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Emanuela Piga Bruni - La letteratura comparata

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. PRESENTAZIONE DEL CORSO .................................................................................................................. 3


2. DEFINIZIONI E CENNI STORICI ................................................................................................................ 5
3. AMBITI, CORRENTI, CONTESTI ................................................................................................................. 8
4. GENERI E FORME .................................................................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 18

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1. Presentazione del corso

L’intento di questo corso risiede nel trasmettere competenze volte all’interpretazione di

un’opera estetica, e con queste, la capacità di riconoscere in essa la permanenza e la

trasformazione di temi e forme di lunga durata. Lo faremo affrontando un fenomeno storico e

culturale che corrisponde anche a una metamorfosi del romanzo, soffermandoci sul processo di

ibridazione e contaminazione della letteratura con le altre arti e gli altri media, che possiamo

definire con l’espressione “intermedialità”.

Tra gli obiettivi figura quello di comunicare la capacità di comprendere e riconoscere gli

aspetti formali di un’opera – per intenderci, quelle forme che differenziano un testo estetico da un

testo sociologico, storico ecc. – l’appartenenza a generi determinati, o semplicemente la presenza

nei testi di modi tipici di determinati generi, e il loro intrecciarsi e mescolarsi nel testo. La capacità

di saper leggere o guardare un’opera comporta inoltra la comprensione delle ragioni del piacere

del testo esperito dagli spettatori, a partire da quelle strategie che stabiliscono la relazione tra

forma artistica ed esperienza estetica.

Le prime due lezioni sono dedicate a introdurre la disciplina della letteratura comparata, e

sono di carattere teorico-metodologico; ci soffermeremo sulle categorie di tema, genere, e

intermedialità. In seguito, riprenderemo questi concetti in maniera applicata attraverso la pratica

della critica letteraria, e attraverso l’analisi di casi studio specifici. Il metodo è quello classico della

comparatistica: il metodo dei campioni introdotto dal critico e filologo Erich Auerbach nella sua

fondamentale opera Mimesis: un percorso critico attraverso la letteratura occidentale che muove

dai testi fondatori, l’Odissea e la Bibbia, e arriva fino a Virginia Woolf e a Proust, incentrato

sull’analisi di opere ritenute da Auerbach fondamentali e rappresentative di particolari epoche e

temperie culturali. Dunque, una selezione di opere, e all’interno di queste, una selezione di brani

ritenuti da Auerbach a loro volta rappresentativi dell’intera opera a livello tematico e formale.

Analogamente, e ovviamente in maniera meno ambiziosa, lo faremo anche noi in un percorso

che parte dal romanzo dell’Ottocento, attraversa il modernismo e la letteratura del tardo

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Novecento, e arriva fino all’Italia degli anni Zero riflettendo costantemente su temi, generi, la

relazione con le arti visive e audiovisive, la serialità.

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2. Definizioni e cenni storici

Inizio questa lezione con una definizione del campo proveniente dal comparatista Henry H.

Remak, fautore dell’interdisciplinarità della disciplina:

la letteratura comparata è lo studio della letteratura di là dai confini di un paese

particolare e lo studio dei rapporti tra letteratura, da una parte, e, dall’altra, altre aree della

conoscenza e delle opinioni, come le arti (per es. la pittura, la scultura, l’architettura, la musica), la

filosofia, le scienze sociali (come la politica, l’economia, la sociologia), le scienze, la religione etc.

In breve, è il confronto tra una letteratura e un’altra o altre, e il confronto tra la letteratura e altre

sfere dell’espressione umana.

La comparsa istituzionale del termine risale al 1816, anno in cui fu pubblicata in Francia una

serie di antologie per l’insegnamento letterario dal titolo Cours de littérature comparée, mentre

invece il corrispettivo inglese, comparative literature, compare per la prima volta in una lettera di

Matthew Arnold del 1848. La prima cattedra fu istituita in America nel 1890 a Harvard, e in Europa

all’università di Lione nel 1897. L’espressione entrò in uso con Paul van Tieghem, autore dell’articolo

La notion de littérature comparée del 1906 e del trattato La littérature comparée del 1931. Prima di

allora, si utilizzavano i termini littérature generale, e di Weltliterature, quest’ultimo creato da

Goethe.

Come ricorda un grande comparatista italiano, Massimo Fusillo, «La cosa importante da

sottolineare innanzitutto è che, in un momento travagliato come le guerre napoleoniche, Goethe

esprime insoddisfazione per la categoria di letteratura nazionale: si preoccupa per il ruolo che la

letteratura tedesca, da poco affacciatasi sulla scena europea, potrà svolgere in futuro, ma nello

stesso tempo si apre al confronto con le culture altre e con il mondo orientale (in particolare un

romanzo cinese). Un confronto che lo porterà a comporre una delle sue opere più affascinanti: Il

divano occidentale orientale, costruito come un dialogo con il poeta persiano Hāfez. […] Per

quanto non sviluppi un pensiero sistematico in proposito, e resti sempre ancorato a una visione

classicistica, Goethe coglie con singolare preveggenza alcuni tratti pregnanti: per lui la letteratura

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mondiale non implica un’unificazione progressiva di un mondo sempre più omogeneo, come

auspicavano Marx ed Engels e come paventano oggi molti intellettuali apocalittici, ma scaturisce

da una continua tensione fra il locale e l’universale (quella zona ibrida che oggi chiamiamo

glocal), fra la singola esperienza individuale e un ampio contesto di sguardi incrociati »1

Se il termine di Goethe, significante “Letteratura mondiale”, indicava uno stato di

interdipendenza tra culture nazionali, libera circolazione delle idee e la fine delle guerre, solo con

Van Tieghem il concetto di letteratura comparata “si riferisce a una disciplina specifica, rivolta sia

allo studio della modernità e dotata di suoi metodi, di suoi programmi di una coscienza storica”2.

Come spiega Fusillo, autore di libri considerati “classici” della disciplina [come L’altro e lo

stesso. Teoria e storia del doppio, 1998 (2012)],

Nata agli inizi dell’Ottocento come disciplina che metteva a confronto due autori o due

opere che erano stati sicuramente in stretto contatto (ad esempio l’influsso di Boccaccio su

Chaucer), la letteratura comparata si è espansa sempre di più, prima passando a un modello

plurale che affrontava l’irradiazione di generi e temi in diverse epoche e culture (il modello

americano succeduto a quello francese), e poi inglobando il confronto fra letteratura e altre arti,

come la pittura, la musica, il teatro, il cinema.

Per una definizione efficace e al contempo suggestiva delle caratteristiche di questa

disciplina, mi affido alle sue parole, tratte dalla nuova edizione del manuale di Letterature

comparate, curato da Francesco De Cristofaro, docente della disciplina presso l’Università di

Napoli Federico II.

«Stare da entrambe le parti di uno specchio»: Thomas Stearns Eliot descrive così al critico

Ivor Armstrong Richards nel 1924 l’esperienza di leggere testi remoti nel tempo e nello spazio, come

quelli in sanscrito. Questa bella metafora, ripresa di recente in un libro di teoria della

comparatistica sui rapporti fra Oriente e Occidente, rende perfettamente la sfida ardua che la

letteratura comparata ha da sempre affrontato (2011). Nell’immaginario umano, nel cinema, nella

1
M Fusillo, Introduzione. Passato presente futuro, in F. de Cristofaro, a cura di, Letterature comparate, Roma, Carocci, pp.
14-15.
2 N. Gardini, Letteratura comparata, p. 5.

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psicanalisi, lo specchio è una metafora potente per evocare l’alterità: vedere sé stesso come un

altro, come un doppio asimmetrico, e costruire così la propria identità attraverso il confronto,

comprese anche tutte le connotazioni di elusività che l’oggetto comporta. Stare da entrambe le

parti di uno specchio significa in fondo valorizzare un elemento che è alla base dell’atto di

confrontare, oltre a essere fondamentale in ogni relazione umana: l’empatia. Confrontare diverse

letterature, generi, linguaggi, saperi implica identificarsi pienamente con l’alterità in tutte le sue

forme molteplici, senza seguire gerarchie prestabilite.

Come spiega Fusillo, ricordare Goethe è importante perché «la Weltliteratur ha avuto uno

sviluppo vertiginoso con la piena modernità, a partire dalla rivoluzione industriale, che con le sue

innovazioni tecnologiche ha fatto circolare sempre di più le opere letterarie, fino alla nostra epoca

e alla rivoluzione digitale, che sta ridisegnando i concetti stessi di testo, autore, lettura e proprietà

intellettuale».

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3. Ambiti, correnti, contesti

«Negli ultimi anni del Novecento si è assistito a tentativi sempre meno sporadici e

occasionali di reintrodurre la comparatistica nelle nostre università. Tra i più attivi sostenitori della

disciplina in ambito istituzionale è stato Remo Ceserani, autore di numerosi saggi metodologici

(oltreché con Lidia De Federicis, de Il materiale e l’immaginario, un importante testo di

impostazione comparatistica per le scuole superiori). Ceserani è stato promotore e presidente

dell’Associazione per gli studi di teoria e storia comparata della letteratura, tramite tra America ed

Europa, e fondatore di una vera e propria scuola di comparatistica italiana» 3.

Partiamo dalla delimitazione del campo riprendendo una sintesi di Ceserani tratta dal suo

Guida alla letteratura.4 Con l’espressione “letteratura comparata”, o “letterature comparate”,

“letteratura generale”, si intende lo studio delle letterature su base non ristrettamente nazionale (o

nazionalistica).

Oltre che dello studio dei rapporti e confronti tra le diverse tradizioni letterarie, la disciplina

si occupa anche:

 degli aspetti generali della produzione, comunicazione e ricezione della letteratura

 teoria della letteratura, teoria e storia dei generi letterari

 retorica e stilistica

 sociologia letteraria; dei rapporti tra i diversi codici della comunicazione culturale

 letteratura e arti figurative, letteratura e teatro, letteratura e media audiovisivi, letteratura e

musica

 letteratura e ideologie, tradizioni nazionali e tradizioni locali, tradizioni sovranazionali

 storia letteraria

 multiculturalismo

3 N. Gardini, Letteratura comparata, cit.


4 R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999.

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Si tratta di una disciplina di studio che gode di forte prestigio in gran parte delle università

del mondo, ha istituzioni molto solide in Francia e negli Stati Uniti, in paesi piccoli o d’incrocio

culturale come per esempio l’Ungheria, la Romania, l’Olanda, il Portogallo o il Sudafrica, in paesi

che hanno una lunga tradizione di chiusura su di sé ma desiderano aprirsi verso il resto del mondo

come la Cina, e anche in paesi grandi ed emergenti come l’India, il Brasile o il Giappone, mentre

incontra non poche difficoltà ad avere un suo posto dignitoso nel sistema culturale e universitario

italiano.

La disciplina ebbe in tutta Europa, Italia compresa, una notevole fioritura nella seconda

metà dell’Ottocento, nell’atmosfera culturale positivistica (in analogia con altre forme di

comparatismo: linguistico, biologico, giuridico ecc.). In Italia l’insegnamento scomparve dalle

università nel corso del Novecento. A questa espulsione contribuì indirettamente, con le sue idee

estetiche e la campagna antipositivistica, Benedetto Croce, che denunciò le debolezze teoriche e

metodologiche degli studi di letteratura comparata che venivano condotti in Italia in quei tempi,

spesso ridotti a pura erudizione positivistica. Tuttavia, Croce ammetteva la legittimità di molti studi

comparativi: nel campo della storia delle idee o della critica dei temi letterari.

Una figura importante della comparatistica a livello mondiale è René Wellek, nato a

Vienna, di origine ceca ed emigrato in America alla fine degli anni Trenta. Wellek fu protagonista a

partire dagli anni Cinquanta, e in concomitanza con la nascita dell’Associazione internazionale di

letteratura comparata (AILC/ICLA), della polemica contro la scuola comparatista francese. I suoi

interventi, tra i quali il capitolo di Theory of Literature (1949), intitolato General, Comparative, and

National Literature, contribuirono ad allontanare ancora di più la comparatistica americana dalle

tendenze positivistiche. Ecco un brano dal suo discorso tenuto al secondo congresso

dell’Associazione internazionale a Chapell Hill nel 1958:

[…] Quello che io, e molti altri, sosteniamo è l’abbandono dei concetti meccanistici e

fattualistici ereditati dall’Ottocento a favore della vera critica. Critica significa interesse per i valori

e le qualità, per una comprensione dei testi che incorpora la loro storicità e quindi richiede una

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storia della critica per consentire tale comprensione; essa, infine, significa una prospettiva

internazionale che preveda il lontano ideale di una storia letteraria e di una disciplina di studio con

caratteri universali.5

Il modello che proponeva Wellek era di un lavoro critico su base non nazionale, incentrato

sulla grande tradizione letteraria europea, ispirato alle scuole filosofiche ed estetiche “alte” del

Novecento: il neokantismo, la fenomenologia husserliana, l’estetica tedesca, la linguistica

moderna, la critica stilistica, il formalismo russo e lo strutturalismo praghese. Sul piano degli studi

letterari, gli ispiratori erano i grandi romanisti come il tedesco Ernst Robert Curtius, l’austriaco Leo

Spitzer e il tedesco Erich Auerbach, del quale è importante ricordare il suo capolavoro –

considerato un classico della disciplina – Mimesis, scritto a Istanbul negli anni della Seconda guerra

mondiale, perché ebreo costretto all’esilio dalla persecuzione nazista.

Questi studiosi avevano contrapposto al nazionalismo dei germanisti l’apertura verso la

tradizione latina umanistica e quella moderna francese, e propugnato l’incontro tra filologia

germanica e filologia slava. A questo si accompagnava la convinzione della necessità della

denazionalizzazione dei dipartimenti, e del superamento della divisione tra storici e critici della

letteratura.

Va detto che in questa concezione gli studi letterari, e anche la creatività letteraria,

avevano connotazioni chiaramente elitistiche, fondate su un’alta tradizione intellettuale. Il

rapporto con la realtà sociale era scarso o inesistente. Successivamente si sono affermate nuove

scuole e nuove ideologie, alcune di queste in rapporto con le trasformazioni della società; oltre

alla linguistica hanno iniziato ad avere un ruolo importante la retorica, l’informatica, la teoria delle

comunicazioni; agli studi letterari si sono affiancati quelli cinematografici, e in generale, c’è stato

un fenomeno di disseminazione dei metodi e dei saperi.

Uno degli effetti più interessanti della crisi è stato l’effetto che, sui concetti e sui metodi

guida degli studi comparati hanno avuto i movimenti di rivendicazione dell’identità razziale (Black

Studies, Ethnic Studies) o sessuale (Gender and Women Studies, Queer Studies). Al contempo,

5 Il discorso è stato pubblicato qui: R. Wellek The Crisis of Comparative literature, in Concepts of Criticism, pp. 19-20 e 36;
trad. it. Concetti di critica, Boni, Bologna, 1970.

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l’ondata decostruzionista attaccava anche questi ultimi. L’operazione di rivendicazione e

recupero dell’identità e della soggettività negata espresso dagli studies si veniva a scontrare con

l’avvento di filosofie e ideologie impegnate proprio a destrutturare o decostruire la soggettività in

generale.

Un altro aspetto della crisi riguardò la critica all’eurocentrismo che caratterizzava diverse

espressioni della disciplina. Le nuove prospettive del multiculturalismo apertesi in America in seguito

a cambiamenti sociali e culturali profondi, alla sempre più forte presenza, alla difesa e alla

riscoperta delle proprie radici culturali da parte delle molte componenti etniche che costituiscono

il mosaico culturale americano (i neri di origine africana, gli ispano-americani, i caraibici di cultura

francofona, gli asiatici ecc.). Tuttavia, la rivendicazione delle specificità delle singole tradizioni

etniche e culturali non è solo un fenomeno tipico dell’America contemporanea, ma è una

prospettiva più ambia e globale, costituita dai nuovi assetti mondiali tipici dell’età postcoloniale e

globale.

4. Generi e forme

Inizio questo paragrafo con un brano di Francesco De Cristofaro, docente presso

l’Università Federico II di Napoli, curatore di un recente, chiaro ed esauriente, manuale critico di

letterature comparate: «Forse la prima domanda che s’impone quando ci imbattiamo in un

qualsiasi testo – quando ce lo troviamo davanti sullo scaffale di una libreria reale o virtuale,

quando ci viene consigliato da una recensione, quando siamo i terminali temporanei d’un fortuito

bookcrossing – è quella che riguarda il suo genere di appartenenza».6

«La definizione dei generi letterari costituisce uno dei problemi più dibattuti della

comparatistica e della teoria letteraria fin dal Cinquecento, quando su basi aristoteliche, nasce

una moderna teoria dei generi. Un’altra tappa fondamentale nella storia della teoria dei generi va

6 F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, (2014) 2020, p. 33.

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collocata in età romantica, quando Hegel, nell’Estetica, distingue i tre generi dell’epica

(oggettiva), della lirica (soggettiva) e del dramma (sintesi delle altre due). Dopo quello di Hegel il

contributo più significativo alla teoria dei generi è stato L’evoluzione dei generi nella storia della

letteratura (1890) di Ferdinand Brunetière – un monumento del positivismo -, che coniuga la teoria

dei generi all’importantissima questione del rapporto tra nuovo e tradizione. 7

Una volta estratte certe caratteristiche dall’archetipo, lo studio dei generi può essere

solamente «uno studio delle sue trasformazioni, cioè del modo e del grado in cui i tratti distintivi,

isolati in un certo numero di opere in base alla somiglianza dell’una con le altre, si sono mantenuti

e/o perduti nel corso della storia»8. Come ha scritto Claudio Guillen, autore di uno dei più

importanti manuali di letterature comparate, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura

comparata:

Storicamente i generi occupano uno spazio le cui componenti evolvono nel corso dei

secoli. Sono modelli che vanno cambiando e che ci tocca, in ciascun caso particolare situare nel

sistema o polisistema letterario che sostiene un momento determinato nella evoluzione delle forme

poetiche.9

Che cos’è un genere? E di conseguenza, in termini più pragmatici: a cosa serve? Che

contributo porta allo studio della letteratura? Per rispondere al meglio a queste questioni mi

rifaccio alla lucida riflessione di Federico Bertoni, docente di Teoria della letteratura presso

l’Università di Bologna, esposta nel suo recente libro Letteratura. Teorie, metodi, strumenti:

Di fatto, le concezioni essenzialiste che lo vedono come un’entità “reale”, dotata di vita

propria e identità sostanziale, si iscrivono in paradigmi teorici ormai impraticabili, che si tratti della

filosofia hegeliana o del positivismo ottocentesco. [..] Da parte nostra, non possiamo che

collocarci nell’orizzonte più scettico che domina il Novecento, quando non mancano teorie e

riclassificazioni anche molto complesse ([…] ma il genere diventa una categoria aperta e fluida, a

codificazione debole, una cornice che deve essere continuamente spostata e riposizionata […].

7 N. Gardini, Letteratura comparata. Metodi, periodi, generi, Milano, Mondadori, 2002, p. 15.
8 Ibidem.
9 C. Guillen, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 153.

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Già nel 1925, in un saggio intitolato La costruzione dell’intreccio, Boris Tomaševskij notava che dei

generi è impossibile dare “una qualsiasi classificazione logica e definitiva. La loro ripartizione è

sempre storica, cioè vale solo per un periodo storico determinato; inoltre essa si fonda

simultaneamente su più caratteristiche” […]. Se insomma il genere continua a esistere anche in

piena modernità, vengono meno i presupposti che ne fondavano lo statuto e il ruolo nelle epoche

precedenti. Innanzitutto si allenta o si rompe del tutto il nesso tra specificazioni tematiche e opzioni

espressive, quell’intersezione funzionale tra modi e oggetti dell’imitazione che – l’abbiamo visto – è

il principio generativo del concetto di genere. Nella concezione classica, dalla Poetica di Aristotele

fino al Romanticismo, il genere definisce infatti una serie di rapporti convenzionali tra il piano del

contenuto e il piano dell’espressione, un nesso di interdipendenza tra forme e temi in assenza del

quale «non vi è genere» […]. Ad esempio, la tragedia si trova all’intersezione tra un modo di

enunciazione (drammatico), un registro espressivo (stile grave o sublime), eventuali regole

compositive (unità di tempo, luogo e azione) e una specificazione di contenuto articolata in

termini di ceto (personaggi d’alto rango), andamento della trama (rovescio di fortuna, catastrofe,

esito nefasto), peculiarità tematiche (colpa, hybris, crudeltà degli dèi, ironia del destino, conflitto

inconciliabile ecc.).

D’altra parte, come nota Paolo Bagni, «tra l’opera e il genere non è (più) pensabile una

relazione di appartenenza, relazione semplice e univoca; sia che si intenda l’appartenenza al

modo di una esecuzione di un modello, esempio di una regola, sia come condivisione,

incarnazione di un’essenza» (Bagni, 1997, p. 44). Di per sé, una fondata e sistematica teoria dei

generi presuppone che singoli elementi (i testi) vengano raggruppati in classi logiche (i generi) sulla

base di relazioni d’appartenenza, nel senso che un elemento x appartiene alla classe Y quando ne

condivide tutte le proprietà, secondo la proposizione «x è un Y» (ad esempio, «la Fedra di Racine è

una tragedia»). In realtà le cose non sono mai così semplici nemmeno in epoche a forte

normatività poetica, nemmeno per i generi classici della tradizione: difficilmente si trovano singoli

testi che esemplificano perfettamente tutte le proprietà della classe generica, e che quindi

possono essere identificati in modo univoco come parti di un insieme, con il relativo nome di

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genere (poema epico, tragedia, commedia ecc.). Nel suo commento alla Poetica del 1548,

Francesco Robortello nota puntigliosamente che solo Edipo re soddisfa in modo perfetto le

condizioni poste da Aristotele per la tragedia. Figurarsi dopo la svolta romantica, con il tramonto

delle poetiche normative e lo sviluppo di nuovi generi (primo fra tutti il romanzo) che hanno

confuso e destabilizzato gli assetti tradizionali.

Dunque, una nozione centrale e persistente che però si sfalda tra le mani, sia sul filo della

storia letteraria che di un ricco dibattito teorico in cui regnano confusioni terminologiche,

ambiguità concettuali, classificazioni difformi o del tutto incompatibili. L’ancoraggio ad altri

paradigmi scientifici non regge. I generi non sono (come) le specie della biologia, definite da

precisi tratti morfologici e fisiologici, programmate da un codice genetico che si trasmette (anche

se con variazioni) da un esemplare all’altro e che certifica univocamente l’appartenenza

dell’individuo al gruppo. Non sono nemmeno vere classi logiche, perché il rapporto di implicazione

dei singoli elementi nella classe è troppo aleatorio, variabile nel tempo e nello spazio, ridotto nei

fatti a casi puramente teorici. Nel migliore dei casi sono classi empiriche, «stabilite con l’osservanza

del dato storico o al limite con l’estrapolazione a partire da questo dato, vale a dire con un

movimento deduttivo sovrapposto ad un primo movimento sempre induttivo e analitico» […].

In termini operativi, una buona soluzione è concepire il genere come un fattore intermedio,

un’interfaccia semiotica, una maglia di quella complessa catena comunicativa che unisce

l’autore e il lettore di un testo. Sul fronte della produzione, i generi sono programmi, manuali di

istruzioni, modelli di scrittura, sistemi codificati di possibilità tematiche e stilistiche che un autore

trova nel suo repertorio, nella cultura letteraria che ha a disposizione. Ovviamente il valore

modellizzante di questo programma (che è anche un primo schema di interpretazione del mondo)

dipende da uno specifico campo di tensione, storicamente mutevole, che è il rapporto fra

tradizione e innovazione, convenzione e rottura, conferma delle norme o rielaborazione creativa.

Predomina ad esempio nelle fasi di classicismo o poetica normativa, quando gli scrittori tendono a

produrre opere che si conformano a modelli ideali e a precise regole compositive, spesso

codificate da manuali o trattati. Oggi incide soprattutto nell’ambito della letteratura di genere o

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paraletteratura […], che struttura i reparti delle librerie postmoderne e restituisce a questa antica

categoria tutta la sua funzionalità operativa, critica e soprattutto commerciale. Quella

paraletteraria è infatti una produzione che funziona secondo la più ovvia logica di genere: cornici

editoriali chiare, spesso incluse in apposite collane, marche testuali riconoscibili e ripetizione

sistematica degli stessi motivi, personaggi, schemi narrativi, cliché. Se «tutti i generi letterari sono

ontologicamente ripetitivi in diverse maniere e a gradi diversi», la paraletteratura «ha la sua

specificità in materia di ripetizione», con procedure semplici e collaudate: ripresa, ridondanza,

iterazione insistente, moltiplicazione […]. Così ogni (sotto)genere acquisisce e rafforza le sue

peculiarità, include automaticamente i testi che vi si conformano, diventa subito riconoscibile per

un affezionato pubblico di riferimento. Anche violare le regole del gioco significa confermare,

benché in negativo, il valore strutturante della cornice generica. Se scrivo un romanzo poliziesco so

che devo metterci un cadavere, un detective, un’indagine, un sistema di indizi da svelare

gradualmente, con un dosaggio calibrato di suspense e sorpresa. Magari so che esiste tutta una

tradizione del giallo “problematico” (Chandler, Dürrenmatt, Sciascia), molto meno razionale e

prevedibile della detective story classica alla Conan Doyle. Ma se mi chiamo Carlo Emilio Gadda e

scrivo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, un romanzo poliziesco in cui c’è un investigatore

filosofo e psicologo, teorico della molteplicità delle cause e dell’infinita complessità del mondo, in

cui l’indagine sul delitto si perde in mille rivoli con l’aggrovigliarsi della trama e lascia il giallo

insoluto, convoco un modello di genere per sabotarlo dall’interno, deludendo o sorprendendo il

lettore, costringendolo a ristrutturare le sue attese e il rapporto di implicazione tra romanzo e

contenitore generico.

Il genere agisce infatti in modo simmetrico sul versante del lettore. Delinea un orizzonte

d’attesa e funziona come uno «schema di ricezione» […], un codice di lettura, un pacchetto di

regole convenzionali con cui il lettore decodifica il testo attraverso processi di conferma, smentita,

variazione o correzione rispetto a un modello interiorizzato. È cioè parte di una competenza

letteraria acquisita attraverso la scuola, la critica, la lettura di altri testi, la familiarità con certi

sottogeneri, i circuiti di produzione editoriale o il semplice sentito dire. «Si può dire che un genere

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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sia una funzione convenzionale del linguaggio, una particolare relazione con il mondo che serve

come norma o aspettativa per guidare il lettore nel suo incontro con il testo» […]. Se appunto

leggo un romanzo poliziesco mi aspetto un cadavere, un investigatore, un’indagine e

(possibilmente) una convincente soluzione del caso. Se il nome di genere è commedia mi aspetto

un lieto fine, di solito un matrimonio. Se ho davanti agli occhi un sonetto so che il testo, a

prescindere dal contenuto, si dispone in due quartine e due terzine di endecasillabi variamente

rimati tra di loro. Se leggo I promessi sposi sapendo che è un romanzo storico, magari dopo che

l’insegnante mi ha spaccato la testa con Walter Scott, lo storicismo, la poetica manzoniana e le

diatribe teoriche sul nuovo genere, interpreto meglio i documenti d’archivio citati nel testo, la

compresenza di personaggi reali e immaginari, le digressioni storiografiche, i due infiniti capitoli

sulla peste e il complesso rapporto paratestuale tra il romanzo e la Storia della colonna infame.

In questo si rivela anche la dimensione “culturale” dei generi letterari, sempre

profondamente legati alle circostanze storiche, ai sistemi di valori, alle ideologie, ai tratti costitutivi

della società in cui si formano e si sviluppano.10

Con altre parole, quelle di Francesco De Cristofaro, «[…] prima insomma di entrare nel

sistema complesso della cultura, un testo si forma, ovvero si costituisce e si cristallizza secondo

l’idea di letteratura che una tradizione, un contesto storico e un soggetto autoriale hanno

negoziato nel tempo. Nelle arti, come non si danno generi puri, non si danno nemmeno forme

pure, esecuzioni non mediate di protocolli estetici: tra la messa a punto d’una poetica e la sua

attuazione poietica (parole entrambe derivate da poieo, “fare”) si frappongono una miriade di

filtri, di scarti, di rifrazioni, che possono giungere persino a invertire il rapporto logico/cronologico fra

i due momenti, facendo del primo una sorta di risarcimento concettuale ex post dell’altro». 11

Se la nozione di genere è invasiva nelle posizioni della critica, nei dintorni dei testi e nei

cataloghi delle biblioteche, anche quella di “forme” non manca di sfaccettature e declinazioni.

«Forme, difatti, si dicono sia le figure, i procedimenti, i trucchi e i ferri del mestiere con cui “si fa”

un’opera (dalla rima al parallelismo, dallo stream of consciousness alla digressione), sia le

10 F. Bertoni, Letteratura, cit., pp. 217-220.


11 F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, cit., p. 34.

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costellazioni dei modelli al di là del genere in cui essa idealmente si colloca: si pensi – e saranno

non a caso i principali aspetti di cui si tratterà qui – alle molte rinascite moderne dell’epos,

all’oceano della narrazione breve, all’inafferrabile menippea». 12

12 Ibidem.

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Bibliografia

 Bertoni, Federico, Letteratura. Teorie, metodi, strumenti, Roma, Carocci, 2018

(2020).

 Brugnolo, Stefano [et al.], La scrittura e il mondo: teorie letterarie del

Novecento, Roma, Carocci, 2016.

 Ceserani, Remo, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999.

 De Cristofaro, Francesco (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci,

(2014) 2020.

 Gardini, Nicola, Letteratura comparata. Metodi, periodi, generi, Milano,

Mondadori, 2002.

 Gnisci, Armando (a cura di), Letteratura comparata, Milano, Bruno

Mondadori, 2002.

 Guillen, Claudio, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura

comparata, Bologna, Il Mulino, 1992.

 Wellek, René, The Crisis of Comparative literature, in Concepts of Criticism;

trad. it. Concetti di critica, Boni, Bologna, 1970.

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Indice

1. LA CRITICA TEMATICA ............................................................................................................................. 3


2. TEMI, MITI, TOPOI ..................................................................................................................................... 6
3. LA LETTERATURA E LE ALTRE ARTI ........................................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 17

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1. La critica tematica

In questa lezione sono tratteggiate le caratteristiche della critica tematica, una corrente

importante della letteratura comparata. Per sintetizzare alcune questioni principali, riporterò qui

una selezione di brani rilevanti tratta da un utile strumento metodologico, il manuale di letterature

comparate curato da Francesco De Cristofaro, di cui è appena uscita la seconda edizione. 1 Inizio

dal capitolo di Emilia Di Rocco dedicato a un elemento fondamentale di questa disciplina: la

relazione tra temi, motivi e topoi.

Di Rocco ricorda come nella seconda metà del Novecento la critica tematica abbia

rivelato una straordinaria vitalità, attestata anche dall’interesse che diverse discipline, dal folklore

alla psicologia, linguistica e letteratura, hanno manifestato per questo campo di indagine.

«Benché si sia parlato di un «ritorno della critica tematica» […]2, tuttavia l’attenzione per questo

approccio critico non è mai venuta meno, anzi spesso si è rinnovata proprio grazie alla svolta da

parte di chi aveva abbracciato altre posizioni quali ad esempio quella dello strutturalismo e della

semiotica. Lavori significativi che hanno segnato la direzione degli studi in questo settore sono

spesso opera di studiosi che hanno alle spalle altre esperienze, come Claude Bremond e Thomas

Pavel, rispettivamente due autorità della semiotica e dello strutturalismo che hanno curato,

insieme a Joshua Landy, Thematics: New Approaches (1995)»3.

«Nel panorama italiano si possono ricondurre al campo tematico gli studi di Mario Praz sulla

storia della cultura e del gusto (1930) e, in tempi più recenti, quelli di Cesare Segre, il quale dopo

l’interesse per la semiotica è approdato alla critica tematica con scritti di fondamentale interesse

per l’evoluzione di questo campo di indagine». […] «In anni più recenti devono sicuramente essere

menzionati i significativi interventi di Ceserani, Giglioli, Pellini Viti e altri sul numero 58 di “Allegoria”,

che riprendono il discorso sulla critica tematica riattualizzandolo e fornendo importanti spunti di

1 F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, (2014) 2020.


2 Utilizzando questa espressione, Di Rocco si rifà a un classico: il libro di W. Sollors (ed.) (1993), The Return of Thematic
Criticism, Harvard University Press, 1993.
3 C. Bremond, J. Landy, T. Pavel (eds.) (1995), Thematics: New Approaches, State University of New York Press, Albany (NY).

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riflessione per un campo di indagine che dalla fine del Novecento ha conosciuto notevoli

manifestazioni di interesse con un imponente “ritorno” e un rinnovato impegno teorico. […]

Recentemente è comparso in Italia il Dizionario dei temi letterari curato da Ceserani, Domenichelli

e Fasano (2007). Quest’opera parte dalle premesse teoriche esposte da Matteo Lefèvre in Tema e

motivo nella critica letteraria (in “Allegoria”, n. 45, 2003). Tenendo conto del dibattito che negli

anni si è venuto a creare intorno alla critica tematica, il Dizionario dei temi disegna un percorso ora

di tipo cronologico, ora basato su un approccio tipologico, seguendo un criterio che mira a

evidenziare una rete di connessioni all’interno della quale il tema vive e si evolve. Gli itinerari

tracciati per i singoli temi non sono, infatti, limitati alla letteratura, bensì laddove possibile si aprono

anche ad altre discipline quali la musica, l’opera e le arti figurative».4 «In realtà, come dimostrano

questi brevi accenni, il discorso sulla critica tematica affonda le radici nel passato e conosce

importanti sviluppi nel presente. A questo proposito le opere di Stith Thompson, Ernst R. Curtius e

Northrop Frye hanno aperto spazi importanti per successivi sviluppi. Il primo, compilando un nutrito

corpus di motivi del folklore, ha stimolato la ricerca e la riflessione che ben presto si è estesa anche

alla letteratura; Curtius, oltre a disegnare una mappa delle radici della letteratura moderna, in

Letteratura europea e Medio Evo latino presenta al lettore una discussione incentrata sui topoi

fondanti della tradizione letteraria occidentale; Frye con Anatomia della critica si inserisce nel

discorso della tematologia individuando i grandi archetipi letterari. […] Accanto a questi studi di

carattere più marcatamente teorico, si sviluppa anche una ricerca che ripercorre l’evoluzione di

temi e topoi in letteratura. A riprova di ciò possiamo menzionare il tema del Faust che sembra

attraversare tutta la letteratura tedesca (e non solo, basti pensare a Too Far to Walk di John Hersey

negli Stati Uniti, una delle ultime incarnazioni di questo mito moderno) dal Faustbuch (fine xv

secolo) al Doktor Faustus di Thomas Mann, passando ovviamente per il capolavoro di Goethe. […]

In Italia Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura di Francesco Orlando (1993) costituisce

4 E. Di Rocco, Temi, motivi, topoi, in F. De Cristofaro, Letterature comparate, Roma, Carocci (2014), 2020, pp. 109- 110.

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un esempio paradigmatico di critica tematica. Per quanto riguarda i miti, potremmo ricordare

L’ombra di Ulisse. Figure di un mito di Piero Boitani (1992)».5

5 Ivi, p. 113.

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2. Temi, miti, topoi

«Benché nella seconda metà del Novecento l’approccio tematico sia stato al centro degli

interessi degli studiosi di letteratura e non solo (basti ricordare qui l’opera di Aby Warburg e Erwin

Panofsky), non si può però certo dire che la critica tematica sia emersa soltanto in epoca

moderna. La letteratura, infatti, riflette sul significato del tema fin dall’antichità, tanto da poter

tracciare un percorso che attraversa tutta la tradizione letteraria occidentale».6 Nella premessa al

Dizionario dei temi letterari, i curatori affermano come «tema e motivo siano termini

interscambiabili, nel senso che ogni motivo può diventare tema, e ogni tema motivo, a seconda

dell’estensione e della capacità di strutturazione tematica che tema o motivo assumono nelle

singole opere o nel macrotesto della tradizione letteraria» (Ceserani, Domenichelli, Fasano, 2007, p.

vii). Domenichelli, uno dei curatori del Dizionario, sostiene che «la differenza tra motivo e tema non

ha dunque gran ragione d’essere nell’analisi di un tema nella tradizione [...], ma, di contro, può

avere ragion d’essere nell’analisi di un’opera come nozione differenziale, d’ordine sia quantitativo

che funzionale» (Domenichelli, 2008a, p. 41).7 «La discussione moderna sull’argomento deve molto

all’analisi teorica di Tomaševskij (Tematika, 1925) per il quale il tema di un testo è formato di tanti

temi minori, più o meno unitari, che a loro volta presentano altri elementi tematici, di dimensioni

inferiori, i motivi. Questi sono combinati e disposti secondo un ordine particolare che può seguire

un criterio causale- temporale (dando vita alle storie), oppure possono essere simultanei, come

avviene nelle lettere o nelle liriche. Gli elementi tematici sono presentati nella storia (l’azione di per

sé), mentre l’ordine causale-temporale emerge nella trama (che descrive il modo in cui il lettore

apprende l’azione). Le considerazioni di Tomaševskij si inseriscono in un contesto più ampio che

coinvolge gli studiosi del folklore, i quali ritengono che il tema di un testo emerga soltanto a

un’analisi della trama e che esso varii in dipendenza delle variazioni di alcuni intrecci costanti». […]

«Per quanto riguarda il viaggio, non c’è dubbio che l’Odissea costituisca il modello classico

6 Ivi, p. 114.
7 Ivi, p. 116.

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all’origine di innumerevoli storie di viaggio nelle quali assistiamo ad altrettante reincarnazioni di

Ulisse, come ha dimostrato Boitani (1992): dall’antichità alla modernità, dal nostos al viaggio di

scoperta, a quello immaginario, all’esilio». 8

«La definizione dei motivi è una delle aree di maggiore incertezza nel campo della critica.

[…] Dai formalisti ai flokloristi russi le definizioni sono state molteplici e differenziate, con diverse

articolazioni. In questa lezione ci limiteremo a ricordare alcune posizioni, e a sottolineare la

convergenza con l’ambito della musica, riportando alcune osservazioni di una voce importante

come quella di Ernst Robert Curtius a proposito dell’Ulisse di Joyce, che mi pare particolarmente

utile in termini di indicazioni di metodo quando si affronta un testo letterario. Prima, ricordo

brevemente due momenti rilevanti: «Il primo a parlare del motivo con riferimento alla letteratura è

stato Goethe, il quale nel corso delle sue conversazioni con Eckermann afferma: «la vera forza, la

vera efficacia di una poesia [risiedono] nella situazione, nei motivi» […]9. Sulla scia di Goethe, pur

attribuendo maggior importanza alla crescita organica della mente del poeta che non agli

strumenti e ai materiali della sua arte, Wilhelm Dilthey sostiene che il motivo può essere pienamente

compreso soltanto quando esaminato in relazione ad altri motivi e che il numero dei motivi è

limitato (Dilthey, [Gesammelte Schriften. Die Geistige Welt] 1924, p. 216), prospettando così di fatto

la possibilità di una loro classificazione». […] Il termine “motivo” compare per la prima volta

nell’Encyclopédie di Diderot nel 1765, dove la voce Motif si concentra sull’opera del Settecento,

riconoscendo nel motivo «l’idea principale dell’aria, quella che costituisce il carattere del canto e

della sua declamazione» («la principale pensée d’un air, celle qui constitue le caractere de son

chant & de sa déclamation»), e «quello distintivo del genio musicale» («ce qui constitue le plus

particulièrement le génie musical»).10

«Dalla musica la tecnica si diffonde anche nelle altre arti dove il motivo viene considerato

l’idea unificante dell’opera: basta menzionare esempi come Thomas Mann, James Joyce e

Thomas S. Eliot per capire quanto il Leitmotiv abbia influenzato la letteratura moderna.

8 E. Di Rocco, Temi, motivi, topoi, in F. De Cristofaro, Letterature comparate, cit., p. 117.


9 J.P. Eeckermann (1836-48), Conversazioni con Goethe, Einaudi, Torino 2008, p. 106.

10 E. Di Rocco, Temi, motivi, topoi, in F. De Cristofaro, Letterature comparate, cit., p. 119.

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Agli inizi del Novecento, qualche anno dopo la pubblicazione di Ulysses (1922), in un saggio

fondamentale sul capolavoro di James Joyce Ernst R. Curtius sottolinea l’importanza della tecnica

musicale per la tessitura della trama del romanzo:

Un banale frammento di esperienza viene trattato come un tema musicale e presentato in

una serie di variazioni. È questa una delle tecniche che Joyce ha ripreso dalle composizioni

musicali: l’analogia è naturalmente soltanto parziale. La variazione letteraria, a differenza di quella

musicale, ha questo di particolare: che il tema, incomprensibile quando appare la prima volta,

rivela il suo significato solo nel corso delle variazioni […].»11

«Dopo aver rilevato l’analogia tra la letteratura e la musica, Curtius richiama nello specifico

la tecnica del Leitmotiv e, sulla base di alcuni esempi tratti da Ulysses, scrive:

Il procedimento che usa Joyce dovrebbe essere diventato più chiaro: il testo

apparentemente senza significato [...] è una composizione calcolata fin nei minimi particolari che

naturalmente si riesce a capire solo se si è letto tutto il capitolo, e molto attentamente. Questa

tecnica letteraria è una trasposizione esatta della tecnica musicale basata su motivi: più

esattamente della tecnica wagneriana del Leitmotiv. Con la sola differenza che un motivo

musicale è concluso in sé stesso e appaga esteticamente; cioè si può ascoltare con piacere un

Leitmotiv wagneriano anche se non si conosce il significato dei rapporti [...]. Il motivo della parola,

invece, rimane un frammento senza senso, e assume il suo significato soltanto nella connessione

con tutto l’argomento […]».12

«Occuparsi di critica tematica vuol dire anche interessarsi ai topoi letterari, a quei luoghi

comuni, eredità in parte della retorica antica dove, come insegnano in particolare in Cicerone e

Quintiliano, sono parte dell’inventio e indicano un’attività di accumulazione, classificazione e

reperimento degli argomenti del discorso che, presenti nella mente dell’oratore, vengono

richiamati attraverso la memoria. […] A questo riguardo, qualsiasi discussione del topos letterario

11E.R. Curtius (1929), James Joyce e il suo Ulysses, in Id., Letteratura della letteratura, a cura di L. Ritter Santini, il Mulino,
Bologna 1984, p. 109.

12E.R. Curtius (1929), James Joyce e il suo Ulysses, in Id., Letteratura della letteratura, a cura di L. Ritter Santini, il Mulino,
Bologna 1984, p. 116. Cit. in Di Rocco, p. 120.

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non può non partire dallo studio monumentale di Curtius, il quale in Letteratura europea e Medio

Evo latino pone il topos al centro della tradizione letteraria europea in quanto assicura la continuità

e la memoria dall’antichità alla modernità. Basterebbe scorrere l’indice del volume di Curtius per

trovare un elenco pressoché esaustivo dei topoi letterari più diffusi che la letteratura moderna ha

ereditato dal Medioevo latino. A questi infiniti altri se ne possono aggiungere, non necessariamente

provenienti dalla tradizione latina: pensiamo ad esempio al topos dell’amor cortese, oppure a

quelli che si cristallizzano intorno al genere eroicomico come rielaborazioni di precedenti classici.

[…] Se nell’antichità il viaggio nel mondo della morte si configura anche come percorso iniziatico

che può essere individuale (Ulisse) oppure presentarsi come investitura di una missione futura di cui

l’eroe è all’oscuro (Enea), in Leopardi la discesa all’Ade culmina con il riso sprezzante delle anime

verso le illusioni umane. Nelle sue versioni moderne il topos della discesa all’Ade diventa ricerca del

tempo perduto con Proust, oppure viaggio al termine della notte in Céline, mentre in Underworld di

DeLillo un’enorme discarica rappresenta la versione moderna dell’Ade. La discesa agli Inferi non è

che uno dei topoi che, insieme all’invocazione alla musa, al concilio degli dèi, al catalogo dei

guerrieri, ai sogni profetici, all’ekphrasis delle armi e ai giochi funebri, contribuiscono a definire il

carattere epico di una narrazione».

«Altro diffusissimo luogo comune è quello del locus amoenus che deriva dal motivo del

giardino. Quest’ultimo affonda le radici nell’Eden della Bibbia»;13 o ancora, quello dell’isola, nelle

sue innumerevoli varianti: «come paradiso perduto, luogo di perdizione, della meraviglia e del

perturbante, di sofferenza, oppure sede privilegiata dell’avventura.

Oltre a essere legato a un tema vasto e particolarmente fertile come quello del viaggio,

intorno a questo topos si coagulano motivi letterari fondamentali quali ad esempio la nostalgia,

l’esilio e la scoperta. Le immagini archetipiche dell’isola possono essere rinvenute nell’Odissea, sia

nella sezione dedicata agli apologhi di Ulisse (libri ix-xii), sia nel resto del poema. Nel lungo

racconto ad Alcinoo l’eroe omerico narra di isole incantate e misteriose, dall’isola di Polifemo, a

quella galleggiante di Eolo, a quelle incantate di Circe e Calipso oppure delle Sirene. Nel resto del

13 E. Di Rocco, cit., pp. 125- 126.

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poema Omero presenta al lettore Scheria, terra a metà tra il sogno e la realtà, tra il mondo degli

dèi e quello degli uomini, una sorta di paradiso terrestre ante litteram, e Itaca approdo finale di

Ulisse. Queste sono le immagini alla base di alcune tra le più famose storie narrate nel romanzo

moderno: da Robinson Crusoe di Defoe a Gulliver’s Travels di Swift, a The Lord of the Flies di Golding

per arrivare nella letteratura contemporanea alle mirabili storie A jangada de pedra (Zattera di

pietra) e El cuento de la isla desconocida (Racconto dell’isola sconosciuta) di Saramago». 14

14 Ivi, pp. 125- 126.

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3. La letteratura e le altre arti

Letteratura e arti figurative

Per introdurre questa declinazione specifica della letteratura comparata, ovvero della

relazione della letteratura con le altre arti, mi rifarò al capitolo del manuale, sopra menzionato,

dedicato al tema. Troverete qui di seguito dei brani estratti dalla chiara e ricca rassegna proposta

da Elisabetta Abignente, docente dell’università Federico II di Napoli.

«La letteratura si pone da sempre in dialogo anche con le altre arti. La pittura, la musica, il

teatro, il cinema, l’architettura, la fotografia tessono con la letteratura una rete di citazioni, riprese,

rimodulazioni, influenze e prestiti difficile da districare quanto evidente se si guarda alla storia della

letteratura e delle altre arti con sguardo sincronico. La letteratura comparata, che si fonda sullo

studio delle relazioni tra testi di lingue, culture ed epoche diverse, non può non occuparsi dunque,

per proprio statuto, anche dei rapporti che la letteratura intesse con altre «sfere dell’espressione

umana» […] dotate di specifici linguaggi, codici e modi di rappresentazione 15. Questo assioma è

pienamente condiviso, in linea teorica, da tutti coloro che si occupano di comparatistica e prima

di tutto da quegli studiosi che, da Warren e Wellek in poi, hanno cercato di delimitare il campo e

codificare le regole del gioco di una disciplina dal naturale «statuto fluttuante» (Fusillo, Polacco,

2005, p. 9)16

Alla relazione tra le arti, poste tutte rigorosamente sullo stesso piano nel tentativo di sfatare il

plurisecolare pregiudizio letterariocentrico, si guarda negli ultimi decenni alla luce dei due concetti

chiave di ibridazione (tra i linguaggi e tra le forme) e di contaminazione (il termine, di origine

romantica, non può non accogliere oggi anche un significato politico). L’opportunità di porre la

15L’espressione «sfere dell’espressione umana» è tratta da un importante testo teorico di letteratura comparata: C. Guillén
(1985), Entre lo uno y lo diverso. Introducción a la literatura comparada, Editorial Crítica, Barcelona (trad. it. L’uno e il
molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, il Mulino, Bologna 1992, p. 151.

16 E. Abignente, La letteratura e le altre arti, in Letterature comparate, a cura di F. De Cristofaro, cit., p. 167. L’autrice si
riferisce al volume curato da M. Fusillo e M. Polacco, (2005), La letteratura e le altre arti. Atti del convegno annuale
dell’Associazione di teoria e studi di letteratura comparata, numero monografico di “Contemporanea”, n. 3.

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letteratura all’interno di un processo più ampio e complesso di trasformazione delle modalità e dei

mezzi di espressione artistica, unita alla preoccupazione di liberare il campo da quelle gerarchie

tra “arti egemoni” e “arti ancelle” che hanno viziato per secoli gli studi inter artes, si traducono

nella necessità di adottare una «visione impura, da contrapporre al feticismo del testo che

dominava, invece, nel periodo strutturalista» (Fusillo, Polacco, 2005, p. 10): l’unica visione oggi in

grado di affrontare con profondità e ampiezza di sguardo la questione del rapporto tra la

letteratura e le altre arti.»

«Tale approccio è certamente debitore alla prospettiva dei visual studies, inaugurata negli

anni Ottanta da William J. T. Mitchell in Iconology: Image, Text, Ideology (1986), che pone lo studio

dei rapporti tra letteratura e arti visive, e più esattamente tra testo e immagine, nello specchio di

una realtà culturale profondamente mutata nei suoi paradigmi interpretativi dopo essere stata

attraversata da un autentico «visual turn». Il rapporto, teso e contrastato, tra parole e immagini –

intese come insieme di pictures e images (Mitchell, 2005)17 – che si registra nella società

contemporanea ha profonde conseguenze di tipo culturale ed è connotato sempre, dentro la

lente dei visual studies, di un significato politico.

Testuale e visuale sono infatti due categorie ormai insufficienti per interpretare fenomeni

complessi come l’ekphrasis e più in generale i rapporti tra letteratura e arti visive: non si può parlare

di letteratura e arti visive oggi senza considerare la funzione dello sguardo (inteso come punto di

vista, connotazioni di gender e di potere) e del dispositivo (ovvero il tipo di media utilizzato) (cfr.

Cometa, 2012)». 18

«Tornando invece, dopo questa breve digressione, al campo specifico delle relazioni tra

letteratura e arti figurative, non possono essere tralasciati quei casi in cui testo e immagine

concorrono alla composizione di un’opera dando vita a vere e proprie forme miste. Se nel caso

17Nota mia: Abignente si riferisce qui a un testo classico dei visual studies, W. J. T. Mitchell (1986), Iconology: Image, Text,
Ideology, University of Chicago Press, Chicago (il)-London

E. Abignente, La letteratura e le altre arti, in Letterature comparate, a cura di F. De Cristofaro, cit., p. 171. Nota mia:
18

Abignente cita il libro di Michele Cometa, id. (2012), La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Raffaello
Cortina Editore, Milano.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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delle illustrazioni di romanzi, pratica piuttosto diffusa nell’editoria ottocentesca (si pensi alle

litografie di Gonin per la Quarantana) e mantenuta a lungo nella letteratura giovanile e di

consumo per attrarre un vasto pubblico, le immagini svolgevano una funzione, se non di servizio,

senz’altro di corredo alla parola scritta, vi sono forme miste in cui testo e immagine risultano

inscindibili e l’eliminazione di uno dei due produrrebbe un deficit di comprensione: è il caso degli

iconotesti (emblemi, fumetti), in cui testo e immagine condividono lo stesso supporto, e degli

iconismi (poesia visiva, poesia concreta), dove intrattengono un rapporto di tipo simbiotico (cfr.

Cometa, 2005, p. 23).

Contaminazioni complesse tra testo e immagine che danno vita a forme miste più o meno

compiute si verificano anche nel caso, interessantissimo anche perché denso di risvolti di tipo

teorico, dell’interazione tra letteratura e fotografia. Dai Passages di Benjamin all’atlante di

Warburg, dalla Chambre claire di Barthes ad Austerlitz di Sebald, l’accostamento tra parola scritta

(di tipo narrativo o saggistico) e immagini fotografiche, che non fungono da semplici illustrazioni

ma sono dotate di autonomia rappresentativa e narrativa, si connota come profondamente

legato al discorso della memoria, individuale e collettiva.)

Letteratura e cinema

«La profonda relazione che la letteratura intesse con la musica e con le arti dello spettacolo

si pone sotto il segno della transcodificazione, dell’adattamento, della riscrittura. L’opera musicale,

la danza, il teatro, il cinema traghettano e veicolano nel loro specifico codice espressivo materiale

attinto, molto spesso, da quell’enorme serbatoio di temi, trame e personaggi che è la letteratura,

intesa come insieme di poesia e prosa, letteratura colta, folklorica e popolare, e mitologia. Questa

migrazione avviene prima di tutto sul piano contenutistico e consiste nella riscrittura di un mito o

nella reinterpretazione di un tema o di un motivo in altro linguaggio artistico. Significativo è però

anche il percorso inverso: quello che avviene cioè nel caso in cui alcune tecniche artistiche

migrano in letteratura. Basti pensare alla tecnica wagneriana del Leitmotiv che Thomas Mann

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importa nella scrittura romanzesca o all’estetica del montaggio e del frammento che la scrittura

novecentesca e postmoderna preleva dal linguaggio cinematografico»19.

«È però soprattutto con il cinema che la letteratura ha intrattenuto, nell’ultimo secolo, il

rapporto più intimo e significativo. Se per la sua capacità di fondere in un’unica grande macchina

rappresentativa molteplici linguaggi e codici espressivi il cinema è stato considerato come l’erede

novecentesco del melodramma, o meglio ancora dell’opera d’arte totale wagneriana, il punto di

contatto più forte con il discorso letterario è sicuramente dato dalla constatazione che il cinema,

diversamente dalle altre arti, condivide con la letteratura, e nello specifico con il romanzo, il

procedimento stesso della narrazione. Arte del tempo e dello spazio, il cinema si occupa, come la

narrativa tout court, di raccontare storie.

Al di là degli specifici strumenti espressivi messi in campo dalle due arti – la visualità offre

certo al cinema potenzialità moltiplicate rispetto alla descrizione su carta –, cinema e narrativa

compiono una serie di operazioni comuni inerenti all’ingranaggio della narrazione: dalla scelta del

soggetto alla posizione del narratore rispetto alla storia narrata, dal ruolo affidato ai personaggi

alle tecniche adoperate per tenere viva l’attenzione del lettore/ spettatore. Nel narrare una storia,

i due linguaggi ricorrono a strategie comuni tanto nell’organizzazione delle sequenze narrative – si

pensi al ricorso alla figura del flashback che capovolge nell’intreccio l’ordinato susseguirsi di eventi

della fabula – quanto nei meccanismi messi in campo per dosare la tensione del plot creando

effetti di sorpresa e di suspense – come avviene con il ricorso alla tecnica del cliffhanger.

Il territorio di confine tra narrativa e cinema è un campo di studi di cui non possono non

andare ghiotti i narratologi: la scrittura cinematografica, citazionista e allusiva, densa di richiami

intertestuali esterni e interni al mondo cinematografico, si rivela estremamente scaltra e istruita

rispetto ai meccanismi stessi della narrazione dei quali si serve, talvolta, anche in senso autoriflessivo

e metadiegetico.

La letteratura funge, per il cinema, da straordinario bacino di temi e trame da rielaborare e

riscrivere – trame che peraltro, se efficaci, vengono riproposte potenzialmente all’infinito secondo

19 Ivi, p. 176.

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la consolidata pratica del remake. Il percorso in senso inverso, però, è altrettanto significativo. Per

un procedimento di rifrazione o effetto rebound per citare Genette (1983, p. 49; cfr. anche Costa,

2000; Ivaldi, 2011)20, la narrativa si appropria, più o meno coscientemente, di alcuni procedimenti

tipici del linguaggio cinematografico per riproporli sulla pagina scritta. Si pensi, in primo luogo, alla

tecnica del montaggio, che nella teoria di Ejzenštejn assume i tratti di una vera e propria estetica e

che la letteratura incamera e rielabora dando vita a opere narrative che procedono per tagli,

cuciture e accostamenti inattesi e che finiscono per proporre una nuova idea di temporalità. Una

simile appropriazione può avvenire, talvolta, anche in maniera inconscia o involontaria: l’esempio

classico è quello di Proust, che non amava il cinema ma nella cui opera è stato da subito

riconosciuto dai primi lettori e critici della Recherche un meccanismo di «montaggio a posteriori

dell’esperienza vissuta» (Masecchia, 2009, p. 9; cfr. anche Albano, 1997, p. 69)21. Un altro caso

interessante è quello delle continue allusioni e citazioni nel romanzo postmoderno a tecniche di

inquadratura cinematografica a cui, fingendo di porsi dietro alla macchina da presa (cfr. Genette,

1983, p. 49), lo scrittore ricorre per assumere, nella narrazione, punti di vista e prospettive insolite: è

quanto avviene in alcuni passaggi dei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie (cfr. Saba, 2008).

Se tracciare una grammatica delle reciproche influenze tra letteratura e cinema sarebbe

oggi poco produttivo e se appare in modo sempre più evidente come sarebbe riduttivo leggere il

loro rapporto soltanto alla luce di un’idea di imitazione (cfr. Maggitti, [Lo schermo tra le righe.

Cinema e letteratura nel Novecento] 2007; Fusillo [Estetica della letteratura], 2009), una delle altre

sfide in gioco negli ultimi anni è anche quella di svuotare definitivamente di senso il criterio della

fedeltà all’originale che ha dominato per lunghi anni il dibattito attorno alla diffusissima pratica

20Nota mia: Qui Abignente cita un classico della teoria della letteratura: G. Genette (1982), Palimpsestes. La littérature au
second degré, Seuil, Paris (trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997); seguono poi i riferimenti
a degli studi dedicati alla relazione tra cinema e letteratura: A. Costa (1993), Immagine di un’immagine. Cinema e
letteratura, Utet, Torino; F. Ivaldi (2011), Effetto rebound. Quando la letteratura imita il cinema, Felici, Ghezzano (PI).

21Nota mia: I riferimenti sono a due testi dedicati alle relazioni tra cinema e letteratura: A. Masecchia (2009), Al cinema con
Proust, Marsilio, Venezia; L. Albano (a cura di) (1997), Il racconto tra letteratura e cinema, Bulzoni, Roma.

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dell’adattamento di un’opera in un’altra forma o linguaggio artistico. L’odierna teoria degli

adattamenti, che ha ricevuto nuovo impulso dagli studi di Linda Hutcheon (2006) e a cui è stato di

recente dedicato un numero monografico della rivista “Between” (Fusillo, Hutcheon, Guglielmi,

2012)22, parte dal presupposto che ogni opera, anche laddove si ponga come trasposizione di

un’altra, vada considerata come nuova opera dotata della propria originalità e indipendenza dal

modello. Se ogni passaggio di codice è inevitabilmente, o per fortuna, una forma di

interpretazione e risente dello «sforzo ermeneutico congiunto» di autore e spettatore nel «riattivare

letture pregresse» (cfr. Masecchia, 2009, p. 16), sarebbe del tutto inadeguato continuare a porre il

problema nei termini di un rapporto tra originale e copia, archetipo e imitazione. Un esempio

particolarmente emblematico in tal senso è quello dei film che Luchino Visconti trasse da opere

narrative: Il Gattopardo, Morte a Venezia, Senso non sono certo semplici trasposizioni ma vere e

proprie interpretazioni che portano chiara la firma del regista e che finiscono per illuminare tra

l’altro di ulteriori significati e risvolti simbolici i già densissimi testi di partenza, innescando un

meccanismo fecondo di reciproci scambi e ibridazioni tra opere di primo e di secondo grado.

L’oscillazione tra i termini di adattamento, che conserva il sapore di una certa superiorità

dell’originale sul testo di secondo grado, e transcodificazione, che pone l’attenzione sul passaggio

di codice e sulla traduzione tra linguaggi […] potrebbe risolversi in questo senso con l’adozione del

termine di “ri-creazione”, che già Ejzenštejn utilizzava […] e che tiene conto probabilmente meglio

degli altri di quel doppio sforzo, ermeneutico e creativo, con il quale fa necessariamente i conti chi

si appresta a rappresentare con stile, strumenti e forme nuove un’opera già scritta da altri». 23

22 M. Fusillo, L. Hutcheon, M. Guglielmi (a cura di) (2012), L’adattamento: le trasformazioni delle storie nei passaggi di codice,
numero monografico di “Between”, vol. 2, n. 4; il numero è disponibile qui, ed è open access:
https://ojs.unica.it/index.php/between/issue/view/20.
23 Ivi, pp. 180-182.

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Bibliografia

 Abignente, Elisabetta, La letteratura e le altre arti, in Letterature comparate,

a cura di F. De Cristofaro, Roma, Carocci (2014), 2020.

 Albano, Luisa (a cura di) (1997), Il racconto tra letteratura e cinema, Bulzoni,

Roma.

 Cometa, Michele (2012), La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura

visuale, Raffaello Cortina Editore, Milano.

 Bertoni, Federico, Letteratura. Teorie, metodi, strumenti, Roma, Carocci, 2018

(2020).

 Bremond, Claude – Landy, Joshua – Pavel, Thomas (eds.) (1995), Thematics:

New Approaches, State University of New York Press, Albany (NY).

 Costa, Andrea (1993), Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Utet,

Torino.

 De Cristofaro, Francesco (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci,

(2014) 2020.

 Di Rocco, Emilia, Temi, motivi, topoi, in F. De Cristofaro, Letterature

comparate, a cura di F. De Cristofaro, Roma, Carocci (2014), 2020.

 Genette, Gerard (1982), Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil,

Paris (trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino

1997).

 Masecchia, Anna (2009), Al cinema con Proust, Marsilio, Venezia.

 Fusillo, Massimo – Hutcheon, Linda – Guglielmi, Marina (a cura di) (2012),

L’adattamento: le trasformazioni delle storie nei passaggi di codice, numero

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monografico di “Between”, vol. 2, n. 4; il numero è disponibile qui, ed è open

access: https://ojs.unica.it/index.php/between/issue/view/20.

 Gnisci, Armando (a cura di), Letteratura comparata, Milano, Bruno

Mondadori, 2002.

 Guillen, Claudio, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura

comparata, Bologna, Il Mulino, 1992.

 Ivaldi, Federica (2011), Effetto rebound. Quando la letteratura imita il

cinema, Felici, Ghezzano (PI).

 Mitchell, W.J.T. (1986), Iconology: Image, Text, Ideology, University of

Chicago Press, Chicago-London.

 Sollors, Werner (ed.) (1993), The Return of Thematic Criticism, Harvard

University Press, 1993.

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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo

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Indice

1. VISIONE E FORMA.................................................................................................................................... 3
2. ERICH AUERBACH: MIMESIS .................................................................................................................... 4
3. IL MEZZO E IL FINALE ATTRAVERSO I GENERI ......................................................................................... 8
4. L’INFINITO INTRATTENIMENTO ............................................................................................................... 10
5. IL SENSO DELLA FINE, TRA EPICA E ROMANZO ................................................................................... 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. Visione e forma

In questa lezione ci soffermeremo sul piacere del testo, e cercheremo in evidenziare quei

meccanismi formali alla base dell’esperienza estetica, e che differenziano il testo artistico, che sia

letterario o audiovisivo. Uno strumento utile è dato dalla categoria di genere letterario, una sorta di

definizione che fornisce al lettore/spettatore un’idea di cosa aspettarsi da un testo. Nel romanzo, e

in generale, nei testi contemporanei, è più raro trovare delle distinzioni rigide in merito al genere,

ed è frequente che un testo sia caratterizzato da elementi appartenenti a generi diversi.

Il genere dunque compare in questo caso in termini di dominante, di «modo» 1. L’obiettivo è

di «cogliere i significati attraverso le forme, evidenziare certe disposizioni e presentazioni rivelatrici,

scoprire negli intrecci letterari i nodi le figure, i rilievi inediti che segnalano l’operare simultaneo

d’una esperienza vissuta e di una messa in opera».2 Come afferma Jean Rousset, l’arte risiede nella

solidarietà d’un universo mentale e d’una costruzione sensibile, d’una visione e d’una forma.3

Per comprendere il successo di un’opera, e con questo il coinvolgimento emotivo da parte

del pubblico, incluso il sentimento di empatia verso i personaggi, andremo alla ricerca dei diversi

dispositivi che possono spiegare una tale affezione. In questo ambito interdisciplinare e

intermediale, tra parola scritta e immagine in movimento, la mappa di orientamento è data dalla

lettura di identità e corrispondenze, somiglianze e opposizioni, riprese e variazioni, insieme

all’attenzione ai «nodi e gli intrecci in cui la tessitura si concentra o si spiega»4..

1 Cfr. R. Wellen - A. Warren, Teoria della letteratura (1942), Bologna, Il Mulino, 1956; G. Genette, Figure III. Discorso del
racconto (1972), Torino, Einaudi 2006; N. Frye (1957), Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi, 2000; J.M.
Schaeffer, Che cos’è un genere letterario (1989), Parma, Pratiche, 1992; P. Bagni, Genere, Firenze, La Nuova Italia, 1997; P.
Zanotti, Il modo romanzesco, Roma-Bari, Laterza, 1998; F. Amigoni, Il modo mimetico-realistico, Roma-Bari, Laterza, 2011; S.
Zatti, Il modo epico, cit.
2 J. Rousset, Forma e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel (1962), Torino, Einaudi, 1976, p. 3.
3 Ibidem.
4 Ivi, p.13.

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2. Erich Auerbach: Mimesis

In questo corso affronterò i vari argomenti procedendo sulla scorta della lezione di un

classico della teoria della letteratura, Mimesis di Erich Auerbach.5 In questo libro Auerbach

attraversa la storia della letteratura occidentale, partendo dai testi fondatori – come la Bibbia e

l’Odissea – e arrivando fino a due testi capitali del modernismo, La ricerca del tempo perduto di

Marcel Proust e Al Faro di Virginia Woolf. Il metodo utilizzato è quello dei campioni, ovvero lavorare

sui testi partendo dalla selezione di campioni testuali significativi, dai quali è possibile fare un

ragionamento sul testo nella sua interezza.

