per le colline. A St. Ives scoprirono la
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Virginia e Vanessa, e lasciò un forte segno su entrambe: senza le immagini e i suoni assorbiti
durante l’infanzia al mare, Virginia Woolf sarebbe stata probabilmente una scrittrice diversa. I
ricordi di St. Ives hanno preso forma soprattutto in Al faro, Le onde, e in parte, anche in La Stanza di
Spesso, ora mi tocca dominare l’eccitazione, quasi volessi trapassare uno schermo; o
qualcosa mi battesse accanto con violenza. Ciò che questo presagisca, non so. È un vasto senso
della poesia della vita a sopraffarmi. Spesso è legato al mare e a St. Ives 13.
È più difficile individuarne le tracce nell’opera di Vanessa, poiché i dipinti di quei luoghi
13Virginia Woolf, A Writer’s Diary, a cura di Leonard Woolf (1953), trad. it. di Giuliana De Carlo, Diario di una scrittrice, Torino,
Einaudi, 1979, p. 87.
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Whybrow,14 la vita artistica di St. Ives, dove la pittura era un’attività comune e quotidiana, aveva
esercitato una forte influenza sul suo destino di artista. Originariamente un villaggio di pescatori, il
paese era divenuto una colonia di artisti, che Vanessa poteva vedere al lavoro lungo le spiagge,
nelle strade, sul pontile, lo Smeaton’s Pier, o mescolati ai pescatori al The Sloop Inn’s, il pub del
porto. Al St. Ives Arts Club Vanessa incontrò diversi artisti importanti e attenti alle nuove tendenze,
come Adrian Scott Stokes, Louis Grier and Stanhoper Forbes. Qui prese le prime lezioni di pittura,
che inaugurarono un percorso proseguito successivamente alla Royal Academy e in altre scuole.
Marion Whybrow, Virginia Woolf & Vanessa Bell: A Childhood in St. Ives, Wellington, Halstar, 2014. Cfr. anche Marion Dell -
14
Marion Whybrow, Virginia Woolf & Vanessa Bell: Remembering St. Ives, Padstow, Tabb House, 2003.
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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La natura ebbe per le sorelle Stephen un’importanza molto forte, in particolare per Virginia,
che mantenne per tutta la sua vita l’abitudine di camminare a lungo: con il padre, in Cornovaglia,
faceva lunghe passeggiate a Tren Crow, dalla cui cima si possono ammirare i due mari, Monte St.
Michael da una parte e il Faro dall’altra 15. Dieci anni dopo la morte della madre, le due sorelle e i
due fratelli tornarono a visitare quei luoghi. Virginia ne scrisse in Passeggiata notturna (A Walk by
Night), un articolo pubblicato inizialmente sul «Guardian» (1905), in cui nel raccontare di
un’escursione lungo la costa protrattasi accidentalmente fino a tardi rievoca le sensazioni provate
nelle sette miglia di ritorno. Ricorda come «Nei silenzi che calavano frequentemente, l’identità
della sagoma» che camminava accanto sembrasse fondersi con il «buio della notte», mentre si
consapevoli che gradualmente la resistenza a quest’oscurità diminuiva sempre di più, che il corpo
che veniva fatto procedere sul terreno era qualcosa di separato dalla mente che svaniva
«l’impenetrabile oceano della notte» (the trackless ocean of the night), saggiando «il terreno sotto i
piedi in modo da provare senza ombra di dubbio che [fosse] solido»16. L’apparizione di un
contadino con la lanterna li riportò, «con mano ferma», al rassicurante «mondo concreto, sulla
aggiunge Woolf, «una volta assuefatti allo strano elemento, c’era in esso una grande pace e una
grande bellezza». In contrappunto alla ricerca e al conforto dato dalla solidità, dalla nettezza dei
15 Virginia Woolf, A Sketch of the Past (1940), in Moments of Being (1976), a cura di Jeanne Schulkind, trad. it. di Adriana
Bottini, Immagini dal passato, in Momenti di essere. Scritti autobiografici, Milano, La Tartaruga, 2003, p. 170.
16 Cfr. anche Barbara Lonnquist, Homeless in Nature: Solitary Trampings and Shared Errantry in Cornwall, in Virginia Woolf and
the Natural World: Selected Papers from the Twentieth Annual International Conference on Virginia Woolf, a cura di Kristine
Czarnecki - Carrie Rohman, Clemson, SC, Clemson University Digital Press, 2011, p. 172. Corsivo mio.
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anticipava temi che avrebbero trovato compimento venti anni dopo con i romanzi Al faro (1927),
che rappresenta la fragilità e la natura soggetta al tempo del mondo famigliare e dell’ambiente
che lo circonda, e Le onde, con la sua dialettica tra individualità e impersonalità (1931). Barbara
Lonnquist ha parlato di una geological view of human history, stimolata dalle lunghe camminate
lungo le scogliere granitiche della Cornovaglia, dove la suggestione dell’ambiente «diventa una
presenza che suggerisce quanto la storia umana sia implicata nella storia naturale». L’esperienza
vissuta e lo scenario marino tornano in una fortunata opera di Vanessa Bell, dedicata alla spiaggia
di Studland, frequentata dalle sorelle Stephen con le loro famiglie e amicizie: la ricerca su forma e
astrazione emerge dalla solidità del tratto, dalla nettezza dei contorni delle figure e della riva, dalla
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Bibliografia
Bell Quentin - Garnett Angelica (a cura di), Vanessa Bell’s Family Album,
Czarnecki Kristine - Carrie Rohman (a cura di), Virginia Woolf and the Natural
2011.
Dell Marion - Whybrow Marion, Virginia Woolf & Vanessa Bell: Remembering
Dunn Jane, Sorelle e complici. Vanessa Bell e Virginia Woolf (1990), Milano,
Gillespie Diane F., The Sister’s Arts. The Writing and Painting of Virginia Woolf
Errantry in Cornwall, 1905, in Virginia Woolf and the Natural World: Selected
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Rampello Liliana, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
Ead., Il ritmo della prosa, in Virginia Woolf, Oggetti solidi. Tutti i racconti e
2017.
Whybrow Marion, Virginia Woolf & Vanessa Bell: A Childhood in St. Ives,
Ead., A Writer’s Diary (1953), trad. it. di Giuliana De Carlo, Diario di una
Trautmann, I-VI, London, Hogarth, 1975-1980, trad. it. Lettere, Torino, Einaudi,
1980-2002.
Tartaruga, 2003.
Ead., The Essays of Virginia Woolf, a cura di Andrew McNeillie, I-V, London,
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Ead., To the Lighthouse (1927), Oxford, Oxford University Press, 1992, trad. it di
Ead., The Waves (1931), introd. di Gillian Beer, Oxford, Oxford University Press,
Saggiatore, 2011.
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Indice
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delle sorelle Stephen, Virginia Woolf e Vanessa Bell, con l’intento di mettere a fuoco i passaggi di
quel movimento che va «dall’opera alla vita»1. Come vedremo, sarà tratteggiata l’esistenza di una
trama che attraversa l’intera opera di Virginia Woolf, dai primi articoli, ai racconti, alle opere
maggiori. Per alcuni aspetti, il disegno di questa trama è stato tessuto insieme alla sorella. I suoi
dipinti testimoniano una ricerca artistica tesa a catturare la vita, a dare all’attimo consistenza,
Virginia Woolf e Vanessa Bell erano figure centrali del Bloomsbury Group. Quando si
trasferirono con i fratelli al numero 46 di Gordon Square, intorno a loro confluirono gli amici di
Cambridge di Thoby, come Clive Bell, J.M. Keynes, Litton Strachey, e via via nuovi compagni di
viaggio, tra i quali E.M. Forster, Duncan Grant e Roger Fry. Artista e critico d’arte, quest’ultimo
progettò la mostra Manet and the Post-Impressionists, tenuta nel 1910 alla Grafton Gallery.
Per la prima volta esposti in Inghilterra, i quadri di Manet e Picasso, Derain e Cézanne, van
Gogh e Gauguin ebbero un forte impatto sul pubblico britannico, ancora legato ai precetti
tradizionalisti della Royal Academy. Sullo sfondo della crisi della pittura figurativa si diffusero le
1
Cfr. supra, Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, in L’eredità di Antigone. Sorelle e
sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, a cura di M. Farnetti, G. Ortu, Firenze, Cesati, 2019.
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nuove concezioni estetiche, che includevano la riscoperta del disegno strutturale e dell’armonia e
contesto, le sorelle Stephen agirono in un ambiente in cui arte e critica costituivano la quotidianità.
Virginia sosteneva che la letteratura del suo tempo fosse condizionata dalla pittura 3, e per lei fu
naturale voler «trasferire l’estetica post-impressionistica sul piano della letteratura» e forzare
2 FLORA DE GIOVANNI, L’occhio del pittore / l’occhio dello scrittore. Dialogo a distanza tra Virginia Woolf e Vanessa Bell, in La
rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, a cura di FRANCESCO CATTANI - DONATA MENEGHELLI, Roma,
Meltemi, 2008, pp. 215-216.
3 VIRGINIA WOOLF, Visitando una galleria – Quadri, in Ead., Voltando pagina, a cura di LILIANA RAMPELLO , cit., p. 485.
4 FLORA DE GIOVANNI , L’occhio del pittore / l’occhio dello scrittore, cit., p. 222.
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Nel corso degli anni le sorelle ebbero diverse occasioni per esprimere la loro concezione
artistica, intrecciando le rispettive attività in un gioco di rimandi, dalla conferenza che Vanessa
tenne alla Leighton Park School (1925) alla prefazione che sua sorella scrisse per il catalogo della
Per Virginia, solo eliminando l’eccesso di rappresentazione è possibile produrre una pagina
tersa e impersonale; la descrizione non è mai fine a se stessa, ma è visione interiore, emozione,
sguardo situato, ed è qui che si vede maggiormente il legame del linguaggio con la pittura. Nel
dialogo con la ricerca sull’astrazione che caratterizza l’arte primonovecentesca, la tensione tra
evanescenza e solidità attraversa tutta la sua produzione, ed emerge già nei racconti, tenuti
insieme dalla volontà di scrivere la vita e illuminarla nella sua natura minuscola e particellare.
Come ha visto Liliana Rampello, questa ricerca incessante si esprime attraverso una scrittura che si
posa precisa su tutto ciò che sfugge, e cattura “la cosa, il canto del mondo reale”, in un trovato
data dalla peculiare consistenza pittorica della sua prosa, di certo influenzata dall’opera di
Vanessa. La trasformazione del poco nel tutto, della minuzia nell’intero, del momento fuggevole in
qualcosa di permanente, in una forma concreta, materica, in una parola, solida, è comune
all’arte delle sorelle: strappare l’attimo allo scorrere inerte del tempo e fissarlo nell’opera affinché
5Su questo, e sul collegamento del testo della conferenza di Vanessa con il saggio Mr. Bennett and Mrs. Brown (1924) di
Virginia, cfr. FLORA DE GIOVANNI , L’occhio del pittore / l’occhio dello scrittore, cit.
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Vanessa Bell
Già nei racconti scritti tra gli anni ‘10 e ‘20, e caratterizzati dalla forte suggestione visiva e
dalla scarsa centralità dell’intreccio, emerge la sperimentalità della poetica di Virginia Woolf.
Come nelle opere maggiori, anche queste prose sono frutto di un intenso lavoro sui punti di vista
dei personaggi, rappresentati come fasci di pensieri, ricordi e desideri. I racconti scritti tra il 1922 e il
1925 ruotano intorno alla festa della signora Dalloway, e sono frammenti esistenziali che danno
voce alle figure presenti all’evento, narrato con un effetto prismatico da altre coscienze. Alcuni di
questi sono interrelati, quasi a costituire capitoli sciolti di un libro secondo: in Il vestito nuovo la festa
è raccontata dal punto di vista di Mabel, una giovane donna a disagio per via del vestito
indossato, che lei percepisce non adatto all’occasione. La sua insicurezza e il senso di
inadeguatezza fanno del vestito l’oggetto su cui convergono tutti i problemi esistenziali nonché
quelli legati al rapporto tra classi sociali. In tutti i racconti ciò che resta normalmente invisibile, il lato
inafferrabile del reale, si esprime in particolare attraverso il racconto delle cose, di oggetti solidi6,
come specchi, vestiti, spille. Su questi oggetti, che condensano insieme passato, presente e futuro,
nel gioco tra memoria e immaginazione, precipita la fragile e mutevole melodia dei rapporti
umani e la coscienza che si ha di essi. Queste prose sono il punto di convergenza più intimo dello
scambio tra visione ed espressione, immagine e frase, sguardo e parola, nonché il risultato del
legame con Vanessa e la sua arte7. In un quadro come Monte Oliveto del 1912, è possibile notare
l’essenzialità del segno, e la solidità espressa dagli elementi rappresentati con uno stile fortemente
astratto.
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Luce, forme e colori sono al centro di un altro racconto di Virginia Woolf: Kew Gardens,
dedicato ai giardini di Kensington, dove le sorelle si recavano a passeggiare con il padre ai tempi
in cui vivevano al 22 di High Gate. Il testo si sviluppa a partire dalla descrizione della vita minuscola
che brulica in un’aiuola ovale, il cui scintillio di colori grazie a un ‘palpito più vivace della brezza’
entra in comunicazione con le donne e gli uomini che passeggiavano in luglio per i giardini. Le
tappe del difficoltoso cammino di una chiocciola, ostacolato da diversi oggetti, sono giustapposte
ai discorsi dei passanti, tra i quali, «due anziane donne della piccola borghesia, una robusta e
pesante, l’altra agile e con le guance rosse» 8. Risvegliando ricordi e fornendo simboli per stati
emozionali difficili da esprimere9, la natura entra nelle conversazioni, influenza lo stato d’animo dei
Come molte altre prose, questo racconto del 1919 uscì in una edizione della Hogarth Press
decorata da Vanessa. Già dal frontespizio emerge il tema essenziale del racconto,
l’interpenetrazione del mondo umano e del mondo naturale, evocato dal confondersi delle linee
8 VIRGINIA WOOLF, Kew Gardens, trad. it. di FRANCESCA DURANTI, in Oggetti solidi, a cura di LILIANA RAMPELLO, Roma, Racconti
edizioni, 2016, pp. 134-137.
9 Cfr. DIANE F. GILLESPIE, The Sister’s Arts. The Writing and Painting of Virginia Woolf and Vanessa Bell, Syracuse University Press,
1988, p. 119.
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tra parole e immagini. La scena illustrata è quella relativa alla conversazione tra le due donne, una
attratta dall’aiuola, l’altra in cerca della sua attenzione. I volumi delle due figure stilizzate si
riflettono nel gioco di forme e contrasti che vanno a comporre l’illustrazione: le linee che
Vanessa Bell, immagine di copertina di Kew Gardens, London, Hogarth Press, 1919
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Se il frontespizio evoca la relazione profonda tra mondo umano e naturale, la quarta di
copertina mostra il punto di vista “rasoterra” 10, la vita che si muove alla base degli steli dei fiori e
dei fili d’erba. Vanessa, che amava gli esperimenti di Virginia con i punti di vista, decise di mettere
al centro dell’immagine un bruco e un insetto con ali e antenne. Più astratto è lo stile
dell’illustrazione dell’edizione del 1927, in cui il rapporto tra i volumi suggerisce le forme di un vaso,
nuvole e vegetazione. Qui la scelta riflette maggiormente la concezione di Vanessa, che non
prevedeva una relazione diretta dell’immagine con il testo: per lei, come per Roger Fry, le
suggestioni per ricamare variazioni progressive sul tema 11. In questo frontespizio, linee curve e colori
Figura 1 Figura 2
Cerchi, tratteggi, puntini si combinano nei ventuno disegni a bordo pagina, cornici astratte
10Cfr. LILIANA RAMPELLO, Il ritmo della prosa, in VIRGINIA WOOLF, Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, cit., p. XV.
11Cfr. HELENE SOUTHWORTH, The Bloomsbury Group and the Book Arts, in The Cambridge Companion to the Bloomsbury Group,
a cura di VICTORIA ROSNER, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, pp. 144-161.
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di Virginia sull’arte e sulla costruzione del personaggio, racconti come Il segno sul muro e Un
romanzo non scritto sono manifestazioni dirette delle «immense possibilità della nuova forma» 12. Nel
vagare e divagare dello sguardo osservante e attraverso il suo ritmo interiore vediamo in opera la
sua concezione estetica. Tutto è sospeso e la percezione tesa al punto «da restituire con freschezza
l’eccitazione di una mente impersonale», insieme a visioni della realtà rese da quel “terzo occhio”
che Woolf riteneva necessario allo scrittore per esprimere con esattezza e sottigliezza l’emozione 13.
In questi racconti è difficile percepire il punto d’attacco delle digressioni, che sono fuse nel
passato, il presente e il futuro. Questo trattamento delle soggettività fa parte di una ricerca
comune alle due sorelle. L’espressione dell’impersonalità14 rientra nel più generale interesse per
l’astrazione, che insieme alla tensione tra solidità e indistinzione caratterizza la prosa di Virginia.
Anche Vanessa era alla ricerca di un equilibrio visivo tra colori, linee e forme per riportare
l’astrazione sulla tela. Uno dei modi in cui questo processo si esprime è nei ritratti, molti dei quali
faceless: privati dei tratti del volto, i soggetti sono riconoscibili per altre caratteristiche, come
l’atteggiamento, la postura o l’abbigliamento. Tra gli esempi figurano i diversi ritratti di Virginia o i
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Il tempo passa, sezione centrale del romanzo Al faro, costituisce per Virginia Woolf «il pezzo
più difficile e astratto»: «Debbo dare una casa vuota, nessun personaggio umano, il passare del
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tempo, tutto senz’occhi e senza lineamenti, nessun punto d’appoggio» 15. Qui la figura senza volto
è il tempo, rappresentato nel suo passaggio e nei segni che lascia su cose, natura e persone
attraverso «certi aliti staccatisi dal corpo del vento», ‘leggeri’, ‘brancolanti’, o ‘languidi e spettrali’ 16
. L’impersonalità avvolge l’ambiente, la casa, gli oggetti rimasti, i vestiti che conservano le forme di
chi un tempo li ha indossati, la natura selvaggia che avanza sull’ordine domestico. La casa,
abbandonata da sette lunghi anni, è rimasta «come un guscio di conchiglia lì sulle dune a riempirsi
di grani di sale, ora che la vita l’aveva lasciata. Una lunga notte sembrò impossessarsene; le brezze
leggere, mordenti, i soffi vischiosi, invadenti, sembrava avessero trionfato. La pentola s’era
arrugginita e la stuoia distrutta. I rospi ci misero il naso» 17. Nello scialle che «pigro, indifferente»,
continua a dondolare, resiste, immortale, l’immagine della signora Ramsay 18. Condensare fino ad
astrarre coincide in queste pagine con l’assenza della caratterizzazione, in una rappresentazione
priva di figure umane, in cui la narrazione è limitata a una dimensione puramente temporale.
riguardo l’esperienza dell’indistinzione, che si manifesta nelle forme della cancellazione dei tratti
del volto e dell’impersonalità. Nel cammino verso la locanda di Hampton Court, dove sta per
incontrare dopo anni i suoi amici di infanzia, le emozioni di Rhoda sono contraddittorie: «Ho ancora
paura di voi, vi odio, vi amo, vi invidio, vi disprezzo, con voi non sono mai stata felice», dice di loro,
«impressi in una sostanza fatta di momenti ripetuti, tutti fusi insieme». E continua, «voi avete scelto,
avete assunto un certo atteggiamento, avete dei figli, autorità, fama, amore, compagnia. Mentre
io non ho nulla. Io non ho volto»19. Come nei quadri di Vanessa, le figure senza volto sono
ambivalenti: a volte l’esperienza comporta ansia e smarrimento, in altri casi un senso di conforto
generato dalla percezione della fusione con la comunità e con l’ambiente, o di un’eternità che
trascende il momento20. «C’è dunque un mondo immune al mutamento» ripete più volte Rhoda in
un altro brano, quando dal balcone della casa scorge vicino al cancello «due persone senza
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faccia, che si stagliano come statue contro il cielo». All’esperienza dolorosa dell’attraversamento
del salotto, «fiammeggiante di lingue che come coltelli [la] affettano», segue il sollievo suscitato
dalla visione di «facce senza lineamenti, soffuse di bellezza»21. Il divenire featureless22 si combina
esperienza definisce i personaggi fin dalla loro comparsa, come nel caso di Louis, che nascosto tra
le piante, «verde come un cespuglio di tasso», dice: «Ho in mano uno stelo. Io sono lo stelo. Le mie
radici affondano nelle profondità del mondo, in una terra prima secca, dura, poi umida, sempre
più giù, attraverso vene di piombo e di argento. Sono pura radice» 23. Per certi versi questa
esperienza di fusione con la natura è simile a quella che ha Bernard con il tessuto cittadino:
ammira dal finestrino del treno la magnificenza di Londra e si sente parte della sua velocità,
assapora un senso di comunità con gli sconosciuti compagni di viaggio prima che l’arrivo a Euston
restituisca ciascuno alle rispettive individualità. «Per quanto riguarda me, non ho scopo. Non ho
ambizioni. Mi lascerò trascinare dallo stesso impulso che guida gli altri», riflette, mentre la mente
«superficialmente scivola via come un corso d’acqua grigio pallido che riflette ciò che incontra» e
non si ricorda del passato, dei tratti del suo volto e dell’opinione che ha di sé, per fermarsi infine
davanti a un autobus in corsa quando «la voglia di preservare il corpo scatta, prende il
sopravvento» e lo spinge a pensare: «Ci ostiniamo, pare, a voler vivere. Poi, di nuovo, cala
l’indifferenza. Il rumore del traffico, il passaggio di tante facce tutte uguali mi ipnotizza, i lineamenti
compartecipazione con gli altri e l’ambiente, e l’interrogazione sul significato del momento vissuto,
il momento d’essere, apre alla domanda sul tempo: «Che cos’è questo attimo di tempo, questo
giorno particolare in cui mi trovo catturato?»25. Fino a che l’attimo non passa e ritorna «l’identità»,
21 VIRGINIA WOOLF, Le onde, cit., p. 97; v. or.: «When I have passed through this drawing-room flickering with tongues that cut
me like knives […] I find faces rid of features, robed in beauty», da The Waves, introd. di GILLIAN BEER, Oxford, Oxford University
Press, 1992, p. 86, corsivo mio.
22 Così si percepisce anche Bernard: «As silence falls I am dissolved utterly and become featureless and scarcely to be
world, through earth dry with brick, and damp earth, through veins of lead and silver. I am all fibre» (p. 7).
24 Ivi, p. 105; v. or.: «The roar of the traffic, the passage of undifferentiated faces, this way and that way, drugs me into
dreams; rubs the features from faces» (p. 93), corsivo mio.
25 Ibid.
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Vanessa Bell
che «si infila in un buco qualsiasi della struttura» e spinge Bernard a dire «Non sono parte della
«La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?», annota Virginia Woolf nel suo diario,
mentre ritorna la questione che attraversa gran parte dei suoi scritti. In Al Faro, nelle pagine che
raccontano la casa abbandonata nei sette anni che seguono la morte della signora Ramsay –
quando «niente, sembrava, si sarebbe salvato dall’inondazione, da quel profluvio di tenebra, che si
insinuava nelle serrature, entrava in ogni fessura», «inghiottiva qui una brocca, lì un catino, là un
vaso di dalie rosse e gialle», per lasciare infine «nulla del corpo e della mente, perché si potesse
dire “è lui”, “è lei”»27 – ritorna la dialettica affrontata in quel breve scritto del 1905, a distanza di
oltre venti anni. In Passeggiata notturna, nel racconto di quella camminata compiuta con i propri
cari, è possibile rintracciare una delle questioni cruciali della poetica di Virginia Woolf: la lotta
incessante tra indistinzione e solidità, poli semantici che riassumono la costante dialettica tra
isolamento e comunità, tra abbandono e cura, trasformazione della vita, dell’attimo, in ricordo
prezioso o opera d’arte, in parola o immagine. Il richiamo alla solidità, che intitola uno dei suoi
racconti e attraversa gli altri, è parte di questo incessante tentativo di dare forma al reale, «poiché
dialettica e i sentimenti a essa legati attraverso i personaggi, le loro relazioni e il loro essere calati in
un ambiente, la pittura di Vanessa Bell esprime a sua volta l’oscillazione tra solidità e impersonalità,
con elementi visivi essenziali in cui gli accenni figurativi sono trasfigurati in una forma trascendente.
Il senso di solidità che caratterizza le linee del suo tratto è l’esito di una ricerca che gioca con linee,
forme e colori, al servizio di una poetica che si serve dell’astrazione pittorica come strumento. Nella
sua ambivalenza, tra cedimento alla dissoluzione e preziosa conservazione di ciò che è essenziale,
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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eterno, e irriducibilmente singolare, l’espressione dell’impersonalità costituisce il punto di
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Vanessa Bell
Bibliografia
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Giachero Lia, Vanessa Bell. L’ape regina di Bloomsbury, Milano, Selene, 2000.
Gillespie Diane F., The Sister’s Arts. The Writing and Painting of Virginia Woolf
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Ead., Il ritmo della prosa, in Virginia Woolf, Oggetti solidi. Tutti i racconti e
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Vanessa Bell
Ead. (a cura di), Virginia Woolf e i suoi contemporanei, Milano, Il Saggiatore,
2017.
Antigone. Sorelle e sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella
Shone Richard, The Art of Bloomsbury. Roger Fry, Vanessa Bell and Duncan
Southworth Helen, The Bloomsbury Group and the Book Arts, in The
Ead., Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, a cura di Liliana Rampello,
Ead., To the Lighthouse (1927), Oxford, Oxford University Press, 1992, trad. it di
Ead., The Waves (1931), introd. di Gillian Beer, Oxford, Oxford University Press,
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di Raoul Ruiz
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di Raoul Ruiz
Indice
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di Raoul Ruiz
davvero sconfinata. Tuttavia una gran parte degli studi sugli adattamenti è stata condotta su
per renderla meno astratta, cercherò di mostrare le pratiche di adattamento dal testo letterario a
Iniziamo con alcune nozioni introduttive tratte da un libro dedicato all’argomento: Teoria
importante:
I diversi medium e generi attraverso i quali le storie vengono transcodificate nei processi di
adattamento non sono soltanto entità formali; essi […] rappresentano allo stesso tempo modalità
diverse di coinvolgere il pubblico cui di volta in volta si rivolgono. Medium e generi diversi sono
tutti, con varietà di gradi e maniere, “immersivi”, ma alcuni di essi sono utilizzati per raccontare
storie (romanzi, novelle e racconti brevi, per esempio); altri le mostrano (tutti i medium mostrativi,
che prevedono una messa in scena); e altri ancora ci permettono di interagire con essi a livello
fisico e cinestetico (come nei videogiochi o nelle giostre dei parchi a tema).
forniscano la struttura analitica di riferimento per questo tentativo di formulare una teoria di ciò
che potrebbe essere definito il che cosa, chi, perché, come e quando degli adattamenti. Si pensi
a questa organizzazione come una struttura dedotta dal decalogo del buon giornalista:
quali medium differenti sono in grado di esprimere elementi quali il punto di vista, l’opposizione
1
Questo paragrafo è costituito dalla selezione di alcuni brani rilevanti contenuti nello studio specialistico di Linda Hutcheon
Teoria degli adattamenti (2011).
2 Linda Hutcheon, Linda, A Theory of Adaptation, trad. it. di Giovanni Vito Distefano, Teoria degli adattamenti. I percorsi
delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, Roma, Armando, 2011.
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adattamento, infine, non esiste, né in quanto prodotto, né in quanto processo, nel vuoto, ma
sempre in un contesto – un tempo e un luogo, una società e una cultura determinate», dichiara.
Occorre indagare cosa può accadere ogni volta che una storia “viaggia” – ogni volta che un
testo adattato migra dal contesto in cui è stato creato al contesto di ricezione dell’adattamento.
Dal momento che un adattamento è una forma di ripetizione senza replicazione, occorrono
legano indissolubilmente le corrispettive modifiche nella valenza politica e persino nel significato
Hutcheon spiega come confrontarsi con gli adattamenti in quanto adattamenti voglia
dire pensarli, per usare la rimarchevole espressione del poeta e studioso scozzese Michael
Alexander, come opere inerentemente “di palinsesto”, perseguitate ogni istante dal testo che in
esse è stato adattato. Se conosciamo questo testo precedente, sentiamo sempre la sua
scoperta relazione con un’altra opera, o con più d’una. È quello che Gérard Genette
chiamerebbe un testo «di secondo grado»3, la cui creazione e successiva ricezione avvengono in
relazione a un testo precedente. È per questo motivo che gli studi sugli adattamenti sono spesso
anche studi comparatistici. Questo non vuol dire che gli adattamenti non siano anche opere
autonome che possono essere interpretate e valutate in quanto tali; ovviamente lo sono, come
molti studiosi hanno sostenuto. Quando un film diventa un successo commerciale o della critica,
la questione della sua fedeltà perde il più delle volte gran parte della sua importanza. Un
adattamento è una ripetizione, ma è una ripetizione che non vuol dire replicazione. È di tutta
31982, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, a cura
di Raffaella Novità, Torino, Einaudi, 1997, p. 8.
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evidenza, d’altronde, il fatto che un adattamento possa essere motivato da molte e diverse
finalità: l’intenzione di disperdere e cancellare la memoria del testo adattato è tanto plausibile
cinematografici possono addirittura essere considerati un mix di diversi intenti. Hutcheon afferma:
Esclusa l’idea di fedeltà, quale principio paradigmatico dovrebbe allora essere messo alla
base di un’odierna teoria degli adattamenti? Secondo il dizionario “adattare” significa sistemare,
alterare, rendere idoneo. Ciò può essere fatto in qualsivoglia maniera. […] Un adattamento è un
fenomeno che può essere definito sulla base di tre distinte ma interconnesse prospettive; non è
un caso pertanto se la stessa parola, adattamento, viene adoperata per riferirsi sia al processo
che al prodotto.
trasposizione dichiarata ed esauriente di una data opera o di più opere. Tale “transcodificazione”
può comprendere un cambio di medium (per esempio una poesia volta in film) o di genere (un
poema epico in romanzo) o della struttura complessiva del racconto e quindi del suo contesto:
storica o biografica al dramma o a una narrazione di tipo finzionale. Il libro del 1994 di suor Helen
Prejean, Dead Man Walking (Condannato a morte), è stato trasfor- mato prima in un film (di Tim
Robbins, 1995) e poi, pochi anni più tardi, in un’opera lirica (scritta da Terrence McNally e Jake
Heggie).
sia una (re)interpretazione che una (ri) creazione; a ciò si è fatto riferimento, a seconda della
nella prospettiva del proprio processo di ricezione, gli adattamenti sono una forma di
palinsesto che lascia trasparire nella nostra memoria opere precedenti, rievocate per mezzo di
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iterati processi di ripetizione con variazione. Per un pubblico adeguato, allora, la “messa in
romanzo” di Hellboy (2004) realizzata da Yvonne Navarro può evocare non soltanto il film di
Guillermo del Toro, ma anche la serie a fumetti della Dark Horse, dal quale quest’ultimo è stato
adattato. Analogamente, Resident Evil, il film di Paul Anderson del 2002, sarà fruito in modo
diverso a seconda che lo spettatore abbia o meno giocato al videogioco omonimo, dal quale il
Per queste ragioni, un adattamento è una derivazione non derivativa, un’opera seconda
che non è però secondaria. In questo consiste la sua specifica qualità di palinsesto. 4 Passiamo
ora a un caso studio che ci permette di soffermarci su alcune modalità con cui è stato compiuto
4 Ivi, p. 28.
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Nel 1999 esce nelle sale Le Temps retrouvé (Il tempo ritrovato) del regista cileno Raoul Ruiz,
il quale, affiancato dallo sceneggiatore Gilles Taurand, mette in scena l'ultimo volume di La
recherche du temps perdu (La ricerca del tempo perduto) di Marcel Proust.
quello realizzato da Volker Schlöndorff nel 1984, Un Amour de Swann, e precede La Captive
(2000) di Chantal Ackerman. Si tratta di un'impresa ambiziosa che vanta precedenti importanti,
come Luchino Visconti, che iniziò il progetto con la sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico per
poi abbandonarlo. Per restare nell'ʹambito delle sceneggiature, altri nomi da giganti emergono:
Ennio Flaiano e Harold Pinter. Quest'ultimo scrisse la sceneggiatura nel 1973 per Joseph Losey.
Neanche questa si tramutò in pellicola ma vide almeno la pubblicazione nel 1978 con il titolo The
Oltre alla naturale soggezione verso la grandezza degli autori già cimentatisi con la
pretese) dei lettori e degli specialisti in ambito accademico di quel monumento della letteratura
Poiché gran parte dei giudizi negativi che seguirono l'opera di Ruiz partirono dall'assunto
mira a comprendere la relazione che il testo filmico stabilisce con il testo letterario, l'ipotesto.
5 Per uno studio storico e teorico sugli adattamenti cinematografici della Recherche, cfr. Al cinema con Proust di Anna
Masecchia (2008).
6 In termini più specifici, "traduzione intersemiotica", o "trasmutazioneʺ (Jakobson 1966, p. 53). Per uno studio specialistico,
cfr. Dusi 2003: «[...] Si dà traduzione intersemiotica quando vi è la riproposta, in una o più semiotiche con diverse materie e
sostanze dell'ʹespressione, di una forma del contenuto intersoggettivamente riconosciuta come legata, ad uno o più livelli
di pertinenza, alla forma del contenuto di un testo di partenza» (p.9).
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Come è stato spiegato in ambito letterario e semiotico, un’unica forma del contenuto, infatti,
Lo stile non è affatto, come credono alcuni, un abbellimento, non è nemmeno una
questione tecnica, è – come il colore per i pittori – una qualità della visione, la rivelazione
dell’universo particolare che ognuno di noi vede e che gli altri non vedono. 8
dall'idea che queste scelte siano alla base del tentativo di trasposizione, sul piano del contenuto
Non potendo analizzare nel dettaglio tutte le sequenze, mi soffermerò su alcuni segmenti
filmici con una prospettiva volta a cogliere la pertinenza delle scelte interpretative e della resa
forme dell'ʹespressione concretizzate nel testo d'arrivo, particolare interesse sarà riservato al
7 Si veda di Nicola, Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all'ʹaltro: letteratura, cinema e pittura, Torino, UTET,
2003, p. 159.
8 Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, 1971, p. 559.
9 Cfr. Hutcheon 2011.
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3. Trasposizioni: il narratore
Tra le prime questioni da risolvere che dovettero porsi a Ruiz e a Taurand, certamente non
letteratura critica, non essendo la Recherche un'autobiografia nel senso classico, non coincide
con l'autore? Come mettere in scena quella che Leo Spitzer, studioso di Proust, ha definito ʺla
misteriosa dialettica di due io, di un io superiore che racconta e di un io coinvolto che esperisce
in modo oscuro"? 10
un'immagine riflessa, visibile da lontano, soluzione che venne abbandonata per il costo e la
lunghezza dei tempi di realizzazione. Il riflesso del narratore divenne invece una figura in carne e
ossa personificata dall'attore italiano Marcello Mazzarella, il quale inizialmente doveva apparire in
ʺLe narrateur est un point de vue de l’écrivainʺ [il narratore è un punto di vista dello
sembra aderire alla proiezione visuale di un Je che, riprendendo Spitzer, “riflette” e “ricorda”: ʺil
narratore". Nel farlo, il narratore richiama alla memoria i momenti passati con quella ʺsuperiore
serenità" che deriva dalla distanza tra tempo della narrazione e tempo di ciò che viene narrato12.
Tuttavia, in alcuni passaggi, si direbbe invece che il narratore – sempre usando la terminologia di
Spitzer – lasci il posto a uno dei moi raccontati: un io ʺche esperisce", ovvero, Marcel.
Nel film, Marcel, in quanto “io ricordato”, riserva la narrazione dell'esperienza alla voce
fuori campo, che corrisponde a un’esplicitazione del narratore. Questa voce affiora nei passi in
cui la narrazione si fa più densa e diviene riflessione estetica e poetica. Si direbbe che le due
10 Leo Spitzer, Stilstudien (1928), trad. it Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Torino, Einaudi, 1959, p.
478.
11 Bonnaud Frédéric, ʺRaoul Ruiz–du côté de chez Ruiz", Les Inrockuptibles,12/05/1999,
http://www.lesinrocks.com/1999/05/12/cinema/actualite-cinema/raoul-ruiz-du-cote-de-chez‐ruiz-11219977, online.
12 Leo Spitzer, cit., p. 449.
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prospettive dell'io che ricorda e dell'io ricordato coesistano nel personaggio impersonato da
Mazzarella.
movimento, una caratteristica della prosa di Proust. Tale caratteristica è stata spiegata da Mario
Lavagetto – critico letterario che ha insegnato teoria della letteratura presso l’Università di
narratore riesce a sentire e a vedere anche ciò che non dovrebbe verosimilmente né sentire né
vedere"13.
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4. Trasposizioni: la stanza
L'indeterminatezza che avvolge la notte insonne del narratore, nel celebre incipit
ʺLongtemps je me suis couché de bonne heure" [Per molto tempo, mi sono coricato presto la
sera]14 si traspone nel film di Ruiz nel mutare della stanza in cui lo scrittore (André Engel) trascorre,
morente e intento a dettare la sua opera a Céleste Albaret (Mathilde Seigner), gli ultimi anni della
sua vita.
La stanza parigina di Rue Hamelin, luogo della memoria che si volge indietro e evoca il
passato, muta a seconda dei punti di vista nei quali siamo proiettati. Nel corso del dialogo tra lo
scrittore e Céleste, vediamo dei cambiamenti di inquadratura che differiscono per variazioni di
scala e di angolatura. Quando Céleste si rivolge allo scrittore vediamo una stanza carica di
oggetti e statue in continuo movimento. Quando siamo con lo scrittore la stanza è sgombra e,
alle spalle di Celeste, vediamo il cielo azzurro irrompere nell'oscurità della stanza, come in un
quadro surrealista, dove l'esterno abita lo spazio interno e l'esteriorità penetra nell'interiorità. Una
terza prospettiva, esterna, neutra, ci mostra la stanza in un modo ancora differente: più grande e
più essenziale, in modo realistico, senza oggetti e porte sul mondo esterno. Ruiz ha rivelato di
avere utilizzato due stanze, una molto piccola e una più grande. La grandezza della stanza
grande e dei suoi mobili rispetto alla piccola stava di una volta e mezzo rispetto alla piccola.
14Cfr. Proust, Du côté de chez Swann, I, 1954, p. 3; trad. it. Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, a cura
di Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Einaudi-Mondadori, 7 voll., 1970, vol. 1, p. 5.
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presentati i personaggi, i quali, dopo una certa difficoltà (dalla valenza simbolica) esibita nella
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messa a fuoco della lente, affiorano dalla carta ingiallita delle fotografie: la mamma, la nonna,
Robert de Saint--‐‐Loup, Odette, il barone di Charlus, Gilberte... immagini del passato che
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Rispetto al romanzo, sono le foto, in luogo della madeleine, a costituire l'oggetto materiale
che fa scaturire quell'impressione alla base della reminiscenza e ad aprire la porta verso il tempo
perduto. Dalle immagini, sfogliate nella stanza dell'appartamento parigino che costituì la sua
dimora nel tempo finale della composizione artistica, prendono vita le persone che costellarono
la vita del narratore. Lo snodarsi di questi ricordi costituisce nel film l'ossatura che contiene al suo
le scoperte.
E così Marcel bambino ci conduce, dopo i ricevimenti dai Verdurin, all'interno del Palazzo
dei Guermantes, in quella matinée illustrata nell’ultimo volume della Recherche di Proust, Il tempo
ritrovato, dove i personaggi che hanno costellato la sua vita sono segnati dagli effetti pietrificanti
del Tempo, nel suo doppio effetto di decadenza fisica, immutabilità di regole mondane e
cambiamento delle gerarchie sociali. Nell'opera di Ruiz, la matinée non costituisce una cellula
unitaria, ma ritorna come un motivo che interseca le altre sequenze del film, corrispondenti ad
altri momenti del passato. Nelle sequenze del ricevimento, nel flusso di persone che si cercano e
si respingono, si scrutano e recitano la loro parte, una persona si distingue, ancora una volta
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discutibile, elegante e impudente, non assimilata, con il suo linguaggio infarcito di anglismi e i suoi
movimenti contro corrente, ovvero in direzione contraria a quelli dei personaggi che la
circondano: Odette (Catherine Deneuve), una volta Mme De Crecy, poi Mme Swann e infine
Mme de Forcheville. È lei che, con la sua libertà di movimento, spalanca la porta sulla luce
stanze evocate dalla memoria del corpo15: la stanza nella casa dei nonni a Combray, la stanza
dell'infanzia; la stanza nel Grand-Hôtel di Balbec, la stanza dell'adolescenza; la stanza nel castello
di Tansonville, in visita da Mme Sant-Loup, che corrisponde ad un tempo ancora successivo e che
costituisce il luogo dal quale prende avvio la narrazione nel Tempo ritrovato.