Auerbach attraversa la storia della letteratura occidentale mettendo in luce l’importanza

della separazione degli stili per una rappresentazione realista della realtà, e nel primo capitolo, La

cicatrice di Ulisse, si sofferma sulla grammatica delle digressioni che regola l’alternarsi dei piani

narrati in due testi fondatori della cultura occidentale, l’Odissea e la Bibbia. Nel capitolo, dedicato

al commento del canto XIX dell’Odissea, Auerbach analizza la grammatica delle digressioni che

caratterizza il testo omerico. Nel riferirsi all’episodio della lavatura del piede, in cui Euriclea

riconosce Ulisse dalla cicatrice alla coscia, Auerbach illumina la modalità con cui è inserita nel

testo la lunghissima digressione che risale alla giovinezza di Ulisse e narra come questi, si procurò la

ferita nel corso di una caccia al cinghiale presso suo nonno Autolico.

Auerbach sottolinea come tutto questo sia «raccontato con precisione e con lentezza», i

sentimenti siano manifestati con un «discorso minuzioso, fluido, diretto», e «tempo e spazio

abbondanti» siano concessi anche a una «descrizione ordinata delle suppellettili, all’assistenza

all’ospite, ai gesti».6 Solo al concludersi della lunga digressione Euriclea riconosce Ulisse, facendo

cadere bruscamente, per la sorpresa e l’emozione, il piede nel catino. Qui Auerbach afferma che

se per un lettore moderno il meccanismo potrebbe sembrare finalizzato a suscitare tensione, in

realtà produce l’effetto contrario, ovvero, distensione. L’ampia e ricca descrizione della caccia,

5 Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur (1953), trad. it. Mimesis. Il realismo nella
letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 2000.
6 Ivi, p. 3.

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«con tutti i suoi piaceri e la ricchezza delle sue immagini idilliache», conquista l’ascoltatore per tutto

il tempo del racconto fino a fargli per dimenticare quello che accadeva prima, al momento della

lavatura dei piedi. Leggiamo:

Intento proprio d’una digressione, che esalti la tensione ritardandola» –– «è non riempire del

tutto il momento presente, non fare dimenticare la crisi, di cui con ansia si aspetta lo scioglimento,

distruggendo così anche lo stato di “tensione”. Crisi e tensione debbono conservarsi, debbono

rimaner presenti nello sfondo. Ma Omero, e su di ciò torneremo, non conosce sfondo. Quello che

egli racconta è sempre e soltanto presente, e riempie completamente la scena e l’anima dello

spettatore.7

Per mostrare come «questo trascorrere delle cose» avvenga «in primo piano», e come «le

molte digressioni, e questo continuo andare innanzi e ritornare», non creino mai una specie di

prospettiva spaziale e temporale, Auerbach si sofferma sulla forma sintattica con cui Omero

inserisce le digressioni. Lo fa usando l’esempio dell’episodio della cicatrice, introdotto dall’ampia

parentesi sintattica della proposizione relativa, in cui «si insinua insospettata una proposizione

principale «che si svincola adagio adagio dalla subordinazione» fino a tornare al punto

dell’interruzione: il verso 467.8.

Auerbach confronta il testo omerico con la Bibbia, scegliendo il racconto del sacrificio di

Isacco come brano da cui partire per illuminare la diversità delle forme testuali. Al «presente

ugualmente oggettivato e illuminato» di Omero segue un mondo in cui il non detto, la lacuna,

l’ellissi si riempiono di un significato nuovo e profondo. Non ci viene detto nulla del luogo da dove

parla Dio, e nemmeno delle ragioni che motivano la sua terribile richiesta ad Abramo. «Inopinato

ed enigmatico egli arriva sulla scena da altezze o profondità sconosciute, e grida: - Abramo!».9

Come un’apparizione senza figura, Dio parla da un luogo sconosciuto, così come Abramo, che

non è descritto nella sua concreta presenza, ma del quale ci viene suggerita la sua disposizione

all’obbedienza. Il lettore deve collegare in un quadro più ampio «le brevi parole, staccate, non

7 Ivi, pp. 4-5. È curioso come Auerbach parli qui di “spettatore”, quasi a voler sottolineare il carattere visivo dell’esperienza.
8 Ivi, p. 8.
9 Ivi, p. 9.

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Emanuela Piga Bruni - Tensioni e distensioni. Il piacere del testo

preparate in alcun modo e duramente urtanti fra di loro»; «il resto rimane nel buio» e sta a chi

legge colmare ciò che non è detto ma alluso, rimandato all’atto ermeneutico. Auerbach spiega

l’effetto di indeterminatezza e oscurità come conseguenza di determinate caratteristiche formali:

l’essenzialità del collegamento sintattico, la totale assenza di aggettivi e descrizioni dei luoghi

attraversati nel corso del viaggio compiuto da Abramo per recarsi al luogo indicato da Dio per il

sacrificio; i dialoghi sono frammentari, lasciano inespresse le emozioni dei personaggi e sono

funzionali allo sviluppo dell’azione. La distensione che caratterizza il gioco alternato tra i diversi

piani del racconto in Omero lascia lo spazio a una tensione oppressiva, irradiata da un vuoto in cui

prendono forma scelte difficili: il silenzio avvolge un luogo e un tempo indefinito.

Auerbach evidenzia come nei racconti biblici, gli uomini abbiano «maggior profondità di

tempo, di destino e di coscienza» e pensieri e sensazioni siano molto più complessi e intricati. Una

differenza cruciale rispetto al testo omerico risiede nelle motivazioni dell’agire: le azioni di Abramo

non si spiegano soltanto con il suo carattere e con quello che gli accade nel momento, ma sono

profondamente determinate dalla storia precedente, 10 che gli conferisce quella specifica

impronta individuale che muta nel tempo. Se in Omero la molteplicità della vita psichica appare

nel succedersi e nell’alternarsi delle passioni, gli scrittori ebraici esprimono la compresenza e il

conflitto dei diversi strati della coscienza. Per queste ragioni, Auerbach individua una componente

tragica nell’epicità del testo biblico, in quella «tensione che ci schiaccia», in quel trattenere il

respiro in un tempo vuoto, inserito tra un passato carico di storia e un futuro gravido di

conseguenze. In questa sospensione, i fatti psichici, fatti abissali, pervadono uno sfondo spaziale

che si carica di significati.

Tirando le fila dell’analisi comparativa di Auerbach tra le caratteristiche stilistiche dei due

testi fondatori, secondo lo studioso lo stile che caratterizza il racconto omerico è dettagliato,

caratterizzato dalla mancanza di sfondo. Il modello del periodare epico è accompagnato dalla

mancanza di tensione. Al contrario, nella Bibbia domina l’ellissi, la reticenza. Le lacune e il non

detto vanno a intensificare la presenza del contrasto. Il patto tra Abramo e Dio spiega

10 Ivi, p. 14.

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l’obbedienza di Adamo, non sono fornite altre spiegazioni. Tuttavia, anche se i mezzi stilistici sono

meno ricchi e più schematici, la narrazione è drammaticamente umana. Il testo biblico richiede

pertanto un lettore collaborativo, in quanto l’indeterminazione descrittiva e la reticenza agiscono

come stimolo ermeneutico e rimandano a uno sfondo culturale.

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3. Il mezzo e il finale attraverso i generi

Ragionare sulle forme di un’opera conduce a riflettere sulla relazione che l’autore stabilisce

tra il finale e il corpo del testo. Con riferimento alla tragedia, e in generale al racconto, Aristotele

afferma:

È intero ciò che ha un principio, un mezzo e una fine. È principio ciò che non è di necessità

dopo altro, mentre dopo di esso qualcosa d’altro per sua natura esiste o viene a essere; al

contrario, è fine ciò che per sua natura necessariamente o per lo più esiste dopo altro e dopo di

esso non c’è niente altro; mezzo è ciò che è dopo altro e dopo di sé ha altro. Bisogna dunque che

i racconti composti bene né comincino da dove a caso capita, né finiscano dove a caso capita,

ma facciano uso delle forme dette11.

Nelle sue riflessioni su epos e romanzo, Michail Bachtin osserva come quest’ultimo richieda

una compiutezza esterna e formale, soprattutto a livello di intreccio. Mentre l’epopea può essere

incompleta, «poiché la struttura del tutto si ripete in ogni parte» e «il racconto può cominciare e

finire in qualsiasi momento senza che la compiutezza ne risenta», nel romanzo «son caratteristici lo

specifico interesse del seguito e della fine»12.

Desiderio e resistenza, dilazione del testo e attesa del lettore sono poli di una dialettica che

strutturava già un precedente illustre come l’Orlando Furioso. Nel sottolineare l’importanza del

tema dell’“errore” nel poema, Sergio Zatti rileva come questo si manifesti «tanto nello spazio (come

devianza, ovvero diversione, digressione)» con la figura di Orlando, «quanto nel tempo (come

differimento, ovvero sospensione, incertezza)» con la figura di Ruggiero. 13 Zatti mostra come «una

letterale applicazione della tecnica di suspense» caratterizzi il canto X: quando Ruggiero salva

Angelica dall’orca marina e si appresta a fare valere i suoi diritti di salvatore, «la frustrazione del suo

desiderio si rispecchia nell’attesa del lettore, entrambi differiti, sospesi» 14. Osserva come Ariosto

converta «la necessità formale di interrompere il racconto in occasione tematica; la sospensione,

11 Aristotele, Poetica, VII, 1450b-1451°, a cura di P. Donini, Torino, Einaudi, p. 52 e sgg.


12 M. Bachtin, Estetica e romanzo (1975), Torino, Einaudi, 2001 (1979), p. 473.
13 S. Zatti, Il Furioso fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, p. 20 e sgg.
14 Ivi, p. 25.

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maliziosamente motivata con l’eccessiva durata del canto, replica sul versante

mittente/destinatario le frustrazioni che infligge al personaggio nel suo rapporto con l’oggetto di

desiderio»15. Ricorda anche come Daniel Javitch abbia individuato due tipi di interruzione del

racconto del Furioso: «una, in cui la narrazione è sospesa alla fine del canto e ripresa, secondo

norma, nel canto successivo; l’altra, che cade in un punto qualsiasi del canto senza

preoccupazioni di immediata ripresa». Secondo Javitch, la seconda sfugge a motivazioni di

suspense e «frustra il desiderio di continuità del lettore, sottomettendolo alla medesima esperienza

di attesa delusa che affligge i personaggi nelle diverse storie raccontate»16.

L’attenzione al finale caratterizza da sempre tutte le forme narrative, così come

l’interpretazione della sua forma nell’economia dell’opera 17. Nel corso delle dispute

cinquecentesche emerge la tensione tra «la tendenza digressiva del modo romanzesco e la

volontà di chiusura testuale del modo epico» 18. In questo contesto, la chiusura del poema

ariostesco prende la forma di un ritorno all’epica, necessario «per stabilire un limite all’errare

potenzialmente infinito del romanzo»19.

15 Ibidem.
16 Ivi, p. 36. Qui S. Zatti si riferisce al saggio di D. Javitch, Cantus interruptus in the Orlando Furioso, in «Modern Language
Notes», 9, 1 (1980), pp. 66-80.
17 Tra i vari studi, cfr. F. Kermode, Il senso della fine (1966), Milano, Rizzoli, 1972; B.H. Smith, Poetic Closure: A Study on How

Poems Ends, University of Chicago Press, 1968; D.H. Richter, Fable's End: Completeness and Closure in Rethorical Fiction,
University of Chicago Press, 1974; J.H. Miller, The problematic of ending in narrative, in «Nineteenth-Century Fiction», 33/1,
1978; D.A. Miller, Narrative and Its Discontents: Problems of Closure in the Traditional Novel, Princeton University Press, 1981;
D.H. Roberts - F.M. Dunn - D. Fowler, (a cura di), Classical Closure. Reading the End in Greek and Latin Literature, Princeton,
1997; B. Traversetti, Explicit. L’immaginario romanzesco e le forme del finale, Cosenza, Pellegrini, 2004; N. Carroll, Narrative
Closure in Cinema, Routledge Companion to the Philosophy of Film, London, New York, Routledge, 2008; M. Torgovnick,
Closure in the Novel, Princeton University Press, 1981.
18 S. Zatti, Il modo epico, Bari, Laterza, 200, p. 104 e sgg.
19 Ivi, p. 105.

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4. L’infinito intrattenimento

Come osserva il critico letterario Peter Brooks,

Lʼidea stessa di avventura è legata a quel che deve accadere (ad-venire): in questo senso

unʼavventura è unʼazione in cui inizi sono scelti dai finali e in funzioni dei medesimi. La possibilità

dell’esistenza di significati insiti in una trama e in una sequenza temporale dipende dalla sua

consapevolezza anticipata che esiste un finale e che la sua forza è sufficiente a creare una

struttura adeguata: essere interminabile vorrebbe dire essere privo di significato, e la mancanza di

finale metterebbe in pericolo l’inizio.20

Brooks chiarisce come i vari incidenti della narrazione siano letti come «annunci e

promesse» della visione organica e coerente del finale, che rappresenta «la metafora cui si può

giungere attraverso una catena di metonimie: al di là della massa delle pagine centrali non

ancora lette, il finale invoca l’inizio, lo trasforma e lo arricchisce» 21. In questa direzione, Roland

Barthes afferma:

Finire, riempire, congiungere, unificare, si direbbe che è l'esigenza fondamentale del

leggibile, come se lo prendesse una paura ossessiva: quella di omettere una giuntura. È la paura

della dimenticanza che genera l'apparenza di una logica delle azioni: [...] il leggibile ha orrore del

vuoto. Che cosa sarebbe il racconto di un viaggio in cui si dicesse che si resta senza essere arrivati,

che si viaggia senza essere partiti, - in cui non si dicesse mai che essendo partiti si arriva o non si

arriva? Questo racconto sarebbe uno scandalo, l'estenuazione, per emorragia, della leggibilità.22

Con il termine closure, Marianne Torgovnick designa il processo per cui un romanzo

perviene a una conclusione adeguata e appropriata. La studiosa si ricollega alle riflessioni di

Barbara Herr Smith e di David Richter, che nei loro studi rispettivamente sul finale nella poesia e nel

racconto insistono sui concetti di completezza.23

20 P. Brooks, Reading for the Plot (1984), Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino, Einaudi, 1995, p. 102.
21 Ibidem.
22 R. Barthes, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973, pp. 98-99.
23 «As I use the term, “closure” designates the process by which a novel reaches an adequate and appropriate conclusion

or, at least, what the author hopes or believes is an adequate, appropriate conclusion. My use of the term closure
corresponds to what Barbara Herrnstein Smith in Poetic Closure calls the integrity of a lyric and what David Richter in Fable’s

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5. Il senso della fine, tra epica e romanzo

Nelle pagine sul carattere generale dell’epica, Hegel afferma che è con l’epopea che il

genere epico trova la sua conclusione realmente poetica. A differenza di quanto accade nelle

altre forme dell’epica, in cui manca la rappresentazione vera e propria della realtà umana, la

raffigurazione della realtà e il carattere di azione individuale– che «nasce da unico centro e in esso

cerca la propria unità e conchiusione» – conferiscono all’epopea «la visione di una totalità in sé

compiuta»24.

Questo mondo totale e nello stesso tempo raccolto in modo del tutto individuale deve poi

procedere nella sua realizzazione con calma, senza che esso da un punto di vista pratico o

drammatico corra in fretta verso la meta e il risultato dei fini, cosicché noi al contrario possiamo

indugiare in ciò che si svolge e immergerci nei singoli quadri del cammino e goderli in tutti i

particolari.

L’importanza della conclusione, l’atmosfera di una totalità che contenga tutte le parti

dell’opera, l’immersione lenta attraverso i singoli snodi e il divenire dei personaggi sono elementi

che concorrono a definire l’esperienza provata dal lettore. Molti aspetti dell’estetica hegeliana

sono ripresi da Lukács in Teoria del romanzo quando insiste sull’importanza del middle

nell’economia dell’opera epica. Nell’affermare la natura processuale del romanzo, Lukács esclude

la compiutezza sul piano del contenuto e sostiene che l’equilibro è raggiunto nella forma

attraverso la dialettica tra essere e divenire:

[…] il romanzo, con la sua intrinseca natura di processo, esclude la compitezza solo sul

piano del contenuto, mentre in quanto forma rappresenta un equilibrio tra l’essere e il divenire

che, certo, è instabile, ma saldamente instabile, e in quanto idea del divenire si fa stato,

End calls the completeness of an apologue – a sense that nothing necessary has been omitted from a work». M. Torgovnick,
Closure in the Novel, Princeton University Press, 1981, p. 6.
24 G.W.F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, ed. digitale.

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condizione, e, così mutando, si nega e si eleva [aufhebt] ad essere normativo del divenire: «la via è

intrapresa, il viaggio è concluso.25

Per Lukács, l’epopea è caratterizzata da omogeneità, il racconto delle peripezie non è

mai sufficientemente laterale da sottrarle il carattere del continuo. Il romanzo, invece, è

eterogeneo, non è necessario che esibisca coerenza strutturale. Le sue diramazioni, le trame

parallele e l’esplorazione dell’interiorità e dell’inconscio, gli conferiscono il carattere del discreto.

Scrive che la differenza strutturale tra epopea e romanzo sta nel carattere di «continuum organico-

omogeneo» della prima e di «discretum contingente-eterogeneo» del secondo26, il cui equilibrio è

preservato nella forma: diversamente dall’epopea, «le parti relativamente indipendenti […]

devono avere un preciso significato compositivo e architettonico». Se l’infinità della pura materia

epica è intrinsecamente organica, l’illimitatezza discreta della materia del romanzo, a causa della

sua “cattiva infinità“27, ha bisogno di limiti per diventare forma28. Al contrario, nell’epopea

la figura centrale e le sue avventure decisive formano un insieme organizzato in sé e per sé,

rispetto al quale l’inizio e la fine non significano alcunché d’essenziale e differiscono

completamente l’uno dall’altra: a contare sono determinati momenti di grande intensità, affini ai

punti culminanti dell’intero, momenti il cui significato si esaurisce nel formarsi o nel dissolversi di forti

tensioni29.

Non distanti sono le riflessioni di Michail Bachtin, seppure in una prospettiva diversa,

metastoricista e “rovesciata di segno” rispetto alla visione hegeliana e lukacsiana 30. Nel saggio

“Epos e romanzo” scrive:

25 G. Lukács, Teoria del romanzo (1920), trad. it. Teoria del romanzo, Milano, SE, 2004, pp. 65-66.
26 Ivi, p. 68.
27 Ivi, p. 73. Per Lukács la “cattiva infinità” insita nella forma del romanzo è superabile attraverso la forma biografica.
28 Ivi, pp. 68-73. Cfr. M. Fusillo, Fra epica e romanzo, in Il romanzo, vol. 3: Le forme, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002,

pp. 10-11.
29 Ivi, p. 74.
30 Cfr. M. Fusillo, Fra epica e romanzo, cit., pp. 5-34. Lukács inscrive la sua teoria del romanzo nel solco della formula

hegeliana dell’epica borghese, che vede nell’epica la forma originaria per eccellenza, espressione di un’epoca che non
conosceva dissonanza tra io e mondo. Specularmente, Bachtin rinviene nell’epica «il polo negativo che implica monolicità,
monologicità, staticità, chiusura nel passato assoluto, cristallizzazione nel canone; mentre il romanzo è il polo positivo che
implica plurivocità, dialogicità, dinamismo, e che diventa quasi metafora di uno spirito antigerarchico e antiautoritario, di
una linea culturale carnevalesca e dionisiaca». Ivi, pp. 6-7.

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l’epopea è indifferente all’inizio formale e può essere incompleta (cioè può ricevere una

fine quasi arbitraria). Il passato assoluto è chiuso e compiuto sia nel tutto sia in ogni sua parte.

Perciò ogni parte può essere foggiata e presentata come un tutto. 31

Continua più avanti: «Si può cominciare il racconto quasi da ogni momento e si può finirlo

quasi in ogni momento. L’Iliade è un ritaglio casuale del ciclo troiano». Osserva ad esempio che in

un romanzo l’inumazione di Ettore non potrebbe in alcun modo costituire un vero finale, mentre

invece, nel caso dell’opera omerica, la compiutezza epica non ne risente. Ricorda inoltre come

l’interesse per la fine («come finirà la guerra? chi vincerà?») sia assolutamente escluso per motivi

interni ed esterni, in quanto l’intreccio è già reso noto dalla tradizione.

Lo specifico “interesse del seguito” (che cosa avverrà dopo) e l’“interesse della fine” (come

andrà a finire) sono caratteristici soltanto del romanzo e sono possibili soltanto nella zona della

vicinanza e del contatto (nella zona dell’immagine di lontananza essi sono impossibili)» 32.

Il carattere assoluto del passato epico, «privo di graduali passaggi che lo leghino al

presente», esclude nel mondo epico alcuna «incompiutezza, apertura, problematicità. Non vi è

lasciata alcuna scappatoia verso il futuro; è autosufficiente e non richiede né presuppone alcuna

continuazione»33. Diversamente, il romanzo si costruisce nella «zona di contatto con l’avvenimento

incompiuto dell’età contemporanea». L’incompiutezza che caratterizza il suo oggetto, a contatto

con il presente e coinvolto nel divenire del mondo, rafforza nell’intreccio le esigenze di una

compiutezza esterna e formale.

Massimo Fusillo ha dimostrato come l’opposizione aperto/chiuso attribuita alla

contrapposizione tra epica e romanzo muti a seconda del momento storico34. Un caso esemplare

è quello delle dispute cinquecentesche, in cui l’epica, attraverso la rilettura di Aristotele, era vista

come un modello chiuso e unitario, mentre il romanzo era criticato per la sua disorganicità e

incompiutezza35. In una fase successiva, nell’equiparare Guerra e pace all’Iliade, Tolstoj esprime

31 M. Bachtin, Estetica e romanzo (1975), Torino, Einaudi, 2001, p. 473.


32 Ibidem.
33 Ibidem.
34 Cfr. M. Fusillo, Fra epica e romanzo, in Il romanzo. Le forme, vol. III, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002, pp. 10-11.
35 M. Fusillo, Fra epica e romanzo, cit., pp. 10-11. Fusillo individua nell’ossessione occidentale dell’originario la descrizione

dell’epica come “un blocco monolitico e organico, inattingibile nella sua assolutezza“.

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una concezione ancora diversa, che vede nel romanzo borghese una struttura chiusa e artificiale

in opposizione alla «maggiore aderenza al ritmo continuo della natura e della storia» nella forma

epica36. Se, con Fusillo, abbandoniamo la distinzione tra epica autentica ed epica letteraria, tra i

diversi esempi che costellano la storia della letteratura occidentale vediamo nel poema

cavalleresco, e in particolare con l’Ariosto, lo stretto e sincronico intreccio tra epica e romanzo 37.

Ancora nel quadro della riflessione hegeliana, di fronte alla difficoltà di classificare da un

punto di vista formale alcuni «testi sacri dell’Occidente moderno», Franco Moretti ha parlato di

«epica moderna», in virtù delle numerose somiglianze strutturali che legano queste opere a un

lontano passato38. In una traiettoria che va dal Faust a Cent’anni di solitudine, per Moretti

l’elemento centrale che contrassegna l’epica moderna è la «discrepanza tra la voglia totalizzante

dell’epica, e la realtà suddivisa del mondo moderno». Tra le caratteristiche che accomunano le

opere prese in esame vi sono la rarità, l’enciclopedicità e alcuni meccanismi addizionali di

combinazione tra le parti. La forma incline alle digressioni e alla proliferazione di episodi periferici

che si collocano a lato dell’Azione fondamentale favorisce la sperimentazione polifonica 39. Inoltre,

Moretti sottolinea come la storicità di queste opere emerga in virtù delle loro imperfezioni e dal

carattere di capolavori mancati.40 Se David Quint vede nell’epica una forma improntata alla

linearità, che organizza gli eventi verso una conclusione definitiva senza alternative possibili, 41

Moretti sottolinea come le opere dell’epica moderna presentino invece finali deboli, indecisi, «che

non chiudono il testo e non ne fissano il senso una volta per tutte»: «l’unità di questa forma non

risiede in una conclusione definitiva, bensì nella sua perenne capacità di riaprirsi» 42.

36 Ivi, pp. 31-32.


37 Ivi, p. 12. Cfr. di S. Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla Gerusalemme Liberata, Milano 1983;
L’ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento, Milano 1996; Il Furioso fra epos e romanzo, Pacini Fazzi, Lucca 1990; Il
modo epico, Laterza, Bari 2000.
38 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994, p. 4.
39 Ivi, p. 178.
40 Ivi, pp. 6-7.
41 D. Quint, Epic and Empire, Princeton, Princeton University Press, 1992, p. 33.
42 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994, p. 45.

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Bibliografia

• Amigoni, Ferdinando, Il modo mimetico-realistico, Roma-Bari, Laterza, 2011.

• Auerbach, Erich, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1953),

Torino, Einaudi, 2000.

• Barthes, Roland, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973.

• Bachtin, Michail, Estetica e romanzo (1975), Torino, Einaudi, 2001 Barthes,

Roland, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973.

• Brooks, Peter, Reading for the Plot (1984), Trame. Intenzionalità e progetto nel

discorso narrativo, Torino, Einaudi, 1995.

• Fusillo, Massimo, Fra epica e romanzo, in Il romanzo. Le forme, vol. III, a cura

di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2002.

• Hegel, G.W.F., Estetica, Einaudi, Torino.

• Kermode, Frank, Il senso della fine (1966), Milano, Rizzoli, 1972.

• Lukács, G., Teoria del romanzo (1920), Milano, SE, 2004.

• Moretti, Franco, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a

Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994

• Traversetti, Bruno, Explicit. L’immaginario romanzesco e le forme del finale,

Cosenza, Pellegrini, 2004.

• Zatti, Sergio, Il modo epico, Bari, Laterza, 2000.

• Zatti, Sergio, Il Furioso fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990.

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Indice

1 IL ROMAN ZO A PUNTATE E IL FEUILLETON ............................................................................................................................3


2 SUSPENSE E SORPRESA ..............................................................................................................................................................6
3 IL MOVIMENTO DILATORIO: I MISTERI DI PARIGI DI EUGÈNE SUE ............................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................................................................................... 14

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1 Il romanzo a puntate e il feuilleton

I primi passi del feuilleton francese, come spazio tipografico ospitante materiali eterogenei,

risalgono all’inizio dell’800. Prima del fondo-pagina dei quotidiani, romanzi a puntate erano stati

pubblicati sulle riviste letterarie come la Revue de deux mondes e la Revue de Paris. Il primo

supplemento fu quello del Journal des Débats, composto da annunci, recensioni teatrali, bollettini

di vario genere, per accogliere progressivamente racconti di viaggi, novelle e infine romanzi

(Bianchini 1988: 15).

1844: Pubblicazione di I tre moschettieri di Alexandre Dumas

Sempre nel 1836, in Francia, Émile de Girardin, lancia il quotidiano «La Presse» e pubblica il

romanzo La Vieille Fille. L’obiettivo del fondatore del nuovo quotidiano è di guadagnare grazie al l e

inserzioni pubblicitarie, permettendo così l’abbassamento del costo dell’abbonamento. Nel creare

il terreno per il successo di giornale e romanzieri, l’evento porterà all’accentuazione delle tecniche

narrative volte a mantenere vivo l’interesse degli abbonati, essenziale per la sopravvivenza del

giornale.

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In realtà, La Vieille Fille non appare nel rez-de-chaussé del giornale, ma nelle colonne

all’interno della rubrica Variétés ospitata nelle pagine interne del quotidiano 1. Successivamente si

diffonderà sempre di più la stampa dei romanzi nel formato del feuilleton, dalle opere di Balzac a

quelle più popolari, come Les Trois Mousquetaires di Alexandre Dumas (1844), pubblicato dal

Siècle, il quotidiano fondato nel 1836 da Armand Dutacq in competizione con La Presse.

1836: Pubblicazione di La Vieille fille di H.d. Balzac

Nell’Inghilterra vittoriana, ogni settimana governanti, calzolai, operai si ritrovano a leggere

l’ultima puntata del romanzo di Charles Dickens. In diverse sue opere, la forma seriale della

distribuzione incide sul finale della puntata, che si chiude con un effetto di suspense, generando

nel lettore un sentimento di attesa della risoluzione dello snodo narrativo. La traccia di questo tipo

1 P. Pellini, Miti e termiti ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa incarnare la modernità, in H. de Balzac, La Vieille Fille (1836), trad. it.
La signorina Cormon, a cura di P. Pellini, Palermo, Sellerio, 2015.

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di distribuzione permane nella ristampa in forma di libro, in cui dal taglio del capitolo si riconosce il

taglio della puntata. Dopo il successo ottenuto dai bozzetti di Dickens Sketches by Boz, nel 1836-37,

sul Morning Chronichle, esce a puntate mensili The Pickwick Papers. Successivamente, lo scrittore

fonda e dirige la rivista «All the Year Round» (1859), che tra il 1860 e il 1861 pubblica a puntate

settimanali A Tale of Two Cities e Great Expectations, oltre a uno dei primi classici del genere

poliziesco, A Woman in White di Wilkie Collins.

I meccanismi della serialità distributiva non riguardavano solo i romanzi popolari, ma anche

le opere dei grandi romanzieri realisti. Ci si riferisce a quei romanzi che costituiscono tutt’oggi i

capolavori del genere, come La fiera delle vanità di W. M. Thackeray (1847-1848), Madame Bovary

di Flaubert (1856), Grandi speranze di Charles Dickens (1860-61), Middlemarch di George Eliot

(1871-72), Ritratto di signora di Henry James (1880-81), tra i vari. Romanzi oggi chiamati “classici”

ma che al tempo uscivano a puntate per ragioni di distribuzione e di struttura industriale. Gli inserti

settimanali o mensili andavano infine a comporre i cofanetti che ricordano i moderni dvd box che

arredano le librerie.

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2 Suspense e sorpresa

Se il romanzo-feuilleton francese abita il ‘piano-terra’ dei giornali, il cosiddetto rez-de-

chaussé, il romanzo a puntate inglese occupa le colonne del fascicolo allegato alla rivista. In

entrambi i casi, nelle opere più appartenenti al genere popolare, a dominare il ritmo dell’intreccio

è l’iterazione della suspense, che chiude e governa il finale di molte puntate nel cosiddetto twist, il

giro di vite, chiamato oggi cliffhanger nei moderni serial TV. Come ha mostrato Seymour Chatman,

a differenza dell’effetto sorpresa, legato a un avvenimento improvviso e inaspettato ma dal

carattere effimero, la suspense è un fenomeno più complesso, che si basa su uno stato di

apprensione e di tensione del lettore sapientemente dosato, a prescindere dall’esito prevedibile

dell’avvenimento. Chatman precisa come suspense e sorpresa siano termini complementari e non

contraddittori, passibili di «funzionare insieme nelle narrazioni in modi complessi: una

concatenazione di eventi può avere inizio con una sorpresa, trasformarsi in un intreccio di suspense

e poi terminare con un capovolgimento, vale a dire eludendo le attese – un’altra sorpresa»

(Chatman 2003: 59-60). Chatman cita come esempio classico Grandi speranze e mostra come

l’intreccio del romanzo sia caratterizzato da una vera e propria associazione suspens e-sorpresa.

L’immagine seguente riposta la pubblicazione del primo episodio di Grandi speranze sulla

rivista fondata e diretta da Dickens, All the Year Round. Alla sinistra si può osservare l’incipit, alla

destra il finale dell’episodio, che si conclude co n il giovane protagonista, Pip, che si precipita

affannato verso le paludi a consegnare la lima e il pasticcio di carne al forzato evaso che l’ha

minacciato poc’anzi, Magwitch.

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copyright. Ne è severam ente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parzi ale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Come spiega Chatman:

La sorpresa iniziale è lo shock che Pip ha quando Magwi tch lo agguanta all’improvviso nel

cimitero; l’episodio conduce a un crescendo di suspense provocato dal furto del cibo e della lima

[...]. La suspense è in parte alleviata dalla consegna a Magwitch. Pip non deve più temere per la

sua pelle. Ma il lettore avverte una doppia suspense, quella della storia, cioè la paura di Pip stesso,

e quella del discorso, per cui prevede guai di cui Pip non è ancora a conoscenza. Pip prende tutto

quello che gli viene a mano [...]. Un pasticcio di maiale desta particolarment e l’attenzione: il

pasticcio è destinato al pranzo di Natale e noi temiamo per Pip una nuova ondata di avvenimenti .

Il sospetto si rivela esatto: dopo il budino [… ] sua sorella ordina improvvisamente a Joe “piatti pul i t i

– freddi”. La suspense che abbiamo provato è ora giustificata, ma per Pip l’effetto è di sorpresa

[...]. La sorpresa di Pip si muta in una suspense insopportabile: “Abbandonai la gamba del tavo l o e

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fuggii con quanta forza avevo”. Solo per essere fermato da una nuova sorpresa (nella storia): i

soldati alla porta. A questo punto il capitolo finisce. 2

Sulla temporalità della suspense aveva riflettuto anche Roland Barthes, sottolineando come

in questo tipo di movimento l’accento cada sulla struttura fondamentalmente “interrogativa” della

narrazione, che si basa su una domanda (o su una serie di domande) a cui la storia, con il suo

sviluppo, deve fornire una risposta.

Il “suspense” [...] si lega in modo evidente alla domanda: una domanda vitale la cui

risposta, incerta, tarda in maniera particolare. Ogni racconto, a quanto pare, comporta

fondamentalmente una domanda. Si possono ricondurre i racconti classici della letteratura

occidentale, per quanto semplificate siano le sue strutture, a quattro domande principali, a

quattro tipi di “suspense”: due suspense d’essere e due suspense di fare. Secondo il primo tipo di

suspense, il racconto assolve la funzione di ritardare e di rispondere alla domanda Chi? (Chi ha

fatto questo? Chi è in realtà questo personaggio? ecc.) [...] 3

Il racconto ha la funzione di rispondere, differendo, a quattro domande principali: Chi? Che

cosa? Come andrà a finire? E, come suggerisce Barthes, in che modo?

[… ] ci sono dei racconti la cui conclusione è conosciuta dal lettore fin dall’inizio e la cui

struttura è non di meno sospensiva: la domanda verte allora sul modo in cui l’esito sarà raggiunto.

A quest’ultimo tipo di suspense appartengono tanto la tragedia, fondata sulla molla

dell’ineluttabilità, quanto quel tipo di racconto di cui si sa in anticipo il risultato, per poi risalire alle

origini, secondo il procedimento del flash-back. (Barthes [1970] 1974: 22)

L’analisi dello studioso francese si focalizza sull’elemento dilatorio all’origine del ritmo della

narrazione. Il ritardo con cui il racconto risponde alla domanda rivela la dinamica paradossale del

testo, che deve «mantenere l’enigma nel vuoto iniziale della sua risposta», in una costante tensione

tra l'inarrestabile movimento in avanti della storia e l’azione contraria esercitata dal codice

2 Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film (1978), Milano, Il Saggiatore,
2003.
3 Roland Barthes, Maschile, femminile, neutro (1970).

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ermeneutico, che dispone «nel flusso del discorso dei ritardi (zig -zag, fermate, deviazioni)» (1973:

72-73) .

Come spiega Roland Barthes in un celebre saggio, S/Z, incentrato sull’analisi del racconto

di Balzac, Sarrazine:

La dinamica del testo [...] è paradossale: è una dinamica statica: il problema è quello di

mantenere l’enigma nel vuoto iniziale della sua risposta; laddove le frasi fingono lo “svolgimento”

della storia e non possono impedirsi di portare, spostare questa storia, il codice ermeneutico

esercita un’azione contraria: deve disporre nel flusso del discorso dei ritardi (zig -zag, fermate,

deviazioni); la sua struttura è essenzialmente reattiva giacché oppone all’avanzata ineluttabile del

linguaggio un gioco scaglionato di fermate: costituisce, tra la domanda e la risposta, tutto uno

spazio dilatorio, il cui emblema potrebbe essere la “reticenza”, quella figura retorica che

interrompe la frase, la sospende e la devia [...].

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3 Il movimento dilatorio: I misteri di Parigi di Eugène


Sue

Un esempio calzante di una struttura narrativa dilatoria può essere dato dal feuilleton più

celebre dell’Ottocento francese, Les Mystères de Paris di Eugène Sue. L’arco narrativo principale

del romanzo è costituito dalla ricerca intrapresa dal Granduca Rodolphe de Gerolstein della figlia,

ceduta all’età di sei anni dalla perfida e ambiziosa madre Sarah Mac Gregor. Spinto anche dal

senso di colpa per la morte del padre, Rodolphe vaga nei meandri della città per punire i

delinquenti e soccorrere i miserabili, ai quali offre una possibilità di riabilitazione. In una delle sue

perlustrazioni negli oscuri vicoli della Cité si imbatte così, senza saperlo, nella figlia perduta,

soprannominata da alcuni la Goualeuse per la voce cristallina, da altri Fleur -de-Marie per la natura

angelica. Nello spirito e nell’aspetto la giovane è rimasta incredibilmente pura, nonostante abbia

trascorso l’infanzia mendicando nei bassifondi di Parigi e sia stata costretta alla prostituzione da

miseria, solitudine e inganni. La natura di Rodolphe è duplice: da un lato nobile ed eroico

protettore dei deboli, dall’altro spietato giustiziere, con gli attributi dell’onnipotenza. Pur non

sapendo di aver incontrato sua figlia, conquistato dalla grazia e dalla sua triste sorte, Rodolphe la

prende in custodia e la porta a vivere con sé nel podere di Bouqueval. In un ambiente sereno,

circondata dalla natura e protetta dall’affetto della signora Georges, Fleur -de-Marie rifiorisce, ma

cade anche in balia di tormenti interiori dovuti ai sensi di colpa per la vita passata. Il suo tormento

è acuito dall’incontro con la coetanea Clara, cresciuta nell’innocenza e ignara del suo passato

non raccontabile e dunque non superabile.

Come in Grandi speranze, anche in quest’opera la fine del capitolo coincide di frequente

con il finale della puntata, che anticipa la continuazione della storia in una brusca chiusura.

Prendiamo come esempio le vicende che ruotano intorno al rapimento di Fleur-de-Marie. Senza

sapere di stare pianificando l’ennesima sventura di colei che è sua figlia, Sarah Mac Gregor

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recluta – insieme ad altri due delinquenti, il Maître d’école e Tortillard – la Chouette, la stessa

crudele donna che aveva cresciuto la fanciulla nello sfruttamento e nella tortura.

Se il finale del capitolo 22 della seconda parte si conclude con l’immagine dei tre villains

posizionati nel luogo dell’imboscata, lo sviluppo dell’azione, con i ritardi tipici del meccanismo

dilatorio si distribuisce in diversi capitoli della terza parte, occupando i finali dei capitoli 1 e 12 e si

chiude infine nel 14. Al termine del capitolo 12 è introdotta da queste parole:

Peu d’instants après, la Goualeuse sortait de la ferme afin de se rendre au presbytère par le

chemin creux où la veille le Maître d’école et Tortillard étaient convenus de se retrouver. (Sue 1963:

256)

[trad. it.: «Poco dopo, la Goualeuse usciva dalla fattoria; ma per recarsi alla canonica

doveva seguire quella strada incassata in cui il giorno prima la vecchia, il Maître d’école e Tortillard

avevano deciso di trovarsi» (2011: p. 332)]

Il rapimento si compie infine alla fine del capitolo 14 quando la fanciulla, nel percorrere la

strada che congiunge il podere con la canonica, viene aggredita, legata e imbavagliata

dall’ignobile trio:

Quelques minutes après, la Goualeuse était transportée dans le fiacre conduit par Barbillon,

quoiqu’il fit nuit, les stores de cette voiture étaient soigneusement fermées, et le trois complices se

dirigèrent, avec leur victime presque expirante, vers la plaine Saint -Denis, où Tom les attendait.

(ibid.: 260)

A questo punto anziché sollevare i lettori dalla suspense innescata dal rapimento in corso,

Eugène Sue decide di sviluppare altri sentieri narrativi, lasciando in trepidante attesa il suo pubblico

eterogeneo, che andava dalle governanti agli operai. Infatti la puntata successiva, il capitolo 15,

inizia con: «Le lecteur nous excusera d’abandonner une de nos héroïnes dans une situation si

critique, situation dont nous dirons plus tard le dénoûment» (ivi: 260).

Prima di conoscere la sorte della sventurata, verremo introdotti alle vicende di Clémence

d’Harville, conosceremo le sventure dei Morel causate dal perfido notaio Jaques Ferrand, faremo

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conoscenza con la sartina Rigolette e saremo edotti sulle truffe del signor di Saint -Remy, per citare

solo alcuni dei filoni narrativi. Ritroveremo la Goualeuse ben trentadue capitoli dopo, in uno dei

numerosi intrecci delle trame parallele: la marchesa d’Harville, che si è data alla causa di

Rodolphe, intende aiutare le fanciulle perdute degne di riabilitazione e “casualmente” inizia

questa attività nel famigerato carcere di Saint -Lazare, dove – per vicende alterne che scopriremo

in seguito – è tenuta imprigionata la giovane.

Per opera di Jacques Ferrand, nello stesso carcere finisce un altro “giovane innocente e

perseguitato”, Germain. Le disavventure del giovane si intrecciano alla storia di Gringalet e

Coupe-en-deux, raccontata dal “bardo” Pique-Vinaigre al cerchio di detenuti paganti riunitisi per

ascoltare la narrazione. Con le sue sapienti interruzioni e divagazioni, il galeotto, esperto narratore,

tiene avvinti al suo racconto gli ascoltatori, che fremono per conoscere la conclusione della storia.

Mise en abîme del romanzo stesso, il racconto fittizio di Pique-Vinaigre evoca la dinamica narrativ a

contenuta nel romanzo stesso di Sue, la cui pubblicazione seriale, segmentata da interruzioni

strategiche, generava nei lettori uno stato febbrile di attesa. A questo proposito, Paolo Tortonese

osserva come il piacere del lettore

[… ] si nutre del proprio rinvio, si gonfia di una privazione, si compiace nel tormento. Più si

aspetta a godere, più si gode, ma il godimento vero non sta alla fine dell’attesa. Non avviene

quando scompare l’ostacolo e si svela il finale: sta invece proprio in ciò che impedisce e

nasconde, nel pungolo sadico della dilazione, nella tortura del vedersi sfuggire la preda. (Tortonese

2002: 143)

Intrinseco alla forma stessa della serialità narrativa, l’andamento dilatorio tipico della

suspense ricorre anche nei serial moderni, e soprattutto in quelli appartenenti al genere poliziesco.

Come è stato detto dagli studi sulla televisione, nel testo televisivo, a ogni intensificazione

passionale segue immediatamente una distensione che permette alla serie di ritornare all’equilibrio

attanziale iniziale: «in altre parole, se in ogni episodio di un poliziesco si arriva a un climax di

tensione quando si sta per arrestare il criminale, è poi previsto dallo schema della serie che nel

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finale la tensione sia stemperata in modo da riportare la situazione allo stato iniziale» (Grignaffini

2008: 165).

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Bibliografia

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• Bartes, Roland, “Maschile, femminile, neutro” (1970), Nuovi argomenti,

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• Bianchini, Angela, La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento,

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• Bertoni, Clotilde, Letteratura e giornalismo, Roma, Carocci, 2009.

• Bertoni, Clotilde – Fusillo, Massimo, “Tematica romanzesca o topoi letterari di

lunga durata?”, Il romanzo. Temi, luoghi, eroi, Ed. Franco Moretti, Torino,

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• Tortel, Jean, “I l romanzo popolare”, in Eco – Sughi 1971.

• Tortonese, Paolo, “I misteri di Parigi”, in Moretti 2002.

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Indice

1. TEORIE E FORME DEL ROMANZO STORICO ............................................................................................ 3


2. GYÖRGY LUKÁCS E IL ROMANZO STORICO ......................................................................................... 5
3. TEORIE DEL PERSONAGGIO STORICO .................................................................................................... 8
4. ROBESPIERRE, DANTON, MARAT: VICTOR HUGO ................................................................................ 11
5. LA RELAZIONE TRA PERSONAGGI FINZIONALI E FITTIZI ....................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. Teorie e forme del romanzo storico

Nell’Ottocento, tra i diversi romanzi pubblicati a puntate, figura il genere del romanzo

storico. Tra gli esponenti più celebri, si pensi a Ivanohe di Walter Scott, I promessi sposi di Alessandro

Manzoni, o Guerra e pace di Tolstoj. In questa lezione saranno forniti dei cenni sulla storia e le

caratteristiche del genere, nonché sulle maggiori teorie elaboratene intorno.

Da sempre attuale, la riflessione sul rapporto tra letteratura e storia trova spazio già nelle

pagine della Poetica di Aristotele, in cui il filosofo contrappone i due ambiti argomentando che «Lo

storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi [...] si distinguono invece in questo:

l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire». Da questo presupposto, Aristotele

considera la poesia di maggiore fondamento teorico e più importante della storia poiché «dice

infatti piuttosto le cose universali, la storia quelle particolari».1

Alla base del romanzo storico sta il rapporto problematico tra storia e finzione. Un rapporto

che può essere anche ambiguo, nella sua dinamica tra fatti realmente accaduti e storie inventate,

tra personaggi storici e personaggi letterari, e in generale, tra le due modalità discorsive del

racconto fattuale e del racconto finzionale. Nel corso dei secoli, la forma della contrapposizione

netta che lega i due termini sfuma sempre di più a favore dell’intreccio. Il romanzo storico

tradizionale – soprattutto nella versione di Manzoni – presupponeva una distinzione netta tra fatti

reali e fatti immaginari, anzi l’effetto dipendeva dalla capacità del lettore di non confondere

questi piani. Nel romanzo contemporaneo, le trame nitide che compongono l’intreccio di questi

due elementi diventano sempre di più ingredienti solubili di una composizione generata dalla

mescolanza, in cui i confini tra vero, falso e finto, in alcune narrazioni sono sempre più labili. Di pari

passo, la riflessione critica si interroga sempre di più sull’intreccio tra documento storico e

invenzione narrativa. In particolare, nelle fasi successive della modernità, a partire dal primo

Novecento, e da quello che Hayden White ha chiamato «l’evento modernista», la

1 Aristotele, Poetica, IX, 151b, tr. it. a cura di P. Donini, Einaudi, Torino 2008, p. 63.

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contrapposizione tra fatto e finzione si sfuma, diventa sempre più confusa con vaste aree di

sovrapposizione e interferenza, fino a sospendere la distinzione tra reale e immaginario.

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2. György Lukács e Il romanzo storico

La relazione tra letteratura e storia acquista un rilievo crescente nel corso della modernità

borghese. Nell’alveo del romanticismo e di una nuova coscienza storicista nasce e si sviluppa il

romanzo storico, una delle forme narrative più importanti in questo ambito. Su questo genere

letterario resta tutt’oggi imprescindibile la lezione di György Lukács, raccolta nel suo saggio Der

historische Roman.16 «Rappresentare i destini individuali in cui i problemi dell’epoca trovino la loro

espressione al tempo stesso immediata e tipica»: questa è per Lukács l’anima del romanzo storico.

Dal punto di vista artistico, l’elemento decisivo per la riuscita dell’opera è la rappresentazione del

contenuto sociale e psicologico del destino narrato, raccontato nel suo collegamento con le

grandi questioni tipiche della vita del popolo.17 Al centro della riuscita estetica dell’opera per

Lukács è l’immediatezza dei rapporti della vita con gli avvenimenti storici, mentre la capacità più

preziosa dell’autore di romanzi storici risiede nel saper inventare «uomini e destini in cui appaiano in

forma immediata gli importanti contenuti, problemi, tendenze ecc. umano-sociali di un’epoca».

Per Lukács, è essenziale che la scrittura di questo genere muova dalla vita del popolo e

rappresenti la storia dal basso;18 una suggestiva definizione che sarà ripresa negli anni Settanta da

un pezzo importante della storiografia contemporanea.19

È evidente come in Lukács la riflessione sul romanzo storico affondi le radici nel rapporto

dello scrittore con la realtà e con i problemi sociali del suo tempo: «Il rapporto dello scrittore con la

storia non è qualcosa di speciale o di isolato, ma è un importante elemento costitutivo del suo

rapporto con la realtà intera e in special modo con quella sociale». 2Per lui, la forma classica del

romanzo storico nasce dal grande romanzo sociale e acquisisce profondità grazie alla prospettiva

storica.3

Il romanzo storico percorre le tappe individuate da Lukács come significative nel cammino

del genere: l’epoca d’oro del romanzo storico, cioè “la forma classica”, incarnata al massimo da

2 G. Lukács, Il romanzo storico, cit., p. 224.


3 Ivi, p. 225.

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Walter Scott e Alessandro Manzoni; il romanzo dell’umanesimo democratico, rappresentato

soprattutto da Victor Hugo; e infine, nella prospettiva dell’autore, la decadenza del romanzo

borghese, da Flaubert al naturalismo e simbolismo. La perdita del nesso tra destini individuali e

destini generali è per Lukács la causa principale della decadenza del genere.

All’origine di questo scollamento risiede la modernizzazione dei personaggi, «evitabile solo

se i pensieri e i sentimenti, le opinioni e le esperienze vissute dagli uomini che agiscono nel romanzo

storico vengono sviluppate organicamente in tutta la loro concreta complicazione dalle concrete

condizioni di esistenza del tempo». La narrazione astratta della base esistenziale produce dei

personaggi rappresentati solo dal lato psicologico, senza il controllo dei fatti concreti della realtà, «i

soli capaci di mostrare allo scrittore quali specie di sentimenti e di pensieri siano in genere possibili

per un uomo di un determinato periodo, in quanto figlio del suo tempo». 4

La frattura fra gli avvenimenti storici e la psicologia dei personaggi determina la perdita

della significatività intrinseca dell’accadere storico-sociale. A compensare il venire meno di questo

tratto, che per Lukács è l’elemento decisivo, subentrano l’esotismo e la pseudo-monumentalità

dell’ambiente storico. Desiderio di evasione, privatizzazione della storia e modernizzazione della

psicologia dei personaggi sono dunque le caratteristiche deteriori che Lukács individua in quella

che per lui è la fase decadente del genere.

Nell’ultima parte del libro Lukács si misura con la sua contemporaneità: il romanzo

antifascista del Novecento, che per lo studioso trova la sua maggiore espressione nella prosa di

Heinrich Mann. Se l’analisi lukácsiana delle caratteristiche del romanzo storico continua a essere un

riferimento imprescindibile e un modello altissimo di critica letteraria (al di là dei suoi giudizi di

valore, che qui non sono condivisi), la conclusione del libro si incanala più strettamente

nell’orizzonte marxista della Storia.

Il libro si conclude con uno sguardo fiducioso sul futuro, caratterizzato dall’armonia tra

destini individuali e destini generali in una società liberata dall’ingiustizia sociale. Da un punto di

vista artistico-formale, il romanzo in genere, e il romanzo storico in particolare, riverbereranno la

4 G. Lukács, Il romanzo storico, cit., pp. 411-412.

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pienezza della realtà sociale attraverso la tendenza all’epica.5 Se per quanto riguarda le

condizioni materiali il nuovo romanzo storico si situerà agli antipodi di quello classico, il ritorno «alla

genuina grandezza epica» avrà l’effetto di «richiamare in vita le leggi generali della grande

narrativa, riportarle alla coscienza e convertirle di nuovo in prassi».25

5 Ivi., p. 487.

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3. Teorie del personaggio storico

I grandi personaggi storici rappresentati dai classici hanno la funzione artistica di sintetizzare

a un più alto grado di tipicità storica e di universalizzare poeticamente problemi e tendenze di

un’epoca, una volta che siano stati resi concreti e tali da poter essere rivissuti da noi in forma

immediata.6

Per Lukács, nei classici del romanzo storico le grandi figure non si sviluppano quasi mai sotto

gli occhi del lettore. L’evoluzione, la genesi dell’“individuo storico universale” ha luogo nel popolo.

In questo Lukács riprende la riflessione fatta a suo tempo da Balzac, quando faceva notare come

in Walter Scott le grandi figure apparissero sempre in quei punti in cui lo esigeva la necessità

oggettiva dei movimenti popolari. Esse allora si presentano già compiute ai nostri occhi, come

sintesi e supreme espressioni di questo sviluppo. I personaggi storici sono grandi in quanto

posseggono questa “forza sintetica”: la capacità di risolvere i problemi che agitano più

profondamente la vita del popolo. «Sovrastano il popolo di una testa nella statura spirituale, come

gli eroi di Omero nella statura fisica. Ma sono grandi storicamente proprio perché sovrastano il

popolo appunto solo della testa, perché danno alle questioni concrete del popolo la soluzione

concreta che è possibile e necessaria dal punto di vista storico-sociale. Questa grandezza

costituisce, in molti casi, al tempo stesso il loro limite».7 In sintesi, nei classici le grandi figure storiche

devono essere nell’insieme della composizione, personaggi secondari ma indispensabili per

completare e universalizzare il quadro storico.8

Da una prospettiva più recente, vediamo che non sono molto dissimili le riflessioni di Roland

Barthes sull’uso del personaggio storico nei romanzi. Barthes sottolinea come sia proprio la scarsa

importanza nell’economia dell’opera a conferire al personaggio storico «il suo peso esatto di

realtà: questa scarsità è la misura dell’autenticità di Diderot, di Mme de Pompadour... sono

introdotti nella finzione lateralmente, obliquamente, di passaggio, dipinti sullo scenario, non

6 Ivi, pp. 395-6.


7 Ivi, p. 107.
8 Ivi, p. 108.

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staccati sulla scena». Qualora il personaggio storico dovesse assumere la sua importanza reale, «il

discorso sarebbe obbligato a dotarlo di una contingenza che, paradossalmente, lo priverebbe di

realtà [...]: bisognerebbe farli parlare, e, come impostori, sarebbero smascherati». 9 Al contrario, se

sono solo mescolati ai loro vicini fittizi, citati come all’appello di una semplice riunione mondana, la

loro modestia, «come una chiusa che pareggi due livelli, mette sullo stesso piano il romanzo e la

storia: reintegrano il romanzo come famiglia, e come avi contraddittoriamente celebri e irrisori,

danno al romanzesco il lustro della realtà, non quello della gloria: sono effetti superlativi di reale».

Per Roland Barthes l’“effetto di reale” è il «fondamento di quel verosimile inconfessato che

costituisce l’estetica di tutte le opere correnti della modernità».

Per Philippe Hamon, citare un nome storicamente “pieno di senso”, come Napoleone o

Bismark, ma vuoto di significato narrativo (poiché questi personaggi non “partecipano” al

racconto, alla trama e alle avventure degli altri personaggi) rappresenta quindi, nel discorso

realista, l’equivalente superlativo della citazione di oggetti e particolari “insignificanti” (il

“barometro” sulla parete, il “mogano” delle sedie di Mme Aubin, il pezzo di “sapone azzurro in un

piatto sbreccato” della stanza di Felicité in Un coeur simple).10 Hamon inserisce i personaggi storici

(come Napoleone III nei Rougon-Macquart, o Richelieu in Dumas) nella categoria dei personaggi-

referenziali, in compagnia dei personaggi mitologici, come Venere o Giove, dei personaggi

allegorici, come l’amore o l’odio, o dei personaggi sociali, come l’operaio, il cavaliere o il picaro.

La caratteristica di questo tipo di personaggi è di rimandare a un senso definito da una

determinata cultura a ruoli, programmi e usi stereotipati. La loro leggibilità è direttamente

proporzionale al grado di partecipazione del lettore alla cultura corrispondente («devono essere

imparati e riconosciuti»). Integrati in un enunciato, i personaggi storici fungono essenzialmente da

“ancoraggio” referenziale, e rinviano al grande «Testo dell’ideologia, dei clichés o della cultura».

9 R. Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1970, tr. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973. Si veda il paragrafo “Il personaggio storico”.
10 Cfr. Ph. Hamon, Pour un statut sémiologique du personnage (1972), tr. it. “Per uno statuto semiologico del personaggio”,
in Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Pratiche, Parma 1977.

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Essi assicurano ciò che Barthes chiama l’“effetto di reale” e molto spesso partecipano alla

designazione automatica dell’eroe.11

Lukács afferma che per rendere evidenti i motivi sociali e umani dell’agire, gli avvenimenti

di scarsa importanza esteriore e le circostanze in apparenza poco rilevanti sono più funzionali dei

grandi drammi della storia universale.12 In questo aspetto risiede, secondo il teorico ungherese, la

differenza profonda tra il romanzo storico e l’epopea. Il carattere nazionale degli argomenti

dell’epoca e il rapporto tra individuo e popolo nell’età degli eroi esigono che nell’epos la figura

più importante abbia una posizione centrale, mentre nel romanzo storico è soltanto una figura di

contorno. L’aneddoto anziché il grande evento sembra essere più atto a comunicare i tratti

rilevanti di un’epoca.

11 Ivi, p. 92.
12 G. Lukács, Il romanzo storico, cit. p. 42.

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4. Robespierre, Danton, Marat: Victor Hugo

Come esempio di un romanzo storico che mette in scena dei personaggi realmente esistiti

e celebri nell’immaginario popolare prendiamo il Novantatré di Victor Hugo (1874), il romanzo

dedicato alla Rivoluzione francese e al Terrore.

In questo romanzo possiamo osservare che a livello formale i dialoghi tra i personaggi storici

(Robespierre, Danton, Marat) sono identici nello stile a quelli tra personaggi finzionali (Cimourdain,

Gauvain, Il Marchese Di Lantenac). Se da un lato il materiale storico è completamente

finzionalizzato e strumentale all’intreccio, e ne sono prova gli anacronismi che testimoniano

l’attenzione di Hugo per qualcosa che andava al di là del resoconto dei fatti, dall’altra la storia

ingloba completamente il romanzesco. Lo vediamo dalla costruzione dei personaggi, veri o

inventati che siano, colti nelle loro determinazioni storico-politiche. Non c’è duplicità, non c’è una

psicologia del personaggio che sia indipendente dalle opinioni politiche o dalla situazione storica,

non esiste un piano privato e un piano pubblico, non ci sono le microstorie che si fondono nella

grande storia, come ad esempio in A Tale of Two Cities (1859) di Charles Dickens. I protagonisti del

romanzo storico di Victor Hugo non sono eroi medi. Come nel dramma storico, sebbene non esclusi

del tutto, i motivi umani “privati” sono ridotti a quanto è drammaticamente necessario per

caratterizzare le grandi personalità nel loro rapporto coi problemi della vita del popolo 13.

In quest’opera, il trattamento dei personaggi storici è differente da quello che caratterizza

gli Chouans (1829) di Honoré de Balzac, o i romanzi fondatori Ivanhoe (1820) di Walter Scott e I

promessi sposi (1827) di Alessandro Manzoni, dove i personaggi storici compaiono come

ancoraggio referenziale, limitandosi a breve comparse che non interferiscono con lo sviluppo della

trama. Anche nel Novantatré i protagonisti sono personaggi fittizi e Robespierre, Danton e Marat

occupano la scena in una parte delimitata del romanzo. Tuttavia, all’interno della parte che li

contiene i tre rivoluzionari non sono introdotti nella finzione in una modalità “di passaggio”, “dipinti

13Per quanto riguarda analogie e differenze tra dramma storico e romanzo storico si veda di György Lukács (1937), Il
romanzo storico, Torino, Einaudi, 1965.

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sullo scenario” e “non staccati sulla scena”, come spiega Roland Barthes nelle sue riflessioni sul

personaggio storico a partire dalle considerazioni di Proust su Balzac 14. E soprattutto, sono lontani

dall’essere meri dispositivi di effet de réel del discorso realista, al pari di “un barometro” o di un

“pezzo di sapone azzurro”, ma partecipano alle avventure, determinandole, degli altri

personaggi15.

Se riprendiamo la riflessione di Lukács, e in particolare le pagine sul Simposio platonico16,

possiamo considerare che anche nel nostro caso le idee, il diverso atteggiamento dei personaggi

di fronte allo stesso problema, ossia la salvaguardia della Rivoluzione dai suoi nemici, sono «tratti

distintivi della loro personalità, come profonde e vive caratteristiche dell’essere loro». Come per

Socrate, Alcibiade, Aristofane e altri ancora, «le idee dei singoli personaggi non sono risultati astratti

e generali, ma è tutta la personalità di ognuno di essi che si accentra nel ragionamento, nel modo

di impostare e di risolvere il problema»17. Anche nel dramma moderno, come ha rilevato Peter

Szondi, continua a essere centrale la sfera del “tra”, il mondo di rapporti intersoggettivi espresso

stilisticamente nella forma del dialogo (1961). “Espressione della lotta, dell’urto degli uomini tra

loro”18, nel Novantatré il dialogo illustra plasticamente e con potenza drammatica i rapporti di

forza tra i tre rivoluzionari, che rappresentano la Montagna (Danton), il Comitato di salute pubblica

(Robespierre) e la Comune (Marat).

14 Roland Barthes, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973, p. 95.


15 Si veda Roland Barthes, L’effet de reel (1968); trad. it. “L’effetto di reale” (1968), in Il brusio della lingua, Torino, Einaudi,
1988, p. 158; e di Philippe Hamon, Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Parma, Pratiche, 1977, p. 180, n.30. Sul
ruolo secondario dei personaggi storici nel romanzo storico si veda di Lukács Il romanzo storico, cit. pp. 47-50, 396.
16 Si veda di G. Lukács, “La fisionomia intellettuale dei personaggi artistici”, in Il Marxismo e la critica letteraria, Torino,

Einaudi, 1953, p. 325.


17 Ibid.
18 Ibid.: 354.

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5. La relazione tra personaggi finzionali e fittizi

A generare la vicenda cruciale del Novantatré è infatti l’incarico di représentant-en-mission

che Robespierre assegna a Cimourdain, con pieni poteri su colui che scoprirà essere il suo figlio

spirituale, Gauvain.

Inesorabile e assoluto sono gli aggettivi che connotano più frequentemente Cimourdain,

così come clemenza e coraggio sono i termini ricorrenti per l'altra figura fittizia protagonista del

romanzo, Gauvain, eroe solare di chiara discendenza arturiana. Espressione simbolica del

Vescovato, il romanzesco Cimourdain entra in scena nella stessa modalità con cui sono raccontati

i tre personaggi prelevati dalla Storia. Non c’è nessuna transizione sintattica o interpuntiva a

segnalare il cambio di statuto del personaggio, che appartiene formalmente allo stesso discorso.

Così come non compare nessuno scarto stilistico: la figura di Cimourdain è descritta

minuziosamente quanto le altre (i personaggi referenziali) 19, e il dettaglio della rappresentazione

continua a veicolare temperamento individuale, posizionamento politico e una morale

storicamente determinata. Cimourdain racchiude tratti personali e collettivi che fanno da

contrappunto alle caratteristiche espresse fino a quel momento dalle altre tre figure. Da un punto

di vista della geografia simbolica delle figure, Cimourdain riverbera, proiettandole nella sfera

fittizia, alcune note caratteristiche di Robespierre: il pallore, la caparbietà, la cosiddetta

incorruttibilità, costituendosi come una sorta di doppio, sebbene più nobile e disinteressato. Nel

nesso che lega il suo destino privato ai problemi collettivi del suo tempo risiede la tipicità del

personaggio.

Il suo ingresso è raccontato dallo stesso narratore onnisciente e riflessivo, in un unico grand

récit. La stessa cosa avviene quando, dopo un altro Elenco Immane di nomi storici realmente

esistiti, si fanno i nomi del marchese di Lantenac, capo dei vandeani, e del capitano della colonna

in Vandea di cui Cimourdain sarà rappresentante in missione, ovvero il romanzesco, per nome e

statuto, Gauvain.

19 Si veda Ph. Hamon, Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, cit. , p. 92.

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Nonostante il loro carattere di personaggi fittizi, al pari dei loro corrispettivi storici

Robespierre, Danton, Marat, le vicende umane di Cimourdain e Gauvain illuminano quei tratti che

li rendono “individui storici universali”, “in virtù dei quali s’innalzano e tramontano tragicamente” 20.

La storia è alla portata dei personaggi, e nella frammentazione del racconto storico in una

moltitudine di azioni isolate, il generale ha la stessa essenza del particolare, il collettivo

dell’individuale, lo storico del fittizio21.

A parte Gauvain, che con la sua caratterizzazione evolutiva costituisce il vero scarto, tutti i

personaggi si mostrano animati da poche passioni, tuttavia profonde e monumentali e, come

nell’epica, specchio della violenza storica. Concepiti in modo semplice, statici ma non per questo

meno interessanti, i loro attributi individuali e collettivi sono scolpiti in maniera vivida e incisiva. La

forza della caratterizzazione sta anche nella descrizione accurata dei loro tratti esteriori, correlativi

fisici di stati mentali e disposizioni morali. L’insieme di queste componenti si manifesta, nella sua

forma più netta, nella sfera intersoggettiva del dialogo. “Fasci di relazioni” 22, i personaggi si

definiscono per opposizione o affinità, e ognuno di essi contribuisce con la sua rappresentazione a

fornire aspetti della personalità degli altri.

20 Il riferimento è alla riflessione di Lukács, rivolta al trattamento drammatico di personaggi storici come Il conte di
Carmagnola (A. Manzoni), Boris Godunov (A. Puškin) e Danton (G. Büchner), opere che riescono secondo l’autore a
tradurre le forze motrici storico-sociali nell’azione e reazione di concreti individui in lotta (Il romanzo storico, p. 210).
21 Si veda il critico Guy Rosa, ibidem.
22 Mi riferisco a una delle definizioni che Philippe Hamon dà della categoria di personaggio, ibid.: 94.

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Bibliografia

 Barthes, Roland, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973.

 Barthes, Roland, “L’effetto di reale” (1968), Il brusio della lingua, Torino,

Einaudi, 1988.

 Ginzburg, Carlo, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2007.

 Hamon, Philippe, Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Parma,

Pratiche, 1977.

 Hobsbawm, Eric J., Echi della Marsigliese, Milano, Rizzoli, 1991.

 Hugo, Victor, “Reliquat”, Œuvres complètes, Paris, Laffont, collection

"Bouquins", 2002.

 Hugo, Victor, Œuvres complètes, Paris, Laffont, 1985.

 Id. Quatre-vingt-treize (1873), Œuvres complètes. Roman III, Paris, Laffont,

1985; trad. it. Novantatré, Milano, Mondadori, 2010.

 Lukács, György, Der Historische Roman (1957); trad. it. Il romanzo storico,

Torino, Einaudi, 1965.

 Id., “La fisionomia intellettuale dei personaggi artistici”, Il Marxismo e la critica

letteraria, Torino, Einaudi, 1953.