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Nel film ricorre la lanterna magica16, il genio che nel romanzo domina l'interno della
di personaggi dai nomi evocativi, come Golo e Geneviéve de Brabante. Qui, sebbene l'opera di
Ruiz sia un adattamento dell'ultimo volume della Recherche, il riferimento è alla sezione
"Combrayʺ che inaugura il primo volume Du côté de chez Swann (La strada di Swann), come
altrove nel film, disseminati, figurano riferimenti agli altri volumi dell'opera.
scorrere le immagini sovrapponendo le une alle altre, il montaggio (strumento principe per la resa
delle relazioni metaforiche) trasforma in immagini filmiche i rimandi della memoria, i balzi nel
tempo. Oltre al montaggio, anche i movimenti di macchina, che nel loro essere non occultati ma
esibiti posseggono una forte valenza lirico-soggettiva17, concorrono a ʺmettere in quadroʺ con la
reminiscenze, il tempo ritrovato. Come, ad esempio, nella sequenza in cui il narratore bambino
discende dall'alto nel parco di Tassonville, situato nella parte di Méséglise (la parte di Swann),
dove si andava a passeggiare quando il tempo era incerto. Nel romanzo, il narratore incontra per
la prima volta Gilberte bambina ai limiti del parco; la scena 18 è rappresentata nel film come un
breve rimando incastonato tra diversi momenti del passato. Il volto di Gilberte si trasfigura nelle
sembianze dell'amica adulta, ormai moglie di Robert e castellana, e dal giardino veniamo
trasportati all'interno del castello, nel cui salotto si tiene la conversazione tra Marcel e Gilberte
Le ellissi e i flashback, che nel romanzo governano il movimento del ricordo e sono
suggeriti attraverso l'alternanza dei tempi verbali, la ricchezza dei dettagli e incastonati nella
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complessa architettura dell'opera, nel film di Ruiz vengono dati attraverso il montaggio, che
quando è secco raccorda delle scene che permettono di riconoscere il cambio di cornice
temporale tramite indizi, rimandi e indicatori cronologici, come la scenografia che varia
dall'arredamento fin de siècle (la stanza borghese di Combray, i fastosi salotti dei palazzi
Guermantes e Tansonville) fino all'Art Decò e al Liberty che punteggia gli arredi della stanza dello
pubblicitario di una marca di cioccolato19 in cui si imbatte il narratore nel corso di una deriva che
lo porta nei pressi dell'albergo frequentato dal barone di Charlus. Qui lo stacco ci riporta al primo
soggiorno a Balbec e al primo incontro con Charlus 20, impersonato nel film da un magnifico John
Malkovich.
19 Nella Recherche, non viene esplicitato il contenuto del manifesto osservato da Charlus. Come sostiene Dusi,
«aggiunzioni o sottrazioni, in una trasposizione, risultano parte di una precisa strategia narrativa ed enunciataria» (Dusi
2003: 127).
20 Cfr. Proust, A l'ʹombre des jeunes filles en fleurs, I, 1954: 751-756, trad. it. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri,
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manifesto, soglia spazio-temporale che ci conduce nel mondo dell'adolescenza del narratore,
rappresentato dalla spiaggia di Balbec e dagli arredi della sala da pranzo del Grand-Hôtel. Le
transizioni tra le scene si fanno a partire da impressioni sottili, vaghe, corrispondenze legate alla
memoria involontaria. Qui entrano in gioco le scelte del regista, che mette in scena delle
Alla domanda di Frédéric Bonnaud (1999), il quale chiede al regista se il suo film sia un
adattamento o una lettura della Recherche, Ruiz risponde definendolo un’"adoptionʺ (adozione).
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Emanuela Piga Bruni - Un adattamento cinematografico: Le Temps retrouvé
di Raoul Ruiz
cinematografica prende alcuni elementi del romanzo e li rielabora, attraverso dei processi di
ricomposizione dell'immagine che possono donare al testo originario nuova forza e significato22.
22Per una trattazione della poetica di Raoul Ruiz, e della sua visione della Recherche come testo mistico cfr. il capitolo "Le
temps rétrouvé di Raoul Ruizʺ, in Masecchia 2008. Segnalo in particolare i brani del saggio della studiosa focalizzati
sull'ʹanalisi di come il film di Ruiz restituisca in immagini audiovisive il procedimento sinestetico dominante nella scrittura di
Proust.
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Emanuela Piga Bruni - Un adattamento cinematografico: Le Temps retrouvé
di Raoul Ruiz
Bibliografia
Bulzoni, 1997.
Inrockuptibles,12/05/1999,
http://www.lesinrocks.com/1999/05/12/cinema/actualite-cinema/raoul-
ruiz-du-cote-de-chez-ruiz-11219977, online.
Film (1978), trad. it. Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nei
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Emanuela Piga Bruni - Un adattamento cinematografico: Le Temps retrouvé
di Raoul Ruiz
voll.; trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, a cura di Mariolina
Tadié, Jean-Yves, Proust, le dossier (1983), trad. it. Proust. L'opera, la vita, la
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Indice
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Prima di tutto, qualche cenno su Marcel Proust e la genesi di La Recherche du temps perdu
Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust (1871 – 1922) nasce da famiglia alto borghese
ad Auteuil, sobborgo di Parigi. Oggi Auteuil è parte della città, ma allora era luogo di villeggiatura
fuori porta frequentato dalle famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. I genitori vi si erano
trasferiti temporaneamente per via dei moti della Comune di Parigi. Nel 1894 scoppia l'affare
Dreyfus, del quale Proust fu un testimone diretto, assistendo al processo. Fu uno dei primi sostenitori
di una petizione a favore del capitano francese accusato di tradimento, e la fece firmare ad
Anatole France. Dopo aver frequentato con ottimi risultati il Liceo Condorcet ed aver conseguito il
premio d'onore nella dissertazione di francese agli esami di baccalaureato nel 1889, Proust si
arruolò come volontario nel 76mo Reggimento di fanteria di stanza ad Orléans. L'esperienza
militare termina in modo deludente, perché non venne considerato idoneo: Marcel soffriva sin da
bambino di una forma di asma che diventerà cronica. Continuò a vivere nell'appartamento dei
suoi genitori (in Boulevard Malesherbes) fino alla morte di essi. La madre Jeanne muore nel 1904.
Le origini della Recherche sono da rintracciare nell’opera Jean Santeuil, che esprime la crisi
del romanzo di formazione, nell’impossibilità del ricongiungimento tra il tempo della formazione
individuale e il tempo della storia. Proust cominciò a lavorarci nel 1895, durante una vacanza a
Beg-Meil, in Bretagna. In quest’opera trapela l’influenza di Bergson, e i suoi Essai sur les données
Dopo il testo critico Contre Sainte-Beuve, Proust scrive i due volumi Le intermittenze del
cuore (1912), che costituiranno i primi nuclei della Recherche vera e propria. Da dicotomica
(passato-presente, infanzia-maturità, vita e opera...) l’opera diventerà una struttura dialettica, con
la sintesi nell'ultimo volume, Il tempo ritrovato. Il filo conduttore che lega i volumi è la storia di una
vita in cui, dall'infanzia alla maturità, la vocazione per la letteratura, invisibile, è il tratto essenziale.
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volumi, in un arco di tempo abbastanza lungo (concluso dalla sua morte, nel 1922; gli ultimi tre
volumi escono postumi). Con una sintesi assolutamente parziale della struttura dell’opera, e dei
temi in essa trattati, ma utile a introdurre i paragrafi seguenti riguardanti aspetti dell’adattamento
Il primo volume, Dalla parte di Swann o La strada di Swann (Du côté de chez Swann, 1913)
racconta del luogo dell'infanzia del narratore; il secondo, All'ombra delle fanciulle in fiore (À
l'ombre des jeunes filles en fleurs, 1919, premio Goncourt), è il romanzo della giovinezza; I
Guermantes (Le côté de Guermantes, 1920) narra del luogo mondano più eletto della società
1923) narra la convivenza con Albertine e parla del tema della gelosia (insieme a molti altri temi) e
dell'arte che può vincere il tempo, la caducità, la morte; La fuggitiva o anche Albertine scomparsa
(La fugitive ossia Albertine disparue, 1927) narra la morte di albertine e la gelosia retrospettiva.
Infine Il tempo ritrovato (Le Temps retrouvé, 1927) pubblicato nel 1927, racconta l’attraversamento
di una crisi, la delusione verso la letteratura, la rinuncia del narratore a divenire scrittore, la Parigi
nel dopo guerra, la degradazione del barone di Charlus, la morte di Saint-Loup, l’ingresso dei
Verdurin nell'alta società, con il relativo mutamento dei confini tra le classi sociali, e infine, la
scoperta della vocazione, con cui si conclude, in modo circolare, tutta l’opera, rivelando la
complessa architettura che la comprende. È importante ricordare che esistono delle forti
corrispondenze tra il primo capitolo del primo volume e l’ultimo capitolo dell’ultimo volume. Il film di
Ruiz, che ovviamente per ragioni di formato non può che fare una scelta e una condensazione
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rappresentato da Le Temps retrouvé (Il tempo ritrovato) di Raoul Ruiz (1999). Mi soffermerò su alcuni
temi e aspetti formali specifici, concentrandomi sulle scelte operate dal regista nel trasporre
uno dei monumenti della letteratura occidentale. Ricordo rapidamente l’importanza del rapporto
tra luoghi e memoria nel romanzo. Lo spazio è narrato anche come sogno e desiderio, e i luoghi
sono oggetto di una geografia immaginaria, creati dallo spirito. Anche quando lo spazio diventa
una forma del reale, esso resta sempre legato al punto di vista, all'impressione. I luoghi, immaginari
o reali, organizzano anche la struttura del racconto: Combray, Balbec, Parigi, Doncieres, Venezia.
dell'amore. Molteplici i significati legati a Parigi, luogo: degli amori infantili e adulti, della vita
mondana, delle perversioni sessuali, della guerra durante la quale la capitale diviene Sodoma e
Pompei, e infine la città del tempo ritrovato, ciò che le permette di essere contemporaneamente,
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ricopre un ruolo centrale1, è la cosa che più di ogni altra esprime l'essenza della cittadina: il
campanile, visibile da varie prospettive, rappresenta l'intera chiesa e il tempo in essa custodito, nei
suoi aspetti più misteriosi e affascinanti. Come evidenziato da H.R. Jauss, se la chiesa di Saint-Hilaire
incarna la dimensione del tempo, il campanile diviene il rappresentante dell'ordine del tempo:
«C'était le clocher de Saint-Hilaire que donnait à toutes les occupations, à toutes les heures, à tous
le points de vue de la ville, leur figure, leur couronnement, leur consécration» [Il campanile di
Sant'Ilario, a tutte le occupazioni, a tutte le ore, a tutti i punti di vista della città dava un aspetto, un
compimento, una consacrazione] 2. Gli strati temporali che lo abitano lo rendono cangiante così
come il suo colore, che muta a seconda dell'ora, della prospettiva e degli elementi che gli sono
accostati.
«Combray risorge come "mondoʺ chiuso, come scena unitaria in cui, nella sfera magica di
Saint-Hilaire, può tornare a manifestarsi tutto il passato, intatto e fresco, come i vasi ermetici delle
ore che hanno saputo conservarlo»3. Anche nel volume Il tempo ritrovato, quando il narratore è
ospite da Gilberte, nella stanza del castello, ritorna l'immagine del campanile: una delle tante
simmetrie dovute al fatto che, come è noto, il primo e l'ʹultimo volume furono concepiti nello stesso
periodo. Nel film di Ruiz, così come nella prima pagina del volume 4, il campanile compare, come
da distanze lontane, nel quadro della finestra, incorniciato dal verde brillante delle foglie degli
alberi che si levano scintillanti sui laghi della tenuta. Ancora una volta il colore è differente, questa
volta blu scuro per la distanza che lo fa stagliare sul cielo azzurro.
È interessante ricordare le considerazioni di Ernst Robert Curtius nel suo celebre studio su
Proust del 1925, a proposito dell'uso della prospettiva nella narrazione proustiana, che egli fece con
1
Sulla densità simbolica del campanile, si veda Reneé Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano,
Bompiani, 1965, pp. 186-187.
2 Cfr. Proust, La recherche, I, 1954, pp. 64-67, trad. it., I, 1970, pp. 63-67.
3 Hans Robert Jauss, Zeit und Erinnerung in Marcel Prousts A la recherche du temps perdu. Ein Beitrag zur Theorie des Romans
(1986), trad. it. Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust, Firenze, Le Lettere, 2003, p.137.
4 Cfr. Proust, Le Temps retrouvé, III, 1954: 697‐-698, trad. it. di Franco Fortini, Il tempo ritrovato, VII, 1970: 7-8.
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l'analisi dei brani sui campanili di Martinville5 (e anche delle descrizioni della brigata delle fanciulle
Non è la visione di tranquilli strati dello spazio che si susseguono, al digradare della distanza
si aggiunge la visione simultanea dei due movimenti che operano nello stesso tempo ma in piani
situati in diverse dimensioni di profondità. La correlazione dei due movimenti colta con uno
Proust a un’estrema esaltazione spirituale [...] Le cose più lontane si toccano con quelle più vicine. 7
Tenendo conto della poetica esplicita del regista, che si rifà ai modelli del lavoro onirico
condensazione di quella "modalità della visione", che permea nel romanzo i momenti di epifania
compare incorniciato dalla finestra della camera parigina dello scrittore 8 in tutta la sua artificiosità
scenografica, accompagnato dal movimento accelerato degli alberi, che posizionati su delle
pedane mobili scorrono creando delle distorsioni prospettiche ricorrenti ogni qual volta succede
qualcosa di straordinario nella visione; ogni qualvolta subentrano, nel campo di visione, dei "segni
della memoria (e della vita)" o dei "segni dell'arte" reminiscenze, resurrezioni poetiche e,
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riguarda lo stile, elemento di importanza non trascurabile data la forza dell'abbraccio tra forma e
sostanza incarnato nell'opera. Come tradurre in immagine l'architettura del periodo proustiano,
con la sua discesa a cascata e i suoi diversi rivoli confluenti infine nel corso maggiore? La
differenza del medium impone una resa della densità rappresentativa e concettuale che non può
evidentemente appoggiarsi al tempo diacronico dello scorrere della frase, nelle sue intricate e
La ricchezza contenutistica della scrittura proustiana, che si svela al lettore nella linea del
tempo della lettura, trova equivalenza nella saturazione dell'immagine filmica di Ruiz, in uno
slittamento che ci sposta dall'asse del tempo a quello dello spazio 10. Lo spettatore, a differenza del
lettore, anziché percorrere senza perdersi – oppure, sempre citando Proust, perdendosi e
ritrovandosi – i sentieri dei sintagmi, deve abbracciare con lo sguardo un'immagine la cui
saturazione è affidata a dei criteri compositivi di natura pittorica e filmica, di natura fortemente
spaziale e multiprospettica. Qui entrano in gioco i piani sequenza, che si rinviano vicendevolmente
come in un gioco di specchi, oggetti che d'altronde popolano il set del film. È come se la
lunghezza della frase venisse transcodificata con la densità dell'immagine, dal primo piano agli
sfondi. Questa profondità del piano e questa articolazione in diversi livelli, consente allo spettatore
di soffermarsi su diversi aspetti, così come il lettore può scegliere diverse diramazioni semantiche
nello snodarsi della frase, indugiando sui ricchissimi incisi o prediligendo le anse del "corso"
principale.
spalancata sul cielo azzurro e sul suono dello stormire delle fronde, oppure sul movimento
10 Come vedremo più avanti, la forte atmosfera onirica che permea il film, favorisce questo slittamento. Sull'ʹimportanza del
sogno come "maestro di un intreccio tra spazio e tempo" nella Recherche, si veda di Liliana Rampello, La grande ricerca: «Il
sogno è un altro tempo perché è un tempo sottomesso allo spazio, allo spazio intrecciato in simultaneità: quando
ricordiamo un sogno [...] abbiamo negli occhi e nella mente un quadro, dentro cui tutto ciò è avvenuto, non importa se
lentamente o a velocità̀ pazzesca, perché ciò che prevale è la cornice che tiene insieme i tempi interni del sogno» (pp.
63-64).
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innaturale in primo piano delle statue che ricorre ciclicamente quando il tempo perduto sta
riaffiorando alla memoria, accompagnato dal leitmotif sonoro di Jorge Arriagada. L'ostentazione
del trucco cinematografico – in questo caso lo scorrere delle statue su invisibili pedane mobili (cosi
dell'immagine, rientra in quei procedimenti retorici che Christian Metz definisce "marche di
enunciazione" filmica11. Come una sorta di tableau di un teatro di posa, la finestra incornicia il
movimento degli alberi intorno al campanile. Lo scorrere degli alberi, attraverso un movimento di
distorsione prospettica nel piano sequenza, esprime al tempo stesso la vita e la forza dell'immagine
evocata, così come la relatività e il divenire di oggetti ed esseri viventi nel tempo e nello spazio, a
seconda del punto di vista osservante. Analogamente accade nell'interno della stanza, dove le
statue in primo piano, scorrono con un movimento indipendente, ritornando in una posizione
sempre diversa, sia nel gioco della disposizione reciproca sia rispetto al punto di vista.12
estetica – che li vede trasfigurarsi, attraverso la forza della metafora, in creature descritte da
molteplici punti di vista e animate da un movimento di unione – nel film di Ruiz, il campanile di
poetica. Inoltre, il campanile è visto dall'interno di una stanza, il luogo per eccellenza in cui, grazie
alla solitudine e al lavoro della scrittura, il tempo viene ritrovato e restituito. Sul piano
all'artificiosità dei colori, alla cura dell'inquadratura e all'ʹatmosfera luministica, dall'altra, attraverso i
innaturali. L'insieme di queste cose produce la dimensione onirica e lʹeffetto pittorico che
caratterizza il film. La voce fuori campo, chiaro indicatore del tempo, ci trasporta nelle pagine del
libro e unisce la descrizione della parola letteraria con l'immagine‐movimento data dal codice
11 Christian Metz, La significazione nel cinema, Milano, Bompiani (1972), 1975, p. 278.
12 Vedi il frammento del film nel materiale didattico.
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4. Personaggi e gelosia
La rievocazione del soggiorno del narratore a Tansonville, recatosi a far visita a Gilberte (ora
Mme de Saint-Loup), è la sequenza che dà avvio alla rappresentazione del tema della gelosia e
del desiderio inappagato, che non risparmia quasi nessun personaggio. Le sofferenze della gelosia,
che si mescolano al tema dell’omosessualità maschile e femminile, dominano molti dei rapporti a
due rappresentati nel film: Gilberte e Robert, Robert e Morel (Vincent Perez), Charlus e Morel, il
narratore e Albertine. I personaggi sono descritti nel loro mutare nel tempo, così come i loro ruoli e i
rapporti di potere che hanno l'uno verso l'altro. Gilberte, fonte di sofferenza e oggetto di
adorazione da parte del narratore (consapevole da bambina del suo potere sul narratore), soffre
di una gelosia per Robert che è sia retrospettiva, poiché indirizzata verso l'amore di Robert del
passato (l'attrice Rachel), che attuale, in quanto intuisce la presenza di un amante, che non sa
essere Morel. Robert, dopo aver sofferto ed essere stato manipolato da Rachel, si trova a vivere
una vita doppiamente proibita con Morel, dal quale viene a sua volta manipolato. La bruciante
gelosia innescata dalla parte segreta, sfuggente di Albertine, torna a tormentare i sogni di Marcel,
confondendo i contorni della stanza di Tansonville con la stanza dell'appartamento condiviso con
"la prisionnère". L'incastro delle cornici temporali, governato dalla memoria, riporta il narratore a
mettere insieme i fili dell'esistenza, che si intrecciano in una matassa che congiunge l'amore
sfuggente, irraggiungibile.
Nelle scene dei ricevimenti, i movimenti dei personaggi segnalano questo doppio
mobili sulle quali, al pari degli oggetti, vengono posizionati gli attori, rientra nella strategia di
figurativizzazione del regista, che cerca di trasformare nel testo filmico l'attitudine decifratoria del
narratore che, nel romanzo, si proietta su oggetti, persone e paesaggi, osservati da varie
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Il legame che lega Gilberte a Albertine popola i sogni del narratore, o meglio
testata è ornata da una decorazione raffigurante il Canal Grande di Venezia, è uno scivolo verso
altri spazi e tempi, come le passeggiate in una Combray bagnata dalla pioggia con Gilberte, il cui
volto si trasforma, attraverso le dissolvenze, in fotografia e in una sua lettera. Ma sarà Françoise, a
notare che la firma non corrisponde a quella di Gilberte ma a quella di Albertine, in un morphing
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la sequenza in cui la foto di Morel viene distrutta in un accesso di gelosia da Robert e, dopo uno
stacco realizzato con un velocissimo raccordo, lucidata dalla giovane compagna del violinista. La
rimembranza del viaggio in treno verso Parigi, costituisce a sua volta un’altra cornice spazio-
temporale che ne contiene al suo interno altre, come le immagini menzionate e i ricordi delle cene
dai Verdurin. L'alterità dello spazio costituito dal vagone è accentuata nel film dalla
rappresentazione del mondo esterno che filtra dalle finestre del vagone, le cui immagini trattate in
chromakey si staccano segnando il distacco tra le due sfere, il passaggio dalla sfera della realtà a
durante la guerra. L'ingresso di Odette, che nel film incarna la figura che ci conduce attraverso le
soglie, viene interrotto dalla ripresa di un altro luogo: un ristorante durante il coprifuoco. Siamo nel
pieno del conflitto e l'atmosfera è piena di diffidenza verso qualsiasi forma di simpatia per i
tedeschi, che sia espressa dall'amore per Wagner di Charlus o dalle sonate di Beethoven di Morel.
La sequenza dell'incontro con il Barone di Charlus nel ristorante lascia il posto a un momento
solitario del narratore in un caffè, attraversato dalle proiezioni di dagherrotipi con immagini della
guerra proiettate sulla parete e dalle parole contenute nella lettera di Gilberte, proveniente da
una Méséglise occupata dai tedeschi. L'effetto contrappuntistico dato dall'accostamento tra
l'atmosfera ovattata del caffè e la realtà inquietante delle immagini proiettate ricorda la presenza
della guerra, che attraversa il film come una cesura che sconvolgerà in modo irrimediabile gli
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declinazione particolare, mostrando il doppio sfruttamento dei soldati, i cui corpi sono mandati in
trincea come carne da macello o protagonisti dei giochi sessuali richiesti dagli avventori abbienti
raccontano un mondo a parte in cui la selezione del miglior prodotto (soldato coraggioso o
pericoloso delinquente) da parte della clientela aristocratica si svolge nella più completa
nel suo amore per Morel, personaggio dalla bellezza femminile e privo di qualsiasi velleità eroica
(tant'è che si nasconde per sottrarsi alla chiamata alle armi), si rivela anche nell'ostentazione del
suo culto per le strategie e la storia militare, per l'estetica militaresca e per la fascinazione verso
forme di cameratismo ed eroismo incuranti delle differenze di classe, che lo spingono a morire per
disillusione sulla propria vocazione, alimentata dalla lettura dei resoconti letterari dei Goncourt (il
pastiche di Proust inserito nella Recherche) sulle serate mondane dai Verdurin. Il disincanto rispetto
a quella che doveva essere la sua vocazione lo precipita in uno stato di apatia e malinconia,
acutizzato dalle immagini in movimento dei filari degli alberi che – come era capitato in passato
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alla vista dei campanili di Martinville dalla carrozza del Dott. Percepied – avrebbero dovuto
suscitare quella scoperta che invece non si manifesta. È dunque in questo stato che giunge a
Parigi e decide, se non altro per onorare la fascinazione di sempre verso quell'ʹantico nome
Il divenire del tempo introduce la morte nel film. Cottard, ormai prossimo alla morte, ci viene
mostrato nel suo letto mentre chiede le ultime prestazioni a Odette, sua amante. Il suo funerale
sarà seguito da uno più importante per il narratore: quello di Robert, caduto in guerra. Il flashback
delle conversazioni con Robert restituisce la fascinazione provata da sempre dal Marchese per la
gente del popolo. L'incastro delle sequenze, che riportano a diverse cornici temporali, ci catapulta
d'un tratto nell'ascensore del Grand-Hôtel di Balbec, nel momento in cui Marcel interroga il lift sui
modi ambigui del Barone di Charlus. Un filo sottile continua a tenere insieme i due Guermantes, zio
e nipote, entrambi raffinati fuoriclasse del beau monde – il primo consapevolmente fiero, il
secondo suo malgrado – ed entrambi fatalmente attratti dal proprio genere e dall'estetizzazione
della virilità.
Il film è percorso da diverse coppie di doppi che attraversano momenti differenti del passato. La
ricorrenza del rispecchiamento capovolto nel film ne è la metafora, come quando il narratore,
nell'albergo tenuto da Jupien, spia l'interno della stanza 14 bis, dove Charlus si riserva i suoi incontri
di piacere. Il regista esprime il legame, non dichiarato esplicitamente (né nel romanzo né nel film)
tra i due nella scena del colloquio di Charlus con Jupien nella stanza. In questa scena, l'immagine
del barone è riflessa al contrario nel pomo specchiato e rimanda al volto del narratore colto
nell'atto di spiare dall'occhio di bue. Con la ripresa dei due volti incorniciati all'interno della stessa
volto del narratore nell'occhio di bue potrebbe essere tranquillamente un volto allo specchio.
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narratore, messo in luce da Mario Lavagetto nel suo saggio Stanza 43, che rivela il suo essere
"dentro la scena dell'omosessualità" e vanifica tutte le descrizioni atte a stabilire il suo ruolo di mero
spettatore capitato per caso. Il brano in questione è il passo su Charlus e sulla sua immaginazione
sado-medievale, nel quale il narratore racconta come Julien dovette sostituire un letto in ferro al
tradizionale letto di legno nella stanza 43. Come ha messo in luce Lavagetto (1991), il brano ricalca
in pieno il classico lapsus freudiano, poiché la stanza di Charlus era la 14 bis, mentre la stanza 43
era la stanza ottenuta dal narratore per riposarsi dopo il suo cassis.14
Il legame non dichiarato tra i due personaggi continua quando il narratore va a cercare
Morel, per conto di Charlus, e lo trova nel suo rifugio nell'avenue 25, malridotto e tossicomane di
cocaina, dove si nasconde per sfuggire all'arruolamento. La scena del funerale di Robert –
celebrazione intrisa di retorica patriottarda, con le file compatte dei Guermantes da un lato e
l'arrivo disordinato dei nuovi parvenus dall'altro, come Mme Verdurin (Marie-France Pisier) e lo
stesso Morel, destinati a diventare personaggi eminenti del bel mondo – ospita al suo interno un
raccontati con sequenze dalla breve durata, costituiscono una sorta di punteggiatura che "buca"
Cfr. Proust, Le temps retrouvé, III, 1954: 840, trad. it di Franco Fortini, Il tempo ritrovato, VII, 1970: 148. Si veda lo studio di
14
Mario Lavagetto dedicato a questa sezione, La stanza 43, 191, pp. 124-130.
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le sequenze più lunghe dei tempi successivi, segnati dalla gelosia, lo snobismo, l'omosessualità, la
guerra e la morte. Fino al rimescolamento della società che la guerra comporta, con i suoi
sconvolgimenti economici, che fan si che il Principe di Guermantes, ormai rovinato, sposi la nuova
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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6. Trasposizioni: lo snobismo
Le novità del bel mondo vengono raccontate al narratore da Gilberte, nel corso della
matinée. Se da un lato il resoconto di Gilberte, a sua volta pronta a fondare il suo salotto, dà la
misura della profondità del cambiamento che ha colpito i rapporti tra borghesia e aristocrazia,
dall'altra non è altro che una voce tra le tante, un punto di vista nel brusio delle chiacchiere volte
a stabilire quali sono le relazioni che contano e chi sta al di qua o al di là di ciò che è considerato
elegante o volgare. Così come la Duchessa di Guermantes, dismesse le scarpe rosse e vestita alla
moda degli anni Trenta, non può soffrire Gilberte, di nascita borghese e figlia di una ex cocotte,
così Gilberte disprezza profondamente Mme Verdurin nelle vesti della nuova Principessa di
Guermantes.
"radiografante" del narratore, il regista mette in scena il tema dello snobismo, un aspetto della
scrittura proustiana che fu colto tra i primi da Walter Benjamin (in un tempo in cui larga parte dei
critici si stupiva che si potessero dedicare tante pagine a qualcuno che si gira nel letto), che nel
L'analisi proustiana dello snobismo, che è molto più importante della sua esaltazione
dell'arte, rappresenta il punto culminante della sua critica della società. L'atteggiamento dello
snob non è altro che la considerazione coerente, organizzata, fermissima della vita dal punto di
Gli incontri del narratore alla matinée dei Guermantes lo mettono di fronte a un flusso di
chiacchiere in cui la relatività dei punti di vista si unisce allo sprezzo di coloro che in qualche modo
hanno avuto un iter simile, fatto di arrampicate sociali. Il testo filmico esprime, nei termini di René
Girard (1965: 190), quel "contrasto tra il nulla oggettivo del Faubourg e la prodigiosa realtà che
acquista agli occhi dello snob", attraverso i movimenti irrequieti degli invitati e il vuoto vagare dei
15 Walter Benjamin, Per un ritratto di Proust [1929], in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 35.
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di trasfigurazione in oggetto di desiderio di qualcosa che non esiste, qualcosa che egli stesso un
Gli effetti distruttori del tempo sono resi con brevi sequenze che rappresentano gli ospiti
pietrificati in statue di cera, imbalsamati nelle loro ipocrisie, snobismi e idiosincrasie. Brevi intervalli di
statue che riprendono vita nel vagare dei personaggi, al contempo uguali e diversi, come il
radicale Bloch, di origine ebraica e ora con il nuovo nome di Jacques du Rosier, accompagnato
dalla fidanzata americana che si ostina a prendere appunti sulla bizzarra società francese
muovendosi come un elefante in una cristalleria e vantando parentele che non sono, tutto
sommato, quelle giuste (i Forcheville). E a nulla serve dichiarare la propria affinità con chi da
sempre è considerata, insieme a Charlus, il più puro spirito Guermantes, Oriane (la Duchessa),
perché, come osserva il personaggio--‐‐narratore, "È strano come si considerino i parenti molto
vicini o molto lontani a seconda del grado di interesse che rivestono per noi" 16.
Come il lavoro onirico manipola il materiale del sogno latente, così Ruiz, attraverso
determinate strategie testuali, manipola il testo letterario. Ad essere americana, nella Recherche, è
Mme de Furchy, parente dei Forcheville. Con lo spostamento di questa caratteristica di Mme de
Furchy alla giovane amica di Bloch, Ruiz rielabora la descrizione dello snobismo contenuta nei
passaggi del romanzo17 nel tempo condensato18 del testo filmico. Come la freudiana “persona
composita” condensa gli attributi di persone differenti, attraverso la "figura" della giovane
tema dello snobismo, che nel testo letterario si articola in diversi brani e personaggi.
In questo andirivieni di persone che fingono di non vedersi, abbozzano saluti subito ritirati,
ostentano volgarità o discrezione, si cercano e non si trovano, continua a muoversi contro corrente
Odette, irridente e forte di un nuovo amante, il Duca di Guermantes, anch'egli vittima della gelosia
del sogno latente, ed è quindi una sorta di traduzione abbreviata di quest'ʹultimo», Freud 1978: 78.
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e precipitato in una genealogia che vede Swann, il narratore, Robert, Gilberte soggetti desideranti
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Emanuela Piga Bruni - Adattare la Recherche: dal romanzo al film
Bibliografia
Bompiani, 1965.
Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi
Jauss, Hans Robert, Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust (1986),
voll., trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Ed. Mariolina Bongiovanni
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Indice
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Con La Storia1 di Elsa Morante, l’esigenza della testimonianza trova espressione in una forma
romanzesca che si articola sul contrappunto della Grande Storia con le microstorie della “gente
piccola”, e che si incarna in una narrazione animata da una precisa scelta di rappresentazione. La
Storia è un romanzo che vede l’ingresso in scena degli indifesi, di quella categoria definita oggi, da
Adriana Cavarero, degli “inermi”,2 di chi la Storia la soffre e subisce, talvolta senza neanche aver la
possibilità di comprenderla.
L’inerme è chi non ha armi e quindi non può offendere, uccidere, ferire. [...] Indifeso e in
baia dell’altro, inerme è sostanzialmente chi si trova in una condizione di passività e subisce una
violenza alla quale non può sfuggire né rispondere. La scena è tutta sbilanciata su una violenza
In questa direzione si inserisce il verso di Cèsar Vallejo che inaugura il romanzo a mo’ di
Il romanzo, pubblicato nel ’74, esce per Einaudi in edizione economica per volontà della
polemica nell’ambito culturale3. Al centro della polemica, figura senza dubbio l’indipendenza
ideologica della scrittrice, la voluta leggibilità del romanzo, distante dalle mode avanguardistiche
del tempo e la sua tiratura da best-seller. La Storia, con il suo portato distante da ogni ideologia e
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da ogni ”ismo”, e con l’ingresso in scena degli “oppressi” trasversali ad ogni classe sociale, si
scontra con le tendenze filosofiche, politiche e letterarie dell’epoca. Anziché una griglia
ideologica il romanzo è una rappresentazione appassionata delle vite di uomini e donne la cui vita
sguardo è puntato dritto verso l’annientamento dell’umano e verso ciò che resiste di umano negli
Citando la definizione di dialectical literature (David Caute, 1972) Linda Hutcheon afferma
It is the act of textual selfquestioning and selfexposing that is seen as entirely radical. A work
like Elsa Morante's History directly addresses political issues through its interrogations of the writing of
both literature and history, and thus places the burden of responsibility for understanding on the
reader. 4
In riferimento alla ondata di reazioni critiche che il libro ricevette, secondo Alfonso
Berardinelli, ciò che ben pochi allora riuscivano ad accettare era la trasformazione del saggio
ideologico in favola e racconto d’avventure, come modo di scoprire la sostanza mitica che
In un periodo storico che si siede sulla rimozione collettiva della colpa, gli ideali politici dei
partigiani vengono presentati sotto una luce quasi ingenua, così come le loro motivazioni.
L’esempio più calzante è proprio Ninnuzzu, il primogenito di Ida, che passa alla Resistenza dopo un
iniziale periodo di adesione al Fascismo per poi morire nel dopoguerra in un incidente nel corso di
oscuri traffici.
degli eventi in corso e la lettura del fascismo, tramite un punto di vista etero diegetico che si
4 Linda Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, History, Theory, Fiction , Routledge, New York, 1988, p.19.
5 Alfonso Berardinelli, Il sogno della cattedrale, Elsa Morante e il romanzo come archetipo, in AA.VV., Per Elsa Morante,
Linea d’ombra, Milano, 1993, p.30.
6 Cfr. nota 9 nell'Introduzione.
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focalizza di volta in volta nei vari personaggi, nella loro percezione della realtà, dalla lettura
ingenua e sbrigativa di Alfio, marito di Ida e “affarista di poco conto, povero e zingarello”.
[Alfio] nutre nei confronti del regime l’atteggiamento tipico dei commercianti piccolo
borghesi: fra scioperi, incidenti e ritardi, da ultimo lavorare sul serio era diventato un problema, per
gli uomini d’affari e di commercio come lui! Da oggi, finalmente, in Italia, s’era stabilito un governo
Vedere questa parodia cupa trionfare al posto dell’altra RIVOLUZIONE da lui sognata ( e
che, da ultimo, pareva già quasi alle porte) per lui era come masticare ogni giorno una poltiglia
disgustosa, che gli voltava o stomaco […] E nelle squadre che rivendicavano i diritti di costoro,
c’erano (ecco il peggio) tanti figli di mamma poveri e zingarelli non meno degli altri, e imbestialiti
con la propaganda o con le paghe per aggredire dei poveri loro uguali.8
Le voci del coro fanno da controcanto, tuttavia, a quella del narratore onnisciente, che, in
tempi segnati dalla “morte dell’autore”, non esita a raccontarci gli eventi storici. La scelta della
pluridiscorsività del romanzo non implica, tuttavia, la cancellazione del posizionamento del
narratore, ricordando alcune dichiarazioni di poetica di Christa Wolf, che in Pini e sabbia del
Brandeburgo scrive “L’autore deve mostrarsi. Non deve celarsi al lettore dietro la sua finzione”. 9
che per i più era stata un disastro totale, per altri era stata un affare di successo finanziario (e non
per niente l’avevano favorita). Fu appunto adesso che costoro incominciarono ad assoldare le
In alcuni passi, l'autrice assume chiaramente il suo punto di vista, evocando una memoria
che non può essere certo di natura testimoniale e autobiografica, come nel caso del racconto
7 Ibidem, p. 38.
8 Ibidem, p. 39.
9 Cfr. Christa Wolf, Inquietudine e coinvolgimento, in Pini e sabbia del Brandeburgo, cit.
10 Ibidem, p. 33.
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Adesso tentiamo di riferire, qui a distanza, attraverso la memoria, le ultime ore di vita di
Giovannino.
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2. La memoria creaturale
Di che memoria si parla? Della memoria obliata degli oppressi, di coloro dimenticati dalla
Storia, degli analfabeti e degli inermi, memoria di un destino condiviso, stratificata, orale,
recuperata e riversata nella narrazione funzionale. In qualche modo, è la memoria del creaturale,
che accompagna e orchestra il coro degli oppressi, e che emerge dagli interstizi della storia, dai
luoghi dell’Altro.
L’idea di creaturale e creaturalità, derivata dallo studio di Rudolf Otto, allude a “un
concetto che coincide con il sentimento appartenente alla creatura che si sente come tale”, con
un’“immediata associazione con la nudità, i bisogni elementari della fame e del freddo (in un
certo senso la ‘miseria creaturale’)”. In questo contesto l’accento va sulla definizione di creaturale
creaturalità propria e delle altre creature come comune nesso di dipendenza reciproca”.11
Come sostiene Barnaba Maj, “l’idea di creaturale e creaturalità si delinea come non mai
nella lingua e nella cultura del Novecento, come “indice di un limite inviolabile, non profanabile. In
questa prospettiva il senso del creaturale è fondamento del sacro in un orizzonte che differisce
dalla definizione di Otto”. Sempre secondo Maj, soggiacente al tema del creaturale, c’è una
riflessione sulla realtà storica del Novecento, e nello specifico, sull’estrema crudeltà che la realtà di
Con la letteratura del Novecento emerge appunto la questione della “inviolabilità” sia del
corpo “vulnerabile” che della memoria. In sintonia con questa esigenza, La Storia, con il suo
portato antideologico si colloca naturalmente nel solco di questa “polemica diretta ed esplicita
contro l’ideologia” parte integrante del motivo del creaturale. Giovanna Rosa parla in proposito di
una “memoria antropologica”, prossima alla zona del sacro e voce della coscienza antropologica
11
L’aggettivo “creaturale” entra nella lingua italiana nel 1926 con la traduzione di Ernesto Buonaiuti del saggio di Rudolf
Otto Das Heilige: über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt u. Granier,
Leipzig, 1917; trad. it. di E. Buonaiuti, Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli,
Bologna, 1926.
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che sa gli eventi perché ne ha “condiviso” creaturalmente l’esito.12. Nel romanzo, gli eventi storici si
dell’inconscio nella quotidianità, nella saldatura della dimensione del trauma con lo scontro
quotidiano con il Potere, con il rifiuto e con l’umiliazione, con la lotta per la vita. Fra questa
moltitudine di inermi, figurano sullo sfondo gli ebrei di ritorno dai campi di concentramento, figure
memoria di coloro ritornati dal “crepaccio del tempo” 13. Con il delineare queste figure avvolte dal
silenzio, la narrazione evoca l’esperienza assoluta dei sopravvissuti nei campi, la dimensione
dell’irrappresentabile e che tuttavia deve essere rappresentato, ma che non potendo, riferisce
della reazione degli altri, dello sguardo di tutti gli altri sui “salvati”.14
12 Giovanna Rosa, Il decadentismo popolare della Storia, in Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore,
Milano, 1995, pp.240-241.
13 Immagine poetica del poeta rumeno ebreo di madrelingua tedesca Paul Celan "In fondo - al crepaccio dei tempi ,(...)
attende, un cristallo di respiro, la tua immutabile testimonianza", dal ciclo di poesie dal titolo Atemkristall (Cristallo di
Respiro), in Paul Celan, Poesie, Mondadori, Milano, 1997. L’immagine viene ripresa da Federica Sossi nel titolo del suo libro
Nel crepaccio del tempo. Testimoniare la Shoah, Marcos y Marcos, Milano, 1997.
14 Il riferimento è all’opera di Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.
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3. L’Altro e la Guerra
Il romanzo inizia con una scheda cronologica dei principali eventi della storia del
Novecento, dai primi del secolo al 1940, e prosegue con otto lunghi capitoli dedicati ognuno a un
anno di guerra, dal 1941 al 1947. Attraverso questo movimento intermittente tra la macrostoria e le
microstorie di Ida e di Useppe e di tutti i personaggi che attraversano la loro strada, il romanzo
Poiché le storie degli esclusi e degli inermi sono necessariamente “mancanti”, l’atto di
immaginazione ripercorre le tracce e registra la presenza di coloro che non hanno potuto
testimoniare, esclusi e cancellati dalla storia ufficiale, ridotti a elementi di una massa impersonale.
La descrizione dettagliata dei personaggi del romanzo, concausa anche dello “sfilacciamento”
della trama, mira proprio a questo: ridare il “volto” alle vittime e ai “nemici” (come Gunther),
insieme alla voce e a una storia. Esattamente l’opposto di ciò che fa la Grande storia, con la
spersonalizzazione degli individui e la loro dispersione nelle statistiche dei morti e dei feriti. Il salto nei
frammenti della storia coincide con il salto nelle vite dei tanti, nelle pratiche del quotidiano,
descritto attraverso una narrazione che ricorda il realismo ottocentesco ma che si colora di
Ida Raimundo, che con il figlioletto Useppe è una delle figure più importanti del romanzo, è
un’insegnante di scuola elementare stritolata dalle vicende della guerra. Sofferente di epilessia
intermittente, vedova, violentata da un soldato tedesco di stanza in Italia, senza casa a seguito dal
raid aereo che colpisce il quartiere San Lorenzo, Ida lotta ogni giorno per la sopravvivenza di se
stessa e del bambino. Non è una figura particolarmente coraggiosa e non è neanche un
complessità della Storia. Ida si barcamena giorno dopo giorno con i suoi segreti, in primis la sua
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Voltata la pagina della storia ufficiale, entriamo nelle storie del romanzo, che iniziano
nell’anno 1941 e si diramano a partire dalle strade del quartiere San Lorenzo a Roma percorse da
un giovane soldato tedesco di nome Gunther. Attraverso un narratore onnisciente, Roma ci viene
descritta dal suo sguardo. Nel corso del suo girovagare per la città si imbatte in Ida, incontrata di
fronte al portone mentre sta rincasando. Per entrambi, è l’incontro con l’altro da sé e, per Ida, è
E così, alla fine è chiaro perché la disgraziata, in un giorno del gennaio 1941, accogliesse
l’incontro di quel soldatuccio a San Lorenzo come la visione di un incubo. Le paure che la
stringevano non le lasciavano scorgere in colui nient’altro che una uniforme militare tedesca.[…]
Colui doveva essere un emissario dei Comitati razziali, forse un Caporale, o un Capitano, delle SS
venuto a identificarla. Per lei, esso non aveva nessuna fisionomia propria. Era una copia delle
migliaia di figure conformi che moltiplicavano all’infinito l’unica figura incomprensibile della sua
persecuzione.
Il soldato risentì come una ingiustizia quel ribrezzo evidente e straordinario della sconosciuta
signora. 15
Ida vede se stessa immaginando lo sguardo del nemico, la sua identità schiacciata sulle
dicotomie identitarie dell’epoca: una donna ebrea di fronte a un soldato tedesco durante il
dominio nazista.
Più che vedere lui, essa, sdoppiandosi, vedeva davanti a lui se stessa: come ormai
Nonostante Gunther non sia altro che un giovane lontano da casa, sofferente di nostalgia
per la sua famiglia e fondamentalmente alla ricerca di calore umano, e Ida una donna di buon
cuore che non avrebbe negato aiuto e asilo a nessuno in difficoltà, la condizione umana di
ognuno è totalmente fraintesa agli occhi dell’uno e dell’altro e la loro capacità di comunicare
inevitabilmente distorta dal loro essere storico: un soldato tedesco e donna italiana di origine
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I fantastici movimenti del soldato si convertivano, per Ida, nei movimenti esatti di una
macchina fatale, che stampava anche Nino, oltre a lei stessa, nella lista nera degli Ebrei e dei loro
ibridi. I suoi propri equivoci andavano acquistando, col passare dei minuti, un potere allucinante su
del punto di vista, entrano in una sorta di corto-circuito che si risolve, alla fine dell’incontro, in una
sorta di scioglimento della tensione dovuto però, all’aver vissuto, pur a strettissimo contatto, due
realtà diverse.
Allora il soldato, nello sguardo (che pure gli si incupiva) lasciò passare un colore animato di
dolcezza, per il movimento di un affetto inguaribile. E stando là mezzo seduto, come s’era messo,
sull’orlo del tavolino ingombro, in una cert’aria di malavoglia (che tradiva una confidenza gelosa)
Essa vi gettò uno sguardo sghembo e raggelato, aspettandosi una tessera di SS con la
croce a uncino; o forse una foto segnaletica di Ninnuzzu Mancuso, con la stella gialla. Ma si
trattava invece di un gruppetto fotografico famigliare, nel quale essa intravide confusamente, su
uno sfondo di casette e canneti, la persona grossa e radiosa di una tedesca di mezza età
circondata da cinque o sei ragazzetti maschi più o meno cresciuti. Fra costoro, il soldato, facendo
un sorrisetto, gliene segnalò col dito uno (se stesso) più cresciuto degli altri, vestito di un giaccone a
vento e di un berretto da ciclista. Poi, siccome le pupille della signora svagavano su quel
gruppetto anonimo in una buia apatia, passando a indicarle, col dito, il paesaggio e il cielo dello
sfondo, la informò:
“Dachau”.
Il suo tono di voce, nel pronunciare questo nome, fu il medesimo che potrebbe avere un
gattino di tre mesi reclamando la propria cesta. E d’altra parte quel nome non significava niente
per Ida, la quale ancora non lo aveva udito mai se non forse appena per caso, senza tenerselo a
memoria…Però a quel nome innocuo e indifferente, il forastico migratore in transito, che ora
17 Ibidem, p.67.
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s’identificava col suo cuore, senza spiegazione sobbalzò dentro di lei. E svolazzando atrocemente
nello spazio snaturato della stanzetta prese a sbattere tra un tumulto vociferante contro le pareti
senza uscita.18
protagonisti della narrazione; fraintendimento che si scioglie nei postumi della crisi epilettica avuta
da Ida e dai goffi tentativi di Gunther di darle un po’ di tenerezza e di aiutarla aggiustandole una
presa rotta. Il soldato tedesco, autore di uno stupro, non è ritratto come un carnefice, ma piuttosto
come un essere umano gettato nella violenza del secolo e destinato anch’esso al macello in terra
africana.
riflessione sugli effetti della Storia sugli esseri umani. Il discorso non tocca dunque le colpe relative
piccola”, non importa di che nazionalità o etnia, evocando dunque l’esercizio di quell’arendtiano
senso del perdono verso coloro che in tali circostanze furono essenzialmente delle pedine, come
nel caso del giovane soldato. Gli oppressi sono coloro privati della possibilità di creare il proprio
destino, spogliati del potere di decidere il corso della propria vita e posti di fronte a scelte binarie.
Dai saggi19 della scrittrice emerge la speranza nel potere della scrittura, qualcosa in grado
di liberare il mondo dall’alienazione, dal “sonno della coscienza”, da ciò che lei chiama irrealtà.
Così riflessa nell’amore della madre e del figlio, la resistenza dell’umano è un modello che
18 Ibidem, p. 68.
19 Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, a cura di Cesare Garboli, Adelphi, Milano, 1987.
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Emanuela Piga Bruni - La voce degli inermi: La Storia di Elsa Morante
Bibliografia
Otto, Rudolf, Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al
Milano, 1995
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Emanuela Piga Bruni - La Storia di Elsa Morante: una lettura comparata
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Emanuela Piga Bruni - La Storia di Elsa Morante: una lettura comparata
Nell’estetica di Elsa Morante, l’arte non deve solo limitarsi a denunciare lo scandalo della
“irrealtà”, ma deve indicare anche qualcosa d’altro, poiché “l’arte è il contrario della
disgregazione”. Questa visione della scrittura come portatrice di verità avvicina la scrittrice a certe
riflessioni di Christa Wolf e Ingeborg Bachmann elaborate nella loro produzione saggistica, dove
viene dichiarato necessario il legame della vitalità della letteratura con l’utopia. La struttura
interrogativa, presente nei loro romanzi, trova radici in un’istanza utopica molto forte, nella ricerca
Nella passione per il mutamento, presente anche in Christa Wolf, espressa anche
dall’impianto formale dei romanzi si rispecchia la passione per la mutevolezza della vita, e in
questo mutare si inserisce la domanda utopica, nella quale il presente è proiettato verso il futuro,
Bachmann sosteneva che ciò che impedisce a un’opera di diventare datata o superata sono
proprio i suoi presupposti utopici, “il proprio intento fortissimo di influenzare ogni presente, quello
attuale o quello prossimo venturo”. La letteratura contrappone alla “lingua brutta” della vita
l’utopia della lingua, che non è qualcosa di cristallizzato e fermo, ma è mutevole e in continuo
movimento, e soprattutto è alimentato da una forte spinta morale, da un pensiero nuovo, teso
La “lingua brutta” della vita, di cui parla Ingeborg Bachmann, ricorda “l’irrealtà” di Elsa
Morante. Secondo Elsa Morante, infatti, la funzione dell’arte risiede nell’impedire la disintegrazione
della coscienza umana, nel suo “quotidiano, e logorante, e alienante, uso col mondo”; di restituirle
di continuo, nella confusione irreale, frammentaria e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale,
ricondurre ai luoghi dell’altro e alla capacità umana di resistere allo scandalo della storia grazie
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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alle pratiche di solidarietà e riconoscimento. L’interesse per gli altri sta a monte di ogni processo, e
[Lo scrittore] ha bisogno degli altri, specie dei diversi da lui. Senza gli altri, è un disgraziato.
anche una costante della poetica di Christa Wolf, che ritiene qualità indispensabili per uno scrittore
l’interesse fortissimo per la gente, per i rapporti sociali, l’attenzione all’evoluzione della società; una
grande curiosità e sensibilità che gli consentono di riuscire a entrare negli altri, e vivere le loro
emozioni come se fossero le proprie, mantenendo la lucidità e l’onestà sufficiente per parlare delle
proprie.
Secondo Elsa Morante, il ruolo dello scrittore è quello di restare “sul campo” dove ormai si
espande il sistema della disintegrazione, ossia l’irrealtà. Ma non come funzionario o suddito del
sistema (“se si adatterà a questo, sarà perduto”), e neanche come un semplice estraneo o
testimonio che riferisce sul sistema. “Giacché l’arte, per la sua definizione propria, non può fermarsi
“Arte come principio di trasformazione”? Si chiede Ingeborg Bachmann nelle sue Lezioni di
Francoforte, sottolineando come l’opera scaturita dal “pensiero nuovo” ci porti verso nuove
Il legame tra letteratura e vissuto, alla base di quello che Christa Wolf definisce “autenticità
soggettiva” implica un’idea della scrittura come evento che accompagna incessantemente la
vita, che influisce su di essa e che si sforza di interpretarla. L’idea della scrittura che emerge è
quella di una scrittura come evento che accompagna incessantemente la vita, che influisce su di
essa e che si sforza di interpretarla; come dice Bachmann “una scrittura che rispecchia, protesa
verso il futuro”. Ed è in questo rapporto tra letteratura e vita che si intreccia la componente
dell’utopia; si tratterebbe quasi di un modo più intenso di essere, nel quale parola, pensiero,
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sia molto distante da quello di “soggettivismo”, nel senso che parlare di una scrittura che trova
nell’esperienza la propria spinta non vuole significare una scrittura soggettivistica, ma quell’impulso
alla base di una letteratura capace di “far scaturire nuove strutture nei rapporti umani del nostro
tempo”.
Nel saggio Pro o contro la bomba atomica, Morante sostiene che lo scrittore tende per sua
natura ad avventurarsi fra gente diversa, di ogni sorta e risma, preferendo, senza dubbio, le classi
dominate a quelle dominanti. Puntualizza come ciò avvenga non per dei motivi umanitari ma per
la “solita fatale legge della sua vita”. Conclude questo passo attribuendo il “vizio più grave di
violenza psicologica, di quello che lei chiama il “fascismo quotidiano”, soprattutto nei rapporti tra
uomo e donna -- la riflessione sul Potere è un tema ricorrente nella scrittura di Elsa Morante, da
quella saggistica a quella narrativa, come per esempio nella descrizione del rapporto tra Nello e la
prostituta Santina nel romanzo. Questa questione viene trattata in maniera esplicita nei suoi saggi,
dove viene ribadito più volte che il dominio di una persona su un’altra da sempre considerato
iniquo è ora definitivamente acquisito anche come irreale, in quanto l’uguaglianza fondamentale
delle persone è acquisita anche nella coscienza di chi fa finta di non saperlo.
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Le vicende dei protagonisti, esemplificazione degli oppressi e degli inermi e posti al centro
della narrazione di Morante, sono di volta in volta interrotte brutalmente dalle schede storiche che
inaugurano ogni capitolo. La Storia, con il suo carico di orrori, avanza. Il secondo capitolo ci porta
nel 1942, anno che inizia con la Conferenza del Wannsee per la pianificazione razziale e che vede,
tra i terribili eventi, attivata la “camera della morte” nel campo di concentramento nazista di
Belsen.
Anticipando riflessioni di natura più teorica, come quelle di Michel Foucault e di Hayden
White, Morante ha ben chiaro che quando si parla di Storia si parla soprattutto di narrazione come
pratica culturale che prende forma nel territorio sempre colonizzato del linguaggio. La storia come
forma di conoscenza prodotta e governata dal Potere, la cui logica resta sempre la stessa: chi
vince, vince anche il potere di rappresentare i “fatti” e di cancellare la memoria dei vinti.
Riflessioni analoghe sullo “scandalo della storia” erano già state formulate, in forma teorica,
nelle Tesi sul concetto di storia (1940) del filosofo e critico tedesco Walter Benjamin.
Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto
sempre. L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di
turno. Con ciò, per il materialista storico, si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato sinora
vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi
giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale.
Secondo Benjamin dunque il ricostruito flusso storico di fatti, che coincide con la storia del
vincitore, rende invisibile la storia degli oppressi. In questo senso, la missione dello storico dovrebbe
essere quello di rendere visibile la barbarie inscritta in ogni documento della cosiddetta
civilizzazione. La Storia osteggiata da Morante è la Storia che spazza via l’essere umano, lo spoglia
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La vera immagine del passato guizza via. È solo come immagine che balena, per non più
comparire, proprio nell’attimo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere. [...] Infatti è
un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che
Come ha messo in luce Concetta D’Angeli il tempo della narrazione, di gran lunga più
esteso rispetto alle pagine con le schede storiche introduttive ai capitoli, stabilisce con forza la
priorità del tempo degli oppressi, le cui storie, normalmente celate negli interstizi della Storia
ufficiale, dilagano invece nel romanzo della Morante. Ed è proprio nelle intermittenze, nelle
interruzioni del “tempo omogeneo e vuoto” (Benjamin, Tesi 13) che “l’altra storia”, la storia degli
Nel seguire le vicende dei suoi personaggi Morante crea una moderna infrastoria,
raccontando le vite oscure della gente piccola – così come faceva Alessandro Manzoni – e
confrontandosi in modo serrato con la violenza del suo tempo e la guerra. Non dimentica di
rappresentare le morti violente dei partigiani, come Mosca, torturato senza pietà, Quattro sparato
al petto e travolto da un camion tedesco, Maria, la “roscetta”, violentata e massacrata fino alla
morte. Anche la descrizione dell’uccisione del soldato tedesco da parte di Davide Segre, giovane
anarchico e refrattario alla violenza, non si sottrae alla dimensione dell’orrore. Morante non
sentiero ghiacciato dai suoi compagni alle allucinazioni e alla morte per congelamento sulla
storie che si diramano rizomaticamente intrecciandosi alle vicende di Ida e Useppe senza
intenzionalità rappresentativa. Un grande studioso di Elsa Morante, Cesare Garboli, nel suo Il gioco
segreto parla di passages che collegano una stazione del romanzo con un'altra e vede la struttura
del romanzo come uno Stationendrama. Descrive questi passages come strattoni, percorsi narrativi
che corrispondono ad “adagi di grande intensità sui quali ci si ferma a riflettere. La deportazione
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degli ebrei, che non è poca parte del romanzo (dal treno piombato fino alle voci che si sono perse
e si sentono risuonare nel Ghetto) è raccontata attraverso i passages”. In questa direzione, ci torna
utile la riflessione sul tempo di Walter Benjamin, e il suo concetto di tempo attuale, lo Jetztzeit:
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e
Solo una narrazione fatta di sentieri interrotti e indisciplinata può rendere la cifra del
carattere catastrofico della storia: i Jetztzeit sono i momenti cruciali, i momenti in cui riemergono
dai vuoti della Storia le storie dimenticate, come quella simbolica di Ida e Useppe, ignari e
impotenti del ruolo della Storia nelle loro vite e intenti a sopravvivere di fronte al fascismo. Quella
Per quanto riguarda la concezione estetica di Morante, è opportuno citare alcuni passi
completo, sistema del mondo e delle relazioni umane. Solo che, invece di esporre il proprio sistema
in termini di ragionamento, è tratto, per sua natura, a configurarlo in una finzione poetica, per
mezzo di simboli narrativi. Ogni romanzo, perciò, potrebbe, da parte di un lettore attento e
intelligente (ma purtroppo lettori simili sono molto rari, specie fra i critici) essere tradotto in termini di
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Gli eroi della storia non sono coloro che fanno la Storia, ma coloro che ne soffrono le
conseguenze, “le vittime dello scandalo”. Morante racconta le storie dimenticate. Questa storia
alternativa è dedicata alle vittime dello scandalo, che la scrittrice rappresenta soprattutto
attraverso la figura della madre e del fanciullo. Tra le vicende umane che si stagliano su uno
sfondo sempre più devastato dalla guerra e dalla fame, è di particolare importanza la figura di
Useppe, il bambino frutto della violenza usatale dal giovane soldato tedesco. Non a caso Useppe
è una creatura al di là di ogni struttura sociale convenzionale: illegittimo, nascosto al mondo fin
quanto possibile, di madre italiana e di padre tedesco, frutto di uno stupro avvenuto in un
momento storico che vedeva la Germania e l’Italia alleate. La gioia di vivere del bambino non
viene intaccata dalla tragedia storica e dalla distruzione del mondo intorno a lui. Il mondo visto da
Useppe mantiene una dimensione fantastica, una nicchia di resistenza alla morte e di inno alla
vita.
Non s’era mai vista una creatura più allegra di lui. Tutto ciò che vedeva intorno lo
interessava e lo animava gioiosamente. Mirava esilarato i fili della pioggia fuori della finestra, come
fossero coriandoli e stelle filanti multicolori. E se, come accade, la luce solare, arrivando indiretta al
soffitto, vi portava, riflesso in ombre, il movimento mattiniero della strada, lui ci si appassionava
senza stancarsene: come assistesse a uno spettacolo straordinario di giocolieri cinesi che si dava
Dall’inizio alla fine della sua produzione, il tema dell’infanzia ha perdurato costantemente in
tutta la produzione letteraria della scrittrice Nella letteratura dell’infanzia (Le bellissime avventure di
Caterina dalla trecciolina, 1942) , nei racconti (Il gioco segreto, 1941, Lo scialle andaluso, 1963 ),
nella sua poesia (Alibi, 1958, Il mondo salvato dai ragazzini, 1968) e nei suoi romanzi (Menzogna e
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Il fanciullo morantiano è la metafora di tutto quello che è ancora buono, puro e naturale; le
virtù personificate dal fanciullo, innocenza, semplicità, sincerità, altruismo amore incondizionato,
sono considerate essenziali per la preservazione di ciò che è umano. Già nei suoi primi due romanzi
il mondo dell’infanzia serviva come alternativa e controcanto alla negatività della società e come
veicolo per esprimere il lato positivo dell’umanità, in quanto l’arte, secondo Morante, non ha solo il
Lo scrittore, nella pratica della vita sociale e politica, si sente sempre attirato verso i
movimenti rivoluzionari o sovversivi, i quali proclamano come fine la cessazione di ogni dominio di
una persona su un’altra persona. Infine, rimane che le sue compagnie più vere lo scrittore le trova
poi quasi sempre fra persone di età estremamente giovane, o infantile addirittura. Soltanto loro,
difatti, riconoscono e frequentano ancora la realtà. Per legge universale, e peggio che mai nel
sistema, la maggioranza degli adulti sono contaminati più o meno dall’irrealtà, e quindi, ostili.
Un simile tentativo di contrapporre l’irrealtà al suo contrario può essere tsrovata nel
passaggio di Morante dalla negatività del mondo della borghesia in Menzogna e sortilegio al
vedere il mondo con innocenza e meraviglia, qualsiasi aspetto del mondo; anche lo stanzone nel
territorio di Pietralata è fonte di divertimento e piacere, a dispetto di tutte le avversità. Nel corso
della sua infanzia ci sono però dei momenti nei quali la violenza storica irrompe nello sguardo del
fanciullo, segnando delle fratture. La prima è la vista di un cavallo morto e la scomparsa del cane
Blitz durante il raid aereo che colpì i caseggiati di San Lorenzo riducendo in macerie la loro casa.
Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube
pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa
nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le
vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio,
cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile
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che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra
corone di fiori sfrante. E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida. Soltanto
allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo aveva smesso di essere così
La seconda volta avviene nel corso di una spedizione al Tiburtino, da Pietralata, per
recuperare degli stivaletti per Useppe, quando Ida si imbatte nella signora Di Segni e la insegue,
con il bambino al collo, nella sua rincorsa alla ricerca della famiglia verso la stazione ferroviaria,
[Ida] sentì dei colpi fondi e ritmati, che rimbombavano da qualche parte vicino a lei; e li
credette, lì per lì, i soffi della macchina in movimento, immaginando che forse il treno si preparasse
alla partenza. Però subitamente si rese conto che quei colpi l’avevano accompagnata per tutto il
tempo ch’era stata qua sulla piattaforma, anche se lei non ci aveva badato prima; e che essi
risuonavano vicinissimi a lei, proprio accosto al suo corpo. Difatti, era il cuore di Useppe che
Il bambino stava tranquillo, rannicchiato sul suo braccio, col fianco sinistro contro il suo
petto; ma teneva la testa girata a guardare il treno. In realtà non s’era più mosso da quella
posizione fino dal primo istante. E nello sporgersi a scrutarlo, lei lo vide che seguitava a fissare il
treno con la faccina immobile, la bocca semiaperta, e gli occhi spalancati in uno sguardo
indescrivibile di orrore.
Useppe si rigirò al suo richiamo, però gli rimaneva negli occhi lo stesso sguardo fisso, che,
pure ad incontrarsi col suo, non la interrogava. C’era, nell’orrore sterminato del suo sguardo,
anche una paura, o piuttosto uno stupore attonito; ma era uno stupore che non domandava
nessuna spiegazione.
Nella primavera del ’45, la violenza del secolo si presenta in tutto il suo orrore a Useppe in
forma di fotografie: quelle dei partigiani impiccati in un giornale appeso in un‘edicola, e le foto dei
lager nazisti che iniziavano a circolare, sia quelle riprese dagli Alleati all’apertura dei campi che
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quelle trovate negli archivi dei vinti. Dalle foto, ambigue e indistinte, si potevano riconoscere
cumuli di prigionieri assassinati nudi e scomposti e cumuli di scarpe ammonticchiate. Altre foto
rappresentavano i luoghi del lager, come la scala della morte, “di 186 gradini altissimi e irregolari,
che i forzati erano costretti a percorrere sotto carichi enormi fino alla cima, donde poi spesso
venivano precipitati giù nella voragine sottostante per dare spettacolo ai capi del lager”, “un
condannato in ginocchio davanti alla fossa che lui stesso ha dovuto scavarsi, guardato da
numerosi soldati tedeschi, uno dei quali è sull’atto di sparargli alla nuca”. E dall’altra parte della
pagina, si vedono delle “figure di ometti scheletrici, occhieggianti dietro una rete, con addosso
certe casacche a strisce, flosce e cascanti, che li fanno somigliare a burattini. Alcuni di costoro
hanno la testa nuda e rapata, altri portano una scoppoletta; e le loro facce si atteggiano a un
Resterà per sempre impossibile sapere che cosa il povero analfabeta Useppe avrà potuto
capire in quelle fotografie senza senso. Rientrando, pochi secondi appresso, Ida lo trovò che le
fissava tutte insieme, come fossero un’immagine sola; e credette di riconoscergli nelle pupille lo
steso orrore che gli aveva visto in quel mezzogiorno alla Stazione Tiburtina, circa venti mesi innanzi.
All’accostarsi della madre, i suoi occhi si levarono a lei, vuoti e scolorati, come quelli di un
ciecolino. E Ida ne risentì un tremito per il corpo, quasi che una mano la scuotesse.
l’impossibilità della sopravvivenza dell’innocenza in quel mondo. Nel 1943, il piano inclinato della
storia converge rovinosamente con la microstoria di Iduzza e Useppe che, usciti per recuperare
qualcosa da mangiare perderanno per sempre la loro casa, ridotta a un cumulo di macerie dal
bisbiglio, “zitta, non facciamoci sentire da loro…” E dopo aver tirato il catenaccio nell’ingresso, in
silenzio prese a correre le sue stanzucce, urtandosi nei mobili e nei muri con tale violenza da farsi
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dei lividi per il corpo. Si dice che in certi stati cruciali davanti agli uomini ripassino con velocità
incredibile tutte le scene della loro vita. Ora nella mente stolida e mal cresciuta di quella donnetta
mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia
umana (la Storia) che essa percepì come le spire multiple di un assassinio interminabile. E oggi
l’ultimo assassinato era il suo bastarduccio Useppe. Tutta la Storia e le nazioni della terra s’erano
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Emanuela Piga Bruni - La Storia di Elsa Morante: una lettura comparata
Nonostante l’orrore del tempo e le tragedie in atto, nel romanzo, oltre a una
capacità di trovare vita e amore negli interstizi della storia, basti pensare ai divertimenti di Nino e
Useppe, alla vitalità della brigata Libera e della famiglia chiamata “I Mille” nello stanzone a
Pietralata. Ma anche la rete di umanità che nonostante le sventure continua a sorreggere Ida per
gran parte delle sue vicende, dall’accoglienza di donna Ezechiele nei giorni del parto, all’eredità
inattesa di Eppetondo, agli aiuti dell’oste Remo, alle cure della dottoressa “scontrosa ma bonaria”.
Una delle scene più intense di sorellanza è la sequenza che vede Ida -- anno 1944, nel
corso delle sue peregrinazioni disperate alla ricerca di cibo per Useppe -- giungere nei pressi di Via
di Porta Labicana e dello Scalo Merci e imbattersi in un camion tedesco contenente farina e
letteralmente preso d’assalto da una folla di donne del popolo che spinte dalla fame si
Ida si fece largo disperata: “Anch’io! Anch’io!” strillava come una bambina. Non riusciva a
rompere l’assedio che stringeva i sacchi buttati a terra. Si sforzò a salire sul camion, ma non ce la
faceva: “Anche a me! Anche a me!!” Dall’alto del camion, una bella ragazza rise sopra di lei. Era
scapigliata, con sopracciglia foltissime e more, i denti forti come di bestia. Si reggeva innanzi per le
cocche la festicciola colma, e le sue cosce, scoperte fino alle mutande nere di raion, splendevano
di un candore straordinario, come quello delle camelie fresche: “Tiè, signò, ma spicciate!” e
accucciandosi verso Ida, con una risata da furia le empì la sporta di farina, versandogliela
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Emanuela Piga Bruni - La Storia di Elsa Morante: una lettura comparata
Bibliografia
1985.
Boscagli, Maurizia, Brushing Benjamin against the Grain: Elsa Morante and
the Jetztzeit of Marginal History, in M.O. Mariotti (a cura di), Italian Women
1988 e 1990.
1987
Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di Anita Raja, Cassandra e
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Emanuela Piga Bruni - La Storia di Elsa Morante: una lettura comparata
Roma, 1984.
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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf
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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf
Christa Wolf nacque nel 1929 a Lansberg an der Warthe, nella Germania orientale, a est del
fiume Oder, un territorio che alla fine della Seconda Guerra Mondiale fu assegnato alla Polonia.
Nel 1949, anno in cui venne istituita la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), Christa Wolf iniziò a
scrivere alla fine degli anni Cinquanta, periodo di conclusione della guerra e, per lei, di
identificazione con l’ideologia antifascista e con il progetto sociale marxista. A livello politico sono
gli anni della divisione della Germania in due nazioni separate e della costruzione di uno stato
Nel 1971 intraprese un viaggio in Polonia per visitare la sua città natale, Landsberg an Der
Warthe, oggi in territorio polacco e chiamata Gorzów Wielkopolski: proprio da tale viaggio nacque
Kindheitsmuster (Trama d’infanzia), pubblicato nel 1976 dopo una stesura lunga e laboriosa. Trama
d’infanzia racconta la fuga della popolazione tedesca verso il Mecklemburgo, per sfuggire
all’occupazione delle truppe sovietiche. Nella scrittrice era vivo l’intento di accendere la memoria
sugli anni del nazismo e su come questi fossero stati vissuti da quella generazione di tedeschi
cresciuta durante gli anni Trenta sotto il Terzo Reich. In prima battuta, è considerato un romanzo
alla propria infanzia, evoluzione, famiglia. Christa Wolf, indagando i meccanismi che avevano
portato la memoria alla rimozione e all’autocensura sul passato nazista, voleva anche sfatare la
Insieme ad autori come Heiner Müller, con la sua pratica di scrittura istituisce un legame tra
memoria individuale e memoria collettiva, tra sfera privata e sfera pubblica, confermando che il
ruolo dell’individuo, nel ristabilire un senso collettivo del passato, è assai significativo per i complessi
rapporti tra silenzio, memoria e oblio. La narrazione si focalizza sul soggetto del ricordare, sugli
atteggiamenti, essenziali per determinare i modi di rottura del silenzio: alcune forme di oblio
suggeriscono una mancanza di identità o uno sforzo per occultare alcune sue componenti. Se la
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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf
memoria del passato è banalizzata, si avranno “individui mancati”, immemori, e quindi facili prede
di movimenti totalitari. Il silenzio è essenziale per ricordarci che la memoria non è solo parola, ma
Nel romanzo è molto forte la questione del linguaggio e della narrazione di eventi
della narrazione, dovuto prima di tutto alla formazione intellettuale dell’autrice. Christa Wolf nasce
saggistica: basti pensare alle Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra Frankfurter Poetik-
Vorlesungen (Premesse a Cassandra)1, alla Dimension des Autors2 (in Pini e sabbia del
Brandeburgo) o alla sua ultima opera Ein Tag im Jahr 1960-2000 (Un giorno all’anno)3, opera ibrida
dal punto di vista dei generi letterari, fra romanzo, saggio, opera storiografica e diario.
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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf
Trama d'infanzia è anche una riflessione sulla memoria; l’autrice scava nel passato dopo
dell'infanzia della scrittrice nella Germania nazista. È anche un Lieu de Mémoire, un termine tratto
dalla monumentale opera di Pierre Nora dedicata ai luoghi memoria. Tra questi, Nora include
quelle autobiografieche complicano “le simple exercise de la mémoire d'un jeu d'interrogation sur
la mémoire elle-même”4.
nell'andamento della prosa, caratterizzata dalla forma interrogativa. In Trama d’infanzia sono
presenti tre livelli di narrazione, corrispondenti a tre registri temporali: il primo è quello della
coscienza autoriflessiva e della sua esplorazione attraverso la narrazione in un periodo che va dal 2
novembre 1972 al 2 maggio 1975; il secondo livello è quello della riemersione consapevole di
ricordi ed emozioni risvegliate da una visita di quarantasei ore nella città natale datata 11 e 12
luglio 1971; il terzo e più remoto livello, quello della ricostruzione delle memorie d’infanzia,
corrispondenti all'arco temporale compreso tra il 1931 e il 1947, due anni dopo la fine della guerra.
Il livello riflessivo costituisce la cornice della narrativa di Wolf e introduce la necessità del
presente di venire a patti con il passato. In questo livello, l’autrice riflette su memoria, scrittura,
infanzia, inserendo e commentando materiale documentario sugli eventi del passato nazista e del
pubblicata dalla casa editrice Aufbau, solitamente incentrata sulla tradizione di resistenza al
Nazismo, quest’opera documenta le tracce della mentalità e del comportamento fascista nella
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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vita quotidiana nella DDR, ovvero si interroga sull’autoritarismo, sulla codardia morale e sul
conformismo.
Il tema della continuità tra passato e presente è centrale nell’opera, e l’io narrante incarna
solo nel falsificare le immagini, ma anche nel processo di cancellarle. Si ha l'impressione che una
delle ragioni che spingono Wolf a scrivere il romanzo sia la volontà di comprendere se la difficoltà
a ricordare dipenda dalla lontananza nel passato o da una rimozione. Il bisogno di riattivare la
memoria va di pari passo con l’esigenza di decostruire le immagini falsificate del passato. È questo
il desiderio all’origine del viaggio, compiuto ventisei anni dopo insieme al marito H, al fratello Lutz e
a consultare materiale documentario – inclusi i giornali locali del periodo, come il nazista
risvegliare quegli aspetti del passato senza memoria. Tutto questo materiale dimostra come quegli
eventi, di cui la maggior parte delle persone aveva dichiarato di non essere a conoscenza, fossero
documenti pubblici: il rogo delle bandiere comuniste, la persecuzione dei comunisti, la fondazione
di Dachau. Sul silenzio collettivo di quella generazione dei tedeschi che assistette agli orrori del
nazismo sembrano essere pertinenti le riflessioni di Luisa Passerini sulla funzione della memoria
condivisa come meccanismo di identità culturale soggetto a una costante riformulazione; la verità
sembra essere intesa dalla memoria non tanto come fedeltà all'accaduto, quanto come
6 Luisa Passerini, Postfazione, in, M.Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, Unicopli, Milano, 1987.
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Maurice Halbwachs nel suo La mémoire collective definisce la memoria individuale come
punto di vista sulla memoria collettiva che cambia a seconda del posto che occupa al suo
viene criticato da Paul Ricoeur, che ritiene opportuno attribuire all'idea di memoria collettiva lo
Per Ricoeur, una volta riconosciute le entità collettive (derivate) come “prodotti
prerogative della memoria: individualità personale, continuità, polarità passato-futuro. Una volta
riconosciuto il transfert analogico, nulla impedisce di considerare la memoria collettiva come una
“raccolta di tracce lasciate dagli eventi che hanno influenzato il corso della storia dei gruppi
d’infanzia appartiene a una scelta precisa, orientata a evitare una narrazione assoluta, a lasciar
trapelare le voci multiple della storia. La memoria autobiografica, memoria personale e interiore, si
nutre della memoria storica, memoria sociale ben più estesa della prima. “Poiché dopo tutto la
storia della nostra vita fa parte della storia in generale”.9 Tra queste voci, l’autrice cerca di far
riemergere la voce della bambina che era, facendola interagire con il suo sé adulto. La dialettica
tra i due sé è quella tra la bambina ricordata, presentata nell’immediatezza della sua esperienza,
Il libro comincia con la descrizione della difficoltà di trovare un inizio. L'oscillare fra i diversi
livelli narrativi ci porta nel cuore del processo della scrittura: il narratore sperimenta diversi incipit
7 Maurice Halbwachs, La memoria collettiva (1968), postfazione di Luisa Passerini, Unicopli, Milano, 1996, p.61.
8 Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L'enigma del passato (1998), Il Mulino, Bologna, 2004, pp.55-56.
9 M. Halbwachs, Op. cit., p.65.
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centrati sui ricordi dell’infanzia e, in particolare, quelli legati all’emergere della coscienza di sé
come soggetto indipendente. La narrazione delle immagini della propria infanzia contiene, nel suo
darsi, la riflessione sui modi possibili di costruire la narrazione. Infine, la decisione è quella di
abbandonare il controllo della tessitura e di cercare di conoscere quella bambina lontana, che
viene indicata in “terza persona” e alla quale viene dato un nome: Nelly. La scissione dal proprio sé
A poco a poco, nel corso dei mesi, il dilemma si è definito: restare senza parola o vivere in
terza persona, pare che questa sia la scelta. Impossibile la prima cosa, inquietante l’altra. E come
L’incapacità di scrivere in prima persona e il dover ricorrere alla terza persona comporta
un’oggettivazione del sé dell’infanzia. Per poter diventare soggetto, l'autrice deve prima
interrelati.
Questa identità non essendo più stabilita all’interno del testo dall’uso dell’”io” è stabilita
indirettamente ma senza alcuna ambiguità dalla doppia equazione: autore = narratore e autore =
personaggio, da cui si deduce: narratore = personaggio, anche se il narratore resta implicito. [...] È
possono andare dall’immenso orgoglio (come nel caso dei Commentari di Cesare o di alcuni testi
di De Gaulle) all’immensa umiltà (come nel caso di alcune autobiografie religiose) 12. In tutti i casi
Nel romanzo Wolf cerca di descrivere i processi sociali che nel Terzo Reich hanno permesso
l’accettazione e il conformismo ai dettami del nazismo. Con il riferirsi a un'intera generazione, senza
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limitarsi alla propria singolare esperienza, Wolf viola uno degli assunti alla base del genere
complicarla, Wolf aggiunse il sottotitolo Roman (Romanzo) all’edizione della Germania Ovest.
La struttura interrogativa del libro coinvolge il lettore nella problematizzazione del passato e
nel tentativo di stabilire delle connessioni con il presente. La convinzione che gli individui e le
società che non vogliono imparare dal passato siano condannate a ripeterle spinge l’autrice a
esplorare le origini del comportamento autodistruttivo, invitando il lettore a fare lo stesso. L’autrice
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4. L’io diviso
necessario oggettivare il proprio sé dell’infanzia nella terza persona per poter narrare. Il dilemma è
familiare). L’io dell’infanzia si incarna nel personaggio di Nelly, mentre la coscienza riflessiva dell’io
narrante è espressa con la seconda persona singolare Du, volta a creare un senso di comunità tra
il lettore e lo scrittore.
tale tipo di procedimento non venga usato per tutta un’opera, ma appaia nella forma di discorso
che il narratore rivolge al personaggio che fu (nel caso di Kindheitsmuster, l’interrogazione si rivolge
all’io narrante, seguendo una forma circolare che coinvolge i due livelli menzionati sopra). Lejeune
destinatario del racconto, citando come esempi di questo tipo di narrazione Modification di
Partendo dallo schema di Gérard Genette utilizzato da Lejeune, pur nella consapevolezza
della non esaustività di queste categorie, definiamo Kindheitsmuster un‘autobiografia che alterna
La ricerca di Wolf in questo romanzo è anche una ricerca sul silenzio collettivo, dovuto non
intenzionale assunto da un’intera comunità e società. È significativo in tal senso il ricordo di una
conversazione con l’insegnante di scuola Maria Kranhold diverso tempo dopo la fine della guerra:
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Forse che Hitler non aveva preteso fin dall’inizio un maggior spazio vitale per il popolo
tedesco? Per qualunque essere dotato di intelletto ciò significava la guerra. Non aveva detto in
tutti i modi che voleva sterminare gli ebrei? Lo ha fatto, finché ha potuto. Ha dichiarato che i russi
erano esseri inferiori: e come tali sono stati trattati da persone che volevano credere che fossero
esseri inferiori. E le persone della risma della Sua vecchia insegnante Juliane Strauch sono cadute in
trappola credendoci. Chi può assolverle per aver mandato in licenza il proprio pensiero?
Julia, disse Nelly, non avrebbe mai potuto uccidere nessuno, ne era sicura. 14
Il processo di ricostruzione del passato riporta alla luce i momenti della costituzione del sé,
dei frammenti del passato emerge una figura: quella di chi, in quel tempo, incarnava il diverso, il
nemico. L'immagine degli ebrei, filtrata dalla memoria e riportata dallo sguardo infantile, è
ingabbiata nelle categorie costruite dal Potere dominante e assorbite dalla mentalità comune.
Nell'atto del ricordare si inserisce lo sguardo collettivo del tempo, portatore del sentimento
di paura e distacco suscitato da quelle figure altre, sulle quali convergevano tutti i problemi della
società. Così la scrittrice racconta, per via frammentaria, i passaggi che portano una società
Gli ebrei, senza gambe nel ricordo di Nelly per via dei lunghi caftani, entravano a rischio
della vita nella sinagoga distrutta e portavano i loro sacri tesori d’oro. Gli ebrei, uomini anziani dalle
barbe grigie, abitavano in quelle misere casette sulla piazza della sinagoga. Le loro mogli e i loro
figli forse sedevano dietro le finestrelle minuscole e piangevano. [...] Gli ebrei sono diversi da noi.
Sono sinistri. Degli ebrei bisogna aver paura, se non si riesce a odiarli. Se adesso gli ebrei fossero
forti, ci ammazzerebbero tutti. Nelly sarebbe stata prossima a cedere a un sentimento inopportuno:
compassione. Ma il buon senso tedesco ci mise un argine, sotto forma di paura. [...] Per Nelly era
imbarazzante restare lì. Charlotte le aveva insegnato che cos’è il tatto: innanzitutto ciò che non si
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fa. Non si guarda un affamato se si ha la bocca piena. [...] Nelly ha classificato quegli sconosciuti
15 Ivi, p. 189.
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La generazione di Wolf, nata alla fine degli anni Venti, era troppo giovane per essere
retrospettivamente cosciente della pervasività del nazismo nella vita quotidiana. Gravata da
(superamento) così come comunemente inteso, ritenendo che non fosse realmente possibile
elaborare il genocidio di sei milioni di ebrei e di venti milioni di sovietici. Con l'esplorare la continuità
tra passato e presente, il romanzo sfida la dichiarazione di discontinuità della DDR rispetto alla
Germania hitleriana, cosa che – come già detto – fu causa della sua pessima ricezione in patria.
fosse estraneo. 16
Lamentando l’assenza di una memoria, Wolf usa la sua autobiografia come spunto per la
dell’autorità e l’obbedienza indiscriminata verso il fascismo, ancora percepibili nelle persone della
l’autobiografia di Kindheitsmuster e dichiara che la scelta della narrazione in terza persona nasce
da un senso di straniamento rispetto alla propria biografia durante il periodo vissuto sotto il
Socialismo Reale. La scelta della poesia di Neruda come epigrafe va letta in questa direzione.