 Manzoni, Alessandro, Lettera a Monsieur Chauvet sull’unità di tempo e di

luogo nella tragedia (1820), Ed. Barnaba Maj, Firenze, Aletheia, 1999.

 Mazzoni, Guido, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.

 Rosa, Guy, “Quatre-vingt-treize ou la critique du roman historique”, Revue de

l'histoire littéraire de la France, 75, 2-3, (mars-juin 1975): 329-343.

 Stara, Arrigo, L'avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier, 2004.

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 Testa, Enrico, Eroi e figuranti, Torino, Einaudi, 2009.

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Indice

1. VICTOR HUGO E LA RIVOLUZIONE FRANCESE ...................................................................................... 3


2. DAI MISERABILI A NOVANTATRÉ ............................................................................................................ 5
3. NOVANTATRÉ: LA TRAMA ....................................................................................................................... 7
4. L’EVOLUZIONE DEL PERSONAGGIO: GAUVAIN .................................................................................... 8
5. NOVANTATRÉ: TRA IDEOLOGIA E TRAGEDIA ...................................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 17

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1. Victor Hugo e la Rivoluzione francese

L’immaginario politico della letteratura è attraversato da lotte, rivolte e rivoluzioni. Tra i

numerosi esempi, in questa lezione ci soffermeremo sul racconto della Rivoluzione francese in

Quatrevingt-treize (Novantatré) di Victor Hugo, definito da Lukács come «il primo grande poema

storico in cui il nuovo spirito dell’umanesimo di protesta abbia cercato di dominare la storia del

passato». Parafrasando lo storico Erich Hobsbawm, se ci interroghiamo sul tempo e sul luogo in cui

si trova Victor Hugo al momento della sua riflessione sulla Rivoluzione francese, lo troviamo, nel

1871, nella Parigi sconvolta dalle violenze legate alla repressione della Comune: un evento storico

dagli esiti catastrofici, che porta a 25.000 esecuzioni sommarie, deportazioni, carcere a vita e altre

disgrazie ai suoi protagonisti. Anche se il progetto del libro inizia ben prima, nel biennio 1862-1863, è

certo che gli anni della redazione dell’opera siano stati segnati da questo evento traumatico, il cui

effetto ha influito sulle tonalità del romanzo uscito poi nel 1874, agli albori della Terza Repubblica.

La rivoluzione francese, oggetto dagli ultimi trent'anni del XX secolo di un processo di

revisionismo che ne ha messo in discussione l'importanza, è stata interpretata in modi diversi, a

seconda del "tempo e del luogo in cui si trovava l'osservatore" 1. Nel corso del primo centenario, la

valenza politica della ricorrenza non era assolutamente messa in dubbio, ma la paura dominante

in Europa, era quella dell'estensione della democrazia politica a tutte le società parlamentari

europee.

Dal 1870 in poi la Francia aveva optato per la Repubblica e la democrazia e tutti, anche gli

antigiacobini più accaniti, concordavano nel considerare la rivoluzione un evento storico

fondamentale dalle conseguenze positive.

Con il romanzo Il novantatré, (Quatre-vingt-treize, 1874), pubblicato agli albori della Terza

Repubblica, Victor Hugo mette in scena la Rivoluzione attraverso una narrazione possente che –

1
Eric J. Hobsbawm, Echi della Marsigliese, Milano, Rizzoli, 1991.

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nella commistione di personaggi storici e personaggi di finzione e nello scenario della rivolta in

Vandea e del Terrore – rende in figura idee e passioni di quel tempo grandioso e terribile.

«Nous sommes 89 aussi bien que 93» dichiara Hugo nel William Shakespeare ([1864] 1973:

302) – opera di poesia e critica leggibile come continuazione di Les Misérables e prefazione al

futuro Quatre-vingt-treize – in cui dipinge il XIX secolo come figlio della Rivoluzione francese, «mère

auguste» e «hydre» al contempo (ibid.).

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2. Dai Miserabili a Novantatré

La riflessione sulla necessità della violenza nella storia coinvolge la produzione artistica di

Hugo a partire dal colpo di stato di Luigi Bonaparte (1851) dispiegandosi in tutto il periodo dall'esilio

a Guernesey fino al ritorno in patria. Il trauma vissuto di fronte al bagno di sangue della repressione

della Comune nel 1871 si riflette nel cambiamento tonale della narrazione ravvisabile nel

passaggio dai Miserabili (1862, pubblicato a rivoluzione non ancora conclusa) al Novantatré (1874,

qualche anno dopo gli eventi della Comune). In questo passaggio la narrazione titanica delle

barricate lascia il posto a una rappresentazione che attraverso i conflitti morali dei personaggi si fa

riflessione sul tema della violenza e del diritto.

Nei Miserabili i tratti del vecchio convenzionale G. sono fissati in una rappresentazione

augusta e monumentale: «uno di quei grandi ottuagenari che fanno la meraviglia del fisiologo».

Come scrisse Hugo nel romanzo stesso, la rivoluzione ebbe molti di questi uomini proporzionati

all'epoca». Nel romanzo, la potenza di questo personaggio è tale da spingere il buon vescovo

Myriel a chiedere la benedizione proprio a colui che veniva considerato dall'opinione pubblica

tipica della Restaurazione un mostro, un "quasi regicida"(ibid.: 38). Così il vecchio convenzionale,

interpellato da Myriel sul suo presunto voto per la morte del Re, al quale peraltro non prese parte,

risponde:

J'ai voté la fin du tyran. C'est-à-dire la fin de la prostitution pour la femme, la fin de

l'esclavage pour l'homme, la fin de la nuit pour l'enfant.

En votant la république, j'ai voté cela.

[trad. it. «Ho votato la fine del tiranno. Ossia la fine della prostituzione per la donna, la fine

della schiavitù per l'uomo, la fine delle tenebre per il fanciullo. Nel votare la Repubblica ho votato

tutto questo”]

"La rivoluzione francese è la sagra dell'umanità" e il Novantatré "lo scoppio del tuono" dopo

una nube durata mille e cinquecento anni (p. 42). Già in queste pagine il Novantatré è

considerato "inesorabile" e il vecchio convenzionale, prossimo a morire, guardando verso il cielo si

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rivolge all'Ideale, così come nel Novantatré, la mente del personaggio principale, il giovane

Gauvain, poco prima dell'esecuzione, si proietta verso un futuro utopico. Dodici anni più tardi la

figura marmorea e immersa nel sole del vecchio convenzionale assumerà un'altra curvatura

attraverso la dialettica instaurata dai personaggi di Cimourdain e Gauvain, "anime gemelle" e

polarità di un campo simbolico dominato dalla necessità rivoluzionaria e dal primato dell'umano,

che attraversa l'année terrible raccontato nel Novantatré.

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3. Novantatré: la trama

Francia, 1793: l'ex prete Cimourdain, commissario delegato con pieni poteri dal Comitato

della salute pubblica, ha l'incarico di fermare e uccidere il capo della rivolta in Vandea – il

Marchese di Lantenac – per salvare la Repubblica. A tale scopo, viene delegato da Robespierre

presso il comandante della colonna di spedizione inviata contro il Marchese, il coraggioso

capitano Gauvain. Come afferma Marat, il capitano dal sangue nobile è segnato da un unico

difetto: la clemenza. È su questo punto che Cimourdain dovrà essere inflessibile: le leggi interiori dei

vincoli familiari e degli affetti devono essere subalterne al decreto della Convenzione, che

commina la pena di morte a chiunque aiuti un ribelle prigioniero a fuggire. Gauvain dovrà essere

inesorabile contro suo zio Lantenac, e Cimourdain dovrà essere inesorabile verso il suo adorato ex

allievo, del quale è padre spirituale.

Quello che sembrava essere considerato impensabile nei tempi assoluti in cui si svolge la

vicenda si compie: commosso dal gesto pietoso di Lantenac, che nel salvare i tre bambini

imprigionati nell'incendio della Torgue si consegna alla colonna repubblicana, Gauvain decide di

liberare il generale nemico: la notte prima dell'esecuzione lo fa fuggire dalla cripta in cui era

imprigionato e prende il suo posto.

Partendo dal processo che lega a doppia mandata intreccio e personaggi, le cui identità si

costruiscono nello snodarsi del racconto, in questa lezione ci soffermeremo sulle questioni morali e

politiche affrontate nel romanzo, concentrando l’attenzione sul modo in cui la narrazione e il

simbolismo dei personaggi, condensati in specie nell'intransigenza e nel giacobinismo di

Cimourdain e nel tormentato eroismo di Gauvain, danno corpo alla riflessione sui diversi concetti di

rivoluzione, umanità e pietà. L'analisi si concentrerà su quei passi in cui emerge l'adesione dei

personaggi a leggi di ordine differente: l'assoluto rivoluzionario e l'assoluto umano.

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4. L’evoluzione del personaggio: Gauvain

Arrigo Stara, critico letterario, ricorda come in Hegel la distinzione tra i "caratteri eroici" della

letteratura del passato e i personaggi delle opere romantiche si articoli «sulla base della

progressiva riduzione della sfera individuale che investe il nuovo protagonista letterario. Mentre gli

eroi rappresentavano individualità universali possibili soltanto in un'“epoca prelegale”, che

sottostavano unicamente alla propria legge e le cui azioni non erano soggette a “un giudizio e a

un tribunale”, i personaggi della letteratura romantica sarebbero riusciti tanto più credibili quanto

più fosse stata resa “l'enormità della scissione” «fra la dimensione della legge e quella

dell'individuo»2. Partendo dal presupposto che “nella realtà attuale l'ambito per figure ideali è

molto limitato”, nell’Estetica Hegel scrive che per il nuovo protagonista romantico le possibilità di

azione e di scelta sarebbero state molto più limitate a causa dei «rapporti sociali sussistenti» che

avrebbero limitato la sua volontà (I, p. 248).

La figura di Gauvain, il cui nome riverbera il cavaliere modello della leggenda arturiana e la

cui luminosità eredita le caratteristiche di eroe solare (nella tradizione la sua forza cresce con il sole

e tocca l'apice a mezzogiorno), sembra incarnare la voce di una realtà possibile in uno stato di

eccezione improntato su una logica binaria che esclude le terze vie. Figura estremamente sensibile

al mutare degli eventi, Gauvain non agisce in modo predeterminato, aderendo pedissequamente

ai dettami che il suo ruolo gli impone, ma si espone alla relazione e coglie il divenire degli altri,

mettendo "l'umano" al primo posto.

L'uscire fuori da sé del valoroso capitano, il suo mettersi nei panni degli altri e l'accogliere le

ragioni dell'altro fino a introiettarle come voce interlocutrice nel monologo interiore, segna la

trasformazione dell'eroe. Il registro epico, annunciato nel primo paragrafo (Temps de luttes

épiques) e al suo acme nella contrapposizione imponente della torre-fortezza Tourgue e della

Ghigliottina, perde la sua connotazione estetizzante fino a farsi riflessione sulla violenza: i campi di

2 Arrigo Stara, L'avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier, 2004, p. 124.

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battaglia lasciano spazio all'arena della coscienza. Il personaggio appartenente al tempo delle

lotte epiche si trasfigura nel momento della dimensione tragica della Scelta, che coincide con il

momento in cui la sua interiorità ci viene svelata dal narratore.

La "curvatura" del personaggio è narrata a partire dal libro sesto (C'est apres la victoire qu'a

lieu le combat) e settimo (Féodalité et révolution) della terza parte (En Vendée), quando

Lantenac, messosi in salvo nella foresta dopo essere scampato all'incendio della Tourgue, ritorna di

sua libera scelta nella Torre per salvare i tre bambini, finendo così catturato dalle forze

repubblicane. L'appartenenza dei bambini alla categoria dei miserabili, dunque senza legami di

sangue o di classe con il marchese, lo rende ancora più nobile agli occhi di Gauvain. Il capitano

non può accettare il capovolgimento dei ruoli: di fronte al gesto umano di Lantenac, coloro che

dovrebbero essere i paladini della giustizia e della libertà, nel volerlo giustiziare si cristallizzano nella

cieca logica del sangue e nella barbarie della guerra civile.

L'homme du passé irait en avant, et l'homme de l'avenir en arrière! L'homme des barbaries

et des superstitions ouvrirait des ailes subites, et planerait, et regarderait ramper sous lui, dans de la

fange et dans de la nuit, l'homme de l'idéal! Gauvain resterait à plat ventre dans la vieille ornière

féroce, tandis que Lantenac irait dans le sublime courir les aventures!

[trad. it. «L'uomo del passato marcerebbe verso l'avvenire, mentre Gauvain farebbe il

cammino inverso? Non era possibile. L'uomo della barbarie e della superstizione avrebbe ali per

salire in alto mentre l'uomo dell'ideale sarebbe condannato al fango e alle tenebre! Gauvain

stagnerebbe nel solco della ferocia, mentre Lantenac salirebbe nel regno delle sublimi avventure»]

Sebbene Gauvain abbia promesso a Cimourdain la consegna di Lantenac ed escluso il

possibile insorgere dentro di sé di un sentimento di clemenza dettato dal legame parentale, di

fronte agli ultimi avvenimenti, la frase del suo ex precettore, «cela ne te regarde plus», suona al

giovane come minaccia di complicità e abdicazione macchiata dall'onta della vigliaccheria.

Lantenac non appare più agli occhi di Gauvain come lo stesso uomo: da assassino "fanatico della

regalità e della feudalità" assume le sembianze di un eroe con un'anima e con un cuore,

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inducendo Gauvain a sentirsi sconfitto dall'arma delle bontà. In questo intervallo dell'azione,

determinato da un pensiero che sgorga dalle profondità del suo essere, si inserisce la questione del

vincolo di sangue tra zio e nipote, fino a quel momento subordinata agli orrori commessi da

Lantenac e al pericolo che questi rappresentava per la Repubblica.

Di fronte alla "trasfigurazione" del marchese, Gauvain sente che la mutevolezza degli

avvenimenti pone un quesito che richiede giustizia. Egli si sente "sottoposto a un interrogatorio"

(trad. it.: 677) e chiamato a renderne conto davanti a un giudice, la sua coscienza:

Gauvain, républicain, croyait être, et était, dans l'absolu.

Un absolu supérieur venait de se révéler.

Au-dessus de l'absolu révolutionnaire, il y a l'absolu humain .

[trad. it. «Gauvain, repubblicano, credeva e viveva nell'assoluto ed ora gli si palesava un

assoluto inifinitamente superiore. Al disopra di tutta la verità rivoluzionaria, brilla la verità umana»].

Il monologo interiore di Gauvain è contraddistinto da un andirivieni continuo, un incessante

spostamento del punto di vista, che lo rende quasi un dialogo tanto l'altro è incluso nell'orizzonte

dell'io. Da un lato emerge la straordinarietà degli ultimi avvenimenti determinati dal gesto di

Lantenac, che ha inaugurato il prodigio più grande, la vittoria dell'umano sull'inumano grazie allo

strumento simbolo degli inermi e degli innocenti: la culla; il gesto di Lantenac inaugura l'ingresso

dei valori di umanità e pietà, che spazzano via le regole e la disumanizzazione indotta dallo stato

d'eccezione, ingresso di fronte al quale Gauvain non può sottrarsi. Dall'altro, si fa sentire con forza

la voce dell'orizzonte politico all'interno del quale si inseriscono le azioni di Gauvain: la lotta contro

l'oppressione, contro i padroni e per l'uguaglianza, la tutela della Repubblica accerchiata da

nemici interni ed esterni. Il contesto è quello della guerra civile, del fanatismo, della legge del

taglione e delle necessità della guerra. La liberazione di Lantenac significa tradire la causa della

rivoluzione e riaccendere la lotta sanguinaria in Vandea, una lotta che avrebbe insanguinato

nuovamente i boschi e le città della Bretagna. Dopo mesi di guerra finalmente il nemico pubblico

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numero uno della Rivoluzione era stato catturato e la sua uccisione avrebbe posto fine alle

carneficine arrestando la guerra civile.

Nel ricordare che Lantenac aveva salvato i bambini, una voce dentro di sé afferma il

prodigio del gesto del marchese, l'altra ricorda che era stato lui stesso a rinchiuderli nella Tourgue,

a usarli come ostaggi esponendoli ai pericoli e a comandare all'Imanus l'incendio. Alla luce di

questo ragionamento, si dice Gauvain, l'unico merito di Lantenac è quello di non aver persistito

nell'inumanità. La coscienza del risveglio della pietà in colui che era considerato una belva si

alterna alla consapevolezza delle conseguenze che una sua liberazione innescherebbe: la morte

di altre creature innocenti, lo sbarco degli inglesi, la rivoluzione sconfitta, la Bretagna devastata.

Tuttavia la logica del ragionamento non ha la stessa forza dell'emergere del sentimento, di una

voce che ritiene che il sacrificio e l'altruismo di Lantenac costituiscano un fatto che non è possibile

ignorare:

Le raisonnement disait une chose; le sentiment en disait une autre; les deux conseils étaient

contraires. Le raisonnement n'est que la raison; le sentiment est souvent la conscience; l'un vient de

l'homme, l'autre de plus haut. C'est ce qui fait que le sentiment a moins de clarté et plus de

puissance.

Gauvain hésitait.

[trad. it. «Il ragionamento non è che logica; il sentimento è spesso tutta la coscienza; l'uno

proviene dall'uomo, l'altro da sfere infinitamente superiori. Il sentimento non abbisogna di luce

come il ragionamento, ma lo supera in potenza.

Gauvain esitava».]

Nell’indifferenziazione formale del trattamento del referente, che fa sì che il reale entri

nell’immaginario e viceversa, si inseriscono quelle “discontinuità di genere” (Jameson 1981)

costitutive della prismaticità del Novantatré, romanzo storico che accoglie dentro di sé le modalità

del drammatico, del melodrammatico e del tragico.

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Da un lato, con il suo farsi forza di legge, Cimourdain incarna la volonté Une di Robespierre

e intensifica il processo di personificazione delle idee, tipico del modo melodrammatico. La

tragicità della sua figura sta nell’immedesimazione con lo spirito dell’epoca, che lo spinge a una

decisione strettamente connessa ai conflitti vissuti nell’epoca del Terrore rivoluzionario. Dall’altro, la

scelta di Gauvain tra la pietà e la giustizia rivoluzionaria innesca un movimento interno al

personaggio che si riflette sulla sua curvatura. L’ultima parte del romanzo, “En Vendée”, ci fa

entrare nella psiche del personaggio, descritta nel suo lacerarsi e giudicarsi. Questo passaggio,

con il presentare al lettore un finale lontano dal compromesso consolatorio del melodramma, lo

immerge nel tragico. Gauvain – nell’origliare i propri discorsi, affrontare la possibilità di un’alterità

nell’io, e di conseguenza mutare – con vigore shakespeariano, diventa “libero artefice di se

stesso”.

Parafrasando Lukács: è nelle qualità personali e nella fisionomia intellettuale di Gauvain

che il conflitto trova “la sua espressione più tangibile e adeguata”. Le caratteristiche di “elevatezza

del pensiero”, “capacità di autocoscienza” e “consapevolezza del proprio destino”, unite alla

capacità di “librarsi al di sopra della pura individualità” – ossia i tratti che Lukács attribuisce alla

figura, per lui artisticamente necessaria, dell’eroe (ibid.) – emergono nel corso del suo monologo

interiore. Nel suo Saggio sul tragico (1961) Peter Szondi ricorda come per Kierkegaard, nella

tragedia greca, il tramonto dell’eroe non fosse soltanto una conseguenza della sua impresa, ma

anche un patire. Nella forma del monologo come processo vitale appare la dialettica della Legge

universale e della coscienza privata, così come nel carattere di discorso non pronunciato a voce,

in forma retorica e non psicologica, emergono i tratti del romance.

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5. Novantatré: tra ideologia e tragedia

Dans la Tourgue étaient condensés quinze cents ans, le moyen âge, le vasselage, la glèbe,

la féodalité; dans la guillotine une année, 93; et ces douze mois faisaient contre-poids à ces quinze

siècles.

La Tourgue, c'était la monarchie; la guillotine, c'était la révolution.

Confrontation tragique.

[trad. it. «La Tourgue: millecinquecento anni di storia, il medioevo, il vassallaggio, la gleba, il

feudalesimo. La ghigliottina: la storia di un solo anno, il 93. Dodici mesi controbilanciavano quindici

secoli. La Tourgue, simbolo della monarchia; la ghigliottina, figlia della rivoluzione»]

Il tribunale è collocato sulla sommità della torre, Cimourdain siede con l'uniforme completa

di delegato civile e le braccia conserte, e la sua espressione terrea e pietrificata fa da

controcanto alla mobilità del viso di Gauvain, radioso e con il pensiero rivolto all'avvenire. I suoi

ultimi gesti, lo sguardo dell'eroe verso Cimourdain e le ultime parole, "Vive la République",

rimandano fino alla fine alla forza del sentimento e all'inseguimento del sogno.

L'ultima visione di Gauvain, che lo accompagna fino alla ghigliottina, lo trasporta dalla

violenza del presente verso un futuro utopico, nel quale epica morale e poesia si fondono. Come

ne Les Misérables, anche qui il dialogo tra i due personaggi implica il rovesciamento dei ruoli: l'ex-

precettore e sacerdote Cimourdain tace di fronte alla "luce d'alba" che brilla negli occhi di

Gauvain, al suo innalzarsi verso la sfera luminosa di una "verità più alta" che esorbita dai confini

angusti della politica; così come il vescovo Myriel riconosce l'umanità e l'idealismo del vecchio

convenzionale, anch'egli vicino alla morte.

La ragione di Cimourdain finisce con il coniugarsi con la morte; come Robespierre, egli è

capace di infliggerla e non si tira indietro di fronte al sacrificio della persona più amata al mondo,

premessa della propria morte. Come il Bruto delle tragedie di Shakespeare e Voltaire, la sua

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volontà monolitica, la volonté "Une" di Robespierre, diventa assenza di volontà e di libero arbitrio:

egli obbedisce all'ideale di sé inscritto nel suo ruolo di representant-en-mission.

Come ha spiegato lo storico Simon Schama nel suo libro dedicato alla Rivoluzione francese,

Cittadini, di fronte al dilagare della rivolta in Vandea e alle disfatte sul fronte militare, per rafforzare

i poteri dello Stato, la Convenzione inviò dal 6 marzo nei dipartimenti i répresentants-en-mission,

versione rivoluzionaria degli antichi "intendenti del Re", “incarnazioni viaggianti del potere sovrano".

Il compito loro affidato consisteva, in gran parte, nell'occuparsi di questioni giudiziarie e penali. I

passi successivi furono la creazione a Parigi del Tribunale rivoluzionario, incaricato di giudicare i

cittadini sospetti e accusati di attività controrivoluzionaria, e il trasferimento ai tribunali militari della

giurisdizione su chiunque avesse occupato in passato cariche pubbliche (clero e aristocrazia

compresi) scoperto a fomentare una ribellione. Chi risultava colpevole doveva essere fucilato

entro ventiquattro ore3.

Nel romanzo, l’immenso affetto di Cimourdain per Gauvain viene confinato nella sfera degli

interessi particolari, nocivi alla volontà generale e al bene comune. Il verdetto sull'eroe non viene

mai messo in questione; così come il futuro scavalca il presente, la decisione precede qualsiasi

ragionamento. Di contro, l'andirivieni di Gauvain nell'ombra della notte ricalca il movimento

inquieto dei suoi pensieri; egli procede dialetticamente verso la decisione finale, tenendo fermo il

contatto con la propria anima, spogliata dall'ideologia. La sua umanità si fa carico della sofferenza

necessaria a generare il "progresso" ed esprime la coscienza delle lacerazioni che attraversano vita

e pensiero nella comprensione dei movimenti dello spirito del tempo.

Come scrive Lukács nel suo saggio “Romanzo storico e dramma storico” (seppur in

riferimento ai conflitti di classe), l’epilogo tragico del conflitto drammatico non va inteso in un senso

astrattamente pessimistico, poiché pur «nel terrore dell’inevitabile rovina degli uomini migliori della

società», ogni dramma veramente grande esprime al tempo stesso anche un’approvazione della

vita e un’esaltazione dell’umana grandezza (1965: 156). Nel Novantatré, in nome della sua fede

3 Simon Schama, Cittadini, Milano, Mondadori, 1999 [1989], p. 734.

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nella Rivoluzione, il sacrificio dell’eroe trascende la sua esperienza personale e investe l’intera

comunità, nell’utopia di una trasformazione futura.

Quasi un secolo dopo l’evento, il romanzo di Victor Hugo sulla Rivoluzione francese è un

tentativo di “contemplare quell’abisso” che è ancora lontano dall’essersi concluso e compreso, in

una prospettiva di lunga durata che vede l’evento ancora in corso nelle sue diramazioni che

portano agli eventi sanguinosi della Comune, e ancora lacerato dalla tensione utopica e dal

conflitto tra pietà e terrore. La frattura tra utopia e storia si riflette nella forza drammatica della

scrittura di Hugo, che nel rendere la dismisura dell’epoca, – e qui mi servo delle parole di Peter

Brooks a proposito del modo melodrammatico – forza «le possibilità intrinseche del significante, e a

sua volta lo rende smisurato, sproporzionato, sempre teso a raggiungere un senso che gli sfugge»

(1976). Lo sforzo dell’arte melodrammatica di far emergere nel modo più netto possibile forze

latenti e abissi del significato (ibid.), si combina qui con quel lavoro sul linguaggio praticato

dall’arte realista, volto a illuminare i pensieri e i sentimenti essenziali impliciti nelle aspirazioni umane,

saldando espressione personale e grandi problemi sociali. Nella collisione delle forze opposte

incarnate dai personaggi risiede la forza drammatica del romanzo – mentre il dialogo della cripta,

il vagare nel vuoto dello sguardo di Gauvain nel tentativo di intravedere il futuro, rappresenta

l’interrogazione stessa sull’essenza del tragico e sulla violenza storica.

Per questo Il Novantatré è una grande riflessione filosofica, oltre che letteraria, sulla

Rivoluzione, in cui la filosofia ritrova se stessa nella tragedia e ripristina il legame con la storia.

Passaggio messo in figura in Gauvain, che dalle caratteristiche solari di eroe epico, passa

attraverso la scissione e nel confronto con il negativo diviene eroe che pensa, eroe intellettuale.

Sia il pensiero dialettico di Gauvain, personificazione del tragico in quanto dialettica, che il

concludersi della trama, nell’insuperabilità dell’antitesi tra assoluto umano e assoluto rivoluzionario,

rispecchiano quella legge formale dell’annientamento e della salvezza insita nel rovesciamento

degli opposti che Peter Szondi vede come costituiva del tragico (1961).

Con la liberazione di Lantenac, pietà e rivoluzione giungono ad escludersi reciprocamente

e determinano la tragica paradossalità della sorte dell’eroe. In quello stato di eccezione che è lo

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spazio del pianoro antistante alla Tourgue, per mano della forza di legge incarnata in Cimourdain,

Gauvain è giustiziato in nome di quel futuro che augura a tutti gli uomini. Il romanzo si chiude, ma

la contraddizione resta, così come la struttura enigmatica dell’esperienza, che contiene la forza

della sua attualità.

Attraverso i personaggi del Novantatré, Victor Hugo mette in scena i conflitti e le scissioni

portati dalla rivoluzione francese, centrali in una tragedia ineludibile nella transizione verso il mondo

nuovo.

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Bibliografia

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Einaudi, 1995.

 Brombert, Victor, Victor Hugo e il romanzo visionario, Bologna, Il Mulino, 1987.

 Forster, Edward M., Aspetti del romanzo, Milano, Garzanti, 2000.

 Hegel, Georg W., Estetica, Torino, Einaudi, 1987, 2 voll.

 Hobsbawm, Eric J., Echi della Marsigliese, Milano, Rizzoli, 1991.

 Hugo, Victor, Les Misérables (1862), trad. it. I miserabili, Torino, Einaudi, 2006.

 Id., William Shakespeare, Paris, Flammarion,1973.

 Id., Quatre-vingt-treize (1874), Paris, Flammarion, 1965, trad. it. Il Novantatré,

Roma, Casini, 1953 (pp. 393-714).

 Id., Choses vues, Paris, Hachette, 1950.

 Luzzatto, Sergio, Ombre rosse. Il romanzo della Rivoluzione francese

nell'Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2004.

 Mathiez, Albert - Lefebvre, Georges, La Rivoluzione francese, Torino, Einaudi,

1952, 2 voll.

 Schama, Simon, Cittadini, Milano, Mondadori, 1999 [1989].

 Stara, Arrigo, L'avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier, 2004.

 Testa, Enrico, Eroi e figuranti, Torino, Einaudi, 2009.

 Žižek, Slavoj, "Il terrore rivoluzionario da Robespierre a Mao", In difesa delle

cause perse, Milano, Ponte alle Grazie, 2009.

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Indice

1. IL PERSONAGGIO FITTIZIO, TRA STORIA E TRAGEDIA............................................................................ 3


2. IL ROMANZO COME RIFLESSIONE FILOSOFICA E POLITICA ................................................................. 5
3. TEMI. L’ASSOLUTO RIVOLUZIONARIO E L’ASSOLUTO UMANO ............................................................. 8
4. IL DIALOGO ............................................................................................................................................ 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. Il personaggio fittizio, tra Storia e Tragedia

Nella logica di Cimourdain, il Terrore è l'unica via percorribile per realizzare la libertà,

l'eguaglianza e la fraternità. Come sosteneva Saint-Just, «La forza non fa né il diritto, né la ragione.

Ma è forse impossibile farne a meno per far rispettare il diritto e la ragione». L'ex-prete, con i suoi

pieni poteri, rappresenta la “forza-di legge” costretta a muoversi in quello che lui stesso considera

lo spazio della necessità, o in altri termini lo spazio vuoto del diritto, e applica una norma

inesorabilmente scollata dalla realtà e inscritta nel terreno della violenza senza logos. Il pianoro sul

quale si erge la ghigliottina diventa un non-luogo determinato dalla sospensione delle leggi che

vincolano l'azione di chi ricopre il ruolo provvisorio di giudice. Cimourdain commina la pena

consapevole che la sua scelta significa la sua stessa distruzione: egli si ucciderà gettandosi dalla

torre nello stesso momento in cui la mannaia calerà sul collo dell'eroe. Il suo io monolitico delimita

al tempo stesso l'enorme sofferenza e la violenza esercitata anche contro di sé: infatti l'ex-

precettore non può sopravvivere al suo figlio spirituale, il dolore è nel segno della dismisura.

Partigiano dell'universalità, il suo agire dimostra il prevalere dell'ideologia, dell'adesione

incondizionata ai principi del giacobinismo, in una dimensione atemporale che non si apre al

mutare degli eventi e degli individui. Al contrario, la scelta di Gauvain – nel momento della

trasgressione dell'ingiunzione rivoltagli dal maestro, «Cela ne te regarde plus» – è la conseguenza di

un giudizio che kantianamente non può esimersi di pensare il particolare come contenuto nel

generale: la condanna di Lantenac si pone in contraddizione con l'orizzonte politico della

Repubblica che vede i diritti dell'uomo al primo posto. Nell'ora della decisione, Gauvain si figura di

fronte al tribunale della Convenzione – che pone al centro la causa della Rivoluzione e la

conseguente necessità del Terrore – e di fronte al tribunale della coscienza, presieduto

dall'imperativo categorico del perdono e dall'assoluta priorità del concetto di "umanità".

Enrico Testa ha sottolineato come in molti romanzi contemporanei la prima possibilità del

soggetto risieda nel suo essere coinvolto in un compito a cui non può sottrarsi, l'obbligazione e il

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legame, ed identifica queste caratteristiche come tipiche del personaggio relativo, che ritrova già

presenti in Henry James e Virginia Woolf. Come spiega lo studioso:

«Temporalità, mutabilità e relazione paiono, dunque, le caratteristiche più evidenti di

questo personaggio, a cui, in contrapposizione al personaggio assoluto e in assenza di altre risorse

immaginative, diamo il nome di personaggio relativo» (Testa 2009, p. 41).

Testa riporta come esempio ottocentesco il Bezuchov di Tolstoj, personaggio in continua

trasformazione che nel corso delle vicende perviene a una nuova coscienza del rapporto con gli

altri, e sottolinea le implicazioni etiche che si ripercuotono nella narrazione (ibid., p.42). Con la sua

dialettica di esposizione all'altro e la sua sfera interiore dominata da un movimento interrogativo, il

Gauvain di Victor Hugo sembra possedere queste caratteristiche senza rinunciare alla statura e

all'azione dell'eroe.

Nell’Estetica (I, 288), Hegel afferma: «L'azione è la più chiara messa in luce dell'individuo,

della sua disposizione d'animo, come dei suoi fini; ciò che l'uomo è nel più profondo del suo intimo,

viene a realtà solo con il suo agire...». Hegel continua spiegando come il personaggio romantico

superi il suo dissidio interiore attraverso l'azione, nella quale la situazione si scioglie e l'individuo si

immerge nel conflitto rivelando la sua vera natura. Da questo processo si sprigiona il “Pathos”,

concetto che Hegel vuole mantenere assolutamente distinto da quello di “passione” (I, 305)1.

Tornando al personaggio romantico, Hegel afferma che solo in circostanze eccezionali gli è

concesso di raccogliere in se stesso «l'intero ambito di ciò che ha fatto» (I, 248). Gauvain si muove

in un mondo dominato da delle leggi legate allo stato di eccezione della guerra civile e in questa

situazione trova la forza per superare il proprio dissidio interiore e rivelare la sua vera natura nel

conflitto dell'azione. «Di queste occasioni di suprema sintesi tra “situazione e azione” nella vita di

ciascuno ve ne è, scrive Hegel, “una sola”, “nel corso della quale l'individuo rivela ciò che è,

mentre prima di essa ciò era noto pressapoco solo per nome e per la sua esteriorità” (Stara 2004, p.

126).

1 Per una sintesi di questo argomento trattato nell'Estetica di Hegel si veda il volume di Arrigo Stara (2004, p. 126).

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2. Il romanzo come riflessione filosofica e politica

Come ha spiegato Victor Brombert nel suo studio dedicato a Hugo, nel Novantatré la

logica dell'umano si scontra con la logica della valutazione politica, l'etica del presente con quella

del futuro, in una dialettica che interroga «la distanza tra i mezzi della rivoluzione (sollevazioni,

azioni radicali) e i suoi fini (speranza, civiltà, pace)». 2

Riprendendo la riflessione sviluppata da Walter Benjamin3, la violenza mitico-giuridica

(sempre un mezzo rispetto a un fine) dell'ottica rivoluzionaria, per Gauvain non perde la

connotazione di "violenza pura"; il suo criterio di critica della violenza non rinuncia a voler

distinguere nella sfera dei mezzi. La stessa logica lo spingerà più avanti, nel corso dell'incontro con

l'ex-precettore, ad esprimersi contro l'obbligo dell'impiego universale della violenza come mezzo ai

fini dello stato previsto dalla coscrizione obbligatoria: «Voi sostenete il servizio militare obbligatorio.

Contro chi? Contro degli altri uomini. Io sono contrario ad ogni servizio militare. Io voglio la pace»

(trad. it: 705).

L'accumulo di avvenimenti e la metamorfosi della situazione spingono l'eroe verso una

perdita del senso delle sue azioni e instaurano l'esigenza di fermarsi a ripensare ai fondamenti e alle

motivazioni della Rivoluzione:

Est-ce donc que la révolution avait pour but de dénaturer l'homme? Est-ce pour briser la

famille, est-ce pour étouffer l'humanité, qu'elle était faite? Loin de là. C'est pour affirmer ces réalités

suprêmes, et non pour les nier, que 89 avait surgi. Renverser les bastilles, c'est délivrer l'humanité;

abolir la féodalité, c'est fonder la famille.

[Trad. it. «La rivoluzione avrebbe dunque il compito di snaturare l'uomo? Si attua una

rivoluzione per spezzare la famiglia e soffocare l'umanità? No, certamente no. È piuttosto per

riaffermare queste supreme verità, non per negarle, che si è avuto l'89. Abbattere le bastiglie e

liberare l'umanità; abolire il feudalesimo è rassodare la famiglia»].

2Victor Brombert, Victor Hugo e il romanzo visionario, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 265.
3 Walter Benjamin, "Per una critica della violenza", Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995.

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Per Gauvain il concetto di Repubblica include quello di famiglia, umanità e rivoluzione; la

rivoluzione e l'avvento del popolo, e il popolo è l'uomo. Il fondamento di tutto resta l'umanità e

quello che domanda la Legge rivoluzionaria in questo momento è un gesto antiumano.

L'imperatività del sentimento morale lo conduce all'inevitabile necessità di salvare Lantenac,

facendogli disertare l'invito rivoltogli da Cimourdain a mettersi da parte. Si fa strada in lui

l'impellenza di una scelta che non fa sconti: se Lantenac ha affermato il valore dell'umanità

mettendo in secondo piano la lotta realista, Gauvain sente che tocca a lui affermare il valore della

famiglia e tradire la Francia.

Il paesaggio interiore di Gauvain si rispecchia nello scenario che lo accompagna mentre

percorre il sentiero che lo conduce alla cripta in cui è tenuto prigioniero Lantenac nell'attesa del

processo: riverberi dell'incendio morente si stagliano su uno scenario dominato da un velo di fumo,

da giochi di luci e ombre e dall'alternarsi di chiarori e oscurità. Nel corso del dialogo tra i due

personaggi, l'ancêtre ribadisce la sua fedeltà ai concetti di tradizione, famiglia e rispetto verso le

vecchie leggi, per lui rientranti nei veri concetti di virtù e giustizia. Indicando la cripta in cui è tenuto

prigioniero in attesa dell'esecuzione, il marchese afferma:

Vous n'exigez sans doute pas que je crie Liberté, Egalité, Fraternité? Ceci est une ancienne

chambre de ma maison; jadis les seigneurs y mettaient les manants; maintenant les manants y

mettent les seigneurs.

[trad. it. «Spero che non pretendiate ch'io urli Libertà, Eguaglianza, Fraternità? Questa è una

vecchia stanza della mia casa; un tempo, i signori vi rinchiudevano la canaglia; oggi, la canaglia

vi rinchiude i gentiluomini»]

La divisione della società in classi è considerata da Lantenac come un dato naturale, il cui

sovvertimento sarebbe innaturale. Il marchese vede nella Rivoluzione l'annientamento di quella

raffinata élite aristocratica della quale anche il nipote fa parte, compiuta per mano di criminali e

briganti cammuffati da filantropi. Egli accusa Voltaire e Rousseau come responsabili del pensiero

criminale, in una genealogia che da Voltaire conduce a Marat: «Tant qu'il y aura des Arouet, il y

aura des Marat» . «I libri creano delitti» continua Lantenac, per il quale gli unici diritti che contano

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sono i diritti del sangue, l'eredità degli antenati. Il diritto invocato dalla Rivoluzione per il marchese

equivale al regicidio e al deicidio ed egli non può accettare che il nipote, discendente delle più

nobili famiglie della Bretagna, si sia schierato con coloro che per Lantenac sono degli assassini e

dei miserabili, artefici della decadenza della società. Il marchese chiama Gauvain, con disprezzo,

"citoyen" e accusa i rivoluzionari di avere sconvolto una società ben ordinata e i suoi valori, di voler

distruggere le grandezze antiche e di voler cancellare gli eroi in nome dei cosiddetti "uomini nuovi".

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3. Temi. L’assoluto rivoluzionario e l’assoluto umano

L'ideologia dottrinaria, l'ostinata astrazione e la politica della giustizia rivoluzionaria si

incarnano in Cimourdain. La sua volontà granitica, sorda al mutare degli eventi, resiste a qualsiasi

incrinatura e deviazione dal sentiero preordinato. L'ex-sacerdote è la figura che incarna la "forza di

legge", il valore supremo degli atti statuali espressi dalle assemblee rappresentative del Popolo e la

loro applicazione anche a quei decreti che non sono formalmente leggi, ma che nello stato

d'eccezione prendono una forza analoga. Per giustificare le misure rivoluzionarie, nei suoi discorsi

alla Convenzione Robespierre dichiarava: “Citoyens [...] vous confondez encore la situation d'un

peuple en révolution avec celle d'un peuple dont il gouvernement est affermi». Come ricorda

Giorgio Agamben, la «"forza-di-legge" fluttua come un elemento indeterminato, che può essere

rivendicato tanto dall'autorità statuale (che agisca come dittatura commissaria) che da

un'organizzazione rivoluzionaria (che agisca come dittatura sovrana)» (2003: 52).

Al momento del processo, «Arbitro e giudice nello stesso tempo», presidente della corte

marziale – composta da lui stesso, il capitano Guechamps e il sergente Radoub – Cimourdain siede

al centro del tribunale davanti a un fascio di bandiere tricolori, con davanti sul tavolo un

bastoncino di cera rossa, il sigillo della repubblica, e ai lati la dichiarazione di “fuori legge” e il

decreto della Convenzione, entrambi firmati da Gauvain.

Quando è Gauvain a uscire dalla cella al posto di Lantenac, Cimourdain impallidisce,

«immobile come lo può essere un uomo fulminato. Non poteva più respirare. Grosse gocce di

sudore gli imperlavano la fronte» (696-697). Da quel momento in poi, Cimourdain sceglie di

coincidere totalmente con il suo ruolo e sceglie la via della disumanizzazione: si sigilla e diventa un

macigno, la cui superficie è immune da crepe o incrinature. Dal tu passa al voi e riserva a Gauvain

la procedura consueta della condanna capitale: l'interrogatorio tra le sciabole. Gauvain rinuncia

a un avvocato e dichiara la sua colpevolezza, chiedendo per sé la morte, considerata da lui

necessaria per salvare l'onore. Al momento del voto, il capitano Guechamp pone la legge al di

sopra di tutto: nel dichiarare che la pietà di Gauvain ha messo in pericolo la patria, vota la sua

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morte; Radoub salutando militarmente il capitano nega lo statuto di condannato e offre la sua vita

in cambio; per il sergente, il gesto di Gauvain non è altro che un'ulteriore conferma della sua

grandezza. Personaggio sanguigno e dal linguaggio colorito, valoroso combattente ma capace di

cura e umanità, il discorso di Radoub va alla sostanza delle cose: nel ricordare alla corte il disonore

che avrebbe ricoperto il battaglione del Berretto rosso qualora si fosse reso colpevole della morte

dei bambini, si lascia andare a considerazioni di ordine etico più generali:

Est-ce que c'est ça qu'on voulait? Alors mangeons-nous les uns les autres. Je me connais en

politique aussi bien que vous qui êtes là, j'étais du club de la section des Piques. Sapristi! nous nous

abrutissons à la fin! Je résume ma façon de voir. Je n'aime pas les choses qui ont l'inconvénient de

faire qu'on ne sait plus du tout où on en est.

[Trad. it. «Si voleva ottenere questo risultato? Allora, divoriamoci a vicenda. Io me ne

intendo di politica, come voi. Appartenevo alla sezione delle Picche. Alla malora! noi ci stiamo

abbrutendo! Voglio riassumervi il mio punto di vista. Io non amo le cose che hanno l'inconveniente

di non farci sapere più dove siamo arrivati»]

Cimourdain, ormai indurito, vota e condanna Gauvain alla pena di morte. Il suo volto,

contratto da un'orribile smorfia, testimonia per un momento la lacerazione causata nell'animo dal

trionfo dell'applicazione della legge e dallo sconquasso della distruzione dell'umano. L'ex-prete

non obbedisce che alla propria coscienza, “un imperativo misterioso noto a lui solo”. Egli

rappresenta la volontà, una e monolitica, non negoziabile e dotata di pieni poteri: dietro di lui si

profila “l'ombra del Comitato di salute pubblica”.

Cimourdain incarna la virtù repubblicana, la ragione spogliata dal desiderio, che per il

rispetto delle leggi e della patria pretende la rinuncia a se stessi e il sacrificio dei propri più cari

interessi. Da buon giacobino, la sua morale è quella degli stoici: l'etica è interpretata nell'orizzonte

della vita pubblica e del servizio reso allo Stato.

Se nella finzione, Cimourdain avesse risposto all'accorato appello di Radoub, che ricordava

quanto la Repubblica fosse debitrice verso Gauvain, sicuramente la risposta avrebbe ricalcato la

retorica del discorso di Robespierre dell'11 Germinale dell'anno II (31 marzo 1794), quando,

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all'indomani dell'arresto di Danton e Desmoulins, Robespierre affermò che quello che essi avevano

fatto per la Francia e la Rivoluzione non aveva più importanza. In questa visione, il popolo e la

rivoluzione sono un assoluto di fronte al quale il singolo perde di importanza. Nel Novantatré, di

fronte alla scelta tra la violenza della legge rivoluzionaria, che pone come priorità assoluta la tutela

della Repubblica e il futuro della Francia, e l'amore per il suo figlio spirituale, Cimourdain proclama

il destino di Gauvain: la ghigliottina. Egli ignora l'accorato appello all'umanità e alla ragionevolezza

di Radoub e fa pesare il suo voto determinando l'applicazione del decreto della Convenzione:

«Demain la cour martiale, après-demain la guillotine. La Vendée est morte».

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4. Il dialogo

Su un piano formale, un elemento fondamentale del romanzo è costituito dal dialogo, non

a caso strumento costitutivo anche della tragedia e dei testi drammaturgici in generale. E’ nota,

ad esempio, l’influenza esercitata da Shakespeare sugli scrittori romantici.

L’umanità di Cimourdain emerge nel corso della sua visita notturna a Gauvain, quando,

entrato nella cripta lo osserva dormire con sguardo materno e, travolto dal sentimento ispiratogli

dalla vista dell'eroe che dorme il sonno del giusto, si porta le mani sugli occhi. Svegliatosi, Gauvain

chiama Cimourdain "Maestro" e il "tu" ritorna tra loro: l'intimità della cripta ospita il profondo legame

che lega i due, il padre-maestro e il figlio-allievo. In questi brani, l'incedere della narrazione,

scandita dai gesti (la divisione del pane) e dai dialoghi, ricalca i momenti della liturgia evangelica.

Gauvain legge la realtà in divenire e il dilagare della violenza in una prospettiva a lungo

termine, che vede come obiettivo una società più giusta:

Les grandes choses s'ébauchent. Ce que la révolution fait en ce moment est mystérieux.

Derrière l'oeuvre visible il y a l'œuvre invisible. L'une cache l'autre. L'œuvre visible est farouche,

l'oeuvre invisible est sublime. En cet instant je distingue tout très nettement. C'est étrange et beau. Il

a bien fallu se servir des matériaux du passé. De là cet extraordinaire 93. Sous un échafaudage de

barbarie se construit un temple de civilisation.

[trad. it. «Le grandi cose prendono forma. Misterioso è ciò che in questo momento fa la

Rivoluzione. Dietro l'ʹopera visibile, sta l'ʹopera invisibile. Una cela l'ʹaltra. L'ʹopera visibile è feroce,

l'ʹinvisibile è sublime. In questo momento vedo tutto con estrema chiarezza. È strano e bello. È stato

indispensabile servirsi dei materiali del passato. Ne è derivato questo straordinario Novantatré.

Sotto un'ʹimpalcatura di barbarie si sta erigendo un tempio di civiltà»].

L'"opera ancora invisibile" di Gauvain viene chiamata da Cimourdain il provvisorio dal

quale nascerà il definitivo, «la repubblica dell'assoluto: diritti e doveri paralleli, imposta

proporzionale e progressiva, servizio militare obbligatorio, livellamento sociale senza eccezioni, al

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disopra di tutto e di tutti la legge». Qui la visione di Gauvain diverge da quella del suo maestro: il

giovane mira alla Repubblica dell'ideale, governata dall'amore e tenuta insieme dall'armonia: «Au-

dessus de la balance il y a la lyre. Votre république dose, mesure et règle l'homme; la mienne

l'emporte en plein azur; c'est la différence qu'il y a entre un théorème et un aigle». [Trad. it. «Più in

alto della bilancia, sta la lira. La vostra repubblica vuol dosare, misurare regolare; la mia vuol

trascinare nell'empireo. La vostra è un teorema, la mia ha il volo di un'aquila»].

La dispersione nelle nubi dell'illusione di contro al calcolo e l'esercizio algebrico sono i

reciproci rimproveri che i due personaggi si rivolgono, uno alla ricerca dell'uomo euclideo, l'altro

dell'uomo creato da Omero. Cimourdain mira alla distribuzione dei beni, Gauvain fa un passo oltre

e aspira «alle infinite concessioni reciproche che ciascuno deve fare a tutti e tutti a ciascuno» e

che costituiscono il «vero fondamento della vita sociale». Per l'ex-prete «nulla esiste, all'infuori del

diritto», per Gauvain «all'infuori vi è tutto».

Il giovane oltrepassa con la mente gli obiettivi nell'agenda della guerra per contemplare un

mondo possibile che vede l'abolizione della guerra, la scienza applicata ai bisogni dell'umanità, la

condizione della donna pari per diritti a quella dell'uomo nel rispetto della differenza, in una visione

nella quale Dio è in ogni cosa. I concetti di possibile e impossibile marcano i diversi sentieri percorsi

dai due personaggi:

– Gauvain, reviens sur la terre. Nous voulons réaliser le possible.

– Commencez par ne pas le rendre impossible.

– Le possible se réalise toujours.

– Pas toujours. Si l'on rudoie l'utopie, on la tue. Rien n'est plus sans défense que l'œuf.

– Il faut pourtant saisir l'utopie, lui imposer le joug du réel, et l'encadrer dans le fait. L'idée

abstraite doit se transformer en idée concrète; ce qu'elle perd en beauté, elle le regagne en utilité;

elle est moindre, mais meilleure. Il faut que le droit entre dans la loi; et, quand le droit s'est fait loi, il

est absolu. C'est là ce que j'appelle le possible.

– Le possible est plus que cela.

– Ah! te revoilà dans le rêve.

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– Le possible est un oiseau mystérieux toujours planant au-dessus de l'homme.

– Il faut le prendre.

– Vivant.

[Trad. it:

“Gauvain, torna sulla terra. Noi vogliamo realizzare il possibile.”

“Cominciate col non renderlo impossibile.”

“Il possibile si realizza sempre.”

“Non sempre. Se si bistratta l'ʹutopia, la si uccide. Nulla v'ʹè di più indifeso dell'ʹuovo.”

“Ma l'ʹutopia va imbrigliata, bisogna imporle il giogo del reale e inserirla nella concretezza.

L'ʹidea astratta deve trasformarsi in realtà; quando essa perde in bellezza, lo guadagna in utilità; è

inferiore, ma migliore. Bisogna che il diritto compenetri la legge; e, fattosi legge, il diritto è assoluto.

È questo che io chiamo il possibile.”

“Il possibile è qualcosa di più.”

“Eh, rieccoti in pieno sogno.”

“Il possibile è un uccello misterioso perennemente librato al di sopra dell'ʹuomo”

“Bisogna catturarlo.”

“Ma vivo”»]

La tensione utopica del giovane e il volo della mente verso un mondo governato

dall'armonia e dall'amore danno corpo a un concetto di "possibile" che travalica l'orizzonte politico

abbracciato dalla morale rivoluzionaria. Cimourdain sostiene la necessità di incanalare l'utopia nel

"giogo della realtà" e di rendere concreta un'idea astratta, pur al prezzo di rimpicciolirla, e

soprattutto di trasformare il diritto in legge, affinché si riveli assoluto. Gauvain afferma che "ogni

secolo compirà la sua opera, oggi di civismo, domani di umanità"; approva il corso degli eventi

perché ritiene che la condizione attuale sia quella della tempesta e afferma: «Per una quercia

fulminata, intere foreste sono risanate [...] La civilizzazione era malata, questo vento impetuoso

irresistibile la guarisce [...] io capisco la violenza del vento che spazza via ogni cosa». Attraverso la

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metafora della natura è affrontata la questione del Terrore, che Gauvain comprende nel divenire

della storia ma che, partendo da sé, si rifiuta di esercitare.

Di fronte all'impeto e alla passione che Gauvain esprime nel suo argomentare, Cimourdain

si ritrova spesso, nonostante le obiezioni e la fermezza del suo punto di vista, in una posizione di

ascolto. La costruzione di un mondo possibile basato sull'amore, sulla libertà e sulla coscienza

domina il discorso di Gauvain fino all'alba, fin quando alla domanda di Cimourdain sull'oggetto dei

suoi pensieri risponde "l'avvenire".

L'atmosfera liturgica della divisione del pane tra Gauvain e Cimourdain, l'incedere

evangelico del dialogo preannunciano il tema del sacrificio: l'alba del giorno dopo illumina sul

pianoro una costruzione in legno che non è la croce ma una ghigliottina. La descrizione si sofferma

sulla sua tecnologia rozza, grottesca ma al tempo stesso mostruosa, e il fronteggiarsi delle due

costruzioni, la Tourgue e la ghigliottina, simboli e dispositivi della violenza storica, crea un'antitesi

articolata sulla "ferocia antica e l'inesorabilità del presente".

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Einaudi, 1995.

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 Hobsbawm, Eric J., Echi della Marsigliese, Milano, Rizzoli, 1991.

 Hugo, Victor, Les Misérables (1862), trad. it. I miserabili, Torino, Einaudi, 2006.

 Id., William Shakespeare, Paris, Flammarion,1973.

 Id., Quatre-vingt-treize (1874), Paris, Flammarion, 1965, trad. it. Il Novantatré,

Roma, Casini, 1953 (pp. 393-714).

 Id., Choses vues, Paris, Hachette, 1950.

 Luzzatto, Sergio, Ombre rosse. Il romanzo della Rivoluzione francese

nell'Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2004.

 Mathiez, Albert - Lefebvre, Georges, La Rivoluzione francese, Torino, Einaudi,

1952, 2 voll.

 Schama, Simon, Cittadini, Milano, Mondadori, 1999 [1989].

 Stara, Arrigo, L'avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier, 2004.

 Testa, Enrico, Eroi e figuranti, Torino, Einaudi, 2009.

 Žižek, Slavoj, "Il terrore rivoluzionario da Robespierre a Mao", In difesa delle

cause perse, Milano, Ponte alle Grazie, 2009.

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Indice

1. IL TERRORE TRA STORIA E FINZIONE ........................................................................................................ 3


2. I DIALOGHI: TRA VEROSIMIGLIANZA E MELODRAMMA ....................................................................... 5
3. L’IMMAGINAZIONE MELODRAMMATICA: DIALOGHI E PASSIONI ....................................................... 7
4. LA RELAZIONE TRA PERSONAGGI STORICI E PERSONAGGI FITTIZI ...................................................... 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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1. Il Terrore tra storia e finzione

Inizio questa lezione con una citazione di Umberto Eco, tratta dal suo saggio Poetica

dell’Eccesso:

È Hugo il più grande romanziere francese del suo secolo? Potremmo preferirgli, e con

buone ragioni, Stendhal, o Balzac, o Flaubert, ma poi si rilegge Novantatré e si è affascinati dal

potere dell’Eccesso.1

Nel suo Il romanzo storico (1957), György Lukács interpreta il romanzo di Victor Hugo Quatre-

vingt-treize, uscito nel 1874 e tradotto in Italia con il titolo Il Novantatré, come «il primo grande

poema storico in cui il nuovo spirito dell’umanesimo di protesta abbia cercato di dominare la storia

del passato» (1965: 352). In tempi più recenti, Umberto Eco vi legge l’intenzione di raccontare «non

la storia di quello che alcuni uomini hanno fatto bensì la storia di quello che la Storia ha costretto

quegli uomini a fare, indipendentemente dalla loro volontà, sovente minata dalla

contraddizione».2

Il vasto lavoro di documentazione storica è raccolto nel Reliquat (2002), dal quale emerge

l’interesse di Victor Hugo, personificazione dello scrittore engagé, per i protagonisti ufficiali della

Rivoluzione. Nella sezione Les dirigeants révolutionnaires sono studiati Danton, Marat e Robespierre,

ma anche Santerre, Hébert e altri, insieme agli usi, costumi e linguaggi del tempo. Come ha

evidenziato Guy Rosa (1975), a parte la sezione sulla Vandea, gli eventi storici sono disseminati

nell’opera come in un quadro (tableau); più che ordinati cronologicamente nell’intreccio, sono

frammenti sparsi che si offrono come pagine strappate da un libro, esattamente come fanno i

bambini del romanzo con il libro di San Bartolomeo 3. Lo studioso francese sottolinea come la Storia

non determini l’intreccio ma costituisca piuttosto il materiale per lo sviluppo dell’intreccio (intrigue),

dal bosco della Saudraie a Jersey, passando per Herbes-en-Pail fino a Parigi, prima di tornare in

1 Umberto Eco, “Poetica dell’eccesso. Victor Hugo, Novantatré, 1873”, Il Romanzo. Lezioni, Ed. Franco Moretti, Torino,
Einaudi, V, 2002.
2 U. Eco, cit.
3 Si veda della terza parte, En Vendée, il libro terzo, Le massacre de Saint Barthélemy.

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Vandea, alla presa di Dol e infine all’assedio della Tourgue. Se in Nôtre dame de Paris (1831) o nei

Misérables (1862) l’intreccio è interrotto da digressioni esplicite, e nei Travailleurs de la mer (1866) la

storia precede il romanzesco, qui c’è un unico narratore che fonde in un unico racconto le serie

degli eventi storici e degli eventi fittizi, avvalendosi delle stesse forme espressive 4.

4 Cfr. Ibid.

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2. I dialoghi: tra verosimiglianza e melodramma

Frutto della monumentale ricerca, la tecnica della verosimiglianza storica è unita nel

romanzo alla potenza dell’immaginazione melodrammatica. Di grande rilievo icastico e vividezza

narrativa, la scena narrata in Le cabaret du Paon (À Paris, libro secondo), ha una funzione centrale

nello svolgimento dell’intreccio. In queste pagine, partendo da circostanze verosimili Hugo

ricostruisce i dialoghi possibili dei protagonisti della Rivoluzione francese e mette in figura passioni,

sentimenti, discorsi che furono alla base degli avvenimenti. Dal punto di vista dell’ancoraggio

referenziale, Robespierre, Danton e Marat rinviano a quello che Philippe Hamon chiama il “grande

Testo dell’ideologia, dei cliché o della cultura” 5, in questo caso uno dei massimi eventi fondatori

della cultura occidentale, la Rivoluzione francese. Protagonisti ed eventi sono dati qui come

sottotesto dall’autore, che lascia al lettore la ricostruzione di quanto non viene raccontato.

Al pari di tanti drammaturghi dell’epoca, Victor Hugo partecipa agli allestimenti delle

scenografie delle sue pièce teatrali, come nel caso dell’Hernani o di Lucrèce Borge, e

quest’esperienza si riflette nella tendenza ecfrastica che connota nei suoi romanzi ritratti e

descrizioni ambientali. «Ogni descrizione letteraria è una vista» secondo Roland Barthes (1970), e

l’affermazione vale sicuramente per l’incipit del capitolo, la cui vividezza descrittiva richiama sia la

composizione figurativa di un oggetto dipinto sia la plasticità drammatica di una messa in scena

teatrale. In queste pagine la costruzione iconografica evoca i forti contrasti di un quadro a olio di

Caravaggio: sullo sfondo dell’oscurità della bettola, la luce della lampada illumina l’irradiarsi della

forza carismatica di Robespierre, Danton e Marat. Prosopografia ed etopea si fondono insieme 6:

spiccano il pallore, i tic nervosi e la fredda eleganza di Robespierre, il colore sanguigno, l’eloquio e

il gesticolare acceso di Danton, in uno scontro titanico che viene moltiplicato dallo sguardo

5 Philippe Hamon, “Pour un statut sémiologique du personnage” (1972), tr. it. “Per uno statuto semiologico del personaggio”,
in Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Pratiche Parma 1977, p. 92.
6 Ritratto fisico individuale e ritratto morale. Su questo tema si veda di Pierluigi Pellini, La descrizione, Roma-Bari, Laterza,

1998.

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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allucinato di Marat, idolo del popolo e termometro del sottosuolo parigino, l’uomo che vede già

tutto e che, in questo avvenire, vede già un Danton condannato a morte da Robespierre.

Alla descrizione della situazione, che mostra i tre disposti ognuno ai lati di un tavolo, segue

la loro rappresentazione esteriore, evocatrice al contempo delle caratteristiche morali di ognuno. Il

viso pallido, le labbra sottili, lo sguardo freddo di Robespierre si fondono con la descrizione del suo

abbigliamento, dallo sparato di pizzo pieghettato alle scarpe con fibbia di argento. A

quest’immagine eterea e sofisticata fa da contraltare la figura corpulenta e sanguigna di Danton,

la cui cravatta sfatta sul panciotto aperto accompagna il volto butterato segnato da passioni

violente e contrastanti. Alla contrapposizione speculare dei due segue la figura obliqua di Marat,

associata, nella rievocazione del colorito giallastro del volto, nella “bocca enorme e orrenda”,

nella postura scomposta abbinata a un abbigliamento sciatto e vetusto, all’evocazione di

un’intelligenza malsana e di una capacità di manipolazione vicina alla crudeltà (Hugo 1985, III:

872). La dialettica si gioca tra la minuzia della descrizione, l’atmosfera di realtà ottenuta grazie alla

ricerca storica e il respiro di idee, passioni e Zeitgeist incarnati in figure.

Tipico del modo melodrammatico, il desiderio di esprimere con la massima potenza

concettuale e visiva l’immaginazione morale del tempo si incarna nella teatralizzazione dei

personaggi e nella struttura metaforica della prosa. Non a caso Peter Brooks individua le origini del

melodramma nel contesto della Rivoluzione francese e degli anni immediatamente successivi.

Interpretato come reazione alla perdita del concetto del Sacro, delle sue istituzioni (Chiesa e

Monarchia) e forme letterarie (tragedia e commedia), il melodramma nasce come tragedia

popolare e, come afferma Charles Nodier, “arte democratica”7. Brooks sottolinea come fosse la

stessa lotta incessante della Rivoluzione contro i suoi nemici interni ed esterni – denunciati come

malvagi corruttori della moralità, da affrontare ed eliminare per garantire il trionfo della virtù – a

produrre il melodramma.

7Si veda Peter Brooks, The Melodramatic Imagination (1976); trad. it. L’immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche,
1986, p. 32.

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3. L’immaginazione melodrammatica: dialoghi e


passioni

Specularmente, con immaginazione melodrammatica, Hugo mette in scena nel dialogo tra

i tre rivoluzionari la dialettica del conflitto all’origine di quel grande melodramma storico. Ognuno

dei tre personaggi individua infatti in una cosa diversa il pericolo per la Repubblica.

Sull’articolazione di questa divergenza, combinata con l’espressione dell’oratoria rivoluzionaria,

Hugo costruisce la scena, vero e proprio dramma retorico impregnato di storia ed enargeia8:

[Robespierre] – La question est de savoir où est l’ennemi.

– Il est dehors, et je l’ai chassé, dit Danton.

– Il est dedans, et je le surveille, dit Robespierre.

– Et je le chasserai encore, reprit Danton.

– On ne chasse pas l’ennemi du dedans.

– Qu’est-ce donc on fait?

– On l’extermine.

– J’y consens, dit à son tour Danton.

Et il reprit:

– Je vous dis qu’il est dehors, Robespierre.

– Danton, je vous di qu’il est dedans.

– Robespierre, il est à la frontière.

– Danton, il est en Vendée.

– Calmez-vous, dit une troisième voix, il est partout; et vous êtes perdus. (Hugo, Ibid.: 873)

[«Il problema è di sapere dove si trovi il nemico.»

«È all’esterno, io l’ho scacciato» affermò Danton.

8Dal greco antico, termine che indica vividezza e immediatezza espressiva, e che compare di frequente nei discorsi sulla
conoscenza storica e l’arte oratoria. Non a caso nel suo libro Vero, falso, finto, Carlo Ginzburg dopo alcune pagine
dedicate a questo concetto situato “ai confini tra storiografia e retorica” prosegue includendo nell’ambito semantico la
pittura, citando l’analogia di Platone del discorso come rappresentazione di una figura viva. Si veda su questo tema, Carlo
Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 17-21.

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« È all’interno, e io lo sorveglio» disse Robespierre.

«E lo scaccerò ancora» ribadì Danton.

«Impossibile scacciare il nemico interno.»

«E allora che fare?»

«Sterminarlo.»

D’accordo» convene Danton.

E ripigliò:

«Vi dico che è all’esterno, Robespierre.»

«Danton, vi dico che è all’interno.»

«No, Robespierre, è alla frontiera.»

«No, Danton, è in Vandea»

«Calmatevi» intervenne una terza voce. «È dappertutto, e voi siete perduti.» 9

Il sorriso di Marat – “sorriso di nano” che fa svanire il “riso del colosso” (Danton) – prelude a

un intervento torrenziale scandito dalla reiterazione ossessiva della frase «ho denunciato»,

associata ad un elenco di nomi desunti dalla vastissima documentazione dell’autore sui

personaggi. È, questa, una delle tante declinazioni di quello che Umberto Eco ha chiamato

“l’Elenco immane”, considerato uno dei principali motori della poetica dell’Eccesso che

caratterizza il romanzo, insieme ai molteplici ossimori e ribaltamenti vertiginosi dell’intreccio (2003).

9 V. Hugo, Novantatré, Milano, Mondadori, 2010, p. 110.

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4. La relazione tra personaggi storici e personaggi fittizi

La capacità di Marat di prevedere il corso degli avvenimenti e il fluire delle passioni

popolari si unisce alla profonda consapevolezza di se stesso, come il personaggio non manca di

sottolineare: «J’ai l’habitude de dire la veille ce que vous autres vous dites le lendemain» (876) [«Ho

l’abitudine di dire la vigilia quel che voialtri direte il giorno dopo» (114)]. Nel corso del suo

monologo febbrile, Marat rivendica tutte le azioni commesse, in quanto funzionali alla sua

convinzione: «Le danger n’est ni à Londres, comme le croit Robespierre, ni à Berlin, comme le croit

Danton; il est à Paris» (877) [«Il pericolo non sta né a Londra, come invece crede Robespierre, né a

Berlino, come invece crede Danton; sta a Parigi» (115)], annidato nel “cumulo di bische”, in quella

“massa di club”. La sua è una visione frutto di una percezione paranoica che vede cospirazioni

ovunque, sa tutto e sa leggere le future mosse dei suoi interlocutori. Tra le caratteristiche di Marat

che emergono dal dialogo figura anche l’attenta osservazione delle debolezze altrui:

Je suis l’œil énorme du peuple, et du fond de ma cave, je regarde. Oui, je vois, oui

j’entends, oui, je sais. Les petites choses vous suffisent. Vous vous admirez. Robespierre se fait

contempler par sa madame de Chalabre, la fille de ce marquis de Chalabre qui fit le whist avec

Louis XV le soir de l’éxécution de Damiens. Oui, on porte haut la tête. Saint-Just habite une cravate.