L’immagine dello scavo archeologico compare negli scritti di Freud del 1890 per non essere
più abbandonata, seppur con delle modifiche. Nell’opera Studi sull’isteria17 emerge chiaramente
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la dimensione temporale dell’inconscio, la scissione dell’io, la teoria del rimosso, l’idea che il
passato sia conservato da qualche parte e sia recuperabile dal soggetto rimembrante. La
passato nell’inconscio.
Anche nel caso di Dora, Freud usa l’analogia archeologica, specificando, al pari di un
archeologo, il confine tra le parti autentiche e quelle ricostruite dalla narrazione, così come nelle
autobiografie fabula e intreccio sono combinati insieme. Secondo Freud l’analista è in una migliore
posizione rispetto all’archeologo, poiché nell’inconscio del paziente “ciò che è essenziale viene
l’idea della ricostruzione archeologica del passato, implica anche il segno della finzionalità
provvisorietà di questa costruzione suggerisce un’apertura a ulteriori ricostruzioni, non nel senso
della ricostruzione di una città in rovine, o di una ricostruzione del passato qual era, ma come
generale psichico e testuale centrale nella costruzione e lettura delle narrazioni, sono state estese
dallo psicoanalista e saggista Jean Laplanche ad altri ambiti, come le narrazioni di un soggetto
ciclico al momento traumatico ri-ricordato nel presente con dettagli via via maggiori. In questo
senso, Trama d’infanzia è una storia che narra il processo di ricostruzione della memoria, sempre
suscettibile di essere ritradotta. Nel saggio Autobiographical times, Susannnah Radstone sottolinea
come un filone dell'autobiografia degli anni Sessanta e Settanta, da lei indicato con il termine
18 Susannah Radstone, Autobiographical times, in Tina Cosslett, Celia Lury, Summerfield Penny, (a cura di), Feminism and
Autobiography. Texts, Theories, Methods, Routledge, London and New York, 2000, p. 205.
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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf
Bibliografia
Wolf, Christa, Kindheitsmuster, Aufbau, Berlin und Weimar, 1976; trad. it. di
Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di Anita Raja, Cassandra e
Roma, 1984
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Emanuela Piga Bruni - Storia e finzione tra Linguistic Turn e postmoderno
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Indice
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Alla base del romanzo storico sta il rapporto problematico tra storia e finzione. Un rapporto
che può essere anche ambiguo, nella sua dinamica tra fatti realmente accaduti e storie inventate,
tra personaggi storici e personaggi letterari, e in generale, tra le due modalità discorsive del
racconto fattuale e del racconto finzionale. Nel corso dei secoli, la forma della contrapposizione
netta che lega i due termini sfuma sempre di più a favore dell’intreccio. Il romanzo storico
tradizionale – soprattutto nella versione di Manzoni – presupponeva una distinzione netta tra fatti
reali e fatti immaginari, anzi l’effetto dipendeva dalla capacità del lettore di non confondere
questi piani.
Nel romanzo contemporaneo, le trame nitide che compongono l’intreccio di questi due
elementi diventano sempre di più ingredienti solubili di una composizione generata dalla
mescolanza, in cui i confini tra vero, falso e finto, in alcune narrazioni sono sempre più labili. Di pari
passo, la riflessione critica si interroga sempre di più sull’intreccio tra documento storico e
invenzione narrativa. In particolare, nelle fasi successive della modernità, a partire dal primo
contrapposizione tra fatto e finzione si sfuma, diventa sempre più confusa con vaste aree di
Dagli sviluppi della scuola delle Annales si sviluppano negli anni Settanta del XX secolo,
soprattutto in ambito anglosassone, prospettive che riducono l’importanza della storia materiale a
favore del linguistic turn, o svolta linguistica, inaugurata dal libro Metahistory di Hayden White:
struttura verbale in forma di prosa narrativa: il racconto della storia combina insieme una certa
1H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenthcentury Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimora
e Londra, 1973, tr. it Retorica e storia, Guida, Napoli 1978, p. ix.
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quantità di “dati”, di concetti teorici atti a spiegare questi dati, e una struttura narrativa che li
presenta come una serie di eventi accaduti nel passato. White sottolinea la riluttanza diffusa nel
considerare le narrazioni storiche come costruzioni i cui contenuti sono tanto inventati quanto
Dalla voce “Metastoria”, redatta da Camilla Miglio per il Dizionario degli Studi Culturali, a
Narrazione, retorica, rappresentazione sono gli aspetti che introducono la meta- storia nella
famiglia degli studi culturali contemporanei. Non solo la storia, la letteratura, la cultura sono
d’indagine: non più come scienza positiva, ma come narrazione, discorso, ovvero fonte culturale.
In essa si possono rintracciare le rappresentazioni, i valori e le proiezioni degli storici nella doppia
dell’intreccio mitico”, e rende la storia un genere ibrido, «prodotto di un’unione bizzarra, sebbene
non innaturale, fra storia e poesia». Come nella narrativa finzionale, i “fatti” della cronaca vanno a
comporsi in generi precisi di strutture d’intreccio. Eventi storici casualmente registrati non
costituiscono di per sé delle storie, ma offrono allo storico gli elementi per la costruzione di una
attraverso la messa in figura, la ripetizione di motivi e la variazione del punto di vista. In breve,
Dunque, considerati in quanto elementi di una storia, gli eventi storici non hanno valore intrinseco,
e la loro collocazione finale in una storia, tragica, comica, romantica o ironica che sia, dipende
dalla decisione dello storico. Ben più dell’opera letteraria, l’opera storica si presenta come priva di
proprio nel suo non poter non essere un racconto. È la base di fondo, ben presente a White,
dell’archeologia di Michel Foucault. Riducendo ai minimi termini le strutture alla base del
2Camilla Miglio, “Metastoria”, Dizionario degli Studi Culturali, a cura di Michele Cometa, Meltemi, Roma, 2004, disponibile
anche una versione on line.
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documento storico, Foucault intende rivelare i discorsi situati.3 L’identità del soggetto osservante è
la risultante di una serie di rapporti di forza, e con lo svelare il meccanismo di senso sotteso agli
enunciati, ancor più se dissimulato, l’archeologia ne rivela l’elemento di controllo sociale. White
ricorda che ciò che trasforma una situazione tragica in una comica è lo spostamento del punto di
vista. Il significato degli eventi narrati dipende dal modo in cui lo storico li dispone in un intreccio.
White, premurandosi di sottolineare come ciò non tolga nulla allo status della narrazione storica.
Successiva alla pubblicazione di Metahistory, la raccolta di scritti Forme di storia 4offre lo spunto per
3 Cfr. M. Foucault, L’Archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1984, tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999.
4 H. White, Forme di storia, a cura di E. Tortarolo, Carocci, Roma 2006.
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Emanuela Piga Bruni - Storia e finzione tra Linguistic Turn e postmoderno
esempio, forme e stili del saggio di Ginzburg Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del
‘500.5 Successivamente, Ginzburg nel ricordare la scrittura del suo primo libro, I benandanti.
«Mi pareva che i documenti su cui stavo lavorando (i processi dell’Inquisizione) aprissero un
ventaglio molto ampio di possibilità narrative. La tendenza a fare esperimenti in questo senso,
certo sollecitata anche dalle mie origini familiari, trovava nelle fonti un impulso e un limite. Ma ero
convinto (lo sono ancora) che tra testimonianze, sia narrative sia non narrative, e realtà
testimoniata esista un rapporto che dev’essere analizzato di volta in volta. L’eventualità che
qualcuno potesse mettere radicalmente in dubbio questo rapporto non mi passava neanche per
la testa».7
Successivamente, ridefinì le proprie posizioni alla luce dei rischi implicati da una tendenza
«La svolta per me si verificò solo quando, grazie a un saggio di Arnaldo Momigliano, mi resi
conto delle implicazioni morali e politiche, oltre che cognitive, della tesi che in sostanza cancellava
A questa fase appartiene la polemica sul revisionismo storico svoltasi fra White e Ginzburg,
in cui quest’ultimo sottolinea con forza i pericolosi risvolti che si aprono quando si va a toccare il
tema del confine che separa il testo “narrativo” basato sul documento storico e l’opera letteraria.
Nel saggio Microstoria: due o tre cose che so di lei, Ginzburg rivendica la polemica
condotta insieme a Giovanni Levi contro le posizioni relativistiche «che riducono la storiografia a
5 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 1976.
6 Carlo Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966.
7 Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 8.
8 Si veda al riguardo la Postfazione di Ginzburg a Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del
Cinquecento di Natalie Zemon Davis (Einaudi, Torino 1984), ripubblicata nell’appendice al più recente Il filo e le tracce, cit.
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«Tra questa polemica e il debito che ho espresso in queste pagine nei confronti di Calvino,
e più in generale del romanzo otto e novecentesco, non ci sia alcuna contraddizione».9
Ginzburg ricorda anche quanto l’atteggiamento sperimentale dei microstorici italiani fosse
«basato sull’acuta consapevolezza che tutte le fasi che costituiscono la ricerca siano costruite, e
non date», come l’identificazione dell’oggetto, i criteri di prova, i moduli stilistici e narrativi
attraverso cui i risultati vengono trasmessi al lettore. In questo approccio, unito al rifiuto esplicito
delle implicazioni scettiche presente nella storiografia europea e americana degli anni Ottanta e
Per White, l’esistenza stessa di una retorica della storiografia è prova dell’impossibilità di
stabilire dei criteri di verità: la Storia è narrazione di storie, che in quanto tali sono sempre
all’evento storico.
Anziché obiettare riaffermando l’influenza della storia sulla retorica, Ginzburg si rifà ad
Aristotele, ricordando come la prova, concetto chiave della storia, costituisca anche il nucleo
«negli ultimi venticinque anni la nozione di prova è stata considerata di solito come un
tratto caratteristico (il simbolo quasi) della storiografia positivistica. Alla prova si è contrapposta la
retorica: e l’insistenza della dimensione retorica della storiografia, spinta non di rado ad identificare
l’una con l’altra, è diventata l’arma principale della polemica contro il tenace positivismo degli
storici. La svolta linguistica di cui si è parlato spesso dovrebbe essere definita più esattamente
svolta retorica».11
Nel saggio “Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà”,12 Ginzburg critica con
forza la concezione della storia di White, da lui vista come riduzione della realtà alla sua
dimensione linguistica. Nella sua prospettiva, affermare che i fatti siano costruiti dal discorso,
9 C. Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, in Il filo e le tracce, cit., p. 265-266.
10 C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 13, 67.
11 Ivi, p. 73.
12 C. Ginzburg “Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà”, «Quaderni storici», n. 80, 1992, pp. 520-548,
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Emanuela Piga Bruni - Storia e finzione tra Linguistic Turn e postmoderno
significa “derealizzare” la realtà, ossia la materia stessa della storia. Questo significa anche aprire la
strada all’illimitata capacità del linguaggio di creare, negare e manipolare indefinitamente gli
eventi del passato. Con l’antichista Arnaldo Momigliano13 Ginzburg condivide in primo luogo il
timore per l’indistinzione tra finzione e storia imputata a White, al cui relativismo contrappone una
concezione della storia come disciplina scientifica volta ad appurare la verità. Tuttavia, anziché
una “guerra di trincea” tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche, Ginzburg ipotizza «un conflitto
fatto di sfide, prestiti reciproci, ibridi», una strategia che impara «dal nemico per contrastarlo in
13 Si veda di C. Ginzburg il saggio The Rhetoric of History and the History of Rhetoric: On Hayden White’s Tropes del 1981,
ripubblicato in italiano con il titolo La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White nel volume di A.
Momigliano, Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984.
14 C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit. p. 9.
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Nella tarda modernità, la relazione tra letteratura, storia e società è stata interpretata in
vario modo. In Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism,15 il critico americano
critica sociale e derivante dalla condizione del lavoro intellettuale imposta dal modo di produzione
tardo capitalista. Al contrario, Linda Hutcheon in Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction16
vede nel gioco postmoderno della narrativa con la storia una forma di critica culturale
scomparsa del passato e dell’utopia si aggiunge la scomparsa dell’autore, seppur in una visione
dello stile personale all’eterogeneità stilistica del pastiche ha la conseguenza di rendere il soggetto
un correlativo della mancanza di unità del mondo esterno. Jameson indica la necessità di un
ripensamento della posizione del soggetto per una efficace prassi politica o azione rivoluzionaria,
In Raccontare il postmoderno, Remo Ceserani, più che di scomparsa del passato, parla di
uno schiacciamento di passato e futuro sul presente, in un quadro in cui “uno storicismo
onnipresente, onnivoro e quasi libidico” lavora a ridurre il passato a museo di fotografie e raccolta
distacco ironico dell’io narrante rispetto all’enunciato nel segno della deresponsabilizzazione
autoriale: oltre al “declino dell’affetto” segnalato da Jameson, tra le diverse voci che si sono
15 Saggio pubblicato per la prima volta nella “New Left Review” nel 1984 (n. 146, pp. 53-93) e successivamente come
volume: Fredric Jameson, Postmodernism, or The cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham 1991, tr. it di
Massimiliano Manganelli, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, postfazione di Daniele Giglioli,
Fazi, Roma 2007.
16 L. Hutcheon, A poetics of postmodernism: history, theory, fiction, Routledge, New York and London 1988.
17 F. Jameson, Postmodernismo, cit., p. 147.
18 R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 142. Per una rassegna delle posizioni e una
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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levate, mi limito a citare “l’apatia politica” di cui parla Christopher Norris, e se Romano Luperini
denuncia “una tendenza all’accettazione apologetica del presente”, Alfonso Berardinelli legge in
questa logica una “perdita di senso storico e anticamera della New Age”.19
Tuttavia, la riflessione di Ceserani suggerisce che il distacco emotivo rintracciato da più voci
nella narrativa postmodernista possa essere strategico a un altro obiettivo: creare la distanza
necessaria per poter mettere a fuoco una realtà dominata da dinamiche e meccanismi che
sfuggono alla comprensione delle persone comuni. Tra gli esempi citati, menziona la ricerca di
Calvino di strumenti narrativi per affrontare le questioni centrali della postmodernità, come:
strutture portanti della nostra società, la necessità di porsi a una certa distanza per cercare di
Contro una visione apocalittica del clima culturale in Italia che avrebbe contraddistinto gli
anni Novanta e Zero, in Postmodern impegno: ethics and commitment in contemporary Italian
culture,21 Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug, attraverso un analisi di campioni scelti tra
letteratura, arti visuali, media e diversi campi del sapere, hanno evidenziato le forme esistenti di
consapevolezza etica e politica. Nell’ambito di una proposta teorica focalizzata sul carattere
metanarrativo della narrativa successiva agli anni Sessanta, Amy Elias combina l'interpretazione del
postmodernismo (come forma di sensibilità artistica diffusasi dopo il 1945 e Zeitgeist del capitalismo
postindustriale e di fine secolo) data da Jameson con il giudizio più positivo, in termini di valenza
riflessiva, dato da Linda Hutcheon. Secondo la teorica americana, più che la possibilità di scoprire
e ricostruire la storia mancante, agli scrittori postmoderni resta la “metastoria”, intesa come
modernista procurata dal trauma storico, o dalla concezione di una storia come spazio accessibile
al soggetto razionale attraverso lo studio empirico, il romanzo storico contemporaneo veicola una
19 Per una sintesi sul dibattito in Italia, si veda di Monica Jansen Il dibattito sul postmoderno in Italia: in bilico tra dialettica e
ambiguità (Firenze, F. Cesati, 2002).
20 Corsivo mio.
21 Pp. Antonello e Florian Mussgnug, a cura di, Postmodern impegno: ethics and commitment in contemporary Italian
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concezione della storia come di ciò che sfugge, sublime regno di verità mai completamente
accessibile e catturabile: il regno del caos, del terrore ma anche della potenziale rivelazione.
Nel suo rifiuto della fuga dalla Storia, il romanzo “metastorico” si pone come narrazione
fortemente problematica e politicizzata, che nella sua ricerca di mythos e significati apre diversi
modi di relazione al passato. Nato “consapevole” della posta in gioco insita in ogni ricostruzione
storiografica, instaura un rapporto con la storia segnato non tanto dalla pretesa a una ricostruzione
storiografica puntuale, o a una contro-storia da contrapporre alla storia ufficiale, quando dal
desiderio. Nella sua disamina, la coscienza post-traumatica di fine secolo si relaziona alla storia
come un orizzonte desiderato ma mai raggiunto, che può essere soltanto avvicinato. Da qui un
“sublime storico”, a cui allude il titolo del suo libro 23, che genera nuove rappresentazioni del
passato storico. A questo proposito, rifacendosi a Robert Scholes,24 ricorda come sia riscontrabile
nella narrativa postmoderna successiva agli anni Cinquanta (Kurt Vonnegut, Lawrence Durrell,
John Barth, Iris Murdoch...) una prevalenza del romance sul novel, dovuta al piacere della forma e
constatazione trae la definizione di metahistorical romance, usato per i romanzi del tardo
metastorica, come atto che si rivolge alla storia e ne interroga le basi epistemologiche e politiche,
a partire dal rapporto tra autorialità, narrazione e documentazione storica. Mentre la metastoria
postcoloniale si presenta come una critica dell'Occidente compiuta dalle cosiddette periferie,
specifica l’autrice, la narrazione metastorica che proviene dal bacino del postmoderno è
un’interrogazione che nasce nel cuore dell'Impero. Questo tipo di sguardo racconta l'approdo
degli Altri dalle periferie e si fa portatore di una riconsiderazione delle politiche storiografiche
occidentali, seppur trasfigurata nella finzione letteraria. Elias sottolinea che mentre la metastoria
postcoloniale solleva frequentemente la questione del sé come Altro nella storia prodotto da un
23 Ibid.
24 R. Scholes, Fabulation and Metafiction, University of Illinois, Urbana, 1979, pp. 8-20.
25 Ivi, p. 20.
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come produttore di storia. La posizione da cui osserviamo un paesaggio, un atomo, una persona o
un testo incide significativamente sulla nostra prospettiva cosi come l'entità osservata.
rispetto a un determinato evento condiziona e circoscrive la nostra visuale. Ciò che ci interessa di
questa prospettiva è l’aver messo a fuoco la convergenza del romanzo metastorico con le istanze
postcoloniali, e il ricorrere di questioni inerenti alla relazione del sé con l'Altro, la cultura e la storia.
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Emanuela Piga Bruni - Storia e finzione tra Linguistic Turn e postmoderno
Bibliografia
Elias, A., Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore, Johns
Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimora e Londra, 1973, tr. it
line.
Torino 1976.
storici», n. 80, 1992, pp. 520-548, ripubblicato nel libro Il filo e le tracce, cit
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Indice
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«Il n'y a pas de compréhension historique que quand' on a effectué une réactualisation du
passé dans le présent» sostiene Paul Ricoeur nel suo L'écriture de l'histoire et la répresentation du
passé1.
Una delle forme di riattualizzazione del passato nella letteratura moderna è quella delle
pratiche di intertestualità e di ripresa testuale, tra le quali figurano le riscritture del mito. Con la
riscrittura testo e personaggi si fanno migranti, attraversano tempi e spazi per caricarsi di nuovi
Nella Modernità, sostiene Jean-Pierre Vernant, “Le héros légendaire a cessé d’être un
modèle et il est devenu un problème.” 2 L'autore che riscrive sceglie di calarsi nell'immaginario di un
ipotesto per raggiungere più compiutamente il proprio. Lo scavo nel mito, che nella modernità si
incarna essenzialmente nella letteratura (definita da Pierre Brunel, nell’introduzione del Dictionnaire
des mythes littéraires3, "conservatoire des mythes") e nella scrittura cinematografica, si avvale di un
movimento acronico, che permette di dire un'anteriorità radicale, quella delle leggende e dei miti,
Il mito fu un elemento costitutivo della tragedia e una fonte consistente per gli autori tragici,
che non inventarono nuovi intrighi, ma presentarono il vecchio mito attraverso un nuovo prisma
che rifletteva perfettamente il contesto sociale, politico e culturale della loro epoca. I miti moderni
non sono più una semplice versione del testo fondatore e della storia millenaria: i moderni non
hanno la pretesa di reinventare Sofocle o Euripide, al contrario, i miti proiettati nel XX secolo
divengono delle nuove opere, nelle quali Antigone, Elettra e Medea hanno le stesse
1 Paul Ricoeur, L'écriture de l'histoire et la représentation du passé, “Annales”, vol. 55, 2000.
2 Jean-Pierre Vernant, Pierre Vidal-Naquet, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, François Maspero, Paris, 1973, p.14; trad.
it. di Mario Rettori, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino, 1976.
3 Pierre Brunel (a cura di), Dictionnaire des mythes littéraires, Editions du Roches, Monaco,1988, p. X; trad. it. e cura di
Gianfranco Gabetta, Dizionario dei miti letterari, Bompiani, Milano, 2004, p. IX.
4 Cfr. Jean Bessière, Achronie. Littérature du XX siècle, instauration de la mémoire, in Jean Bessière e Philippe Daros
(a cura di), Instaurer la mémoire, Bulzoni, Roma, 2005.
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Emanuela Piga Bruni - Mito e letteratura: Cassandra di Christa Wolf
Come scrive Sergio Givone nella sua prefazione al Saggio sul tragico di Peter Szondi,
«Dunque, il tragico non come rivelazione del sempre uguale ma come apertura di forme diverse di
esperienza. E questo significa che la storia caratterizza il tragico in modo decisivo».5 Nella sua
metamorfosi permanente, data dalla sua identità dinamica e dalla trasformazione che ne dà ogni
opera, il tragico continua ad agire nella letteratura moderna, con le sue interrogazioni sulla
condizione umana, sul mistero della vita e della morte e su come si concatenano eventi e
calamità, in un divenire che continua a vederlo legato alla metafisica e alla filosofia nello sforzo di
apprendere il reale.
La questione di fondo che spinge la scrittrice negli anni Ottanta allo scavo nel mito e
all’incontro con Cassandra non può, allora, che essere racchiusa nella domanda “Quando e
perché la società nella quale viviamo è diventata così autodistruttiva?” Per cercare una risposta,
l'autrice “sceglie” di riscrivere il personaggio della profetessa come un soggetto in lotta contro
l’alienazione, processo che subisce ogni essere umano oggetto di violenza, e testimone di un
mutamento di valori che si ripercuote sul comportamento e sul linguaggio. Cassandra si può
leggere anche come uno dei percorsi moderni di rilettura delle immagini mitiche del femminile 6,
Motte Fouqué, e Medea, Stimmen8, scritta dalla stessa Wolf quattordici anni dopo.
La domanda all’origine della riscrittura wolfiana della profetessa è su chi fosse veramente
Cassandra al di là dell’immagine tramandata dai vari cantori delle gesta degli eroi. L’intenzionalità
della scrittrice è quella di rinarrare il personaggio oltre l’orizzonte tradizionale costruito dall’epos,
dagli storiografi e tragediografi greci; restituire la soggettività al femminile, che nel mito e nell’epos,
viene percepito o come “altro da sé” - o chiuso nel silenzio e consegnato alla non testimonianza
5 Sergio Givone, Prefazione, in Peter Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino, 1999, p. x.
6 Cfr. la bella introduzione di Rita Svandrlik nel libro da lei curato: Il riso di ondina, Quattro venti, Urbino, 1992.
7 Ingeborg Bachmann, Undine geht. Erzählungen, Reclam, Leipzig, 1973; trad. it. di Magda Olivetti, Ondina se ne va, in Il
trentesimo anno, Adelphi, Milano, 1985.
8 Christa Wolf, Medea, Stimmen, Deutschen Taschenbuch, München, 1996; trad. it. e note a cura di Anita Raja, Medea,
e/o, Roma, 1996.
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evento è filtrato dal suo occhio. L’incipit ha luogo a Micene, con il ritorno di Agamennone
vincitore. La guerra è quindi conclusa, vinta dai greci, e noi ne veniamo a conoscenza seguendo il
filo dei ricordi della profetessa. Il primo capoverso esplicita il legame del racconto con le Premesse
a Cassandra:9 la voce narrante è quella della scrittrice, narratore extradiegetico, che, nel corso del
suo viaggio a Micene, di fronte alla Porta dei Leoni, immagina Cassandra negli ultimi istanti della
Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l'hanno fissata.
Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l'ultima cosa che vide. Un
nemico da tempo dimenticato e i secoli, sole, pioggia, vento, l'hanno spianata. Immutato il cielo,
un blocco d'azzurro intenso, alto, distante. Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano
il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.
Con il passaggio seguente «Con questo racconto vado nella morte» (Mit der Erzählung geh
ich in den Tod)10 si verifica uno scarto dalla terza alla prima persona, dal tempo passato al tempo
presente. È Cassandra a prendere la parola, e con lei, la scrittura “va nella morte”.
Hier ende ich, ohnmächtig, und nichts, nichts was ich hätte tun oder lassen, wollen oder
Dal terzo fino all’ultimo capoverso la voce narrante è quella della veggente, sotto forma di
monologo interiore, nel quale ricordi, riflessioni, associazioni, si intrecciano in una scrittura che si
srotola in immagini nitide articolandosi su due piani temporali, presente e passato, in una forma
flash-back frammentato da riflessioni e percezioni relative al suo presente (la figura di Clitennestra
e la morte ormai prossima). Il tempo del discorso è diverso da quello della storia che non si
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presenta nella sua consequenzialità diegetica, ma attraverso una struttura a regressione analettica
Ecco dove accadde. Questi leoni di pietra l’hanno fissata. Al mutar della luce paiono
animarsi.
[v. or.: Hier ist es. Diese steinernen Löwen haben sie angeblickt. Im Wechsel des Lichts
La struttura temporale
Cassandra, e il tempo lineare delle azioni e degli eroi. L’alternanza di questi due tempi, la linea
sinusoidale che ne deriva, dovuta dal susseguirsi di progresso e ritorno, ci dà un tempo, che
potremmo dire, riprendendo gli studi di Jean Bessière13, complessivamente acronico. L’acronia è
spiegata da Bessière come un tempo non specificato sia per mancanza di nitidezza, sia per il
Gli eventi che fanno da sfondo alla figura in divenire di Cassandra sono quelli delineati
dalla violenza della guerra con i greci, le cui immagini potrebbero illustrare perfettamente le
pagine de L’Iliade, où le poème de la force14 di Simone Weil; soprattutto quando, nella prima
parte del romanzo, Achille compare in brevi flash-back, immagini condensate di violenza pura.
«Poi venne Achille la bestia. L‘ingresso dell‘assassinio nel tempio che si oscurò quando lui si
fermò sull‘entrata. Che cosa voleva quell‘uomo. […] Si fece un silenzio di tomba. Fui scrollata via,
non provai nulla. Ed ecco il nemico, il mostro sollevare la spada al cospetto della statua di Apollo e
12 Ibidem, p. 164.
13 Jean Bessière, Achronie. Littérature du XX siècle, instauration de la mémoire, in Jean Bessière e Philippe Daros (a cura di),
Instaurer la mémoire, Bulzoni, Roma, 2005.
14 Simone Weil, L’Iliade ou le poème de la force, in Œuvres, Gallimard, Paris, 1999, p. 529; trad .it. di Margherita Harwell
Pieracci e Cristina Campo, L’Iliade o il poema della forza in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino, 1984. Opera
scritta a Marsiglia, tra il ’39 e il ‘41, durante l’invasione tedesca, con lo pseudonimo di Emile Novis.
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Emanuela Piga Bruni - Mito e letteratura: Cassandra di Christa Wolf
[v. or.: Dann kam Achill das Vieh. Des Mörders Eintritt in den Tempel, der, als er im Eingang
stand, verdunkelt wurde. […] Es war totenstill. Ich wurde abgeschüttelt, spürte nichts. Nun hob der
Feind, das Monstrum, im Anblick der Apollon-Statue sein Schwert und trennte meines Bruders Kopf
von Rumpf.]15
Non Achille – l’eroe, quindi, quale ci tramanda Omero, ma Achill das Vieh, Achille – la
monoliticità che la sua rappresentazione ricava la sua forza e la sua incisività, rendendo il
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di un “altro” ordine simbolico generato nella libertà della dimensione letteraria. Il mito viene
personaggio della profetessa è raffigurato come una soggettività in continuo mutamento e ricerca
Nel corso di questo “divenire soggetto” prende forma la domanda «Perché volli a tuti i costi
La veggenza riveste infatti un ruolo chiave nel meccanismo narrativo del romanzo: da fonte
là della fitta cortina mistificatrice perpetrata dal potere, con un’ottica che è “altra”, “diversa” da
quella dominante. La voce diventa il canale di espressione della veggenza, il mezzo con il quale la
profetessa esterna le sue visioni La voce quindi come portavoce dell’alterità di Cassandra; alterità
fino a quel punto relegata alla sfera dell’inconscio, e che non trova una possibilità di espressione se
Con Kassandra, la figura mitica della profetessa, si riattualizza nella Modernità grazie alla
dell’altro da sé. Tema narrato anche da Ingeborg Bachmann, scrittrice molto amata da Wolf, le
cui eroine, come la già citata Undine, esprimono il desiderio di autodistruzione nascente
dalla constatazione che la letteratura si è sviluppata sul modello della narrazione legata al
16 Ibidem, p.12.
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racconto dei conflitti, e si interroga sulla possibilità di una letteratura non più connessa con le gesta
degli eroi. La sua idea è quella di una scrittura che “parta dal basso”, di una parola viva che
rispecchi la quotidianità. In questo senso va visto il riferimento specifico alla prosa di Virginia Woolf,
riferimento ‘classico’ per la scrittrice tedesca. La memoria della Woolf, gioco associativo di
linguaggi, non lineare, non dialettico, che si dipana in una prosa fluida, ricca di percezioni, flussi di
coscienza, interruzioni, ellissi riprese, è per molti versi un modello per la scrittura della cassandra
wolfiana.
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Nelle pagine di Simone Weil, nel già citato saggio sull’Iliade, possiamo rintracciare una
riflessione simile sulla violenza e sulla reificazione che si incarna nel concetto di forza, centrale nella
Le vrai héros, le vrai sujet, le centre de l’Iliade, c’est la force. La force qui est maniée par les
hommes, la force qui soumet les hommes, la force devant quoi la chair des hommes se rétracte.
[...] La force, c’est ce qui fait de quiconque lui est soumis une chose.
La Forza, dunque, nel saggio di Weil, è il vero argomento, il centro dell’Iliade, e la sua
proprietà principale è quella di reificare, spogliare l’essere umano di se stesso. La Forza, che stritola
chi la subisce, e inebria chi ne è provvisto, dispone del duplice potere di tramutare un uomo in
cosa. portandolo alla morte, e di quello di mutare in cosa un uomo vivente. Il “rendere oggetto”,
Nella lettura di Weil, nell’Iliade nessuno domina la forza; è la forza che possiede gli uomini,
non c’è nessun eroe che ad un certo momento non debba piegarvisi. Chi è posseduto dalla forza,
ne è travolto, ed il suo impeto impedisce “ce bref intervalle où se loge la pensée. Où la pensée n’a
pas de place, la justice ni la prudence n’en ont. C’est pourquoi ces hommes armés agissent
durement et follement” . Non c’è distinzione tra vincitori e vinti, sono entrambi colpiti dalla
sventura, la forza reifica il vincitore non meno dello schiavo, lo rende cieco, sordo e incapace di
pensare, di fermarsi.
«Chi ritroverà la parola e quando?» (Wer wird, und wann, die Sprache wiederfinden?) si
interroga Cassandra nel romanzo. Riprendendo ancora Weil: «Un usage modéré de la force, qui
seul permettrait d’échapper à l’engrenage, demanderait une vertu plus qu’humaine, aussi rare
La riscrittura del mito operata dalla scrittrice tedesca si distacca dalla celebrazione delle
“gesta degli eroi” e indica l’utopia di un mondo che si sottrae alla colonizzazione dell’essere
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umano, nel quale la più alta forma di eroismo è quella della conoscenza di sé, che è la chiave
della grandezza della Cassandra wolfiana. Con la riscrittura, il mito si carica di temi che vanno al di
là di specifiche coordinate spazio-temporali, per porsi al centro di una radicale critica della
Le immagini rievocate da Cassandra nel suo percorso a ritroso nella memoria, riflettono una
violenza molteplice, che non si dispiega unicamente nella guerra, ma che agisce su diversi livelli:
sembra scaturire dal cuore della città, germogliare all’interno del potere, nel Palazzo.
Parallelamente alle descrizioni della violenza bellica, in Kassandra è narrata con finezza la
degenerazione del governo di una città in un sistema coercitivo. Il linguaggio muta piegandosi ai
nuovi scopi, la realtà viene manipolata e riproposta in chiave utile “al nuovo corso”, la guerra
perpetrata come “necessaria”: esiste un nemico, sul quale far convergere tutta l’insoddisfazione
del presente di ogni troiano. Il nemico è rappresentato dai greci, che incarnano la nuova società
violenta e patriarcale, ma l’accento è posto sulla trasformazione di Troia, sulla sua assimilazione al
nemico stesso. La città cambia assetto, la maschera della “sicurezza” nasconde il volto della
Avvolta nell’intreccio narrativo, è presente nel romanzo una lucidissima descrizione dei
meccanismi propulsori del divampare della violenza. Il nemico esterno diventa così un termine di
contrapposizione, che rende il gruppo più coeso e compatto; perché di fronte ad esso, le
differenze interne alla società divengono relative, convergono verso il centro, verso l’Ordine. La
paura, con un’azione semplificatoria, viene espulsa oltre i confini della società e, talvolta, ai suoi
stessi margini. Lo stesso abitare di questo gruppo esterno al di là dei confini, “in uno spazio altro”, lo
rende già pericoloso e malvagio, e provoca la chiusura interna e l’edificazione delle mura verso
l’esterno .
tempo sinusoidale, nel segno dell’acronia che, secondo Jean Bessière, “permette di dire
un'anteriorità radicale, quella delle leggende e dei miti” e "instaura una memoria di ciò che
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nessuno oggi ha visto e memorizzato" . In questo caso, potremmo dire la “storia perduta,
mancante”.
La riattualizzazione del passato presente nella riscrittura dei testi fondatori del patrimonio
della percezione del reale di cui ci parla Wolf nelle Voraussetzungen, e che, da un altro punto di
vista, coincide con una delle forme in cui il tragico, continuamente in metamorfosi e evoluzione, e
dunque profondamente legato alla storia, ritorna nella Modernità, riemergendo ospitato nelle
maglie del romanzo. Le questioni alla base della riscrittura, e l’andamento interrogativo della
narrazione, fanno dei personaggi descritti dei personaggi tragici, nella loro Modernità di “soggetti
altri”, “in divenire”, “migranti”. Soggetti descritti come un continuum in cui passato e futuro,
Nella Modernità, l’eroismo è dato dal guardarsi dentro, dal saper affrontare quello che
Christa Wolf definisce Schmerz der Subjektwerdung (il dolore del divenire soggetto), in un tempo
che scorre non solo in modo lineare, seguendo la linea degli eventi, ma che, con il gioco
“altra”, che si fa a sua volta, nelle curve di un tempo cicloidale , espressione di una critica radicale
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Le immagini rievocate da Cassandra nel suo percorso a ritroso nella memoria, riflettono una
violenza molteplice, che non si dispiega unicamente nella guerra, ma che agisce su diversi livelli:
sembra scaturire dal cuore della città, germogliare all’interno del potere, nel Palazzo.
Parallelamente alle descrizioni della violenza bellica, in Cassandra è narrata con finezza la
degenerazione del governo di una città in un sistema coercitivo. Il linguaggio muta piegandosi ai
nuovi scopi, la realtà viene manipolata e riproposta in chiave utile “al nuovo corso”, la guerra
perpetrata come “necessaria”: esiste un nemico, sul quale far convergere tutta l’insoddisfazione
del presente di ogni troiano. Il nemico è rappresentato dai greci, che incarnano la nuova società
violenta e patriarcale, ma l’accento è posto sulla trasformazione di Troia, sulla sua assimilazione al
nemico stesso. La città cambia assetto, la maschera della “sicurezza” nasconde il volto della
Avvolta nell’intreccio narrativo, è presente nel romanzo una lucidissima descrizione dei
meccanismi propulsori del divampare della violenza. Il nemico esterno diventa così un termine di
contrapposizione, che rende il gruppo più coeso e compatto; perché di fronte ad esso, le
differenze interne alla società divengono relative, convergono verso il centro, verso l’Ordine. La
paura, con un’azione semplificatoria, viene espulsa oltre i confini della società e, talvolta, ai suoi
stessi margini. Lo stesso abitare di questo gruppo esterno al di là dei confini, “in uno spazio altro”, lo
rende già pericoloso e malvagio, e provoca la chiusura interna e l’edificazione delle mura verso
l’esterno .
tempo sinusoidale, nel segno dell’acronia che, secondo Jean Bessière, “permette di dire
un'anteriorità radicale, quella delle leggende e dei miti” e "instaura una memoria di ciò che
nessuno oggi ha visto e memorizzato". In questo caso, potremmo dire la “storia perduta,
mancante”.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - Mito e letteratura: Cassandra di Christa Wolf
La riattualizzazione del passato presente nella riscrittura dei testi fondatori del patrimonio
della percezione del reale di cui ci parla Wolf nelle Premesse, e che, da un altro punto di vista,
coincide con una delle forme in cui il tragico, continuamente in metamorfosi e evoluzione, e
dunque profondamente legato alla storia, ritorna nella Modernità, riemergendo ospitato nelle
maglie del romanzo. Le questioni alla base della riscrittura, e l’andamento interrogativo della
narrazione, fanno dei personaggi descritti dei personaggi tragici, nella loro Modernità di “soggetti
altri”, “in divenire”, “migranti”. Soggetti descritti come un continuum in cui passato e futuro,
Nella Modernità, l’eroismo è dato dal guardarsi dentro, dal saper affrontare quello che
Christa Wolf definisce Schmerz der Subjektwerdung (il dolore del divenire soggetto), in un tempo
che scorre non solo in modo lineare, seguendo la linea degli eventi, ma che, con il gioco
“altra”, che si fa a sua volta, nelle curve di un tempo cicloidale , espressione di una critica radicale
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Emanuela Piga Bruni - Mito e letteratura: Cassandra di Christa Wolf
Bibliografia
Roma, 2005.
Givone, Sergio, Prefazione, in Peter Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino,
1999.
Brunel, Pierre, (a cura di), Dictionnaire des mythes littéraires, E1988; trad. it. e
2004.
Svandrlik, Rita (a cura di), Il riso di ondina, Quattro venti, Urbino, 1992.
ancienne, 1973; trad. it. di Mario Rettori, Mito e tragedia nell’antica Grecia,
Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di Anita Raja, Cassandra e
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Emanuela Piga Bruni - Mito e letteratura: Cassandra di Christa Wolf
Roma, 1984.
trad. it. e note a cura di Anita Raja, Medea, e/o, Roma, 1996.
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Emanuela Piga Bruni - Riscritture del mito: Medea di Christa Wolf
Indice
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Emanuela Piga Bruni - Riscritture del mito: Medea di Christa Wolf
L'episodio centrale della Medea di Euripide, e che costituisce lo scarto rispetto alle versioni
umano dotato della conoscenza di arti malefiche, mentre altre fonti rimandano ad un'origine
divina (discendente del sole, nipote di Eros e Selene, nipote o sorella di Circe, figlia di Ecate).
riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Qui, abbandonata dal marito che medita di
sposare Glauce, la figlia del Re Creonte, le procura la morte con una veste avvelenata, incendia
la città, e uccide i propri figli per punire Giasone. Il suo ruolo è quello di vittima e carnefice, preda
di una terribile passione che la spinge a commettere il più orrendo dei crimini: l'infanticidio. Ed è
proprio nell'infanticidio che risiede la maggiore innovazione, o "menzogna", di Euripide rispetto alle
versioni precedenti.
Dopo Euripide, la storia di Medea a Corinto sarà narrata, fino a Christa Wolf, seguendo la
versione del mito scelta dal tragediografo ateniese. In Seneca, la trama euripidea si carica ancor
più di valenze negative. La Medea di Seneca è "nera", infernale, demoniaca. Scomparso anche
l'elemento della passione amorosa che la travolge, Medea qui è privata dei suoi tratti umani, e il
suo agire è ispirato da una fredda e premeditata crudeltà. Ella incarna il Male, e l'ebbrezza nel
compierlo: "Medea nunc sum; crevit ingenium malis", "Ora sono Medea, il mio io è maturato nel
male".
Facendo un salto avanti nel tempo, nel 1817, troviamo Grillpärzer, colpito dall'opera lirica di
Cherubini, alle prese con Medea. Il drammaturgo tedesco scrisse la trilogia Il vello d 'oro composta
da: L 'ospite, che narra di Medea adolescente e figlia di Re in Colchide; Gli Argonauti, sulla fuga di
Medea dalla sua terra natia per amore di Giasone, dopo averlo aiutato a conquistare il vello d'oro
ed aver tradito il padre e la patria; Medea, che narra del suo arrivo in Grecia, dove si svolge la
tragedia. Medea, a Corinto è la barbara, la straniera, dotata di inquietanti doti magiche. La sua
diversità suscita repulsione, perfino in Giasone, che l'abbandona per Creusa. A differenza delle
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altre versioni, la Medea di Grillpärzer si conclude con la dolorosa separazione dei due, senza
l'elemento dell'infanticidio.
Più di un secolo dopo viene rappresentata "La lunga notte di Medea" al Teatro nuovo di
Milano (1949). L'opera è scritta da Alvaro, la regia e le interpretazioni sono affidate a Tatiana
Pavlova, le scene e i costumi di Giorgio De Chirico. Il periodo è quello del dopoguerra, nel quale il
tema della diversità razziale è di dolorosa attualità. La Medea di Alvaro è una creatura oppressa
che arriva ad uccidere i figli per salvarli dalla furia dei Corinzi, da una morte quindi peggiore.
1970: esce nelle sale la Medea di Pier Paolo Pasolini, interpretata da Maria Callas, già
interprete della Medea di Cherubini. Ecco le parole di Pasolini sulla sua opera:
Il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale, e sempre irrisolto, tra un
mondo povero, plebeo, diciamo sottoproletario e un mondo colto, borghese storico. Questa volta
religioso; Giasone, invece, è l'eroe di un mondo razionale, laico, moderno ed il loro amore
rappresenta il conflitto tra questi due mondi [...] Medea viene da un mondo arcaico religioso, in cui
si fanno ancora dei sacrifici umani, quindi preistorico. Passa dieci anni a Corinto, in seno a una
civiltà molto evoluta, opulenta; questi dieci anni l'hanno levigata, le hanno fatto acquisire certi
aspetti esteriori di una donna moderna, elegante: nel suo fondo è però incancellabile la sua
origine, che viene fuori in questa visione in cui immagina di vendicarsi crudelmente, violentemente,
come è nel suo carattere di barbara, attraverso un'opera di magia. E quindi sogna il mito, il mito di
Euripide, cioè di mandare dei vestiti magici a Glauce, che li indossa, brucia e muore; e così si
compie la vendetta di Medea barbara. Poi Medea si risveglia e ritorna nel modo della realtà; ma
pian piano le cose si mettono in modo che avviene nella realtà quello che lei aveva sognato. La
morte, però, il riaccadimento del destino non avviene per ragioni mitiche, e magiche, ma per
ragioni psicologiche, perché nell'epoca moderna quello che conta sono le ragioni psicologiche,
razionali, determinabili. È una mia vecchia polemica contro la civiltà borghese e piccolo-borghese,
mentre tutto ciò che è irrazionale, ad esempio l'arte, contesta questo. Il potere si fonda sempre
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sulla ragione. E allora in Medea ho voluto dimostrare. in maniera assolutamente favolosa, mitica e
1 Intervista in, Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, La Nuova Italia, Firenze, 1996.
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Tredici anni dopo, gli eventi storici (la caduta del muro di Berlino, 1989, e la Wende in
Germania) spingono nuovamente la scrittrice, come era già successo con Kassandra, a risalire il
tempo sino ad arrivare alle sponde del mito. La figura che appare è Medea: la maga, la barbara,
l'infanticida, la fonte di tutti i guai di Corinto. Medea 2 (1996) è infatti una riflessione sul tema della
vittima e del capro espiatorio, che parte dalla constatazione di come la nostra cultura, nei
Durante la Wende [svolta] si è visto che proprio la DDR e molti di quanti vi avevano vissuto sono
"Per quale ragione abbiamo sempre bisogno di vittime umane? Perché in modo ricorrente
si verifica il sacrificio di interi popoli, oppure di intere "razze", o anche di singoli individui? Perché
abbiamo bisogno di tutto ciò?" Queste sono le domande contenute nel romanzo. Con Medea,
attraverso il mito si vogliono illustrare i meccanismi che portano i nativi, incapaci di risolvere i propri
che attraversano la Germania e che servono poi da spunto per una riflessione più ampia non è
difficile da cogliere: Medea si situa al confine tra due sistemi di valori: la Colchide, terra barbara e
matriarcale, e Corinto, patriarcale e "civilizzata", nella quale Medea è vista con sospetto, perché
"diversa", e ritenuta di una civiltà inferiore, barbara. Medea per sopravvivere deve adattarsi alle
nuove condizioni, considerate superiori, più evolute, ma non necessariamente più umane. Anche
qui, come in Cassandra, la figura di Medea diviene una figura simbolica nella quale la
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riappropriazione della soggettività delle figure femminili nel mito si intreccia alla riflessione sulla
violenza nelle sue diramazioni: la violenza verso ciò che è "altro", "diverso" e che spinge l'essere
umano, nei momenti di crisi, ad individuare una fonte di tutti i mali, un capro espiatorio. Cassandra
L'interesse di Christa Wolf per Medea risale al 1990. Dopo la Wende in Germania e la
violenza della caccia alle streghe che colpì gli intellettuali sospetti di aver collaborato con la Stasi
la sua riflessione si soffermò sul bisogno radicato nella nostra cultura di trovare sempre, nei periodi
Fu innanzi tutto il tema della "colonizzazione" e dell'avversione per ciò che è straniero a
sembrarmi insito nella figura di Medea: per me lei era la "barbara che viene dall'est. 4
4 Christa Wolf, cfr. la lettera scritta a H. Gottner-Abendroth, tradotta in Italia da Anita Raja, in L'altra Medea. Premesse a un
romanzo, e/o, Roma, 2000.
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luoghi molteplici; un io in divenire che prende forma da un monologo interiore nel quale le altre
figure sono tracce nella coscienza di Cassandra. La struttura di Medea è una struttura polifonica,
non a caso il sottotitolo è Stimmen, Voci. L'io narrante si dissemina nelle voci di Medea, Giasone,
È opportuno aprire una piccola parentesi sul concetto di polifonia e punto di vista, in
L’espressione punto di vista è stata tecnicizzata in ambito critico dalle osservazioni di Henry
James contenute nelle sue Prefazioni, sulla necessità per il romanziere di dare l’illusione di un
processo reale, inquadrando «via via i fatti nella coscienza dell’uno o dell’altro personaggio, ed
evitando la neutralità del cosiddetto “narratore onnisciente”, propria della narrazione classica e in
particolare dell’epopea».
Possiamo “narrare più o meno quel che narriamo, e narrarlo secondo vari punti di vista; la
nostra categoria del modo narrativo si riferisce precisamente a una simile capacità, e alle
può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno diretta, e sembrare così
(per riprendere una metafora spaziale corrente e pratica, a condizione di non prenderla alla
lettera) a più o meno grande distanza da quel che esso racconta; può anche scegliere di dosare
l'informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro uniforme, ma a
seconda delle capacità di conoscenza del « punto di vista» che ha deciso di adottare.
dell'informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la mia visione di un quadro
dipende, per la precisione, dalla distanza che mi separa da esso, e per l'estensione, dalla mia
posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da schermo.
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Genette distingue a ragione tra le due domande a cui implicitamente si tenta di rispondere
con lo studio del punto di vista. La prima è la: «Qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la
Segue la seconda: «Chi è il narratore?» Abbiamo visto che, rispondendo alla seconda
domanda, si può fare un uso abbastanza preciso delle persone (che Genette chiama voci). In
Si è registrato un accordo generale su una tipologia a tre termini, il primo dei quali
Narratore > Personaggio (in cui cioè il narratore ne sa di più del personaggio, o meglio ne
Narratore = Personaggio (il narratore dice solo quello che sa il personaggio in questione): è
Narratore < Personaggio (il narratore ne dice meno di quanto ne sappia il personaggio): si
Per evitare il carattere troppo specificamente visivo dei termini visione, campo, e punto di
vista, riprendiamo ora il termine un po' più astratto di focalizzazione, elaborato da Genette. La
focalizzazione indica il luogo (la persona) nella cui prospettiva (nel cui campo di visione) la
narrazione è condotta.
Nel caso del narratore onnisciente, rappresentato in genere dal racconto classico, si parla
«onnisciente», con o senza «intrusioni d'autore», sono i romanzi di Henry Fielding o Thomas Hardy.
fissa, quando tutto è visto da un solo personaggio. Ad esempio nel romanzi di Henry James
Gli ambasciatori – dove tutto passa attraverso la visione di Strether –o in Cosa sapeva Maisie , dove
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non abbandoniamo quasi mai il punto di vista della ragazzina, la cui « restrizione di campo» è
variabile, quando più di un personaggio, secondo gli episodi, diventa di volta in volta
primo tempo Charles, per poi essere Emma, e infine ancora Charles. In maniera molto più rapida e
multipla, come nei romanzi epistolari, dove lo stesso avvenimento può essere evocato
varie volte a seconda del punto di vista di numerosi personaggi corrispondenti. Genette ricorda
come “poema narrativo di Robert Browning, The Ring and the Book (su un caso criminale visto
successivamente dall'assassino, dalle vittime, dalla difesa, dall'accusa, ecc.) abbia costituito per
vari anni l'esempio canonico di questo tipo di racconto prima di essere sostituito dal film
Rashomon.
Il terzo caso è il racconto a focalizzazione esterna, reso popolare, nel periodo fra le due
guerre, dai romanzi di Dashiel Hammet, dove il protagonista agisce davanti a noi senza che siamo
mai ammessi a conoscere i suoi pensieri o i suoi sentimenti. Lo stesso si verifica in certe novelle di
Ernest Hemingway, come The Killers o, meglio ancora, Hills like White Elephants, dove la discrezione
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Il punto di vista e la voce sono strumenti importanti in quel tipo di narrativa che intende
soggetti dimenticati o considerati marginali, come le donne o i soggetti non occidentali. In questo
ambito, lo sviluppo degli studi culturali è stato attraversato dalle riflessioni degli studi di genere e
degli studi postcoloniali. Poiché questa lezione è dedicata alla riscrittura di una figura femminile del
mito, ad opera di un’autrice caratterizzata da un forte impegno etico e politico, vale la pena
riprendere alcune considerazioni appartenenti all’ambito degli studi di genere, definiti come «un
discorso complesso dove diversi saperi interagiscono, coinvolgendo questioni legate al potere e
alle diverse posizioni – complicità e resistenze incluse – che uomini e donne assumono o rivestono
Gli studi di genere, i women’s studies e la critica post-coloniale hanno obiettivi comuni
importanti, tra questi riportare alla luce le storie e le esperienze dei soggetti altri. In tal senso la
carica decostruttiva degli studi di genere e della critica post-coloniale si pone come
magnificazione del ritorno del represso, cosicché questi studi si presentano come un testo
metamorfico, che riporta alla luce i substrati profondi dei testi letterari, che si apre al perturbante e
propone visioni dal punto di vista dell’altro, delle voci messe a tacere, dei personaggi minori [...].
(Ivi)
Con re-visione si intende “ri- guardare” la Storia, i saperi non più da un punto di vista andro-
e eurocentrico, ma con originali prospettive critiche, partendo dal punto di vista del soggetto
donna. Questo nuovo sguardo, che ha costituito un’importante svolta epistemologica, si attua
proprio tramite l’atto del comparare, del mettere a confronto per esempio negli studi letterari la
cultura cosiddetta mainstream con le culture emarginate, eliminando la separazione tra cultura
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alta e bassa e facendo interagire diversi saperi e codici artistici (per esempio il cinema, la
La rivendicazione della voce, e la scrittura situata, posizionata, sono alla base di questo
approccio. Dei saggi importanti su questo tema, che hanno ispirato la letteratura critica a venire
sono stati:
Donna Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege
Insieme a Donna Haraway, e la sua teoria dei «saperi situati» (1988), Rich sostiene che il
universalismo. A differenza del soggetto egemone, le identità postulate dalla critica femminista
sono radicate nelle condizioni materiali e culturali che danno forma alla loro soggettività. 7
sommerse, trascurate dalle narrazioni dominanti, a un livello formale sono determinate dall’uso che
si fa del punto di vista e della voce. L’utilizzo di molteplici punti di vista, ad esempio, è spesso rivolto
a evitare una narrazione assoluta, ma a fornire aspetti inediti in una prospettiva corale.
Ogni voce è un ritratto di Medea filtrato dall'occhio e dalle passioni (o dai calcoli) che la
guardano. Le voci sono sei "io" differenti che raccontano ognuno la propria "verità" su Medea, "io"
isolati, imprigionati nell'incomunicabilità, in uno sguardo troppo condizionato per poter conoscere
anche solo la verità su loro stessi. L'oggetto dei loro monologhi è Medea, dalla quale sono attratti e
respinti allo stesso tempo. Subiscono il suo fascino, ma la sua indipendenza li urta.
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[Leuco] A volte mi chiedo che cosa dà a una persona, che cosa ha dato a questa donna il
diritto di porci di fronte a decisioni che non siamo all'altezza di prendere, ma che ci lacerano e ci
[Leukos] Und manchmal frage ich mich, was gibt einem Menschen, was gab dieser Frau
das Recht, uns vor Entscheidungen zu stellen, denen wir nicht gewachsen sind, die uns aber
zerreißen und uns als Unterlegene, als Versagende, als Schuldige zurücklassen. 8
Nel costruire il personaggio Wolf risale alle fonti pre-euripidee (Esiodo, Pindaro, Apollonio
Rodio), secondo le quali Medea era una divinità che nel corso della degradazione delle figure
femminili fu trasferita sulla terra con il ruolo di maga e guaritrice. Una figura mitica dotata quindi di
arti benefiche, espresse anche dalla radice "med" (la stessa di medicina) del suo nome,
dispensatrice di vitalità, salute, bellezza; una creatura libera e orgogliosa, scevra di qualsiasi
carattere maligno e demoniaco. Così come era narrato in origine, la Medea di Wolf è innocente:
non ha ucciso il fratello Absirto, non uccide Glauce, e soprattutto, non uccide i figli.
La sua colpa è quella di essere "diversa"; Medea, fiera e ardente, è la "donna selvaggia".
Come le viene costantemente rimproverato, Medea non è greca perché manca di misura, si
abbandona alla passione, alla sensualità, alla gelosia, ed è detentrice di un sapere diverso,
”[Merope] mi aveva condotta fin qui, alla fine degli inferi, dove dopo il terrore mi assalì il
panico, giacché in un silenzio sinistro si avvicinò strisciando qualcosa davanti a cui dovetti
nascondermi, ma non c'erano feritoie, aperture nella roccia. Quel che avanzava strisciando aveva
appreso a muoversi senza rumore e senza produrre spostamenti d'aria, meglio di quanto riesca a
fare io, perché tu mi hai insegnato molto presto questo modo di muoversi, madre, che consiste in
8 Christa Wolf, Medea, cit., p. 207. Traduzione di Anita Raja in op. cit., p.223.
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minuscoli non-movimenti, e anche a fondermi col muro mi hai addestrato – ne avrei avuto bisogno
nel palazzo di mio padre, dicesti, prima ancora che capissi perché”
[Merope] Die mich bis hierher geführt hatte, ans Ende der Unterwelt, wo mich nach dem
Grauem die Panik überfiel, denn da kroch in unheimlicher Stille etwas heran, vor dem ich mich
verbergen mußte, aber da war kein Spalt, keine Ritze im Fels. Was da heranschlich, hatte gelernt,
sich lautlos zu bewegen und nicht einmal einen Luftzug zu verursachen, besser noch, als ich es
kann, denn du hast mir sehr früh diese Art der Bewegung beigebracht, Mutter, die aus winzigen
Nichtbewegungen besteht, und auch mit der Mauer zu verschmelzen hast du mich gelehrt – ich
brauche das in meines Vaters Palast, sagtest du, ehe ich verstand, warum. 9
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descrizione dei meccanismi propulsori del divampare della violenza, che in Kassandra paiono
svilupparsi secondo lo schema delle masse contrapposte, in base al quale è garanzia e fonte di
coesione di un gruppo l'esistenza di un altro, dal quale esso si senta minacciato e "con la cui massa
Il nemico esterno diventa così un termine di contrapposizione che rende il gruppo più
coeso e compatto; di fronte ad esso le differenze interne alla società divengono relative e
convergono verso il centro, verso l'Ordine. La paura, con un'azione semplificatoria, viene espulsa
oltre i confini della società e, a volte, ai suoi stessi margini. Lo stesso abitare di questo gruppo
esterno al di là dei confini, "in uno spazio altro", lo rende già pericoloso e malvagio e provoca la
quale scaricare le magagne della società: Medea; donna, barbara, maga. Cosa poteva trovare
di meglio Corinto? Lo scheletro dell'opera, sul quale si snodano gli avvenimenti che portano al
sacrificio di Medea, ci porta alle riflessioni di René Girard sul capro espiatorio, citato non a caso
La società cerca di sviare in direzione di una vittima relativamente indifferente, una vittima
“sacrificabile”, una violenza che rischia di colpire i suoi stessi membri, coloro che intende
proteggere a tutti i costi. [...] Sono i dissensi, le rivalità, le gelosie, le liti tra i vicini che il sacrificio
pretende anzitutto di eliminare, è l'armonia della comunità che esso restaura, è l'unità sociale che
esso rafforza”.11
10 Sul tema delle masse contrapposte, si veda Elias Canetti, Masse und Macht (1960), Fischer Tachenbuch, Frankfurt am
Main, 1980; trad. it di Furio Jesi, Massa e Potere, Adelphi, Milano, 1981, pp. 80-90. Cfr. anche Roberto Escobar, Op. cit., p.
154.
11 René Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris, 1972; trad. it. di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, La violenza e il sacro,
Adelphi, Milano, 1980, p.p. 17-22.
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della sua crisi interna, rinsaldando così i legami tra i suoi abitanti. Creando un nemico, Corinto
scinde il bene dal male e lo identifica in Medea, che appare alla massa come "Altro" da essa e
quindi colpevole, responsabile di tutta l'angoscia ed insicurezza del mondo. Medea assume quindi
il ruolo di pharmakos12, veleno e antidoto al tempo stesso, causa del disordine e, poiché vittima
12 Pharmakos: nella Grecia del quinto secolo, la città manteneva a sue spese un capro espiatorio da sacrificare
all'occorrenza, soprattutto nei periodi di calamità. Cfr. René Girard, op. cit.
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Bibliografia
2005.
and the Privilege of Partial Perspective, «Feminist Studies» 14, pp. 575-99
(1988)
Girard, René, Le Bouc émissaire (1982), trad. it. Il capro espiatorio, Milano,
Adelphi, 2002.
Pugliatti, Paola, (a cura di), Lo sguardo nel racconto. teorie e prassi del
ancienne, Maspero, François, Paris, 1973; trad. it. Mito e tragedia nell’antica
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1. L’immaginazione metastorica
americana Amy J. Elias riprende le posizioni di Frederic Jameson e Linda Hutcheon, aggiungendo
degli elementi interpretativi nuovi1. Per Elias, nell’immaginario postmoderno, la storia è desiderio per
un luogo sempre differito, sfuggente. Questo desiderio per la storia, e per un’alterità imprendibile e
in divenire, secondo la studiosa, coincide con la dimensione romanzesca e fiabesca del romanzo
La storia, dunque, è ciò che sfugge, sublime regno di verità mai completamente
accessibile e catturabile, regno del caos, del terrore ma anche della potenziale rivelazione. Con il
rifiuto della fuga dalla storia, il romanzo metastorico si pone come narrazione fortemente
problematica e autoriflessiva che nella sua ricerca di significati instaura diversi modi di relazione
con il passato.
Secondo Amy Elias, le opere di questo genere, nate «consapevoli» della posta in gioco
insita in ogni ricostruzione storiografica, rivelano una tensione verso la storia segnata più dal
desiderio che dalla pretesa di una ricostruzione storiografica puntuale o di una controstoria da
contrapporre alla storia ufficiale. In questo senso Elias utilizza il concetto di sublime desire che
intitola il suo libro. Nella sua disamina, la coscienza storica di fine secolo si configura come una
coscienza post-traumatica che si relaziona alla storia come un orizzonte desiderato ma mai
Tornando alla letteratura e alle sue strategie narrative, questo desiderio verso la Storia porta
a nuove rappresentazioni del passato storico: come ricorda Amy Elias (2000, p. 20), Robert Scholes
1 Nel suo Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism Jameson considera la narrazione postmoderna come
«depthless pastiche» privo di critica sociale e derivante dalla condizione del lavoro intellettuale imposta dal modo di
produzione tardo capitalista. Al contrario, Linda Hutcheon in Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction vede nel
gioco postmoderno della narrativa con la storia una forma di critica culturale potenzialmente sovversiva e definisce questo
tipo di narrazione metastorica Historiographical metafiction. Cfr. Jameson, F. (1991) Postmodernismo, ovvero la logica
culturale del tardo capitalismo, trad. it di Stefano Velotti, Garzanti, Milano, 1989; L. Hutcheon (1988), A Poetics of
Postmodernism, History, Theory, Fiction, New York, Routledge.
2 «For the postmodernist imagination, history is desire, the desire for the space of History that it finds is always deferred [...] The
desire for history is the fabulatory, romance element of the metahistorical romance, the desire for the always receding,
always beckoning Other». A. Elias, Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore, Johns Hopkins University Press,
2001, p.67.
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vede nella narrativa postmoderna successiva agli anni Cinquanta (quella, tra gli altri, di Kurt
Vonnegut, Lawrence Durrell, John Barth e Iris Murdoch) una prevalenza del romance sul novel,
dovuta al piacere della forma, dell’affabulazione, della propensione all’allegoria e, non da ultimo,
La sua interpretazione della narrativa postmoderna, e nello specifico, di quello che lei
chiama il romanzo metastorico, comprende il concetto di trauma, sul quale è necessario aprire
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Prima di tutto, è opportuno tenere presente che termini e concetti della critica
psicoanalitica provengono dalle innovazioni introdotte da Sigmund Freud, alle soglie del
sottratto lo studio e la cura delle patologie nervose all’ambito strettamente medico della
neurofisiologia.
Anziché affrontare i casi clinici attribuendo le cause a delle disfunzioni cerebrali, Freud ne
memoria. Il medico doveva rivestire i panni dell’analista per riportare alla luce i problemi psichici
profondi; e ciò era possibile attraverso un minuto lavoro di interpretazione e scavo delle espressioni
psicoanalisi, e con essa, la verifica pratica nel dialogo con i pazienti: la cosiddetta “relazione
analitica”.
L'inconscio è la parte della nostra psiche che non raggiunge il livello della coscienza. La
nozione include il luogo delle pulsioni elementari, tra cui le pulsioni sessuali (lat. Libido, gr. Eros).
L’aggettivo “inconscio” è talora usato per qualificare l’insieme dei contenuti non presenti nel
Nel senso “topico”, inconscio designa uno dei sistemi definiti da Freud nel quadro della sua
prima teoria dell’apparato psichico: esso è costituito da contenuti rimossi cui è stato rifiutato
Tra la coscienza e l’inconscio Freud ipotizzò uno strato intermedio: il preconscio, attraverso
cui le propaggini del preconscio potevano raggiungere la coscienza. Di tipo preconscio sono i
Tra preconscio e inconscio si situa la “censura”, cioè quel meccanismo che impedisce
meccanismo di difesa contro l’aggressività istintuale contro le pulsioni; queste però possono
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riaffacciarsi con un “ritorno del rimosso”, puntando su obiettivi deviati rispetto a quelli che erano
stati impediti. Così dalle istanze sessuali bloccate derivano i sintomi dei diversi disturbi mentali che
B. Questi contenuti sono regolati da meccanismi specifici del processo primario, specie dalla
nell’azione (ritorno del rimosso); ma non possono avere accesso al sistema Prec-C
Studiare la psiche da un punto di vista topico vuol dire costruire dei modelli di tipo spaziale
(dal greco topos=luogo); da un punto di vista dinamico, vuol dire concentrare l’attenzione sui
rapporti tra i sistemi; tali rapporti possono essere di cooperazione, di conflitto, o di compromesso.
Per quanto riguarda la struttura psichica: alla triade coscienza- preconscio-inconscio, nel
1922, con il saggio L’io e l’Es, Freud aggiunge la terna: Io, Es, Super Io.
In questa terna:
rimosse
Io: quella parte della psiche che è in contatto con l’esterno, attraverso la percezione.
Super Io: costituto da quei divieti che l’IO è stato costretto ad accettare e introiettare,
erigendoli a valori ideali. Il Super Io è solo in parte cosciente e può arrivare a opprimere l’Io
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Freud indica con il termine “Formazione di compromesso” i fenomeni come i sogni, i lapsus, i
sintomi, i motti di spirito, in cui sistemi reciprocamente ostili non riescono a conciliarsi. Infatti il
compromesso non è pacificazione: il conflitto persiste senza che nessuna delle due forze riesca a
Il punto di partenza della ricerca freudiana era stato l’interpretazione dei sogni. Freud
aveva supposto l’esistenza, al di sotto del contenuto “manifesto” del sogno, di un contenuto
quindi consistere in una sorta di traduzione che dalle immagini oniriche passasse ai pensieri
nascosti. Le incongruenze e le illogicità che riscontriamo nei sogni sono dovute, secondo Freud, al
come sogni, sintomi, deliri. Freud spiega come il racconto del sogno sia costituito da pensieri
manifesti; ci dice che se scomponiamo questo tessuto nei suoi elementi e raccogliamo le libere
pensieri latenti, che attraverso il lavoro onirico vengono trasformati in pensieri manifesti.
Il lavoro onirico trasforma i pensieri latenti, trasportandoli il più possibile nel linguaggio
iconico; [...] quando il sogno cerca di sfociare in una scena in cui viene a realizzarsi un desiderio
che entra in conflitto con l’Io o il Super Io, scatta la censura, cioè un meccanismo di deformazione
tanto da non essere più comprensibile neanche alla persona del sognatore.
lo spostamento.
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Si ha:
La condensazione si attua come una traduzione abbreviata, in vari modi: nei pensieri
manifesti troviamo meno di quanto vi fosse nei pensieri latenti, o perché certi elementi vengono
omessi del tutto, o perché viene lasciato passare solo qualche frammento, o perché gli elementi
latenti che hanno qualcosa in comune vengono combinati, sovrapposti (ad esempio, capita di
sognare una persona che è la fusione di altre due, o tre, che ha l’aspetto di X, però è vestita come
latente, e rilevante dal punto di vista emotivo, a un elemento irrilevante [..] Talvolta lo spostamento
tanto la letteratura quanto la psicoanalisi diano la parola al rimosso. L’oggetto comune è la psiche
nelle sue divisioni, che la letteratura esplora con i suoi linguaggi e non con le tecniche e il
eterogenee e conflittuali.
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attua in quei casi in cui il soddisfacimento di una pulsione – atta di per sé a procurare piacere -
rischierebbe di procurare del dispiacere rispetto ad altre esigenze. Nella critica letteraria di
psicoanalisi diano la parola al rimosso. L’oggetto comune è la psiche nelle sue divisioni, che la
letteratura esplora con i suoi linguaggi e non con le tecniche e il metalinguaggio inaugurati da
Un merito importante che gli va riconosciuto, ereditato dai successori di Freud, risiede
che tendono a prima vista a sfuggire. L’analisi di Freud ci insegna a “indovinare cose segrete e
Tra i critici letterari di scuola freudiana si è distinto un critico italiano, Francesco Orlando (-
2012), che però si è differenziato molto dalla critica psicoanalitica tradizionale: a interessarlo non
dell’inconscio. Orlando, dopo avere svolto alcune letture freudiane di Molière e di Racine, ha
proposto un libro dal titolo Per una teoria freudiana della letteratura (1973),3 in cui ha sostenuto
che, estrapolando alcune categorie interpretative del saggio di Freud su Il motto di spirito, era
possibile considerare la letteratura stessa come una formazione di compromesso, che riesce a far
ritorno del represso si manifesta in particolare nelle figure retoriche e nei passi ad alta densità
3 F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1973.
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Nella sua teoria, Orlando scarta gli scritti freudiani più famosi, dal libro sull’interpretazione
dei sogni a quello sul lapsus; parte invece dal libro sul motto di spirito (Il motto di spirito e la sua
relazione con l'inconscio, 1905). In questo testo, la parola arguta, la barzelletta sono viste come
esempio di comunicazione letteraria. Questo è l’unico testo in cui Freud si è occupato di una
Perché mentre il sogno o il lapsus sono manifestazioni dell’inconscio che sfuggono alla
nostra volontà, nel motto, ovvero la battuta, l’inconscio si manifesta in una comunicazione
linguistica intenzionalmente rivolta a qualcuno, come succede nel linguaggio letterario. Se da una
parte Freud ritiene essenziale la forma dei motti (breve e icastica) per spiegare la loro efficacia
(una volta parafrasati perdono di forza) dall’altra pensa anche che essi siano tanto più efficaci, nel
l’accostamento sorprendente di parole e concetti una qualche verità alternativa a quella ufficiale.
Orlando si chiede: non si potrebbe dire la stessa cosa di qualunque testo letterario valido? Non si
potrebbe dire che ci piace perché stabilisce nessi originali e perspicui tra ordini di pensiero e realtà
Orlando sottolinea come Freud veda il ricorso al motto di spirito come un modo per
aggirare la censura (ad esempio per esprimere l’aggressività sessuale, con i motti osceni). Al
tempo stesso, la tecnica della battuta – basata sul collegamento rapido tra il linguaggio e il
Per Orlando, queste considerazioni sono estese alla letteratura. Aggiunge tuttavia una
variazione importante: mentre Freud parla di ritorno del rimosso riferendosi al premere e
all’emergere delle pulsioni censurate nella coscienza dell’individuo, dunque privata, Orlando
preferisce parlare di “ritorno del represso”, allargando così l’orizzonte alle censure imposte dalle
forze sociali.
Se Orlando avesse parlato di un ritorno del rimosso si sarebbe riferito soltanto a quelle
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sociale. Questo non riguarda solo la letteratura dichiaratamente antagonista, perché anche nei
testi letterari che presentano una versione ufficiale e conformista della realtà o della storia, dietro
la maschera, ci sono sempre delle tracce, delle istanze avverse all’ordine costituito. In questa
visione, i testi letterari ci colpirebbero perché vanno a toccare e infrangere i divieti culturali, in
Quello che ci interessa è che Orlando lega l’emersione dei contenuti alla considerazione
della tecnica della letteratura: il piacere della letteratura è prodotto da una manipolazione del
linguaggio affine al gioco infantile con le parole. E poiché la società consente allo scrittore la
finzione e il gioco con il linguaggio si può parlare di “ritorno del represso formale”.
I giochi del testo sono riconducibili agli spostamenti del legame tra significato e significante,
dunque alle figure. Se questo scarto aumenta troppo, se gli spostamenti e le deviazioni tra
significati e significanti sono troppi, il testo diventa oscuro. E questo è quello che avviene nelle
manifestazioni dell’inconscio come il sogno, dove il contenuto profondo ha subito talmente tante
modificazioni che il testo del sogno risulta incomprensibile allo stesso sognatore.
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Gli studi sul trauma, nati all’interno dei Memory Studies, sono diventati un filone importante
della teoria critica contemporanea. «Il trauma, in altre parole, riporta la storia e il corpo nel testo, e
Luckhurst,6 è stata definita in diversi modi, nell'ambito di una imponente bibliografia. Il trauma, in
quanto «messa in crisi delle fondamenta su cui si regge l'ego o l'identità di una collettività», è una
«ferita che può ricomparire come sintomo ripetuto in modo coatto», ha spiegato Cristina Demaria.7
In questa lezione il termine è usato nell’accezione formulata da Freud negli Studi sull'isteria8
determinato evento; reminiscenza che, nel momento in cui si inscrive all'interno di una dialettica tra
evento e il suo ritorno come sintomo, diventa, nell'ambito della critica letteraria e nei termini di
Cathy Caruth, “struttura dell'esperienza”. Chi ha subito un trauma non esperisce l’evento nel suo
The pathology consists, rather, solely in the structure of its experience or reception: the event
is not assimilated or experienced fully at the time, but only belatedly, in its repeated possession of
the one who experiences it. To be traumatized is precisely to be possessed by an image or event
4 C. Demaria, Il trauma, l'archivio e il testimone, Bononia University Press, Bologna 2012, p. 29.
5 Alcuni degli autori specialisti di questo ambito: Cathy Caruth, Cristina Demaria, Roger Luckhurst, Dominick LaCapra, Paul
Antze, Michael Lambek, Kirby Farrell, Ruth Leys, Shoshana Felman, Dori Laub, Anne Whitehead. Per un inquadramento e un
contributo recente al dibattito, si veda C. Demaria, Il trauma, l'archivio e il testimone, cit.
6 R. Luckhurst (2008) The Trauma Question, London Routledge, Chapman & Hall.
7 C. Demaria, Il trauma, l'archivio e il testimone, cit., p. 12.
8 S. Freud, J. Breuer, Studien über Histerie, Gesammelte Werke, I, (1940-1968), tr. it. Studi sull'isteria, in Opere complete, Bollati
4.
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Secondo Jonathan Morse,11 il problema della memoria è l’incapacità di dire nel tempo,
attraverso le parole che cambiano, cosa abbiamo visto e vediamo. Nel parlare, le parole
diventano note a piè di pagina di altre parole, differendo il significato margine per margine.12La
tardività della memoria trova inevitabilmente il modo di articolarsi attraverso la tardività del
linguaggio.
Un altro esponente dei trauma studies, Dominic Lacapra, nel suo libro Writing History, Writing
Trauma, 13afferma che il trauma indica una rottura, una cesura nell’esperienza che comporta degli
superare.
Trauma indicates a shattering break or cesura in experience which has belated effects.
Writing Trauma would be one of those telling after-effects in what I termed traumatic and post-
traumatic writing (or signifying practice in general). It involves processes of acting out, working
over, and to some extent working through in analyzing and “giving voice” to the past – processes
of coming to terms with traumatic “experiences”, limit events, and their symptomatic effects that
11 J. Morse, Word by word, the language of memory, Cornell University Press, Ithaca 1990, p.158.
12 Ibid.
13 D. LaCapra (2001) Writing History, Writing Trauma, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press.
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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e psicoanalisi
Bibliografia
Elias, A.J. (2001) Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore,
University Press.
Freud, S. (1899) L’interpretazione dei sogni, trad. it. Milano, Rizzoli, 1986, 2 voll.
1978.
Boringhieri, 1975.
complete, 2013, I.
LaCapra, D. (2001) Writing History, Writing Trauma, Baltimore and London, The
Roma-Bari.
Hall.
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Orlando, F. (1973), Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi.
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Emanuela Piga Bruni - Un romanzo metastorico: In fuga di Anne Michaels
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Il tentativo del racconto e rielaborazione del trauma storico, nelle sue diverse
Jameson e Linda Hutcheon, aggiungendo degli elementi interpretativi nuovi 1. Per Elias,
storia, dunque, è ciò che sfugge, sublime regno di verità mai completamente accessibile e
catturabile, regno del caos, del terrore ma anche della potenziale rivelazione. Con il rifiuto della
fuga dalla storia, il romanzo metastorico si pone come narrazione fortemente problematica e
autoriflessiva che nella sua ricerca di significati instaura diversi modi di relazione con il passato.
poetessa canadese di origine ebraica (1958 – vivente), e di seconda generazione che, nei suoi
romanzi In fuga (Fugitive Pieces, 1996) e La cripta d’inverno (The Winter Vault, 2009) ha affrontato il
In questa lezione ci occuperemo del primo romanzo della scrittrice canadese, In fuga2,
analizzando il modo in cui quest’opera mette in figura, attraverso il divenire dei personaggi e l’uso
diffuso della metafora nella scrittura (di una scrittrice che è anche, non dimentichiamo, una
poetessa), questioni riluttanti alla messa in parola, come la nostalgia verso una storia perduta e il
desiderio verso un futuro passato mancante, nel difficile percorso di rielaborazione di un trauma
privato e collettivo.
1 Nel suo Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism Jameson considera la narrazione postmoderna come
«depthless pastiche» privo di critica sociale e derivante dalla condizione del lavoro intellettuale imposta dal modo di
produzione tardo capitalista. Al contrario, Linda Hutcheon in Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction vede nel
gioco postmoderno della narrativa con la storia una forma di critica culturale potenzialmente sovversiva e definisce questo
tipo di narrazione metastorica Historiographical metafiction.
2 Vincitore dei seguenti premi: Lannan Literary Fiction Award, Guardian Fiction Award, Orange Prize, Trillium Award, Jewish
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2. Trama e struttura
La cornice storica alla base della storia è il contesto dell’invasione nazista della Polonia: un
bambino ebreo, Jakob, scampa al massacro dei genitori ad opera dei nazisti e nella fuga viene
tratto in salvo da Athos, geologo greco – in missione scientifica nei resti dell’antichissima città
dell’età del ferro, Biskupin – che lo porta con sé a Zacinto. Jakob trascorre la sua infanzia in Grecia
romanzo, longing)3 per la famiglia perduta che lo porta a trasferire nei suoi sogni la ripetizione
dell’esperienza traumatica.
Le manifestazioni del trauma si alimentano dei fatti violenti della guerra, vissuti direttamente
nel corso della prima tappa con Athos in Grecia e rivissuti attraverso le notizie dei giornali a
Toronto, «stazione di cambio» (The Way Station) e, come la precedente, destinazione «nel segno
dell’esilio»4, segnata da una «forzata, quindi inevitabile, dispersione di corpi e affetti» 5. Come ha
crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è
nato, tra il sé e la sua casa nel mondo. La tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile.6
Dalla forte valenza simbolica, il titolo originale del romanzo, Fugitive Pieces, coinvolge
molteplici aspetti che giungono ad armonizzarsi in un insieme complesso nel quale lo stile della
scrittura, i temi che attraversano il romanzo e la struttura dell’opera sono correlati da una trama di
3 La parola «nostalgia», presente sia in italiano che in inglese (con un significato originario di severe homesickness
considered as a disease), deriva dal greco nostos (ritorno) e algos (dolore). Si veda ciò che scrive Antonio Prete (1992, 85-
86): «La nostalgia, sottoposta al trattamento di poeti e scrittori, si apre in un ventaglio di sensi, sfuma nell’indefinito, si
contamina con tutte le forme di una sensibilità che conosce l’abbandono alla rêverie e il bianco torpore dello spleen,
diviene insomma la sponda sensitiva, increspata e irrisolta della memoria». Tuttavia, in Fugitive Pieces, la figura ricorrente
della nostalgia è strettamente legata all’etimologia del termine longing, dall’inglese antico langian, divenuto to long for, dal
significato di to yearn after, grieve for (desiderare ardentemente, rattristarsi per). Non a caso Roberto Serrai, il traduttore
dell’edizione italiana, ha tradotto l’espressione «biography of longing» con «una biografia del desiderio e della nostalgia»,
evitando in tal modo la riduzione del concetto (si veda Michaels 1996a, 17 e 1996b, 21).
4 Edward W. Said (2000) Riflessioni sull’esilio, trad. it. in Id., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli,
2008.
5 Roberta Mazzanti, Liana Borghi, (2007) Mappe della perdita: periperformatività della diaspora in Anne Michaels e Dionne
Brand, in AAVV (a cura di), Il globale e l’intimo: luoghi del non ritorno, Perugia, Morlacchi.
6 E.W. Said (2000), Riflessioni sull’esilio, trad. it. in Id., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 2008,
p. 217.
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Emanuela Piga Bruni - Un romanzo metastorico: In fuga di Anne Michaels
corrispondenze. Se l’aggettivo fugitive si riferisce chiaramente ai protagonisti delle due storie che
compongono il romanzo – entrambi, in modi diversi, êtres de fuite – il taglio che divide il libro in due
instaura un contrappunto i cui estremi sono incarnati nel rapporto che Ben, l’io narrante della
seconda storia, istituisce con la storia precedente di Jakob. Al di là del tema e della composizione
dell’opera, la narrazione stessa è permeata dal ritmo musicale: il fluire progressivo del racconto
retrospettivo dei due protagonisti è incessantemente bucato da resoconti storici, ricordi traumatici
e, nella storia di Jakob, dalle descrizioni delle esecuzioni musicali di Bella, la sorella scomparsa nel
anche dalla titolazione dei capitoli nelle due storie, che coincide parzialmente rivelando nella
7I capitoli che inaugurano entrambe le parti si intitolano «The Drowned City» (La città sommersa); entrambi sono
caratterizzati dalla presenza del fiume, dal forte valore simbolico, e si concludono con l’arrivo del protagonista (Jakob nella
prima, Ben nella seconda storia) nella luminosa isola della Grecia, Zacinto.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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3. Personaggi e memoria
vita a partire da un evento fondamentale della sua infanzia: la fuga dai nazisti, compiuta
scappando nella foresta e nascondendosi nella terra, per trovare poi la salvezza nella palude di
bambino, isomorfo con l’ambiente che lo circonda, «color prugna della palude fradicia di torba»8,
emerge dalla melma e spaventa con la sua apparizione l’oggetto della sua attenzione, l’uomo
Il tempo è una guida cieca. Figlio della palude, nacqui dalle strade fangose della città
sommersa. Per più di mille anni, soltanto i pesci avevano passeggiato sui marciapiedi di legno di
Biskupin. Le case, costruite rivolte verso il sole, furono allagate dalla limacciosa oscurità del fiume
Gasawaka. I giardini fiorirono magnifici nel silenzio subacqueo; ninfee, giunchi, stramonio.
Nessuno nasce una volta sola. Chi è fortunato, vedrà di nuovo la luce tra le braccia di qualcuno;
oppure, se sfortunato, si sveglierà quando la lunga coda del terrore sfiorerà l'interno del suo cranio.
Colui che lo ritrova, Athos, salva Jakob nascondendoselo nel grembo, che costituirà il
rifugio del bambino per tutto il pericoloso viaggio che avrà termine in Grecia. Il cielo lucente di
Zacinto sovrasta la seconda nascita di Jakob, che ritrova la luce facendo capolino dall’ampio
Anche se ero solo un bambino, anche se mi veniva tolto il passato dal sangue, capivo che
se fossi stato abbastanza forte da accettarla mi si stava offrendo una seconda storia.