Legendre est correct; lévite neuve et gilet blanc, et un jabot pour faire oublier son tablier.

Robespierre s’imagine que l’histoire voudra savoir qu’il avait une redingote olive à la Constituante

et un habit bleu-ciel à la Convention. Il a son portrait sur tous les murs de sa chambre…(Ibid.: 879)

[Io sono l’occhio enorme del popolo e, dal fondo della mia caverna, sorveglio. Si, io vedo,

si, io odo, si, io so. Le piccole cose a voi bastano. Voi siete in ammirazione davanti a voi stessi.

Robespierre si fa contemplare dalla sua madame de Chalabre, la figlia dell’omonimo marchese

che ha giocato a whist con Luigi XV la sera dell’esecuzione di Damiens. E che arie! Saint-Just abita

dentro una cravatta. Legendre è la correttezza in persona: prefettizia nuova e panciotto candido

e una gala per far dimenticare il grembiule d’un tempo. Robespierre si immagina che la storia

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pretenderà di sapere se aveva una finanziera color oliva alla Costituzione e un completo azzurro

cielo alla Convenzione. I muri della sua stanza sono tappezzati di ritratti… (119)]

Il confronto tra Marat e Robespierre cresce via via di intensità e attraversa questioni cruciali,

come la controversa commistione tra aristocratici e rivoluzionari; il facile rischio, dal quale nessuno

era al riparo, di passare per controrivoluzionari; e in parallelo, la pratica dello spionaggio,

esercitata sia dall’incorructible che dall’ami du peuple.

Nel momento di massimo conflitto e in cui Marat si appresta a uscire, a raggiungere il

terzetto è un personaggio che si presenta fin da subito avvolto da un alone di eccezionalità e

mistero:

En ce moment une voix s’éleva au fond de la salle, et dit:

– Tu as tort, Marat.

Tous se retournèrent. Pendant l’explosion de Marat, et sans qu’ils s’en fussent apercus,

quelq’un était entré par la porte du fond.

–C’est toi, citoyen Cimourdain? dit Marat. Bonjour.

C’était Cimourdain en effet.

[…]

Cimourdain s’avança vers la table.

Danton et Robespierre le connaissaient. Ils avaient souvent remarqué dans le tribunes

publiques de la Convention ce puissant home obscure que le peuple saluait. Robespierre,

pourtant, formaliste, demanda:

– Citoyen, comment êtes-vous entrè?

– Il est de l’Évêché, repondit Marat d’une voix où l’on sentait on ne sait quelle soumission.

Marat bravait la Convention, menait la Commune et craignait l’Évêché.

[Proprio in quella, una voce si levò dal fondo della sala, e la voce disse:

«Hai torto, Marat.»

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Tutti volsero il capo. Durante la tirata di Marat, senza che se ne avvedessero qualcuno era

entrato dalla porta sul fondo.

«Sei tu, cittadino Cimourdain?» fece Marat. «Buonasera.»

Era proprio Cimourdain.

[..]

Cimourdain venne verso il tavolo.

Danton e Robespierre lo conoscevano. Avevano più volte notato, nelle tribune della

Convenzione riservate al pubblico, quell’uomo potente e oscuro, salutato con deferenza dal

popolo. E tuttavia Robespierre, che era un formalista, chiese:

«Come siete entrato, cittadino?»

«E’ del Vescovato » rispose per lui Marat con voce nella quale si avvertiva un vago tono di

sottomissione.

Marat sfidava la Convenzione, mestava alla Comune e temeva il Vescovato. (124)]

Se la concretezza sensibile di tutti i personaggi è parte integrante della scultorea

rappresentazione della loro fisionomia intellettuale (cfr. Lukács 1953), la descrizione dei tratti

individuali dei personaggi non manca di sfumare nell’ambito più astratto e retorico delle

considerazioni di carattere universale sul genere umano e la Storia. Per Peter Brooks, nel

personificare forze contrapposte e conflitti, i personaggi di Hugo si limitano alla emersione di forze

di superficie e non raggiungono la profondità psicologica di Shakespeare, rielaborata

successivamente dai romanzieri di quello che è stato definito da Franco Moretti “il secolo serio”,

ovvero l’Ottocento (2001). Premesso che la sua analisi è rivolta ai drammi teatrali di Hugo,

rappresentati negli anni ‘30 del secolo, non possiamo non osservare come la volontà generale di

Robespierre e la sua lotta alla vandea, lo spirito rivoluzionario di Danton e la sua concentrazione sul

fronte bellico esterno, l'ossessione denunciataria, la paranoia complottista e lo spirito del popolo di

Marat pervadano completamente la fisionomia e l’essenza dei personaggi. Tali tratti individuali e

collettivi polarizzano integralmente la sfera intra homines del romanzo, quello spazio di relazione

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intersoggettivo definito da Guido Mazzoni “il paradigma ottocentesco” (2011) 10e che in Victor

Hugo è assolutamente centrale. Diceva Charles Nodier, «Attenzione a non sbagliare: non era cosa

da poco il melodramma: era la morale della Rivoluzione!» 11 Non per nulla i dialoghi dei tre

rivoluzionari, che sembrano svolgersi su un palco teatrale, attraverso le forme del melodrammatico

ci danno la temperatura della struttura del sentire dell’epoca, proiettandoci in quella dimensione

che Manzoni definisce dominio della poesia, passata sotto silenzio dalla storia 12.

10 Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.


11 Cit. in Brooks 1986.
12 Si veda Alessandro Manzoni, Lettera a Monsieur Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia (1820), Ed. Barnaba

Maj, Firenze, Aletheia, 1999, pp. 93-94.

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Bibliografia

 Barthes, R., S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973.

 Id., L’effet de reel (1968); trad. it. “L’effetto di reale” (1968), Il brusio della

lingua, Torino, Einaudi, 1988.

 Brooks, Peter, The Melodramatic Imagination (1976); trad. it.

L’immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1986.

 Eco, Umberto, “Poetica dell’eccesso. Victor Hugo, Novantatré, 1873”, Il

Romanzo. Lezioni, Ed. Franco Moretti, Torino, Einaudi, V, 2002.

 Fido, Franco, “Dialogo/monologo”, Il romanzo. Le forme, Ed. Franco Moretti,

Torino, Einaudi, II, 2001.

 Hamon, Philippe, Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, Parma,

Pratiche, 1977.

 Id. (1972), “Pour un statut sémiologique du personnage”, in Hamon 1977.

 Hugo, Victor, “Reliquat”, Œuvres complètes, Paris, Laffont, collection

"Bouquins", 2002.

 Id. Quatre-vingt-treize (1873), Œuvres complètes. Roman III, Paris, Laffont,

1985; trad. it. Novantatré, Milano, Mondadori, 2010.

 Lukács, György, Der Historische Roman (1957); trad. it. Il romanzo storico,

Torino, Einaudi, 1965.

 Id., “La fisionomia intellettuale dei personaggi artistici”, Il Marxismo e la critica

letteraria, Torino, Einaudi, 1953.

 Mazzoni, Guido, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.

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 Moretti, Franco, “Il secolo serio”, La cultura del romanzo, Ed. Franco Moretti,

Torino, Einaudi, I, 2001.

 Pellini, Pierluigi, La descrizione, Roma-Bari, Laterza, 1998.

 Rosa, Guy, “Quatre-vingt-treize ou la critique du roman historique”, Revue de

l'histoire littéraire de la France, 75, 2-3, (mars-juin 1975): 329-343.

 Scholes, R. – Kellogg, R., “Il personaggio nella narrativa”, La natura della

narrativa (1966), Eds. R. Scholes, R. Kellogg, Bologna, Il Mulino, 1970.

 Stara, Arrigo, L'avventura del personaggio, Firenze, Le Monnier, 2004.

 Testa, Enrico, Eroi e figuranti, Torino, Einaudi, 2009.

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Emanuela Piga Bruni - L’ibridazione dei generi nel romanzo

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Indice

1. GENERE E MODO ..................................................................................................................................... 3


2. IL MODO ROMANZESCO ......................................................................................................................... 6
3. IL ROMANCE A PUNTATE: IL CONTE DI MONTECRISTO ......................................................................... 9
4. UN CASO DI ECLETTISMO LETTERARIO: NOVANTATRÉ DI VICTOR HUGO .......................................... 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. Genere e modo

Campo vasto e articolato, caratterizzato da molteplici teorie, la riflessione sui generi letterari

affonda le sue radici nell’antichità, da Platone, passando per Aristotele, fino all’Estetica di Hegel.

In tempi recenti, riprendendo Aristotele, il critico canadese Northrop Frye ha proposto la

teoria dei «modi d’invenzione» fondata, sulle differenze di levatura tra l’eroe e il lettore o

l’ambiente1. Frye individua cinque casi:

«Se superiore come tipo sia agli altri uomini che al loro ambiente, l’eroe è un essere divino e

la sua storia sarà un mito nella normale accezione di storia di un dio. Tali storie hanno un posto

importante nella letteratura, ma sono di regola al di fuori delle normali categorie letterarie».

«Se superiore in grado agli altri uomini ed al suo ambiente, l’eroe è il tipico eroe del

romance, le cui azioni sono meravigliose, ma che è un essere umano. Questo eroe si muove in un

mondo in cui le normali leggi di natura sono in certa misura sospese: prodigi di coraggio e di

resistenza, innaturali per noi, sono per lui naturali; e, una volta fissati i postulati del romance, armi

incantate, animali parlanti, streghe ed orchi terrificanti, talismani miracolosi non violano la legge di

probabilità. In questo caso passiamo dal mito propriamente detto alla leggenda, al racconto

popolare…».

«Se superiore in grado agli altri uomini, ma non al suo ambiente naturale, l’eroe è un capo.

Possiede autorità, passioni e capacità di espressione molto più grandi delle nostre, ma ciò che egli

fa è soggetto sia alla critica sociale “che all’ordine della natura. È l’eroe del modo alto-mimetico,

di gran parte dell’epica e della tragedia, ed è il tipo di eroe che interessa particolarmente

Aristotele».

1 N. Frye, Anatomia della critica (1957)

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«“Se non è superiore né agli altri uomini né al suo ambiente, l’eroe è uno come noi: siamo

sensibili alla sua comune umanità e chiediamo al poeta l’obbedienza agli stessi canoni di

probabilità che sono presenti nella nostra esperienza. È l’eroe del modo basso-mimetico tipico di

gran parte delle commedie e della narrativa realistica. «Alto» e «basso» non hanno le connotazioni

di valutazioni comparative, ma sono puramente diagrammatici come quando vengono riferiti ai

critici biblici o anglicani.»

«Se inferiore a noi per forza o per intelligenza, così da darci l’impressione di osservare

dall’alto una scena di impedimento, frustrazione o assurdità, l’eroe appartiene al modo ironico.

Questo accade anche quando il lettore ha la sensazione di trovarsi o di potersi trovare nella stessa

situazione, giudicata però dal punto di vista di chi gode una maggiore libertà».

Ricorda come a volte un autore abbia trovato qualche difficoltà nell’usare a questo livello

la parola «eroe», che nei modi precedenti ha un significato più ristretto. Thackeray, per esempio, si

sentiva obbligato a definire Vanity Fair un romanzo senza eroe.

Nel contemporaneo, le distinzioni tra i generi si sono fatte più sfumate, rendendo difficile la

classificazione. In riferimento al romanzo, genere predatorio e onnivoro, attraversato da stilemi e

temi provenienti da numerosi generi, Guido Mazzoni, nel suo libro Teoria del romanzo, scrive: «Se il

primo tratto che definisce il romanzo nell’accezione moderna del termine è la forma narrativa, il

secondo è la capacità di raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo».

Per questo motivo ci soffermeremo sul concetto di modo, uno strumento più duttile e utile

per comprendere le caratteristiche stilistiche di un testo. Per questo tipo di analisi, è sempre utile

consultare gli studi del teorico della letteratura francese Gerard Genette, il quale ci spiega che:

possiamo narrare più o meno quel che narriamo, e narrarlo secondo vari punti di vista; la

nostra categoria del modo narrativo si riferisce precisamente a una simile capacità, e alle

modalità del suo esercizio: la «rappresentazione», o più esattamente l'informazione narrativa, ha i

suoi gradi; il racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno

diretta, e sembrare così (per riprendere una metafora spaziale corrente e pratica, a condizione di

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non prenderla alla lettera) a più o meno grande distanza da quel che esso racconta; può anche

scegliere di dosare l'informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro

uniforme, ma a seconda delle capacità di conoscenza del « punto di vista» che ha deciso di

adottare.

«Distanza» e «prospettiva» sono le due modalità essenziali della regolazione

dell'informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la nostra visione di un quadro

dipende, per la precisione, dalla distanza che ci separa da esso, e per l'estensione, dalla nostra

posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da schermo.

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2. Il modo romanzesco

Per questo paragrafo ci affideremo allo studio sul romanzesco compiuto da Paolo Zanotti.2

Dal punto di vista letterario, scrive, romanzesca è un’opera con un intreccio ricco di colpi di scena

e avventure, in particolare cavalleresche (‘romanzo’ ha indicato in primo luogo i romanzi

cavallereschi, in quanto scritti romanice, vale a dire non in latino ma in una delle lingue derivate

dal latino sul territorio dell’ex impero romano). All’inverosimiglianza di intreccio tipica dei romanzi

cavallereschi e di quelli moderni d’avventura si aggiunge anche un carattere fantastico più

interiorizzato: ‘romanzesco’ si identifica quasi con ‘romantico’ (i due aggettivi hanno forti legami),

e allora ‘romanzesco’ vuol dire anche sentimentale, passionale, sognante, suggestivo, misterioso,

pittoresco. In queste accezioni, ‘romanzesco’ cessa di riferirsi propriamente alle opere letterarie ma

diventa più che altro l’indicazione di un’atmosfera o anche di un tipo umano: il sognatore,

l’idealista. Don Chisciotte diventa il grande mito romantico del sognatore incompreso dal mondo.

«Romanzesco dunque non è precisamente l’aggettivo di ‘romanzo’, perché insiste di più su

una serie “di caratteristiche che non si trovano nel genere letterario che è diventato l’accezione

principale del termine ‘romanzo’: il grande romanzo ottocentesco di Manzoni e Verga, Balzac e

Flaubert, Tolstoj e Dostoevskij».

Il fatto che nel termine ‘romanzo’ possano essere individuati due generi distinti diventa più

immediatamente comprensibile se si passa alla lingua inglese, dove in effetti esistono per indicare il

romanzo i due termini novel e romance, il primo per indicare il romanzo realistico, il secondo quello

irrealistico.

Romance in inglese ha significato via via il volgare francese, quindi le narrazioni

cavalleresche in versi scritte in quella lingua (anche nell’italiano del Cinquecento ‘romanzo’

significava ‘poema cavalleresco’), poi per estensione (e questa è una definizione soprattutto

settecentesca, quando il concetto di romance si chiarisce a causa del confronto con la nascente

tradizione del novel) una narrazione in prosa che racconta fatti lontani dalla vita ordinaria, o

2 Paolo Zanotti, Il modo romanzesco, Bari, Laterza, 1998.

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perché meravigliosi o perché appartenenti a un universo sociale lontano da quello del lettore

(storie di nobili, storie esotiche). Al limite, romance può indicare semplicemente una storia d’amore

e quindi anche quelli che da noi si chiamano ‘romanzi rosa’ (ibid).

Un prevalere del ‘modo romanzesco’ nel testo farà gravitare un determinato romanzo

nell’ambito del romance. Come spiega Zanotti, «il romance non è un genere letterario codificato

come l’epica o la tragedia; al limite può comprendere al suo interno dei generi particolari, come il

romanzo cortese, o dei sottogeneri del romanzo ottocentesco, come il romanzo di cappa e

spada. Il romance è piuttosto quello che si può definire un modo, cioè una serie di costanti

dell’immaginario che si possono riflettere in letteratura all’interno di opere appartenenti a generi

diversi».

Zanotti ricorda come il dibattito critico su novel e romance inizi in Inghilterra proprio nella

seconda metà del Settecento. Si può leggere nel primo testo importante sull’argomento, The

Progress of Romance, 1785 (Il percorso del ‘romance’) di Clara Reeve (1729-1807), lei stessa

scrittrice di romanzi gotici):

Romance è una favola eroica, che tratta di persone e di cose favolose; novel è una

rappresentazione di vita e di costumi reali, al tempo dello scrittore. Il romance descrive, in un

linguaggio elevato e nobile, ciò che non è mai successo, né probabilmente succederà mai.

È interessante l’osservazione di Zanotti, quando afferma:

Il romance, come sempre, è lo spazio di un’assenza, il bisogno di valori ideali che

probabilmente non sono mai esistiti. Scott, nei suoi romanzi, tentò di conciliare le dimensioni di

novel e romance.

Un classico esempio di romance è “Il castello di Otranto (The Castle of Otranto, 1764), il

primo esempio di un genere, il ‘romanzo gotico’, che, con le sue storie di castelli, meraviglie,

persecuzioni e spettri avrebbe avuto larga fortuna tra i due secoli. Il libro si presenta come una

vicenda medievale tradotta da un manoscritto italiano del Cinquecento, ed è la storia del

compimento di una maledizione che grava sul protagonista, Manfred. Come rileva Zanotti,

nonostante i difetti narrativi di Walpole, tutti gli elementi tipici del gotico sono già presenti: l’eroe

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satanico, la fanciulla perseguitata, il castello misterioso e labirintico, ingombro di ritratti dei signori

passati che, in qualche modo, sembrano indirizzare il corso dei vivi. Osserva anche come la ripresa

romanzesca di Walpole si attui soprattutto tramite soluzioni teatrali: la maggior parte del romanzo è

costituita da dialoghi, e il maggior modello per la mescolanza di sublime, quotidiano e

sovrannaturale è dichiaratamente Shakespeare.

Il primo romanzo di Scott, Waverley (1814), appartiene al genere del romanzo storico, ma

come avviene in altri casi, il romanzo unisce descrizioni realistiche a scene ascrivibili al romance.

Nel riassumere la trama, Zanotti ricorda come Waverley derivi dal nome del protagonista, Edward

Waverley, un giovane inglese romantico (lettore di poemi cavallereschi), che entra nell’esercito e

va in Scozia. «Qui viene affascinato dalle tradizioni scozzesi, oltre che da Rose (una ragazza

abbastanza borghese) e Flora (più complessa e infiammata dall’antica poesia celtica). Waverley

finisce per unirsi all’esercito scozzese nella rivolta giacobita del 1745. Si tratta di una causa persa,

ma, avendo salvato un ufficiale inglese nella battaglia decisiva, Waverley viene graziato. E sposa

Rose. Il romance, dunque, viene confinato a una precisa età dell’uomo (la giovinezza), a un

preciso periodo storico (il passato, le società tradizionali) e a un preciso luogo (la Scozia, dove il

passato è ancora presente)».

Un altro romanzo storico, in cui si possono rilevare stilemi del romanzo gotico e il nostro I

promessi sposi (1840-42), un romanzo ancora più ambizioso di quelli di Scott.

Partito dai romanzi di Scott, anche Manzoni ambienta il suo romanzo nel passato sulla base

di un’accurata indagine storica. La Storia serve a contenere gli eccessi del romanzesco. L’altro

punto di riferimento che Manzoni, nel periodo in cui scrive, non poteva eludere è quello della

narrativa gotica. Facendo riferimento al Castello di Otranto di Walpole, si può notare come

l’Innominato, nella sua livida grandezza iniziale, sia uno dei discendenti letterari di Manfred:

Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore

dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai

nessuno al di sopra di sé, né più in alto.3

3 Alessandro Manzoni, I promessi sposi, (1840-42)

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3. Il romance a puntate: Il conte di Montecristo

Uscito a puntate sul «Journal des Débats» tra il 1844 e il 1846, il romanzo «è uno di quei

famigerati e lunghissimi romanzi d’appendice che tenevano in sospeso vari strati di pubblico da

una settimana all’altra. La trama del Montecristo, molto varia in superficie, è in qualche modo

lineare, perché tutto può essere ricondotto a un singolo motivo: la vendetta del conte. Edmond

Dantès, giovane e promettente marinaio marsigliese, viene fatto imprigionare sotto false accuse

da amici invidiosi, e questo proprio nel giorno delle sue nozze con la bella catalana Mercedes. Il

romanzo è spesso citato per la ricorrenza di un topos classico: l’agnizione, ovvero il riconoscimento

dell’identità di un personaggio, che va a coincidere solitamente con un momento cruciale della

trama.

«Ma insomma, che cosa ti ho fatto? – gridò Villefort, la cui mente cominciava a non

distinguere tra ragione e demenza, in una nebbia che non è più sogno e non è ancora risveglio, –

che ti ho fatto? dimmi! parla!»

«Mi avete condannato a una morte lenta e orribile, avete ucciso mio padre, mi avete tolto

l’amore con la libertà, e con l’amore la felicità!»

«Chi siete? chi siete dunque? mio Dio!»

“Sono lo spettro di uno sventurato che avete sepolto nelle segrete del castello d’If. A

questo spettro, finalmente uscito dalla sua tomba, Dio ha messo la maschera del conte di

Montecristo, e lo ha coperto di diamanti e d’oro perché poteste riconoscerlo soltanto oggi».

«Ah, ti riconosco! ti riconosco! – disse il procuratore del re, – tu sei…»

«Io sono Edmond Dantès!»

Come spiega Zanotti, «La società in cui si muove Montecristo è dunque organizzata

secondo criteri melodrammatici: buoni e cattivi. Edmond Dantès è inoltre un eroe pienamente

consapevole, privo delle incertezze e delle ingenuità di Waverley o Renzo. O almeno lo è nella

seconda parte. Nella prima è un ragazzino ingenuo, nella seconda è invece coltissimo e

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intelligentissimo e si muove con piena consapevolezza nelle miserie della società della

Restaurazione. Non più giovane, è definito il dominatore dei giovani».

Che tipo di personaggio è dunque l’Edmond Dantès della seconda parte? Ha alcuni tratti

dell’eroe da romanzo gotico e dell’eroe romantico: è un personaggio byroniano pallido e oscuro.

Ma è soprattutto quello che è stato definito un «superuomo di massa», vale a dire un personaggio

eccezionale (tipico del romanzo d’appendice “che ripara i torti della società per iniziativa

personale, senza comunque arrivare a pensare di cambiare tutto. Montecristo non è un

superuomo particolarmente ‘sociale’, ma si può osservare che i personaggi contro cui deve

compiere le sue vendette sono dei ricchi che si son fatti strada con il tradimento e la disonestà. La

prima parte del Montecristo, in quest’ottica, non ha dunque altra funzione che quella di fornire un

pretesto a quanto segue: dà al conte la macchia oscura dell’eroe romantico e il mandato del

punitore. Il «superuomo di massa» è insomma la proiezione all’interno del testo del principio

consolatorio della narrazione. Di più: è una nuova forma di razionalizzazione delle forze

meravigliose che reggono il romance: in mancanza della fiducia nella magia, una specie di

superuomo dirige i destini degli uomini in un modo che a loro sembra ‘magico’.

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4. Un caso di eclettismo letterario: Novantatré di Victor


Hugo

Quasi un secolo dopo l’evento, il romanzo di Victor Hugo sulla Rivoluzione francese è un

tentativo di “contemplare quell’abisso” che è ancora lontano dall’essersi concluso e compreso, in

una prospettiva di lunga durata che vede l’evento ancora in corso nelle sue diramazioni che

portano agli eventi sanguinosi della Comune, e ancora lacerato dalla tensione utopica e dal

conflitto tra pietà e terrore.

Nell’indifferenziazione formale del trattamento del referente, che fa sì che il reale entri

nell’immaginario e viceversa, si inseriscono quelle “discontinuità di genere” costitutive della

prismaticità di Quatre-vingt-treize, romanzo storico che accoglie dentro di sé le modalità del

drammatico, del melodrammatico e del tragico.

La frattura tra utopia e storia si riflette nella forza drammatica della scrittura di Hugo, che nel

rendere la dismisura dell’epoca, – e qui mi servo delle parole di Peter Brooks a proposito del modo

melodrammatico – forza «le possibilità intrinseche del significante, e a sua volta lo rende smisurato,

sproporzionato, sempre teso a raggiungere un senso che gli sfugge» (1976). Lo sforzo dell’arte

melodrammatica di far emergere nel modo più netto possibile forze latenti e abissi del significato

(ibid.), si combina qui con quel lavoro sul linguaggio praticato dall’arte realista, volto a illuminare i

pensieri e i sentimenti essenziali impliciti nelle aspirazioni umane, saldando espressione personale e

grandi problemi sociali4

Come scrive Peter Brooks, il modo melodrammatico forza «le possibilità intrinseche del

significante, e a sua volta lo rende smisurato, sproporzionato, sempre teso a raggiungere un senso

che gli sfugge».

Lo sforzo dell’arte melodrammatica di far emergere nel modo più netto possibile forze

latenti e abissi del significato (ibid.), si combina qui con quel lavoro sul linguaggio praticato

4 Si veda Saggi sul realismo di Lukács ,1950.

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dall’arte realista, volto a illuminare i pensieri e i sentimenti essenziali impliciti nelle aspirazioni umane,

saldando espressione personale e grandi problemi sociali.

Nel Novantatré, nella collisione delle forze opposte incarnate dai personaggi risiede la forza

drammatica del romanzo – mentre il dialogo della cripta, il vagare nel vuoto dello sguardo di

Gauvain nel tentativo di intravedere il futuro, rappresenta l’interrogazione stessa sull’essenza del

tragico e sulla violenza storica.

Per questo Quatrevingt-treize è una grande riflessione filosofica, oltre che letteraria, sulla

Rivoluzione, in cui la filosofia ritrova se stessa nella tragedia e ripristina il legame con la storia.

Passaggio messo in figura in Gauvain, che dalle caratteristiche solari di eroe epico, passa

attraverso la scissione e nel confronto con il negativo diviene eroe che pensa, eroe intellettuale.

Con la liberazione di Lantenac, pietà e rivoluzione giungono ad escludersi reciprocamente

e determinano la tragica paradossalità della sorte dell’eroe. In quello stato di eccezione che è lo

spazio del pianoro antistante alla Tourgue, per mano della forza di legge incarnata in Cimourdain,

Gauvain è giustiziato in nome di quel futuro che augura a tutti gli uomini. Il romanzo si chiude, ma

la contraddizione resta, così come la struttura enigmatica dell’esperienza, che contiene la forza

della sua attualità.

Sia il pensiero dialettico di Gauvain, personificazione del tragico in quanto dialettica, che il

concludersi della trama, nell’insuperabilità dell’antitesi tra assoluto umano e assoluto rivoluzionario,

rispecchiano quella legge formale dell’annientamento e della salvezza insita nel rovesciamento

degli opposti che Peter Szondi vede come costituiva del tragico (1961).

Victor Hugo si immerge in quell’éclectisme littéraire che Balzac, riferendosi a Walter Scott,

individua nel romanzo storico, l’unico che possa «produrre una rappresentazione del mondo come

esso è: le immagini e le idee, l’idea nell’immagine o l’immagine nell’idea, l’azione e il sogno».5

In realtà Balzac riteneva Victor Hugo come «il più eminente talento della Letteratura delle

Immagini» (339), ma quegli elementi che egli attribuiva all’éclectisme littéraire, ossia «l’introduzione

5Honoré de Balzac, Études sur M. Beyle (1840); trad. it. Studi su Beyle, Poetica del romanzo. Prefazioni e altri scritti teorici,
Milano, Sansoni, 2000. Va detto che la riflessione di Balzac, contenuta nel saggio Études sur M. Beyle, è del 1840, per cui di
gran lunga antecedente alla pubblicazione del romanzo storico di Victor Hugo (1873).

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dell’elemento drammatico, dell’immagine, del quadro, della descrizione, del dialogo» da lui

ritenuti indispensabili nella moderna letteratura sono tutti presenti nella struttura monumentale di

Quatre-vingt-treize, in cui, «L’idea, divenuta personaggio, si offre più bella all’intelligenza».(Ivi, p.

342)

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Bibliografia

 Brooks, Peter, L’immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1986.

 de Balzac, Honoré, Études sur M. Beyle (1840); trad. it. Studi su Beyle, Poetica

del romanzo. Prefazioni e altri scritti teorici, Milano, Sansoni, 2000.

 Dumas, Alexandre, Le Comte de Montecristo (1844), tr. It. Il conte di

Montecristo.

 Frye, Northrop, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1957.

 Hugo, Victor, Novantatré, Milano, Mondadori, 2010.

 Lukács, György, Saggi sul realismo Torino, Einaudi, 1953.

 Manzoni, Alessandro, I promessi sposi, (1840-42).

 Mazzoni, Guido, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.

 Scott, Waverley (1814).

 Walpole, Horace, The Castle of Otranto (1764).

 Zanotti, Paolo, Il modo romanzesco, Laterza, 1998.

 Zatti, Sergio, Il modo epico, Laterza, 2000.

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Indice

1. IL SECOLO DEL REALISMO ....................................................................................................................... 3


2. CRITICA DEI FINALI DI PUNTATA ............................................................................................................. 7
3. UN SOTTOGENERE DEL REALISMO: IL ROMANZO DI FORMAZIONE ................................................... 10
4. LONG DURÉE E DESCRIZIONE ................................................................................................................ 11
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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1. Il secolo del realismo

Nell’Ottocento, accanto al romanzo popolare, la distribuzione seriale della narrativa

attraverso la stampa vedeva la comparsa di un genere allora in evoluzione, il grande romanzo

realista, sebbene in molti casi, come quello di Balzac e Dickens, i due modelli convivessero nelle

opere con diversi gradi di problematicità.

“Nozione che varia da cultura a cultura”, il realismo è un concetto dai contorni multipli ed

evanescenti, caratterizzato da una storia che affonda le sue radici nella filosofia scolastica (Bertoni

2007). Alla fine del Settecento, saranno F. Schiller e F. Schlegel a utilizzare il termine in ambito

artistico, facendo riferimento agli “scrittori realisti”, ancora in un’accezione vaga che troverà

sempre più consistenza nella Francia della metà dell’Ottocento.

Termine ad alta circolazione […] il destino del realismo è quello di non morire, di rigenerarsi,

di sopravvivere alle insofferenze di critici e scrittori per risorgere a nuova vita: è il destino di chi è

stato innalzato, lusingato, brandito come un’arma contro il vecchio, poi a sua volta disprezzato e

combattuto in nome del nuovo; e capace, a ogni passaggio, di riapparire in forme camaleontiche

e molteplici, rinnovato, riadattato, riconvertito a effettive sperimentazioni o furbescamente

nascosto dietro travestimenti di facciata.(Bertoni 2007)

In questa lezione ci soffermeremo su alcuni tratti tipici del realismo, sia a livello tematico,

come la rappresentazione “seria” della vita quotidiana (caratteristica principe individuata da Erich

Auerbach, 1946) e delle “grandi forze sociali” e “basi economiche dello sviluppo storico” (Lukács

1970: 60), sia a livello stilistico, con l’osservazione di forme testuali caratterizzate da una pienezza

descrittiva volta a procurare “l’effetto di reale, fondamento di quel verosimile inconfessato che

costituisce l’estetica di tutte le opere correnti della modernità” (Barthes 1988: 158). Secondo

Lukács, la “peculiarità dell’antico, grande realismo, del realismo di Diderot e di Balzac” è una

“forma d’espressione che trascende la vita quotidiana”, che nel suo essere “socialmente e per il

suo contenuto sempre conforme alla realtà” (1970: 186) è in grado di rappresentare i caratteri

umanamente e socialmente “tipici” (ivi, 60). Per “grande romanzo realista”, si intende qui un

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fenomeno storicamente determinato, circoscrivibile tra gli anni Trenta e gli anni Novanta

dell’Ottocento, divenuto in seguito “la pietra di paragone per stabilire il ‘grado di realismo’ delle

opere precedenti o successive” (Bertoni 2007: 29).

1.1 2. Il romanzo realista a puntate

La struttura della serialità affonda le sue radici nelle antiche tradizioni orali e nelle saghe

medievali (Dionne 2008), e si sviluppa in senso moderno con i processi di industrializzazione che

coinvolgono l’occidente a partire dal diciannovesimo secolo. Charles Dickens era un grande

comunicatore e divulgatore della sua opera, le sue letture pubbliche erano dei veri e propri eventi

di massa. Si può dire che in un certo senso lo scrittore sia stato un precursore del worldwide

broadcasting: l’edizione americana di Grandi speranze (Great Expectations), pubblicata a

puntate nell’inserto del settimanale Harper’s Weekly e illustrata da John McLenan, precedette di

una settimana la pubblicazione inglese, mentre l’edizione in volume uscì per la prima volta in

Inghilterra, ma anticipando di soli tre giorni la pubblicazione americana (figure 1 e 2).

Figura 1

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Figura 2

Il romanzo di Charles Dickens Great Expectations, illustrato da John McLenan

e pubblicato sull’Harper’s Weekly, 24 novembre 1860 (prima puntata).

I meccanismi della serialità riguardano anche la distribuzione dei grandi romanzi realisti. Ci si

riferisce a quei romanzi che costituiscono tutt’oggi i capolavori del genere, come La fiera della

vanità (Vanity Fair) di W.M. Thackeray (1847-1848), Madame Bovary di Flaubert (1856), Grandi

speranze (Great Expectations) di Charles Dickens (1860-61), Middlemarch di George Eliot (1871-72),

Ritratto di signora (The Portrait of a Lady) di Henry James (1880-81), per citarne qualcuno tra i più

noti. Romanzi oggi chiamati “classici” ma che al tempo uscivano a puntate per ragioni di

distribuzione e di struttura industriale. Gli inserti settimanali o mensili andavano infine a comporre i

cofanetti che ricordano i moderni dvd box che arredano le librerie.

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Cofanetti: Middlemarch di George Eliot e DVD box

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2. Critica dei finali di puntata

Oltre ai finali costruiti sul twist, propri dei romanzi a dominante popolare, la serialità narrativa

ottocentesca presentava anche conclusioni di capitolo che narravano vicende caratterizzate da

un basso livello di suspense e un alto tasso descrittivo. Con queste caratteristiche si presenta il

primo feuilleton francese pubblicato in Francia da Émile de Girardin, La Vieille fille di Balzac. L’anno

è il 1836, lo stesso che vede la pubblicazione, aldilà della Manica, del primo romanzo a puntate di

Dickens, The Pickwick Papers.

Prima puntata della Vieille Fille di Honoré de Balzac, La Presse, 23 ottobre 1836.

Se prendiamo un campione di un finale di puntata del romanzo di Balzac possiamo notare

come il brano in questione si concluda con la visita di Suzanne al cavaliere de Valois. Si tratta di un

momento né particolarmente significativo né carico di tensione narrativa. Né “esca”, né twist,

dunque. Se confrontiamo il testo con l’edizione pubblicata in volume l’anno seguente (1837),

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possiamo riscontrare che, a differenza della versione a puntate, il brano è disposto in un punto

intermedio del racconto che non corrisponde al finale del capitolo (sinistra dell’immagine).

Confronto tra il finale di puntata della Vieille fille pubblicato sul quotidiano «La Presse» (1836)

e la posizione del brano corrispondente nella versione in volume (1837).

Questo perché scrittori come Balzac e George Eliot non miravano a conquistare il lettore

con il ritmo dilatorio della suspence; il loro intento era differente e comportava una differenza di

ritmo. Anziché trascinare il lettore nel vortice dell’intreccio essi miravano ad immergerlo

gradatamente nell’”illusione referenziale” (Barthes, cit.), in un mondo caratterizzato

dall’abbondanza di dettagli, in cui occorre muoversi a passo lento. Nel suo studio sul teatro, una

sfera largamente influenzata nell’Ottocento prima dal realismo e poi dal naturalismo, Èmile Zola

scriveva:

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Invece di immaginare un’avventura, di complicarla, distribuendo colpi di scena che la

conducano via via ad una conclusione finale, si prende semplicemente nella vita la storia di un

uomo o di un gruppo di uomini, di cui si registrano fedelmente le azioni. L’opera diventa un

processo verbale e niente altro; non ha che il pregio dell’osservazione esatta, della penetrazione

più o meno profonda, dell’analisi, del collegamento logico dei fatti”. (Zola 1881)

Il venire meno del twist si accompagna a un’intensificazione della descrizione, dalla

collocazione socio-economica dei personaggi al loro profilo psicologico, dai costumi ad arredi,

scenari urbani e paesaggi, senza tralasciare l’affresco storico e i grandi movimenti sociali, politici e

tecnologici che contrassegnano un’epoca.

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3. Un sottogenere del realismo: il romanzo di


formazione

Tutte caratteristiche presenti in quel sottogenere del romanzo realista ottocentesco che è il

Bildungsroman, il romanzo di formazione, dalla sua forma ascendente rappresentata dal Wilhelm

Meister di Goethe (1795-96), con la sua sintesi perfetta tra la spinta all’autodeterminazione e le

esigenze della socializzazione (cfr. Moretti 1987), all’incrinatura di quella dialettica con le figure di

Julien Sorel (Le Rouge et le noir, tr. It. Il rosso e il nero, 1830), Lucien de Rubempré (Le Illusions

perdues, tr. it. Le illusioni perdute, 1837-43) o Maggie Tulliver (The Mill on the Floss, tr. it. Il mulino sulla

Floss, 1861), fino alla dissoluzione di questa circolarità con l’avvento del romanzo novecentesco e

gli eroi di Robert Musil e di Thomas Mann.

Il romanzo di formazione ottocentesco esprimeva al massimo la forma della modernità, e lo

faceva ponendo al centro simbolicamente la gioventù, “concreto segno sensibile della nuova

epoca”, alla ricerca di un senso nel futuro anziché nel passato. Come ha spiegato Hegel nella sua

Estetica (1838), la “prosa della vita reale”, con il suo conflitto tra pulsioni soggettive e pressioni

sociali, è stato l’oggetto della rappresentazione del grande realismo, da Honoré de Balzac a

Charles Dickens.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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4. Long durée e descrizione

Il romanzo di formazione ottocentesco rifletteva i grandi mutamenti storici, come la

Rivoluzione francese, la restaurazione post napoleonica o l'apoteosi del capitalismo nelle

metropoli. Con Grandi speranze Dickens intendeva raffigurare, insieme alle vicende di Pip, i molti

cambiamenti che attraversavano la società vittoriana, come la crescita dell'urbanizzazione, la

mobilità sociale, lo sviluppo della ferrovia, le riforme giuridiche nel codice penale, il miglioramento

dell'istruzione. Eventi che non rimangono sullo sfondo, ma che entrano nella vita delle persone

comuni, in una saldatura tra macrostoria e microstorie.

I romanzi di Dickens, ad esempio, descrivono la polarizzazione tra esistenza morale e

maschera sociale che si istituì con l’avvento della società industriale in Gran Bretagna. Esemplare

in questo senso Wemming, personaggio di Grandi speranze, il quale nella sua abitazione a

Walsworth, sobborgo residenziale nella periferia londinese, rivela a Pip un'esistenza morale

sconosciuta al suo principale, l’avvocato Jaggers. Nel quotidiano pendolarismo che segna la

separazione tra sfera privata e sfera pubblica – dai luoghi oscuri dell’East End, passando per la

frenesia della vita professionale nella City, fino alla tranquillità di Walsworth – risiede difatti uno dei

tratti caratteristici della classe media.

È nota la presenza di lunghi brani descrittivi nella narrativa ottocentesca.

Dalle pagine che illustrano la campagna inglese e le rive del fiume Floss intorno al Mulino

Darcote (Eliot 1861), alla minuziosa descrizione di quell’”edificio slavato, freddo, silenzioso” che è

casa Grandet, con il suo “orologio da muro di rame”, “la cappa del camino in pietra bianca, mal

tagliata”, o la specchiera gotica di acciaio damaschinato” (Eugène Grandet, 1833). Un’analoga

cura del dettaglio si riflette nella descrizione dei vestiti, dal “gilè di velluto a righe color giallo e

pulce, abbottonato fino al collo”, l’ampia “giubba marrone a falde larghe” e il cappello da

quacchero di M. Grandet (ibidem), fino ai particolari dei raffinati e sofisticati abiti parigini di Lucien

de Rubempré, con i loro tagli, tessuti, colori e accessori (Le illusioni perdute, 1837-43).

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Uno dei tratti che accomunavano gli esponenti del realismo ottocentesco era il

procedimento di «caratterizzazione mediante tratti inessenziali”, come “l’insistenza di Tolstoj sul

dettaglio trascurabile della borsetta durante il suicidio di Anna Karenina” (Bertoni 2007: 29).

L’assenza del cliffhanger nei finali di puntata si può leggere come una conseguenza della

prevalenza del modo realista anziché di quello melodrammatico, proprio del romanzo popolare

alla Eugène Sue o Alexandre Dumas, in cui è la creatività dell’intreccio e dei colpi di scena a farla

da padrone.

Con i romanzi di George Eliot o Henry James, il lettore non si limita a seguire passivamente la

moltiplicazione dell’intrecci ma si immerge nell’immaginario e nei frammenti di realtà

rappresentati, con un investimento cognitivo di lunga durata volto a interpretare eventi e

personaggi dal significato problematico. La possibilità di entrare con maggior profondità e lentezza

nel tessuto di personaggi e relazioni è una delle peculiarità data da questo genere, caratterizzato

dall’introspezione psicologica e dal racconto dell’evoluzione dei personaggi, descritti nelle loro

determinazioni sociali.

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Bibliografia

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literatur (1946); trad. it. Mimesis: il realismo nella letteratura

occidentale,Torino, Einaudi, 1967.

 Bachtin, M., “Il romanzo di educazione”, Izdatel’stvo «Iskusstvo» (1979); trad.

it. L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Torino, Einaudi, 2000.

 Barthes, R., Le bruissement de la langue. Essais critiques (1984); trad. it. Il

brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi 1988.

 Bertoni, F., Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi. 2007.

 Honoré de Balzac, H., Eugènie Grandet (1833); trad. it. Milano, Garzanti,

2011.

 Id. La Vieille fille (1836); trad. it. a cura di P. Pellini, La signorina Cormon,

Palermo, Sellerio 2015.

 Id., Illusions perdues (1837-43); trad. it. Illusioni perdute, Milano, Garzanti, 1982.

 Dickens, C., The Pickwick Papers (1836); trad. it. Il circolo Pickwick, Milano,

Adelphi, 1961.

 Id., Great Expectations (1860-61); trad. it. Grandi speranze, Torino, Einaudi,

1998.

 Eco, U. – Sughi, C. (Eds.), Cent'anni dopo: il ritorno dell'intreccio, Milano,

Bompiani, 1971.

 Eliot, G., The Mill on the Floss (1861); trad. it. Il mulino sulla Floss, Milano,

Mondadori 1980.

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 Eliot, G., Middlemarch. A Study of Provincial Life (1871-72); trad. it.

Middlemarch, Milano, Garzanti, 2006.

 Flaubert, G., Madame Bovary (1856); trad. it. Madame Bovary, Milano,

Garzanti, 1978.

 Goethe, J.W., Wilhelm Meisters Lehrjahre (1795-96); trad. it. Wilhelm Meister:

gli anni dell'apprendistato, Milano, Adelphi, 2009.

 Hegel, G.W.F., Vorlesungen über die Ästhetik (1835); trad. it. Estetica, Torino,

Einaudi, 1978.

 James, H., The Portrait of a Lady (1880-81); trad. it. Ritratto di signora, Torino,

Einaudi, 2006.

 Lukàcs, G. (1946). Balzac, Stendhal, Zola e Nagy orosz realisták; trad. it. Saggi

sul realismo, Torino, Einaudi, 1970.

 Moretti, F. (1987), Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999.

 Pellini, P., Naturalismo e verismo, Scandicci, La nuova Italia, 1998.

 Id. (2015). Miti e termiti, ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa

incarnare la modernità, in H. de. Balzac, La signorina Cormon, Palermo,

Sellerio, pp. 339-381.

 Stendhal (1830), Le Rouge et le noir; trad. it. Il rosso e il nero: cronaca del

1830, Torino, Einaudi, 2009.

 Thackeray, W.M. (1847 -1848), Vanity Fair; trad. it. La fiera delle vanità,

Milano, Garzanti, 1983.

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Indice

1. IL ROMANZO POLIFONICO: DOSTOEVSKIJ ............................................................................................ 3


2. DOSTOEVSKIJ: ROMANZO TRAGICO E ROMANZO IDEOLOGICO ...................................................... 6
3. TEMI. IL NON DETTO: LACUNE E ALLUSIONI ........................................................................................... 8
4. LA TEORIA DEGLI UOMINI STRAORDINARI. DELITTO E CASTIGO ........................................................ 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. Il romanzo polifonico: Dostoevskij

Come si legge nell’importante libro di Michail Bachtin dedicato alla poetica di Dostoevskij,

Quando si prende conoscenza con la vasta letteratura dedicata a Dostoevskij, si ha

l'impressione che si tratti non di un solo artista che ha scritto romanzi e racconti, ma di una serie di

interventi filosofici pronunciati da alcuni pensatori: Raskol'nikov, Myškin, Stavrogin, Ivan Karamazov,

il Grande Inquisitore, eccetera.

Bachtin sottolinea la particolare autonomia e consistenza dei personaggi dello scrittore

russo, protagonisti di un dialogo intenso con il lettore:

Con gli eroi si polemizza, dagli eroi si impara, si cerca di sviluppare le loro concezioni in un

sistema compiuto. L'eroe è ideologicamente autorevole e autonomo, esso è concepito come

autore di un proprio compiuto ideologema, e non come oggetto della finale visione artistica di

Dostoevskij. Per la coscienza dei critici la compiuta diretta intenzionalità delle parole dell'eroe

spezza la superficie monologica del romanzo e chiama a una risposta immediata, come se l'eroe

fosse non l'oggetto della parola dell'autore, ma l'integro e legittimo portatore della sua propria

parola.

Dostoevskij – continua Bachtin – «crea non schiavi silenziosi (come Zeus), ma uomini liberi,

atti a stare accanto al loro creatore, a non condividerne le opinioni e persino a ribellarsi contro di

lui».

La pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l'autentica polifonia delle

voci pienamente autonome costituisce effettivamente la caratteristica fondamentale dei romanzi

di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di caratteri e destini per entro un unitario

mondo oggettivo e alla luce di un'unitaria coscienza poetica, ma qui appunto una pluralità di

coscienze equivalenti con i loro propri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità,

nell'unità di un certo evento.

Bachtin spiega come la pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte e

l'autentica polifonia delle voci pienamente autonome costituiscano la caratteristica fondamentale

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dei romanzi di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di caratteri e destini entro un

unitario mondo oggettivo e alla luce di un'unitaria coscienza poetica, ma una pluralità di

coscienze equivalenti con i loro propri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità,

nell'unità di un certo evento.

Gli eroi principali di Dostoevskij sono veramente, nello stesso disegno creativo dell'artista,

non soltanto oggetti della parola dell'autore, ma anche soggetti della propria parola

immediatamente significante. La parola dell'eroe, quindi, non è qui esaurita affatto dalle consuete

funzioni descrittive e pragmatico-narrative, ma non serve neppure da espressione della posizione

ideologica propria dell'autore. La coscienza dell'eroe è data come una coscienza altra, estranea,

ma nello stesso tempo essa non si reifica, non si chiude, non diventa semplice oggetto della

coscienza dell'autore.

Da qui la celebre teoria di Bachtin di Dostoevskij come il creatore del romanzo polifonico, di

un genere romanzesco sostanzialmente nuovo in quel tempo. Ed è per questo – continua – che la

sua opera non rientra in alcuna trama, non si sottomette ad alcuno degli schemi storico-letterari

che siamo soliti applicare ai fenomeni del romanzo europeo. Nelle sue opere compare un eroe la

cui voce è costruita così come si costruisce la voce dell'autore nel romanzo di tipo ordinario. La

parola dell'eroe su se stesso e sul mondo è pienamente autonoma come l'ordinaria parola

dell'autore; essa non è assoggettata all'immagine oggettuale dell'eroe come una delle sue

caratteristiche, ma neppure serve da altoparlante della voce dell'autore. Affermare l'«io» altrui non

come oggetto ma come altro soggetto, tale è il principio della visione del mondo di Dostoevskij.

Riprendendo lo studio di Ivanov, Bachtin ricorda che «Affermare l'altrui «io» – il «tu sei» – è […] il

compito che gli eroi di Dostoevskij devono risolvere al fine di superare il proprio solipsismo etico, la

propria «idealistica» coscienza separata e trasformare l'altro uomo da ombra in realtà vera. Alla

base della catastrofe tragica in Dostoevskij sta sempre l'isolamento solipsistico della coscienza

dell'eroe, la sua chiusura entro il suo proprio mondo.

Per tal modo l'affermazione della coscienza altrui quale soggetto autonomo e non quale

oggetto è il postulato etico-religioso determinante il contenuto del romanzo (la catastrofe della

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coscienza isolata). Lo studio di Bachtin si concentra sulla poetica e la stilistica del grande scrittore

russo, fino a quel momento lasciata dalla critica in secondo piano rispetto alla dimensione

ideologica. La sorprendente autonomia interiore degli eroi di Dostoevskij è conseguita grazie a

determinati mezzi artistici: prima di tutto la libertà e l'autonomia loro nella struttura stessa del

romanzo rispetto all'autore, più esattamente – rispetto alle consuete determinazioni estrinsecantesi

e compientisi dell'autore. Il che non significa, s'intende, che l'eroe fuoriesca dal disegno dell'autore.

Al contrario, la sua autonomia e libertà rientrano proprio in tale disegno. La relativa libertà dell'eroe

non infrange la rigorosa determinatezza della costruzione, sottolinea Bachtin nella sua analisi.

Questa nuova impostazione dell'eroe in Dostoevskij è raggiunta non mediante la scelta del tema

astrattamente preso (benché, naturalmente, anche questa abbia il suo significato), ma grazie a

tutto l'insieme dei particolari procedimenti artistici di costruzione del romanzo che per la prima

volta sono introdotti da Dostoevskij.” In merito all’importante concetto di polifonia, da lui introdotto

nella critica letteraria, Bachtin specifica:

Va osservato che il nostro paragone tra il romanzo di Dostoevskij e la polifonia ha soltanto il

significato di un'analogia figurata. L'immagine della “polifonia e del contrappunto indica soltanto i

nuovi problemi che sorgono quando la costruzione del romanzo esorbita dai limiti della consueta

unità monologica, così come nel la musica nuovi problemi si sono presentati quando si è andati

oltre la singola voce. Ma i materiali della musica e del romanzo sono troppo differenti perché si

possa parlare di qualcosa di più di una semplice analogia o metafora. Questa metafora è però da

noi trasformata nel termine «romanzo polifonico» poiché non troviamo un'espressione più adatta.

Non dobbiamo tuttavia dimenticare l'origine metaforica del nostro termine.

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2. Dostoevskij: romanzo tragico e romanzo ideologico

Rintracciando come dominante in Dostoevkij, la modalità tragica del racconto, il critico

russo Ivanon affermò:

Da quel che noi nell’arte poetica chiamiamo tragedia esso [il romanzo di Dostoevskij] si

distingue, se prescindiamo dalla forma esteriore narrativa e teniamo conto solo della struttura

interna del racconto, soltanto per il fatto che invece delle poche semplici linee di un’azione

abbiamo di fronte a noi, per così dire, una tragedia potenziata. Come se vedessimo la tragedia

attraverso una lente d’ingrandimento e trovassimo che nel suo tessuto cellulare si ripete e si

imprime lo stesso principio antinomico, al quale è sottoposto tutto l’organismo. Ogni cellula porta in

sé il seme di una evoluzione agonistica, e se il tutto è catastrofico, lo è anche ogni singolo nodo in

piccolo. Così si spiega quella legge del ritmo epico in Dostoevskij originale e corrispondente in

pieno all’essenza della tragedia, legge che gradualmente accresce il peso degli avvenimenti e

trasforma le sue creazioni in un sistema di muscoli e nervi tesi.1

In molte opere di Dostoevskij -continua Ivanon – la catastrofe è adombrata fin dal principio.

Con le sue parole, potremmo definire la sua opera come “tragedia romanzo”, per la rilevanza

della presenza del modo catastrofico. In Delitto e castigo, Raskòl’nikov è il giovane uomo

dominato da un’idea, da una concezione astratta e razionale del bene, per la quale ogni mezzo è

consentito pur di raggiungere i fini stabiliti.

Nella sua lettura, Michail Bachtin si confronta con la critica precedente, e in particolare con

Ivanov e la sua teoria della tragedia-romanzo. Per Bachtin, l'eroe di Dostoevskij è l'intellettuale-

raznocinec [colui che non appartiene alla classe nobiliare ma è in possesso di un buon grado

d'istruzione, solitamente figlio di contadini o mercanti] staccato dalla tradizione culturale,

dall'humus e dalla terra, il rappresentante di una «stirpe fortuita». Quest'uomo stabilisce particolari

rapporti con un'idea: egli è indifeso davanti ad essa e al suo potere poiché non è radicato

nell'esistenza ed è privo di una tradizione culturale. Egli diventa ««L'uomo dell'idea», l'uomo

1
V. Ivanov, La tragedia romanzo, in Dostoevskij. Tragedia, mito, mistica (1932), Il Mulino, Bologna 1994, p. 40.

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posseduto dall'idea. L'idea diventa in lui un'idea-forza che determina e deforma imperiosamente

la sua coscienza e la sua vita. L'idea conduce una vita autonoma nella coscienza dell'eroe: non è

l'eroe che vive, ma l'idea, e il romanziere non narra la vita dell'eroe, bensì la vita dell'idea in lui; lo

storico di una «stirpe fortuita» diventa lo «storiografo dell'idea».

Il momento dominante della caratterizzazione artistica dell'eroe è quindi l'idea che lo

possiede e non il “solito momento biografico (come, ad esempio, in Tolstoj o Turgenev). Di qui

scaturisce la definizione del romanzo di Dostoevskij come «romanzo ideologico», ricorda Bachtin,

specificando tuttavia come nel suo caso non si tratti del solito romanzo di idee, del romanzo con

un'idea:

Dostoevskij – scrive Engel'gardt – ha raffigurato la vita dell'idea nella coscienza individuale

e sociale giacché egli la considerava fattore determinante della società intellettuale. Ma la cosa

non va intesa nel senso che e gli abbia scritto romanzi d'idee, racconti a tesi e che quindi sia un

artista tendenzioso, più filosofo che poeta. Egli non ha scritto romanzi con un'idea, romanzi filosofici

nello stile del diciottesimo secolo, ma romanzi sull'idea. Come per gli altri romanzieri l'oggetto

centrale poteva essere l'avventura, l'aneddoto, il tipo psicologico, il quadro di genere oppure

storico, per lui tale oggetto fu l''idea.

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3. Temi. Il non detto: lacune e allusioni

La rivelazione di qualcosa di indicibile e terribile è un motivo che ricorre nell’opera

dostoevskijana. In Delitto e castigo diversi brani si misurano con il passaggio della “cosa” da un

soggetto all’altro. La necessità irreprimibile di confessare il delitto tormenta Raskòl’nikov, e si

manifesta in vari modi a seconda dell’interlocutore, della sua situazione emotiva, dell’intento che si

prefigge. La vediamo nella sua forma sprezzante e follemente provocatoria nel dialogo con

Zamëtov, incontrato il giorno in cui riemerge dal buio delirio in cui era caduto a seguito dello

svenimento al commissariato. Ancora convalescente e confuso, ossessionato dal ricordo

dell’assassinio, Raskòl’nikov si allontana clandestinamente dalla sorveglianza di Nastasja e

Razumichin e finisce in una bettola a consultare i giornali dei giorni precedenti alla ricerca morbosa

di articoli sull’omicidio della vecchia usuraia. In quella circostanza rincontra casualmente Zamëtov,

un funzionario di polizia che in precedenza aveva assistito nell’ufficio del commissariato al

colloquio con Porfirij Petrovič sulla cambiale scaduta e al successivo svenimento di Raskòl’nikov,

avvenuto platealmente nel momento in cui l’argomento degli astanti era scivolato sul delitto. Nel

secondo incontro con Zamëtov, il ragionamento di Raskòl’nikov procede per via paradossale, e

manifesta al contempo, in uno stato convulso di eccitazione, il desiderio di affermare per via

retorica la sua superiorità di uomo straordinario, al quale tutto è permesso. Così gli si rivolge:

«Ve lo dirò dopo quello che c’è da sentire, mentre adesso, mio carissimo, vi comunico… no,

meglio, “vi confesso”… No, nemmeno questo va bene: “depongo, e voi prendetene”, ecco così!

Così depongo che ho letto, mi sono interessato… ho cercato… ho rinvenuto…» Raskòl’nikov strinse

gli occhi, e rimase in attesa «ho rinvenuto, e per questo motivo sono venuto qua dentro, ho

rinvenuto informazioni sull’assassinio della vecchia funzionaria» proferì finalmente, quasi in un

sussurro, accostando il proprio volto vicinissimo al volto di Zamëtov. Zamëtov lo guardò dritto, a

bruciapelo, senza muoversi e senza allontanare il proprio volto dal volto di lui. La cosa che in

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seguito sembrò più strana a Zamëtov fu che per un minuto esatto tra loro si protrasse il silenzio, e

per un minuto esatto rimasero a guardarsi a quel modo 2.

Indispettito e mosso da un impulso autodistruttivo, Raskol'nikov provoca Zamëtov

instillandogli sospetti sul suo stesso conto che verranno solertemente riferiti dal funzionario a Porfirij,

innescando così l’accanita indagine del commissario di quartiere. In questa scena, esitazioni,

pause, e silenzi si fanno estremamente significanti e comunicano ciò che sfugge alla

verbalizzazione, trasmettendo al contempo il rapido mutare di disposizioni ed emozioni nei

personaggi.

Un altro brano che pone al centro il racconto del delitto è quello che narra gli istanti che

seguono la riunione tenutasi da Pul’cherija Aleksàndrovna e da Dunja, la madre e la sorella di

Raskòl’nikov, giunte a Pietroburgo. Proprio nel momento in cui diverse questioni problematiche si

sono definite e risolte con l’annullamento del matrimonio di Dunja con Lužin, la conseguente gioia

di Razumichin e l’eliminazione di quell’ostacolo alla riconciliazione famigliare, Raskòl’nikov si

congeda bruscamente dichiarando il suo desiderio di essere lasciato da solo. Tra lo stupore e il

dispiacere dei suoi cari abbandona la stanza e aspetta l’amico alla fine del corridoio, al quale

intima:

«Te lo dico una volta per tutte: non domandarmi mai nulla. Non ho nulla da risponderti…

Non venire a casa mia. Forse sarò io a venire qua… Lasciami perdere, ma loro… non lasciarle. Mi

hai capito?»

Nel corridoio c’era buio; ma loro stavano in piedi vicino a una lampada. Per un minuto si

guardarono l’un l’altro, in silenzio. Razumichin ricordò in seguito questo minuto per tutta la vita. Lo

sguardo ardente e fisso di Raskòl’nikov s’andava facendo sempre più intenso, gli penetrava

nell’anima, nella coscienza. All’improvviso Razumichin trasalì. Era come se qualcosa di strano fosse

avvenuto tra loro… Una certa idea d’era insinuata, una sorta d’allusione; qualcosa d’orribile,

2 F. Dostoevkij, Delitto e castigo, cit., p. 202.

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d’indecente, e di improvvisamente comprensibile da entrambe le parti… Razumichin impallidì

come un morto.3

Al centro del brano domina con forza espressiva qualcosa che non viene mai detto. La

rivelazione del delitto è narrata non dal dialogo, ma esattamente dalle pause tra una frase e

l’altra, e si sedimenta negli interstizi tra le parole. Nella lacuna risiede il racconto del tema cruciale:

il racconto di quella cosa che, in un istantaneo avvicinamento delle due coscienze, passa da

un’interiorità all’altra. In maniera simile avviene nel brano in cui Raskòl’nikov rivela il delitto a Sonja,

con la differenza che a spingerlo a rivelarsi non sono la rabbia e provocazione ma il bisogno di

comunione con Sonja, suscitato dall’amore che il giovane prova per lei. Giunto da lei, Raskòl’nikov

le ricorda il motivo della sua visita, ovvero la rivelazione dell’identità dell’assassino. Inizia

ricostruendo sommariamente la scena, compiuta da un lui, e dunque narrata in terza persona, per

poi chiedere a Sonja, dopo un “terribile minuto” passato in silenzio, e come qualcuno che si butti

“a capofitto da un campanile”: «E così non riesci a indovinare?»

“N-no” sussurrò Sonja in tono appena udibile.

“Ma rifletti per bene.”

E come ebbe detto ciò, di nuovo la ben nota sensazione di poco prima gli raggelò

improvvisamente l’anima: egli guardò Sonja, e all’improvviso sul volto di lei vide il volto di Lizaveta.

Rammentò chiaramente l’espressione del volto di Lizaveta mentre le si stava avvicinando con la

scure in mano, quando quella s’era rifugiata accanto alla parete per sfuggirgli, con il braccio

proteso in avanti e un autentico spavento infantile dipinto sul volto, proprio come fanno i bambini

piccoli quando improvvisamente cominciano ad aver paura di qualcosa, e guardano fissi e

inquieti l’oggetto che li intimorisce, per poi indietreggiare e, protendendo in avanti il braccino,

prepararsi a scoppiare in pianto. Quasi la stessa cosa si stava adesso verificando anche con Sonja:

con la stessa impotenza, con lo stesso spavento, ella lo guardò a lungo e all’improvviso, proteso in

avanti il braccio sinistro, leggermente, appena appena, gli si aggrappò con le dita al petto e

lentamente cominciò ad alzarsi dal letto allontanandosi sempre più da lui, mentre lo sguardo che

3 Ivi, pp. 386-87.

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gli teneva fisso addosso si faceva sempre più immobile. Il terrore di lei improvvisamente si

comunicò anche a lui: esattamente lo stesso spavento si dipinse sul volto di Raskòl’nikov, che si

mise a guardarla in quello stesso modo e persino quasi con lo stesso sorriso infantile.

“Hai indovinato?” sussurrò egli alla fine.4

Anche in questo brano con la rappresentazione della densità semantica del silenzio è

narrata la trasmissione di qualcosa, di indicibile, che viene comunicato al di là del linguaggio

4 Ivi, p. 507.

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4. La teoria degli uomini straordinari. Delitto e castigo

L’arco evolutivo di Raskòl’nikov segue linee diverse, il suo delitto nasce da un miscuglio

dettato da necessità ed esaltazione ideologica, contraddetti dall’incompatibilità della sua

fisionomia – che esprime piuttosto l’intellettuale dotato di estrema sensibilità – con il ruolo di

criminale e assassino. A questo si aggiunge l’incontro con Sonjia, figura salvifica, e un percorso

successivo del personaggio nel quadro della redenzione che si collega alla concezione religiosa

ed esistenziale di Dostoevskij. Durante il primo confronto con Porfirij, tenutosi in presenza di

Razumichin, di fronte alla richiesta del commissario, Raskòl’nikov precisa le idee di un suo articolo

scritto tempo prima, in cui enuncia la teoria degli uomini straordinari: da una parte «persone per

loro natura conservatrici e per bene, che vivono nell’obbedienza e amano obbedire», dall’altra

«quelli della seconda categoria», che invece, «violano tutti la legge, sono dei distruttori». Una zona

oscura, dove vivono uomini che per la loro straordinarietà paiono godere del diritto (un diritto non

ufficiale, ma morale, filosofico) di abbracciare il delitto in nome di una superiore verità, ma anche

di una superiore identità. Tant’è che il delitto non è più tale se commesso da loro. Con accenti

nietzschiani, si potrebbe dire che la loro è una vita jenseits vom Gut und Böse, al di là del bene e

del male.

[Porfirij Petrovič] Nel suo articolo tutto sta nel fatto che gli uomini si dividono in ‘ordinari’ e

‘straordinari’. Quelli ordinari, devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge,

perché essi, vedete un po’, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di

compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d’essere

straordinari. È questo che voi dite, se non mi sbaglio?”

- “Come sarebbe? Non può essere!” borbottava Razumíchin interdetto.

Raskòlnikov sorrise di nuovo. Aveva capito subito come stavano le cose e dove volevano

portarlo; e ricordava il suo articolo. Decise di accettare la sfida.

- “Quel che dice il mio articolo non è precisamente questo,” prese a dire in tono semplice e

modesto. “D’altronde, riconosco che ne avete esposto il contenuto quasi fedelmente e perfino, se

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volete, del tutto fedelmente...” era come se gli facesse piacere ammettere quest’ultima possibilità.

“L’unica differenza è che io non sostengo affatto che gli uomini straordinari debbano

necessariamente o siano costretti a compiere iniquità d’ogni specie, come voi dite. Fra l’altro,

credo che un articolo del genere non l’avrebbero nemmeno lasciato pubblicare. Io ho

semplicemente formulato l’ipotesi che un uomo ‘straordinario’ abbia il diritto... non un diritto

ufficiale, beninteso... di permettere alla propria coscienza di scavalcare certi... certi ostacoli, e ciò

esclusivamente nel caso in cui l’esecuzione di un suo progetto (talvolta, magari, salutare per

l’intera umanità) lo richieda.

Dal brano emerge anche l’insopprimibile pulsione di Raskòl’nikov a confessare e a liberarsi,

ma allo stesso tempo ad esibire la sua superiorità. Nella prima parte del romanzo l’esigenza del

reperimento di risorse per la madre e la sorella è la melodia di fondo, la ragione che spinge

Raskòl’nikov a compiere il delitto; via via, l’altra ragione, di matrice ideologica e individualistica,

prende sempre maggiore forza nel romanzo, fino alla confessione di fronte a Sonjia, in cui dichiara:

Non ho ucciso per aiutare mia madre, sciocchezze! Non ho ucciso per avere i mezzi e il

potere e per diventare un benefattore dell’umanità! Sciocchezze! Ho ucciso e basta: ho ucciso

per me stesso, per me solo… Non era tanto il denaro che mi occorreva , quanto un’altra cosa…

Avevo bisogno di sapere, e di saperlo subito, se io ero un uomo oppure un pidocchio come tutti; se

sarei stato capace di trasgredire o no; se avrei avuto il coraggio di chinarmi e di prendere, oppure

no; se non ero che un essere tremebondo, o se avevo il diritto.

Come scrive Dostoevskij, la figura di Raskòl’nikov «esprime l’idea d’un orgoglio smisurato, di

superbia e di disprezzo per la società» . «Il suo atto, esercitando una libertà assoluta e arbitraria» -

osserva Pareyson - «doveva dimostrarlo capace di tale libertà, e collocarlo subito tra gli esseri

eccezionali».

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Bibliografia

 Bachtin, M., Dostoevskij. Poetica e stilistica (1929), Torino, Einaudi, 2002.

 Cometa M., Il tragico. Materiali per una bibliografia, Palermo, Aesthetica,

1990.

 Id., Il demone della redenzione. Tragedia, mistica e cultura da Hebbel a

Lukács, Firenze, Aletheia 1999.

 Dostoevskij F., Delitto e castigo (1866), Milano, Mondadori, 2012.

 Id., I fratelli Karamazov (1880), trad. di A. Villa, Torino, Einaudi, 2005.

 Gardini, Nicola, Lacuna. Saggio sul non detto, Torino, Einaudi, 2014.

 Garelli G., Filosofie del tragico. L’ambiguo destino della catarsi, Milano, Bruno

Mondadori, 2001.

 Gentili C. – Garelli G., Il tragico, Bologna, Il Mulino, 2010.

 Ivanov, V., La tragedia romanzo, in Dostoevskij. Tragedia, mito, mistica

(1932), Il Mulino, Bologna 1994.

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Indice

1. UN NUOVO SISTEMA DI COORDINATE ................................................................................................... 3


2. IL SENSO DELLA CRISI .............................................................................................................................. 7
3. IL RIFIUTO DEL NATURALISMO ............................................................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. Un nuovo sistema di coordinate

Il passaggio tra Otto e Novecento è un periodo estremamente dinamico, pieno di

trasformazioni violente e di mutamenti veloci, di scoperte e di rivoluzioni. Questo avviene in tutti i

campi del sapere e della vita umana, tra i quali:

La sfera politico-sociale, in cui:

 1896-1908, Seconda rivoluzione industriale, che cambia i rapporti di produzione e di lavoro

(fordismo, taylorismo; catena di montaggio, produzione in serie);

 1914-18: Grande guerra; impatto devastante non solo sulla vita delle persone e sui beni

materiali, ma anche sulle coscienze, sulla mentalità; trauma collettivo dalle proporzioni inaudite

(un trauma, ad esempio, fortemente presente in Mrs Dalloway di Virginia Woolf);

 1917: Rivoluzione d’Ottobre.

Il campo della scienza e della filosofia:

 1899, Freud pubblica L’interpretazione dei sogni e dà inizio a quella che è stata definita “la

terza rivoluzione copernicana” nella storia dell’umanità (radicale ridiscussione della centralità

dell’uomo, spallata definitiva all’antropocentrismo di matrice rinascimentale);

 1905, Einstein formula la teoria della relatività ristretta (a cui seguirà, 1916, la teoria della

relatività generale);

 1903-1911: Planck sviluppa la teoria dei quanti, che rivoluziona completamente la concezione

della fisica;

 1900-01: Husserl pubblica le Ricerche logiche; (e nel 1913 le Idee per una fenomenologia pura

e per una filosofia fenomenologica;)

Il campo della tecnica e delle invenzioni tecnologiche, che incidono enormemente sul

modo di percepire la realtà e i rapporti umani:

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 Tra fine 800 e primi anni del 900, Marconi inventa la radio, e in generale si sviluppano le

telecomunicazioni (telegrafo, telefono ecc.);

 Negli stessi anni, i fratelli Lumière inventano il cinema;

 Sviluppo dei trasporti: auto, aereo, grandi transatlantici ecc. (le distanze si accorciano, cambia

la percezione del tempo e dello spazio).

Questo susseguirsi di scoperte, invenzioni, rivoluzioni, ha (se non proprio un influsso diretto) un

riscontro, una consonanza con i mutamenti che scuotono il campo dell’espressione artistica. Vale

la pena riportare la tesi ormai classica di Stephen Kern:

Nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della prima guerra mondiale una serie di radicali

cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di

esperire lo spazio e il tempo. Innovazioni tecnologiche che comprendono il telefono, la

radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l’automobile e l’aeroplano posero il fondamento

materiale per questo nuovo orientamento; sviluppi culturali indipendenti quali il romanzo del ‘flusso

di coscienza’, la psicoanalisi, il cubismo e la teoria della relatività plasmarono direttamente la

coscienza: il risultato fu una trasformazione delle dimensioni della vita e del pensiero.1

Con una tesi di questo tipo si apre anche il grande percorso di Giacomo Debenedetti nel

Romanzo del Novecento (1971):

Le prime origini della pittura cubista cadono suppergiù negli stessi anni, i primi di questo

secolo, in cui Planck formula la teoria dei quanta, Einstein trasformando l’equazione di Michelson-

Morley scrive le equazioni della relatività e Freud porta la psicologia del profondo a quella tappa

decisiva che è rappresentata dal libro sull’interpretazione dei sogni. Sono altrettanti avvenimenti

che sfaccettano e significano, nei loro campi diversi e rispettivi, quello che [si può chiamare] un

nuovo sistema di coordinate dell’uomo nel mondo, una nuova percezione che l’uomo ha della

struttura e quindi un nuovo sentimento e giudizio del mondo, e del proprio essere ed esserci nel

1
S. Kern, Th e C u l t u r e o f Ti m e a n d S p a c e 1 8 8 0 - 1 9 1 8 ( 1 9 8 3 ) , t r a d . i t . I l t e m p o e l o s p a z i o : L a p e r c e z i o n e
del mondo tra Otto e Novecento , Bol ogna, Il M ulino, 2007 , p . 7.

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mondo. E senza dubbio, nella misura in cui si è davvero stabilito un nuovo sistema di coordinate, se

ne debbono riscontrare gli effetti anche in letteratura, e tanto più nel romanzo.2

Un “nuovo sistema di coordinate” cambia dunque la concezione della storia, della natura,

dell’arte, e anche la stessa immagine dell’uomo. E in effetti, guardando le cose

retrospettivamente, in prospettiva storica, si ha il senso di una brusca cesura, di una rottura, quasi di

un trauma epocale che trasforma completamente la concezione del mondo e l’autopercezione

dell’uomo in rapporto alla realtà. Ovviamente, si tratta anche di una semplificazione storiografica:

la storia non è mai così univoca e lineare: fenomeni molto complessi, frastagliati, che non si

compiono ovunque allo stesso modo e con la stessa velocità. Tuttavia, le tendenze culturali

dominanti dell’epoca vanno in questa direzione, creano un senso di rottura con il passato,

manifestano un forte bisogno di novità, di cambiamento anche radicale e violento (le

testimonianze dei contemporanei sono numerosissime, e non lasciano dubbi sul fatto che nell’aria

ci fosse il senso di un grande cambiamento. La manifestazione più visibile di questa esigenza è

rappresentata dalle avanguardie.

Come scrive Mario Lavagetto, nel suo studio Svevo e la crisi del romanzo europeo:

Il secolo [...] nasce in modo fortemente traumatico, grazie a una cesura radicale dopo la

quale “niente sarà più come prima” e i confini del possibile e dell’impossibile risulteranno

drasticamente modificati. È come se lungo un arco molto ampio – che va dalla musica alla

filosofia, dalla fisica al romanzo – fossero stati predisposti dei detonatori che, in rapida sequenza,

innescheranno formidabili esplosioni destinate a rivoluzionare i presupposti, i riferimenti e le

condizioni stesse di lavoro; a trasformare il modo in cui i singoli pensano se stessi e il mondo che li

circonda”3 (p. 251).

2 Giacomo Debenedettti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1976, pp. 3-4.
3Mario Lavagetto, Svevo e la crisi del romanzo europeo, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura
di A. Asor Rosa, Einaudi, pp. 245-67 (anche con il titolo Svevo nella terra degli orfani, in Lavorare con piccoli indizi, Bollati
Boringhieri, pp. 277-298)

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Gli effetti e le reazioni di questo mutamento sono molteplici. In primo luogo, c’è un grande

senso di disorientamento, accompagnato da una grande crisi di valori, che è anche un portato

della cultura fin de siècle (si pensi al decadentismo, e al suo senso della fine di una civiltà). Tra gli

effetti immediati e inevitabili di questo mutamento di coordinate vengono meno le coordinate

stabili, i punti di riferimento a cui l’uomo era da tempo abituato. In generale, tendono a saltare

tutte le gerarchie, i sistemi di classificazione e di ordinamento che avevano caratterizzato la

mentalità ottocentesca, secondo cui il mondo “era ordinato gerarchicamente con un posto

proprio per ogni cosa” (Kern, p. 259). Inoltre, viene meno un modello univoco di spiegazione del

mondo, come era stato bene o male quello elaborato dal sapere ottocentesco, culminato nel

Positivismo (determinismo, scienza sperimentale, ereditarietà, causa/effetto).

Anche nella percezione dello spazio e del tempo, come ha mostrato Kern, subentra un

senso di fluidità, di eterogeneità degli orizzonti spazio-temporali; spazio e tempo non sono più

categorie assolute, universalmente stabili, ma fattori relativi, legati a particolari sistemi di riferimento

e alla percezione soggettiva dell’individuo. L’uomo si sente gettato in un mondo sempre più

complesso, in continua trasformazione, attraversato da forze molteplici, disorganiche, e spesso

contraddittorie che sembra impossibile ricondurre a un disegno unitario.

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2. Il senso della crisi

Il senso della crisi è messo in luce da Erich Auerbach, alla fine del suo libro Mimesis:

I cambiamenti veloci produssero una confusione tanto maggiore, in quanto non era

possibile abbracciarli nel loro insieme; essi si manifestarono contemporaneamente in molte singole

sfere della scienza, della tecnica e dell’economia, cosicché nessuno, neanche coloro che ne

erano a capo, poterono prevedere e giudicare le situazioni nuove che ne risultarono. […]

dappertutto nel mondo sorsero crisi di adattamento, si accumularono e si fecero minacciose,

condussero a quegli sconvolgimenti che non abbiamo ancora superato” (II,334).

Un elemento peculiare di questo disorientamento, di questa progressiva erosione delle

antiche certezze, è la crisi del concetto di identità, la progressiva dissoluzione dell’io, dell’uomo in

quanto soggetto unitario. Si tratta di qualcosa che permea profondamente, che quasi ossessiona

la cultura primonovecentesca. In un certo senso, la psicoanalisi di Sigmund Freud (scoperta

dell’inconscio) è solo la punta di un iceberg; Freud fornisce una formulazione compiuta e

scientificamente fondata di una tendenza generale, che si può riscontrare in moltissime espressioni

del sapere e dell’arte primo-novecentesca:

 la percezione dell’uomo come soggetto scisso, diviso, interiormente lacerato;

 la scoperta sconvolgente (Freud) che “L’io non è padrone in casa propria”, e che bisogna fare

i conti con un Altro (lui lo chiama Es), con una sorta di “doppio” oscuro e spesso minaccioso

che si nasconde all’interno di noi stessi.

Tutto questo, ovviamente, influisce profondamente sullo statuto del personaggio. D’altra

parte, questo senso della crisi non si esaurisce in un ripiegamento, nella percezione di una

negatività, di un disagio, ma alimenta anche una spinta propulsiva, spesso euforica, che mira a un

profondo cambiamento. La difficoltà di capire e di organizzare la realtà si traduce in uno stimolo

conoscitivo, impulso a indagare e a sperimentare, a tentare di costruire un nuovo modello di

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conoscenza e di espressione. L’esigenza del nuovo impone di superare (e in certi casi di rifiutare) le

acquisizioni del secolo precedente, per mettere a punto nuovi strumenti di indagine e di verifica

con cui addentrarsi in regioni ancora sconosciute.

Tra i molti che si potrebbero citare, un documento importante è costituito dal testo di

Kandinsky, Lo spirituale nell’arte (1912), che insieme a Franz Marc e altri faceva parte del gruppo

Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), un gruppo di artisti formatosi a Monaco di Baviera nel 1911, e che

costituì, con Die Brücke, uno dei due nuclei fondamentali dell'espressionismo tedesco. Il testo è

percorso da questa necessità di superare il passato, di esplorare regioni nuove:

Si apre, anzi si è già aperta, una grande stagione: il risveglio spirituale […] Siamo sulla soglia

di una delle più grandi epoche che l’umanità abbia mai vissuto, l’epoca della grande spiritualità.

[…] Rispecchiare gli avvenimenti artistici direttamente connessi a questa svolta e i fatti necessari a

illuminarli anche in altri campi della vita spirituale, è il nostro primo e massimo obiettivo” (p. 249)

Noi ci avventuriamo in nuove terre e viviamo una grande, sconvolgente esperienza:

scopriamo che tutto è ancora intatto, inespresso, vergine, inesplorato. Il mondo si apre dinanzi a

noi in tutta la sua purezza: i nostri passi tremano. Se vogliamo osare e camminare, dobbiamo

tagliare il cordone ombelicale che ci unisce al passato materno.

Il mondo partorisce un’età nuova. (p. 259).

Una testimonianza per noi ancora più pertinente è rappresentata dal famoso saggio di

Virginia Woolf, Mr Bennett and Mrs Brown (1924), che individua una “frattura generazionale” tra i

romanzieri della sua generazione (i georgiani) e quelli della generazione precedente (gli

edoardiani)4:

Nel o intorno al dicembre 1910 il carattere umano [human character] è cambiata […] Tutte

le relazioni umane sono mutate – quelle tra padroni e servi, mariti e mogli, genitori e figli. E quando

le relazioni umane cambiano, c’è un contemporaneo cambiamento nella religione, nel

comportamento, nella politica, e nella letteratura. […]

4 Nel 1910, nel Regno Unito, Giorgio V succede a Edoardo VII.

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E così si è iniziato a fracassare e a distruggere. È ciò che sentiamo tutto intorno a noi, nelle

poesie e nei romanzi e nelle biografie, perfino negli articoli di giornale e nei saggi, il rumore di cose

rotte e cadenti, sfondate e distrutte. […] I segni di tutto questo sono evidenti ovunque. La

grammatica è violata; la sintassi disintegrata […].

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3. Il rifiuto del naturalismo

La sensazione di trovarsi oltre le colonne d’Ercole, in un oceano ancora inesplorato, si

traduce in una reazione decisa contro la tradizione e le poetiche di fine Ottocento. In generale: la

letteratura (e l’arte) del primo Novecento si pone all’insegna della negazione, della contestazione,

del rifiuto dei canoni tradizionali e delle convenzioni precedenti (ad esempio le avanguardie), in

nome della sperimentazione linguistica, stilistica e strutturale.

In particolare, la narrativa e il romanzo attaccano il grande movimento che (in maggiore o

minore misura, nei vari paesi) aveva egemonizzato gli ultimi decenni dell’Ottocento: il Naturalismo

(e più in generale la tradizione del grande realismo ottocentesco). In effetti, tutti i presupposti della

poetica realista e naturalista vengono discussi, svuotati dall’interno, e spesso completamente

ribaltati. In primo luogo, si sfalda la fede nell’esistenza di una realtà esterna, oggettiva, verificabile

(“positiva”), che il romanzo possa indagare e rappresentare con la massima precisione possibile, in

termini oggettivi e “scientifici”. In questa visione, la realtà tende a dissolversi, a perdere la sua

consistenza oggettiva: il mondo diventa il riflesso di un punto di vista, la proiezione di una

soggettività, di una prospettiva parziale e circoscritta. In questo modo viene meno anche la visione

unitaria della realtà, c’è un processo di frammentazione: le prospettive da cui può essere osservata

sono molteplici, sfaccettate, spesso in contrasto tra di loro, ed è impossibile ricondurre questo

prisma a una visione universale e unitaria. Tra le conseguenze sul piano formale:

 Il baricentro si sposta dall’esterno all’interno, dalla descrizione di una realtà oggettiva all’analisi

di una realtà interiore, soggettiva;

 Oggetto della narrazione non sono più dei presunti fatti obiettivi, ma il riflesso dei fatti nella

coscienza dei personaggi.

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Il secondo presupposto che viene messo in discussione riguarda l’idea che sia possibile:

 Costruire un unico modello esplicativo, un modello universale che possa spiegare le cause dei

fenomeni, le relazioni umane, i comportamenti;

 Stabilire una gerarchia ben precisa del significato e dell’importanza dei fenomeni.

Nel Romanzo del Novecento Giacomo Debenedetti, a proposito di questo presupposto,

afferma: «L’oggetto [...], per il romanzo tradizionale, prenovecentesco, non può, non deve mai

essere insignificante; se lo assume e lo rappresenta è proprio perché è in qualche modo

significativo o utilmente significativo: porta il suo contributo».

La gerarchia del significante e dell’insignificante va in frantumi, o addirittura si ribalta:

 Viene meno un modello unico di spiegazione del mondo, e dunque non si può più stabilire in

modo assoluto che cosa è significativo, rilevante, e quindi degno di rappresentazione letteraria

 Sembra che il criterio della scelta, dell’arbitrio con cui il romanziere selezionava i suoi materiali

dal grande serbatoio della vita, li ordinava, li organizzava in una struttura precisa, sia

completamente cambiato;

 E l’attenzione tende a spostarsi proprio sui fatti e sugli oggetti apparentemente insignificanti,

banali, casuali – quelli che il romanzo classico avrebbe sicuramente trascurato, o lasciato in

secondo piano.

Nel suo libro Le poetiche di Joyce, Umberto Eco scrive (a proposito dell’Ulisse):

Il principio dell’essenziale [...] fa sì che nel romanzo tradizionale non si dica affatto che il

protagonista si è soffiato il naso, a meno che questo atto “conti” qualcosa al fine dell’azione. Se

non conta è un atto insignificante, romanzescamente “stupido”. Ora, con Joyce abbiamo

l’assunzione di pieno diritto di tutti gli atti stupidi della vita quotidiana quale materia narrativa. [...]

ciò che prima era inessenziale diventa centro dell’azione, nel romanzo non accadono più grandi

cose importanti, ma accadono tutte le piccole cose, senza mutuo legame, nel flusso incoerente

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del loro sopravvenire, i pensieri come i gesti, le associazioni di idee come tutti gli automatismi del

comportamento.5

In Mimesis, Erich Auerbach, nel capitolo dedicato a Virginia Woolf, afferma:

Ai tempi nostri si è avuto uno spostamento di accento; molti scrittori rappresentano i piccoli

fatti insignificanti per amore dei fatti stessi, o piuttosto quale fonte di motivi, di penetrazione

prospettica in un ambiente, in una coscienza o nello sfondo del tempo; essi hanno rinunciato a

rappresentare la storia dei loro personaggi con la pretesa di una compiutezza esteriore,

conservando la successione cronologica e concentrando tutta l’attenzione sulle importanti svolte

esteriori del destino. Il romanzo gigantesco di James Joyce, un’opera enciclopedica, specchio di

Dublino, dell’Irlanda, specchio anche dell’Europa e dei suoi millenni, ha per cornice la giornata

esteriormente insignificante d’un professore di ginnasio e d’un agente di avvisi pubblicitari; esso

comprende meno di 24 ore della loro vita, simile al romanzo To the Lighthouse di Virginia Woolf,

che rappresenta parti di due giorni molto distanti nel tempo [...]. Proust rappresenta giornate e ore

singole di epoche diverse, però alle svolte esteriori del destino, che frattanto hanno colpito i

personaggi del romanzo, si accenna soltanto occasionalmente o retrospettivamente o con

anticipazioni, senza che in esse sia posta la mira del racconto; spesso devono essere completate

dal lettore; il modo in cui nel testo citato si parla della morte del padre, cioè occasionalmente, per

accenni o anticipazioni, ne è un buon esempio. Questo spostamento del centro di gravità esprime

quasi uno spostamento di fiducia; si attribuisce meno importanza alle grandi svolte esteriori e ai

colpi del destino, come se da essi non possa scaturire nulla di decisivo per l’oggetto; si ha fiducia

invece che un qualunque fatto della vita scelto casualmente contenga in ogni momento e possa

rappresentare la somma dei destini; si ha fiducia maggiore nelle sintesi, ottenute con l’esaurire un

fatto quotidiano, piuttosto che nella trattazione completa in ordine cronologico” (II,331-32).

In sintesi, l’interesse non si concentra sugli “avvenimenti essenziali”, sulle grandi svolte del

destino, ma su piccoli fenomeni della vita quotidiana che [attenzione] possono, in determinate

condizioni, rivelare significati segreti, inaspettati, impercettibili per lo sguardo dello scrittore

5 U. Eco, Le poetiche di Joyce, Milano, Bompiani, 1982.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Il passaggio tra Ottocento e Novecento

naturalista. Questo ci porta alla messa in discussione del terzo presupposto, ovvero dell’idea che il

mondo si esaurisca nella sfera del visibile, di ciò che è direttamente esperibile, nei fenomeni

percepiti dai sensi e sottoponibili ad analisi e verifica da parte della ragione. Tutto questo viene

minato alle radici dalle scoperte scientifiche e filosofiche, dalla psicoanalisi, dalla fisica

subatomica, dall’irrazionalismo, dalle tendenze spiritualiste. Si scopre che:

 La realtà è molto più estesa, complessa e stratificata;

 Il versante diurno, razionale della realtà e della vita umana cela un versante notturno, un

“emisfero d’ombra”6 che la luce della ragione e della scienza ottocentesca non è in grado di

illuminare;

 E si intuisce che questa regione inesplorata, avvolta in un cono d’ombra, è l’unica importante,

l’unica che valga la pena conoscere; È lì che forse si può trovare il significato essenziale

dell’esperienza, quello che è drammaticamente venuto meno con il crollo degli antichi valori; È

lì che la vita può essere colta alle sue scaturigini, nelle sue radici profonde, al di là di quello che

emerge alla superficie degli eventi, dei fenomeni, dei comportamenti esteriori (ad esempio, la

psicoanalisi, chiamata anche psicologia del profondo).

6 Si veda di Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 246.

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Bibliografiai

 Auerbach, Erich, Il calzerotto marrone, in Mimesis: Il realismo nella letteratura

occidentale, Torino, Einaudi, volume II, pp. 305-338.

 Debenedettti, Giacomo, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1976.

 Eco, Umberto, Le poetiche di Joyce, Milano, Bompiani, 1982.

 Lavagetto, Mario, Svevo e la crisi del romanzo europeo, in Letteratura

italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di A. Asor Rosa, Einaudi,

pp. 245-67 (anche con il titolo Svevo nella terra degli orfani, in Id., Lavorare

con piccoli indizi, Bollati Boringhieri, pp. 277-298).

 Kern, Stephen, The Culture of Time and Space 1880-1918 (1983), trad. it. Il

tempo e lo spazio: La percezione del mondo tra Otto e Novecento,

Bologna, Il Mulino, 2007.

i
Questa lezione, insieme alle altre lezioni del modulo sul Modernismo, è tratta dagli appunti del prof. Federico Bertoni,
docente di Teoria della letteratura, con il quale ho collaborato presso l’Università di Bologna. Previo il suo consenso, e data
la qualità del materiale didattico, ho ritenuto utile metterlo a disposizione anche delle/degli studentesse/i di questo corso.

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Indice

1. LA RECHERCHE: CONTESTO E CAPISALDI .............................................................................................. 3


2. POETICA E OPERE .................................................................................................................................... 5
3. UN ROMANZO NEL ROMANZO ............................................................................................................... 8
4. UN AMORE DI SWANN: ASPETTI FORMALI............................................................................................ 10
5. SWANN E MARCEL ................................................................................................................................. 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. La Recherche: contesto e capisaldi

Data la vastità dell’argomento, questa lezione mira a indicare alcuni punti molto generali

riguardanti Marcel Proust e la sua opera maggiore. Inizio con il ricordare come Proust sia uno degli

esponenti principali del grande modernismo europeo, e come si sia formato e abbia scritto in

un’epoca di grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali, e specificamente artistiche.

In ambito letterario, e in particolare nel romanzo, in quegli anni si assisteva a una fase di

grande sperimentazione: in contesti culturali diversi, con forme e modalità del tutto peculiari, si

registrava un attacco convergente contro l’edificio del romanzo classico, che veniva

completamente destrutturato e ricostruito su nuove basi.

Cambia la concezione della trama, la gestione del tempo narrativo, lo statuto del

personaggio, la funzione del narratore; cambia il baricentro stesso della narrazione, che si colloca

in modo sempre più netto nella soggettività, nel mondo interiore dei personaggi, nel labirinto di

un’identità sempre più complessa e frammentata. Gli stessi presupposti su cui si fondava il romanzo

ottocentesco, radicati nella cultura filosofica e scientifica di quel periodo, cambiano

radicalmente, in molti casi scompaiono, e vengono sostituiti da esigenze e obiettivi nuovi, spesso

legati grandi a innovazioni scientifiche o a trasformazioni culturali (la psicoanalisi, la fisica

quantistica, ecc.).

L’opera di Proust è basata su una complessa e articolata teoria estetica e su una

concezione generale della vita umana. Si tratta di teoria che non viene sviluppata in modo

sistematico in saggi o trattati, ma calata nel corpo stesso del romanzo, come sua ragion d’essere,

come sua sostanza profonda. È una concezione che assegna all’arte un ruolo prioritario, quasi

salvifico: la creazione artistica, il diventare artista, è l’unica cosa che possa dare senso alla vita; c’è

un naufragio generale, una distruzione sistematica e implacabile di tutti gli aspetti dell’esistenza

(l’amicizia, l’amore, la politica, la storia, la vita sociale), e alla fine da questo naufragio si salva solo

l’arte come possibilità di riscattare tutto dalla sua insensatezza.

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Questa convinzione viene tematizzata all’interno dell’opera stessa, nel senso che il tema di

fondo di La Recherche du Temps perdu (La ricerca del tempo perduto) è la ricerca di una

vocazione artistica, la storia di un uomo che vive diverse esperienze, cerca il suo destino e alla fine

(in seguito a una sorta di rivelazione, di illuminazione) capisce che il suo destino è l’arte, e che tutto

quello che ha vissuto dovrà riversarsi in un libro – il libro che lui comincia a scrivere alla fine della

storia, e il libro stesso che noi abbiamo appena finito di leggere, in un meccanismo circolare e

potenzialmente infinito.

I capisaldi di questa teoria estetica e di questa visione del mondo sono:

 La memoria: non tanto quella che Proust chiama «memoria volontaria», fondata

sull’attenzione e sull’intelligenza, che è una facoltà assolutamente sterile e astratta,

ma la «memoria involontaria», una facoltà che non può essere controllata

razionalmente e che può darci un accesso autentico al nostro passato, a quel

tempo che sembrava definitivamente «perduto» ma che può essere «ritrovato», in

qualche modo resuscitato;

 La distinzione tra un io superficiale e un io profondo, tra una personalità apparente

che si manifesta nella vita di tutti i giorni, nell’abitudine, nella vita sociale, nella

conversazione, e una personalità sostanziale, autentica, che custodisce la nostra

vera identità e che non è del tutto comunicabile agli altri, ma resta chiusa

nell’abisso dell’interiorità;

 La percezione di una trascendenza della vita umana, non una trascendenza

religiosa ma una trascendenza laica: l’idea che la vita non si esaurisce nella sfera

sensibile, nell’ambito dei fenomeni materiali, razionali e scientificamente osservabili,

ma nasconde una dimensione nascosta e oscura, che si manifesta a sprazzi, per

bagliori momentanei, e che richiede l’esercizio di una straordinaria sensibilità per

essere colta – e poi rappresentata nell’opera d’arte;

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2. Poetica e opere

Sul piano artistico-espressivo, ovvero della poetica, riscontriamo un metodo narrativo

specifico, che Proust definisce «intermittenze del cuore» e che rappresentano l’ossatura

fondamentale del suo romanzo.

Le intermittenze del cuore sono i pilastri che sostengono La Recherche: sono momenti

improvvisi di rivelazione, del tutto involontari, causati per lo più da una percezione sensoriale, che

risvegliano la memoria involontaria, resuscitano il passato e ci fanno accedere alla parte più

autentica di noi stessi, ci permettono di oltrepassare i fenomeni superficiali e di accedere

all’essenza della realtà, al suo contenuto metafisico.

Lo spiega bene il grande critico Giacomo Debenedetti nel suo Rileggere Proust:

Le “intermittenze” sono l’improvvisa rivelazione che c’è dell’altro, che quelle certezze,

fiducie, abitudini sulle quali avevamo riposato non erano che una crosta, apparentemente solida

e compatta, capace di reggere il nostro peso; ma sotto di essa, si nasconde la vera realtà,

sfuggente alle nostre percezioni ordinarie, alle regole su cui il nostro vivere riposava, e che

repentinamente si danno a conoscere per ciò che sono: pure convenzioni.

La carriera letteraria di Proust è tutt’altro che lineare, tanto è vero che i contemporanei

hanno fatto fatica a capire la novità dirompente rappresentata dalla sua opera.

Proust è uno di quegli scrittori che sembrano nati per scrivere un unico libro, un libro-summa

in cui si deposita la parte essenziale della loro vita, del loro pensiero, del loro sforzo di elaborazione

artistica. L’opera non arriva subito, ma è preceduta da una serie di tentativi, di abbozzi, anche di

passi falsi che lo portano fuori strada. Si tratta di testi dal carattere frammentario o incompiuto:

una serie di pastiches, esercizi di stile, in cui il giovane scrittore si esercita a imitare il

linguaggio, lo stile, le cadenze espressive di altri scrittori.

 Una serie di brevi articoli o saggi su vari argomenti, spesso di carattere letterario, ma

non solo;

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 Un romanzo rimasto incompiuto, Jean Santeuil, scritto in terza persona ma con un forte

carattere autobiografico;

 Un testo inclassificabile, Contro Sainte-Beuve (Contre Sainte-Beuve), che nasce come

saggio polemico per contestare il metodo di uno dei critici più influenti dell’epoca e

che poi si sviluppa in direzioni imprevedibili, accoglie riflessioni generali sulla letteratura,

analisi di alcuni grandi scrittori (Balzac, Baudelaire, Flaubert) e anche alcuni spezzoni

narrativi in cui appaiono personaggi del futuro romanzo; anche questo incompiuto.

Tuttavia, quando comincia a intravvedere la sua strada e progetta il romanzo, Proust

procede con grande lucidità e determinazione, accumulando pagine su pagine in un lavoro

accanito e labirintico che dura molti anni. Sostiene di avere scritto di seguito la parte iniziale del

libro (primo volume) e quella finale (di quello che diventerà il settimo e ultimo), cioè di avere avuto

ben presente fin dall’inizio il piano complessivo dell’opera e quale sarebbe stata la conclusione;

Questo per rispondere alle critiche di chi, dopo la pubblicazione del primo volume nel 1913,

diceva che il libro non aveva né capo né coda, era completamente sconclusionato, senza trama,

senza progetto ecc.

Tra questi due grandi pilastri, Proust procede per espansione e accumulazione graduale:

scrive una serie di episodi intermedi che si dilatano, crescono su se stessi, dando origine a vari

volumi;

La pubblicazione avviene gradualmente, a mano a mano che Proust completa i singoli

volumi, in un arco di tempo abbastanza lungo (concluso dalla sua morte, 1922: ultimi tre volumi

escono postumi):

1913: Du côté de chez Swann (Dalla parte di Swann)

1919: A l’ombre des jeunes filles en fleur (All’ombra delle fanciulle in fiore)

1920-21: Du côté de Guermantes (La parte di Guermantes)

1921-22: Sodome et Gomorrhe (Sodoma e Gomorra)

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1923: La prisonnière (La prigioniera)

1925: Albertine disparue (Albertine scomparsa)

1927: Le temps retrouvé (Il tempo ritrovato)

Anche se ha un’organicità di fondo, sia tematica che strutturale, l’opera deve essere

considerata incompiuta, nel senso che Proust non ha avuto il tempo di rivedere definitivamente gli

ultimi volumi, pubblicati postumi.

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3. Un romanzo nel romanzo

Un amore di Swann (Un amour de Swann) rappresenta un capitolo specifico di questa

immensa opera; un capitolo del tutto particolare, che da un lato si inserisce in modo organico

nell’impianto generale, e assolve una funzione precisa nell’economia dell’opera; dall’altro, ha

delle caratteristiche peculiari che lo differenziano dal resto dell’opera, che ne fanno un oggetto a

parte, relativamente autonomo rispetto all’insieme in cui è collocato (e infatti, anche dal punto di

vista editoriale, è possibile estrapolarlo, anche se con tutte le cautele del caso…).

La storia di Swann si trova nel primo volume dell’opera, La strada di Swann, che è articolata

in tre sezioni:

Parte prima: Combray, divisa in due capitoli: I e II;

Parte seconda: Un amore di Swann;

Parte terza: Nomi di paese: Il nome.

Alla fine della prima parte, il narratore annuncia così l’inserimento di questa storia:

Certo, quando si avvicinava il mattino, da tempo era dissipata la breve incertezza del mio

risveglio. Sapevo in quale camera effettivamente mi trovavo, l’avevo ricostruita intorno a me

nell’oscurità, e – orientandomi con la sola memoria, o prendendo in aiuto, come indicazione, una

debole luce intravista, ai piedi della quale situavo le tende della finestra – l’avevo ricostruita per

intero e arredata come un architetto e un tappezziere che rispettino l’apertura originaria delle

finestre e delle porte, avevo riabbassato gli specchi e ricollocato il cassettone al suo solito posto

[…] Ma appena il giorno – e non più il riflesso di un’ultima brace su una bacchetta di rame che

avevo scambiato per esso – tracciava nell’oscurità, e come col gesso, la sua prima riga bianca e

rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava il vano della porta, dove l’avevo situata per

errore, mentre “per farle posto, lo scrittorio, che la mia memoria aveva maldestramente installato

là, fuggiva in gran fretta, spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del

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corridoio; un cortiletto campeggiava nel luogo dove, un attimo prima, si apriva la stanza da

bagno, e la dimora che avevo ricostruito nelle tenebre era andata a raggiungere le dimore

intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga da quel pallido segno tracciato sulle tende dal dito

levato del giorno.

Poi, conclusa la storia di Swann, si riprende con la vicenda principale (riprendendo il motivo

conduttore: gli addormentamenti e i risvegli in una serie di stanze da letto):

Tra le camere di cui evocavo più spesso l’immagine nelle mie notti d’insonnia, nessuna era

più dissimile dalle camere di Combray, pervase da un’atmosfera granulosa, satura di polline,

commestibile e devota, di quella del Grand–Hôtel de la Plage, a Balbec, i cui muri verniciati a

smalto contenevano, come le pareti levigate di una piscina, rese azzurre dall’acqua, un’aria pura,

celeste e salina.

Un amore di Swann è dunque anche una lunga parentesi narrativa, che interrompe

temporaneamente la storia del protagonista e che ha delle caratteristiche del tutto peculiari,

innanzitutto dal punto di vista formale.

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4. Un amore di Swann: aspetti formali

La voce narrante

La ricerca del tempo perduto è scritto in prima persona (narrazione autodiegetica), tranne

la sezione Un amore di Swann, scritta in terza persona (eterodiegetica).

La voce narrante è sempre la stessa, ma in questa parte il narratore non parla di sé, non è un

personaggio della storia che racconta.

Punto di vista

Il punto di vista è molto ambiguo, con una serie di elementi contraddittori: siamo sempre nel

quadro generale di un romanzo in prima persona, in cui dunque non può esserci narrazione

onnisciente, ma per lunghi tratti questa prima persona viene come cancellata, dissimulata, c’è

uno slittamento insensibile verso un diverso regime narrativo.

Molto spesso il narratore si comporta come se fosse onnisciente, come se conoscesse tutto

della storia di Swann, come se potesse penetrare nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti reconditi e

nelle sue motivazioni segrete. È vero che ogni tanto giustifica le informazioni che ci comunica,

menziona le sue fonti, dice ad esempio che certe cose gli sono state raccontate dallo stesso

Swann, e tuttavia questo non basta per rendere plausibile una narrazione così informata e

dettagliata (bisogna sottoscrivere una sorta di patto: cioè accettare che il narratore possa usare “il

trucco grazie al quale l’impossibilità è stata aggirata”).

Protagonista

In questa sezione il protagonista cambia, non è più l’io narrante (Marcel) ma Charles

Swann, un amico di famiglia che compare già nelle prime sequenze, apparirà più volte nei volumi

successivi, e che solo qui assume un ruolo di primo piano.

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Tempo

Dal punto di vista temporale, la storia di Swann è una lunga analessi esterna: cioè è

collocata in un passato remoto che precede la nascita del narratore, quindi l’inizio della storia

principale; è una sorta di antefatto che comporta un ritorno indietro nel tempo. Queste sono le

peculiarità, gli elementi differenziali e distintivi rispetto al resto dell’opera, di carattere soprattutto

formale.

Le analogie riguardano prevalentemente il piano tematico, si fondano su una serie di motivi

ricorrenti che creano un gioco di specchi tra la storia di Swann e la storia principale. Come se fosse

una specie di romanzo nel romanzo, o un exemplum, una storia esemplare che ha il compito di

illuminare quella principale, di illustrare in forma ridotta alcune tematiche di fondo. Tra queste, uno

dei temi principali del romanzo, l’amore: l’amore di Swann per Odette è il prototipo, il modello

degli amori del narratore, con tutte le fasi che attraversa: innamoramento, idealizzazione, gelosia,

amore contrastato, indifferenza.

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5. Swann e Marcel

Chi è Charles Swann e qual è il suo rapporto con il narratore? Perché la sua storia viene

considerata così importante, viene investita di questa funzione esemplare?

Swann è un uomo di estrazione borghese, figlio di un agente di cambio, di origine ebraica,

ed è un amico di famiglia, in particolare del nonno del narratore. Compare nelle primissime pagine

del romanzo, quando fa visita alla famiglia nella casa di campagna di Combray e il narratore

ancora bambino sente il campanello che suona e annuncia la sua visita (questo è uno dei ricordi

di infanzia più ricorrenti). La famiglia di Swann ha una proprietà nei dintorni di Combray, e si tratta

proprio di quella «parte di Swann» verso la quale il narratore fa una serie di passeggiate e che dà il

titolo al primo volume dell’opera. Viene detto subito che ha fatto un cattivo matrimonio, che ha

sposato una donna molto al di sotto di lui, sulla quale circolano molti pettegolezzi da parte della

borghesia di Combray;

La famiglia del narratore lo considera un caro amico, molto alla buona, senza sapere che è

un grande snob, una delle personalità più in vista del bel mondo parigino, «amico prediletto del

conte di Parigi e del principe di Galles», uno degli uomini più eleganti e più introdotti nella vita

mondana del Faubourg Saint-Germain (e molto amico soprattutto degli aristocratici Guermantes).

Un’altra caratteristica importante risiede nel suo rapporto con l’arte: Swann ha una grande

cultura artistica, soprattutto pittorica: ha fatto studi e ricerche in questo ambito, in particolare su

Vermeer, ed è anche un appassionato di musica.

Inizialmente il narratore, nella parte dedicata all’infanzia, ha un sentimento abbastanza

ostile nei suoi confronti, perché le sue visite tengono impegnata la famiglia e soprattutto

impediscono alla madre di salire nella sua camera per dargli il bacio della buonanotte. In seguito,

questi sentimenti cambiano completamente quando il narratore scopre che Swann è anche il

padre di Gilberte, cioè la prima ragazza di cui si innamora, che incontrerà – nel corso delle sue

passeggiate − «dalla parte di Swann».

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Al di là di questi rapporti diretti, c’è una relazione sotterranea che lega Swann e il narratore,

e che fa di lui uno dei personaggi-chiave di tutto il romanzo, una specie di alter ego del narratore

stesso. Intanto c’è un’affinità di carattere, sottolineata dallo stesso narratore, e c’è soprattutto il

rapporto con l’arte, con la dimensione estetica. Si tratta di un rapporto fatto di analogie, di ulteriori

affinità: Swann è un grande cultore di cose artistiche, è lui che contribuisce a iniziare il narratore

alla pittura, alla letteratura, all’architettura, gli fornisce una serie di indicazioni che formano il suo

gusto.

Tuttavia ci sono delle differenze: Swann è e rimane un grande dilettante, un «dilettante di

sensazioni immateriali», si ferma a uno stadio superficiale nell’esperienza estetica, e soprattutto non

ha il coraggio di scavare sotto la superficie delle apparenze e di accedere al livello della

creazione artistica (come farà il narratore alla fine dell’opera).

Da questo punto di vista, l’intuizione più suggestiva resta sempre quella di Debenedetti, in

Rileggere Proust:

Così isolato, così staccato, questo episodio non cessa tuttavia di essere come un grande

sovrapporta, o meglio un bassorilievo che, all’ingresso di quel musicale e tragico inferno, dove poi

ci sprofonderemo in compagnia del personaggio che dice je, ne riassume i gironi, le torture, i

peccati e soprattutto la vicenda per cui si cade nel peccato capitale – il tempo perduto – e lo si

paga senza espiarlo. […] Swann è il più tipico, fascinoso e scoraggiante fabbricatore di tempo

perduto. […] Swann è un freddoloso morale, oltre che fisico: uno che si tiene al riparo dalla vita, in

un certo senso ritraendosene, creando di fronte alla vita quella impermeabilità, quel vuoto che

crea nel suo cervello, allorquando sente avvicinarsi un pensiero impegnativo e inopportuno,

tormentoso, difficile. […] Ha ottenuto il successo mondano, che è già un riconoscimento della sua

persona; ma inadeguato, meno meritorio e appagante, in paragone con quel riconoscimento che

gli sarebbe venuto in grazia di un’opera da lui creata, veramente “sua”. In un certo senso,

nell’aridità che gli è subentrata, si difende anche dall’amore: ha molte avventure, piuttosto

segrete, ma sceglie il tipo della donna formosa, sana, quasi sempre di una classe sociale alquanto

più bassa della sua o di quella che lui frequenta: la donna che appaga i suoi sensi, ma non la sua

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spiritualità, prelevata anzi al di fuori di questa spiritualità. […] Sono donne, dalle quali certo non si

scocca per lui l’invito a cercare qualche cosa in loro di ineffabile, l’anima segreta che le

apparenze annunciano insieme ed occultano. Sono narcotici che lo aiutano a dimenticare l’ansia

e il rimpianto del tempo. […]

Possiamo ormai fare un passo più in là, non limitarci più a suggerire analogie, e dire qual è la

nostra opinione: il grande capitolo sull’amore di Swann è, proiettato sulla più visibile e accessibile

delle passioni umane, il movimento di psicologia coatta di tutta la Recherche [cioè la ricerca di

una misteriosa verità delle cose, non visibile nella loro apparenza]; messo a carico di un

personaggio a cui non è concessa la grazia, a cui tocca subire il travaglio del destino, senza

poterne appurare le rivelazioni. Swann, come si è detto, rimane nel limbo del “tempo perduto” […]

L’interesse palpitante, drammatico della Recherche, la sua forza di propulsione, anche nel senso

della dinamica narrativa, viene dal fatto che il protagonista rischia per migliaia di pagine, e per

sequenze di episodi sempre analoghi, la sorte di Swann.

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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Marcel Proust e La ricerca del tempo perduto

Bibliografiai

 Barthes, Roland, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 2007.

 Curtius, Ernst Robert, Marcel Proust, a cura di Lea Ritter Santini, Bologna, Il mulino,

1985.

 De Benedetti, Giacomo, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Milano,

Mondadori, 1982.

 Deleuze, Gilles, Marcel Proust e i segni, Torino, Einaudi, stampa 1973.

 Girard, René, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani,1965.

 Spitzer, Leo, Stilstudien (1928), trad. it. Marcel Proust e altri saggi di letteratura

francese moderna, Torino, Einaudi, 1959.

 Proust, Marcel, A la recherche du temps perdu (1913-‐-1927), Ed. Pierre Clarac –

André Ferré, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1954, 3 voll., trad. it. Alla

ricerca del tempo perduto, Ed. Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Einaudi-

Mondadori, 7 voll., 1970.

 Tadié, Jean-Yves, Proust, le dossier (1983), trad. it. Proust. L'opera, la vita, la critica,

Milano, Il Saggiatore, 2003.

i
Questa lezione, insieme alle altre lezioni del modulo sul Modernismo, è tratta dagli appunti del prof. Federico Bertoni,
docente di Teoria della letteratura, con il quale ho collaborato presso l’Università di Bologna. Previo il suo consenso, e data
la qualità del materiale didattico, ho ritenuto utile metterlo a disposizione anche delle/degli studentesse/i di questo corso.

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Indice

1. DISCORSO AMOROSO E DESIDERIO MIMETICO ................................................................................... 3


2. L’AMORE DI SWANN ................................................................................................................................ 5
3. L’IDEALIZZAZIONE DELL’AMATA .............................................................................................................. 7
4. IL RUOLO DELL’ARTE ................................................................................................................................. 8
5. DESIDERIO E GELOSIA ........................................................................................................................... 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 16

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1. Discorso amoroso e desiderio mimetico

Questa lezione mira a fornire un esempio di critica tematica a partire da un classico della

letteratura modernista, La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Il campo di indagine è qui

ristretto alla sezione Un amore di Swann, un romanzo dentro il romanzo. Sarà illustrato il modo in cui

questo testo rappresenta una delle esperienze fondamentali della vita umana, nonché tema

romanzesco per eccellenza: la passione amorosa. L’analisi è compiuta partendo da quei brani

che mostrano le dinamiche misteriose del desiderio, e mettono in scena un soggetto amoroso che

appare sempre più scisso e alienato.

L’oggetto della lezione, e del commento, non è ovviamente l’amore in quanto tale, ma

quello che, con le parole di Roland Barthes, possiamo chiamare il discorso amoroso 1, cioè l’amore

in quanto rappresentazione, come costruzione discorsiva di un immaginario preciso, come

processo di codificazione culturale a cui la letteratura ha dato un contributo colossale.

Come in molte altre opere della letteratura occidentale, risalta nel romanzo il monopolio

del discorso amoroso da parte di Swann, attraverso una gestione particolare del punto di vista per

cui la donna amata, Odette, viene descritta e rappresentata in gran parte attraverso gli occhi

dell’innamorato, tanto che non abbiamo modo di sapere come sia “realmente” la donna al di

fuori di questo sguardo soggetti. La sua vita interiore non ci viene mostrata.

Insieme alla passione amorosa, è rappresentata anche la crisi del desiderio, ravvisabile

nell’esibizione stessa del desiderio, che viene tradotto in discorso e alimentato da un immenso

repertorio di modelli artistici e letterari. Una crisi che può essere letta come un sintomo di quella

frattura tra pensiero e azione, tra piano dell’immaginario e piano dell’esperienza che è uno dei

tratti distintivi della modernità. Mascherando un vuoto, una mancanza esistenziale, il desiderio

esibito diventa una forma di inautenticità, o di vanità. Stendhal, in Dell’amore, affermava come

1
Il riferimento è al libro di Roland Barthes Frammenti di un discorso amoroso (1977).

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questo tipo di amore aspiri «a reputarsi grande passione», ma in realtà sia «del tutto artificioso»,

senza spontaneità, indotto dall’esterno.

Il romanzo illustra anche una specifica declinazione del desiderio, quella che René Girard,

in Menzogna romantica e verità romanzesca, ha chiamato «desiderio mimetico» o «triangolare». Si

tratta di una struttura triangolare del desiderio che si ritrova in molti romanzi. In questo quadro,

l’eroe, invece di mirare direttamente a un oggetto desiderato (gloria, successo, amore), passa

attraverso la mediazione di un modello, che funge da mediatore. Questo modello orienta il suo

desiderio e gli fornisce l’esempio da imitare; per il soggetto è fonte ispiratrice di cosa deve

desiderare e di come deve comportarsi.

Il prototipo da cui parte Girard è Don Chisciotte:

Don Chisciotte ha rinunciato, in favore di Amadigi, alla prerogativa fondamentale

dell’individuo: non sceglie più gli oggetti del suo desiderio, ma è Amadigi che deve scegliere per

lui. Il discepolo si precipita verso gli oggetti che gli indica, o che sembra indicargli, il modello di ogni

cavalleria. Chiameremo questo modello il mediatore del desiderio. […] Nella maggior parte delle

opere di finzione, i personaggi desiderano in modo più semplice di Don Chisciotte. Non c’è il

mediatore, ma ci sono solo il soggetto e l’oggetto […] il desiderio è sempre spontaneo. Può

sempre essere rappresentato da una semlice linea retta che collega il soggetto e l’oggetto. / La

linea retta è presente, nel desiderio di Don Chisciotte, ma non è l’essenziale. Al di sopra di questa

linea, c’è il mediatore che si irraggia al tempo stesso verso il soggetto e verso l’oggetto. La

metafora spaziale che esprime questa triplice relazione è evidentemente il triangolo.

Noteremo il ruolo importante della memoria culturale e della tradizione letteraria: attraverso

la passione di Swann per Odette, l’opera illustra una serie di costanti e di motivi convenzionali, e

tematizza il ruolo della letteratura e dell’arte all’interno del romanzo stesso.

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2. L’amore di Swann

Iniziamo partendo dal rapporto di Swann con le donne. In Rileggere Proust, Debenedetti

parla di una completa «dissociazione della prostituta dalla compagna», nel senso che Swann

cerca donne che sono l’opposto del suo tipo, sia in senso fisico che in senso sociale. Si può

ravvisare in questa dissociazione un atteggiamento vagamente schizofrenico. Da un lato, nella sua

vita pubblica, Swann è il raffinato cultore d’arte che apprezza la bellezza nobile e ideale ritratta

dai grandi maestri della pittura; è lo snob che frequenta gli ambienti più eleganti e le dame più

altolocate della buona società; dall’altro, nel versante privato e in parte clandestino della sua vita,

Swann cerca la soddisfazione dei sensi con donne volgari, fisicamente molto formose, che

appartengono a classi sociali inferiori.

Con una formula un po’ paradossale, potremmo dire che Swann ama donne che non

ama:

che lo attraggono sessualmente, per le quali ha grande trasporto, ma che non lo

coinvolgono nel profondo, che non smuovono davvero nulla a livello interiore; che gli danno il

piacere dei sensi, ma visto come un triste surrogato di una felicità irraggiungibile, di un ideale che

non può essere mai posseduto. Un altro prestigioso specialista di Proust, il critico Ernst Robert Curtius,

in Marcel Proust, scrive:

E così segue quella discesa da una felicità irraggiungibile dell’amore alla ricerca senza

felicità del piacere. Cercare il piacere nella sensazione materiale e sapere che questo tradimento

dell’anima toglie al piacere il suo fiorire – questo è il lutto carnale del mondo proustiano.

La sua relazione con Odette è doppiamente paradossale, sia per l’ambiente in cui si

sviluppa, sia per le caratteristiche specifiche di questo personaggio. La storia di Swann e Odette si

svolge sotto la tutela e il controllo dei Verdurin, che sono quanto di più lontano dalle inclinazioni

sociali di Swann: essi rappresentano il démi-monde, termine che nell’Ottocento indicava quegli

ambienti equivoci che non erano né borghesia né “gran mondo”. Odette stessa non è

minimamente il suo tipo, non ha nulla che possa piacergli, nemmeno le qualità fisiche che trova

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nelle donne frequentate abitualmente. Riconosce che è bella, ma di una bellezza che non gli dice

nulla.

Ci sono due aspetti su cui vale la pena soffermarsi:

 Il ruolo del desiderio mimetico: Swann si innamora in parte per interposta persona,

perché l’amico gli parla di Odette; inoltre, anche in seguito, si capisce che il desiderio

di Swann è indotto o alimentato dal confronto o dall’aperta rivalità con altri uomini.

 La crisi del desiderio: Swann non desidera Odette, la quale, anzi, gli ispira un senso di

«repulsione».

In alcuni brani si parla dello «scarso gusto, il disgusto quasi che gli avevano ispirato, prima

che si innamorasse di lei i tratti espressivi di Odette». È solo con uno sforzo deliberato, con una

strana opera di autoconvincimento che Swann supera questo ostacolo e riesce a innamorarsi di

Odette, o meglio si convince di essere innamorato.

Un’altra peculiarità del rapporto tra Swann e le donne, è la qualità profondamente

narcisista del suo sentimento. Debenedetti sosteneva che Swann è un uomo che ha bisogno di

conferme, con il bisogno di essere continuamente rassicurato sulle sue qualità, su ciò che può

renderlo interessante o desiderabile.

Il suo sentimento è autocentrato, si alimenta in se stesso, mira essenzialmente a soddisfare la

vanità e un forte senso di autocompiacimento, spesso accentuato dal fatto di compromettersi con

donne inferiori a lui sia intellettualmente che socialmente.

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3. L’idealizzazione dell’amata

I meccanismi descritti sopra anticipano le caratteristiche essenziali dell’amore di Swann,

che è in parte il risultato di uno sforzo volontario e volontaristico, non basato su un desiderio

autentico e spontaneo. Questo desiderio ha le radici in una costruzione elaborata dall’intelligenza,

dalla memoria, e da un sistema di rappresentazioni che prescindono dalla realtà dell’essere

amato. Si rivela qui il potere formidabile dell’immagine, che costruisce una rappresentazione

illusoria plasmata sulle aspettative e sugli ideali dell’innamorato.

È significativo il fatto che in Swann l’amore cresca non quando Odette è con lui, ma

quando è assente; o dopo i loro incontri, quando egli rievoca la figura di lei nella memoria, o

prima, quando alimenta l’attesa dell’incontro con la fantasticheria.

Una spia del ruolo dell’immagine, intesa come “immaginario”, è quando usa il termine

“cristallizzazione”: «Per rinnovare un poco l’aspetto morale, troppo cristallizzato, di Odette…»; ed è

probabile che questo termine provenga da Stendhal, nella sua opera De l’amour, dove indica

appunto il processo di fissazione dell’essere amato in un’immagine. Sono numerosi i brani in cui

emerge come l’interesse che Swann prova per lei non abbia nulla a che fare la persona reale, ma

dipenda solo da questa fantasticheria, da una continua elaborazione immaginaria.

Tutto questo esprime una specie di scissione, un divario incolmabile tra il soggetto e

l’oggetto del desiderio, tra il sentimento dell’innamorato e la persona reale che dovrebbe ispirare

quel sentimento. Lo spazio è occupato interamente dal sentimento narcisistico e immaginario di

Swann, e la «persona stessa di Odette» non ha alcun ruolo effettivo. C’è un dissidio, una

coincidenza mancata tra quello che lui prova e la persona reale, tanto che deve fare uno sforzo

cosciente per riconoscerla: «È lei».

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4. Il ruolo dell’arte

La pittura

Nel caso di Swann, più esplicitamente che negli altri esempi già visti, questo processo di

idealizzazione e di trasfigurazione immaginaria della donna amata passa attraverso il filtro dell’arte,

e in particolare dell’immagine pittorica.

Il momento cruciale nell’innamoramento di Swann è quando egli si accorge che Odette

assomiglia a una figura ritratta da Botticelli:

[…] forse perché la pienezza d’impressioni che provava da qualche tempo, benché gli

fosse venuta piuttosto con l’amore della musica, gli aveva arricchito anche il gusto per la pittura,

quella volta fu più profondo (e doveva esercitare su Swann un influsso durevole) il piacere che

provò in quel momento nel constatare la rassomiglianza di Odette con la Sefora di quel Sandro di

Mariano al quale non si dà più volentieri il soprannome di Botticelli da quando, invece della vera

opera del pittore, evoca l’idea scipita e falsa che se ne è divulgata. Non stimò più il volto di

Odette in base alla migliore o peggiore qualità delle guance e alla dolcezza meramente carnale

che supponeva di dover trovare toccandole con le labbra se mai avesse osato baciarla, ma

come una matassa di linee sottili e belle che i suoi sguardi dipanarono seguendo la curva del loro

avvolgimento, congiungendo la cadenza della nuca all’effusione dei capelli e alla flessione delle

palpebre, come in un ritratto di “lei nel quale il suo tipo diventava intelligibile e chiaro.

La guardava; un frammento dell’affresco le appariva nella faccia e nel corpo, e sempre,

da allora, cercò di ritrovarlo, sia che stesse accanto a Odette, sia che soltanto la pensasse; e

benché senza dubbio al capolavoro fiorentino ci tenesse solo perché lo ritrovava in lei, tuttavia

questa rassomiglianza conferiva bellezza anche a lei, la rendeva più preziosa. Swann si rimproverò

di avere misconosciuto il pregio di un essere che al grande Sandro sarebbe parso adorabile, e si

compiacque che il piacere che provava a vedere Odette trovasse giustificazione nella propria

cultura estetica. […] La parola «opera fiorentina» rese un gran servigio a Swann. Come un titolo

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abilitante, gli permise di far penetrare l’immagine di Odette in un mondo di sogni dove finora non

aveva avuto accesso e dove s’imbevve di nobiltà.

Questa identificazione innesca un processo di astrazione e di completa idealizzazione della

donna, che diventa una figura disincarnata, ridotta alle due dimensioni di una immagine pittorica.

C’è un duplice processo di astrazione, di riduzione della persona a una immagine artificiale: non

solo Odette, come altre persone conosciute da Swann, viene assimilata a un ritratto, a una

immagine dipinta che sostituisce la sua identità, ma viene ricondotta alla logica dello stereotipo,

dunque nemmeno alla realtà effettiva dell’arte di Botticelli, ma all’idea banalizzata e superficiale

che ne è stata volgarizzata.

Da qui in poi, ogni sua percezione di Odette viene filtrata da questo modello, l’immagine di

repertorio si sovrappone alla figura reale, quasi la copre e la sostituisce proprio come un simulacro.

In uno dei vari interventi “onniscienti”, il narratore sottolinea la fondamentale malafede di

Swann, che cerca di ingannarsi, cerca di farsi piacere una donna che non gli piace,

contravvenendo tra l’altro a una regola costante della sua vita. In questo caso, ha l’impressione

illusoria di conciliare il suo desiderio fisico e il suo ideale estetico, il tutto grazie all’arte.

In modo molto evidente, il modello della pittura serve per nobilitare la figura di Odette, per

conferirle dei pregi che non ha. Troviamo in questi brani una illustrazione magistrale e specifica di

quell’atteggiamento definibile come misogino, attraverso cui la donna viene espulsa dall’orizzonte

sentimentale dell’innamorato, espropriata della sua identità, di una soggettività, di una personalità

individuale

Il discorso amoroso, nutrito di cultura artistica, la disincarna totalmente, la smaterializza, la

riconduce a un’immagine di repertorio e la trasforma in un pezzo da museo, in un capolavoro che

deve essere semplicemente adorato e contemplato (l’innamorato si pone nell’atteggiamento

distaccato dell’artista o addirittura del collezionista).

È importante notare il ruolo del linguaggio: è l’espressione «opera fiorentina» a costruire una

categoria estetica in cui trova posto l’immagine idealizzata di Odette. Questo comporta anche la

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contrapposizione di amore e desiderio: la «visione carnale» indebolisce il suo amore, mentre il

processo di estetizzazione lo conferma e lo alimenta.

Swann si comporta come un Pigmalione in formato minore, che non ha nemmeno la forza

creativa per creare la sua immagine artistica, ma utilizza le immagini create da altri e addirittura

riprodotte attraverso un mezzo meccanico come la fotografia. L’immagine dipinta da Botticelli,

trasposta tecnicamente nell’immagine fotografica, diventa un simulacro dell’Odette reale,

supplisce al desiderio che Swann non prova nei suoi confronti.

La musica

Questo processo di estetizzazione della figura femminile non utilizza solo il medium artistico

più congeniale a Swann, cioè la pittura, ma anche un’altra arte, alla quale comincia ad

appassionarsi seriamente proprio nel periodo in cui si avvicina a Odette: la musica.

In modo ancora più evidente, data la natura immateriale del mezzo attraverso cui si

esprime, la musica produce una smaterializzazione di Odette, un assorbimento della persona reale

in una dimensione interiore, ideale, quasi metafisica. In questo modo, l’esperienza estetica

prodotta dall’ascolto della musica si identifica con il sentimento provato da Swann, in un certo

senso lo sostituisce, lo trascrive in un altro codice.

Nel caso di Swann non si tratta tanto della musica in generale, ma di un’opera specifica

che ascolta per la prima volta in casa dei Verdurin: la sonata di Vinteuil (personaggio che

compare più volte nella Recherche), e in particolare una «piccola frase» musicale che ricorre

all’interno dell’opera. Questa «piccola frase» si associa indissolubilmente al suo innamoramento per

Odette, diventa «l’inno nazionale» del loro amore. Ogni volta che la sente, Swann si sente

trasportato in un’atmosfera misteriosa e quasi magica che strappa Odette alla sua contingenza,

che ancora una volta nobilita questo amore.

Troviamo anche in questo tema quella tensione metafisica che è alla base dell’estetica di

Proust: l’idea che la superficie dei fenomeni esteriori e materiali possa essere trascesa da una

capacità di penetrazione interiore che svela la realtà essenziale delle cose. L’arte – e in particolare

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la musica – è lo strumento privilegiato per giungere a questa rivelazione, per mettere in moto quei

fenomeni che Proust chiama «intermittenze del cuore» e che sono l’unico modo per accedere al

nostro passato autentico, all’essenza profonda di noi stessi.

La musica assume un ruolo quasi filosofico, in un orizzonte esplicitamente platonico. Per

l’ironico, il disilluso Swann, la musica manifesta «la presenza di una di quelle realtà invisibili alle quali

aveva smesso di credere».

In brani come questi si avverte maggiormente la voce del narratore e la sua visione delle

cose, soprattutto in rapporto alla funzione dell’arte, considerata come l’unico modo per dare

senso alla vita, per sfuggire alla condanna della morte.

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5. Desiderio e gelosia

Dagli aspetti trattati finora, emerge che Proust ha una visione estremamente scettica e

pessimista dell’amore; l’amore è una delle tante esperienze illusorie di cui è costellata la vita

umana, è un inganno, una costruzione menzognera con cui ci illudiamo di arrivare alla felicità, ma

che in realtà ci distrugge.

L’amore è una «malattia» (paragone che ricorre più volte), un «male» da estirpare, del

quale bisogna liberarsi per accedere a qualcosa di più nobile e di più puro, fondato nella propria

interiorità e nella contemplazione estetica.

Ernst Curtius afferma che in Proust, l’amore è considerato come una malattia, una

sofferenza, un’illusione a ci continuiamo a concederci per viltà anche quando l’abbiamo

riconosciuta come illusione. Quello che si può chiamare il pessimismo di Proust risulta da una

considerazione sempre rinnovata, sempre più disperata di questa profonda insufficienza

dell’amore. Sembra che abbia scritto i suoi libri semplicemente per svelare questa assoluta

insufficienza dell’amore»; L’amore è per Proust una malattia che può essere momentaneamente

anestetizzata ma non può venir guarita. Il compimento dell’amore sarebbe possibile solo nel

possesso, ma nessuna creatura umana può possederne un’altra. Questo vale già per l’unione dei

corpi: “l’atto del possesso fisico, nel quale d’altronde non si possiede nulla”. Tanto più vale per il

possesso psichico, il possesso dell’anima.

Questa visione pessimistica è legata anche alla natura del desiderio, che secondo Proust è

per definizione incolmabile, inappagabile, e produce un perenne stato di insoddisfazione. Il

desiderio «rappresenta la nostra aspirazione all’assoluto», e come tale si dà solo come mancanza,

come assenza, come tensione verso qualcosa che non potrà mai essere raggiunto.

Non è un caso che Swann si innamori di Odette nel momento in cui non la trova, in cui

avverte per la prima volta in modo lacerante la sua mancanza.

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Un tema fondamentale del romanzo è la gelosia. In un certo senso, l’amore di Swann tende

a risolversi quasi interamente nella gelosia di Swann, che è l’aspetto propriamente patologico del

suo sentimento; viene paragonata a una «piovra» che estende ovunque i suoi tentacoli.

Significativo è il fatto che Swann diventi geloso quando si accorge che non può possedere

interamente Odette, quando vede che «Odette aveva una vita che non era interamente sua».

Come ha sottolineato Debenedetti, la gelosia è un sentimento molto ambivalente. Per il

critico, l’amore e la gelosia di Swann rappresentano in modo emblematico, quasi allegorico, il

meccanismo che sta alla base di tutto il libro: la ricerca della verità, l’interrogazione delle

apparenze per decifrare il segreto che si nasconde dietro di loro. In Rileggere Proust afferma:

L’amore diventa il simbolo della “ricerca” tipica, cioè il tentativo di conoscere l’interno delle

cose, apparso dietro l’inviolabilità enigmatica e seducente, dietro il muro invalicabile del loro

apparire ed esistere per se stesse. Dalla sera in cui ha desiderato la cosa impossibile – il possesso di

un altro essere – Swann diventa geloso: l’amore di Swann si identifica, si risolve interamente nella

gelosia di Swann. E ci dà l’esemplare condensato e per eccellenza di quello che vedremo ripetersi

negli altri amori, di cui parla il libro. Ci dà, a guardare sotto il linguaggio dell’amore, il segreto che

alimenta la ricerca di Proust, […] fa nascere il libro». La Recherche «si svolge come un continuo

interrogatorio di gelosia. Proust si trova come in uno stato di dipendenza coatta di fronte alla

realtà, alla verità degli aspetti – mondo esterno, natura, sentimenti – ch’egli deve appurare ed

esprimere: dipendenza analoga a quella dell’innamorato di fronte alla persona che soggioga.

Il filosofo francese Gilles Deleuze, nella sua opera Proust e i segni, insiste sulla decifrazione

dei segni:

Innamorarsi significa individualizzare qualcuno attraverso i segni che porta o che emette.

[…] L’essere amato appare come un segno, un’“anima”: esprime un mondo possibile a noi

sconosciuto. L’amato implica, avviluppa, imprigiona un mondo che bisogna decifrare, cioè

interpretare. Si tratta anzi di una pluralità di mondi; il pluralismo dell’amore non riguarda solo la

molteplicità degli esseri amati, ma la molteplicità delle anime o dei mondi contenuti in essi. Amare

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significa cercare di spiegare, di sviluppare questi mondi sconosciuti che restano avviluppati

nell’amato. […] C’è dunque una contraddizione dell’amore. Non possiamo interpretare i segni di

un essere amato senza sfociare in questi mondi che non ci hanno aspettato per prendere forma,

che si sono formati con altre persone, e nei quali noi siamo un oggetto in mezzo agli altri. L’amante

desidera che l’amato gli dedichi le sue preferenze, i suoi gesti e le sue carezze. Ma i gesti

dell’amato, nel momento stesso in cui si rivolgono a noi e ci vengono dedicati, continuano a

esprimere questo mondo sconosciuto che ci esclude. […] La prima legge dell’amore è soggettiva:

soggettivamente, la gelosia è più profonda dell’amore, e ne contiene la verità. Il fatto è che la

gelosia si spinge più lontano nella ricerca e nell’interpretazione dei segni. È la destinazione

dell’amore, la sua finalità. In effetti, è inevitabile che i segni di un essere amato, nel momento in cui

li “spieghiamo”, si rivelino menzogneri […] L’interprete dei segni amorosi è necessariamente

l’interprete delle menzogne.