Even as a child, even as my blood-past was drained from me, I understood that if I were
8 Nella versione originale: «[…] dripping with the prune-coloured juices of the peat-sweating bog» (Michaels 1996b, 5).
9 Anne Michaels, (1996) In fuga, trad. it. di Roberto Serrai, Milano, Giunti, 2009, p. 24.
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La figura di Athos è una spia della marcata auto-riflessività del romanzo nel rappresentare
questioni fondamentali nel dibattito critico sul trauma. In questo personaggio la decifrazione del
mondo si accompagna a un’incessante riflessione sul potere del linguaggio come via di
genealogia di marinai, esperti di carte nautiche, rotte commerciali e imbarcazioni di tutti i tipi,
appassionato di letteratura e poesia e fortemente convinto del potere rigenerante della parola,
Athos racconta storie di vario genere, passando dalla storia della navigazione alle storie dei suoi
antenati, dalla geologia alla paleontologia, dalla descrizione della riproduzione delle cellule al
racconto che ne fa Lucrezio. La trasmissione della memoria, insieme alla cura del presente, sono al
centro delle pratiche quotidiane del geologo, che invita Jakob a non dimenticare l’alfabeto
ebraico: «È il tuo futuro che stai ricordando» («It is your future you are remembering»)11.
L’importanza che la cura della memoria riveste per Athos è simboleggiata dalla sua
passione per l’arenaria, «memoria frantumata», pietra vivente e storia organica. Da sempre il
mondo delle storie segna la fantasia di Jakob, prima nutrita dai racconti che Bella (la sorella
perduta) traeva dalle sue letture di romanzi e biografie dei compositori e dopo dalle infinite storie
di Athos. Nei quattro anni che Jakob trascorre nascosto nella casa a Zacinto, Athos con i suoi
racconti cerca di strappare il bambino dagli aspetti più angosciosi del passato. Jakob ricorda:
Grazie ad Athos passavo delle ore in altri mondi e poi riemergevo gocciolando, come dal
mare
[Because of Athos, I spent hours in other worlds then surfaced dripping, as from the sea]12
dell’immaginazione, accogliendo nelle stanze oceani costellati dal vagare di blocchi di ghiaccio,
fiumi della Russia solcati dai Vichinghi e la città celeste di Marco Polo. La lanterna della stanza di
10 Questa abitudine viene assorbita da Jakob a partire dall’osservazione dei luoghi: se a Zacinto la sua attenzione è attirata
dalla statua di Solomos nella piazza, ad Atene si volge ai muri recanti ancora, dopo la guerra, i graffiti compiuti dai greci
durante l’occupazione tedesca. Sarà Kostas, l’amico di Athos, a spiegargli che nessuno vuole cancellare quei segni poiché
chi li faceva rischiava la vita, sotto il tiro dei tedeschi. L’insegnamento di Athos e Kostas ritorna più volte anche sul potere
terapeutico del linguaggio, espresso al massimo con la poesia. (Michaels 1996a, 85)
11 « (Michaels 1996b, 26).
12 A. Michaels, In fuga, cit., p. 34.
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Jakob disegna ogni sera sul pavimento un cerchio di luce che circoscrive l’ingresso a mondi
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Nel racconto di Jakob, il passato perduto a causa di eventi traumatici punteggia il presente
nella forma del ricordo, sia volontario sia involontario. La conseguenza di questo contrappunto è il
distacco dal presente, il cui senso è svuotato dalla profonda nostalgia verso un passato annientato
dalla violenza della storia. La sua biografia immaginaria sembra incarnare le parole di Freud: «[…] il
trauma psichico, o meglio il ricordo del trauma, agisce al modo di un corpo estraneo, che deve
essere considerato come un agente attualmente efficiente anche molto tempo dopo la sua
intrusione»13.
Nel romanzo si può leggere la messa in scena del meccanismo della freudiana coazione a
ripetere, nella forma della fissazione all’esperienza del trauma, nutrita dal presente degli eventi
violenti legati all’occupazione tedesca di Zacinto, che offrono continui punti d’ancoraggio per il
ritorno del rimosso. Se riprendiamo la riflessione di Freud nel suo celebre Al di là del principio di
[...] troveremo il coraggio di affermare che nella vita psichica esiste davvero una coazione
a ripetere che si afferma anche contro il principio di piacere. A questo punto saremmo anche
propensi a mettere in rapporto con tale coazione i sogni che si presentano nelle nevrosi
Nell’universo finzionale del romanzo, il divenire psicologico del personaggio sembra illustrare
il meccanismo classico delle pulsioni di morte (Todestrieben), dal carattere regressivo e volte alla
ricerca del soddisfacimento nel cammino a ritroso (Michaels 1996a, 62): in Jakob la storia
sommersa dilaga nella sfera cosciente attraverso rappresentazioni patogene, e nella sfera onirica
13 Si veda la Comunicazione preliminare sul meccanismo psichico dei fenomeni isterici di Freud (1893); per una riflessione
sulla dimensione di «étrangèreté» (da étrangèté, estraneità, ma con una deformazione della parola che vuole
comprendere il riferimento all’elemento straniero, alieno) del corpo estraneo e sul suo legame con «l’altro psichico,
l’inconscio», si veda Laplanche 1992a (o la successiva versione inglese (Laplanche 1992b, 64-65), in cui il neologismo
francese è reso con «alien-ness».
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deformata14 dell’assassinio dei genitori e della morte di Bella. Secondo la teoria di Freud, i sogni
che si verificano nelle nevrosi traumatiche «ubbidiscono alla coazione a ripetere», riportando il
malato alla situazione dell’incidente. Questi sogni cercano di dominare gli stimoli
retrospettivamente, sviluppando quell’angoscia il cui venir meno era stata la causa della nevrosi
traumatica (si veda Freud 1920, 54-55). In Jakob la nostalgia verso il passato perduto è all’origine di
fantasticherie diurne che, nel tentativo di ripristinare uno stato precedente la perdita, insediano i
morti nella vita reale. È quanto succede con l’immagine di Bella, incastonata nell’interiorità di
Jakob «come una matrioska». Mentre i rituali di Athos sono volti a onorare e ricordare i morti, per un
giusto proseguimento della vita, i cerimoniali di Jakob mirano a includere il fantasma della sorella
Questa duplicità è all’origine di una simultaneità dagli effetti nocivi, che fa si che «Every
moment is two moments»16 (Michaels 1996a, 140) ma in realtà la reminiscenza del passato corrode
temporali, incursioni in corsivo nel testo corrispondenti a reminiscenze che impediscono a Jakob
una piena esperienza del presente, soprattutto quando si tratta del presente condiviso con il
mondo effervescente della moglie Alex – alla quale, il movimento tellurico del divenire interiore di
Jakob resta inaccessibile. Così, il resoconto della vita coniugale con Alex diventa sempre più
residuale, divorato dall’aumento progressivo delle reminiscenze, segmenti narrativi intermittenti che
rimandano l’immagine di Bella, condensata nel ricordo della sua esecuzione degli Intermezzi di
14 Sulla deformazione onirica si veda Freud, L’interpretazione dei sogni: «Il fatto che il contenuto onirico contenga i residui di
esperienze secondarie deve essere spiegato come un’espressione della deformazione onirica (mediante spostamento),
ricordando che abbiamo riconosciuto nella deformazione onirica il prodotto di una censura che agisce nel passaggio fra
due istanze psichiche» (1899, 254-55); «[...]Spostamento e condensazione sono i due fattori alla cui attività si può
essenzialmente attribuire la configurazione del sogno» (Ivi, 399). Si veda anche la lezione 11 «Il lavoro onirico» di
L’introduzione alla psicanalisi (Freud 1920, 110-114).
15 «Sul desiderio di tenere in vita con il ricordo persone che non ci sono più» e sul rapporto tra passato e presente nei
meccanismi della memoria si veda anche l’analisi di Francesca Viscone (2013) del racconto La gita delle ragazze morte di
Anne Seghers.
16 «Ogni momento è due momenti» (Michaels 1996b, 146),
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divenire poeta di Jakob saranno segnati da una trasmutazione, nel cui arco la reminiscenza da
Tuttavia, per giungere a questo, bisognerà attraversare una fase difficile, ritornare «sott’acqua, gli
scarponi bloccati dal fango» (In fuga, p. 146)17, immersi nel sottobosco marcescente della storia
ma sostenuti dalla luce abbagliante di Idra, successiva stazione di cambio in cui il tempo si fa
verticale18 consentendo l’approdo alla poesia e la redazione del libro, momento terapeutico.
Lo stesso ricorrere, a livello stilistico, della metafora 19 nella scrittura di Michaels sembra
illustrare quello che Dominick LaCapra (2001) definisce scrivere il trauma (writing trauma) in
contrapposizione allo scrivere sul trauma (writing on trauma). Nella teoria di LaCapra lo scrivere il
trauma è già di per sé metafora, data la sua concezione del trauma come sublime20, evento dalla
natura sfuggente, non localizzabile. Si può vedere come questa visione della scrittura del trauma
sia vicina alla concezione di Amy Elias sul metahistorical romance. In questa visione, la Storia è ciò
che sfugge, un sublime regno di verità mai completamente accessibile e catturabile, un orizzonte
desiderato ma mai raggiunto, che Elias rintraccia nella coscienza storica, dalla natura post-
rappresentazione di ciò che viene definito «l’unione di due istanti separati nel tempo» e narra il
mutamento di questo particolarissimo momento nel percorso del protagonista verso l’espressione
di ciò che è «difficilmente o diversamente figurabile» (Demaria 2012, 72); questo fa sì che la
17 Mi riferisco qui a un brano del romanzo, nella versione originale: «And then the world fell silent. Again I was standing under
water, my boots locked in mud» (Michaels 1996a, 139 corsivo mio).
18 Il riferimento è ai titoli dei capitoli The Way Station e Vertical Time.
19 Robert Eaglestone (2008, 23) sottolinea l’influenza di W.H.Auden sulla scrittura di Michaels, in particolare per quanto
riguarda il contenuto tematico e metaforico delle sue poesie. In particolare lo studioso evidenzia il ritorno delle metafore
naturali e geologiche e dei temi della memoria, del corpo, del tempo (Weather), della geologia, dell’amore, della perdita
e del dolore.
20 Si veda C. Demaria, (2012) Il trauma, l’archivio e il testimone, Bologna, Bononia University Press, 2012, p. 46.
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duplicità delle reminiscenze di origine traumatica si distilli nella duplicità metaforica della poesia. A
sua volta, in una convergenza di stile e contenuto, questo movimento sembra rimandare al
rielaborazione e il superamento del trauma) che nello specifico coincide nel passaggio dalla
21«Trauma indicates a shattering break or cesura in experience which has belated effects. Writing Trauma would be one of
those telling after-effects in what I termed traumatic and post-traumatic writing (or signifying practice in general). It involves
processes of acting out, working over, and to some extent working through in analyzing and «giving voice» to the past –
processes of coming to terms with traumatic «experiences», limit events, and their symptomatic effects that achieve
articulation in different combinations and hybridized forms» (LaCapra 2001, 186). Si veda anche la ripresa della distinzione in
Demaria (2012, 46) e l’uso che Eaglestone (2008) fa del concetto di working-through in riferimento alla prosa di Anne
Michaels.
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una cartografia semantica che abbraccia le traiettorie dell’esilio e del ritorno. Successivo alla
morte di Athos e al fallimento del matrimonio con Alex, il soggiorno a Idra coincide con
l’immersione nell’oscurità del passato, affrontata grazie alla potenza del paesaggio dell’isola e alla
rielaborazione dell’esperienza traumatica nella scrittura; finché un giorno Jakob comprende che
«Restare con i morti vuol dire abbandonarli» («to remain with the dead is to abandon them»)22 e
l’immagine di Bella che lo chiama si tramuta nella sua immagine che lo sospinge nel mondo.
per il ritorno di Jakob a Toronto, dove l’incontro con Michaela siglerà la conversione del sentimento
della nostalgia nel desiderio del mondo e dell’avvenire. Le caratteristiche e il ruolo nella storia del
personaggio di Michaela – la cui figura incarna il tema, già introdotto da Athos, della cura del
mondo – ci riportano qui, con un salto interdisciplinare, alla disamina di Freud: nelle sue riflessioni sui
due fondamentali moti pulsionali, le pulsioni di vita e le pulsioni di morte, il celebre studioso aveva
fatto un confronto con l’attività delle cellule, muovendo dalla constatazione di come la fusione di
due organismi unicellulari avesse l’effetto di mantenerli in vita e ringiovanirli. Da questa premessa,
trasferendo lo stesso schema, in ambito psicanalitico, alla teoria della libido, egli giunse ad
affermare che le pulsioni di vita presenti in ogni cellula, con l’assumere come proprio oggetto di
cellule in vita. Partendo dalla biologia, dalla spiegazione del rinvigorimento vitale dato dall’unione
sessuale, Freud giunge, sconfinando a sua volta nell’ambito della letteratura, ad affermare la
coincidenza della libido delle pulsioni sessuali con «l’Eros dei poeti e dei filosofi, che tiene unito tutto
Tornando ai mondi possibili di Fugitive Pieces, il protagonista della seconda storia, Ben, nel
leggere le poesie di Jakob avverte un mutamento di tono tra le prime e le ultime e comprende
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che l’ingresso di Michaela nella vita del poeta sposta l’ombra scura della Storia dal centro ai
margini della scena. La storia resta come testimonianza e ricordo ma non divora più l’esperienza,
mentre la nostalgia del passato diventa cura del ricordo e desiderio del presente. Come ricorda
Paolo Jedlowski, «se da un lato il fluire della vita nel tempo comporta effetti che condizionano il
interpretando i suoi lasciti» (2007, 32). Ed è così che in In fuga 23 possiamo leggere nella figura di
Jakob il passaggio dalla relazione con «l’altro psichico»24, o meglio, con il «corpo estraneo del
trauma psichico» (si veda Freud 1893, 330) – al presente dell’incontro con l’altra (Michaela), corpo
situato nello spazio esterno del mondo sociale e affettivo. Innescato dai richiami del presente,
questo movimento fa sì che le diverse tonalità della nostalgia25 si articolino in una dialettica
Attraverso il divenire di Jakob nel tempo, il romanzo mette in scena, in filigrana agli eventi
della storia narrata, la parabola di un doloroso percorso compiuto da chi è stato segnato in modo
indicibile dall’esperienza della perdita. Percorso interiore il cui arco si distende dalla ricerca
dell’appagamento del desiderio nel mondo fantastico alla conquistata capacità di rielaborazione
del passato, attivata dalla relazione affettiva e dall’esperienza artistica della poesia.
23 Riprendendo la mappatura di Vera e Ansgar Nünning, questo romanzo metastorico (o metabiografico, con le parole di
Roberta Mazzanti), potrebbe rientrare anche nella definizione di «romanzo metamnemonico», per la caratteristica di
rappresentare una finzione della metamemoria anziché della semplice memoria: «[…] I romanzi appartenenti a questa
categoria tematizzano ed esplorano in modo autoconsapevole questioni come il complesso agire e l’(in)affidabilità della
memoria» (2007, 574-575).
24 Si veda Laplanche (ibidem) METTERE ANNO E PAGINA.
25 Nel costellare il romanzo, la figura della nostalgia e del desiderio (longing, si veda la nota 6) giunge ad abbracciare
l’intera rete semantica del termine, che riverbera le diverse sfumature del desiderio e rimanda al vicino belonging
(appartenenza), con il suo significato di legame profondo e desiderante.
26 Sulla «rilettura della nostalgia come desiderio e forza emotiva che conduce la memoria in una direzione costruttiva» si
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Bibliografia
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Indice
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Helena Janeczek, nata a monaco di baviera nel 1964, da una famiglia di ebrei originari della
Polonia e naturalizzati tedeschi, vive in italia dal 1983. Ha esordito in lingua tedesca con i versi di Ins
freie (1989) e come narratrice in italiano con Lezioni di tenebra (Mondadori 1997, Premio Bagutta
opera prima).
Come è stato osservato, Le rondini di Montecassino rientra in quel filone del romanzo
narrazioni che intendono proporsi come «“integrazioni” all’indagine storiografica, recupero della
sovvertire la storia narrata dai vincitori mediante la presa di parola da parte dei soggetti
subalterni».1
1
G. Benvenuti, Il romanzo neostorico. Storia, memoria, narrazione, Roma, Carocci, 2012, pp. 19-20.
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ricongiungono altre volte corrono parallele senza mai incontrarsi, intorno allo stesso scenario e nel
La battaglia si svolse in Italia, ma fu una storia che travalicò i confini europei fino a riguardare
i maori della Nuova Zelanda, gli americani del Texas e soprattutto coloro che ebbero un ruolo
centrale nella presa di ciò che restava dell'abbazia: i “polacchi in esilio” dell'armata del generale
Wladyslaw Anders. 5
evento “eccezionale”: la Seconda Guerra Mondiale in una delle sue battaglie più feroci, che
riporta l'orologio alle trincee della Prima Guerra Mondiale con la fanteria proiettata nel cuore dello
scontro a causa della natura selvaggia del territorio. In questa lezione l’obiettivo è interpretare il
significato e la funzione della tonalità epica e la sua articolazione con temi importanti del romanzo
come l'invenzione (romanzesca e non), il racconto della Storia, l'eredità e l'elaborazione della
2
Ivi, p. 21.
3
H. Janeczek, Le rondini di Montecassino, Parma, Guanda, 2010.
4
Punto nodale della linea Gustav, la barriera difensiva che attraversava l'Italia dal Tirreno all'Adriatico, con la quale
Hitler voleva fermare l'avanzata alleata. Sulla battaglia di Montecassino si veda M. Parker, Montecassino 15 gennaio -
18 maggio 1944. Storia e uomini di una grande battaglia, Milano, Il Saggiatore, 2003.
5
Il generale Anders fu a capo dei soldati del II Corpo d'Armata polacco, i primi a sfondare le linee tedesche nella
Quarta battaglia di Montecassino. La maggior parte di quei soldati sbarcò in Italia dopo essere stati liberati dai campi
staliniani e aver transitato per il Medio Oriente. Dopo la guerra, con l'occupazione Sovietica della Polonia, Anders si
stabilì a Londra dove fu membro del Governo polacco in esilio. Gran parte di loro non tornò in una patria che non
esisteva più.
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Il mosaico di storie che costituisce Le rondini di Montecassino è incorniciato dalla voce della
narratrice, simulacro testuale dell'autrice, che ci parla da un cronotopo6 localizzabile nella Milano
tra il 2007 e il 2009. La narrazione autobiografica costeggia e si infiltra nella superficie del mosaico,
complicato dall'incastro di scalini temporali. In esso troviamo dei piani pertinenti al passato e dei
piani che rimandano al presente della narrazione, come dei punti di fuga verso l'attualità.
La sezione iniziale «Prima della battaglia» (Milano 2007) è il punto d'ingresso della narrazione
in prima persona, che ci proietta all'interno di un taxi animato da una conversazione tra l'io
narrante e l'autista. Il dialogo, che ha per oggetto la partecipazione del padre di lei alla Battaglia
di Montecassino, è fluido e condotto con piglio deciso e allegro. Distaccato da uno spazio bianco,
appena letto un what if, ovvero come sarebbe potuta andare la conversazione se la narratrice
avesse raccontato dell'esperienza del padre nella campagna d'Italia anziché improvvisare una
l'invenzione riesce male quando sgorga dalla costrizione, che le menzogne nate per
Segue infine un'ulteriore versione, quella del "come è andata veramente": il padre, ebreo
polacco, non ha mai combattuto a Montecassino né è stato un soldato del generale Anders.
Veniamo a sapere che il cognome paterno è falso, dovuto a un'invenzione necessaria per
sopravvivere in un'epoca in cui gli ebrei rischiavano la vita ovunque; come a Kielce, teatro del
primo grande pogrom del dopoguerra e luogo di origine del ciarliero tassista.
6
«L'interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita
artisticamente», Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 230.
7
H. Janeczek, op. cit., p. 12.
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3 Metanarrazione e polifonia
La prosa assume un andamento interrogativo, soffermandosi sul significato e sugli usi possibili
Che cos'è una finzione quando si incarna, quando detiene il vero potere di
modificare il corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua
invenzione posso ricorrere essendo testimone in carne e ossa che fra il vero e il falso, tra
realtà e finzione, corre talvolta il confine labile che separa la vita dalla morte?8
La storia di una vita salvatasi grazie a un'invenzione diventa parte di una storia più grande
ma dai contorni plurali, composta di una moltitudine di storie dimenticate, perse nel tempo e in
una geografia fatta di campi di concentramento, fosse, sacrari e anfratti di montagne ricolmi di
e solidarietà. La sopravvivenza di questo nome inventato, di contro a milioni di nomi inghiottiti dalla
vertigine della violenza storica, merita anziché «menzogne nate per caso» e dunque «brutte» –
un'invenzione di ben altro respiro, dai confini ampi e generosi, in grado di accogliere quante più
storie possibili: «una storia tanto mitica9 per chi l'ascolta che troncherebbe ogni domanda».10
Sullo sfondo di una moltitudine di esistenze dimenticate, i rivoli delle memorie confluiscono
nell'alveo maggiore della Storia e danno corpo alle figure del soldato Emilio Steinwurzel e del
medico Dolek Szer: entrambi sono ebrei polacchi finiti nel Secondo Corpo d'Armata polacco di
capitolo finale, in cui viene narrata l'ultima battaglia, quella che vide i soldati polacchi issare la
8
Ibidem.
9
Corsivo mio.
10
Op. cit., p. 14.
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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«Mio padre non ha mai combattuto a Montecassino, non è mai stato un soldato
del generale Anders Ma per quell'imbuto di montagne e valli e fiumi della Ciociaria,
La memoria privata si apre verso una rievocazione di più ampio respiro, che fa emergere dal
passato gli oltre trentamila caduti sepolti nei sacrari militari che circondano l'abbazia. Oltre ai
rammemorati soldati anglo-americani, la narratrice ricorda gli italiani delle formazioni regolari
dell'esercito, gli indiani, i nepalesi, i maori, gli algerini, i nippo-hawaiani, i brasiliani, i senegalesi, gli
ebrei venuti dalla Palestina con la Jewish Brigade e tutti gli altri soldati del mondo intero.
«Eppure troppo vere le loro vite e le loro morti corrose dall'oblio per non cercare
di aderire il più possibile alle fonti che mappano le loro traiettorie e documentano il loro
sentimento di comunione con una storia talmente vasta da non poter essere delimitata dai confini
di una memoria nazionale, ma piuttosto, da una memoria che varca confini e frontiere e parla in
lingue diverse. L'istanza di fondo, che rivela una comunanza di intenti e di tecniche con parte della
mosaico-labirinto percorso da personaggi che raccontano la guerra dal loro punto di vista. Sono
personaggi dalle origini diverse, realmente esistiti o di invenzione. L'immagine del labirinto da
percorrere mi sembra anche corrispondere meglio al contenuto evocato: come i sentieri scoscesi
e tortuosi delle montagne intorno all'Abbazia; o le gelide e impetuose acque dei fiumi Garigliano e
11
H. Janeczek, op. cit., p.15.
12
Ibidem.
13
Per nominare alcune importanti tendenze, penso alla microstoria (Carlo Ginzburg, Giovanni Levi), alla storia dal
basso (Jim Sharpe), alla storia delle donne (Joan Scott) e d'oltremare (Henk Wesseling). Per un'autorevole rassegna in
materia si veda P. Burke, La storiografia contemporanea, Bari-Roma, Laterza, 2007.
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Rapido, che rendevano il raggiungimento della meta quasi impossibile e che sottoponevano i
soldati a una serie di prove. A questo si aggiunge la dimensione dello spostamento: non solo quello
causato dalla geografia dei fronti bellici, ma anche quello causato dalle persecuzioni in Europa
Orientale e in Unione Sovietica e dalle diaspore di quei profughi che furono definite dalle Nazioni
14
«Nell'aprile del 1945 gli Alleati definiscono displaced persons (DPs) "tutti i civili che si trovano fuori dai confini del
proprio paese per motivi legati alla guerra"», Silvia Salvatici, Le "displaced persons", un nuovo soggetto collettivo, in
G. Crainz, R. Pupo, Raoul, S. Selvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise
d'Europa, Roma, Donzelli, 2008, p. 94.
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Il romanzo è suddiviso in sezioni intitolate in funzione delle battaglie. Ogni pagina inaugurale,
come un monumento funebre, riporta la data di nascita e di morte del protagonista principale e
una canzone o una preghiera riconducibili all'identità nazionale dell'eroe. Le vicende sono narrate
da una voce eterodiegetica e tutte hanno qualcosa in comune: un eroe che viene da lontano e
affronta varie traversie per raggiungere il campo di battaglia in terra straniera, nel quadro della
Seconda Guerra Mondiale, "unico gorgo che risucchia pressoché ogni luogo della terra, ogni
animale e paesaggio, e che gettandoli alla rinfusa, unisce e divide gli uomini".15
Nell'uso della parola «eroe» mi riferisco alla caratterizzazione di Christopher Vogler nel suo
libro Il viaggio dell'eroe (Roma, Dino Audino, 1999). Qui l'autore, partendo dalla critica mossa al
viaggio dell'eroe come manifestazione della cultura maschile violenta dominante, puntualizza che
solo una delle facce dell'eroe, che può essere anche pacifista, madre, pellegrino, vagabondo,
ribelle, tragico, codardo ecc. (Vogler, op. cit., p. 11). Nel contesto della narrazione presa in esame,
la dimensione del viaggio, declinata in chiave contemporanea, si confà particolarmente agli eroi
del racconto, che giungono sul fronte bellico da luoghi lontani che vanno dal Texas alla Nuova
Zelanda senza dimenticare la Siberia, seguendo rotte talvolta volontarie talvolta determinate dalla
La storia della Battaglia di Montecassino emerge anche nel dialogo con altre trasformazioni,
dell'era della decolonizzazione, attraversata da lotte per il riconoscimento delle identità politiche e
l'emancipazione delle minoranze sparse nel mondo, come nel caso dei Maori della Nuova
Zelanda. La narrazione del tema principale, le Battaglie di Montecassino, si articola con il racconto
15
H. Janeczek, op. cit., p.15.
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di altre storie a essa intrecciate. Il mosaico si compone sulla spinta di una memoria che definirei,
sulla scia di Michael Rotbergh, multidirezionale, opposta alla memoria competitiva che, nel lottare
per il riconoscimento della memoria e della identità di un determinato gruppo sociale, esclude le
borrowing; as productive and not privative. [...] This interaction of different historical
memory.16
Rotberg nel suo libro, muovendo da un articolo del critico letterario Walter Benn Michaels
sulle dinamiche del rapporto tra la memoria collettiva della Shoah e la memoria della schiavitù dei
neri in America, affronta la questione del come articolare la relazione tra le memorie dei diversi
gruppi sociali oggetto di violenza storica. Lo studioso sviluppa il discorso e argomenta come
l'emergere della memoria dell'Olocausto su scala globale abbia contributo all'articolazione di altre
storie, come la schiavitù dei neri d'America, la Guerra di indipendenza dell'Algeria (1954-62) o il
genocidio in Bosnia negli anni Novanta. Contro un frame diffuso che comprende la memoria
collettiva come memoria competitiva, all'interno della quale le diverse memorie lottano per la
preminenza, in un’articolazione del passato che ripropone la divisione tra vincitori e vinti, Rotbergh
16 M. Rothberg, Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford
University Press, 2009, p. 3.
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La seconda parte del libro è dedicata al contributo di sangue texano, con il racconto della
Prima Battaglia (12 gennaio - 12 febbraio 1944) dal punto di vista del sergente John "Jacko" Wilkins,
della 36a Divisione "Texas". Dopo l'arruolamento nella Guardia Nazionale, Jacko abbandona il suo
piccolo ranch texano per andare a finire nella 36ª Divisione dell'Esercito degli Stati Uniti. Il passaggio
successivo consiste nella traversata transoceanica verso l'Algeria come tappa di addestramento
per la guerra in Europa. Lo sbarco e la presa di Paestum (9 settembre 1943) corrispondono al suo
ingresso vero e proprio nel teatro di guerra. Personalità disciplinata e patriottica, Jacko vede l'Italia
con gli occhi di un americano e la vede fredda, scura e povera. Al tempo stesso, lo sguardo sulla
terra straniera si rivolge contro di sé: egli si vede dal di fuori come Flash Gordon atterrato su un altro
pianeta, abitato da uomini profondamente segnati dalla guerra. La sua traiettoria di vita si
conclude nel corso della prima azione volta a sfondare la linea Gustav: guadate miracolosamente
le gelide acque del fiume Rapido e giunto sulla riva opposta, viene colpito in fronte e il suo corpo
inghiottito dal fiume. Mentre la 5ª armata del generale Clark sbarcava ad Anzio, i ragazzi del Texas
venivano mandati a morire sulla linea Gustav. Il brano della petizione firmata dai veterani
sopravvissuti contro il generale Mark Wayne Clark inserito all'interno della diegesi acquista un
sovraccarico di senso grazie alle linee forza, motivate dalla spinta etica autoriale, che
Charles Maui Hira, del 28° battaglione Maori, e suo nipote Rapata Sullivan, in volo dalla
Nuova Zelanda verso l'Italia, sono al centro della terza parte, dedicata alla Seconda e Terza
battaglia (15 febbraio – 24 marzo 1944). Nel 2004 la memoria privata di Rapata, che porta in tasca
della sessantesima ricorrenza della battaglia. I racconti del nonno che rivivono nei pensieri di
Rapata rimandano al passato neozelandese delle lotte dei maori con i coloniali. L'alternanza dei
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piani temporali genera un movimento narrativo che vede la storia dei maori nella lontana Nuova
Zelanda confluire nella storia della seconda guerra mondiale nella vecchia Europa.
Il nonno di Rapata, appartenente alla tribù maori dei Waikato, decise di arruolarsi e
partecipare alla guerra per pagare il diritto di cittadinanza e per questo venne chiamato
"kupapa", cioè venduto ai pakeha17. Dalle memorie di Rapata emerge la divisione interiore tra
l'eroismo militare del nonno e il ribellismo del padre, leader del movimento per i diritti dei maori.
L'identità di Rapata è quella di un uomo diviso a metà, tra le periferie di Auckland e il villaggio
nativo sul Waikato. I maori, come altre truppe di provenienza non europea o nordamericana,
furono utilizzati come testa di ponte per le azioni di guerra, in modo da lasciare il campo alle
«Serviva a questo aver dominato per secoli su mezzo mondo con l'impero:
commemorazioni ufficiali e cercare i frammenti sommersi della vita del nonno, come per esempio,
quel che restava della miniera in Polonia dove il nonno era stato imprigionato.
Adesso le parole lette nei libri sul 28° battaglione e su Montecassino che portava
nello zaino, sembravano portarsi dentro il rischio di cancellare i racconti di Charles Maui
Hira.19
salvarlo»20, nel timore che la memoria ufficiale possa confliggere con la memoria privata.
Nondimeno vi si reca e, una volta sul luogo, il presente del ristorante in compagnia degli ex-
combattenti maori che avevano combattuto a fianco di Charles Maui Hira si alterna al passato
17
Pākehā è una parola della lingua maori che indica i cittadini neozelandesi di sangue non maori, per maggiore parte di
origine britannica, ma anche irlandesi, olandesi, tedeschi ed europei in generale.
18
H. Janeczek, op. cit., p. 41.
19
Ibidem.
20
Op. cit., p. 42.
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La quarta parte del romanzo, «Prima e dopo l'ultima battaglia», combina due narrazioni
differenti per contenuti e forma narrativa: da una parte il racconto in prima persona del viaggio
compiuto dalla narratrice in Israele per incontrare Irena Levick (Irka), la moglie del cugino Zygmunt;
dall'altra le vicende di due ragazzi romani legati da profonda amicizia, Edoardo Bielinski e Anand
La storia di Irka, originaria di Vilna, si unisce a quella dei tanti ebrei polacchi sopravvissuti alla
Shoah "grazie" alla deportazione nei Gulag sovietici. Nella sua testimonianza, i ricordi sono come le
isole di un arcipelago separate da acque di oblio, che velano l'indicibilità del senso di colpa per
non aver potuto proteggere la giovane madre morta a Treblinka. La consapevolezza e il rispetto
del significato delle alterazioni della memoria spinge la narratrice a integrare la testimonianza con
altre ricerche: la consultazione degli archivi nel museo di Yad Vashem e la lettura
testimonianza e ricerca confluisce nel capitolo "Irka nel Gulag", preceduto dalla vicenda di
Edoardo e Anand: all'ingresso del cimitero polacco di Montecassino, situato sul versante della
collina tra Quota 445 e il monastero, i due sono intenti a diffondere volantini informativi sui polacchi
scomparsi in Italia.
interesse per Montecassino deriva da una genealogia famigliare che – come dice Anand – li
immerge nella storia fino al collo e li spinge a «lottare da nonno a nipote», l'interesse di Anand per
la storia del generale Anders si risveglia attraverso altri canali che non hanno niente a che fare con
comprensione della violenza storica passa attraverso l'osservazione di una rondine e dei suoi
piccoli al sicuro nel nido alloggiato tra sottotetto e cornicione del monastero. L'immaginazione di
Anand, che si interroga sul destino delle rondini sfollate nella primavera del 1944 dall'abbazia e
disperse nel cielo sconvolto dai bombardamenti, genera l'allegoria di quanto avveniva in tutti i
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fronti della Seconda Guerra Mondiale: gorghi infernali che rigettavano "stormi di poveri uccelli neri
21
Cfr. il capitolo «Le rondini e l'abbazia», pp. 248-274.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neostorico: Le Rondini di Montecassino
Bibliografia
Anders, Wladyslaw - An Army in Exile, Macmillan, London, 1949; trad. it. Un'armata in
Burke, Peter - New Perspectives on Historical Writing, Polity Press. Cambridge, 1991;
Pendragon, 2002.
Crainz, Guido, Pupo, Raoul, Selvatici, Silvia - Naufraghi della pace. Il 1945, i profugi e le
Parker, Matthew - Montecassino. The Story of the Hardest-fought Battle of World War
Two, 2003; trad. it Montecassino 15 gennaio - 18 maggio 1944. Storia e uomini di una
Terdiman, Richard - Present Past: Modernity and the Memory Crisis, Ithaca - London,
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Sitografia
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Indice
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Questa lezione è dedicata al tema della rappresentazione della guerra, del racconto della
Baviera nel 1964, da una famiglia di ebrei originari della polonia e naturalizzati tedeschi, e che vive
in Italia dal 1983. Il romanzo narra una vicenda importante e cruenta della Seconda Guerra
vedremo più avanti) – e da una prospettiva postcoloniale, il romanzo mette al centro della
I dimenticati non figurano solo nelle storie dei vinti, ma anche nelle file dei vincitori, funestate
in misura non minore da razzismi e gerarchie. L'opera di Janeczek riporta alla luce le strategie
belliche adottate in guerra, all'interno delle quali le truppe coloniali – in grado di scalare gli
strapiombi più ripidi dei Monti Aurunci e conquistare le quote più rischiose – venivano utilizzate
come "truppe puniche", inviate come avanguardia e al macello, nel quadro di una strategia ad
ampio raggio ignorata dai soldati. Ai fini del risultato finale, poco importavano alle gerarchie
militari alcuni effetti collaterali della tattica bellica: ad esempio lo stupro di massa delle donne in
Ciociaria, marchiate come "marocchinate" e poi private anche dell'elaborazione collettiva del
trauma a causa del manto di silenzio calato su quel crinale della storia. Come ricorda la narratrice,
non fu certo l'Armata d'Africa di Alphonse Juin, protagonista della conquista dei Monti Aurunci, a
La storia dei polacchi, particolarmente cara per ragioni biografiche a Helena Janeczek,
intercetta le altre storie minori narrate in precedenza, come quelle dei Maori, dei soldati della 4ª
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Divisione indiana o dei Gurkha nepalesi. Questi ultimi, ignari della decisione del generale Freyberg1
di bombardare il monastero, furono fatti avanzare verso la montagna e perirono sotto il fuoco
amico. Nel romanzo, il precipitare delle bombe sul monastero è narrato dal punto di vista di chi è
assediato e inerme: i rifugiati e gli sfollati riparati nell'abbazia, nelle grotte, nei costoni, nei bunker.
«Si muore di una morte sorda e assordante, si vive respirando polvere col panico,
I loro punti di vista vanno a convergere in un unico punto di vista descrivibile come
“obliquo”:3 un occhio che sorvola l'interno dell'abbazia, sorta di cinepresa volante che riprende la
distruzione della cupola, il crollo del chiostro del Bramante su un centinaio di profughi e il rovinare
delle colonne; ma anche l'incrociarsi per aria di frammenti di cose e corpi ad ogni deflagrazione e
il crescere degli ammassi di detriti e calcinacci. La narrazione trasmette il rumore assordante che
copre le grida dei feriti e gli spostamenti di polvere e di sabbia che rendono confusa la visione
degli assediati.
1
A capo del nuovo corpo d'armata neozelandese.
2
H. Janeczek, op. cit., p. 59.
3
Sull'uso del termine, si veda il capitolo "Sguardo obliquo. Azzardo del punto di vista" in New Italian Epic di Wu Ming
1: «Nel corpus del New Italian Epic si riscontra un'intensa esplorazione di punti di vista inattesi e inconsueti, compresi
quelli di animali, oggetti, luoghi e addirittura flussi immateriali. [...] Lo spostamento del punto di vista rende l'epica
"eccentrica", in senso letterale». Wu Ming 1, New Italian Epic, Torino, Einaudi, pp. 26-31.
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Nel corso dell'ultima battaglia, all'armata del generale Anders venne affidato il compito più
difficile della prima fase: la conquista delle alture intorno a Montecassino e Piedimonte, tra le quali
la Cresta del Fantasma e la famigerata Quota 593, detta il Calvario.4 In questo punto della storia si
innesta la vicenda di Emilio Steinwurzel, sbarcato sul versante meridionale dell'Adriatico dopo
essere stato di stanza in Iraq e in Palestina. Emilio viene raffigurato in marcia sulla montagna verso il
primo obiettivo, la Cresta del Fantasma. La situazione narrata ricorda la guerra di fanteria, con le
stesse terribili prove che tormentavano i soldati nelle trincee della Grande Guerra, ma la
connotazione che ne scaturisce è ben lontana dalle tonalità di Ernst Jünger nel suo diario di guerra
Le leggi stesse della natura sembravano non aver più valore. L'aria tremava
come nei giorni ardenti dell'estate e la sua varia densità faceva ballare di qua e di là
In queste pagine, il racconto epico delle battaglie, pur nel testimoniare l'orrore che dilagò
nelle pianure della Somme e nelle trincee dello Champagne, riflette anche la visione ludica del
su una forma umana orribilmente insanguinata; una gamba pendeva da quel corpo
4
«Il compito forse più duro di tutti sarebbe stato assolto dai corpi polacchi, al comando del generale di Corpo d'Armata
Wladyslaw Anders. La 3ª divisione dei fucilieri dei Carpazi e la 5ª divisione di fanteria Kresowa, sostenute dalla 2ª
brigata corazzata polacca avrebbero dovuto isolare il monastero assumendo il controllo delle alture adiacenti e poi
spingersi nella Valle del Liri per entrare in contatto con il XIII Corpo d'armata britannico in avanzata». Matthew Parker,
Montecassino 15 gennaio - 18 maggio 1944. Storia e uomini di una grande battaglia, Milano, Il Saggiatore, 2003, p.
331.
5
p. 264.
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con un'angolazione innaturale. Con voce rauca, come se la morte la tenesse ancora
stretta alla gola, quella forma invocava incessantemente aiuto. [...] Cos'era avvenuto?
La guerra aveva mostrato gli artigli e gettato via di colpo la sua maschera di bonomia.
Nel romanzo di Janeczek, la tonalità epica della prosa, dovuta alla natura della materia
narrata e al lavoro sulla connotazione che catapulta il lettore nel mezzo degli eventi, non manca
di testimoniare le difficoltà visive dei soldati, insieme al frastuono delle artiglierie, al freddo, al cibo
scadente, ai pidocchi, l'impossibilità di lavarsi e, soprattutto, lo squallore dell'attesa. Non c'è niente
di razionale e geometrico nel divampare della battaglia che, vissuta dall'interno, manca di centro
e prospettiva.
Vola di tutto sopra: razzi, obici, granate, schegge di ogni genere e materia - ferro,
roccia, legno spaccato, legno in fiamme e pure roba che è meglio non capire.7
Per i soldati è impossibile comprendere quanto succede sul campo e la natura stravolta
Le pietre dei ripari vibrano come elettriche, la montagna sotto i corpi appiattiti
La vera consapevolezza dello sfacelo in corso è appannaggio di chi cerca di rimediare gli
orrori in corso, come i medici impegnati a «segare un braccio o una gamba» o a «estrarre schegge
conficcate ovunque assieme a frammenti ossei». Ecco qui comparire un'altra figura sgorgata dalla
memoria privata: Dolek, il cugino della madre di Helena Janeczek, anche lui sul celebre fronte di
Montecassino.
La ristrettezza della visuale di chi combatte, oltre a giocarsi nell'immanenza della battaglia e
6
E. Jünger, Le tempeste di acciaio, Parma, Guanda, 1990, p. 7.
7
H. Janeczek, op. cit., p. 323.
8
Ibidem.