D’altra parte, questo meccanismo della gelosia – e della ricerca della verità − è molto

ambivalente. Per capirlo, basta leggere un episodio in cui Swann cerca di sorprendere Odette con

un amante: È notte; dopo essersi visti a casa di Odette, lui se ne va, torna a casa sua, ma viene

colto dal sospetto che forse lei ha un altro appuntamento; Così torna verso casa di Odette, si

apposta in strada, fuori dalla finestra, e vede la luce accesa attraverso le persiane; è convinto che

ci sia un altro uomo. In questa fase dell’episodio, sembra cercare la verità con grande

determinazione. Qui, la curiosità del geloso viene ricondotta a un bisogno più generale, a una

ricerca della verità che si può manifestare anche in altri ambiti della vita. In realtà, Swann viene

colto da qualche dubbio, ma insiste, finché non sopravviene un piccolo colpo di scena, un

episodio estremamente sintomatico, che dice molte cose sull’atteggiamento di Swann.

Dal punto di vista tecnico, siamo di fronte a quello che Freud chiamerebbe un «atto

mancato». Nonostante la determinazione che Swann mostra nelle fasi precedenti, tutto si smonta

in un attimo, e subentra un sentimento di sollievo: è felice di non aver scoperto quello che

apparentemente cercava. Dopo essersi accorto dell’equivoco è assolutamente soddisfatto, se ne

torna a casa; non va verso la vera casa di Odette per verificare ulteriormente i suoi sospetti.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust

In altri termini: Swann, che apparentemente cerca la verità, in realtà non la vuole trovare,

non vuole sapere nulla, vuole ingannarsi, perché la conquista della verità distruggerebbe l’edificio

del suo amore. Sempre Debenedetti, afferma:

Attraverso la sua occhiuta indagine, la sua instancabile esplorazione da virtuoso del

microscopio, i suoi interrogatori da aguzzino, Swann crede di andare in cerca dei fatti e delle

prove; ha quell’avidità della smentita definitiva di cui solo la disperazione è capace, quel “voler

sapere” che si annunzia alla sofferenza come un punto fermo, e viceversa non è che sete di una

maggiore concretezza nel soffrire. In realtà, il lavoro è un altro. I due opposti proverbi che “la

gelosia acceca” e che la “gelosia apre gli occhi” sono ugualmente veri.

Così, Swann procede in questa ricerca tormentosa in cui la realtà gli mette continuamente

di fronte ciò che non vorrebbe sapere. Sospetta, trova le prove dei tradimenti di Odette, ma al

contempo tenta disperatamente di proteggere e di preservare il suo amore, cercando di non

vedere.

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Emanuela Piga Bruni - Il desiderio in Un amore di Swann di Marcel Proust

Bibliografia

 Proust, Marcel, A la recherche du temps perdu (1913-‐-1927), Ed. Pierre

Clarac – André Ferré, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1954, 3

voll., trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Ed. Mariolina Bongiovanni

Bertini, Milano, Einaudi-Mondadori, 7 voll., 1970.

 Barthes, Roland, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 2007.

 Curtius, Ernst Robert, Marcel Proust, a cura di Lea Ritter Santini, Bologna, Il

mulino, 1985.

 De Benedetti, Giacomo, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Milano,

Mondadori, 1982.

 Deleuze, Gilles, Marcel Proust e i segni, Torino, Einaudi, stampa 1973.

 Girard, René, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano,

Bompiani,1965.

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Indice

1. VITA E FORMAZIONE DI VIRGINIA WOOLF ............................................................................................ 3


2. GENESI E STORIA DI MRS. DALLOWAY ................................................................................................... 5
3. I PERSONAGGI E IL “TUNNELING PROCESS” .......................................................................................... 8
4. INCIPIT DEL ROMANZO.......................................................................................................................... 10
5. TRAMA E MONTAGGIO ......................................................................................................................... 15
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 17

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1. Vita e formazione di Virginia Woolf

Virginia Woolf nasce a Londra nel 1882, in una famiglia della tarda aristocrazia vittoriana. Si

tratta di un ambiente socialmente molto elevato: il padre è Leslie Stephen, un intellettuale

affermato, critico e storiografo; la madre è Julia Duckworth (nata Jackson), e quando sposa

Stephen nel 1878 si tratta della sua seconda esperienza di matrimonio. Julia è vedova con tre figli,

e dal secondo matrimonio avrà altri quattro figli; di questi, Virginia sarà la terza. Secondo le regole

della buona società vittoriana, Virginia viene educata in gran parte in casa, soprattutto dai

genitori stessi. Fin da subito, manifesta un carattere molto nervoso, ipersensibile; in più, trascorre

un’infanzia oggettivamente difficile, segnata da esperienze traumatiche e da una catena di lutti

che la segneranno profondamente. Tra questi, ricordo la morte della madre, avvenuta nel 1895,

seguita da quella della sorella acquisita Stella. Pe tutta la vita la scrittrice, pur avendo una natura

gioiosa e ironica, e con molte amicizie importanti, soffre di crisi depressive che la porteranno al

suicidio nel 1941.

Dopo la morte del padre, l’avventura intellettuale di Virginia Woolf entra nel vivo: già negli

anni precedenti, grazie al fratello Thoby (entrato a Cambridge nel 1899), era entrata in contatto

con alcuni intellettuali di spicco della cultura inglese. Nel 1904 si trasferisce con i due fratelli – Thoby

e Adrian – e con la sorella Vanessa nel quartiere di Bloomsbury, e dà vita a una sorta di cenacolo

di artisti e di intellettuali – conosciuto come “gruppo di Bloomsbury” – che dominerà la vita

culturale londinese per quasi trent’anni; un ambiente molto brillante e stimolante. Nel 1905 deve

affrontare un nuovo lutto familiare: la perdita dell’amato fratello Thoby, che muore di tifo. Nel 1912

sposa uno dei membri del gruppo, Leonard Woolf, famoso intellettuale, scienziato politico; con lui,

tra l’altro, darà vita (1917) a una casa editrice – la “Hogarth Press” – che pubblicherà, oltre agli

stessi libri della Woolf, varie opere dei più significativi scrittori modernisti (ad. es. T.S. Eliot, E.M. Forster,

Katherine Mansfield).

In questo periodo incomincia a dedicarsi alla produzione narrativa: nel 1913 esce il suo

primo romanzo, The Voyage Out (La crociera); nel 1920 esce il secondo, Night and Day. Seguono:

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 1921: Raccolta di racconti, Monday or Tuesday;

 1922: Altro romanzo, il primo importante: Jacob’s Room, iniziato nel 1920;

 1923: Inizia a lavorare a uno dei suoi capolavori, Mrs Dalloway, che uscirà nel 1925

La produzione narrativa è accompagnata anche da una consistente produzione critica,

che rivela grande lucidità teorica e anche molta attenzione al dibattito culturale e all’attualità

letteraria:

 1913: Inizia a tenere un diario in cui annota riflessioni sulla scrittura (pubblicato parzialmente

nel 1953, con il titolo A Writer’s Diary, Diario di una scrittrice);

 1917: Inizia a collaborare con il “Times Literary Supplement”, per il quale scrive articoli e

recensioni;

 1923: Pubblica un saggio molto importante, Mr Bennett and Mrs Brown, che rappresenta

una specie di manifesto di poetica e un tentativo di distaccarsi dalla tradizione letteraria

inglese, rimarcando la profonda novità della generazione di scrittori a cui appartiene;

 1925: Esce una raccolta di saggi, The Common Reader.

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2. Genesi e storia di Mrs. Dalloway

La genesi di Mrs Dalloway avviene in un contesto biografico e culturale molto complesso:

Virginia Woolf è impegnata su vari fronti: la collaborazione con il Times Literary Supplement, e al

contempo la stesura di nuovi saggi, che saranno poi raccolti e pubblicati in un volume. Il primo

nucleo del progetto è un racconto, intitolato Mrs Dalloway in Bond Street, scritto nel 1922; l’idea si

sviluppa in un progetto più ampio, come la Woolf annota nel suo Diario

 14 ott. 1922: «La signora Dalloway si è ramificata in un libro; abbozzo qui uno studio della

pazzia e del suicidio; il mondo visto dal sano e dal pazzo, fianco a fianco… o qualche

cosa di simile» (89).

 29 ott. 1922: «Voglio elaborare La signora Dalloway. Voglio preordinare questo libro

meglio degli altri e trarne il massimo» (91).

Già in questa fase cominciano a delinearsi:

– I temi di fondo del libro: la pazzia, il suicidio, soprattutto il confronto drammatico tra la vita e

la morte, e l’immagine del mondo che ne risulta;

– E anche l’idea di una attenta progettazione e pianificazione strutturale, che deve

riguardare la trama, i temi, i rapporti tra i personaggi.

B. STESURA

Passano alcuni mesi, e nel maggio 1923 si mette a pensare seriamente al romanzo, che in

questa fase dovrebbe intitolarsi The Hours. Un aspetto che colpisce, e che certamente caratterizza

la stesura di questo libro (come di altri), è la difficoltà, quasi il senso di pericolo che la Woolf avverte

scrivendolo, come se accettasse una sfida, come se si confrontasse con qualcosa di molto

rischioso.

 Diario, 19 giugno 1923:

«Prevedo, per tornare alle Ore, che questa sarà una lotta infernale. Il disegno è così strano

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e possente. Devo continuamente forzare la materia per adattarvela. Il disegno è senza

dubbio originale e m’interessa moltissimo. Vorrei scrivere e scrivere, a gran velocità, con

accanimento. Inutile dire che non posso riuscirci. Fra tre settimane sarò del tutto inaridita»

(96).

 Diario, 29 agosto 1923:

«Interminabile lotta con Le ore, che si dimostra uno dei miei libri più stuzzicanti e insieme

più riottosi. Ha parti bellissime e parti bruttissime; m’interessa molto; non so smettere di

costruirlo, eppure… eppure. Che ha questo libro?» (98).

Così, passo dopo passo, riesce finalmente a giungere alla scena finale e quindi alla

conclusione del libro, che le provoca un enorme senso di liberazione (nel frattempo il libro ha

cambiato titolo):

 Diario, 7 settembre 1924:

Parla dell’«ultimo tratto della Signora Dalloway. Ci sono arrivata: alla festa, finalmente, che

dovrà avere inizio in cucina e lentamente risalire in tutta la casa. Dovrà essere un pezzo

estremamente complicato, brillante e solido» (106)

 Diario, 17 ottobre 1924:

Annota «un fatto strabiliante, le ultima parole dell’ultima pagina della Signora Dalloway […]

Comunque le avevo scritte otto giorni fa. “Ella era là”, e mi sentii felice di essermene liberata,

perché era stata una grande tensione nelle ultime settimane, e tuttavia più fresca

mentalmente […] Senza dubbio mi sento liberata con maggiore pienezza del solito dal libro

che volevo scrivere; se tutto questo resisterà a rileggerlo è da vedere» (108).

C. REVISIONE E PUBBLICAZIONE

Così, nei mesi successivi, Woolf si dedica a un lavoro di rilettura e di revisione, e prepara il

libro per la stampa. Il libro viene pubblicato nel maggio 1925 dall’editore Harcourt Brace, in un

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periodo in cui la Woolf comincia già a progettare un nuovo romanzo, che sarà To the Lighthouse

(1927).

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3. I personaggi e il “tunneling process”

Prima di iniziare l’analisi, vorrei mettere a fuoco alcuni problemi tecnici che la Woolf cerca

di affrontare, e sui quali riflette. Le questioni che affronta sono essenzialmente: 1) I personaggi; 2) Il

loro rapporto con il tempo.

1) Partiamo dai personaggi:

Un aspetto molto importante del libro risiede nella natura relazionale dei personaggi (in

particolare di Mrs Dalloway), che non si definiscono e prendono vita in se stessi, nella loro identità

autonoma. I personaggi si definiscono attraverso i rapporti che instaurano con gli altri, nel modo in

cui vengono visti e giudicati da questi, nel modo in cui condividono più o meno esplicitamente

una serie di pensieri o sentimenti.

Per quanto riguarda il rapporto tra i personaggi e il tempo, possiamo dire che in questo

romanzo Woolf mette a punto una delle sue grandi scoperte tecniche, cioè il tunneling process,

che consiste nello scavare delle gallerie nel tempo e nella mente dei personaggi, per mettere in

comunicazione piani temporali diversi. In altri termini, mentre il tempo cronologico (orologio)

scorre, la Woolf ci proietta nelle menti dei personaggi e ci immerge in una durata puramente

interiore, in cui eventi del passato, del presente o del futuro si mescolano continuamente tra loro,

spezzando qualunque linearità cronologica.

Diario, 30 agosto 1923:

«Avrei molto da dire a proposito delle Ore e della mia scoperta: come io scavi bellissime

caverne dietro i miei personaggi; questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità,

profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al

momento giusto».

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Diario, 15 ottobre 1923:

«Mi è toccato brancolare un anno intero per scoprire ciò che io chiamo il mio procedere

per gallerie [my tunneling process]: in questo modo racconto il passato a rate, come e quanto mi

occorre. Questa è la mia scoperta principale, finora».

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4. Incipit del romanzo

Proviamo ad affrontare la lettura del libro per avere una prima impressione. Il libro inizia così:

Mrs. Dalloway said she would buy the flowers herself.

For Lucy had her work cut out for her. The doors would be taken off their hinges;

Rumpelmayer’s men were coming. And then, thought Clarissa Dalloway, what a morning—fresh as

if issued to children on a beach.

[La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei.

Quanto a Lucy aveva già il suo daffare. Si dovevano togliere le porte dai cardini; gli uomini

di Rumpelmayer sarebbero arrivati tra poco. E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina - fresca

come se fosse stata appena creata per dei bambini su una spiaggia.]

(Trad. it. di Nadia Fusini, Einaudi)

Le prime parole del libro replicano perfettamente il titolo, Mrs Dalloway, e in questo modo

mettono subito al centro dell’attenzione il personaggio, l’identità di un soggetto che incomincia a

prendere forma. Poco dopo ci viene detto il nome.

C’è un approccio diretto, immediato al personaggio e in generale al mondo narrativo:

Il libro inizia in medias res, senza introduzioni e preparazioni; il lettore viene calato

direttamente nella situazione, in una scena che è già iniziata, di cui però non conosciamo ancora il

contesto, i precedenti. I personaggi non vengono introdotti, presentati, ma semplicemente

nominati, come se noi li conoscessimo già, come se sapessimo perfettamente non solo chi è Mrs

Dalloway, ma anche Lucy e Rumpelmayer. Occorre notare anche l’uso dell’articolo

determinativo, per es. the flowers, che di per sé viola una norma grammaticale, ma che appunto

ha lo scopo di coinvolgere direttamente il lettore nella situazione.

È importante la presenza del verbo pensò, in quanto fa subito slittare i piani della

rappresentazione: sposta l’attenzione da una scena esterna, da un’azione, da alcuni personaggi,

al mondo interiore di Clarissa, alla sua percezione, alle sue emozioni. È in qualche modo anche un

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primo segnale indirizzato al lettore, se vogliamo un’implicita indicazione di poetica sul tipo di

scrittura e sul tipo di romanzo che si trova di fronte. Infatti, tutto il capoverso successivo è

monopolizzato dall’interiorità di Clarissa:

What a lark! What a plunge! For so it had always seemed to her, when, with a little squeak

of the hinges, which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at

Bourton into the open air. How fresh, how calm, stiller than this of course, the air was in the early

morning; like the flap of a wave; the kiss of a wave; chill and sharp and yet (for a girl of eighteen as

she then was) solemn, feeling as she did, standing there at the open window, that something awful

was about to happen; looking at the flowers, at the trees with the smoke winding off them and the

rooks rising, falling; standing and looking until Peter Walsh said, “Musing among the vegetables?”—

was that it? — “I prefer men to cauliflowers” — was that it? He must have said it at breakfast one

morning when she had gone out on to the terrace — Peter Walsh. He would be back from India

one of these days, June or July, she forgot which, for his letters were awfully dull; it was his sayings

one remembered; his eyes, his pocket-knife, his smile, his grumpiness and, when millions of things

had utterly vanished — how strange it was! — a few sayings like this about cabbages.

[Che gioia! Che terrore! Sempre aveva avuto questa impressione, quando con un leggero

cigolio dei cardini, lo stesso che sentì proprio ora, a Bourton spalancava le persiane e si tuffava

nell'aria aperta. Com'era fresca, calma, più ferma di qui, naturalmente, l'aria la mattina presto,

pareva il tocco di un'onda, il bacio di un'onda; fredda e pungente, e (per una diciottenne

com'era lei allora) solenne, perché in piedi di fronte alla finestra aperta, lei aveva allora la

sensazione che sarebbe successo qualcosa di tremendo, mentre continuava a fissare i fiori, e gli

alberi che emergevano dalla nebbia che a cerchi si sollevava fra le cornacchie in volo. E stava lì e

guardava, quando Peter Walsh disse: "In meditazione tra le verze?" Disse così? O disse: "Io

preferisco gli uomini ai cavoli"? Doveva averlo detto a colazione una mattina che lei era uscita sul

terrazzo - Peter Walsh. Stava per tornare dall'India, sì, uno di questi giorni, in giugno o a luglio forse,

non ricordava bene, perché le sue lettere erano così noiose; ma certe sue espressioni rimanevano

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impresse, gli occhi, il temperino, il sorriso, quel suo modo di fare scontroso, e tra milioni di cose

ormai del tutto svanite - com'era strano! - alcune espressioni, come questa dei cavoli.]

Questo è un’illustrazione perfetta di quello che la stessa Woolf chiamava tunneling process,

cioè procedere per gallerie, scavare delle gallerie dentro i personaggi e la loro percezione del

tempo e della vita. Siamo completamente immersi nella soggettività e nel mondo interiore di

Clarissa, in tutta la sua complessità – fatta di percezioni presenti, di ricordi, di giudizi, di sentimenti

per altre persone. È importante notare l’intreccio di piani temporali, tra presente e passato,

evidenziati dall’uso degli avverbi di tempo: ora, allora, uno di questi giorni ecc. A livello tematico,

osserviamo subito la rilevanza della memoria. A tale proposito, notare la transizione tra un ricordo

generico, una sensazione complessiva legata a un’esperienza precedente, e il ricordo di una

scena precisa, il dialogo con Peter Walsh (un personaggio che ancora non conosciamo, ma che

avrà un ruolo importante nel romanzo). Nel capoverso successivo c’è un cambiamento

importante:

She stiffened a little on the kerb, waiting for Durtnall’s van to pass. A charming woman,

Scrope Purvis thought her (knowing her as one does know people who live next door to one in

Westminster); a touch of the bird about her, of the jay, blue-green, light, vivacious, though she was

over fifty, and grown very white since her illness. There she perched, never seeing him, waiting to

cross, very upright.

[Si irrigidì appena sul marciapiede, aspettando che passasse il furgone di Durtnall. Una

donna affascinante, pensò di lei Scrope Purvis (che la conosceva come ci si conosce tra vicini a

Westminster); somigliava a un uccello, a una gazza verde-azzurra, esile, vivace, malgrado avesse

più di cinquant'anni, e le fossero venuti tanti capelli bianchi dopo la malattia. Se ne stava posata lì,

senza neppure vederlo, in attesa di attraversare la strada, ben diritta].

Anche questo brano illustra in modo esemplare il modo di procedere della Woolf: c’è una

brusca transizione dall’interno all’esterno del personaggio, che ora viene visto da fuori, viene

descritto nelle sue azioni e nel suo aspetto fisico; inoltre, si tratta di uno sguardo esterno che prima

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è sostanzialmente oggettivo, impersonale, e che poi – ruotando sempre sul verbo pensò – diventa

soggettivo, si incarna in un altro personaggio che osserva Clarissa, registra i dettagli del suo aspetto

(notare il paragone zoomorfo), ci dà qualche informazione su di lei (l’età, e l’accenno a una

malattia). Il testo va ancora a capo, e nel capoverso successivo c’è un nuovo spostamento nella

soggettività della protagonista. Vediamo che molte cose si mescolano in modo apparentemente

confuso nella percezione e nel pensiero di Clarissa, non attraverso una logica razionale, ma

attraverso l’associazione di idee), e definiscono le coordinate fondamentali del romanzo. Tra

queste:

 La percezione del tempo (tema centrale del libro e di tutta la sua opera): il tempo vissuto

che lei ha trascorso in quella zona di Londra; e il tempo cronologico, cronometrico,

segnato e quasi materializzato («cerchi di piombo») dai rintocchi del Big Ben, che scandisce

il ritmo di tutto il libro, battendo le ore dalla mattina (qui sono le 10.00) fino alla sera (cfr.

primo titolo, The Hours);

 Lo spazio, la percezione di Londra, dello spazio urbano di una metropoli di inizio Novecento

con tutto il suo dinamismo, i suoni, la confusione;

E al centro di tutto questo – il passare del tempo, la gente nelle strade – c’è la percezione

della vita, il tema centrale del libro e di tutta l’opera di Woolf. In tutto questo, emerge

l’atteggiamento del personaggio verso la vita, un atteggiamento positivo, di amore per la vita

(connotazioni del nome: clarus), che però nasconde anche un connotato di classe (vedi) e forse

una certa ingenuità, una forma di volontarismo, che diventa oggetto di un’ironia implicita. Tanto è

vero che il brano successivo introduce degli argomenti tragici, tutt’altro che lieti (la guerra, la

morte), con i quali Clarissa dovrà confrontarsi suo malgrado. I pensieri nefasti vengono allontanati,

vengono volontariamente cancellati da questa adesione entusiastica alla vita, che però ha

qualcosa di frivolo, di superficiale. Di nuovo, è connotata molto esplicitamente in termini di classe

sociale, e esprime una caratteristica di fondo della personalità di Clarissa (e in parte anche di

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Virginia Woolf) che è lo snobismo; Il tutto si riassume e converge in quello che sarà l’evento

culminante e conclusivo di questa giornata, cioè la festa che Clarissa ha organizzato in casa sua

(per questo è uscita a comprare i fiori); una festa che però sarà un po’ diversa da come lei la

immagina in queste sequenze iniziali.

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5. Trama e montaggio

Il libro non è diviso in capitoli, ma è formato da sequenze narrative separate da brevi spazi

bianchi. Dunque non c’è un’articolazione evidente, una scansione ben strutturata del materiale,

ma un unico sviluppo narrativo suddiviso in vari episodi. Come in quasi tutti i romanzi di Woolf (e di

molti autori modernisti), la prima impressione è che sia un libro sostanzialmente senza trama, in cui

“non succede nulla”, con un ritmo lento, in cui il lettore non viene trascinato dagli avvenimenti,

non viene coinvolto dal procedere incalzante e drammatico dell’intreccio.

Il romanzo racconta una normalissima giornata di giugno nella Londra degli anni Venti, dal

mattino alle 10 (quando esce per comprare i fiori), fino alla notte (festa). Si tratta di una giornata

descritta in tutta la sua quotidianità e anche banalità, in una miriade di avvenimenti

apparentemente insignificanti. In questo, va tenuto presente l’influsso o comunque il rapporto

(anche polemico) con il modello di Joyce, che – esteriormente – aveva costruito Ulisse in base allo

stesso principio: il racconto di una giornata qualunque nella Dublino del primo Novecento (16

giugno 1904, Bloomsday).

È importante ricordare come per questi scrittori cambi il baricentro dell’interesse narrativo,

che non risiede più nella trama in senso classico e nella concatenazione funzionale degli

avvenimenti. Non abbiamo più a che fare con la descrizione verosimile e oggettiva di un certo

ambiente sociale, ma con la soggettività dell’esperienza, le mille sfumature e i movimenti

impercettibili della vita interiore. Al centro della prosa sono avvenimenti banali, quotidiani,

apparentemente insignificanti, accompagnati però da una straordinaria ricchezza e vitalità dei

pensieri, delle emozioni e dei sentimenti dei personaggi. Tutto questo non vuol dire che il romanzo

della Woolf sia un romanzo sconclusionato, in cui davvero non succede nulla. Al contrario,

succedono anche cose gravi, drammatiche, in primo luogo il suicidio di uno dei protagonisti,

Septimus. E in realtà, nonostante l’apparente inconsistenza e disarticolazione della trama, che

sembra guidata dal caso, da incontri fortuiti, dai movimenti capricciosi della mente dei

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personaggi, il libro è governato da un progetto molto preciso, da un disegno architettonico

studiato in tutti i particolari.

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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Virginia Woolf e Mrs. Dalloway

Bibliografia

 Erich Auerbach, Il calzerotto marrone, in Mimesis: Il realismo nella letteratura

occidentale, Einaudi, volume II, pp. 305-338

 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti.

 Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella

scrittura, Milano Il Saggiatore, 2011.

 Liliana Rampello, Virginia Woolf e i suoi contemporanei, Milano Il Saggiatore,

2017.

 Virginia Woolf, Mrs. Dalloway (1925), trad. it. di A. Scalero, La signora

Dalloway, in Opere, Milano, Mondadori.

 Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello,

Milano Il Saggiatore, 2017.

i Questa lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità agli studenti/esse dell’Universitas Mercatorum di accedere a questo
materiale.

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Indice

1. I LIVELLI TEMPORALI ................................................................................................................................. 3


2. IL PERSONAGGIO: CLARISSA DALLOWAY ........................................................................................... 10
3. SUL PERSONAGGIO: LA SIGNORA BROWN ......................................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 16

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1. I livelli temporali

Questa lezione è dedicata a una delle opere maggiori di Virginia Woolf, Mrs. Dalloway.

L’attenzione è dedicata a due aspetti molto importanti, che mostrano la stretta interconnessione

tra tecnica narrativa e poetica: il tempo e il trattamento dei personaggi.

Nell’accurata progettazione del romanzo, il tempo svolge un ruolo fondamentale, e in

generale, costituisce uno degli aspetti centrali di tutta l’opera di Woolf. Possiamo individuare

diverse articolazioni del tempo narrativo che si intrecciano e si sovrappongono nel romanzo. Ma

partiamo subito dal testo:

For having lived in Westminster—how many years now? over twenty, -- one feels even in the

midst of the traffic, or waking at night, Clarissa was positive, a particular hush, or solemnity; an

indescribable pause; a suspense (but that might be her heart, affected, they said, by influenza)

before Big Ben strikes. There! Out it boomed.

First a warning, musical; then the hour, irrevocable. The leaden circles dissolved in the air.

Such fools we are, she thought, crossing Victoria Street.

For Heaven only knows why one loves it so, how one sees it so, making it up, building it round

one, tumbling it, creating it every moment afresh; but the veriest frumps, the most dejected of

miseries sitting on doorsteps ( drink their downfall ) do the same; can’t be dealt with , she felt

positive, by Acts of Parliament for that very reason: they love life. In people’s eyes, in the swing,

tramp, and trudge; in the bellow and the uproar; the carriages, motor cars, omnibuses, vans ,

sandwich men shuffling and swinging ; brass bands; barrell organs; in the triumph and the jingle and

the strange high singing of some aeroplane overhead was what she loved; life; London; this

moment of June…

For it was the middle of June.

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[Poiché il semplice fatto di vivere a Westminster - da quanti anni ormai? più di venti -

impone indiscutibilmente (Clarissa lo affermava) sia pur nel bel mezzo del viavai d’una piazza, o

destandosi all’improvviso la notte, una particolare calma, anzi solennità; una pausa che non si

saprebbe descrivere; un sostar della vita (ma questo poteva ben essere il cuore, indebolito

dall’influenza) nell’attimo prima che Big Ben suoni le ore. Ecco il rintocco! Prima è un monito,

musicale, poi l’ora, irrevocabile. I plumbei circoli si dissolvevano per l’aria. Poveri di spirito che

siamo, pensava Clarissa, attraversando Victoria Street. Dio solo sa perché l’amiamo così, la

vediamo così, perché ce la facciamo così, costruendola attorno al nostro io per poi scomporla, e

ricrearla da capo a ogni momento; eppure l’ultima delle pitocche, i più sciagurati rifiuti umani

seduti sui gradini delle porte (istupiditi dal bere) non farebbero altrimenti; e per quella precisa

ragione non c’è legge né decreto che possa domarli: perché amano la vita. Negli occhi dei

passanti, nella foga del brulichio cittadino, nel muggito e nel frastuono, nel trepestio e

nell’ondeggiar di carrozze, automobili, omnibus, furgoni, uomini-sandwich; nelle bande e negli

organetti, nella nota trionfante e nello strano altissimo canto di un aereo che ronzava su in cielo

era ciò che ella amava: la vita, Londra, e quell’attimo di giugno. Poiché si era a metà di giugno.]

Il tempo della storia

La manifestazione del tempo più esplicita, più facile da cogliere riguarda il tempo

cronologico, ovvero il tempo dell’orologio che scorre tra le 10 della mattina e la tarda serata o la

notte di questa giornata di giugno. Si tratta di un tempo percettibile a livello sensoriale, quasi

materializzato dai rintocchi del Big Ben (o di altri orologi pubblici) che battono le ore, che

scandiscono il passare del tempo e il procedere della vicenda. Potete rintracciare questo motivo

nella prima scena del testo (citata sopra): il Big Ben che batte «l’ora, irrevocabile» (si capisce che

sono le 10 di mattina). Poco più avanti leggiamo: «le campane batterono undici rintocchi». Poi, in

un episodio successivo, si sente il «Big Ben che batte la mezz’ora» [11.30], e un altro orologio gli fa

subito eco.

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[Prendiamo, per esempio, Peter Walsh. Un uomo simpatico, intelligente, ricco d’idee. Non

c’era che Peter, si volesse sapere qualcosa su Pope, diciamo, o Addison, o discorrere

semplicemente del più e del meno, a chi somiglia il tale o il tal altro, e il significato di certe cose.

Peter l’aveva sempre aiutata; Peter le aveva prestato dei libri. Eppure, guardate le donne che

amava volgari, triviali, banali. Peter innamorato - era venuto a trovarla dopo tanti anni, e di che

cosa aveva parlato? Di se stesso. "Orribile passione!" pensò Clarissa. "Passione degradante!" E il suo

pensiero seguiva la sua Elizabeth e la Kilman, che andavano ai Magazzini dell’Unione Militare.

Big Ben batté la mezz’ora.

Era straordinario, strano, anzi commovente, vedere la vecchia signora (da tanti anni erano

vicini di casa) allontanarsi dalla finestra come se fosse attaccata a quel suono, a quella corda

musicale. Per quanto gigantesco fosse quel suono, aveva una certa analogia con lei. Penetrava

giù, giù dentro la vita quotidiana, e il momento diventava solenne. I rintocchi, immaginò Clarissa,

incalzavano la vecchia signora a muoversi, ad andare - ma dove?]

Questi sono vari esempi di brani in cui emerge il tempo nella sua dimensione strettamente

cronologica.

Il tempo del racconto

Il tempo segnato dagli orologi (e dai calendari) è quello che, in termini tecnici, si chiama

tempo della storia, cioè la cronologia degli avvenimenti, il tempo della vicenda nella sua

successione “naturale”. Ma, di fatto, quasi nessun testo narrativo segue rigorosamente il tempo

della storia: Intanto perché non può materialmente raccontare tutto, anche quando l’arco

cronologico preso in considerazione è abbastanza breve come in questo caso; poi perché

l’economia narrativa richiede necessariamente degli spostamenti temporali, avanti o indietro

rispetto alla linea del tempo naturale, cronologico (ad es., per fornire al lettore informazioni sui

personaggi, sulla loro vita precedente). Inoltre, va detto che nessun testo narrativo può fare a

meno di certi effetti di ritmo, che accelerano o rallentano la narrazione. Dunque, oltre al tempo

della storia esiste un tempo del racconto. Si tratta del tempo dell’organizzazione narrativa, del

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modo in cui gli avvenimenti vengono raccontati nel testo. È un modo che non necessariamente

(anzi quasi mai) coincide con la sequenza “naturale” in cui si sono svolti i fatti; per questo il tempo

del racconto fa uso di vari artifici costruttivi (inversioni e spostamenti dell’ordine degli eventi,

cambiamenti di ritmo ecc.).

Nel romanzo, troviamo per esempio dei vuoti, dei salti temporali, quelle che tecnicamente

si chiamano ellissi, cioè segmenti temporali che non vengono raccontati. Per esempio, dopo la

prima sequenza del testo, che descrive la passeggiata di Mrs Dalloway fino al negozio del fioraio,

l’attenzione si sposta sull’altro personaggio principale, Septimus Warren Smith. La scena lo descrive

camminare per la strada con sua moglie, e poi andare in un parco. Alla fine di questa sequenza,

dopo uno spazio bianco, ritroviamo Clarissa (che avevamo lasciato dal fioraio) mentre rientra in

casa. Tutto il tragitto della protagonista verso casa viene tralasciato, c’è un vuoto, un’ellissi che

contiene un pezzo di storia che non viene raccontato, è omesso, ma al contempo, è desunto dal

lettore.

Un altro tipico artificio temporale è la cosiddetta analessi (flashback), cioè un salto indietro

nel tempo, lo spostamento a un punto precedente della storia, che può essere ovviamente

anteriore al momento in cui è iniziata. Per esempio, a un certo punto Woolf ha bisogno di fornire al

lettore alcune informazioni sul passato di Septimus. Ci vengono date informazioni sulla sua

giovinezza, il lavoro, le vicende sentimentali, e soprattutto sulla guerra, alla quale partecipa come

volontario rimanendo profondamente traumatizzato (soprattutto per la morte di un amico, Evans).

Sono informazioni dalla natura frammentaria ma indispensabili per mettere a fuoco il personaggio

e capire la sua situazione presente, il suo squilibrio mentale, le sue fobie, le sue allucinazioni, i suoi

atteggiamenti paranoici. Nel farlo, Woolf interrompe la narrazione degli avvenimenti presenti per

rievocare le esperienze passate del personaggio.

Il tempo interiore (tunneling process)

L’episodio citato è condotto in modo abbastanza tradizionale, e tutto sommato inconsueto

per lo stile narrativo della Woolf, almeno per lo stile che comincia a sviluppare e a mettere a punto

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proprio in Mrs Dalloway. Questo brano è caratterizzato da una tecnica classica, una prospettiva

esterna e abbastanza oggettiva, cioè quella del narratore onnisciente che conosce il passato dei

suoi personaggi e lo racconta al lettore per dargli una serie di informazioni. In realtà, nella maggior

parte dei casi Woolf rievoca il passato dei personaggi attraverso i personaggi stessi, attraverso la

soggettività della loro coscienza, attraverso i ricordi che si sviluppano nella loro mente. Questo ci

riporta ovviamente al ruolo della memoria e al tunneling process, al «procedere per gallerie» nelle

menti dei personaggi, mettendo in comunicazione diversi piani temporali, in un continuo intreccio

di presente, passato e futuro. Ci riporta anche a una terza e importantissima declinazione del

tempo nel romanzo: il tempo interiore, il tempo della vita psichica, che ha un ritmo, una durata e

un’organizzazione molto diverse da quella del tempo esterno, cronologico.

Non è un tempo lineare ma un “tempo misto”, per il quale i tempi della grammatica sono

inadeguati (come ha notato un’importante studiosa di Woolf, nonché sua traduttrice, Nadia

Fusini). Per esempio, alcune esperienze molto importanti del passato di Clarissa vengono

raccontate attraverso i suoi pensieri e ricordi. Un esempio è la scena in cui si sta pettinando in

camera sua, e alla mente affiorano i ricordi della sua amicizia (molto vicina all’amore) con Sally

Seton.

Lying awake, the floor creaked; the lit house was suddenly darkened, and if she raised her

head she could just hear the click of the handle released as gently as possible by Richard, who

slipped upstairs in his socks and then, as often as not, dropped his hot-water bottle and swore! How

she laughed!!

But this question of love (she thought, putting her coat away), this falling in love with

women. Take Sally Seton; her relation in the old days with Sally Seton. Had not that, after all, been

love??

[Mentre era là, insonne, il pavimento scricchiolava, la casa illuminata subitamente si

oscurava, e alzando il capo ella “udiva il clic della maniglia abbassata il più dolcemente possibile

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da Richard, il quale saliva in punta di piedi, senza scarpe, e il più delle volte lasciava cadere la

boccia dell’acqua calda e bestemmiava! Ah, come rideva lei! Questa faccenda dell’amore (ella

vi pensava, riponendo la giacca), dell’amore tra donne… Prendiamo Sally Seton; i suoi rapporti

con lei, in altri tempi. Non era stato amore, dopo tutto? Ella sedeva in terra - era stata quella la sua

prima impressione di Sally - sedeva in terra, le braccia attorno alle ginocchia, e fumava una

sigaretta. “She sat on the floor—that was her first impression of Sally—she sat on the floor with her

arms round her knees, smoking a cigarette].

Il tempo distruttore

Virginia Woolf gioca con il tempo in modo estremamente sofisticato: il presente di questa

giornata raccontata dall’inizio alla fine, e scandita dal battere delle ore, si intreccia con altre

dimensioni temporali, nelle quali i personaggi e le loro vite attuali acquistano profondità.

Acquistano inoltre uno spessore temporale che è quello del loro passato, della loro storia

individuale, magari lontanissima da ciò che sono poi diventati ma che rimane viva in loro, è

qualcosa di prezioso e di indelebile, rievocato attraverso la memoria. Questa dimensione

temporale è anche quella della Storia, dell’esperienza collettiva, perché in varie occasioni la Woolf

allude al momento storico in cui siamo e alla guerra e alle ferite che ha lasciato, e in particolare

nell’animo di Septimus.

Tutto questo è legato a una quarta e ultima declinazione del tempo che possiamo

individuare: il tempo come agente distruttore, il tempo come grande forza storica e naturale (quasi

cosmica) che annienta la vita degli uomini, rivela la loro precarietà, e in qualche modo coincide

con la morte. Anche il rintocco degli orologi pubblici allude a questo processo distruttivo, che

sgretola lentamente e inesorabilmente la vita umana, oppure, il passaggio del tempo può essere

letto sul volto di una persona. Ad esempio, questo aspetto affiora anche nelle prime pagine,

quando la gente vede passare per le vie di Londra una macchina in cui viaggia qualche

personaggio molto importante, forse addirittura la Regina. Questo è il senso di profonda

malinconia che pervade molte pagine della scrittrice, e che ha suffragato molte letture in chiave

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negativa, pessimistica, con tutta una serie di riferimenti più o meno pertinenti alla sua stessa

esperienza biografica  alle continue crisi nervose, agli squilibri mentali, e infine al suicidio. Resta

sempre la coscienza della fragilità della vita umana, e la sua impermanenza, come lo si può

evincere dalla frase: «Anche l’amore distruggeva ogni cosa. Tutto ciò che era bello, tutto ciò che

era vero moriva». Tuttavia, è fondamentale ricordare sempre che si tratta di una faccia della

medaglia: il fascino profondo della scrittura della Woolf sta in una continua tensione tra la vita e la

morte. La sua ricerca artistica è un’avventura molto rischiosa tra le cose ultime, le cose

fondamentali dell’esistenza umana. Da un lato, è presente una percezione molto acuta del dolore,

della morte, dell’inevitabile distruzione a cui andrà incontro non solo il singolo individuo ma

l’umanità nel suo complesso – cosa che alimenta il pensiero di quella che Leopardi chiamava

«l’infinita vanità del tutto» (cfr. To the Lighthouse: «perfino il ciottolo contro cui sbatte lo stivale

sopravvivrà a Shakespeare»). Dall’altro, emerge con forza l’amore indistruttibile nei confronti della

vita, un atteggiamento positivo verso il mondo e le persone, che si manifesta soprattutto nelle

piccole cose, in momenti di consapevolezza e di felicità assolutamente inaspettati, e in gran parte

inspiegabili (cfr. Liliana Rampello, Il canto del mondo reale). È importante ricordare che questi due

aspetti si intrecciano, e sono assolutamente complementari.

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2. Il personaggio: Clarissa Dalloway

Muovo da questo romanzo, e anche dalla riflessione teorica di Virginia Woolf, per dire

qualcosa di più preciso sul personaggio nel quadro del romanzo modernista.

Abbiamo visto che i personaggi non vengono presentati in modo tradizionale, ma vengono

messi in scena come se noi li conoscessimo già. Infatti, non ci viene fornito un ritratto completo, un

profilo sociologico, una caratterizzazione psicologica o morale che preceda la loro entrata in

scena. Quasi tutte le informazioni su di loro vengono disseminate nel testo, e nella maggior parte

dei casi vengono fornite in modo implicito, o indiretto, spesso attraverso i pensieri e i giudizi dei

personaggi stessi. Per esempio, l’aspetto fisico di Clarissa non viene descritto esplicitamente, non

viene mai tracciato un ritratto nel senso classico, ma ci sono solo alcune pennellate disseminate

nel testo, alcune notazioni descrittive che spesso passano attraverso gli occhi o i pensieri di altri

personaggi:

Mentre cammina nelle strade, viene osservata da una vicina:

A charming woman, Scrope Purvis thought her (knowing her as one does know people who

live next door to one in Westminster); a touch of the bird about her, of the jay, blue-green, light,

vivacious, though she was over fifty, and grown very white since her illness.

[Una donna graziosa, la giudicò Scrope Purvis (egli la conosceva come ci si conosce tra

vicini di casa a Westminster); aveva in sé qualcosa di un uccellino, della gazza, un che di

verdazzurro, lieve, vivace, quantunque avesse varcato la cinquantina e fatto molti capelli bianchi

dopo la sua malattia].

Poco dopo, è lei stessa che riflette sul suo corpo, del quale non è molto soddisfatta:

Instead of which she had a narrow pea-stick figure; a ridiculous little face, beaked like a

bird’s. That she held herself well was true; and had nice hands and feet; and dressed well,

considering that she spent little. But often now this body she wore (she stopped to look at a Dutch

picture), this body, with all its capacities, seemed nothing—nothing at all. She had the oddest

sense of being herself invisible; unseen; unknown; there being no more marrying, no more having of

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children now, but only this astonishing and rather solemn progress with the rest of them, up Bond

Street, this being Mrs. Dalloway; not even Clarissa anymore; this being Mrs. Richard Dalloway.

[E invece aveva una figurina magra come una pertica da fagioli, e una ridicola faccetta

con un nasino a becco d’uccello. Però si manteneva bene, bisognava riconoscerlo; e mani e piedi

li aveva belli; e si vestiva discretamente, considerando che spendeva poco. Ma spesso le pareva

che quel corpo ch’ella abitava (si fermò a guardare un quadro di scuola olandese), quel corpo

con tutte le sue qualità, fosse ben poca cosa, per non dir nulla affatto. La coglieva un

singolarissimo senso d’essere invisibile di passare inosservata, sconosciuta; non era più una donna

sposata, ora, non aveva più figli, non restava che una, la quale seguiva con tutti gli altri la

stupefacente e alquanto solenne processione su per Bond Street. Essere la signora Dalloway;

neppur più Clarissa; solo la moglie del signor Richard Dalloway.]

In un altro brano, ci è dato accesso a come si percepisce, in maniera più complessiva:

She felt very young; at the same time unspeakably aged. She sliced like a knife through

everything; at the same time was outside, looking on. She had a perpetual sense, as she watched

the taxi cabs, of being out , out , far out to sea and alone; she always had the feeling that it was

very , very dangerous to live even one day. Not that she thought herself clever, or much out of the

ordinary. How she had got through life on the few twigs of knowledge Fraulein Daniels gave them

she could not think. [...] Her only gift was knowing people almost by instinct, she thought, walking

on. If you put her in a room with some one, up went her back like a cat’s; or she purred.

[Si sentiva assai giovane; e al tempo stesso, indicibilmente attempata. Penetrava attraverso

la vita come una lama di coltello; e al tempo stesso restava al di fuori, spettatrice. Guardando il

viavai dei tassì, aveva un perpetuo senso d’esser lontana, lontanissima sul mare, e sola; sempre

aveva la sensazione che la vita, anche d’un sol giorno, fosse molto, oh molto pericolosa. Non

ch’ella si credesse molto intelligente, o nemmeno una persona fuor dell’ordinario. Come avesse

potuto cavarsela nella vita, con le scarse briciole di scienza che aveva dato loro Fraulein Daniels,

non lo capiva davvero. […] Un unico dono aveva, quello di conoscere le persone quasi per istinto,

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ella pensava, riprendendo il cammino. Se si trovava a tu per tu con qualcuno, ecco che subito

inarcava il dorso o faceva le fusa come una gattina].

Più avanti, è uno dei personaggi principali – Peter Walsh – che pensa al suo aspetto:

There was always something cold in Clarissa, he thought. She had always, even as a girl, a

sort of timidity, which in middle age becomes conventionality, and then it’s all up, it’s all up, he

thought, looking rather drearily into the glassy depths, and wondering whether by calling at that

“hour he had annoyed her; overcome with shame suddenly at having been a fool; wept; been

emotional; told her everything, as usual, as usual.

[“C’è sempre stato in Clarissa qualcosa di freddo” egli pensava. "Ha sempre avuto, anche

da ragazza, una certa timidezza, che con la maturità diventa poi banalità, e poi è finita, è finita…"

E alquanto cupo egli fissava lo sguardo entro le vitree profondità, e si domandava se con la sua

visita a quell’ora non avesse disturbato Clarissa. E “improvvisamente si vergognò per essersi

mostrato così sciocco; per aver pianto, per aver fatto il sentimentale, dicendole tutto come al

solito, già, come al solito].

In generale, la caratterizzazione di Clarissa è affidata:

 a lei stessa, ai suoi pensieri, ai ricordi del passato ecc.

 (soprattutto) a Peter Walsh, che è stato sul punto di sposarla (ma lei ha rifiutato) e che

ora, tornato a Londra dopo molti anni passati in India, pensa continuamente a lei.

Ci sono in particolare due sequenze, incentrate su Peter, in cui veniamo a sapere molte

cose su di lei, attraverso i pensieri dell’amico. Per esempio che:

 È stata malata, ha avuto una malattia cardiaca

 Ha perso una sorella, Sylvia, uccisa dalla caduta di un albero;

 È fondamentalmente una snob – Peter la definisce «una donna di società», che tiene

molto al rango sociale, alle frequentazioni altolocate, al successo mondano ecc.;

 È atea, si è costruita «una sorta di religiosità atea che consisteva nel fare il bene per

amore del bene».

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3. Sul personaggio: la signora Brown

Questo modo di procedere non è ovviamente casuale ma rientra in un progetto preciso, in

una poetica che la Woolf ha cercato di definire anche a livello teorico, soprattutto nei suoi saggi.

C’è un saggio in particolare, molto importante e incentrato proprio sul personaggio: Mr Bennett

and Mrs Brown. Si tratta di un saggio che, tra parentesi, ha una vicenda editoriale abbastanza

complicata. La prima versione, intitolata Mr Bennett and Mrs Brown, viene pubblicata nel

novembre del 1923 sul «New York Evening Post», per essere successivamente poi ripresa in altre

riviste. Il saggio viene poi rielaborato in uno scritto successivo, Character in Fiction, pubblicato nel

luglio 1924 su «Criterion», diretta da T.S. Eliot. E quindi, sempre nel 1924, questo testo viene

ripubblicato dalla Hogarth Press in forma di libretto autonomo, con il titolo originario Mr Bennett

and Mrs Brown.

Il saggio sviluppa una tesi radicale, molto militante, fondata sulla contrapposizione netta tra

due generazioni di scrittori, su una «frattura» generazionale che ha segnato la letteratura inglese

intorno al 1910:

 Da una parte: gli edoardiani, rappresentati soprattutto da scrittori Bennett,

Galsworthy, Wells;

 Dall’altra: i georgiani, come Joyce, Eliot, Forster, Lawrence e ovviamente lei

stessa.

E il principale argomento di dissenso riguarda proprio il personaggio, che la Woolf considera

senza dubbio l’elemento più importante di un testo narrativo. Il saggio inizia dicendo che la sua

stessa vocazione narrativa, il fatto di avere dedicato la vita alla scrittura, nasce dalla visione di un

personaggio:

«Una piccola figura è sorta davanti a me – la figura di un uomo, o di una donna, che ha

detto: “Mi chiamo Brown. Prendimi, se ci riesci”. Molti romanzieri vivono la stessa esperienza. Un

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signor Brown, Smith o Jones gli va incontro e dice, nel modo più seducente e affascinante del

mondo: “Vieni e prendimi, se ci riesci”. Così […] annaspano un volume dopo l’altro, passando i

migliori anni della loro vita nell’inseguimento, e il più delle volte ricevendo ben poco denaro in

cambio. Pochi prendono il fantasma; i più si devono accontentare di un brandello del suo vestito,

o di una ciocca dei suoi capelli».

Più avanti aggiunge:

«Credo che tutti i romanzi […] abbiano a che fare con il personaggio, ed è per esprimere il

personaggio – non per predicare dottrine, cantare canzoni o celebrare le glorie dell’Impero

britannico – che la forma del romanzo, così goffa, verbosa e non drammatica, così ricca, elastica

e viva, è stata sviluppata. Per esprimere il personaggio, ho detto; ma vi renderete subito conto che

di queste parole può essere data la più ampia interpretazione».

In altri termini, dice la Woolf: esistono moltissimi modi per costruire un personaggio; esistono

tecniche, strumenti, convenzioni a cui gli autori delle varie epoche si sono rifatti. E il punto è proprio

questo: Le convenzioni utilizzate dai romanzieri precedenti non funzionano più, perché, come

spiega, «human character changed»: andare a scuola da loro per imparare a costruire un

personaggio è come chiedere a un calzolaio di insegnarti a costruire un orologio.

Si assiste chiaramente alla formulazione di un dissenso radicale sugli obiettivi e sui metodi

della narrativa. Tanto che un romanziere della vecchia scuola  come Arnold Bennett  accusa i

giovani scrittori di non saper costruire personaggi veri, reali, convincenti, mentre, agli occhi di

Woolf, sono i personaggi di Bennett e di quelli come lui ad apparire vuoti, incompleti, dei pupazzi

senza vita. È il problema della relatività dei giudizi, e della stessa nozione di “realtà”; continua la

scrittrice:

«Secondo [Bennett], solo se i personaggi sono reali il romanzo ha qualche possibilità di

sopravvivere. Altrimenti è destinato a morire. E tuttavia mi chiedo: che cos’è la realtà? E chi sono i

giudici della realtà? Un personaggio può apparire reale al signor Bennett e del tutto irreale a me».

Per illustrare la sua tesi, Woolf racconta un aneddoto personale, rievocando un viaggio in

treno in cui si trovò per caso nello scompartimento con due sconosciuti, che chiama Mr. Smith e

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Mrs Brown. Osservandoli, ascoltando frammenti di conversazioni, intuisce che qualche dramma

segreto sta turbando la vita della donna, e prova una grande compassione per lei, un forte senso

di immedesimazione. In sostanza, vede in lei il personaggio di un possibile romanzo, ma un

personaggio che andava compreso, in qualche modo aggredito, svelato nelle sue emozioni e nei

suoi pensieri segreti. Viceversa, ragiona la Woolf, un romanziere come Bennett si metterebbe a

descrivere lo scompartimento del treno, il paesaggio che si vede dal finestrino, il tipo di guanti

indossati dalla signora Brown, il prezzo del suo vestito ecc., con il risultato di farsi sfuggire la cosa più

importante: la signora Brown stessa, la sua essenza, la sua vita:

«Il signor Bennett non ha guardato una sola volta la signora Brown nel suo angolo. Sta lì

seduta nell’angolo dello scompartimento […] e nessuno degli scrittori edoardiani l’ha osservata più

di tanto. Hanno guardato con grande forza, penetrazione e simpatia fuori dal finestrino […] ma

mai lei, mai la vita, mai la natura umana».

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Emanuela Piga Bruni - Tempo e poetica in Mrs. Dalloway di Virginia Woolf

Bibliografia

 Erich Auerbach, Il calzerotto marrone, in Mimesis: Il realismo nella letteratura

occidentale, Einaudi, volume II, pp. 305-338

 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti.

 Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella

scrittura, Milano Il Saggiatore, 2011.

 Liliana Rampello, Virginia Woolf e i suoi contemporanei, Milano Il Saggiatore,

2017.

 Virginia Woolf, Mrs. Dalloway (1925), trad. it. di A. Scalero, La signora Dalloway,

in Opere, Milano, Mondadori.

 Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello,

Milano Il Saggiatore, 2017.

i
Questa lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità di accedere a questo materiale didattico agli/alle studenti/esse
dell’Universitas Mercatorum.

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Indice

1. LA VITA INTERIORE E IL SISTEMA DEI PERSONAGGI .............................................................................. 3


2. IL PUNTO DI VISTA .................................................................................................................................... 6
3. LA RAPPRESENTAZIONE MULTIPROSPETTICA .......................................................................................... 8
3.1 TRANSIZIONI............................................................................................................................................................... 10
3.2 CORALITÀ .................................................................................................................................................................. 12
3.3 IL PERSONAGGIO RELAZIONALE ....................................................................................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. La vita interiore e il sistema dei personaggi

In Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, i personaggi vengano presentati e caratterizzati per lo più

in modo indiretto, obliquo, disseminando le informazioni. Il centro dell’interesse non risiede

nell’aspetto fisico del personaggio, nell’arredamento della casa in cui abita, o nel modo in cui si

veste, il suo lavoro, la classe sociale a cui appartiene, ma nella sua vita, nei suoi drammi interiori, in

quel flusso inafferrabile di impressioni che attraversa la sua mente in un momento qualunque. La

rappresentazione della percezione soggettiva, trova un esempio particolarmente forte nel

personaggio di Septimus. Nei brani in cui è narrata la passeggiata di Septimus al parco con la

moglie Lucrezia, ci viene mostrata dalla scrittrice la rappresentazione “dall’interno” di una mente

squilibrata, attraversata da allucinazioni, turbamenti emotivi, pensieri assurdi.

Tutti i personaggi del romanzo, concepiti e costruiti in questo modo, entrano a far parte di

un piano ben preciso. Hanno dei ruoli, fanno parte di un sistema fondato su una rete di relazioni

molto complesse. Si tratta di relazioni spesso ambigue, basate su sentimenti contraddittori. Sono

anche relazioni soggette a un’evoluzione, a un continuo cambiamento, dunque immerse in quella

sostanza fluida e inafferrabile con cui la Woolf costruisce il suo romanzo: il tempo.

In questo complicato sistema, ci sono ovviamente due personaggi principali, Clarissa e

Septimus, i quali, a livello di ruoli narrativi, possono essere definiti protagonista e deuteragonista. Per

classe sociale, esperienze vissute, temperamento, sembrano due personaggi opposti, ma in realtà

sono speculari, complementari, e vengono gradualmente legati da una relazione sotterranea,

profonda, su cui ruota tutto il romanzo e che rimanda al rapporto tra la vita e la morte.

Il loro legame viene suggerito già nelle prime sequenze del romanzo, dal modo in cui Woolf

connette i vari segmenti narrativi, in una sofisticata opera di montaggio. La prima scena descrive la

passeggiata di Clarissa per le vie di Londra, da casa sua fino al negozio del fioraio (Mulberry) in

Bond Street. Mentre è nel negozio a scegliere i fiori, si sente un rumore violento, «uno sparo nella

strada», che in realtà è provocato da un’automobile (su cui si pensa viaggi qualche autorità, o il

Primo Ministro o addirittura la Regina). A questo punto la scena si sposta fuori dal negozio, in strada,

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con i passanti che si mettono a guardare questa macchina con grande curiosità; finché,

l’attenzione si sposta su un personaggio in particolare, Septimus, che sta camminando nella strada

proprio lì davanti:

The violent explosion which made Mrs. Dalloway jump and Miss Pym go to the window and

apologise came from a motor car which had drawn to the side of the pavement precisely

opposite Mulberry’s shop window [….] Septimus Warren Smith , who found himself unable to pass ,

heard him … Septimus Warren Smith, aged about thirty , pale-faced , bead-nosed , wearing brown

shoes and a shabby overcoat , with hazel eyes which had that look of apprehension in them which

makes complete strangers apprehensive too.

[La violenta esplosione che aveva fatto trasalire la signora Dalloway, inducendo Miss Pym

ad avvicinarsi alla vetrina e a scusarsi, proveniva da un’automobile che s’era accostata al

marciapiede, proprio davanti al negozio di Mulberry. […] Lo udì Septimus Warren Smith, che non

aveva potuto attraversare in quel punto.

Septimus Warren Smith, sui trent’anni circa, pallido in viso, il naso aquilino, portava scarpe

marrone e un soprabito sdrucito, e aveva negli occhi color nocciola quell’aria apprensiva che

subito si comunica agli estranei].

Le pagine successive descrivono gli spostamenti di Septimus e della moglie per le strade di

Londra. I due personaggi si sfiorano senza conoscersi, passano a pochi metri l’uno dall’altro, e

ovviamente questo doppio fuoco della narrazione – che segue prima Clarissa, poi Septimus –

suggerisce l’esistenza di un legame indiretto tra di loro, che verrà sviluppato nel corso della

narrazione.

A prima vista i due personaggi sono estremamente diversi: Clarissa è una donna ricca,

elegante, che appartiene all’alta società londinese (suo marito è un membro del Parlamento),

vive in una delle zone più esclusive di Londra, ha una bella casa, molti domestici, e una delle sue

occupazioni principali è quella di organizzare delle feste.

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Septimus viene dalla piccola borghesia, ha un aspetto misero, è vestito male, ha sposato

una ragazza italiana, vive in una casa modesta, e soprattutto è un reduce profondamente

traumatizzato dall’esperienza bellica che ha compromesso in modo irreparabile il suo equilibrio

nervoso.

E soprattutto, i loro atteggiamenti verso la vita sembrano diametralmente contrapposti:

Clarissa ama la vita, in tutte le sue forme, tenta di ricavare il massimo piacere dalle sue esperienze,

anzi, la sua passione per le feste deriva proprio dall’amore per la vita. Mentre Septimus, anche a

causa del trauma che ha subito, ha un concetto estremamente negativo della vita e dell’umanità,

è prigioniero del «suo male senza speranza».

Eppure, nonostante queste enormi differenze, alcuni legami sotterranei sembrano collegare

i due personaggi. Per esempio, la figura di Clarissa, che apparentemente ha un atteggiamento

così positivo nei confronti della vita, rivela delle ombre, degli aspetti profondamente malinconici:

spesso prova un senso di esclusione, di assenza, di solitudine, come se non potesse partecipare

davvero alle esperienze che vive. E per quanto abbia tutto (ricchezza, qualità umane ecc.), sente

che le manca qualcosa, sente una specie di vuoto al centro del suo essere. In questo senso,

Septimus rappresenta la sua ombra, il suo doppio oscuro.

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2. Il punto di vista

Ci soffermiamo ora, in maniera più tecnica, sulla forte connotazione soggettiva della

narrazione, che è incentrata soprattutto sulle coscienze dei personaggi, sul loro punto di vista e

sulla loro vita interiore. Questo implica l’attenzione all’importanza dei legami, del sistema di

relazioni che collega le varie coscienze e che in un certo senso struttura la trama del romanzo.

Esiste un legame profondo tra questi due aspetti, anche a livello di tecnica narrativa: perché

spesso, le relazioni tra i personaggi vengono costruite, mediate attraverso la gestione del punto di

vista, di quella che tecnicamente si chiama focalizzazione narrativa. In generale è difficile dare

una definizione univoca ed esauriente di punto di vista, che è una delle categorie narratologiche

più ambigue e controverse. Possiamo in questa sede affermare che si tratta della prospettiva da

cui la storia viene osservata, e quindi comunicata al lettore. Più tecnicamente, è uno strumento di

regolazione dell’informazione narrativa, che cioè definisce e seleziona le informazioni che il

narratore decide di trasmetterci. In sostanza, è il filtro attraverso cui possiamo accedere alla storia,

o – per usare una metafora classica – è la finestra dalla quale guardiamo i personaggi e gli

avvenimenti del romanzo.

Senza andarci a invischiare in disquisizioni troppo complesse, limitiamoci a individuare le

possibilità fondamentali – le opzioni narrative di base – che uno scrittore ha a disposizione.

Pensiamo a un romanzo classico, ad esempio I promessi sposi: la vicenda viene narrata da un

cosiddetto “narratore onnisciente”, un narratore che sta al di sopra dei personaggi. Questo

narratore può compiere salti nel tempo e nello spazio; può raccontare vicende che si svolgono

contemporaneamente in luoghi diversi; può infine indagare la vita interiore di tutti i personaggi,

svelare i loro pensieri e le loro motivazioni segrete.

Insomma, è un narratore che dispone di un livello di sapere e di informazione superiore a

quello di qualunque personaggio: con una formula, potremmo dire: N>P

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Usando la terminologia di Gerard Genette, diciamo invece che è un narratore a

focalizzazione zero. Si tratta dunque di un racconto non focalizzato, e non filtrato da nessuna

prospettiva particolare.

La seconda possibilità è stata esemplificata da molti romanzi del Novecento, ad esempio

come quelli di James Joyce, Virginia Woolf, e prima di loro, Henry James, che è stato il primo ad

applicare consapevolmente questa possibilità e anche a teorizzarla. In questo caso abbiamo a

che fare con un narratore non onnisciente, e che filtra tutta la rappresentazione attraverso la

coscienza, la soggettività di uno o più personaggi. Dunque, la prospettiva qui non è superiore ai

personaggi, ma interna a uno di essi; è possibile vedere, sapere, conoscere solo ciò che vede, sa e

conosce il personaggio. Il mondo esterno ci appare attraverso i suoi sensi, le sue percezioni e le sue

possibilità conoscitive.

Insomma, il narratore ha un livello di sapere uguale a quello del personaggio: racconta solo

quello che il personaggio può verosimilmente percepire e sapere, compreso naturalmente il suo

mondo interiore: N=P

Con Genette diciamo che è un racconto a focalizzazione interna: si assiste alla restrizione,

strozzatura dell’informazione narrativa attraverso lo sguardo e la coscienza del personaggio.

Ci sarebbe poi una terza possibilità (più che altro teorica, o possibile solo in porzioni molto

limitate della narrazione), in cui il narratore ci mostra i fatti e i personaggi solo dall’esterno, con una

prospettiva assolutamente oggettiva. Il narratore si astiene da qualunque commento o

interpretazione, non ci rivela nulla sui pensieri o sulle motivazioni interiori che spingono i personaggi,

ma si limita esclusivamente a descrivere quello che si vede o che si sente a livello empirico, cioè i

gesti esteriori e i dialoghi. Un po’ come una cinepresa, infatti si tratta di uno stile narrativo molto

influenzato dal cinema. In questo ambito, uno degli esempi che si citano di solito è Ernest

Hemingway, seguito da altri narratori americani. In questo caso, il narratore ha un livello di sapere

inferiore a quello dei personaggi: N<P

E con Genette diremo che si tratta di un racconto a focalizzazione esterna.

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3. La rappresentazione multiprospettica

Tra onniscienza e focalizzazione interna

Seppur si sia parlato di soggettività della percezione, nel caso di Mrs. Dalloway, non

dobbiamo pensare a una situazione assolutamente univoca e rigorosa. Anche perché, in

generale, nei testi narrativi il rapporto di focalizzazione non è sempre costante ma è soggetto a

una serie più o meno accentuata di variazioni. Genette sottolinea che:

«La formula di focalizzazione non coinvolge sempre un’opera intera, ma piuttosto un

segmento narrativo determinato, che può essere brevissimo. La distinzione tra di diversi punti di

vista, d’altra parte, non è sempre tanto precisa come ci potrebbe far credere la semplice

considerazione dei tipi puri».

In effetti, nel romanzo, non sempre ci troviamo di fronte a una focalizzazione interna: ci

sono porzioni narrate con tecnica più tradizionale, da parte di un narratore onnisciente che ci

fornisce informazioni superiori al sapere e alla coscienza dei personaggi.

Prendiamo come esempio la scena al parco, quando una bambina va a sbattere contro le

gambe di Lucrezia:

I can’t stand it any longer, she was saying, having left Septimus , who wasn’t Septimus any

longer , to say hard , cruel , wicked things , to talk to himself, to talk to a dead man , on the seat

over there ; when the child ran full tilt into her , fell flat , and burst out crying.

That was comforting rather. She stood her upright, dusted her frock, kissed her .

[Aveva lasciato Septimus che non era più Septimus, là sulla panchina, a dire cose dure,

crudeli, ingiuste, a parlare da solo, o a un morto, laggiù sulla panchina; quando la bimba le si gettò

tra le gambe, cadde lunga distesa, e ruppe in lagrime. Lucrezia, che la raddrizzò e le spolverò il

vestitino, si sentì alquanto racconsolata, e la baciò].

In questo caso è opportuno chiedersi: Chi osserva le azioni della bambina? Le informazioni

sulla bambina non possono provenire né da Peter né da Lucrezia, che non la conoscono.

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Detto questo, se dovessimo individuare una dominante per quanto riguarda la gestione del

punto di vista, non c’è dubbio che si tratti della prospettiva ristretta o focalizzazione interna, che

naturalmente accentua la connotazione soggettiva e anche relativa della narrazione, con tutti i

limiti conoscitivi che questo comporta. Un esempio molto eloquente lo si ritrova nella stessa

sequenza ambientata al parco: prima c’è un’immersione nella coscienza alienata di Septimus, che

ha le allucinazioni, si agita in modo scomposto, discute con la moglie. Poi il punto di vista si sposta

su Peter, che ha una visione delle cose profondamente diversa:

“It is time”, said Rezia . The word “ time” split its husk ; poured its riches

over him; and from his lips fell like shells; like shavings from a plane , without his making them

, hard , white , imperishable words , and flew to attach themselves to their places in an ode to Time

; an immortal ode to Time. He sang. Evans answered from behind the tree. The dead were in

Thessaly, Evans sang, among the orchids. There they waited till the War was over, and now the

dead, now Evans himself -- “For God’s sake don’t come” Septimus cried out.

For he could not look upon the dead. […]

The time, Septimus, Rezia repeated. “What is the time?? He was talking, he was starting, this

man must notice him. He was looking at them.

“I will tell you the time, said Septimus, very slowly, very drowsily, smiling mysteriously. As he sat

smiling at the dead man in the grey suit the quarter struck—the quarter to twelve.

And that is being young, Peter Walsh thought as he passed them. To be having an awful

scene—the poor girl looked absolutely desperate—in the middle of the morning. But what was it

about, he wondered, what had the young man in the overcoat been saying to her to make her

look like that; what awful fix had they got themselves into, both to look so desperate as that on a

fine summer morning?

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[“È tempo di andare” disse Rezia.

La parola "tempo" spaccò il suo guscio, riversò su di lui le sue ricchezze; e dalle sue labbra

caddero, senza ch’egli le formasse, come scaglie, come trucioli da una pialla, dure bianche

imperiture parole e volarono a incastrarsi al loro posto in un’ode: un’ode immortale, al tempo. Egli

cantò.

Evans gli rispondeva di dietro all’albero. I morti sono in Tessaglia, cantava Evans, tra le

orchidee. là attenderanno sino a che la guerra sia finita, e ora i morti, e ora Evans stesso… "Per

amor di Dio non ti avvicinare!" gridò Septimus, che non se la sentiva di vedere un morto. […] L’ora,

Septimus" disse Rezia. "Che ore sono?" Septimus parlava, gesticolava. L’uomo doveva essersene

accorto; li guardava. "L’ora? Adesso te la dico, l’ora" disse Septimus lentissimo, come assonnato, e

rivolse al morto in grigio un sorriso sibillino. E mentre sorrideva, suonarono i tre quarti: le dodici.

“meno un quarto. Ecco che cosa significa essere giovani" meditava Peter Walsh, passando oltre

quei due. Farsi una scenata (la povera giovane pareva proprio disperata, a mezzo del mattino).

"Ma che cosa sarà successo" egli si domandò; "che cosa le avrà detto quel giovanotto col

soprabito, per ridurla in quello stato? In che razza d’impicci si saranno cacciati, perché tutt’e due

abbiano una faccia così stravolta, con questo bel mattino d’estate?]

3.1 Transizioni
Questo è il tipico ritmo della narrazione di Virginia Woolf. Come formula prevalente,

possiamo parlare di una focalizzazione interna variabile, di una tecnica multiprospettica, quasi

prismatica, in cui il pdv si sposta continuamente. Sono presenti delle transizioni (spesso rapidissime)

tra un personaggio e l’altro, che spesso vengono marcate esplicitamente da verba sentiendi, verbi

di sentimento («pensò» ecc.).

Tornando verso l’inizio del romanzo possiamo soffermarci su un esempio particolarmente

significativo. Nelle prime sequenze, dopo che Clarissa è andata a comprare i fiori e l’attenzione si è

spostata su Septimus e la moglie che passeggiano a Regent’s Park, c’è tutta una parte che ha

Lucrezia come personaggio focale. Lucrezia si allontana per un attimo da Septimus per andare a

una fontana e intanto riflette sulla sua situazione, è assolutamente disperata, si augura addirittura

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che il marito muoia; e mentre si allontana lo guarda. Poi ci spostiamo nella mente allucinata di

Septimus, che affiora nel breve breve dialogo tra i due.

Egli se n’era andato, se n’era andato come aveva minacciato - per togliersi la vita, per

gettarsi sotto un carro! Ma no; eccolo ancora là, solo sulla panchina, col soprabito sdrucito; le

gambe accavallate, lo sguardo fisso, parlava da solo. […] Qui c’era la sua mano; qui i morti.

Bianche forme si adunavano dietro la cancellata là di faccia. Ma egli non osava guardare. Evans

era là, dietro la cancellata!

"Che cosa hai detto?" domandò all’improvviso Rezia, sedendogli accanto.

Di nuovo l’interrompevano! Rezia aveva il vezzo d’interromperlo.

[…]

“Guarda" ella implorava, poiché il dottor Holmes le aveva raccomandato di richiamare

l’attenzione del marito su cose reali: vedere qualche spettacolo di varietà, giocare al cricket -

ecco, quello “era il gioco che ci voleva, diceva il dottor Holmes, un simpatico gioco all’aria

aperta, proprio il gioco adatto per suo marito. "Guarda" ella ripeté.

Quindi il punto di vista si sposta su un altro personaggio che si avvicina a loro per chiedere

informazioni:

“Per la stazione della metropolitana di Regent’s Park? Potete dirmi dove si va, per la

stazione della metropolitana?" Era Maisie Johnson che s’informava. Da due giorni appena era

arrivata da Edimburgo "Non da questa parte - di là!" esclamò Rezia, affrettandosi ad allontanarla

con un gesto perché non vedesse Septimus. Parevano un po' strambi, tutti e due, pensò Maisie

Johnson. Tutto pareva strambo quaggiù. Si trovava a Londra per la prima volta, era venuta per

impiegarsi dallo zio che abitava in Leadenhall Street, e ora quella coppia, incontrata men “tre al

mattino attraversava il parco, l’aveva fatta sussultare; la giovane donna aveva l’aria forestiera,

l’uomo pareva un po' tocco di cervello;

Finché – con un ulteriore spostamento del punto di vista la stessa Masie diventa oggetto

dell’osservazione altrui, da parte di un altro personaggio:

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Perché non era rimasta a casa? Ella piangeva, tormentando il pomo della cancellata di

ferro.

"Quella ragazza" pensava la signora Dempster (la quale metteva da parte gli avanzi di

pane per gli scoiattoli e spesso veniva a far colazione in Regent’s Park) "dev’esser nata ieri"; e

opinò che, veramente era meglio essere un po' energici, non troppo fiduciosi, e non aspettarsi

troppo dalla vita.

In questo modo Woolf crea una serie di legami tra i vari personaggi, anche quando non si

conoscono. Si tratta di legami che si costruiscono appunto attraverso gli sguardi, i pensieri e gli

interrogativi che si pongono. Nonostante la struttura frammentaria, dispersiva e centrifuga della

metropoli modernista, i personaggi vengono avvolti in una specie di rete che corre sotto la

superficie della vita quotidiana.

È molto interessante anche la scena dell’incontro tra due personaggi che invece si

conoscono bene, che hanno condiviso molte esperienze anche se non si vedono da molto tempo.

Si tratta di Clarissa e Peter Walsh, e della scena in cui lui si presenta inaspettatamente a casa di lei.

In questo caso notiamo una serie di transizioni molto rapide e ravvicinate, con un’alternanza che ci

fa spostare tra le due menti dei personaggi, e un effetto di illuminazione reciproca: ogni

personaggio prende rilievo attraverso lo sguardo dell’altro, quasi ad evocare la tecnica filmica

campo/controcampo. Tra l’altro, Woolf sottolinea che questi due personaggi hanno un rapporto

particolare, fatto di sguardi, di intuizioni, che permette loro di capirsi al volo. È un rapporto che non

ha bisogno di parole.

3.2 Coralità
L’obiettivo particolare a cui mira spesso Virginia Woolf è l’effetto di coralità, di

moltiplicazione dei punti di vista, ottenuto attraverso la gestione multiprospettica della narrazione.

Un esempio è fornito dal brano sul passaggio della macchina per Bond Street fino a Buckingham

Palace. La scena è narrata attraverso il convergere degli sguardi dei vari personaggi che

osservano, commentano e fanno congetture. Prima Clarissa nel negozio di fiori, poi Septimus e la

moglie, quindi tante altre figure della folla. Un'altra tecnica simile si riscontra anche nella scena del

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passaggio dell’aeroplano, che attira gli sguardi di vari soggetti: prima la folla (e di alcuni

personaggi in particolare), poi Lucrezia, poi Septimus. In seguito riappare alla signora Dempster, e

quindi a Bentley che vive a Greenwich.

L’esempio forse più pertinente di rappresentazione corale si trova alla fine del romanzo,

nella scena della festa in cui convergono tutti i personaggi e tutti i fili della trama. È una scena

molto complessa anche tecnicamente (e che non a caso, come ha scritto Woolf stessa, ha

richiesto molta fatica in fase di stesura), al cui centro c’è ovviamente Clarissa, che è un po’ il

baricentro di tutto, che organizza, accoglie gli invitati, cerca di metterli a loro agio ecc. In questo

brano ruotano tanti altri personaggi, i cui sguardi e pensieri si alternano in una visione frammentata

e policentrica.

3.3 Il personaggio relazionale


I personaggi del romanzo - e Clarissa in particolare - sono esempi perfetti di quello che

Enrico Testa chiama il «personaggio relativo» (contrapposto a quello «assoluto»), cioè un

personaggio che vive nel tempo, che è soggetto al cambiamento e che definisce la sua

personalità attraverso il rapporto con gli altri :

«I loro tratti più evidenti [dei personaggi relativi] sono sinteticamente riassumibili nella terna

di temporalità, mutabilità e relazione. Partecipano del tempo che hanno avuto in sorte; nel corso

del racconto modificano per crisi o sviluppo […] psicologia e comportamenti; e, non

monadicamente isolati, si lasciano coinvolgere in più rapporti […]. Eleggono, insomma, […] il

sentimento della relazione come guida della loro esistenza. E, almeno tendenzialmente,

s’immettono in una partitura compositiva non più monologica ma plurivocale» (97).

In particolare, la figura di Clarissa sembra riassumere in sé questa profonda capacità

relazionale, un potere di legare, di creare connessioni tra cose ed esistenze apparentemente

diverse. È una capacità che si ritrova, per esempio, anche in un altro straordinario personaggio

femminile, Mrs Ramsay, la protagonista di To the Lighthouse, altra opera maggiore di Woolf. In

Woolf, questa capacità è una prerogativa tipicamente femminile, perché le donne sono

generose, sono coloro che danno, che creano la vita (ovviamente anche in senso biologico), che

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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sono capaci di mettersi nei panni degli altri, mentre gli uomini appaiono spesso prigionieri della loro

vanità, del loro egocentrismo, di una forma di sterilità affettiva.

Dunque, anche le sue caratteristiche apparentemente negative (lo snobismo, una certa

frivolezza) sono legate a questo potere relazionale, perché il suo salotto non è tanto una fiera delle

vanità, quanto il luogo in cui molte esistenze diverse vengono a contatto, si incrociano, entrano in

relazione tra loro, ruotando intorno a lei. E questo è il motivo per cui organizza le sue feste, come

quella che chiude il romanzo: non una gratificazione personale ma un’«offerta» rivolta agli altri.

She must go back to them. But what an extraordinary night! She felt somehow very like

him—the young man who had killed himself. She felt glad that he had done it; thrown it away. The

clock was striking. The leaden circles dissolved in the air. He made her feel the beauty; made her

feel the fun. But she must go back. She must assemble. She must find Sally and Peter. And she

came in from the little room.

Doveva tornare dai suoi ospiti. Ma che notte straordinaria! Senza saperne la ragione, ella si

sentiva affine a lui - al giovane che s’era ucciso. Era contenta che così avesse fatto; buttato via la

vita, mentre altri seguitavano a vivere. L’orologio batteva l’ora. I plumbei circoli si dissolvevano

nell’aria. Ma ella doveva tornare là, riordinare le proprie idee, ritrovare Sally e Peter. E uscì dal

salottino.

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Bibliografia

 Erich Auerbach, Il calzerotto marrone, in Mimesis: Il realismo nella letteratura

occidentale, Einaudi, volume II, pp. 305-338

 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti.

 Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella

scrittura, Milano Il Saggiatore, 2011.

 Liliana Rampello, Virginia Woolf e i suoi contemporanei, Milano Il Saggiatore,

2017.

 Virginia Woolf, Mrs. Dalloway (1925), trad. it. di A. Scalero, La signora

Dalloway, in Opere, Milano, Mondadori.

 Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello,

Milano Il Saggiatore, 2017.

iQuesta lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità di accedere a questo materiale didattico agli/alle studenti/esse
dell’Universitas Mercatorum.

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Indice

1. IL PREVALERE DELLA REALTÀ SECONDA ................................................................................................. 3


2. LE NUOVE STRUTTURE DEL ROMANZO..................................................................................................... 4
3. AL FARO DI VIRGINIA WOOLF: INCIPIT .................................................................................................. 6
4. LA STRUTTURA NARRATIVA .................................................................................................................... 10
5. PERSONAGGI: LILY BRISCOE E BANKES ............................................................................................... 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. Il prevalere della realtà seconda

I narratori di primo Novecento concepiscono la scrittura come ricerca, come

sperimentazione, come esplorazione di campi ancora sconosciuti. Si tratta di un’esplorazione che li

porta in molte direzioni, spesso diversissime tra di loro, e che però trova un comune denominatore:

la consapevolezza delle insufficienze del Naturalismo, della inadeguatezza delle vecchie

strumentazioni conoscitive e stilistiche nel rendere conto di una visione del mondo molto più

complessa. L’istanza primaria è di andare oltre i fenomeni, e cogliere una realtà essenziale al di là

dell’apparenza. È come se esistessero due piani, due livelli della realtà:

 Una realtà superficiale, fenomenica, immediatamente esperibile (dove si ferma lo sguardo

dello scrittore naturalista);

 E una realtà profonda, nascosta, segreta: una realtà ulteriore che lo scrittore ha il compito

di rivelare e di portare in luce

Giacomo Debenedetti, nel suo libro Il romanzo del Novecento, afferma: «Il compito è di

vedere “che cosa si nasconde dietro le cose”. Una seconda realtà, per dirla in breve, più profonda

e stabile e vera di quella vistosamente e sensibilmente presentata dalla loro apparenza» (p. 295).

Non a caso, i protagonisti delle opere di James Joyce, di Marcel Proust, di Virginia Woolf, di

Katherine Mansfield sono esseri dalla sensibilità eccezionale, dotati di un senso in più rispetto agli

uomini comuni. Sono capaci di:

 vedere cose che gli altri non vedono;

 di avere estasi, rivelazioni, improvvise illuminazioni (si pensi alle epifanie narrate da Joyce; o

ai momenti di essere di Virginia Woolf)

 di estrarre significati preziosi dagli oggetti o esperienze più insignificanti.

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2. Le nuove strutture del romanzo

Questa nuova sensibilità, questa nuova concezione del mondo e della funzione dell’arte,

esercita un profondo influsso su tutti gli aspetti costitutivi della narrazione. Si dice che i romanzieri

del primo Novecento hanno rivoluzionato l’impianto del romanzo classico: ed effettivamente il loro

attacco (che non è semplicemente negativo, distruttivo, ma è sperimentazione e ricerca di nuove

strade) viene sferrato contro tutti i piani della struttura narrativa. Cade l’imperativo mimetico, il

dogma della verosimiglianza, almeno per come erano intesi nell’Ottocento. Tende a venir meno la

guida sicura, attendibile, autorevole, del narratore onnisciente, che nel romanzo classico:

 intrecciava saldamente tutti i fili della trama;

 forniva giudizi sui personaggi, interpretazioni degli avvenimenti

 in generale costruiva l’immagine di un mondo coerente, dotato di un significato e di uno

sviluppo teleologico

 offriva al lettore una guida, un orientamento sicuro

Nella letteratura del primo Novecento, cambia il baricentro, il punto di osservazione: la

prospettiva viene affidata al personaggio, o addirittura a diversi personaggi, che offrono una

visione soggettiva, parziale, relativa, incapace di stabilire con sicurezza il significato degli eventi.

Spesso il narratore diventa inattendibile, e di conseguenza, il compito del lettore diventa molto più

arduo. L’intreccio viene sfaldato, destrutturato, si ribalta la gerarchia del significante e

dell’insignificante. Il primo effetto è quello di una rarefazione degli eventi (succede ben poco), di

uno sfaldamento dei loro rapporti reciproci e dei legami di causa/effetto, come se quella grande

macchina che era stata l’intreccio del romanzo ottocentesco si inceppasse e incominciasse a

girare a vuoto. Il tempo narrativo non ubbidisce più a una rigida concatenazione, a un ordine

cronologico, a un flusso costante e precisamente misurabile. La narrazione viene interrotta da

digressioni, salti temporali, ellissi che sospendono il corso lineare del tempo. Gli avvenimenti non

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vengono misurati in base alla loro durata effettiva, cronometrica, ma in base ai riflessi, alle

risonanze che hanno nella coscienza dei personaggi. La nuova unità di misura è una durata

interiore, un tempo psicologico – e non cronologico.

Anche la figura del personaggio perde la sua tradizionale consistenza. La scoperta

dell’inconscio e la teoria di Freud incide profondamente sulla crisi dell’identità personale, dell’io

unitario, del cogito cartesiano. Tutto questo va a incrinare la stabilità stessa del personaggio

romanzesco, che si presenta come essere diviso, interiormente scisso, incapace di padroneggiare

quell’altro, quel doppio, che agisce dentro di lui (si veda anche l’opera di Pirandello, o la figura di

Zeno Cosini in Svevo). Il personaggio, in molti casi perde anche i segni esteriori della sua identità, a

partire dal nome, come nel caso di K., il protagonista dei romanzi di Kafka.

Infine, si sperimentano nuove tecniche narrative, percepite come una grossa rottura

formale. Si assiste nella prosa allo spostamento di prospettiva, a un prevalere del racconto

dell’interiorità e di una visione soggettiva. Questo porta a sviluppare e a radicalizzare) certe

tecniche di rappresentazione della vita psichica che:

 destrutturano la grammatica, la sintassi e la logica narrativa

 mettono in campo meccanismi psichici fondati (ad es.) sull’associazione di idee, sul flusso

ininterrotto di impressioni e sensazioni.

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3. Al faro di Virginia Woolf: incipit

Proviamo a vedere quanto detto sopra nel concreto di un testo. Lo facciamo a partire da

una delle opere maggiori di Virginia Woolf, To the Lighthouse (Al faro), pubblicata nel 1927 e

fortemente rappresentativa di questi mutamenti nelle poetiche degli scrittori di quel periodo.

Partiamo dal commento dell’incipit, caratterizzato da un attacco in medias res. Osserviamo che il

testo inizia con una battuta di dialogo, che costituisce la risposta a una domanda implicita;

veniamo proiettati in una conversazione già iniziata. Il brano è concentrato sulla figura di James,

che deduciamo essere il figlio della narratrice. Incorniciati tra il “sì, se…” della madre, e il “no” del

padre, emergono i temi dell’attesa e del desiderio:

“Yes, of course, if it’s fine tomorrow,’ said Mrs. Ramsay. ‘But you’ll have to be up with the

lark,’ she added. / To her son these words conveyed an extraordinary joy, as if it were settled the

expedition2 were bound to take place, and the wonder to which he had looked forward, for years

and years it seemed, was, after a night’s darkness and a day’s sail, within touch. Since he

belonged, even at the age of six, to that great clan which cannot keep this feeling separate from

that, but must let future prospects, with their joys and sorrows, cloud what is actually at hand, since

to such people even in earliest childhood any turn in the wheel of sensation has the power to

crystallise and transfix the moment upon which its gloom or radiance rests “James Ramsay, sitting

on the floor cutting out pictures from the illustrated catalogue of the Army and Navy Stores,3

endowed the picture of a refrigerator as his mother spoke with heavenly bliss. […] / ‘But,’ said his

father, stopping in front of the drawing-room window, ‘it won’t be fine.’ / Had there been an axe

handy, a poker, or any weapon that would have gashed a hole in his “father’s breast and killed

him, there and then, James would have seized it.

– Sí, certo, se domani è bel tempo, – disse la signora Ramsay. – Ma dovrai alzarti con le

allodole, – aggiunse. / A suo figlio quelle parole diedero una gioia immensa, come se la spedizione

dovesse senz’altro aver luogo, e l’evento che aveva tanto atteso, per anni e anni gli sembrava,

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fosse infine, oltre il buio di una notte e la navigazione di un giorno, a portata di mano. Poiché

apparteneva, già all’età di sei anni, a quella categoria di persone che non sanno tenere separate

le proprie emozioni e lasciano che i progetti futuri, con le loro gioie e dolori, oscurino ciò che

invece possiedono, e poiché per questo tipo di persone sin dalla piú tenera infanzia ogni scarto

nella ruota delle sensazioni ha il potere di cristallizzare e fissare l’attimo su cui allunga la sua ombra

o la sua luce, James Ramsay, che era seduto per terra e ritagliava figure dal catalogo illustrato

degli Army & Navy Stores, alle parole della madre riversò sulla figura di un frigorifero una celestiale

beatitudine. […] / – Ma, – disse il padre, fermandosi davanti alla finestra del salotto, – non sarà bel

tempo. / Se nella stanza ci fosse stata un’ascia, un attizzatoio, o qualunque altro oggetto

contundente con cui squarciare il petto di suo padre e ucciderlo, lí e subito, James l’avrebbe

afferrato.

Sul piano tecnico, l’ingresso nel testo è brusco, ellittico, carico di sottintesi; a poco a poco ci

vengono fornite delle informazioni che ci permettono di mettere a fuoco la situazione: il nome, il

bambino che sta ritagliando delle figure, ecc. Via via, comprendiamo che siamo in una casa sul

mare (nelle Ebridi), e che il dialogo con cui si apre il romanzo verte sul progetto di una gita in barca

pensata per il giorno dopo, verso il faro che sorge su un’isola lì vicino1. È una gita che il figlio – dal

temperamento introverso, estremamente sensibile, sognatore – aspetta da lungo tempo, e che,

dalla sua prospettiva infantile, sembra avvolta in un alone magico, carica di un significato

decisivo.

Il progetto è però reso incerto dal tempo meteorologico, che minaccia di essere cattivo,

come precisa il padre.

Tutta la prima parte del romanzo si svolge in questo scenario (o nella casa, o negli

immediati dintorni), e copre un’unica giornata; e si consuma appunto nell’attesa di questa gita al

faro, che (come verremo a sapere più avanti) non si farà, proprio a causa del maltempo. Si tratta

di una scena dal forte valore simbolico, e che apre il romanzo mettendo al centro una struttura

triangolare: la cellula-base della famiglia (padre, madre, figlio), con la peculiarità degli equilibri e

1Ispirato al Godrevy Lighthouse, il faro che sorge su un isolotto nei pressi di St. Ives in Cornovaglia, dove Virginia Woolf passò
diverse estati da bambina con la famiglia.

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dei rapporti affettivi (da un lato affetto e complicità; dall’altro ostilità e odio), e quindi anche con

la netta contrapposizione tra i sessi (una problematica centrale nella prosa di Woolf). Il tema, tra

l’altro, si riallaccia indirettamente alla genesi del libro, al materiale biografico da cui è nato, e

dunque all’esperienza vissuta di Virginia Woolf e al suo rapporto con i genitori.

Dal diario, giovedì 14 maggio 1925:

Ora sono tutta tesa verso il desiderio di abbandonare il giornalismo e mettermi al lavoro su

To the Lighthouse. Sarà piuttosto corto; vi sarà un ritratto completo di papà; e della mamma; e poi

St. Ives; e l’infanzia; e tutte le solite cose che cerco di metterci dentro: vita, morte, ecc. Ma il centro

è il personaggio di papà, seduto in barca, che recita ‘Noi perimmo, ciascuno era solo’, mentre

schiaccia uno sgombro morente” (p. 119).

È sicuramente il suo libro più autobiografico, soprattutto sul piano della caratterizzazione dei

personaggi: Le figure fittizie dei genitori nel romanzo (Mr. e Mrs. Ramsay, che hanno 10 figli) sono

evidenti trasposizioni dei genitori reali della Woolf. Sono due figure che incarnano una netta

contrapposizione tra i sessi, tra i valori di cui uomini e donne sono rispettivamente portatori.

Rivelano inoltre un trattamento molto differenziato, in cui i valori positivi tendono a riversarsi quasi

esclusivamente sulla donna, sulla madre (centro simbolico del libro), a scapito del padre, figura

caratterizzata in negativo, bersaglio di una satira e di una parodia spesso feroce. Mr Ramsay è un

grande filosofo, totalmente egocentrico, e narcisista, che pensa solo alla sua gloria – ai libri che

deve scrivere, alle lezioni che deve tenere, e non si accorge del valore preziosissimo delle cose

quotidiane che gli stanno intorno, la famiglia, e soprattutto la moglie, la signora Ramsay. È

qualcuno che è capace solo di ricevere e non di dare, e che sfrutta la straordinaria generosità

umana e affettiva della moglie fino a esaurirla, fino ad ucciderla. La figura della madre ha un ruolo

centrale nel romanzo. Ricordo l’importanza, quando si interpreta un’opera dalla matrice

autobiografica, del non schiacciare l’opera sulla vita, in quanto non si tratta di una trasposizione

meccanica del ricordo e dell’esperienza vissuta. In Al faro, Virginia Woolf fa risorgere i suoi ricordi e

li proietta nella scrittura, ma trasforma profondamente il materiale biografico e trasfigura

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l’esperienza, a volte mescolando varie figure tra loro, oppure modificando tutta una serie di

elementi (ad esempio il personaggio di Lily Briscoe).

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4. La struttura narrativa

Il romanzo ha una struttura molto elaborata, calcolata in ogni minimo dettaglio, attraverso

tutta una serie di equilibri e di rimandi interni. A livello macrostrutturale, si nota una chiara simmetria

dell’impianto costruttivo e dell’organizzazione temporale. È diviso in tre parti:

 Prima (più lunga), La finestra, divisa a sua volta in 19 capitoletti numerati; verte su un’unica

giornata, ritmo narrativo molto lento;

 Seconda (più breve), Il tempo passa, suddivisa in 10 brevissimi capitoletti: vertiginosa

accelerazione temporale, che in ca. 10 pagine riassume un arco di tempo di 10 anni;

 Terza, Il faro, 13 capitoletti, il ritmo narrativo rallenta di nuovo, e – come nella prima parte –

gli avvenimenti si estendono su un’unica giornata.

Il dato che colpisce maggiormente è l’esilità dell’intreccio, l’inconsistenza della trama, in

maniera corrispondere alla rottura formale operata dal romanzo novecentesco. Gli avvenimenti

sono minimi, è un romanzo in cui non succede quasi nulla, e il cui intreccio esteriore verte su due

azioni parallele: la gita al faro e la realizzazione di un quadro. Si tratta di due azioni che

attraversano la stessa dinamica di frustrazione iniziale, di mancata realizzazione, fallimento, e infine,

l’adempimento successivo.

In estrema sintesi, l’azione del romanzo può essere riassunta così:

 Prima parte: a) Progetto di una gita al faro da compiere all’indomani, incerta per tempo

meteo; b) Tentativo di Lily Briscoe di dipingere un quadro che raffigura Mrs Ramsay con

James; entrambi non si realizzano;

 Seconda parte: Passaggio del tempo, in cui molte cose cambiano (morti);

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 Terza parte: Ritorno nella casa, dove le due azioni rimaste interrotte (gita e quadro) si

compiono parallelamente, in una situazione completamente diversa rispetto all’inizio, in cui

il tempo, il tema centrale di tutto il libro, ha cambiato molte cose.

L’interesse della Woolf non si concentra tanto sugli avvenimenti in quanto tali, ma sulle

risonanze psicologiche ed emotive che suscitano nella mente dei personaggi, in generale sulla vita

interiore. La caratteristica fondamentale della narrazione è proprio questa: la banalità,

l’insignificanza degli avvenimenti esterni, rispetto all’inesauribile ricchezza dei pensieri, delle

emozioni e dei sentimenti che li accompagnano; anche il trattamento del tempo narrativo risente

di questa fondamentale dicotomia tra l’esterno e l’interno. Mentre il tempo cronologico (il tempo

dell’orologio) scorre, la Woolf ci proietta nelle menti dei personaggi e ci immerge in una durata

puramente interiore, in cui eventi del passato, del presente o del futuro si mescolano

continuamente tra loro, spezzando qualunque linearità cronologica. Questi aspetti sono fortementi

connessi alla tecnica woolfiana del tunneling process, lo scavare gallerie nelle menti dei

personaggi, che sono immersi in una rete di relazioni che li lega l’un l’altro.

Dal Diario, 30 agosto 1923:

«Avrei molto da dire a proposito delle Ore e della mia scoperta: come io scavi bellissime

caverne dietro i miei personaggi; questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità,

profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al

momento giusto» (98).

Diario, 15 ottobre 1923:

«Mi è toccato brancolare un anno intero per scoprire ciò che io chiamo il mio procedere

per gallerie [my tunneling process]: in questo modo racconto il passato a rate, come e quanto mi

occorre. Questa è la mia scoperta principale, finora» (100).

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5. Personaggi: Lily Briscoe e Bankes

Vediamo alcuni esempi, per osservare concretamente le scelte stilistiche della Woolf e i

tratti salienti del romanzo (l’inconsistenza della trama, la rarefazione degli eventi esteriori,

l’attenzione alla vita interiore dei personaggi, il trattamento del tempo attraverso il tunneling

process…). Il capitolo 4 è incentrato su altri due personaggi del romanzo, che abitano nel villaggio

vicino e che spesso sono ospiti nella casa dei Ramsay:

 Lily Briscoe: Giovane pittrice; non è sposata, e vive da sola; si percepisce come una

persona grigia, insignificante, inadeguata, soprattutto di fianco alla bellezza, quasi alla luce

che sembra irradiarsi dalla sig.ra Ramsay, per la quale ha una sorta di venerazione

 William Bankes: scienziato, famoso botanico; vedovo, ormai piuttosto anziano; amico di

vecchia data del sig. Ramsay.

Le prime pagine del capitolo sono incentrate sulla sfera del guardare, del vedere e

dell’essere visti; è presente una elaborata regia di sguardi che istituisce una rete di correlazioni tra i

vari personaggi. Come in quasi tutta la prima parte del romanzo, Lily è nel giardino di fronte alla

casa, con il suo cavalletto, intenta a dipingere. Cerca di ritrarre le figure di Mrs Ramsay e di James

che sono dentro la casa (lui sta ritagliando delle figurine), incorniciati dalla finestra. È evidente

come la finestra rappresenti un motivo centrale (lo segnala anche il titolo della sezione). In primis, si

tratta della finestra materiale della casa, attraverso la quale si guarda e si è guardati. La finestra

costituisce inoltre il mediatore percettivo tra l’interno e l’esterno, tra chi sta dentro e guarda fuori, e

chi sta fuori e guarda dentro. Ma possiede anche un chiaro valore metaforico, che rimanda:

 Da un lato al processo artistico = figura della cornice del quadro che Lily sta dipingendo;

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 Dall’altro a una dinamica psicologica: Metafora di uno sguardo che passa dall’esterno

all’interno (e viceversa), e che attraversa continuamente la soglia tra l’esteriorità e

l’interiorità

Leggiamo all’inizio del cap.:

Indeed, he almost knocked her easel over, coming down upon her with his hands waving,

shouting out ‘Boldly we rode and well’, but, mercifully, he turned sharp, and rode off, to die

gloriously she supposed upon the heights of Balaclava. Never was anybody at once so ridiculous

and so alarming. But so long as he kept like that, waving, shouting, she was safe; he would not

stand still and look at her picture. And that was what Lily Briscoe could not have endured. Even

while she looked at the mass, at the line, at the colour, at Mrs. Ramsay sitting in the window with

James, she kept a feeler on her surroundings lest someone should creep up, and suddenly she

should find her picture looked at. But now, with all her senses quickened as they were, looking,

straining, till the colour of the wall and the jacmanna beyond burnt into her eyes, she was aware of

someone coming out of the house, coming towards her; but somehow divined, from the footfall,

William Bankes […]

Poco mancò che ribaltasse il cavalletto, piombandole addosso agitando le mani e urlando

«Eretti cavalcammo e coraggiosi», ma, grazie al cielo, fece una svolta brusca e si allontanò al

galoppo, per morire gloriosamente immaginò lei sulle alture di Balaklava. Nessun altro riusciva a

essere cosí ridicolo e allo stesso tempo inquietante. Ma finché continuava cosí, agitando le mani,

urlando, lei era salva; non si sarebbe piantato lí a guardare il quadro. Cosa che Lily Briscoe non

avrebbe sopportato. Anche mentre osservava la massa, la linea, il colore, la signora Ramsay nel

vano della finestra con James, tendeva un’antenna sull’ambiente circostante per timore che

qualcuno si avvicinasse furtivo, e di trovarselo lí che guardava il suo quadro. Ma ora, con tutti i sensi

all’erta, osservando, concentratissima, finché il colore del muro e piú oltre la jacmanna le

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divamparono negli occhi, intuí che qualcuno era uscito di casa e veniva verso di lei; ma in

qualche modo riconobbe, dal passo, William Bankes […]

Lily abbandona temporaneamente il suo dipinto, e si incammina in compagnia di Bankes,

fanno una passeggiata nei dintorni della casa; mentre camminano, il testo apre continui squarci

all’interno delle loro menti. I gesti esterni, le azioni, i dialoghi sono ridotti al minimo, vengono

appena suggeriti; e tutta l’attenzione si concentra sui loro pensieri e le loro emozioni, che vengono

rappresentati attraverso una continua alternanza di prospettive, di transizioni da un personaggio

all’altro.

A un certo punto arrivano di fronte al mare, e qui, la prospettiva si sposta decisamente su

Bankes, che pensa al passato e alla sua amicizia con il sig. Ramsay (è l’argomento principale della

loro conversazione). Va notato l’atteggiamento contemplativo, ricettivo di fronte agli elementi

naturali (mare, onde, dune), che mettono in moto i pensieri, sembrano materializzare il significato

dei sentimenti, dei moti interiori, dei rapporti affettivi. Più avanti, con uno dei frequenti spostamenti

di prospettiva, l’attenzione si sposta di nuovo su Lily, che mette a confronto mentalmente quei due

uomini (Bankes, che le sta accanto; e Ramsay, di cui stanno parlando). E’ importante considerare

che tutto questo dialogo avviene nella testa di Lily: è un discorso silenzioso, che immagina di

rivolgere al suo interlocutore, e che viene continuamente interrotto, inframmezzato da pensieri,

ricordi e sensazioni di vario tipo.

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Bibliografia

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scrittura, Milano Il Saggiatore, 2011.

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2017.

 Virginia Woolf, To the Lighthouse (1927), trad. it. di A.L. Zazo, Gita al faro, in

Opere, Milano, Mondadori; oppure: trad. di Nadia Fusini, Al faro, Milano,

Feltrinelli.

 Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello,

Milano Il Saggiatore, 2017.

i
Questa lezione è tratta dagli appunti delle lezioni su Virginia Woolf del prof. Federico Bertoni, con il quale ho collaborato
presso l’Università di Bologna nell’ambito del suo corso di Teoria della letteratura. Data la qualità delle lezioni, e previo
consenso dell’autore, ho ritenuto utile dare la possibilità di accedere a questo materiale didattico agli/alle studenti/esse
dell’Universitas Mercatorum.

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Indice

1. VIRGINIA WOOLF E VANESSA BELL ........................................................................................................ 3


2. UNA SORELLANZA ARTISTICA: TRA PAROLA E IMMAGINE ................................................................... 5
3. L’INFANZIA IN CORNOVAGLIA .............................................................................................................. 9
4. IL RUOLO DELLA NATURA ...................................................................................................................... 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. Virginia Woolf e Vanessa Bell

Prestigiosa rappresentante del Bloomsbury Group, Virginia Woolf (nata Stephen, a Londra,

nel 1882) fu scrittrice, saggista e critica dalla forte personalità, caratterizzata dall’impegno libertario

e a favore dei diritti civili e della parità tra i sessi. Tra le sue opere maggiori figurano Mrs. Dalloway

(La signora Dalloway, 1925) e To the Lighthouse (Al faro, 1927).

Con il marito Leonard Woolf diresse una casa editrice londinese, la prestigiosa The Hogarth

Press, che pubblicò, oltre ai suoi testi, opere importanti come l’Ulisse di Joyce. Nella loro abitazione,

situata vicino al British Museum, si riuniva il gruppo di intellettuali chiamato Bloomsbury Group.

I due primi romanzi della scrittrice, The voyage out (La crociera, 1915) e Night and day

(1919), seppur caratterizzati da raffinati mezzi espressivi, non si distaccano ancora dalla tecnica

narrativa tradizionale. Il sovvertimento delle classiche forme della narrativa ottocentesca, che

comprende il racconto della vita interiore, e degli effetti della realtà esteriore sulla coscienza,

comparirà nelle opere narrative successive, tra le quali: Jacob's room (La stanza di Jacob, 1922),

Mrs. Dalloway (La signora Dalloway, 1925); To the Lighthouse (Al faro, 1927); Orlando (1928), The

Waves (Le onde, 1931), The Years (Gli anni, 1937). È importante ricordare anche le due biografie:

Flush (1933), dedicata al cane di Elizabeth Barret Browning, e la biografia dedicata al caro amico

e critico d’arte Roger Fry (1940). Molto importanti per la critica letteraria e il pensiero politico sono

Virginia Woolf pubblicò inoltre diverse raccolte di saggi critici e politici, tra i quali figurano, e di

notevole importanza: A Room of one's Own (Una stanza tutta per sé, 1929); The common Reader

(due serie, rispettivamente 1925 e 1932), Three Guineas (Le tre ghinee, 1938).

Vanessa Bell fu un’artista, pittrice, illustratrice e interior design, appartenente, come la

sorella Virginia, al gruppo di Bloomsbury, e moglie del critico d’arte Clive Bell. Fu inoltre membro,

insieme al fondatore Roger Fry e all’artista Duncan Grant, degli Omega Workshops, un'impresa di

design fondata nel luglio del 1913, con sede al 33 di Fitzroy Square, a Londra. L’obiettivo degli

Omega Workshops era di dare forma grafica all'essenza dell'etica di Bloomsbury.

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Allieva di John Singer Sargent alla Royal Academy, la produzione di Vanessa Bell

comprende ritratti, tra i quali figurano quelli della sorella, paesaggi e nature morte. Sebbene resti

nell’ambito del figurativo, la sua opera è caratterizzata da una forte componente astratta,

presente sia nei suoi quadri che nelle sue opere grafiche, come i disegni per le copertine delle

prime edizioni dei libri di Virginia Woolf. Il quadro che è considerato il suo capolavoro, sul quale ci

soffermeremo nei paragrafi successivi, è Studland Beach, del 1912.

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2. Una sorellanza artistica: tra parola e immagine

Ci soffermeremo ora su alcuni passaggi, tratti dagli scritti autobiografici di Virginia Woolf,

che illuminano il suo rapporto con Vanessa Bell. Scrive Woolf:

Avvenne così che Nessa e io formassimo una cospirazione molto intima. In quel mondo

pieno di uomini, che andavano e venivano, in quella grande casa piena di stanze, noi ci

formammo un nostro nucleo privato. Lo visualizzo come un piccolo fragile centro di vita intensa: di

istintiva comprensione, chiuso nel grande guscio riecheggiante della casa di Hyde Gate Park. […]

Insieme costruivamo il nostro punto di vista, e di lì osservavamo il mondo, un mondo che appariva

a entrambe uguale.

«Non ti pare strano? Forse tu stimoli il senso letterario in me così come dici che io stimolo il

tuo senso pittorico»1, continua la scrittrice in una lettera a Vanessa, a proposito di una storia da lei

raccontatale su alcune falene giganti viste a Cassis. La storia sedimentò nell’immaginazione di

Virginia, la quale ne trasse un racconto intitolato Le falene (The Moths) che poi divenne il romanzo

Le onde (The Waves). Anche la prosa di Virginia influenzava Vanessa, che nel corso di uno

scambio sull’illustrazione per Il riflettore (The Searchlight), nel definire il racconto quasi troppo ricco

di stimoli per la sua resa in immagini aveva ribadito quanto la scrittura della sorella fosse fonte di

ispirazione per la sua arte2. Dalle lettere e dai diari emerge il forte legame che stringeva le due

sorelle, la stima, l’influenza reciproca, nonché la condivisione costante delle riflessioni sulla poetica

e sulla pratica artistica.

I brani che ribadiscono la mescolanza di affetto, sostegno e complicità intellettuale che

caratterizzava il rapporto sororale non si contano:

1
Virginia Woolf, Cambiamento di prospettiva. Lettere 1923-38, a cura di Nigel Nicolson - Joanne Trautmann, trad. it. di Silvia
Gariglio, III, 8 maggio 1927, Torino, Einaudi, 1982, p. 470.
2 Cit. in FRANCES SPALDING, Vanessa Bell (1983), London, Phoenix, 1996, p. 309.

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«Tu credi che abbiamo gli stessi occhi, e solo occhiali diversi? Io direi che sono legata a te

più strettamente di quanto si debba esserlo tra sorelle»3.

Come osserva Jane Dunn, «Vanessa era anche il suo pubblico. Era per lei che Virginia

scriveva, e la sua approvazione era ciò che contava di più: “Ho sempre la sensazione di scrivere

più per te che per qualsiasi altro”»4.

Dopo aver letto Al faro, e aver riconosciuto i genitori nei signori Ramsay, Vanessa le aveva

scritto: «Vedi, almeno per quello che riguarda la tua capacità di dipingere un ritratto, tu mi sembri

un’artista superlativa»5. Non solo ammirava il genio della sorella, ma ne era influenzata: le aveva

dichiarato, per esempio, di come da due anni stesse cercando di realizzare un quadro raffigurante

un pavimento ricoperto di giocattoli6 e che riuscire a metterli in relazione tra loro e con le altre

figure, con lo spazio e la luce, avrebbe significato per lei qualcosa di molto vicino a ciò che

Virginia aveva compiuto con le Onde7. Vanessa si sofferma sulla capacità del romanzo di

generare un’esperienza profonda, e specifica come questo non sia dovuto, per quel che la

riguarda, solamente al fatto di rileggere nella morte di Percival la trasfigurazione della scomparsa

del loro amato fratello Thoby, ma alla capacità di Virginia di elevare i sentimenti umani oltre la

sfera personale8. Conversazione è un quadro di Vanessa Bell che esprime la solidarietà e la

complicità tra donne. L’intimità è espressa dalla convergenza curvilinea delle figure e dalla quinta

del tendaggio che le racchiude, sullo sfondo i colori vivaci dell’aiuola fiorita conferiscono vitalità

alla scena.

3 «Do you think we have the same pair of eyes, only different spectacles? I rather think I’m more nearly attached to you than
sisters should be», da VIRGINIA WOOLF, Leave the Letters till we’re dead. The Letters of Virginia Woolf 1936-41, a cura di NIGEL
NICOLSON - JOANNE TRAUTMANN, 17 agosto 1937, The Hogarth Press, London, p. 158.
4 JANE DUNN, Sorelle e complici. Vanessa Bell e Virginia Woolf (1990), Milano, Bollati Boringhieri, 1995, p. 209. La frase di Virginia

Woolf è tratta da: Un riflesso dell'altro. Lettere 1929-1931, a cura di NIGEL NICOLSON - JOANNE TRAUTMANN, trad. it. di CAMILLO
PENNATI, IV, Torino, Einaudi, 1985, p. 483.
5 Brano di una lettera riprodotto in JANE DUNN, Sorelle e complici, cit., p. 210.
6 Sfortunatamente andato distrutto nel corso dei bombardamenti durante la guerra. È stato identificato da Frances

Spalding in The Nursery, dipinto negli anni ’30, e di cui resta una fotografia.
7 Cfr. DIANE F. GILLESPIE, The Sister’s Arts. The Writing and Painting of Virginia Woolf and Vanessa Bell, Syracuse University Press,

1988, p. 199.
8 «I think you have made one’s human feelings into something less personal». Cit. in The Sister’s Arts, ibid.

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Vanessa Bell, Conversazione, 1913-16. Fry Collection, Londra

Dopo aver rivisto il quadro nella mostra del 1928, Virginia le scrisse:

«Mi pare che tu sia una pittrice grandissima. Ma sostengo per giunta che hai il dono

dell’ironia e quello di comunicare squarci di vita: sei una narratrice di gran spirito, capace di

evocare una situazione in una maniera che suscita la mia invidia. Chissà se riuscirei a tradurre le Tre

Donne in prosa»9.

La sincera ammirazione per il talento di Vanessa la portava ad affermazioni giocose e

autoironiche, come ad esempio: «la gente dirà, che coppia di talento! Bè, sarebbe stato più

piacevole se avesse detto: Virginia era piena di talento; la vecchia cara Vanessa era un tipo

casalingo. Ahimè, ahimè, adesso non lo potranno più dire». Sorprende come alcuni studi non

abbiano colto l’ironia di questi brani e li abbiano interpretati alla lettera: questo è probabilmente

uno dei fraintendimenti comuni sulla vita e l’opera di Virginia Woolf, così come lo stereotipo

secondo cui fosse sì geniale, ma depressa e malinconica. «Creatura di riso e movimento», dotata

di una notevole «capacità di gioia» e dal riso contagioso 10, Virginia Woolf amava la vita, le

9 Virginia Woolf, Un riflesso dell'altro, 12 maggio 1928, cit., pp. 633-34.


10 Come molti altri, così la ricorda Elizabeth Bowell, in Virginia Woolf e i suoi contemporanei, a cura di Liliana Rampello, trad.
it. di Lucia Gunella, Milano, Il Saggiatore, p. 89.

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amicizie, il divertimento e il gioco, inclusi gli affilati e temibili esercizi di ironia a spese altrui e

proprie11.

11Per un rovesciamento di questa visione, cfr. Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella
scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005.

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3. L’infanzia in Cornovaglia

«Ma a ripensarci nulla di quanto avemmo da bambini influì tanto, ebbe tanta importanza

per noi, quanto le nostre estati in Cornovaglia», scrive Virginia Woolf, in un brano contenuto nella

raccolta Immagini del passato.

La Cornovaglia rappresenta la “geografia naturale” in cui le due sorelle trascorsero parte

dell’infanzia: non un semplice sfondo, ma un luogo che arriva a incidere «sul tono e sul ritmo,

arrivando a decidere la natura stessa» dell’opera d’arte 12. Nel 1881 Leslie Stephen, padre di

Virginia e Vanessa, aveva acquistato Talland House, una magnifica casa bianca con giardino alla

periferia di St. Ives, da cui si godeva della vista della spiaggia di Porthminster e del Godrevy

Lighthouse, il faro in lontananza. La famiglia trascorse in questa casa le estati dal 1881 al 1895,

anno della morte della madre Julia. In questi luoghi Virginia e Vanessa passarono parte

dell’infanzia: qui impararono a giocare a cricket, a nuotare, ad andare a vela, a pescare, a

catturare falene, a esplorare la costa camminando a lungo per le colline. A St. Ives scoprirono la

propria vocazione, dipingere e scrivere.

St. Ives, Cornovaglia, Inghilterra

12 Liliana Rampello, Il canto del mondo reale, cit., p. 32.

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Virginia Woolf e Vanessa Bell a St. Ives, Cornovaglia

La Cornovaglia è stata un luogo privilegiato e fondativo per lo sviluppo dell’estetica di

Virginia e Vanessa, e lasciò un forte segno su entrambe: senza le immagini e i suoni assorbiti

durante l’infanzia al mare, Virginia Woolf sarebbe stata probabilmente una scrittrice diversa. I

ricordi di St. Ives hanno preso forma soprattutto in Al faro, Le onde, e in parte, anche in La Stanza di

Jacob. Nel suo diario leggiamo:

Spesso, ora mi tocca dominare l’eccitazione, quasi volessi trapassare uno schermo; o

qualcosa mi battesse accanto con violenza. Ciò che questo presagisca, non so. È un vasto senso

della poesia della vita a sopraffarmi. Spesso è legato al mare e a St. Ives 13.

È più difficile individuarne le tracce nell’opera di Vanessa, poiché i dipinti di quei luoghi

andarono distrutti durante i bombardamenti di Londra. Tuttavia, come ha sottolineato Marion

13Virginia Woolf, A Writer’s Diary, a cura di Leonard Woolf (1953), trad. it. di Giuliana De Carlo, Diario di una scrittrice, Torino,
Einaudi, 1979, p. 87.

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Whybrow,14 la vita artistica di St. Ives, dove la pittura era un’attività comune e quotidiana, aveva

esercitato una forte influenza sul suo destino di artista. Originariamente un villaggio di pescatori, il

paese era divenuto una colonia di artisti, che Vanessa poteva vedere al lavoro lungo le spiagge,

nelle strade, sul pontile, lo Smeaton’s Pier, o mescolati ai pescatori al The Sloop Inn’s, il pub del

porto. Al St. Ives Arts Club Vanessa incontrò diversi artisti importanti e attenti alle nuove tendenze,

come Adrian Scott Stokes, Louis Grier and Stanhoper Forbes. Qui prese le prime lezioni di pittura,

che inaugurarono un percorso proseguito successivamente alla Royal Academy e in altre scuole.

Vanessa, Virginia, Thoby e Adrian Stephen. St. Ives, Cornovaglia

Marion Whybrow, Virginia Woolf & Vanessa Bell: A Childhood in St. Ives, Wellington, Halstar, 2014. Cfr. anche Marion Dell -
14

Marion Whybrow, Virginia Woolf & Vanessa Bell: Remembering St. Ives, Padstow, Tabb House, 2003.

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4. Il ruolo della natura

La natura ebbe per le sorelle Stephen un’importanza molto forte, in particolare per Virginia,

che mantenne per tutta la sua vita l’abitudine di camminare a lungo: con il padre, in Cornovaglia,

faceva lunghe passeggiate a Tren Crow, dalla cui cima si possono ammirare i due mari, Monte St.

Michael da una parte e il Faro dall’altra 15. Dieci anni dopo la morte della madre, le due sorelle e i

due fratelli tornarono a visitare quei luoghi. Virginia ne scrisse in Passeggiata notturna (A Walk by

Night), un articolo pubblicato inizialmente sul «Guardian» (1905), in cui nel raccontare di

un’escursione lungo la costa protrattasi accidentalmente fino a tardi rievoca le sensazioni provate

nelle sette miglia di ritorno. Ricorda come «Nei silenzi che calavano frequentemente, l’identità

della sagoma» che camminava accanto sembrasse fondersi con il «buio della notte», mentre si

camminava a «grandi passi, da soli, coscienti dell’oppressione dell’oscurità tutt’intorno, e anche

consapevoli che gradualmente la resistenza a quest’oscurità diminuiva sempre di più, che il corpo

che veniva fatto procedere sul terreno era qualcosa di separato dalla mente che svaniva

fluttuando come in un deliquio». Abbandonata la strada principale, il gruppo si ritrovò a «battere»

«l’impenetrabile oceano della notte» (the trackless ocean of the night), saggiando «il terreno sotto i

piedi in modo da provare senza ombra di dubbio che [fosse] solido»16. L’apparizione di un

contadino con la lanterna li riportò, «con mano ferma», al rassicurante «mondo concreto, sulla

terraferma», circondato da «l’immenso flusso di oscurità e silenzio» sopra i viandanti. «E tuttavia»,

aggiunge Woolf, «una volta assuefatti allo strano elemento, c’era in esso una grande pace e una

grande bellezza». In contrappunto alla ricerca e al conforto dato dalla solidità, dalla nettezza dei

contorni di cose e persone, emerge sottotraccia il fascino dell’indistinzione, l’attrazione verso la

fusione nelle «insondabili acque dell’oscurità».

15 Virginia Woolf, A Sketch of the Past (1940), in Moments of Being (1976), a cura di Jeanne Schulkind, trad. it. di Adriana
Bottini, Immagini dal passato, in Momenti di essere. Scritti autobiografici, Milano, La Tartaruga, 2003, p. 170.
16 Cfr. anche Barbara Lonnquist, Homeless in Nature: Solitary Trampings and Shared Errantry in Cornwall, in Virginia Woolf and

the Natural World: Selected Papers from the Twentieth Annual International Conference on Virginia Woolf, a cura di Kristine
Czarnecki - Carrie Rohman, Clemson, SC, Clemson University Digital Press, 2011, p. 172. Corsivo mio.

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La notte e la campagna assumono connotazioni che rimandano alla sfera semantica

dell’acqua, i contorni di cose e persone si dissolvono nell’oscurità: è possibile percepire il senso di

spaesamento e il desiderio di solidità che caratterizzeranno la sua scrittura. Questo scritto

anticipava temi che avrebbero trovato compimento venti anni dopo con i romanzi Al faro (1927),

che rappresenta la fragilità e la natura soggetta al tempo del mondo famigliare e dell’ambiente

che lo circonda, e Le onde, con la sua dialettica tra individualità e impersonalità (1931). Barbara

Lonnquist ha parlato di una geological view of human history, stimolata dalle lunghe camminate

lungo le scogliere granitiche della Cornovaglia, dove la suggestione dell’ambiente «diventa una

presenza che suggerisce quanto la storia umana sia implicata nella storia naturale». L’esperienza

vissuta e lo scenario marino tornano in una fortunata opera di Vanessa Bell, dedicata alla spiaggia

di Studland, frequentata dalle sorelle Stephen con le loro famiglie e amicizie: la ricerca su forma e

astrazione emerge dalla solidità del tratto, dalla nettezza dei contorni delle figure e della riva, dalla

compattezza del blu del mare, dall’impersonalità delle figure rappresentate.

Vanessa Bell, Studland Beach, 1912.

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Woolf, a cura di Kristine Czarnecki - Carrie Rohman, Clemson, SC, Clemson

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scrittrice, a cura di Leonard Woolf, Torino, Einaudi, 1979.

 Ead., The Letters of Virginia Woolf, a cura di Nigel Nicolson - Joanne

Trautmann, I-VI, London, Hogarth, 1975-1980, trad. it. Lettere, Torino, Einaudi,

1980-2002.

 Ead., Moments of Being (1976), a cura di Jeanne Schulkind, trad. it. di

Adriana Bottini, Momenti di essere. Scritti autobiografici, Milano, La

Tartaruga, 2003.

 Ead., The Essays of Virginia Woolf, a cura di Andrew McNeillie, I-V, London,

Hogarth Press, 1986.

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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 Ead., To the Lighthouse (1927), Oxford, Oxford University Press, 1992, trad. it di

Nadia Fusini, Al faro, Milano, Feltrinelli, 1992.

 Ead., The Waves (1931), introd. di Gillian Beer, Oxford, Oxford University Press,

1992, trad. it di Nadia Fusini, Le onde, Torino, Einaudi, 1995.

 Ead., Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello, Milano, Il

Saggiatore, 2011.

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Vanessa Bell

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Indice

1. VIRGINIA, VANESSA, E IL BLOOMSBURY GROUP .................................................................................. 3


2. CONVERGENZE SORORALI, TRA PAROLA E IMMAGINE ....................................................................... 5
3. OGGETTI SOLIDI: RACCONTI E ILLUSTRAZIONI ...................................................................................... 6
4. POETICHE: ASTRAZIONE, SOLIDITÀ, IMPERSONALITÀ.......................................................................... 10
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 18

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1. Virginia, Vanessa, e il Bloomsbury Group

È l’ebbrezza che provo quando scrivendo mi


sembra di scoprire i collegamenti precisi; di
rendere vera una scena; di dare coerenza a un
personaggio. Di qui nasce potrei dire una
filosofia; o comunque un’idea che ho sempre
avuto; che dietro l’ovatta si celi un disegno; che
il mondo intero è un’opera d’arte; che noi siamo
parte di quell’opera d’arte.
Virginia Woolf, Immagini del passato

In questa lezione mi propongo di evidenziare alcune convergenze nell’arte e nella poetica

delle sorelle Stephen, Virginia Woolf e Vanessa Bell, con l’intento di mettere a fuoco i passaggi di

quel movimento che va «dall’opera alla vita»1. Come vedremo, sarà tratteggiata l’esistenza di una

trama che attraversa l’intera opera di Virginia Woolf, dai primi articoli, ai racconti, alle opere

maggiori. Per alcuni aspetti, il disegno di questa trama è stato tessuto insieme alla sorella. I suoi

dipinti testimoniano una ricerca artistica tesa a catturare la vita, a dare all’attimo consistenza,

solidità e definizione attraverso l’astrazione.

Virginia Woolf e Vanessa Bell erano figure centrali del Bloomsbury Group. Quando si

trasferirono con i fratelli al numero 46 di Gordon Square, intorno a loro confluirono gli amici di

Cambridge di Thoby, come Clive Bell, J.M. Keynes, Litton Strachey, e via via nuovi compagni di

viaggio, tra i quali E.M. Forster, Duncan Grant e Roger Fry. Artista e critico d’arte, quest’ultimo

progettò la mostra Manet and the Post-Impressionists, tenuta nel 1910 alla Grafton Gallery.

Per la prima volta esposti in Inghilterra, i quadri di Manet e Picasso, Derain e Cézanne, van

Gogh e Gauguin ebbero un forte impatto sul pubblico britannico, ancora legato ai precetti

tradizionalisti della Royal Academy. Sullo sfondo della crisi della pittura figurativa si diffusero le

1
Cfr. supra, Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, in L’eredità di Antigone. Sorelle e
sorellanza nelle letterature, nel teatro, nelle arti e nella politica, a cura di M. Farnetti, G. Ortu, Firenze, Cesati, 2019.

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nuove concezioni estetiche, che includevano la riscoperta del disegno strutturale e dell’armonia e

il rifiuto dell’imitazione a favore del primato della forma2.

Un cambiamento importante riguardò l’uso della descrizione nell’arte dovuto alla

dominanza dell’astrazione, che rivoluzionò la relazione tra immagine e linguaggio. In questo

contesto, le sorelle Stephen agirono in un ambiente in cui arte e critica costituivano la quotidianità.

Virginia sosteneva che la letteratura del suo tempo fosse condizionata dalla pittura 3, e per lei fu

naturale voler «trasferire l’estetica post-impressionistica sul piano della letteratura» e forzare

incessantemente i limiti tra i due linguaggi4.

2 FLORA DE GIOVANNI, L’occhio del pittore / l’occhio dello scrittore. Dialogo a distanza tra Virginia Woolf e Vanessa Bell, in La
rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, a cura di FRANCESCO CATTANI - DONATA MENEGHELLI, Roma,
Meltemi, 2008, pp. 215-216.
3 VIRGINIA WOOLF, Visitando una galleria – Quadri, in Ead., Voltando pagina, a cura di LILIANA RAMPELLO , cit., p. 485.
4 FLORA DE GIOVANNI , L’occhio del pittore / l’occhio dello scrittore, cit., p. 222.

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2. Convergenze sororali, tra parola e immagine

Nel corso degli anni le sorelle ebbero diverse occasioni per esprimere la loro concezione

artistica, intrecciando le rispettive attività in un gioco di rimandi, dalla conferenza che Vanessa

tenne alla Leighton Park School (1925) alla prefazione che sua sorella scrisse per il catalogo della

sua mostra del 1930 5.

Per Virginia, solo eliminando l’eccesso di rappresentazione è possibile produrre una pagina

tersa e impersonale; la descrizione non è mai fine a se stessa, ma è visione interiore, emozione,

sguardo situato, ed è qui che si vede maggiormente il legame del linguaggio con la pittura. Nel

dialogo con la ricerca sull’astrazione che caratterizza l’arte primonovecentesca, la tensione tra

evanescenza e solidità attraversa tutta la sua produzione, ed emerge già nei racconti, tenuti

insieme dalla volontà di scrivere la vita e illuminarla nella sua natura minuscola e particellare.

Come ha visto Liliana Rampello, questa ricerca incessante si esprime attraverso una scrittura che si

posa precisa su tutto ciò che sfugge, e cattura “la cosa, il canto del mondo reale”, in un trovato

equilibrio linguistico formale. L’oscillazione irrequieta tra evanescenza e materialità dell’esistenza è

data dalla peculiare consistenza pittorica della sua prosa, di certo influenzata dall’opera di

Vanessa. La trasformazione del poco nel tutto, della minuzia nell’intero, del momento fuggevole in

qualcosa di permanente, in una forma concreta, materica, in una parola, solida, è comune

all’arte delle sorelle: strappare l’attimo allo scorrere inerte del tempo e fissarlo nell’opera affinché

non scivoli via per sempre.

5Su questo, e sul collegamento del testo della conferenza di Vanessa con il saggio Mr. Bennett and Mrs. Brown (1924) di
Virginia, cfr. FLORA DE GIOVANNI , L’occhio del pittore / l’occhio dello scrittore, cit.

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3. Oggetti solidi: racconti e illustrazioni

Già nei racconti scritti tra gli anni ‘10 e ‘20, e caratterizzati dalla forte suggestione visiva e

dalla scarsa centralità dell’intreccio, emerge la sperimentalità della poetica di Virginia Woolf.

Come nelle opere maggiori, anche queste prose sono frutto di un intenso lavoro sui punti di vista

dei personaggi, rappresentati come fasci di pensieri, ricordi e desideri. I racconti scritti tra il 1922 e il

1925 ruotano intorno alla festa della signora Dalloway, e sono frammenti esistenziali che danno

voce alle figure presenti all’evento, narrato con un effetto prismatico da altre coscienze. Alcuni di

questi sono interrelati, quasi a costituire capitoli sciolti di un libro secondo: in Il vestito nuovo la festa

è raccontata dal punto di vista di Mabel, una giovane donna a disagio per via del vestito

indossato, che lei percepisce non adatto all’occasione. La sua insicurezza e il senso di

inadeguatezza fanno del vestito l’oggetto su cui convergono tutti i problemi esistenziali nonché

quelli legati al rapporto tra classi sociali. In tutti i racconti ciò che resta normalmente invisibile, il lato

inafferrabile del reale, si esprime in particolare attraverso il racconto delle cose, di oggetti solidi6,

come specchi, vestiti, spille. Su questi oggetti, che condensano insieme passato, presente e futuro,

nel gioco tra memoria e immaginazione, precipita la fragile e mutevole melodia dei rapporti

umani e la coscienza che si ha di essi. Queste prose sono il punto di convergenza più intimo dello

scambio tra visione ed espressione, immagine e frase, sguardo e parola, nonché il risultato del

legame con Vanessa e la sua arte7. In un quadro come Monte Oliveto del 1912, è possibile notare

l’essenzialità del segno, e la solidità espressa dagli elementi rappresentati con uno stile fortemente

astratto.

6Espressione che è anche il titolo di uno dei racconti.


7Liliana Rampello, Il ritmo della prosa, in Virginia Woolf, Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, Roma, Racconti edizioni,
2016, p. XVIII.

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Vanessa Bell, Monte Oliveto, 1912

Luce, forme e colori sono al centro di un altro racconto di Virginia Woolf: Kew Gardens,

dedicato ai giardini di Kensington, dove le sorelle si recavano a passeggiare con il padre ai tempi

in cui vivevano al 22 di High Gate. Il testo si sviluppa a partire dalla descrizione della vita minuscola

che brulica in un’aiuola ovale, il cui scintillio di colori grazie a un ‘palpito più vivace della brezza’

entra in comunicazione con le donne e gli uomini che passeggiavano in luglio per i giardini. Le

tappe del difficoltoso cammino di una chiocciola, ostacolato da diversi oggetti, sono giustapposte

ai discorsi dei passanti, tra i quali, «due anziane donne della piccola borghesia, una robusta e

pesante, l’altra agile e con le guance rosse» 8. Risvegliando ricordi e fornendo simboli per stati

emozionali difficili da esprimere9, la natura entra nelle conversazioni, influenza lo stato d’animo dei

personaggi, li avvolge in una sfaccettata dimensione di forme e colori.

Come molte altre prose, questo racconto del 1919 uscì in una edizione della Hogarth Press

decorata da Vanessa. Già dal frontespizio emerge il tema essenziale del racconto,

l’interpenetrazione del mondo umano e del mondo naturale, evocato dal confondersi delle linee

8 VIRGINIA WOOLF, Kew Gardens, trad. it. di FRANCESCA DURANTI, in Oggetti solidi, a cura di LILIANA RAMPELLO, Roma, Racconti
edizioni, 2016, pp. 134-137.
9 Cfr. DIANE F. GILLESPIE, The Sister’s Arts. The Writing and Painting of Virginia Woolf and Vanessa Bell, Syracuse University Press,

1988, p. 119.

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tra parole e immagini. La scena illustrata è quella relativa alla conversazione tra le due donne, una

attratta dall’aiuola, l’altra in cerca della sua attenzione. I volumi delle due figure stilizzate si

riflettono nel gioco di forme e contrasti che vanno a comporre l’illustrazione: le linee che

definiscono la donna a destra, assottigliata da una falsa prospettiva, confluiscono nell’aiuola,

mentre i fiori nel giardino si mescolano all’ornamento sui cappelli.

Vanessa Bell, immagine di copertina di Kew Gardens, London, Hogarth Press, 1919

Vanessa Bell, immagine della quarta di copertina

di Kew Gardens, 1919

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Se il frontespizio evoca la relazione profonda tra mondo umano e naturale, la quarta di

copertina mostra il punto di vista “rasoterra” 10, la vita che si muove alla base degli steli dei fiori e

dei fili d’erba. Vanessa, che amava gli esperimenti di Virginia con i punti di vista, decise di mettere

al centro dell’immagine un bruco e un insetto con ali e antenne. Più astratto è lo stile

dell’illustrazione dell’edizione del 1927, in cui il rapporto tra i volumi suggerisce le forme di un vaso,

nuvole e vegetazione. Qui la scelta riflette maggiormente la concezione di Vanessa, che non

prevedeva una relazione diretta dell’immagine con il testo: per lei, come per Roger Fry, le

illustrazioni non completano o rafforzano il pensiero dell’autore, ma è possibile derivare da esso

suggestioni per ricamare variazioni progressive sul tema 11. In questo frontespizio, linee curve e colori

contrastanti esprimono una tensione dinamica tra simmetria e asimmetria.

Figura 1 Figura 2

Vanessa Bell per Kew Gardens (London, Hogarth Press, 1927).

Figura 1: immagine di copertina; Figura 2: illustrazione dell’incipit

Cerchi, tratteggi, puntini si combinano nei ventuno disegni a bordo pagina, cornici astratte

quasi del tutto prive di elementi figurativi.

10Cfr. LILIANA RAMPELLO, Il ritmo della prosa, in VIRGINIA WOOLF, Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, cit., p. XV.
11Cfr. HELENE SOUTHWORTH, The Bloomsbury Group and the Book Arts, in The Cambridge Companion to the Bloomsbury Group,
a cura di VICTORIA ROSNER, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, pp. 144-161.