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riguardare la dimensione dello spazio, si estende alla dimensione temporale del destino. I soldati
sono giocatori di una partita di cui ignorano la regia, privi di una visione d'insieme e ignari della loro
funzione: è il caso delle truppe polacche utilizzate come parafulmine delle artiglierie tedesche sulla
Cresta del Fantasma, mentre i "protagonisti designati della battaglia" fanno retrocedere i tedeschi
a valle.9
Alla fine dello scontro, Anders sale sul campo e vede ciò che resta del baluardo della fede
cristiana nell'Occidente: «mucchi di mine terrestri» e «cadaveri di soldati tedeschi e polacchi», tra
brandelli di uniformi alleate e tedesche incorniciate dai papaveri. La vertigine di macerie, corpi e
rovine nella quale ci precipita la narrazione si chiude nell'immagine assente dello splendido
Monastero.
9
H. Janeczek, op. cit., p. 334.
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Il capitolo finale del romanzo è dedicato alla Quarta Battaglia di Montecassino (11-18
maggio 1944). Nella pagina di apertura sono indicate le coordinate temporali che lo attraversano:
il presente della narratrice (Milano, settembre-ottobre 2009) e la direttrice temporale della vita di
Samuel Steinwurzel (Leopoli, settembre 1939 - Milano, gennaio 1965), che partecipò alla battaglia
con il 52° Battaglione Fucilieri di Vilna, del Secondo Corpo d'Armata polacco.
L'eroe appare in una fotografia del 1943 nella casa milanese del figlio Gianni:
L'uomo nella foto è all'origine di tutto. L'uomo è lo zampillo della sorgente che mi
ha portato a scoprire i rivoli sgorgati fra i continenti e confluiti nel fiume di queste
pagine, a seguirne i meandri fino a che raggiunge la Valle del Liri e sfocia nella
battaglia. Ma poi, come spesso accade alle sorgenti, quella prima fonte sembrava
divenuto in Italia "Emilio", è un dato tanto acquisito quanto misterioso per la memoria della
narratrice. Il ricordo di questo soldato polacco, protagonista di una storia eroica ma smarrita nella
geografia della vecchia Europa e dell'Unione Sovietica, la conduce alla casa di Gianni.
Ricordi e attualità si mescolano in queste pagine, nelle quali le vicende di Emilio prendono
forma via via nel corso della conversazione e si diluiscono nelle riflessioni interiori sul mutamento
della circostante Chinatown milanese a partire dai ricordi di infanzia. La Chinatown odierna,
«dilagata ben oltre via Paolo Sarpi, centrale di smistamento della mercanzia cinese verso le
bancarelle e i negozi di non so quanta parte d'Italia»,11 rappresenta per la narratrice non uno
snaturamento, ma una possibilità in più: la lontana Cina è a disposizione qui, nel perimetro di
alcune strade milanesi. Il presente degli attuali flussi migratori che attraversano il globo si
10
Op. cit., p 277.
11
Ibidem, p. 280.
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verticalizza in una profondità temporale dalla quale affiorano interrogativi sull'eredità della
memoria.
«Che cosa restava della presenza di un ebreo polacco in questo lembo annesso
alla Cina, in questa mappa che restituiva le ultime grandi migrazioni cancellando
quelle più remote e minoritarie? Persino i nostri sopravvissuti sono quasi tutti morti, e non
c'è coltivazione della memoria, né singola, né collettiva, che possa farci nulla.
il padre per Gianni, la madre per la narratrice - si annida il timore di un mutamento nel senso
inverso alla progressione del tempo. Un mutamento rivolto al passato, senza un punto di rottura
generazionale, ma con l'eredità di un «patrimonio invisibile che ci modella dal di dentro quando è
tardi, quando le tracce che cominciamo a rincorrere sono scarse e parzialmente indecifrabili».
Come la narratrice,13 anche Gianni fece un “viaggio della memoria” alla ricerca delle origini
della famiglia paterna: prima in Israele per cercare nella sala archivi del museo Yad Vashem i nomi
generazione», con alle spalle una genealogia famigliare interrotta dalla violenza della Shoah.
Insieme tentano di ritrovare l'uomo della fotografia: ricostruiscono le sue possibilità esistenziali
storici. La storia di Emilio si fa strada dal fondo oscuro del passato, all'interno di una storia più
grande, quella dei «prigionieri di guerra polacchi mandati nel Gulag».14 Samuel/Emilio nacque nel
1914 a Radziechow (oggi Radehiv), terra di confine abitata da polacchi, ucraini, ebrei, cattolici e
minoranze varie e si trasferì con la famiglia nella vicina Leopoli (Lwów); soldato polacco durante
l'invasione tedesca, fu fatto in seguito prigioniero dai russi e deportato in Siberia; da lì riuscì a
12
Ibidem, p. 281-282.
13
Nel suo libro Lezioni di tenebra (Parma, Guanda, 1997) Helena Janeczek narra il “viaggio della memoria”, intrapreso
insieme alla madre sopravvissuta ad Auschwitz, che la portò in Polonia alla ricerca delle sue origini e a visitare il campo
di concentramento.
14
Ibidem, p. 283.
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raggiungere l'armata di Anders e con quella giunse in Italia. Le vicende private si inseriscono in uno
scenario storico segnato da eventi come le negoziazioni sui confini della Polonia tra Stalin e gli
alleati, l'antisemitismo diffuso nelle armate alleate e la difficile opera di costituzione dell'armata
documentale, il decentramento della narrazione su vari "fronti", il gioco tra i livelli temporali e la
presenza di enunciati metanarrativi, implica un'alta consapevolezza della posta in gioco implicita
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sua identità individuale. La sua immagine può accogliere e ristorare un numero infinito di lettori-
protagonisti di vicende analoghe o contigue per identità, luoghi e tempi. Le vicende di Samuel
Steinwurzel sono emblematiche dei tortuosi percorsi del displacement ebraico durante e dopo la
Seconda Guerra Mondiale, a partire dagli stermini di massa e deportazioni nei campi che ebbero
luogo nei territori del cosiddetto “Occidente Sovietico”.15 Inoltre, fanno riemergere di pari passo
tante altre storie di lotta dimenticate dalla Tradizione: le rivolte nei ghetti polacchi, i gruppi di
resistenza armata a Leopoli, le formazioni di partigiani ebrei nei boschi di Galizia, Bielorussia e
Lituania. La sua storia privata si intreccia, nel filo delle analogie, a quella più pubblica di Israel
Gutman16, anch'egli attivo nella resistenza perfino a Birkenau e confluito nella Jewish Brigade dopo
Al tempo stesso, nonostante il suo passato eroico, Emilio Steinwurzel non ha mai voluto
raccontare nulla della sua vita, così come il padre della narratrice ha preferito raccontare una
storia diversa. Perché non volle mai raccontare una storia che poteva essere invece fonte di
ossigeno per la memoria collettiva di un gruppo sociale così tanto bersagliato dalla storia? La
risposta a cui giunge la narratrice parte dal senso di colpa e insensatezza inevitabile in ogni
sopravvissuto: non basta aver partecipato a una guerra di liberazione e aver reagito contro
l'oppressione e la violenza storica per cancellare l'orrore della guerra. Tuttavia, la “piccola
epopea”, probabilmente fonte di sofferenza per l'eroe che l'aveva vissuta, veniva considerata
preziosa da altri, come il padre della narratrice. Perché la lotta armata pone «un argine alla
percezione di non aver vissuto altro che orrore» e, all'interno di questo orizzonte, è possibile andare
oltre l'orrore con gesti di solidarietà e di aiuto che si imprimono nella memoria.
15
Cfr. A. Ferrara, Il displacement degli ebrei nell'Occidente Sovietico, in G. Crainz, R. Pupo, Raoul, S. Selvatici (a cura
di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d'Europa, Roma, Donzelli, 2008.
16
Storico, direttore del centro di ricerca di Yad Vashem e curatore dell'Enciclopedia dell'Olocausto, consulente del
governo polacco per le questioni ebraiche.
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Perché mio padre quella storia la invidiava. Perché mio padre, con gli altri suoi
amici italiani che erano stati in Jugoslavia o addirittura in Val d'Ossola con i partigiani,
aveva raccontato che anche lui era stato da qualche parte nei boschi, con i russi o i
polacchi a combattere contro i nazisti. Però non era vero. L'ho scoperto per caso un
giorno, dopo che era già morto, come ho scoperto poco prima del suo funerale che
era falsa tutta la sua identità: nome e cognome, data di nascita corrispondente a
Ritorna in questi brani il tema della menzogna, legato a doppia mandata al tema del
desiderio, delle possibilità esistenziali che sfrondate dall'inesorabilità del divenire storico si riducono
a delle scelte che non sono vere scelte, e che spesso sono compiute per amore di persone care,
come nel caso del padre. Resta tuttavia la verità dell'invenzione, del what if, di quello che sarebbe
stato possibile, di un'altra parte di noi che avrebbe potuto manifestarsi in circostanze diverse. Quel
desiderio che ci fa amare persone con una storia diversa dalla nostra perché riconosciamo in loro
un'essenza che comprendiamo, ammiriamo e che avrebbe potuto anche, in circostanze diverse,
Milek o Emilio era quel che mio padre avrebbe voluto essere, il suo doppio
immaginario a cui tutto questo libro è dedicato. Ma è strano che sia arrivata in fondo
per capire che mio padre avrebbe potuto compiere un'altra scelta.18
Così le fotografie di Emilio Steinwurzel e del padre si fondono in un'unica immagine che
contiene il vissuto di coloro che hanno scelto di sopportare in solitudine il peso del passato,
Credo di aver fatto bene a non chiedergli mai niente, e so che farò sempre di
tutto per non dire mai niente di come è riuscito veramente a salvarsi e alla fine
diventare quel padre che ho amato e che amo per tutto quel che è stato, così come
17
H. Janeczek, op. cit., p. 361.
18
Ibidem.
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19
Op. cit., p. 362.
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I protagonisti del romanzo, nel loro convergere verso l'abbazia di Montecassino, sembrano
far propria un'idea di memoria che aderisce a quello che Richard Terdiman chiama Making
Present e che si basa su due importanti corollari: la memoria come fenomeno contemporaneo,
qualcosa che riguarda il passato ma avviene nel presente, e la memoria come forma di lavoro
(Working through) e azione.20 Questo processo riguarda tanto il personaggio finzionale di Rapata
quanto l'io-testimone di seconda generazione della narratrice, entrambi posti di fronte alle
La relazione con il passato, che determina in larga parte la nostra identità nel presente, non si
svolge lungo una linea retta, bensì attraverso un percorso a spirale, fatto di avanzamenti e
momenti di arresto. La problematicità della memoria della figura paterna era già emersa in un
precedente libro di Helena Janeczek, Cibo, nel quale è scritto «non mi sarei aspettata, rispetto a
questo avvenimento, tanti vuoti, lacune, cedimenti e ottusità della memoria».21 Marianne Hirsch
chiama Postmemory la relazione dei bambini agli eventi traumatici sperimentati dai genitori. Si
tratta di una relazione che si riverbera nei testi, come nel caso dell'autrice, sia per Lezioni di
tenebra, pervaso dal lacerante rapporto con la memoria della Shoah trasmessa per via materna,22
sia per Le Rondini di Montecassino, dominato dalla domanda «Che cosa resta del padre»?
«And yet postmemory is not a movement, method or idea; I see it, rather as a
A sua volta, il carattere differito e mediato della postmemoria instaura dei punti di ingresso
per la confluenza multidirezionale di altri immaginari storici. Il prestare attenzione alle dinamiche
20
R. Terdiman, Present Past: Modernity and the Memory Crisis, Ithaca - London, Cornell University Press, 1993.
21
H. Janeczek, Cibo, Milano, Mondadori, 2002, p. 214.
22
«Io, già da un pezzo, vorrei sapere un’altra cosa. Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non
con il latte materno, ma ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre non
l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più». H. Janeczeck, Lezioni di
tenebra, cit., p. 10.
23
M. Hirsch, The Generation of Postmemory, in «Poetics Today» 29, N.1 (spring 2008), p.106.
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che coinvolgono posti e tempi diversi nella storia, incarnati in una politica della memoria, genera
momenti di solidarietà nei quali la memoria storica serve come mezzo per la creazione di identità
guerra e segnati da esperienze comuni di fame e freddo, crea i presupposti per nuove forme di
collettività, che vanno oltre la cornice tramandata della tradizione degli Alleati e superano i confini
Il legame tra l'esperienza individuale vissuta e incarnata e la memoria collettiva riflessa nei
e collettiva di un dato gruppo può ricondurre alle esperienze di altri gruppi. Cosa significa porre
delle storie a contatto in un sito della memoria? L'abbazia di Montecassino diventa una proprietà
comune, una risorsa pubblica per una riflessione che oltrepassa le diverse appartenenze nazionali
ridotto di tombe riservate alla divisione indiana in confronto alla prevalenza dei nativi britannici.
Questa osservazione nasce dal ricordo dei racconti del nonno sulla cospicua presenza dei
battaglioni indiani mandati all'Abbazia e dei Gurkha senza gambe. Ripensare la relazione tra
memoria e identità significa affrontare la questione della distribuzione del riconoscimento: oltre a
che cosa viene riconosciuto, la domanda deve volgere anche su “chi” deve essere riconosciuto
dalla storia e dalla cultura, poiché senza rappresentazione non vi è riconoscimento. In un caso
come questo, seppur rappresentato dalla verità della finzione romanzesca, la memoria privata di
Rapata non solo entra in collisione con quella ufficiale, ma serve a riportare alla luce memorie
altrui, seguendo una logica, come già detto in precedenza, multidirezionale e non competitiva. La
testimonianza e il riconoscimento delle memorie dei dimenticati, anziché chiudere lo spazio residuo
lasciato vacante dalla memoria ufficiale, illumina l'emergere di altre memorie intrecciate alla
Analogamente, lo spazio della letteratura può offrire ospitalità alle storie degli altri. Ed è verso
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questo orizzonte che guarda Le rondini di Montecassino, con la sua «collezione di piccole epopee»
combinazioni di vero, falso e finto», a fare gravitare quest’opera nel filone impegnato del romanzo
storia come desiderio situato di ricostruzione dei coni d'ombra lo proiettano nell'orbita del romanzo
metastorico contemporaneo.25 La forma del mosaico, sfaccettata nel gioco costante tra un
presente e un passato plurali, dislocati geograficamente a seconda del punto di vista, rimanda al
Working through della memoria multidirezionale, le cui pratiche di valorizzazione delle contiguità e
24
G. Benvenuti, Il romanzo neostorico. Storia, memoria, narrazione, Roma, Carocci, 2012, p. 21.
25
Su questo duplice orizzonte di appartenenza si veda di C. Boscolo The Idea of Epic and New Italian Epic e di chi
scrive Metahistory, Microhistories and Mythopoeia in Wu Ming, in C. Boscolo (a cura di), Overcoming
Postmodernism: the debate on New Italian Epic, cit.
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Indice
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Nel 2008, in un periodo in cui la critica inizia a parlare di “ritorno alla storia” e di “nuovo
realismo1, Wu Ming 1 pubblica online New Italian Epic, memorandum 1993-2008, un saggio che
verrà poi riproposto in versione 2.0 e infine in cartaceo, intitolato New Italian Epic: letteratura,
sguardo obliquo, ritorno al futuro (2009). Si tratta di un tentativo di rilevare una struttura, un pattern
dominante, nella letteratura odierna. I Wu Ming (che in cinese mandarino vuol dire “senza nome”)
sono un collettivo di scrittori bolognesi, per cui, bisogna tenere presente che le idee contenute nel
saggio sono frutto di una discussione comune e sono condivise dall’ambiente del collettivo. Wu
Ming 1 osserva un cambiamento, una “liberazione di energie” nella letteratura italiana a partire dal
1993, quando appaiono sempre più frequenti «opere figlie del terremoto che pose fine al
bipolarismo, concepite e scritte in questa Seconda Repubblica, con alcuni “salti di fase” (giri di
boa, eccetera) determinati da eventi come la guerra in Iugoslavia, il G8 di Genova, l’11 settembre,
l’invasione dell’Iraq»2. Si tratta di una “nebulosa” di testi anche molto diversi tra loro, ma che hanno
in comune un tratto fondamentale: un respiro “epico”. Nel saggio vengono citate svariate opere
che rispondono a questo principio, tra cui Black flag di Valerio Evangelisti (2002), Romanzo
criminale di Giancarlo De Cataldo (2002), Dies irae e Hitler di Giuseppe Genna (2006 e 2008),
Lezioni di tenebra e Cibo di Helena Janeczek (1997 e 2002), Gomorra di Roberto Saviano (2006),
Una storia romantica di Antonio Scurati (2007), Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones
(2007).
1
Si vedano Romano Luperini, La fine del postmoderno, Guida, Napoli 2005, e il cosiddetto “Ritorno alla realtà”
proposto dal numero 57 di “Allegoria”.
2
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009, p. 79.
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sopravvivenza, sempre all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi,
popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi,
Le opere del New Italian Epic (da ora in poi abbreviato in NIE), dunque, sono “grandi
opere”, non per la dimensione fisica, ma perché mettono in scena soggettività che rimandano a
questioni – storiche, sociali, politiche - di importanza collettiva. L’obiettivo che si pongono è molto
ambizioso: nonostante siano spesso ambientate nel passato, attraverso questa operazione
vogliono ridare senso al presente e gettare lo sguardo al futuro. I testi che fanno parte della
nebulosa del NIE hanno alcune caratteristiche in comune, di cui però solo una è indispensabile:
una nuova etica del narrare che si propone di ritagliarsi uno spazio di critica seria a livello politico,
umani, che si rendono necessari perché «noi siamo intossicati dall’adozione di punti di vista
“normali”, prescritti, messi a fuoco per noi dall’ideologia dei dominanti. È imperativo
La lingua: stile linguistico che va oltre la classica divisione tra prosa e poesia e
accaduto se un evento nel corso della storia fosse andato diversamente; tratto presente
3
Ivi, p. 14.
4
Ivi, p. 81.
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Gli oggetti narrativi non-identificati: testi che non possono essere ingabbiati in una
le loro considerazioni presentano vari punti in comune con la definizione wuminghiana di NIE.
Raffaele Donnarumma, per esempio, afferma che negli scrittori di oggi è chiaramente percepibile
un ritorno al ruolo etico della narrazione, così come al ruolo sociale degli scrittori stessi6. Giuliana
mitopoiesi” e su come questi testi adattino l’importante tradizione del romanzo storico alle nuove
esigenze letterarie della nostra società7. Anche Emanuela Piga Bruni, nell’individuare nella “lotta” e
nel “negativo” due filoni principali nel romanzo storico contemporaneo, sottolinea le tonalità
epiche tipiche della prima categoria e l’“impegno” che questo tipo di scrittura presuppone: «i
romanzi storici che narrano lotte dimenticate e possibili infondono coraggio e trasmettono
immaginazione»8..
5
L’esperimento più significativo da questo punto di vista viene dai Wu Ming, che hanno creato un sito
(www.manituana.com) dove i lettori del loro romanzo Manituana (2007) possono pubblicare elementi correlati al
mondo del testo.
6
Raffaele Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi, in «Allegoria», 57, 2018.
7
Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano. Storia, memoria, narrazione, Carocci, Roma 2012.
8
Emanuela Piga Bruni, La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2018, p.
216.
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Considerando le caratteristiche delle opere del NIE, il contrasto nei confronti della tendenza
apre la discussione con una chiara condanna nei confronti dei «postmodernismi da quattro soldi»9
fatti di citazioni, pastiches, parodie, “strizzate d’occhio compulsive”. Il vero bersaglio di questa
critica, però, non è tanto il postmodernismo di Umberto Eco (le cui opere, benché indirettamente,
mantenevano una certa critica della società) quanto invece il postmodernismo degli anni
Questa polemica, tuttavia, non indica necessariamente che le opere del NIE cancellino il
postmodernismo, sovvertendolo alla base; anzi, alcuni tratti “utili” del postmodernismo
permangono. Donnarumma, per esempio, parla dell’emergere di un nuovo tipo di intellettuale, per
certi versi postmoderno, anche prendendo in considerazione Giuseppe Genna, uno degli autori
più vicini al NIE: la varietà dei materiali ripresi in questi romanzi e la labilissima distinzione tra storia e
una nuova funzione etica. Benvenuti e Ceserani, inoltre, rilevano la presenza – in entrambi i filoni
contemporanea – di:
sovrapposizione dei piani temporali, la proliferazione delle voci e dei punti di vista e
l’abolizione della distinzione fra letteratura alta e letteratura popolare (con un riuso
9
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, cit., p. 7.
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Ming 1 propone a partire dalla nota definizione del postmoderno tratta dalle Postille a Il
molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che
lei (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una
Secondo Wu Ming 1, invece, lo scrittore dovrebbe ormai essere in grado di dire «nonostante
Liala, ti amo disperatamente», perché solo in tal modo «la dichiarazione d’amore inizia a ricaricarsi
di senso»12.
10
Giuliana Benvenuti, Remo Ceserani, Autori collettivi e creazione di comunità: il caso Wu Ming, in L’autorità
plurima. Scritture collettive, testi a più mani, opere a firma multipla, Bressanone 10-13 luglio 2014, pp. 10-11.
11
Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1983, p.39.
12
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, cit., p. 24.
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I Wu Ming, si è detto, sono un collettivo di scrittori, diventato noto al grande pubblico grazie
al successo del loro romanzo d’esordio, Q (1999), pubblicato sotto il precedente pseudonimo di
Luther Blissett (i Wu Ming nascono infatti dalla sezione bolognese del Luther Blissett Project). Q,
romanzo sulla rivolta dei contadini in Germania nel periodo della Controriforma, è anche la prima
tappa di una ininterrotta riflessione sulla Rivoluzione, che prosegue con Asce di guerra e 54
(entrambi ruotano attorno alla rivoluzione mancata dei partigiani in Italia), Manituana (sulla
rivoluzione americana), Altai (legato a Q, l’ambientazione viene riportata al XVI secolo) e L’armata
dei Sonnambuli (sulla rivoluzione francese). Nel considerare l’opera dei Wu Ming, è sempre
necessario tenere presenti le ragioni che rendono particolarmente significativo l’impiego del
passato storico che ricorre nei loro testi. Alcune osservazioni di Wu Ming 2 sono particolarmente
«il ritorno al passato, per noi, nasce dal bisogno di capire come funziona la
macchina della storia: come si produce l’oblio, e come lo si può colmare. […] Come si
ricaduta sul presente è prima di tutto critica: grazie alla distanza temporale, grazie ad
archivi parzialmente ordinati, raccontare la Storia diventa una palestra del raccontare
altrimenti, una palestra dove si rafforzano muscoli critici e consapevolezze che possono
I Wu Ming, dunque, mirano a una letteratura che sia capace di dar vita a una
cronologica rispetto agli eventi presentati nel testo, ne condivida le lotte. In quest’ottica si
13
Raccontare altrimenti. Cinque domande su letteratura e storia, 15 ottobre 2015, su www.wumingfoundation.com.
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comprende meglio l’importanza del ricorso a una nuova mitopoiesi: come insegna Barthes,
infatti, un mito che rimane in condizione statica mantiene una carica conservatrice.
I principi delineati sono certamente presenti in Q14, romanzo storico che segue le
(dis)avventure di un protagonista senza nome dal 1518 al 1555: è il periodo della riforma
protestante, delle guerre di religione in Germania e della stampa clandestina. La questione delle
identità dei personaggi principali è molto interessante, dato che si tratta di un romanzo in cui la
vera protagonista è la storia, storia delle masse come motore dell’azione, dei contadini che
combattono accanto al protagonista. Gian Paolo Renello ha parlato di “identità mutanti”, sia in
riferimento al protagonista – il quale nel corso del testo assume vari nomi (tra cui i più noti sono Gert
Nell’agnizione finale, viene rivelato che Q è una spia al servizio del cardinale e futuro papa
Giovanni Pietro Carafa. Se ogni volta che una sua avventura finisce tragicamente il protagonista
cambia nome, bisogna tenere presente che «ogni volta che l’identità muta non viene
[…] da sostrato per le nuove identità in azione»15. È così che il protagonista diventa davvero un
eroe collettivo: «Nomi di morti, adesso. Non avrò più nomi, mai più. Non legherò la vita al cadavere
di un nome. Così li avrò tutti»16. Anche Q ha un’identità mutante, ma in questo caso la funzione è
del tutto diversa: si tratta di identità-coperture che gli permettono di agire nell’ombra («sei come
un’ombra, uno spettro che scivola al margine degli eventi e aspetta nel buio»17), nascondendo il
Tra i personaggi storici di rilievo che appaiono o vengono evocati nel romanzo, come
Martin Lutero, Gian Pietro Carafa (il futuro papa Paolo IV) e Thomas Münzer, il più significativo è
14
Il successo di Q ne fece anche un’ispirazione per le manifestazioni – dalle conseguenze tragiche – contro il G8 di
Genova nel 2001.
15
Gian Paolo Renello, Q. Romanzo storico e azione politica, «Centre de recherches italienna», 20/21, Université Paris
X – Nanterre, giugno 2001, p. 352.
16
Luther Blissett, Q, Einaudi, Torino 1999, p. 82.
17
Ivi, p. 170. Sono le parole del protagonista appena capisce che Magister Thomas è stato ingannato da un certo Qoèlet.
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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dei capi della rivolta dei contadini) incarna la volontà rivoluzionaria di cambiare il sistema alla
radice, dalla prospettiva politico-economica come da quella spirituale. Il suo motto, Omnia sunt
communia, è il principio che guida le azioni del protagonista per tutto il romanzo, anche dopo la
cattura e la morte del Magister. L’alone mitico che la sua figura assume, dunque, fa sì che Münzer,
più che un personaggio storico, diventi un vero e proprio simbolo della lotta universale, «un’icona
che condensa la speranza nella vittoria degli oppressi, dei subalterni, di quella moltitudine che
Come è ormai evidente, Q non è affatto una semplice ricostruzione storica, ma ha una
dimensione politica molto consistente. In questo senso, la scelta stessa del periodo storico
di un’epoca somiglia molto alla sua fine, e noi oggi assistiamo alla fine della modernità,
mondiale del commercio eccetera), e col lavoro salariato sostituito da nuove forme di
Se la dimensione politica del romanzo è sempre stata al centro della ricezione e della
critica su Q, è comunque importante osservare, come fa Giuliana Benvenuti, che anche se «non
possiede una dimensione politica intrinseca», poiché questa emerge piuttosto dai «discorsi che
precedono e accompagnano la sua pubblicazione, da una sorta di paratesto diffuso in rete che
fornisce la chiave di lettura rivoluzionaria a chi segua Luther Blisset», rimane sempre il fatto che Q
18
Il trattato di Ernst Bloch, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, è una fonte importante per la caratterizzazione di
questo personaggio.
19
Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico, cit., p. 78.
20
Wu Ming, Giap! Tre anni di narrazione e movimenti, Einaudi, Torino 2003, p. 171.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
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«induce il lettore a sentirsi parte di una comunità in lotta che attraversa il “tempo lungo” di una
storia plurisecolare»21.
21
Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico, cit., pp 74-75.
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Helena Janeczek, nata in Germania da genitori ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah, è
una scrittrice che fa dell’indagine sulle radici familiari e della ricostruzione storica due principi
fondamentali per la sua narrativa. Così, le sue opere, oltre ad essere pienamente ascrivibili alla
nebulosa del NIE (i primi due romanzi, Lezioni di tenebra e Cibo, sono direttamente citati nel saggio
concetto che descrive la relazione tra i figli dei sopravvissuti e dei testimoni di traumi collettivi e le
neoepico. Come sottolinea Lorenzo Marchese, è emblematico di quel potere della scrittura che
consiste nel «partire dai documenti ed espanderli, conferendo loro un potere comunicativo più
ampio di quello che effettivamente lo storico ne trae»23. Il romanzo di Janeczek ruota attorno a un
personaggi, sempre nell’ottica della ricostruzione delle storie sommerse. Quando narra le vicende
di un personaggio senza avere a disposizione dati storici affidabili, l’autrice ricorre alla finzione
letteraria, con la costante preoccupazione della plausibilità di tale ricostruzione; per esempio,
quando si trova a narrare del soldato Kułakowski a partire solo da una manciata di date che lo
un corpo immaginario quale tributo alla sua vera vita: vorrei pervenisse a questo il potere simbolico
tratto del what-if, del discorso ucronico che caratterizza molte opere del NIE, anche quelle che
22
M. Hirsch e L. Spitzer, «War stories. Witnessing in Retrospect», in, Image and Remembrance. Representation and
the Holocaust, a cura di S. Hornstein e F. Jacobowitz, Indiana University Press, Bloomington 2003.
23
Lorenzo Marchese, Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction, Quodlibet, Macerata 2019, p. 113.
24
Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda, Parma 2010, p. 343.
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non si pongono esplicitamente come ucronie. D’altronde, Le rondini di Montecassino inizia proprio
con what-if: durante una conversazione in taxi, la narratrice discute con l’autista della battaglia di
Montecassino a cui suo padre ha preso parte. Poco dopo, però, il lettore capisce di aver appena
letto come sarebbe andata la conversazione se la narratrice non avesse risposto con una serie di
bugie improvvisate. D’altra parte, suo padre non ha mai partecipato alla battaglia di
Montecassino come soldato del generale Anders: come la stessa Janeczek ha scoperto solo prima
del funerale del padre, veniamo a sapere che perfino il suo cognome è falso, l’aveva cambiato
Steinwurzel (poi Milek, e in Italia Emilio), combattente a Montecassino, che, come fece suo padre,
non raccontò la verità sul suo trascorso – o meglio, non raccontò nulla a riguardo. Per questo
motivo, Janeczek traccia un parallelismo tra il padre e Emilio: «Milek o Emilio era quel che mio
padre avrebbe voluto essere, il suo doppio immaginario a cui tutto questo libro è dedicato»25.
Questa è una caratteristica importante del ruolo dell’invenzione nelle Rondini: la significatività,
Un aspetto ancora più importante riguardo il ruolo della finzione romanzesca nel testo di
«la storia di una vita salvatasi grazie a un'invenzione diventa parte di una storia
più grande ma dai contorni plurali, composta di una moltitudine di storie dimenticate,
perse nel tempo e in una geografia fatta di campi di concentramento, fosse, sacrari e
25
Ivi, p. 361.
26
Emanuela Piga, Epica, storia e memoria. «Le Rondini di Montecassino» di Helena Janeczek, in «Bollettino ‘900»,
2012, n. 1-2, http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2012-i/Piga.html
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Se le vicende di Emilio, infatti, fanno riemergere anche quelle di tanti altri ebrei polacchi
dimenticati dalla storia, anche i protagonisti delle numerose altre storie narrate nel libro di
Janeczek assolvono alla stessa funzione: benché la battaglia sia stata combattuta sul suolo
italiano, vi parteciparono soldati da varie parti del mondo. L’opera si sofferma sulle strategie di
Maui Hira, soldato maori, viene raccontata nella terza parte del romanzo (insieme alle vicende del
nipote Rapata Sullivan nel presente); la seconda parte del libro, invece, è dedicata al sergente
John “Jacko” Wilkins, della divisione texana mandata a morire sulla linea Gustav. Quelle di Charles
Maui Hira e di Jacko Wilkins, tra gli altri, sono prospettive personali che vanno oltre la singola storia
e vogliono invece ridare voce, rendere giustizia, a tutti i combattenti che vi presero parte. È
dunque lecito osservare che il mosaico di storie che ruota attorno alla battaglia di Montecassino
nasce «sulla spinta di una memoria che definirei, «sulla scia di Michael Rotbergh, multidirezionale,
opposta alla memoria competitiva che, nel lottare per il riconoscimento della memoria e della
27
Ibidem.
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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neoepico
Bibliografia
Testi primari:
Testi secondari:
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi,
Torino 2009
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Indice
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Sia il romanzo che le serie TV si presentano al lettore o allo spettatore come veri e propri
psicologia dei personaggi, infatti, configurano un quadro in cui molteplici mondi possibili (attivati
dalle visioni del mondo dei personaggi, come dai progetti e dalle ipotesi che si intersecano in una
polifonia) coesistono in una narrazione complessa1. Anche la dimensione della serialità, che può
sembrare un’esclusiva delle serie TV, non è estranea al romanzo: bisogna ricordare la fortuna del
“romanzo a puntate” nell’Ottocento (si pensi al feuilleton francese). Autori del calibro di Charles
Dickens e Honoré de Balzac pubblicavano i loro romanzi in rivista, a cadenza episodica; per cui,
“puntate” apparse in precedenza – che a volte, per invogliare il lettore ad acquistare il numero
capitoli definitiva.
Nonostante l’iniziale reticenza della critica nei confronti dell’inclusione della serialità
televisiva negli studi accademici, il paragone tra quest’ultima e la grande narrazione del romanzo
ottocentesco (sia nella forma popolare che nel grande romanzo realistico) è stato tracciato da più
parti3. Ovviamente vale lo stesso anche per il gemello naturale della televisione e della serie TV, il
cinema, anch’esso medium visuale: non a caso, spesso i criteri estetici propri della sfera
cinematografica sono gli stessi adoperati per riconoscere le serie “di qualità”. La differenza
principale tra questi due tipi di narrazione viene efficacemente riassunta da Bandirali e Terrone:
1
Il concetto di “mondi possibili” è qui inteso secondo i principi della teoria dei mondi possibili, in particolare seguendo
Marie-Laure Ryan, Possible worlds, artificial intelligence and narrative theory, Indiana university press, Bloomington-
Indianapolis, 1991.
2
Emanuela Piga Bruni, Mediamorfosi del romanzo popolare: dal feuilleton al serial TV, in “Between”, vol. IV, n. 8,
novembre 2014, p. 7. Il cliffhanger è un momento di sospensione narrativa che blocca la narrazione proprio in un
momento che appare cruciale per il suo svolgimento.
3
Si vedano, tra gli altri, Emanuela Piga Bruni, Romanzo e serie TV. Critica sintomatica dei finali, Pacini editore, Pisa
2018; Daniela Cardini, La lunga serialità televisiva. Origini e modelli, Carocci, Milano 2004; Aldo Grasso, Buona
maestra: perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Mondadori, Milano 2007.
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livello, mentre il racconto seriale si svolge su tre livelli: la puntata, la stagione e la serie
Come osserva Daniela Cardini, dunque, la serialità televisiva si avvicina a un’idea di «cinema
espanso», poiché amplifica «le potenzialità narrative e gli universi di senso compressi nella ristretta
dimensione temporale del film» mentre aggiunge anche «la forza dell’immagine alle grandi
Un altro carattere fondamentale della serialità televisiva – non a caso definita come
“endlessly deferred narration” da Matt Hills – è il senso di attesa che divide i singoli episodi (anche
se la pratica del binge-watching, facilitata da piattaforme di streaming online come Netflix, può
annullare questa dimensione) e le varie stagioni. Queste “pause”, infatti, permettono anche il
proliferare di fandom in cui gli spettatori trovano uno spazio di confronto per le loro congetture,
anche molto elaborate, sul futuro svolgimento delle vicende o sui punti “oscuri” che rimangono da
sciogliere nell’universo narrativo di una data serie. Il Web, dunque, come andava delineandosi
lentamente già dagli anni Novanta, è diventato l’estensione transmediale principale per la serialità
televisiva odierna; a tal proposito, è sintomatico che gran parte degli spettatori usufruiscano delle
serie TV su computer, tablet e smartphone: dopo aver visto una serie in rete, è forte l’impulso di
digitarne il titolo sul motore di ricerca, per confrontare (attivamente o non) le proprie impressioni
4
Luca Bandirali, Enrico Terrone, Filosofia delle serie tv. Dalla scena del crimine al trono di spade, Mimesis, Milano
2012, p. 24.
5
Daniela Cardini, Il tele-cinefilo. Il nuovo spettatore della Grande Serialità televisiva, “Between”, vol. IV, n.8,
novembre 2014, p. 12.
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Il magistrato Giancarlo De Cataldo scrive in uno stile rapido, scorrevole e godibile: uno stile,
insomma, che oltre a rispondere a quell’estetica della velocità propria della narrativa degli anni
Zero, è anche eminentemente cinematografico. Non sorprende, dunque, che dalle sue opere più
riuscite siano stati tratti film e serie TV di successo. Il suo Romanzo criminale (2002), benché non sia
organizzata in Italia e, allo stesso tempo, si inserisce nella cornice del “ritorno alla Storia”, dal respiro
epico, della narrativa contemporanea. Romanzo criminale – nelle parole di Wu Ming, «un’Iliade
sull’Italia anni ’80, sulle sue voracità, stracciona e terribile»6 – narra le vicende della Banda della
Magliana nella Roma degli anni Ottanta (più precisamente, il lasso temporale va dal 1977 al 1992)
e, dunque, presenta al lettore lo scontro tra i membri della banda (guidata dal Libanese) che
vogliono “prendersi” Roma e la magistratura, rappresentata dal commissario Nicola Scialoja e dal
procuratore Fernando Borgia. Nonostante De Cataldo sia «senz’altro uno dei rappresentanti di
spicco della rinnovata intenzione civile della nostra letteratura»7, la sfera morale del romanzo è
continuamente pervasa da un’ambiguità tipica del genere noir (c’è chi ha osservato la presenza
di un certo “fascino del male” nell’opera) e non manca di mostrare il lato marcio di una parte
degli uomini di Stato; al termine del romanzo, nonostante la fine della Banda della Magliana, risulta
evidente che le radici criminali della città sono tutt’altro che sradicate. Dall’opera di De Cataldo
sono stati tratti due adattamenti: l’omonimo film di Michele Placido del 2005 e la ancora più
Romanzo criminale – la serie rappresenta una tappa fondamentale, dal ruolo addirittura
fondante, per la serialità televisiva italiana. È stata definita, infatti, come «il primo caso di
6
Su Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, di Wu Ming:
https://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/romanzocriminale.html
7
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna 2017, p. 131.
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produzione seriale televisiva italiana a elevata originalità linguistica, tecnica e stilistica»8. L’enorme
successo della serie – peraltro rinforzato dalla imponente campagna mediatica che ne
accompagnò l’uscita – si deve in parte anche alla scelta di attori ben poco conosciuti, per questo
(sulla scorta del neorealismo) sono «ritenuti più capaci di vivere il (e nel) ruolo e permettono allo
una connotazione cult, apre la strada ad alcune delle più brillanti serie televisive a venire, tra cui
Suburra – la serie (2017 - in corso) di nuovo tratta da un romanzo di De Cataldo (questa volta scritto
in collaborazione con Carlo Bonini, ed uscito nel 2011), di nuovo ambientata in una Roma cinica e
Suburra preclude ogni liricità: l’amarezza e lo squallore del crimine che pervade la capitale non
lascia spazio a deformazioni poetiche, e, perlomeno nel romanzo, prevale il registro del ritratto
amaro. L’universo transmediale di Suburra si espande sul versante cinematografico con il film dello
stesso Stefano Sollima (2015), rispetto al quale la serie TV si pone come un prequel che racconta il
tentativo di scalare il potere da parte di tre giovani: Spadino, Aureliano (il futuro boss di Ostia,
la prima produzione originale Netflix italiana: dopo la proiezione in anteprima dei primi due episodi
alla mostra del cinema di Venezia, la serie è stata distribuita sulla piattaforma di streaming
attualmente si attende l’uscita della terza e ultima stagione. A conferma del ruolo pionieristico di
Romanzo criminale, basta scorgere rapidamente le recensioni di Suburra: la frequenza con cui i
due titoli vengono accostati è paragonabile solo a quella in cui ricorre il richiamo a Gomorra; a
titolo esemplificativo, in una di queste recensioni si legge: «this is the potential that I saw back in the
8
Adiano D’aloia, Romanzo Criminale, in A. Grasso, M. Scaglioni (a cura di) Televisione convergente. La tv oltre il
piccolo schermo, Link-RTI, Milano 2010, p. 199.
9
Catherine O’Rawe, Romanzo criminale, la serie: stardom, ideologia, nostalgia, in “Bianco e nero”, 581, gannaio-
aprile 2015, p. 44.
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Brilliant, intriguing, violent» [questo è il potenziale che ho visto al tempo di “Romanzo criminale – la
serie” trasferito in una serie indirizzata ad un pubblico internazionale. Geniale, intrigante, violenta]10.
10
Recensione dal sito IMDb, https://www.imdb.com/title/tt7197684/reviews?ref_=tt_ov_rt
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV
3 Il brand Gomorra
Gomorra. La serie (2014- in corso; regia di Stefano Sollima), distribuita in oltre 190 paesi in tutto
(Gomorra, 2006), a cui avevano già fatto seguito un film (2008, regia di Matteo Garrone) e una
trasposizione teatrale (2007, regia di Marco Gelardi). Secondo Benvenuti, è proprio a partire dalla
serie che possiamo considerare Gomorra un vero e proprio media franchise12: questa, infatti, non
storytelling:
ricomporli13.
Da qualsiasi lato ci si approcci all’universo mediale di Gomorra (anche dalla parodia dei
“The Jackal”), dunque, si ha accesso ad una porzione della storia che, spesso e volentieri, invoglia
a rivolgersi alle altre produzioni su cui questa si estende, in una logica del tutto affine a quella delle
più note saghe transmediali (si pensi agli universi Marvel e DC).
Gomorra. La serie è un’estensione della materia narrativa del romanzo e del film e segue
le vicende di personaggi che non apparivano in questi ultimi; essendo ambientata negli anni
successivi al 2006, inoltre, segue l’evoluzione del Sistema della camorra, anche grazie alle ricerche
11
Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, Dalla crossmedialità all’ecosistema narrativo. L’architettura complessa
del cinema hollywoodiano contemporaneo, in F. Zecca (a cura di), Il cinema della convergenza. Industria, racconto,
pubblico, Mimesis, Milano-Udine 2012.
12
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, cit., p. 123. Per media franchise si intende «un
metatesto potenzialmente infinito e aperto alla creatività» (Ivi, p. 114).
13
Micol Lorenzato, «Gomorra». Transmedialità vera o presunta?
https://www.academia.edu/8613680/Gomorra_transme- dialità_vera_o_presunta.
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successive di Saviano, tra cui le dichiarazioni a lui rilasciate da Maurizio Prestieri, ex boss inserito
nelle dinamiche dell’alleanza di Secondigliano. Il fatto che Saviano stesso, che ha collaborato alla
sceneggiatura, abbia certificato la coerenza della serie con il progetto di denuncia avviato dal
suo romanzo, assicura il mantenimento di quel “patto di realtà” che pone ai realizzatori della serie
la sfida di creare un prodotto di successo «senza tradire il sistema valoriale che struttura il brand
Gomorra, fondato sull’intenzione di evitare la creazione di affascinanti eroi del male»14. È pur vero,
tuttavia, che la serie – rispondendo ai meccanismi costitutivi della serialità televisiva stessa -
presenta personaggi a cui lo spettatore può affezionarsi, e riprende molti aspetti tipici del gangster
Prendendo avvio dalle vicende del boss Pietro Savastano, della moglie Imma e del figlio
Genny che si sviluppano in una sempre più intricata faida tra clan, la serie «costruisce una
mostruosa epica del male, che solamente contaminandosi con la distopia, mantiene una distanza
critica verso ciò che rappresenta»15. La dimensione distopica viene sottolineata anche da Aldo
Grasso – secondo il quale Gomorra, grazie a una «scrittura capace di trasformare le vele di
Scampia in una lunga veglia nelle tenebre, in un’intollerabile monotonia del male», è «il racconto
di una civiltà esausta, senza redenzione»16. È proprio nell’ottica della distopia bisogna leggere la
sistematica assenza di un lieto fine che (ad oggi) caratterizza la serie e che ha una funzione
positivamente nella finzione e tanto più starà a noi contrastare nei fatti l’ordine negativo che la
distopia rappresenta»17.
Nonostante il fatto che Gomorra. La serie sia diventata rapidamente un cult, portando
anche a fenomeni di citazione delle frasi più emblematiche dei boss da parte anche dei giovani
camorristi di oggi (sul modello Scarface), è comunque necessario riconoscere che l’obiettivo di
denuncia che caratterizza il brand Gomorra nel suo complesso non viene in tal modo sradicato;
14
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, cit., p. 130.
15
Ivi, 135.
16
Aldo Grasso, «Gomorra», la serie è meglio del film, in «Corriere della Sera», 7 maggio 2014.
17
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, cit., p. 135.
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oltre alla funzione critica di una rappresentazione distopica, infatti, rimane vero che, come si usa
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L’espressione Ferrante Fever (diventato anche un hashtag attraverso cui i suoi fan si
riconoscono online) la dice lunga sul successo internazionale di Elena Ferrante, in modo particolare
generalmente ignorato questo fenomeno, ascrivendolo più o meno implicitamente alla letteratura
di consumo. È invece fondamentale rivolgere la giusta attenzione alle opere di questa autrice, se è
vero che «Elena Ferrante è in questo momento l’emblema della letteratura italiana nel mondo»18.
identità – pubblica il suo primo romanzo nel 1992: L’amore molesto. Questo e i due romanzi
successivi (I giorni dell’abbandono, 2002, e La figlia oscura, 2006) confluiranno in un unico volume
in virtù di una certa affinità tematica (Cronache del mal d’amore, 2012). Ma il successo su scala
mondiale prende il via con la quadrilogia che comprende L’amica geniale (2011), Storia del nuovo
cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014). Le
protagoniste di questa vera e propria saga, che copre un vasto arco temporale, dal 1950 ai giorni
nostri, sono Elena Greco e Raffaella (Lila) Cerullo. La storia della loro amicizia continuamente in
bilico tra affetto e invidia, prevalentemente ambientata nello scenario degradato della periferia
napoletana, ci viene raccontata dall’infanzia alla vecchiaia attraverso la voce narrante di Elena –
che, grazie ad alcuni stratagemmi, spesso si sdoppia in quella dell’amica, in una prospettiva
Tiziana De Rogatis ha individuato quattro ragioni principali per il successo della quadrilogia
dell’Amica geniale (all’estero nota come la serie delle Neapolitan Novels); le prime due sono
genere), e le restanti sono maggiormente connesse alle tendenze della narrativa contemporanea
18
Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano, in
D. Balicco (a cura di), Made in Italy e cultura, 2016, p. 288.
19
Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, edizioni e/o, Roma 2018, pp. 42 e seguenti.
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV
nell’inversione delle gerarchie tra centro e periferia tipica del mondo globalizzato;
saga. Elena Ferrante rappresenta donne capaci di «rielaborare gli stati di “frantumaglia” o
senza farsi interamente abitare da esso». Entrambe parole chiave della poetica di Elena
mentre la “frantumaglia” è la «parte di noi che sfugge alla riduzione in parole o ad altre
forme e che nei momenti di crisi riduce a se stessa, dissolve, l’intero ordine dentro cui
serialità televisiva.
Non a caso, L’amica geniale (2018 – in corso) è oggi una serie TV italo-statunitense, creata
da Saverio Costanzo e distribuita su Rai Fiction e HBO. Con un grande successo di pubblico e
rispettivamente 88% e 96%), L’amica geniale è un’ottima candidata come esempio di quality
20
Elena Ferrante, La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Edizioni E/O, Roma 2016, p. 302.
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV
television21 di stampo nostrano. A proposito del successo riscosso dalla serie alla messa in chiaro
il pubblico ha risposto, mantenendo alti gli ascolti, ben oltre i 6 milioni di telespettatori a
serata, e questa è una vittoria che attendevamo come l’aria: che il pubblico generalista si
sedesse ogni lunedì a guardare su Rai 1 una serie HBO, una serie con i sottotitoli, una serie il cui
questa stagione, gli anni ’60 del Boom, attraverso gli occhi di chi, quasi sempre, è stato in
21
Il concetto di quality television è stato introdotto da R. J. Thompson in riferimento alla seconda “età dell’oro” della
televisione americana, a partire dalla metà degli anni Ottanta. Secondo Kristin Thompson, le serie che rispondono ai
principi della quality television presentano tipicamente un’alta complessità narrativa, ibridazione dei generi,
autoriflessività e una tendenza al realismo. Si veda Kristin Thompson, Storytelling in Film and Television, Harvard
University Press, Cambridge 2003.
22
Alice Cucchetti, “L’amica geniale”: bilancio di una serie che ha cambiato la tv italiana (e ha raccontato tutti noi)
https://www.rollingstone.it/opinioni/opinioni-tv/lamica-geniale-bilancio-di-una-serie-che-ha-cambiato-la-tv-italiana-e-
ha-raccontato-tutti-noi/505908/#Part1
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV
Bibliografia
Testi primari:
Ead. Storia di chi fugge e di chi resta, Edizioni E/O, Roma 2013.
Romanzo criminale. La serie, Reg. Stefano Sollima, Cattleya e Sky Cinema, (2008-2010)
Gomorra. La serie. Reg. Stefano Sollima, Sky, Cattleya, Fandango, (2014- in corso)
L’amica geniale. Reg. Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher, Wildside, Fandango (2018
– in corso)
Testi secondari:
Emanuela Piga Bruni, Romanzo e serie TV. Critica sintomatica dei finali, Pacini editore,
Pisa 2018
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV
Luca Bandirali, Enrico Terrone, Filosofia delle serie tv. Dalla scena del crimine al trono
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna
2017
Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, edizioni e/o, Roma 2018
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Indice
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Nonostante il cinema sia con tutta probabilità l’arte con cui la letteratura ha intrattenuto il
rapporto più significativo nel corso del Novecento, all’inizio del secolo la maggior parte degli
scrittori italiani vi guardavano quasi con arroganza e, quando collaboravano con l’industria
cinematografica, il più delle volte lo facevano in sordina. Verga, per esempio, quando vendette i
diritti di adattamento per alcune sue novelle, si assicurò prima che il suo nome non apparisse nella
consideravano utile il cinema, ma solo in quanto mezzo di divulgazione popolare, certo non in
Con l’avvento del sonoro, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, le cose
iniziano lentamente a cambiare, e dal secondo dopoguerra in poi diventa ormai evidente che il
cinema è un’arte narrativa al pari del romanzo; anzi, si ha l’impressione che inizi a batterlo sul suo
stesso campo: dalla sprezzante superiorità iniziale, la letteratura inizia a sperimentare addirittura un
complesso di inferiorità nei confronti del cinema. Si inizia a parlare di una grammatica strutturale
del cinema – dibattito che si afferma in Italia soprattutto grazie a Pasolini, che, com’è noto, oltre
che scrittore, fu un brillante regista e sceneggiatore1 – mentre in molte opere letterarie è ormai
Dal momento in cui il cinema ha assunto un ruolo predominante nel sistema delle
arti e dei mezzi di comunicazione, si sono andate via via sviluppando generazioni di
scrittori che hanno desunto dal cinema non solo una serie di modelli iconografici e
Sul fronte teorico, allo studio dei rapporti di reciproca influenza tra letteratura e cinema si
1
Si vedano Pier Paolo Pasolini, La lingua scritta della realtà (1966), in Id. Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di
W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999 e le più recenti riflessioni di Christian Metz, Semiologia del cinema.
Saggi sulla significazione del cinema, Garzanti, Milano 1972.
2
Federica Ivaldi, Effetto rebound. Quando la letteratura imita il cinema, Felici, Ghezzano 2011, p. 18.
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è dedicata in misura crescente la comparatistica (il raggio d’azione della letteratura comparata,
disciplina dallo «statuto fluttuante»3 che studia le relazioni tra testi scritti in lingue ed epoche
diverse, non poteva non includere anche l’analisi intersemiotica dei rapporti tra la letteratura e le
alla relazione tra le arti, poste tutte rigorosamente sullo stesso piano nel tentativo
alla luce dei due concetti chiave di ibridazione (tra i linguaggi e le forme) e di
contaminazione4.
Per quanto riguarda il caso specifico in analisi, il parallelo tracciato da Calvino nelle Lezioni
cinema. Secondo Calvino, infatti, la letteratura possiede una qualità fondamentale, la visibilità,
che attiva il nostro «cinema mentale» attraverso «il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi,
di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di
pensare per immagini»5. Nel caso del cinema, dunque, è l’immaginazione mentale del regista,
stimolata dal testo della sceneggiatura, a produrre immagini “vere”, impresse sulla pellicola e
3
Massimo Fusillo, Marina Polacco (a cura di), La letteratura e le altre arti. Atti del convegno annuale
dell’Associazione di teoria e studi di letteratura comparata, numero di «Contemporanea» n. 3.
4
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, in Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate,
Carocci, Roma 2014, p. 171.
5
Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp. 94- 102.
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Si è detto che, a differenza della maggior parte delle altre arti, il cinema condivide con la
narrativa e cinema utilizzano codici espressivi e strumenti medium-specifici diversi (e non potrebbe
essere altrimenti, dal momento che l’uno agisce nella sfera visuale, mentre l’altra è legata alla
Nel narrare una storia, i due linguaggi ricorrono a strategie comuni tanto
nell’organizzazione delle sequenze narrative – si pensi al ricorso alla figura del flashback
che capovolge nell’intreccio l’ordinato susseguirsi di eventi della fabula – quanto nei
meccanismi messi in campo per dosare la tensione del plot creando effetti di sorpresa
I rapporti tra le due arti, dunque, agiscono su più livelli, che possiamo riassumere in due
macro-aree:
- Il livello tematico: i temi letterari sono stati fin dalle origini un repertorio fondamentale
per il cinema, ma ormai questa relazione è valida anche nella direzione opposta (e in
cinematografico, adattandoli alla pagina scritta. La tecnica del montaggio, per esempio, si
ritrova in opere costruite per tagli e accostamenti inusuali; similmente accade con il riuso
delle tecniche di inquadratura, che nel testo portano all’assunzione di punti di vista
particolari.
6
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, cit., p. 180.
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particolare. Infatti, oggi la teoria degli adattamenti non mette più al centro il criterio di fedeltà
all’originale, che aveva dominato a lungo il dibattito sul tema7. Ogni opera, anche se è una
trasposizione, è dotata della propria originalità, e deve essere riconosciuta come tale: a tal
“transcodificazione” e “ri-creazione”, che rendono più giustizia a «quel doppio sforzo, ermeneutico
e creativo, con il quale fa necessariamente i conti chi si appresta a rappresentare con stile,
7
Per uno studio fondativo per le nuove direzioni della teoria dell’adattamento, si veda Linda Hutcheon, A Theory of
Adaptation, [trad. it.] Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie tra letteratura, cinema, nuovi media, Armando,
Roma 2011.
8
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, cit., p. 182.
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3 La tematica cinematografica
La rilevanza che il cinema assume nella narrativa contemporanea, anche come repertorio di
temi e generatore di tendenze, è notevole. Si è spesso parlato degli anni Novanta come un
decennio “scarno” sul fronte letterario, e Gabriele Pedullà osserva a ragione che «gli eroi degli anni
Novanta non ci sono giunti dalla letteratura, ma dal cinema»9. Se Pedullà fa questa affermazione
nel rilevare che i modelli principali della narrativa di Tommaso Pincio sono cinematografici (gli “a-
eroi” dei suoi romanzi assomigliano molto ai protagonisti dei film dei fratelli Cohen, da Il grande
Lebowski a L’uomo che non c’era), si tratta di un principio altrettanto riscontrabile in buona parte
dei narratori degli anni Zero. Il protagonista della Separazione del maschio (2008) di Francesco
Piccolo, per esempio, fa il montatore, mestiere quanto mai azzeccato, le cui mansioni rimandano
anche al modo in cui il protagonista gestisce la sua realtà, le sue riflessioni e la sua visione del
mondo. Il tema centrale del romanzo è la vita sentimentale del protagonista, “inspiegabilmente”
lasciato dalla moglie all’improvviso, in realtà adultero seriale e irredimibile. Il suo bisogno di avere
più relazioni extraconiugali contemporaneamente risponde a una nevrosi che si manifesta anche
all’interno del film, il mio modo di lavorare è digressivo. Spezzetto il film per segmenti
narrativi: da qui a qui, e allora è come se avessi a che fare con venti film in un film10.
consiste nel raccontare minuziosamente i dettagli delle sue giornate e dei suoi incontri, omettendo
“solo” la componente del rapporto sessuale –si ripresenta a sua volta nella tecnica di montaggio
9
Gabriele Pedullà, L’amore ai tempi di Twin Peaks, «Il Caffè illustrato», 5, marzo-aprile 2002.
10
Francesco Piccolo, La separazione del maschio, Einaudi, Torino 2008, p. 18.
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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema
C’è una verità oggettiva, di sostanza, che è il film come è stato scritto e come è
stato girato. C’è una scena in cui il protagonista entra in casa ed è stupito per il
disordine che trova. E poi ce n’è un’altra in cui è triste. Prendo il primo piano della
era in realtà di delusione. Tutto ciò che è successo per davvero si perde, non esiste più,
Al di là dei riferimenti (che pure sono una presenza costante) a film ben precisi, o
all’immaginario cinematografico inteso in senso più ampio, dunque, il livello più profondo su cui
agisce l’influenza cinematografica nel romanzo di Piccolo è quello della modalità di pensiero del
modo per godere nella molteplicità, senza scottarsi con grandezze intere e non scomponibili come
può stupire, se si considera che, dopo aver esordito come scrittore alla fine degli anni Novanta,
Piccolo inizia ben presto anche a firmare delle sceneggiature: le sue collaborazioni più note su
questo fronte sono probabilmente quelle con Nanni Moretti e Paolo Virzì. Dal 2008, con Caos
Calmo (regia di Antonello Grimaldi), tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, Piccolo si
cimenta per la prima volta con le sceneggiature tratte da opere letterarie, esperienza che ripeterà
firmando, tra le altre, anche la sceneggiatura de Il capitale umano (2013, regia di Paolo Virzì)
liberamente ispirato al romanzo omonimo di Stephen Amidon. Quanto alla procedura della
transcodificazione di una storia dalla forma letteraria a quella cinematografica, Piccolo suona
11
Ivi, p. 58-59.
12
Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna
2018, p. 316.
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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema
avere il coraggio di tagliare cose poco funzionali al racconto cinematografico e dedicarsi a quelle
sfumature che invece rendono meglio. […] In pratica credo occorra tradire il libro per farlo
13
Da Scrivere per il cinema: intervista a Francesco Piccolo, di Paolo Borio: https://www.filmdoc.it/2015/10/scrivere-
per-il-cinema-intervista-a-francesco-piccolo/
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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema
Gomorra (2016) di Roberto Saviano non solo è un esempio emblematico delle nuove
tendenze della narrativa italiana – a più riprese individuate nel “nuovo realismo” e nella “nuova
epica italiana” – ma ha innescato anche il primo eclatante caso italiano di quella estensione di
una storia su molteplici piattaforme mediali che viene definita transmedia storytelling14. Come
impossibile non vedere il libro alla luce di ciò che lo ha seguito»15. Per poterne apprezzare il
paragone con una delle sue estensioni transmediali (il film di Matteo Garrone), è necessario
saggistica, al punto che, secondo Donnarumma, per cercare di definirlo «si potrebbe scomodare
economico e nel sogno di dominio della camorra), Gomorra restituisce al lettore un ritratto delle
strategie di dominio della camorra in diversi ambiti (dal contrabbando al traffico di droga e allo
smaltimento dei rifiuti, per citarne alcuni); eppure, non si tratta di un viaggio organico, dotato di un
preciso ordine di svolgimento: il testo procede invece quasi attraverso una giustapposizione di
indagini e inchieste senza un criterio cronologico preciso, al punto che è possibile leggere
disordinatamente i diversi capitoli del libro, senza che se ne perda il senso complessivo. A fare da
collante è proprio la figura del narratore, onnipresente testimone diretto degli eventi, che rivendica
di fronte al lettore la veridicità dei fatti narrati: a questo proposito, è ben nota la ripresa del
pasoliniano “Io so. Ma non ho le prove”, che diventa “Io so e ho le prove”. Secondo Daniele
14
Per una rassegna sulle direzioni attuali degli studi sul transmedia storytelling, si veda Marie-Laure Ryan e Jan- Noel
Thon (a cura di), Storyworlds across media. Towards a media-conscious narratology, University of Nebraska Press,
2014.
15
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna 2017, p. 8.
16
Raffaele Donnarumma, “Storie vere”. Narrazioni e realismi dopo il postmoderno, «Narrativa», 31-32, 2020.
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Giglioli, quello che colpisce maggiormente il pubblico, ed è quindi alla radice dello straordinario
successo dell’opera, è che Saviano «è andato là dove noi non avremmo avuto il coraggio di
andare […] se ci appassioniamo al suo “io c’ero” è perché fa da contraltare al nostro “io non
c’ero”»17. Una ragione almeno altrettanto importante che spiega la calorosa ricezione del libro
internazionale: Saviano non mette sotto una lente d’ingrandimento solo la realtà napoletana, ma
parla dettagliatamente dell’esistenza di una rete fittissima di traffici commerciali dei clan casalesi
Gomorra, come molti modelli cinematografici statunitensi che raccontano le storie dei più
noti boss mafiosi, presenta un linguaggio iperbolico che risente dell’influenza del pulp, ma i
propositi che guidano questa strategia sono sensibilmente diversi. Come nota Benvenuti, oltre a
Pasolini, Primo Levi e il New Journalism, infatti, uno dei modelli principali dell’opera di Saviano è
Scarface (1983, regia di Brian De Palma), che ne diventa una sorta di sottotesto. La
spettacolarizzazione di un certo “fascino del male” di cui Scarface è intriso ha avuto una
ripercussione non solo sull’immaginario (giovanile e non) nel riuso delle frasi di Tony Montana, ma,
Le ville dei camorristi sono le perle di cemento nascoste nelle strade dei paesi del
Schiavone, fratello di Sandokan [...]. Si racconta a Casal di Principe che il boss aveva
chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella del gangster cubano di
Così, Saviano «riusa gli stessi elementi della narrazione “epica” della vita dei boss e ne
utilizza anche il linguaggio, per costruire una controepica, un’epica della ribellione»19, riuscendo a
17
Daniele Giglioli, Lui c’era al posto mio, «Alias», 28 ottobre 2006.
18
Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006, p. 267.
19
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna 2017, p. 75.
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descrivere efficacemente lo squallore della camorra e della violenza perpetrata dai suoi adepti,
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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema
L’adattamento cinematografico di Matteo Garrone esce nelle sale italiane nel maggio del
2008 e riscuote subito un buon successo. Quello che era l’imperativo di Saviano – rappresentare il
Sistema senza lasciare il minimo spazio al fascino per il potere dei boss – rimane centrale nel film di
Garrone, ma le strategie che adotta in questo senso sono piuttosto diverse. Se Saviano utilizza un
linguaggio iperbolico nel tentativo di decostruire il mito dall’interno, Garrone rinuncia del tutto
all’eccesso, evitando le ben consolidate convenzioni del gangster movie di scuola hollywoodiana,
con un’unica eccezione: la scena iniziale del massacro nel solarium, un richiamo intertestuale del
film di Brian De Palma, Gli intoccabili (1987)20. È altrettanto vero, però, che il contrasto segnato dal
cambio di rotta che segue il violento incipit è funzionale a disattendere le aspettative dello
spettatore, guidandolo in un altro tipo di percorso. Garrone elimina del tutto la figura del narratore-
testimone (Saviano stesso) che nel libro era onnipresente: «la forza della parola che denuncia,
sociale»21. Il risultato è un riuscito ritratto della banalità del male che emerge attraverso cinque
storie tra loro indipendenti, che seguono le vicende di personaggi secondari, senza soffermarsi sulla
vita dei boss veri e propri e premendo molto sulla questione degli adolescenti attratti dal mondo
dell’illegalità in un velleitario sogno di potere, dall’esito regolarmente tragico (dal tradimento del
la retorica cinematografica anche attraverso la durata media delle scene22 . Anche la scelta di
usare il dialetto, spesso parlato da attori non professionisti, risponde alla stessa esigenza mimetica.
Queste caratteristiche sono tipiche della poetica che ricorre negli altri film di Garrone:
i suoi non sono film politici, ma sono film girati politicamente: più che «l’aspetto
20
Ivi, p. 84.
21
Ivi, p. 100.
22
Dom Holdaway, Osservazioni sulla retorica di «Gomorra», in W, Hope, L. D’Arcangeli e F. Stefanoni (a cura di), Un
nuovo cinema politico italiano, Troubador, Leicester 2014
https://www.academia.edu/10243259/Osservazioni_sulla_retorica_di_Gomorra
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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema
delle informazioni». […] Partendo dalla perlustrazione di una situazione, dallo studio dei
luoghi e dei comportamenti più che delle psicologie, Garrone arriva spesso a una
non impone a priori una propria visione, ma si limita a osservare fino in fondo23.
ho voluto fare un film contro il “Sistema”, ma sul “Sistema”»24), per lo più funzionale – si è detto – a
segnare uno scarto rispetto al pericoloso effetto-glamour dei boss mafiosi tipico del modello
“ordinaria” criminalità, lascia che lo squallore quotidiano della camorra parli da sé, evocando
23
P. De Sanctis, Il crepuscolo della bellezza. Lo sguardo e il metodo di Matteo Garrone, in De Sanctis, Monetti e
Pallanch (a cura di), Non solo Gomorra. Tutto il cinema di Matteo Garrone, Ed. Sabinae, 2008, p. 9.
24
R. Porton, Inside the System; An Interview with Matteo Garrone, in «Cineaste», 2, 2009.
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Bibliografia
Testi primari:
Testi secondari:
Ghezzano 2011
Linda Hutcheon, A Theory of Adaptation, [trad. it.] Teoria degli adattamenti. I percorsi
delle storie tra letteratura, cinema, nuovi media, Armando, Roma 2011
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna
2017
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo, transmedialità e arti visive
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo, transmedialità e arti visive
Indice
1 IBRIDAZIONI ...................................................................................................................................................... 3
2 IL TESTO SENZA CONFINI: MANITUANA ............................................................................................................. 5
3 LE FORME IBRIDE: UNA LETTERATURA-FUMETTO .............................................................................................. 7
4 LE FORME IBRIDE: IL FOTOTESTO ....................................................................................................................... 9
5 IL “FUMETTO DI REALTÀ” ....................................................................................................................................11
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................14
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo, transmedialità e arti visive
1 Ibridazioni
L’impiego di una prospettiva transmediale è ormai imprescindibile per qualsiasi studio che
artistiche. Gli studi transmediali, che sono ormai la direzione privilegiata da gran parte della
narratologia odierna1, si articolano in una doppia direzione, legata all’ampiezza semantica dello
stesso termine “transmedialità”: in senso più generale, allude all’applicabilità di un dato concetto
letteratura e le altre arti. Un legame particolarmente longevo in questo senso è quello con le arti
visive: si pensi all’oraziano ut pictura poësis e, sul piano pratico, alle illustrazioni nei romanzi (pratica
molto diffusa nell’Ottocento), o alle più recenti forme in cui «testo e immagine risultano inscindibili e
l’eliminazione di uno dei due produrrebbe un deficit di comprensione»3, come il fumetto, a cui
Umberto Eco (il primo in Italia a difenderne il valore artistico in una prospettiva accademica) ha
dedicato pagine importanti4. Anche il caso della contaminazione tra letteratura e fotografia è
estremamente significativo, non solo dal punto di vista tematico, indagato a fondo da Remo
Ceserani5, ma anche nella forma del cosiddetto fototesto, in cui la parola scritta coesiste con
1
Si veda Jan-Noël Thon, Storyworlds across Media. Toward a Media-Conscious Narratology, University of Nebraska
Press, Lincoln-London 2016
2
V. Innocenti e G. Pescatore, Dalla crossmedialità all’ecosistema narrativo. L’architettura complessa del cinema
hollywoodiano contemporaneo, in Il cinema della convergenza. Industria, racconto, pubblico, Mimesis, Milano-Udine,
pp. 127-138.
3
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, in Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate,
Carocci, Roma 2014, p. 174.
4
Per esempio, si veda Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa,
Bompiani, Milano 1987.
5
Analizzando i modi in cui la fotografia influenza l’immaginario narrativo, Ceserani scrive: «c’è stata da parte di molti
scrittori della modernità un’attenzione intensa e profonda per le tecniche e i modi di percezione della memoria e della
realtà interiore ed esteriore, le pratiche di cattura e di esorcizzazione di parti e dettagli del mondo, le tecniche stesse
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Emanuela Piga Bruni - Romanzo, transmedialità e arti visive
immagini fotografiche che non vanno intese come illustrazioni, ma sono dotate di una vera e
della descrizione e ricreazione letteraria». Remo Ceserani, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura, Bollati
Boringhieri, Torino 2011, p. 13.
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).
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Nell’attività (letteraria e non) collettivo di scrittori Wu Ming (“senza nome”), che gestisce
anche Giap, un blog di successo, l’elemento transmediale è sempre stato presente; questa affinità
messa in rete del sito www.manituana.com, i Wu Ming mettono a punto un progetto molto
Il romanzo Manituana – che per i fini del nostro discorso, possiamo considerare come
“mondo possibile base” – è ambientato agli inizi della rivoluzione americana e adotta la
prospettiva dei popoli delle Sei Nazioni Irochesi alleate con re Giorgio III d’Inghilterra. Includendo in
misura consistente quell’elemento ucronico che gli stessi Wu Ming identificano come componente
importante della tendenza letteraria definita New Italian Epic, l’intera narrazione prende il via a
partire da un what-if: cosa sarebbe successo se i lealisti avessero sconfitto le truppe dei coloni?
storica la riflessione su eventi fittizi, ma verosimili, Manituana riesce a raccontarci una civiltà – quella
degli irochesi, appunto, in cui i coloni e i nativi convivevano in pace e di cui è esempio la figura di
Molly Brant6 – annientata dalla violenza della nascente nazione americana. In altre parole, il
romanzo dei Wu Ming presenta al lettore «la genesi dello sterminio di un “mondo possibile”»7.
Entrando più nel dettaglio della natura transmediale dell’opera dei Wu Ming, è necessario
considerare che, attraverso la piattaforma online di Manituana, il mondo finzionale del romanzo
diventa la materia di partenza per molteplici mondi possibili che si estendono dalla sua base,
andando a costituire un grande universo narrativo, che è un ottimo esempio (sul fronte letterario)
6
È soprattutto attraverso la figura storica di Molly Brant che, in Manituana, viene messo in evidenza il carattere ibrido
e pacifico della cultura irochese: è rispettata parimenti e partecipa attivamente alla vita culturale dei coloni inglesi e dei
nativi.
7
Emanuela Piga, Una storia dalla parte sbagliata della Storia: Manituana dei Wu Ming, in Memoria e oblio: le
scritture del tempo. Atti del Convegno annuale dell’Associazione per gli studi di Teoria e Storia Comparata della
Letteratura (Lecce, 24-26 ottobre 2007), Peter Lang 2009, p. 32
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della cosiddetta “cultura convergente”8 – termine che indica la tendenza contemporanea alla
declinazione dei contenuti su tutte le piattaforme mediali. Sul sito, progettato da Andrea Alberti, si
può liberamente navigare nel mondo finzionale, attraverso approfondimenti, book trailer e
l’originale combinazione interazione tra mappe geografiche reali (con possibilità di navigazione su
Google Earth) e mappe storiche; non solo: i lettori-utenti possono contribuire attivamente allo
illustrazioni, fumetti e componimenti musicali. Il what-if, insomma, riappare nei racconti della
comunità online, che è libera di immaginare scenari alternativi e estensioni della materia narrativa;
in tal modo, «il testo sorgente dell’opera letteraria si offre alla co-creazione della comunità dei fan
Nella sezione “racconti ammutinati”, tra l’altro, sono presenti anche dei testi scritti dagli
stessi Wu Ming ed esclusi dalla versione finale del romanzo pubblicata in cartaceo. Includendo
questi materiali, queste “intersezioni di immaginario”, i Wu Ming recuperano – inserendoli a tutti gli
effetti nell’universo narrativo – quelli che erano i fogli accartocciati, gli sviluppi scartati da Dumas
nel racconto Il conte di Montecristo di Italo Calvino. Possiamo affermare, dunque, che grazie al
carattere transmediale dell’opera e al supporto della rete-comunità che partecipa alla sua
8
Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
9
Emanuela Piga, Comunità, intelligenza connettiva e letteratura: dall’open sourceall’opera aperta in Wu Ming, in C.
Brook, E. Patti (a cura di), Transmedia. Storia, memoria e narrazioni attraverso i media, Mimesis, Milano 2016, p. 70.
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La contaminazione tra due forme d’arte può agire sul piano dei temi e delle tecniche
tecniche proprie del cinema e della fotografia), ma può anche configurarsi come un vero e
proprio accostamento di due forme artistiche separate e legate a medium differenti, che vanno a
formare una forma “ibrida”. Questo principio vale anche per il rapporto tra la letteratura e il
fumetto, o il manga10. Un esempio della prima tipologia di influenza, nel panorama della
letteratura contemporanea italiana, è Sirene (2007), romanzo distopico di Silvia Pugno ambientato
in un futuro post-apocalittico vessato da un’epidemia di “cancro nero” che costringe gli uomini a
vivere in edifici sotto l’oceano per sfuggire ai raggi del sole (lo strato di ozono che protegge la
allevamento di sirene – creature destinate alla macellazione o alla soddisfazione delle voglie
sessuali dei membri della yakuza, la mafia giapponese. Nella nota finale, l’autrice dichiara
espressamente il aver voluto dare vita a un “manga scritto”: la profonda contaminazione con il
manga, più che sul fronte tematico, è evidente sul piano della lingua e dello stile. La lingua di
Sirene, infatti, depurata da «ogni riempitivo affettivo, viene ricondotta con severità ai suoi elementi
minimi, basilari»11. Man mano che la narrazione procede e le disavventure di Samuel si fanno più
concitate, inoltre, le frasi danno sempre più «l’idea di essere effettivamente pensate come
un’azione in corso»12.
Il primo libro di Emmanuela Carbé, Mio salmone domestico (2013), è invece un esempio di
scrittura che include nel testo veri e propri inserti fumettistici. Il libro racconta la storia di una
10
Il manga è un fumetto di origine giapponese, che si distingue per l’uso esclusivo del bianco e nero e l’ordine di lettura
delle vignette, che è invertito rispetto al corrispettivo occidentale del fumetto.
11
Andrea Cortellessa, La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), L’orma, Roma 2014, p.
273.
12
Emanuele Trevi, Da Laura Pugno dettagli oscuri di un medioevo apocalittico, «Il Manifesto», 12 luglio 2007
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immaginario o alla coscienza della protagonista, ma è anche una presenza concreta: «Ogni volta
che io e mio salmone domestico andiamo in giro per la città a noi ci viene da ridere da soli perché
a me sembra strano pensare a mio salmone domestico in mezzo alla gente e a mio salmone
domestico pare strano pensare di essere un salmone domestico che gira per le vie della città»13.
Salmone domestico, insomma, si innamora, fatica a trovare un lavoro e dorme in una cassetta di
fragole perché, quando vuole, può coprire la “o” con la pinna, in modo che si legga “fragile”.
Un aspetto che ricorre nella ricezione del libro di Emmanuela Carbé è l’esitazione nel
definire la tipologia dell’opera (romanzo? diario con le figure?); si tratta, infatti, di una forma ibrida
costruzione di un mondo, completo di tavole per esercitazioni a casa. Queste tavole sono,
appunto, le trenta pagine che concludono il libro, in forma di fumetto che racconta la storia di un
pesce rosso che vive in una palla di vetro in fondo al mare e da lì osserva il mondo, finché,
ammaliata da un pesce barbuto di nome Palomar, si arrampica fuori dall’acquario con una
scaletta; qui, il libro si conclude con una ripresa di Calvino: «Si congedò da ogni pensiero e da ogni
catalogo dei mondi possibili. Per sceglierne uno, uno solo, per “farlo durare” e “dargli spazio”»14.
13
Emmanuela Carbé, Mio salmone domestico, Laterza, Roma-Bari 2013
14
Ivi
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I primi fototesti – opere letterarie accompagnate da fotografie – sono apparsi alla fine
dell’Ottocento, ma negli ultimi decenni questa forma narrativa si è presentata con frequenza
sempre maggiore, e ormai rappresenta una tendenza importante, la cui analisi è imprescindibile
per comprendere il variegato panorama della narrativa degli anni Zero. Nel tracciare una
mappatura dei fototesti italiani contemporanei, Maria Rizzarelli individua tre tipologie principali: i
fototesti autobiografici (che spesso utilizzano immagini tratte dagli album di famiglia), i fototesti
autofinzionale) perché le fotografie che contiene servono a delineare i personaggi e le loro storie,
e infatti sono letteralmente incastonate nel discorso e non presentano didascalie. Gli scatti
(diciotto in tutto) sono di fotografi diversi, tra cui lo stesso Siti, e ritraggono un body-builder che ha il
compito di impersonare l’oggetto del desiderio di Danilo Pulvirenti, il protagonista (e alter ego dello
stesso autore) che ne è ossessionato. Solo l’ultima immagine cambia bruscamente soggetto: ritrae
un bambino in un giardino e sembra essere un riferimento alla Camera chiara di Barthes15. Nel
testo, inoltre, si legge che l’impiego della fotografia è un mezzo per tenere a bada «l’ossessione
narrativa, volta alla costruzione dei personaggi e alla messa in scena della
triangolazione fra sguardi corpi e desideri, triangolazione che costituisce l’asse portante
15
Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano contemporaneo, in G. Carrara, R.
Lapia (a cura di), Narrativa italiana degli anni Duemila: cartografie e percorsi, Presses universitaires de Paris
Nanterre, 2019, p. 49.
16
Ibidem.
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rappresenta quella categoria di fototesti che privilegiano le immagini di luoghi rispetto ai ritratti di
persone. S tratta di un testo-reportage sul paesaggio delle “case estive” della riviera romagnola,
dove Falco aveva passato le vacanze durante l’infanzia e l’adolescenza e vi fa ritorno dopo anni,
quando il suo “Condominio Oltremare” è ormai disabitato da tempo, al punto da essere quasi
irriconoscibile:
Ho dubitato che quello fosse il luogo dove avevo trascorso parecchie estati
della mia esistenza, quelle che si vorrebbero decisive nella costruzione della memoria.
Condominio Oltremare17.
in cui «la continua insistenza e riproposizione di soglie – porte, finestre, recinzioni, persino il filo
dell’orizzonte – rende visibile il percorso di uno sguardo che si addentra in uno spazio-tempo la cui
territorio abbandonato, soffermandosi ora sugli stessi dettagli, ora su prospettive differenti, ma
sempre con l’obiettivo comune di raccontare, decifrando le tracce del passato con gli occhi del
L’autorialità dell’opera, condivisa tra chi scrive e chi si occupa delle fotografie,
anche al codice delle immagini è molto significativo, soprattutto dal momento che
questo aspetto è stato a lungo trascurato, anche nella tradizione del fototesto.
17
Giorgio Falco, Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, L’Orma, Roma 2014
18
Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano contemporaneo, cit., p. 53.
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5 Il “fumetto di realtà”
letterario si è parlato spesso di “nuovo realismo”, è altrettanto vero che le stesse istanze culturali
infatti, è il cosiddetto “fumetto di realtà”, connotato da un forte impegno civile che tende a
produzione narrativa che ha raggiunto una vasta platea di acquirenti dalla fine degli
anni Novanta a oggi, coincide sempre più col racconto (se non direttamente con la
viaggio) in forma grafica; le opere di due fumettisti italiani ben noti al grande pubblico (Quaderni
russi di Igort e Kobane calling di Zerocalcare) possiamo cogliere come due strategie
rappresentative piuttosto diverse siano funzionali ad esprimere la stessa tensione civile, lo stesso
Quaderni russi. La guerra dimenticata del Caucaso (2011) fa parte di una trilogia
incentrata sul viaggio-indagine di Igort nei territori dell’ex Unione Sovietica: è preceduto, infatti, da
Quaderni ucraini. Memorie dai tempi dell’URSS (2010) e da Pagine nomadi. Pagine non ufficiali
dall’ex Unione Sovietica (2012). Nel Quaderni russi, Igort assume come modello umano e
professionale la giornalista Anna Politkovskaja, raccontando gli eventi che hanno portato alla sua
barbara uccisione e ripercorrendo gli stessi luoghi in cui ha abitato, raccogliendo le testimonianze
di chi la conosceva e, allo stesso tempo, annotando le impressioni di viaggio. Le riflessioni e gli
19
Giuliana Benvenuti, Tra nuovi realismi e fumetto di realtà, «Narrativa», 41, 2019, p. 59.
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approfondimenti storici emergono attraverso l’uso prevalente del testo scorporato e delle
completamente alle immagini, pensate per evocare una risposta emotiva nel lettore:
Anche le scene più cruente risultano, in virtù del carattere evocativo delle
immagini e del testo che le accompagna, lontane dal rischio della esibizione gratuita
impegno civile: racconta, infatti, il viaggio dell’autore tra Turchia e Siria, nei territori assediati
dall’ISIS, con l’obiettivo di informare il lettore su quanto la narrazione mainstream dei media
principali non lascia trapelare, dai rapporti tra lo stato turco e i curdi, della resistenza degli stessi
autoriale, tuttavia, è diverso rispetto a quello di Igort; d’altronde, Zerocalcare è da sempre attivo su
un versante più pop, e in Kobane calling coniuga essenzialmente l’impegno civile al fumetto di
intrattenimento, non rinunciando ad inserti comici e linguaggio autoironico. Si pensi al fatto che gli
vengono ironicamente definiti “pipponi”. A testimonianza della differenza dei due approcci, si
confrontino le quarte di copertina delle due opere, da quella di Quaderni russi, immediatamente
Dopo l’Ucraina, la Russia sulle tracce di Anna Politkovskaja, con la stessa volontà
ostinata di fare domande per capire e raccontare, Igort prosegue la sua esplorazione
segnata dalle morti violente e misteriose di tanti oppositori? Dai giornalisti uccisi ai
20
Ivi, p. 73.
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disegna, non con il distacco del cronista, ma con l’atteggiamento di chi si mette in
cammino, ascolta le voci più deboli e vuole restare umano di fronte a fatti disumani.
[…] Un appello a non voltare la testa dall’altra parte. Un libro che ci interroga a ogni
pagina21.
A quella di Kobane calling, scritta in prima persona dall’autore, che si identifica con il suo
alter ego (Zerocalcare, appunto) e che si esprime in quella lingua semplice e incisiva, contaminata
con il parlato romanesco, che è la cifra stilistica dell’aurore, riuscendo ad alludere comunque a
però ci sono cose che trascendono la geografia e parlano di altre cose, che manco
sappiamo di avere22.
21
Igort, Quaderni russi, Coconino press, Fandango, 2011
22
Zerocalcare, Kobane calling, BAO publishing, 2016
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Bibliografia
Testi primari:
Testi secondari:
Giuliana Benvenuti, Tra nuovi realismi e fumetto di realtà, «Narrativa», 41, 2019
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