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4. Poetiche: astrazione, solidità, impersonalità

Se i saggi Il signor Bennett e la signora Brown e Il romanzo moderno contengono le riflessioni

di Virginia sull’arte e sulla costruzione del personaggio, racconti come Il segno sul muro e Un

romanzo non scritto sono manifestazioni dirette delle «immense possibilità della nuova forma» 12. Nel

vagare e divagare dello sguardo osservante e attraverso il suo ritmo interiore vediamo in opera la

sua concezione estetica. Tutto è sospeso e la percezione tesa al punto «da restituire con freschezza

l’eccitazione di una mente impersonale», insieme a visioni della realtà rese da quel “terzo occhio”

che Woolf riteneva necessario allo scrittore per esprimere con esattezza e sottigliezza l’emozione 13.

In questi racconti è difficile percepire il punto d’attacco delle digressioni, che sono fuse nel

discorso e congiungono un’interiorità all’altra, in una dimensione in cui l’emozione attraversa il

passato, il presente e il futuro. Questo trattamento delle soggettività fa parte di una ricerca

comune alle due sorelle. L’espressione dell’impersonalità14 rientra nel più generale interesse per

l’astrazione, che insieme alla tensione tra solidità e indistinzione caratterizza la prosa di Virginia.

Anche Vanessa era alla ricerca di un equilibrio visivo tra colori, linee e forme per riportare

l’astrazione sulla tela. Uno dei modi in cui questo processo si esprime è nei ritratti, molti dei quali

faceless: privati dei tratti del volto, i soggetti sono riconoscibili per altre caratteristiche, come

l’atteggiamento, la postura o l’abbigliamento. Tra gli esempi figurano i diversi ritratti di Virginia o i

dipinti che raffigurano gli incontri con gli amici di Bloomsbury.

12 VIRGINIA WOOLF, Diario di una scrittrice, cit., p. 43.


13 LILIANA RAMPELLO, Il ritmo della prosa, cit., p. XVII.
14 Cfr. supra, Liliana Rampello, Le sorelle di Jane Austen: vita letteraria e vita simbolica, cit.

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Vanessa Bell, Conversazione ad Asheham House, 1912

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Vanessa Bell, Virginia Woolf su una sedia a sdraio, 1912.

Ivor Braka Ltd., London

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Vanessa Bell, Virginia Woolf a Asheham, 1912.

National Portrait Gallery, London

Il tempo passa, sezione centrale del romanzo Al faro, costituisce per Virginia Woolf «il pezzo

più difficile e astratto»: «Debbo dare una casa vuota, nessun personaggio umano, il passare del

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tempo, tutto senz’occhi e senza lineamenti, nessun punto d’appoggio» 15. Qui la figura senza volto

è il tempo, rappresentato nel suo passaggio e nei segni che lascia su cose, natura e persone

attraverso «certi aliti staccatisi dal corpo del vento», ‘leggeri’, ‘brancolanti’, o ‘languidi e spettrali’ 16

. L’impersonalità avvolge l’ambiente, la casa, gli oggetti rimasti, i vestiti che conservano le forme di

chi un tempo li ha indossati, la natura selvaggia che avanza sull’ordine domestico. La casa,

abbandonata da sette lunghi anni, è rimasta «come un guscio di conchiglia lì sulle dune a riempirsi

di grani di sale, ora che la vita l’aveva lasciata. Una lunga notte sembrò impossessarsene; le brezze

leggere, mordenti, i soffi vischiosi, invadenti, sembrava avessero trionfato. La pentola s’era

arrugginita e la stuoia distrutta. I rospi ci misero il naso» 17. Nello scialle che «pigro, indifferente»,

continua a dondolare, resiste, immortale, l’immagine della signora Ramsay 18. Condensare fino ad

astrarre coincide in queste pagine con l’assenza della caratterizzazione, in una rappresentazione

priva di figure umane, in cui la narrazione è limitata a una dimensione puramente temporale.

Nel romanzo Le onde il tema attraversa i personaggi, caratterizzati da sentimenti molteplici

riguardo l’esperienza dell’indistinzione, che si manifesta nelle forme della cancellazione dei tratti

del volto e dell’impersonalità. Nel cammino verso la locanda di Hampton Court, dove sta per

incontrare dopo anni i suoi amici di infanzia, le emozioni di Rhoda sono contraddittorie: «Ho ancora

paura di voi, vi odio, vi amo, vi invidio, vi disprezzo, con voi non sono mai stata felice», dice di loro,

«impressi in una sostanza fatta di momenti ripetuti, tutti fusi insieme». E continua, «voi avete scelto,

avete assunto un certo atteggiamento, avete dei figli, autorità, fama, amore, compagnia. Mentre

io non ho nulla. Io non ho volto»19. Come nei quadri di Vanessa, le figure senza volto sono

ambivalenti: a volte l’esperienza comporta ansia e smarrimento, in altri casi un senso di conforto

generato dalla percezione della fusione con la comunità e con l’ambiente, o di un’eternità che

trascende il momento20. «C’è dunque un mondo immune al mutamento» ripete più volte Rhoda in

un altro brano, quando dal balcone della casa scorge vicino al cancello «due persone senza

15 VIRGINIA WOOLF, Diario di una scrittrice, cit., p. 129.


16 EAD., Al faro, trad. it. di NADIA FUSINI, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 139-40; v. or.: To the Lighthouse, Oxford, Oxford University
Press, 1992, pp. 172-173.
17 EAD., Al faro, p. 150; v. or. p. 187.
18 Ibid.
19 EAD., Le onde (1931), trad. it. di NADIA FUSINI, Torino, Einaudi, 1995, p. 211. Corsivo mio.
20 Cfr. DIANE F. GILLESPIE, Visual and Verbal Portraits, in Sisters’ Arts, cit., pp. 175-177.

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faccia, che si stagliano come statue contro il cielo». All’esperienza dolorosa dell’attraversamento

del salotto, «fiammeggiante di lingue che come coltelli [la] affettano», segue il sollievo suscitato

dalla visione di «facce senza lineamenti, soffuse di bellezza»21. Il divenire featureless22 si combina

frequentemente con un sentimento di indistinzione e fusione con l’ambiente circostante. Questa

esperienza definisce i personaggi fin dalla loro comparsa, come nel caso di Louis, che nascosto tra

le piante, «verde come un cespuglio di tasso», dice: «Ho in mano uno stelo. Io sono lo stelo. Le mie

radici affondano nelle profondità del mondo, in una terra prima secca, dura, poi umida, sempre

più giù, attraverso vene di piombo e di argento. Sono pura radice» 23. Per certi versi questa

esperienza di fusione con la natura è simile a quella che ha Bernard con il tessuto cittadino:

ammira dal finestrino del treno la magnificenza di Londra e si sente parte della sua velocità,

assapora un senso di comunità con gli sconosciuti compagni di viaggio prima che l’arrivo a Euston

restituisca ciascuno alle rispettive individualità. «Per quanto riguarda me, non ho scopo. Non ho

ambizioni. Mi lascerò trascinare dallo stesso impulso che guida gli altri», riflette, mentre la mente

«superficialmente scivola via come un corso d’acqua grigio pallido che riflette ciò che incontra» e

non si ricorda del passato, dei tratti del suo volto e dell’opinione che ha di sé, per fermarsi infine

davanti a un autobus in corsa quando «la voglia di preservare il corpo scatta, prende il

sopravvento» e lo spinge a pensare: «Ci ostiniamo, pare, a voler vivere. Poi, di nuovo, cala

l’indifferenza. Il rumore del traffico, il passaggio di tante facce tutte uguali mi ipnotizza, i lineamenti

si cancellano»24. Evocato dai volti featureless, il concetto di impersonalità è connesso al senso di

compartecipazione con gli altri e l’ambiente, e l’interrogazione sul significato del momento vissuto,

il momento d’essere, apre alla domanda sul tempo: «Che cos’è questo attimo di tempo, questo

giorno particolare in cui mi trovo catturato?»25. Fino a che l’attimo non passa e ritorna «l’identità»,

21 VIRGINIA WOOLF, Le onde, cit., p. 97; v. or.: «When I have passed through this drawing-room flickering with tongues that cut
me like knives […] I find faces rid of features, robed in beauty», da The Waves, introd. di GILLIAN BEER, Oxford, Oxford University
Press, 1992, p. 86, corsivo mio.
22 Così si percepisce anche Bernard: «As silence falls I am dissolved utterly and become featureless and scarcely to be

distinguished from another» (v. or., p. 187), corsivo mio.


23 VIRGINIA WOOLF, Le onde, cit., p. 8; v. or.: «I hold a stalk in my hand. I’m the stalk. My roots go down to the depths of the

world, through earth dry with brick, and damp earth, through veins of lead and silver. I am all fibre» (p. 7).
24 Ivi, p. 105; v. or.: «The roar of the traffic, the passage of undifferentiated faces, this way and that way, drugs me into

dreams; rubs the features from faces» (p. 93), corsivo mio.
25 Ibid.

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che «si infila in un buco qualsiasi della struttura» e spinge Bernard a dire «Non sono parte della

strada – no, osservo la strada. È così che ci si stacca dal tutto»26.

«La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?», annota Virginia Woolf nel suo diario,

mentre ritorna la questione che attraversa gran parte dei suoi scritti. In Al Faro, nelle pagine che

raccontano la casa abbandonata nei sette anni che seguono la morte della signora Ramsay –

quando «niente, sembrava, si sarebbe salvato dall’inondazione, da quel profluvio di tenebra, che si

insinuava nelle serrature, entrava in ogni fessura», «inghiottiva qui una brocca, lì un catino, là un

vaso di dalie rosse e gialle», per lasciare infine «nulla del corpo e della mente, perché si potesse

dire “è lui”, “è lei”»27 – ritorna la dialettica affrontata in quel breve scritto del 1905, a distanza di

oltre venti anni. In Passeggiata notturna, nel racconto di quella camminata compiuta con i propri

cari, è possibile rintracciare una delle questioni cruciali della poetica di Virginia Woolf: la lotta

incessante tra indistinzione e solidità, poli semantici che riassumono la costante dialettica tra

isolamento e comunità, tra abbandono e cura, trasformazione della vita, dell’attimo, in ricordo

prezioso o opera d’arte, in parola o immagine. Il richiamo alla solidità, che intitola uno dei suoi

racconti e attraversa gli altri, è parte di questo incessante tentativo di dare forma al reale, «poiché

la vita è qualcosa di una realtà estrema»28.

Se la scrittura di Virginia Woolf narra questa oscillazione, la compenetrazione della

dialettica e i sentimenti a essa legati attraverso i personaggi, le loro relazioni e il loro essere calati in

un ambiente, la pittura di Vanessa Bell esprime a sua volta l’oscillazione tra solidità e impersonalità,

con elementi visivi essenziali in cui gli accenni figurativi sono trasfigurati in una forma trascendente.

Il senso di solidità che caratterizza le linee del suo tratto è l’esito di una ricerca che gioca con linee,

forme e colori, al servizio di una poetica che si serve dell’astrazione pittorica come strumento. Nella

sua ambivalenza, tra cedimento alla dissoluzione e preziosa conservazione di ciò che è essenziale,

26 Ivi, p. 107, corsivo mio.


27 VIRGINIA WOOLF, Al faro, cit. pp. 130-140; v. or.: «Nothing, it seemed, could survive the flood, the profusion of darkness which,
creeping in at keyholes and crevices», «swallowed up here a jug and basin, there a bowl of red and yellow dahlias», «Not
only was furniture confounded; there was scarcely anything left of body or mind by which one could say ‘This is he’ or ‘This is
she’» (pp. 171-172).
28 EAD., Immagini del passato, cit., pp. 7-8.

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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eterno, e irriducibilmente singolare, l’espressione dell’impersonalità costituisce il punto di

convergenza tra parola e immagine, letteratura e pittura: un’intersezione di poetiche nell’ambito

di una sorellanza oltre il gioco, il sostegno e la condivisione delle esperienze di vita.

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Indice

1. CENNI DA UNA TEORIA DEGLI ADATTAMENTI .................................................................................... 3


2. ADATTARE LA RECHERCHE DI PROUST ................................................................................................. 7
3. TRASPOSIZIONI: IL NARRATORE............................................................................................................ 9
4. TRASPOSIZIONI: LA STANZA ............................................................................................................... 11
5. TRASPOSIZIONI: LA MEMORIA INVOLONTARIA ................................................................................ 14
6. MONTAGGIO, TEMPORALITÀ E OGGETTI-SOGLIA ........................................................................... 16
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................................. 20

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1. Cenni da una teoria degli adattamenti1

La varietà degli adattamenti, che si manifesta attraverso generi e medium diversi, è

davvero sconfinata. Tuttavia una gran parte degli studi sugli adattamenti è stata condotta su

trasposizioni cinematografiche di opere letterarie. Questa lezione è dedicata a questo tema, e

per renderla meno astratta, cercherò di mostrare le pratiche di adattamento dal testo letterario a

quello filmico attraverso un caso studio.

Iniziamo con alcune nozioni introduttive tratte da un libro dedicato all’argomento: Teoria

degli adattamenti di Linda Hutcheon2. La teorica canadese evidenzia in quest’opera un aspetto

importante:

I diversi medium e generi attraverso i quali le storie vengono transcodificate nei processi di

adattamento non sono soltanto entità formali; essi […] rappresentano allo stesso tempo modalità

diverse di coinvolgere il pubblico cui di volta in volta si rivolgono. Medium e generi diversi sono

tutti, con varietà di gradi e maniere, “immersivi”, ma alcuni di essi sono utilizzati per raccontare

storie (romanzi, novelle e racconti brevi, per esempio); altri le mostrano (tutti i medium mostrativi,

che prevedono una messa in scena); e altri ancora ci permettono di interagire con essi a livello

fisico e cinestetico (come nei videogiochi o nelle giostre dei parchi a tema).

Hutcheon spiega come queste tre diverse modalità di coinvolgimento e interazione

forniscano la struttura analitica di riferimento per questo tentativo di formulare una teoria di ciò

che potrebbe essere definito il che cosa, chi, perché, come e quando degli adattamenti. Si pensi

a questa organizzazione come una struttura dedotta dal decalogo del buon giornalista:

rispondere alle domande di base è sempre un buon modo di cominciare.

Quando si studia un adattamento, continua, è importante interrogarsi sulle modalità nelle

quali medium differenti sono in grado di esprimere elementi quali il punto di vista, l’opposizione

1
Questo paragrafo è costituito dalla selezione di alcuni brani rilevanti contenuti nello studio specialistico di Linda Hutcheon
Teoria degli adattamenti (2011).
2 Linda Hutcheon, Linda, A Theory of Adaptation, trad. it. di Giovanni Vito Distefano, Teoria degli adattamenti. I percorsi

delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, Roma, Armando, 2011.

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interiorità/esteriorità, il tempo, l’ironia, l’ambiguità, le metafore e i simboli, i silenzi e le assenze. «Un

adattamento, infine, non esiste, né in quanto prodotto, né in quanto processo, nel vuoto, ma

sempre in un contesto – un tempo e un luogo, una società e una cultura determinate», dichiara.

Occorre indagare cosa può accadere ogni volta che una storia “viaggia” – ogni volta che un

testo adattato migra dal contesto in cui è stato creato al contesto di ricezione dell’adattamento.

Dal momento che un adattamento è una forma di ripetizione senza replicazione, occorrono

inevitabilmente dei cambiamenti, anche senza che si proceda ad alcuna consapevole

operazione di aggiornamento o di alterazione della sua collocazione. E a questi cambiamenti si

legano indissolubilmente le corrispettive modifiche nella valenza politica e persino nel significato

delle storie narrate.

Hutcheon spiega come confrontarsi con gli adattamenti in quanto adattamenti voglia

dire pensarli, per usare la rimarchevole espressione del poeta e studioso scozzese Michael

Alexander, come opere inerentemente “di palinsesto”, perseguitate ogni istante dal testo che in

esse è stato adattato. Se conosciamo questo testo precedente, sentiamo sempre la sua

presenza accompagnare quello che siamo impegnati a fruire.

Quando definiamo adattamento una data opera, affermiamo esplicitamente la sua

scoperta relazione con un’altra opera, o con più d’una. È quello che Gérard Genette

chiamerebbe un testo «di secondo grado»3, la cui creazione e successiva ricezione avvengono in

relazione a un testo precedente. È per questo motivo che gli studi sugli adattamenti sono spesso

anche studi comparatistici. Questo non vuol dire che gli adattamenti non siano anche opere

autonome che possono essere interpretate e valutate in quanto tali; ovviamente lo sono, come

molti studiosi hanno sostenuto. Quando un film diventa un successo commerciale o della critica,

la questione della sua fedeltà perde il più delle volte gran parte della sua importanza. Un

adattamento è una ripetizione, ma è una ripetizione che non vuol dire replicazione. È di tutta

31982, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, trad. it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado, a cura
di Raffaella Novità, Torino, Einaudi, 1997, p. 8.

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evidenza, d’altronde, il fatto che un adattamento possa essere motivato da molte e diverse

finalità: l’intenzione di disperdere e cancellare la memoria del testo adattato è tanto plausibile

quanto il desiderio di tributargli omaggio copiandolo. Adattamenti come i remake

cinematografici possono addirittura essere considerati un mix di diversi intenti. Hutcheon afferma:

Esclusa l’idea di fedeltà, quale principio paradigmatico dovrebbe allora essere messo alla

base di un’odierna teoria degli adattamenti? Secondo il dizionario “adattare” significa sistemare,

alterare, rendere idoneo. Ciò può essere fatto in qualsivoglia maniera. […] Un adattamento è un

fenomeno che può essere definito sulla base di tre distinte ma interconnesse prospettive; non è

un caso pertanto se la stessa parola, adattamento, viene adoperata per riferirsi sia al processo

che al prodotto.

Considerato nei termini di un’entità formale o di un prodotto, un adattamento è una

trasposizione dichiarata ed esauriente di una data opera o di più opere. Tale “transcodificazione”

può comprendere un cambio di medium (per esempio una poesia volta in film) o di genere (un

poema epico in romanzo) o della struttura complessiva del racconto e quindi del suo contesto:

raccontare la stessa storia da un diverso punto di vista, ad esempio, può determinare

un’interpretazione palesemente differente. Una trasposizione può anche determinare un

cambiamento dello status ontologico di un racconto da reale a finzionale, da una ricostruzione

storica o biografica al dramma o a una narrazione di tipo finzionale. Il libro del 1994 di suor Helen

Prejean, Dead Man Walking (Condannato a morte), è stato trasfor- mato prima in un film (di Tim

Robbins, 1995) e poi, pochi anni più tardi, in un’opera lirica (scritta da Terrence McNally e Jake

Heggie).

Ancora, in quanto specifico processo creativo, realizzare un adattamento implica sempre

sia una (re)interpretazione che una (ri) creazione; a ciò si è fatto riferimento, a seconda della

prospettiva adottata, nei termini di un’appropriazione o di una conservazione. Infine, valutato

nella prospettiva del proprio processo di ricezione, gli adattamenti sono una forma di

intertestualità: abbiamo esperienza (in quanto adattamento) di un adattamento come di un

palinsesto che lascia trasparire nella nostra memoria opere precedenti, rievocate per mezzo di

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iterati processi di ripetizione con variazione. Per un pubblico adeguato, allora, la “messa in

romanzo” di Hellboy (2004) realizzata da Yvonne Navarro può evocare non soltanto il film di

Guillermo del Toro, ma anche la serie a fumetti della Dark Horse, dal quale quest’ultimo è stato

adattato. Analogamente, Resident Evil, il film di Paul Anderson del 2002, sarà fruito in modo

diverso a seconda che lo spettatore abbia o meno giocato al videogioco omonimo, dal quale il

film è tratto. Secondo Hutcheon, un adattamento può essere descritto:

• Come la trasposizione dichiarata di una o più opere che è possibile riconoscere;

• Come un atto creativo e interpretativo di appropriazione/conservazione;

• Come un ampio confronto intertestuale con l’opera adattata.

Per queste ragioni, un adattamento è una derivazione non derivativa, un’opera seconda

che non è però secondaria. In questo consiste la sua specifica qualità di palinsesto. 4 Passiamo

ora a un caso studio che ci permette di soffermarci su alcune modalità con cui è stato compiuto

un adattamento cinematografico di un’opera del canone occidentale.

4 Ivi, p. 28.

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2. Adattare la Recherche di Proust

Nel 1999 esce nelle sale Le Temps retrouvé (Il tempo ritrovato) del regista cileno Raoul Ruiz,

il quale, affiancato dallo sceneggiatore Gilles Taurand, mette in scena l'ultimo volume di La

recherche du temps perdu (La ricerca del tempo perduto) di Marcel Proust.

Nella storia dell'adattamento cinematografico della Recherche, il film di Ruiz è seguente a

quello realizzato da Volker Schlöndorff nel 1984, Un Amour de Swann, e precede La Captive

(2000) di Chantal Ackerman. Si tratta di un'impresa ambiziosa che vanta precedenti importanti,

come Luchino Visconti, che iniziò il progetto con la sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico per

poi abbandonarlo. Per restare nell'ʹambito delle sceneggiature, altri nomi da giganti emergono:

Ennio Flaiano e Harold Pinter. Quest'ultimo scrisse la sceneggiatura nel 1973 per Joseph Losey.

Neanche questa si tramutò in pellicola ma vide almeno la pubblicazione nel 1978 con il titolo The

Proust Screenplay (trad. it. Marcel Proust, Una sceneggiatura)5.

Oltre alla naturale soggezione verso la grandezza degli autori già cimentatisi con la

rivisitazione dell'opera e la “maledizione” che ha impedito alle sceneggiature precedenti di

tramutarsi in testo audiovisivo, Ruiz ha dovuto affrontare, ovviamente, anche le attese (e le

pretese) dei lettori e degli specialisti in ambito accademico di quel monumento della letteratura

europea novecentesca che è A la Recherche du temps perdu.

Poiché gran parte dei giudizi negativi che seguirono l'opera di Ruiz partirono dall'assunto

dell'intraducibilità della poetica della Recherche in un'opera cinematografica 6, questa lezione

mira a comprendere la relazione che il testo filmico stabilisce con il testo letterario, l'ipotesto.

5 Per uno studio storico e teorico sugli adattamenti cinematografici della Recherche, cfr. Al cinema con Proust di Anna
Masecchia (2008).
6 In termini più specifici, "traduzione intersemiotica", o "trasmutazioneʺ (Jakobson 1966, p. 53). Per uno studio specialistico,

cfr. Dusi 2003: «[...] Si dà traduzione intersemiotica quando vi è la riproposta, in una o più semiotiche con diverse materie e
sostanze dell'ʹespressione, di una forma del contenuto intersoggettivamente riconosciuta come legata, ad uno o più livelli
di pertinenza, alla forma del contenuto di un testo di partenza» (p.9).

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Come è stato spiegato in ambito letterario e semiotico, un’unica forma del contenuto, infatti,

può sempre essere espressa, rivestire, sostanze e forme dell'ʹespressione differenti.7

Nel celebre saggio del 1971, Contre Sainte-Beuve, Proust afferma:

Lo stile non è affatto, come credono alcuni, un abbellimento, non è nemmeno una

questione tecnica, è – come il colore per i pittori – una qualità della visione, la rivelazione

dell’universo particolare che ognuno di noi vede e che gli altri non vedono. 8

In quest'ottica, ci concentremo su alcune soluzioni formali adottate dal regista, partendo

dall'idea che queste scelte siano alla base del tentativo di trasposizione, sul piano del contenuto

e dell'espressione, della ʺqualità di visione" di Marcel Proust, di difficile transcodificazione per

raffinatezza concettuale e linguistica e densità narrativa.

Non potendo analizzare nel dettaglio tutte le sequenze, mi soffermerò su alcuni segmenti

filmici con una prospettiva volta a cogliere la pertinenza delle scelte interpretative e della resa

dei ʺcorrelativi audio-visivi"9 operati dal regista/autore. Nell'indagare la relazione traduttiva e le

forme dell'ʹespressione concretizzate nel testo d'arrivo, particolare interesse sarà riservato al

movimento: i movimenti di macchina e i movimenti nel quadro, i movimenti degli oggetti e i

movimenti dei personaggi.

7 Si veda di Nicola, Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all'ʹaltro: letteratura, cinema e pittura, Torino, UTET,
2003, p. 159.
8 Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, 1971, p. 559.
9 Cfr. Hutcheon 2011.

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3. Trasposizioni: il narratore

Tra le prime questioni da risolvere che dovettero porsi a Ruiz e a Taurand, certamente non

di secondaria importanza fu la questione della rappresentazione del narratore. Come

rappresentare il narratore proustiano, il quale, come è stato infinitamente sottolineato da tanta

letteratura critica, non essendo la Recherche un'autobiografia nel senso classico, non coincide

con l'autore? Come mettere in scena quella che Leo Spitzer, studioso di Proust, ha definito ʺla

misteriosa dialettica di due io, di un io superiore che racconta e di un io coinvolto che esperisce

in modo oscuro"? 10

Inizialmente, nel progetto del regista, il narratore doveva essere rappresentato da

un'immagine riflessa, visibile da lontano, soluzione che venne abbandonata per il costo e la

lunghezza dei tempi di realizzazione. Il riflesso del narratore divenne invece una figura in carne e

ossa personificata dall'attore italiano Marcello Mazzarella, il quale inizialmente doveva apparire in

modo liminare e infine venne coinvolto sempre di più nella recitazione.

ʺLe narrateur est un point de vue de l’écrivainʺ [il narratore è un punto di vista dello

scrittore], dichiara Ruiz11. In effetti, il volto prevalentemente serafico e attento di Mazzarella

sembra aderire alla proiezione visuale di un Je che, riprendendo Spitzer, “riflette” e “ricorda”: ʺil

narratore". Nel farlo, il narratore richiama alla memoria i momenti passati con quella ʺsuperiore

serenità" che deriva dalla distanza tra tempo della narrazione e tempo di ciò che viene narrato12.

Tuttavia, in alcuni passaggi, si direbbe invece che il narratore – sempre usando la terminologia di

Spitzer – lasci il posto a uno dei moi raccontati: un io ʺche esperisce", ovvero, Marcel.

Nel film, Marcel, in quanto “io ricordato”, riserva la narrazione dell'esperienza alla voce

fuori campo, che corrisponde a un’esplicitazione del narratore. Questa voce affiora nei passi in

cui la narrazione si fa più densa e diviene riflessione estetica e poetica. Si direbbe che le due

10 Leo Spitzer, Stilstudien (1928), trad. it Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Torino, Einaudi, 1959, p.
478.
11 Bonnaud Frédéric, ʺRaoul Ruiz–du côté de chez Ruiz", Les Inrockuptibles,12/05/1999,

http://www.lesinrocks.com/1999/05/12/cinema/actualite-cinema/raoul-ruiz-du-cote-de-chez‐ruiz-11219977, online.
12 Leo Spitzer, cit., p. 449.

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prospettive dell'io che ricorda e dell'io ricordato coesistano nel personaggio impersonato da

Mazzarella.

Talvolta egli appare come un io appassionato e interessato, altre volte come un io

concepito come narratore e pensatore impassibile, un Je nascosto. La trasposizione operata dal

film, attraverso la strategia formale e il lavoro attoriale, esprime, attraverso l’immagine in

movimento, una caratteristica della prosa di Proust. Tale caratteristica è stata spiegata da Mario

Lavagetto – critico letterario che ha insegnato teoria della letteratura presso l’Università di

Bologna, e specialista di Proust – come un ʺprezioso impianto di registrazione, grazie a cui il

narratore riesce a sentire e a vedere anche ciò che non dovrebbe verosimilmente né sentire né

vedere"13.

13 Mario Lavagetto, Stanza 43, Torino, Einaudi, 1991.

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4. Trasposizioni: la stanza

L'indeterminatezza che avvolge la notte insonne del narratore, nel celebre incipit

ʺLongtemps je me suis couché de bonne heure" [Per molto tempo, mi sono coricato presto la

sera]14 si traspone nel film di Ruiz nel mutare della stanza in cui lo scrittore (André Engel) trascorre,

morente e intento a dettare la sua opera a Céleste Albaret (Mathilde Seigner), gli ultimi anni della

sua vita.

La stanza parigina di Rue Hamelin, luogo della memoria che si volge indietro e evoca il

passato, muta a seconda dei punti di vista nei quali siamo proiettati. Nel corso del dialogo tra lo

scrittore e Céleste, vediamo dei cambiamenti di inquadratura che differiscono per variazioni di

scala e di angolatura. Quando Céleste si rivolge allo scrittore vediamo una stanza carica di

oggetti e statue in continuo movimento. Quando siamo con lo scrittore la stanza è sgombra e,

alle spalle di Celeste, vediamo il cielo azzurro irrompere nell'oscurità della stanza, come in un

quadro surrealista, dove l'esterno abita lo spazio interno e l'esteriorità penetra nell'interiorità. Una

terza prospettiva, esterna, neutra, ci mostra la stanza in un modo ancora differente: più grande e

più essenziale, in modo realistico, senza oggetti e porte sul mondo esterno. Ruiz ha rivelato di

avere utilizzato due stanze, una molto piccola e una più grande. La grandezza della stanza

grande e dei suoi mobili rispetto alla piccola stava di una volta e mezzo rispetto alla piccola.

14Cfr. Proust, Du côté de chez Swann, I, 1954, p. 3; trad. it. Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, a cura
di Mariolina Bongiovanni Bertini, Milano, Einaudi-Mondadori, 7 voll., 1970, vol. 1, p. 5.

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In questo gioco di spazi incessantemente ricomposti e prospettive deformate, ci vengono

presentati i personaggi, i quali, dopo una certa difficoltà (dalla valenza simbolica) esibita nella

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messa a fuoco della lente, affiorano dalla carta ingiallita delle fotografie: la mamma, la nonna,

Robert de Saint--‐‐Loup, Odette, il barone di Charlus, Gilberte... immagini del passato che

prendono vita trasportandoci nell'ʹesistenza del narratore, in altri tempi e luoghi.

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5. Trasposizioni: la memoria involontaria

Rispetto al romanzo, sono le foto, in luogo della madeleine, a costituire l'oggetto materiale

che fa scaturire quell'impressione alla base della reminiscenza e ad aprire la porta verso il tempo

perduto. Dalle immagini, sfogliate nella stanza dell'appartamento parigino che costituì la sua

dimora nel tempo finale della composizione artistica, prendono vita le persone che costellarono

la vita del narratore. Lo snodarsi di questi ricordi costituisce nel film l'ossatura che contiene al suo

interno la rappresentazione dei momenti proustiani: le reminiscenze della memoria involontaria e

le scoperte.

E così Marcel bambino ci conduce, dopo i ricevimenti dai Verdurin, all'interno del Palazzo

dei Guermantes, in quella matinée illustrata nell’ultimo volume della Recherche di Proust, Il tempo

ritrovato, dove i personaggi che hanno costellato la sua vita sono segnati dagli effetti pietrificanti

del Tempo, nel suo doppio effetto di decadenza fisica, immutabilità di regole mondane e

cambiamento delle gerarchie sociali. Nell'opera di Ruiz, la matinée non costituisce una cellula

unitaria, ma ritorna come un motivo che interseca le altre sequenze del film, corrispondenti ad

altri momenti del passato. Nelle sequenze del ricevimento, nel flusso di persone che si cercano e

si respingono, si scrutano e recitano la loro parte, una persona si distingue, ancora una volta

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto
da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi
e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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discutibile, elegante e impudente, non assimilata, con il suo linguaggio infarcito di anglismi e i suoi

movimenti contro corrente, ovvero in direzione contraria a quelli dei personaggi che la

circondano: Odette (Catherine Deneuve), una volta Mme De Crecy, poi Mme Swann e infine

Mme de Forcheville. È lei che, con la sua libertà di movimento, spalanca la porta sulla luce

bianca che ci introduce alle stanze del narratore.

Come in un caleidoscopio, attraverso il trucco delle dissolvenze incrociate, balenano le

stanze evocate dalla memoria del corpo15: la stanza nella casa dei nonni a Combray, la stanza

dell'infanzia; la stanza nel Grand-Hôtel di Balbec, la stanza dell'adolescenza; la stanza nel castello

di Tansonville, in visita da Mme Sant-Loup, che corrisponde ad un tempo ancora successivo e che

costituisce il luogo dal quale prende avvio la narrazione nel Tempo ritrovato.

15 Per rintracciarle nel romanzo, si veda La strada di Swann, pp. 8-11.

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6. Montaggio, temporalità e oggetti-soglia

Nel film ricorre la lanterna magica16, il genio che nel romanzo domina l'interno della

camera dell'infanzia e ne trasforma le pareti in un teatro di immagini fiabesche, sagome e gesta

di personaggi dai nomi evocativi, come Golo e Geneviéve de Brabante. Qui, sebbene l'opera di

Ruiz sia un adattamento dell'ultimo volume della Recherche, il riferimento è alla sezione

"Combrayʺ che inaugura il primo volume Du côté de chez Swann (La strada di Swann), come

altrove nel film, disseminati, figurano riferimenti agli altri volumi dell'opera.

Se la lanterna magica – analogamente al movimento mnemonico e della cinepresa – fa

scorrere le immagini sovrapponendo le une alle altre, il montaggio (strumento principe per la resa

delle relazioni metaforiche) trasforma in immagini filmiche i rimandi della memoria, i balzi nel

tempo. Oltre al montaggio, anche i movimenti di macchina, che nel loro essere non occultati ma

esibiti posseggono una forte valenza lirico-soggettiva17, concorrono a ʺmettere in quadroʺ con la

dovuta densità di connessioni le principali isotopie tematiche: il gioco della memoria, le

reminiscenze, il tempo ritrovato. Come, ad esempio, nella sequenza in cui il narratore bambino

discende dall'alto nel parco di Tassonville, situato nella parte di Méséglise (la parte di Swann),

dove si andava a passeggiare quando il tempo era incerto. Nel romanzo, il narratore incontra per

la prima volta Gilberte bambina ai limiti del parco; la scena 18 è rappresentata nel film come un

breve rimando incastonato tra diversi momenti del passato. Il volto di Gilberte si trasfigura nelle

sembianze dell'amica adulta, ormai moglie di Robert e castellana, e dal giardino veniamo

trasportati all'interno del castello, nel cui salotto si tiene la conversazione tra Marcel e Gilberte

raccontata in Tansonville, prima parte del Tempo ritrovato.

Le ellissi e i flashback, che nel romanzo governano il movimento del ricordo e sono

suggeriti attraverso l'alternanza dei tempi verbali, la ricchezza dei dettagli e incastonati nella

16 Ivi, pp. 11-12.


17 Sui modi della qualificazione filmica, si veda di Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Milano, Bompiani, 2011, pp. 284-
285.
18 Nel romanzo, cfr. Dalla parte di Swann, cit., pp. 140-141.

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complessa architettura dell'opera, nel film di Ruiz vengono dati attraverso il montaggio, che

quando è secco raccorda delle scene che permettono di riconoscere il cambio di cornice

temporale tramite indizi, rimandi e indicatori cronologici, come la scenografia che varia

dall'arredamento fin de siècle (la stanza borghese di Combray, i fastosi salotti dei palazzi

Guermantes e Tansonville) fino all'Art Decò e al Liberty che punteggia gli arredi della stanza dello

scrittore e l'abbigliamento degli invitati alla matinée.

Un esempio di oggetto-soglia, che dà avvio al passaggio di cornice è il manifesto

pubblicitario di una marca di cioccolato19 in cui si imbatte il narratore nel corso di una deriva che

lo porta nei pressi dell'albergo frequentato dal barone di Charlus. Qui lo stacco ci riporta al primo

soggiorno a Balbec e al primo incontro con Charlus 20, impersonato nel film da un magnifico John

Malkovich.

19 Nella Recherche, non viene esplicitato il contenuto del manifesto osservato da Charlus. Come sostiene Dusi,
«aggiunzioni o sottrazioni, in una trasposizione, risultano parte di una precisa strategia narrativa ed enunciataria» (Dusi
2003: 127).
20 Cfr. Proust, A l'ʹombre des jeunes filles en fleurs, I, 1954: 751-756, trad. it. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri,

All'ʹombra delle fanciulle in fiore, II, 1970: 328-330.

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In questo caso l'operatore‐tempo21 ci riporta in un tempo anteriore grazie all'indizio del

manifesto, soglia spazio-temporale che ci conduce nel mondo dell'adolescenza del narratore,

rappresentato dalla spiaggia di Balbec e dagli arredi della sala da pranzo del Grand-Hôtel. Le

transizioni tra le scene si fanno a partire da impressioni sottili, vaghe, corrispondenze legate alla

memoria involontaria. Qui entrano in gioco le scelte del regista, che mette in scena delle

corrispondenze che non si ritrovano nel testo, ma che ne restituiscono lo spirito.

Alla domanda di Frédéric Bonnaud (1999), il quale chiede al regista se il suo film sia un

adattamento o una lettura della Recherche, Ruiz risponde definendolo un’"adoptionʺ (adozione).

Attraverso un procedimento che ricalca i passi del lavoro onirico, la trasposizione

21 Cfr. Grande 1997: 88.

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cinematografica prende alcuni elementi del romanzo e li rielabora, attraverso dei processi di

ricomposizione dell'immagine che possono donare al testo originario nuova forza e significato22.

22Per una trattazione della poetica di Raoul Ruiz, e della sua visione della Recherche come testo mistico cfr. il capitolo "Le
temps rétrouvé di Raoul Ruizʺ, in Masecchia 2008. Segnalo in particolare i brani del saggio della studiosa focalizzati
sull'ʹanalisi di come il film di Ruiz restituisca in immagini audiovisive il procedimento sinestetico dominante nella scrittura di
Proust.

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 Masecchia, Anna, Al cinema con Proust, Venezia, Marsilio, 2008.

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Indice

1. IL TEMPO RITROVATO, DA MARCEL PROUST A RAOUL RUIZ ................................................................. 3


2. TRASPOSIZIONI: IL CAMPANILE DI SANT’HILAIRE .................................................................................. 6
3. DALLA FRASE PROUSTIANA ALL’IMMAGINE MOVIMENTO ................................................................... 8
4. PERSONAGGI E GELOSIA ...................................................................................................................... 10
5. RISPECCHIAMENTI DEL DESIDERIO ....................................................................................................... 12
6. TRASPOSIZIONI: LO SNOBISMO ............................................................................................................ 17
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 20

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1. Il tempo ritrovato, da Marcel Proust a Raoul Ruiz

Prima di tutto, qualche cenno su Marcel Proust e la genesi di La Recherche du temps perdu

(La ricerca del tempo perduto).

Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust (1871 – 1922) nasce da famiglia alto borghese

ad Auteuil, sobborgo di Parigi. Oggi Auteuil è parte della città, ma allora era luogo di villeggiatura

fuori porta frequentato dalle famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. I genitori vi si erano

trasferiti temporaneamente per via dei moti della Comune di Parigi. Nel 1894 scoppia l'affare

Dreyfus, del quale Proust fu un testimone diretto, assistendo al processo. Fu uno dei primi sostenitori

di una petizione a favore del capitano francese accusato di tradimento, e la fece firmare ad

Anatole France. Dopo aver frequentato con ottimi risultati il Liceo Condorcet ed aver conseguito il

premio d'onore nella dissertazione di francese agli esami di baccalaureato nel 1889, Proust si

arruolò come volontario nel 76mo Reggimento di fanteria di stanza ad Orléans. L'esperienza

militare termina in modo deludente, perché non venne considerato idoneo: Marcel soffriva sin da

bambino di una forma di asma che diventerà cronica. Continuò a vivere nell'appartamento dei

suoi genitori (in Boulevard Malesherbes) fino alla morte di essi. La madre Jeanne muore nel 1904.

Le origini della Recherche sono da rintracciare nell’opera Jean Santeuil, che esprime la crisi

del romanzo di formazione, nell’impossibilità del ricongiungimento tra il tempo della formazione

individuale e il tempo della storia. Proust cominciò a lavorarci nel 1895, durante una vacanza a

Beg-Meil, in Bretagna. In quest’opera trapela l’influenza di Bergson, e i suoi Essai sur les données

immédiates de la conscience (1889), e Matière et mémoire (1896).

Dopo il testo critico Contre Sainte-Beuve, Proust scrive i due volumi Le intermittenze del

cuore (1912), che costituiranno i primi nuclei della Recherche vera e propria. Da dicotomica

(passato-presente, infanzia-maturità, vita e opera...) l’opera diventerà una struttura dialettica, con

la sintesi nell'ultimo volume, Il tempo ritrovato. Il filo conduttore che lega i volumi è la storia di una

vita in cui, dall'infanzia alla maturità, la vocazione per la letteratura, invisibile, è il tratto essenziale.

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Ogni sezione corrisponde a un momento di questa vita, a un luogo e a un ambiente attraversato,

una tappa verso la rivelazione finale, a un amore.

La pubblicazione avviene gradualmente, a mano a mano che Proust completa i singoli

volumi, in un arco di tempo abbastanza lungo (concluso dalla sua morte, nel 1922; gli ultimi tre

volumi escono postumi). Con una sintesi assolutamente parziale della struttura dell’opera, e dei

temi in essa trattati, ma utile a introdurre i paragrafi seguenti riguardanti aspetti dell’adattamento

del romanzo da parte di Ruiz, si può ricordare che:

Il primo volume, Dalla parte di Swann o La strada di Swann (Du côté de chez Swann, 1913)

racconta del luogo dell'infanzia del narratore; il secondo, All'ombra delle fanciulle in fiore (À

l'ombre des jeunes filles en fleurs, 1919, premio Goncourt), è il romanzo della giovinezza; I

Guermantes (Le côté de Guermantes, 1920) narra del luogo mondano più eletto della società

parigina: il salotto dei Guermantes; Sodoma e Gomorra (Sodome et Gomorrhe, 1921-1922)

introduce l’omosessualità di Charlus, il secondo soggiorno a Balbec, il ricordo lancinante della

nonna e le intermittenze del cuore, e il ritrovamento di Albertine; La prigioniera (La prisonnière,

1923) narra la convivenza con Albertine e parla del tema della gelosia (insieme a molti altri temi) e

dell'arte che può vincere il tempo, la caducità, la morte; La fuggitiva o anche Albertine scomparsa

(La fugitive ossia Albertine disparue, 1927) narra la morte di albertine e la gelosia retrospettiva.

Infine Il tempo ritrovato (Le Temps retrouvé, 1927) pubblicato nel 1927, racconta l’attraversamento

di una crisi, la delusione verso la letteratura, la rinuncia del narratore a divenire scrittore, la Parigi

nel dopo guerra, la degradazione del barone di Charlus, la morte di Saint-Loup, l’ingresso dei

Verdurin nell'alta società, con il relativo mutamento dei confini tra le classi sociali, e infine, la

scoperta della vocazione, con cui si conclude, in modo circolare, tutta l’opera, rivelando la

complessa architettura che la comprende. È importante ricordare che esistono delle forti

corrispondenze tra il primo capitolo del primo volume e l’ultimo capitolo dell’ultimo volume. Il film di

Ruiz, che ovviamente per ragioni di formato non può che fare una scelta e una condensazione

delle parti dell’opera, parte proprio da questa corrispondenza.

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In questa lezione ci occuperemo del processo di adattamento, dal romanzo al film,

rappresentato da Le Temps retrouvé (Il tempo ritrovato) di Raoul Ruiz (1999). Mi soffermerò su alcuni

temi e aspetti formali specifici, concentrandomi sulle scelte operate dal regista nel trasporre

nell’immagine filmica temi e aspetti formali, particolarmente complessi, di un’opera considerata

uno dei monumenti della letteratura occidentale. Ricordo rapidamente l’importanza del rapporto

tra luoghi e memoria nel romanzo. Lo spazio è narrato anche come sogno e desiderio, e i luoghi

sono oggetto di una geografia immaginaria, creati dallo spirito. Anche quando lo spazio diventa

una forma del reale, esso resta sempre legato al punto di vista, all'impressione. I luoghi, immaginari

o reali, organizzano anche la struttura del racconto: Combray, Balbec, Parigi, Doncieres, Venezia.

Combray è la piccola capitale dell'infanzia; Balbec la città dell'adolescenza, del mare e

dell'amore. Molteplici i significati legati a Parigi, luogo: degli amori infantili e adulti, della vita

mondana, delle perversioni sessuali, della guerra durante la quale la capitale diviene Sodoma e

Pompei, e infine la città del tempo ritrovato, ciò che le permette di essere contemporaneamente,

in un lampo, tutte le città.

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2. Trasposizioni: il campanile di Sant’Hilaire

In Combray, la prima sezione del volume La strada di Swann, il campanile di Saint-Hilaire

ricopre un ruolo centrale1, è la cosa che più di ogni altra esprime l'essenza della cittadina: il

campanile, visibile da varie prospettive, rappresenta l'intera chiesa e il tempo in essa custodito, nei

suoi aspetti più misteriosi e affascinanti. Come evidenziato da H.R. Jauss, se la chiesa di Saint-Hilaire

incarna la dimensione del tempo, il campanile diviene il rappresentante dell'ordine del tempo:

«C'était le clocher de Saint-Hilaire que donnait à toutes les occupations, à toutes les heures, à tous

le points de vue de la ville, leur figure, leur couronnement, leur consécration» [Il campanile di

Sant'Ilario, a tutte le occupazioni, a tutte le ore, a tutti i punti di vista della città dava un aspetto, un

compimento, una consacrazione] 2. Gli strati temporali che lo abitano lo rendono cangiante così

come il suo colore, che muta a seconda dell'ora, della prospettiva e degli elementi che gli sono

accostati.

«Combray risorge come "mondoʺ chiuso, come scena unitaria in cui, nella sfera magica di

Saint-Hilaire, può tornare a manifestarsi tutto il passato, intatto e fresco, come i vasi ermetici delle

ore che hanno saputo conservarlo»3. Anche nel volume Il tempo ritrovato, quando il narratore è

ospite da Gilberte, nella stanza del castello, ritorna l'immagine del campanile: una delle tante

simmetrie dovute al fatto che, come è noto, il primo e l'ʹultimo volume furono concepiti nello stesso

periodo. Nel film di Ruiz, così come nella prima pagina del volume 4, il campanile compare, come

da distanze lontane, nel quadro della finestra, incorniciato dal verde brillante delle foglie degli

alberi che si levano scintillanti sui laghi della tenuta. Ancora una volta il colore è differente, questa

volta blu scuro per la distanza che lo fa stagliare sul cielo azzurro.

È interessante ricordare le considerazioni di Ernst Robert Curtius nel suo celebre studio su

Proust del 1925, a proposito dell'uso della prospettiva nella narrazione proustiana, che egli fece con

1
Sulla densità simbolica del campanile, si veda Reneé Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano,
Bompiani, 1965, pp. 186-187.
2 Cfr. Proust, La recherche, I, 1954, pp. 64-67, trad. it., I, 1970, pp. 63-67.
3 Hans Robert Jauss, Zeit und Erinnerung in Marcel Prousts A la recherche du temps perdu. Ein Beitrag zur Theorie des Romans

(1986), trad. it. Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust, Firenze, Le Lettere, 2003, p.137.
4 Cfr. Proust, Le Temps retrouvé, III, 1954: 697‐-698, trad. it. di Franco Fortini, Il tempo ritrovato, VII, 1970: 7-8.

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l'analisi dei brani sui campanili di Martinville5 (e anche delle descrizioni della brigata delle fanciulle

a Balbec, simile a una composizione di gabbiani) 6:

Non è la visione di tranquilli strati dello spazio che si susseguono, al digradare della distanza

si aggiunge la visione simultanea dei due movimenti che operano nello stesso tempo ma in piani

situati in diverse dimensioni di profondità. La correlazione dei due movimenti colta con uno

sguardo prospettico: questa è certo un'impressione la cui eccitazione visiva si accompagna in

Proust a un’estrema esaltazione spirituale [...] Le cose più lontane si toccano con quelle più vicine. 7

Tenendo conto della poetica esplicita del regista, che si rifà ai modelli del lavoro onirico

analizzati da Freud, la trasposizione filmica del campanile di Saint-Hilaire sembra essere la

condensazione di quella "modalità della visione", che permea nel romanzo i momenti di epifania

del narratore, forma e sostanza dello stile di Proust.

L'importanza di questa visione emerge dal trattamento dell'immagine: il campanile

compare incorniciato dalla finestra della camera parigina dello scrittore 8 in tutta la sua artificiosità

scenografica, accompagnato dal movimento accelerato degli alberi, che posizionati su delle

pedane mobili scorrono creando delle distorsioni prospettiche ricorrenti ogni qual volta succede

qualcosa di straordinario nella visione; ogni qualvolta subentrano, nel campo di visione, dei "segni

della memoria (e della vita)" o dei "segni dell'arte" reminiscenze, resurrezioni poetiche e,

nell'accezione deleuziana, scoperte.9

5 Cfr. A la recherche, I, 1954: 180-182, trad. it., I, 1970: 178-180.


6 Proust, A lʹOmbre des jeunes filles en fleurs, I, 1954: 788-790, trad. it. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri, All'ʹombra delle
fanciulle in fiore, II, 1970: 364-369.
7E.R. Curtius, Marcel Proust (1925), Bologna, Il Mulino, 1985, p. 93.
8 Variazione (di natura onirica) rispetto al testo originario.
9 Vedi il frammento del film nel materiale didattico.

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3. Dalla frase proustiana all’immagine movimento

In un adattamento della Recherche, un'altra questione cruciale impossibile da evitare

riguarda lo stile, elemento di importanza non trascurabile data la forza dell'abbraccio tra forma e

sostanza incarnato nell'opera. Come tradurre in immagine l'architettura del periodo proustiano,

con la sua discesa a cascata e i suoi diversi rivoli confluenti infine nel corso maggiore? La

differenza del medium impone una resa della densità rappresentativa e concettuale che non può

evidentemente appoggiarsi al tempo diacronico dello scorrere della frase, nelle sue intricate e

avvolgenti articolazioni sintattiche.

La ricchezza contenutistica della scrittura proustiana, che si svela al lettore nella linea del

tempo della lettura, trova equivalenza nella saturazione dell'immagine filmica di Ruiz, in uno

slittamento che ci sposta dall'asse del tempo a quello dello spazio 10. Lo spettatore, a differenza del

lettore, anziché percorrere senza perdersi – oppure, sempre citando Proust, perdendosi e

ritrovandosi – i sentieri dei sintagmi, deve abbracciare con lo sguardo un'immagine la cui

saturazione è affidata a dei criteri compositivi di natura pittorica e filmica, di natura fortemente

spaziale e multiprospettica. Qui entrano in gioco i piani sequenza, che si rinviano vicendevolmente

come in un gioco di specchi, oggetti che d'altronde popolano il set del film. È come se la

lunghezza della frase venisse transcodificata con la densità dell'immagine, dal primo piano agli

sfondi. Questa profondità del piano e questa articolazione in diversi livelli, consente allo spettatore

di soffermarsi su diversi aspetti, così come il lettore può scegliere diverse diramazioni semantiche

nello snodarsi della frase, indugiando sui ricchissimi incisi o prediligendo le anse del "corso"

principale.

Così nell'inquadratura di Ruiz possiamo scegliere di soffermarci sulla finestra aperta

spalancata sul cielo azzurro e sul suono dello stormire delle fronde, oppure sul movimento

10 Come vedremo più avanti, la forte atmosfera onirica che permea il film, favorisce questo slittamento. Sull'ʹimportanza del
sogno come "maestro di un intreccio tra spazio e tempo" nella Recherche, si veda di Liliana Rampello, La grande ricerca: «Il
sogno è un altro tempo perché è un tempo sottomesso allo spazio, allo spazio intrecciato in simultaneità: quando
ricordiamo un sogno [...] abbiamo negli occhi e nella mente un quadro, dentro cui tutto ciò è avvenuto, non importa se
lentamente o a velocità̀ pazzesca, perché ciò che prevale è la cornice che tiene insieme i tempi interni del sogno» (pp.
63-64).

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innaturale in primo piano delle statue che ricorre ciclicamente quando il tempo perduto sta

riaffiorando alla memoria, accompagnato dal leitmotif sonoro di Jorge Arriagada. L'ostentazione

del trucco cinematografico – in questo caso lo scorrere delle statue su invisibili pedane mobili (cosi

come il movimento degli alberi intorno al campanile) – attraverso la manipolazione esplicita

dell'immagine, rientra in quei procedimenti retorici che Christian Metz definisce "marche di

enunciazione" filmica11. Come una sorta di tableau di un teatro di posa, la finestra incornicia il

movimento degli alberi intorno al campanile. Lo scorrere degli alberi, attraverso un movimento di

distorsione prospettica nel piano sequenza, esprime al tempo stesso la vita e la forza dell'immagine

evocata, così come la relatività e il divenire di oggetti ed esseri viventi nel tempo e nello spazio, a

seconda del punto di vista osservante. Analogamente accade nell'interno della stanza, dove le

statue in primo piano, scorrono con un movimento indipendente, ritornando in una posizione

sempre diversa, sia nel gioco della disposizione reciproca sia rispetto al punto di vista.12

Se nel romanzo i campanili di Martinville rappresentano l'oggetto della prima esperienza

estetica – che li vede trasfigurarsi, attraverso la forza della metafora, in creature descritte da

molteplici punti di vista e animate da un movimento di unione – nel film di Ruiz, il campanile di

Saint-Hilaire condensa con la sua rappresentazione il processo di reminiscenza e trasfigurazione

poetica. Inoltre, il campanile è visto dall'interno di una stanza, il luogo per eccellenza in cui, grazie

alla solitudine e al lavoro della scrittura, il tempo viene ritrovato e restituito. Sul piano

dell'espressione, questo si esprime da una parte grazie a elementi compositivi e profilmici,

all'artificiosità dei colori, alla cura dell'inquadratura e all'ʹatmosfera luministica, dall'altra, attraverso i

trucchi possibili ai movimenti di macchina, che producono distorsioni prospettiche e accelerazioni

innaturali. L'insieme di queste cose produce la dimensione onirica e lʹeffetto pittorico che

caratterizza il film. La voce fuori campo, chiaro indicatore del tempo, ci trasporta nelle pagine del

libro e unisce la descrizione della parola letteraria con l'immagine‐movimento data dal codice

filmico, permeata da una forte carica visionaria e surreale.

11 Christian Metz, La significazione nel cinema, Milano, Bompiani (1972), 1975, p. 278.
12 Vedi il frammento del film nel materiale didattico.

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4. Personaggi e gelosia

La rievocazione del soggiorno del narratore a Tansonville, recatosi a far visita a Gilberte (ora

Mme de Saint-Loup), è la sequenza che dà avvio alla rappresentazione del tema della gelosia e

del desiderio inappagato, che non risparmia quasi nessun personaggio. Le sofferenze della gelosia,

che si mescolano al tema dell’omosessualità maschile e femminile, dominano molti dei rapporti a

due rappresentati nel film: Gilberte e Robert, Robert e Morel (Vincent Perez), Charlus e Morel, il

narratore e Albertine. I personaggi sono descritti nel loro mutare nel tempo, così come i loro ruoli e i

rapporti di potere che hanno l'uno verso l'altro. Gilberte, fonte di sofferenza e oggetto di

adorazione da parte del narratore (consapevole da bambina del suo potere sul narratore), soffre

di una gelosia per Robert che è sia retrospettiva, poiché indirizzata verso l'amore di Robert del

passato (l'attrice Rachel), che attuale, in quanto intuisce la presenza di un amante, che non sa

essere Morel. Robert, dopo aver sofferto ed essere stato manipolato da Rachel, si trova a vivere

una vita doppiamente proibita con Morel, dal quale viene a sua volta manipolato. La bruciante

gelosia innescata dalla parte segreta, sfuggente di Albertine, torna a tormentare i sogni di Marcel,

confondendo i contorni della stanza di Tansonville con la stanza dell'appartamento condiviso con

"la prisionnère". L'incastro delle cornici temporali, governato dalla memoria, riporta il narratore a

mettere insieme i fili dell'esistenza, che si intrecciano in una matassa che congiunge l'amore

dell'infanzia e l'amore dell'adolescenza, entrambe caratterizzate dall'impossibilità del possesso. Il

desiderio si esprime nella tensione costantemente inappagata verso l'altro, irriducibilmente

sfuggente, irraggiungibile.

Nelle scene dei ricevimenti, i movimenti dei personaggi segnalano questo doppio

movimento, di avvicinamento e di allontanamento, di ricerca e di arresto. Il trucco delle pedane

mobili sulle quali, al pari degli oggetti, vengono posizionati gli attori, rientra nella strategia di

figurativizzazione del regista, che cerca di trasformare nel testo filmico l'attitudine decifratoria del

narratore che, nel romanzo, si proietta su oggetti, persone e paesaggi, osservati da varie

prospettive nel tempo e nello spazio.

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Il legame che lega Gilberte a Albertine popola i sogni del narratore, o meglio

quell'andirivieni ondivago tra fantasticheria, immaginazione e sogno. Il letto di Marcel, la cui

testata è ornata da una decorazione raffigurante il Canal Grande di Venezia, è uno scivolo verso

altri spazi e tempi, come le passeggiate in una Combray bagnata dalla pioggia con Gilberte, il cui

volto si trasforma, attraverso le dissolvenze, in fotografia e in una sua lettera. Ma sarà Françoise, a

notare che la firma non corrisponde a quella di Gilberte ma a quella di Albertine, in un morphing

dei caratteri che passa attraverso le parole Gilberte–Alberte–Albertine–libertinage.13

13 Vedi il frammento del film nel materiale didattico

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5. Rispecchiamenti del desiderio

Fotografie e specchi diventano veicoli di ossessioni e rapporti speculari, come, ad esempio,

la sequenza in cui la foto di Morel viene distrutta in un accesso di gelosia da Robert e, dopo uno

stacco realizzato con un velocissimo raccordo, lucidata dalla giovane compagna del violinista. La

rimembranza del viaggio in treno verso Parigi, costituisce a sua volta un’altra cornice spazio-

temporale che ne contiene al suo interno altre, come le immagini menzionate e i ricordi delle cene

dai Verdurin. L'alterità dello spazio costituito dal vagone è accentuata nel film dalla

rappresentazione del mondo esterno che filtra dalle finestre del vagone, le cui immagini trattate in

chromakey si staccano segnando il distacco tra le due sfere, il passaggio dalla sfera della realtà a

quella del ricordo.

In seguito, la narrazione ci porta a un altro ricevimento dai Guermantes, questa volta

durante la guerra. L'ingresso di Odette, che nel film incarna la figura che ci conduce attraverso le

soglie, viene interrotto dalla ripresa di un altro luogo: un ristorante durante il coprifuoco. Siamo nel

pieno del conflitto e l'atmosfera è piena di diffidenza verso qualsiasi forma di simpatia per i

tedeschi, che sia espressa dall'amore per Wagner di Charlus o dalle sonate di Beethoven di Morel.

La sequenza dell'incontro con il Barone di Charlus nel ristorante lascia il posto a un momento

solitario del narratore in un caffè, attraversato dalle proiezioni di dagherrotipi con immagini della

guerra proiettate sulla parete e dalle parole contenute nella lettera di Gilberte, proveniente da

una Méséglise occupata dai tedeschi. L'effetto contrappuntistico dato dall'accostamento tra

l'atmosfera ovattata del caffè e la realtà inquietante delle immagini proiettate ricorda la presenza

della guerra, che attraversa il film come una cesura che sconvolgerà in modo irrimediabile gli

equilibri sociali della società francese.

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L'omosessualità maschile, manifesta o latente, si inserisce in questa cesura in una

declinazione particolare, mostrando il doppio sfruttamento dei soldati, i cui corpi sono mandati in

trincea come carne da macello o protagonisti dei giochi sessuali richiesti dagli avventori abbienti

di hotel a ore. Le sequenze dell'hotel gestito da Jupien e frequentato (e posseduto) da Charlus

raccontano un mondo a parte in cui la selezione del miglior prodotto (soldato coraggioso o

pericoloso delinquente) da parte della clientela aristocratica si svolge nella più completa

naturalezza. Il controcanto a questa omosessualità clandestina e decifrata nelle sue dinamiche è

rappresentato dall'impeccabile Robert de Saint-Loup, la cui figura è un condensato di grazia

aristocratica, naturalezza mondana e plasticità militare. L'omosessualità di Robert oltre a rivelarsi

nel suo amore per Morel, personaggio dalla bellezza femminile e privo di qualsiasi velleità eroica

(tant'è che si nasconde per sottrarsi alla chiamata alle armi), si rivela anche nell'ostentazione del

suo culto per le strategie e la storia militare, per l'estetica militaresca e per la fascinazione verso

forme di cameratismo ed eroismo incuranti delle differenze di classe, che lo spingono a morire per

salvare il suo attendente.

Durante il viaggio di ritorno in treno da Tansonville a Parigi, va in crescendo nel narratore la

disillusione sulla propria vocazione, alimentata dalla lettura dei resoconti letterari dei Goncourt (il

pastiche di Proust inserito nella Recherche) sulle serate mondane dai Verdurin. Il disincanto rispetto

a quella che doveva essere la sua vocazione lo precipita in uno stato di apatia e malinconia,

acutizzato dalle immagini in movimento dei filari degli alberi che – come era capitato in passato

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alla vista dei campanili di Martinville dalla carrozza del Dott. Percepied – avrebbero dovuto

suscitare quella scoperta che invece non si manifesta. È dunque in questo stato che giunge a

Parigi e decide, se non altro per onorare la fascinazione di sempre verso quell'ʹantico nome

dall'ultima sillaba "color amaranto", di recarsi alla matinée dei Guermantes.

Il divenire del tempo introduce la morte nel film. Cottard, ormai prossimo alla morte, ci viene

mostrato nel suo letto mentre chiede le ultime prestazioni a Odette, sua amante. Il suo funerale

sarà seguito da uno più importante per il narratore: quello di Robert, caduto in guerra. Il flashback

delle conversazioni con Robert restituisce la fascinazione provata da sempre dal Marchese per la

gente del popolo. L'incastro delle sequenze, che riportano a diverse cornici temporali, ci catapulta

d'un tratto nell'ascensore del Grand-Hôtel di Balbec, nel momento in cui Marcel interroga il lift sui

modi ambigui del Barone di Charlus. Un filo sottile continua a tenere insieme i due Guermantes, zio

e nipote, entrambi raffinati fuoriclasse del beau monde – il primo consapevolmente fiero, il

secondo suo malgrado – ed entrambi fatalmente attratti dal proprio genere e dall'estetizzazione

della virilità.

Analogamente, i ricordi di Gilberte si trasfigurano in modo ricorrente nei ricordi di Albertine.

Il film è percorso da diverse coppie di doppi che attraversano momenti differenti del passato. La

ricorrenza del rispecchiamento capovolto nel film ne è la metafora, come quando il narratore,

nell'albergo tenuto da Jupien, spia l'interno della stanza 14 bis, dove Charlus si riserva i suoi incontri

di piacere. Il regista esprime il legame, non dichiarato esplicitamente (né nel romanzo né nel film)

tra i due nella scena del colloquio di Charlus con Jupien nella stanza. In questa scena, l'immagine

del barone è riflessa al contrario nel pomo specchiato e rimanda al volto del narratore colto

nell'atto di spiare dall'occhio di bue. Con la ripresa dei due volti incorniciati all'interno della stessa

inquadratura – sempre estremamente satura, caratterizzata da una composizione pittorica e

dall'ʹatmosfera luministica – il linguaggio filmico è in grado di esaltare i sottotesti del romanzo: il

volto del narratore nell'occhio di bue potrebbe essere tranquillamente un volto allo specchio.

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Potremmo vedere nella realizzazione di questa scena unʹintroduzione al lapsus del

narratore, messo in luce da Mario Lavagetto nel suo saggio Stanza 43, che rivela il suo essere

"dentro la scena dell'omosessualità" e vanifica tutte le descrizioni atte a stabilire il suo ruolo di mero

spettatore capitato per caso. Il brano in questione è il passo su Charlus e sulla sua immaginazione

sado-medievale, nel quale il narratore racconta come Julien dovette sostituire un letto in ferro al

tradizionale letto di legno nella stanza 43. Come ha messo in luce Lavagetto (1991), il brano ricalca

in pieno il classico lapsus freudiano, poiché la stanza di Charlus era la 14 bis, mentre la stanza 43

era la stanza ottenuta dal narratore per riposarsi dopo il suo cassis.14

Il legame non dichiarato tra i due personaggi continua quando il narratore va a cercare

Morel, per conto di Charlus, e lo trova nel suo rifugio nell'avenue 25, malridotto e tossicomane di

cocaina, dove si nasconde per sfuggire all'arruolamento. La scena del funerale di Robert –

celebrazione intrisa di retorica patriottarda, con le file compatte dei Guermantes da un lato e

l'arrivo disordinato dei nuovi parvenus dall'altro, come Mme Verdurin (Marie-France Pisier) e lo

stesso Morel, destinati a diventare personaggi eminenti del bel mondo – ospita al suo interno un

ennesimo balzo all'indietro: un ricordo di Balbec, dell'incontro di Marcel adolescente, in

compagnia di Mme de Villeparisis e di Robert de Saint-Loup, con Charlus. I ricordi di Balbec,

raccontati con sequenze dalla breve durata, costituiscono una sorta di punteggiatura che "buca"

Cfr. Proust, Le temps retrouvé, III, 1954: 840, trad. it di Franco Fortini, Il tempo ritrovato, VII, 1970: 148. Si veda lo studio di
14

Mario Lavagetto dedicato a questa sezione, La stanza 43, 191, pp. 124-130.

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le sequenze più lunghe dei tempi successivi, segnati dalla gelosia, lo snobismo, l'omosessualità, la

guerra e la morte. Fino al rimescolamento della società che la guerra comporta, con i suoi

sconvolgimenti economici, che fan si che il Principe di Guermantes, ormai rovinato, sposi la nuova

Duchessa Mme Verdurin, in grado di salvarlo con il suo patrimonio.

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6. Trasposizioni: lo snobismo

Le novità del bel mondo vengono raccontate al narratore da Gilberte, nel corso della

matinée. Se da un lato il resoconto di Gilberte, a sua volta pronta a fondare il suo salotto, dà la

misura della profondità del cambiamento che ha colpito i rapporti tra borghesia e aristocrazia,

dall'altra non è altro che una voce tra le tante, un punto di vista nel brusio delle chiacchiere volte

a stabilire quali sono le relazioni che contano e chi sta al di qua o al di là di ciò che è considerato

elegante o volgare. Così come la Duchessa di Guermantes, dismesse le scarpe rosse e vestita alla

moda degli anni Trenta, non può soffrire Gilberte, di nascita borghese e figlia di una ex cocotte,

così Gilberte disprezza profondamente Mme Verdurin nelle vesti della nuova Principessa di

Guermantes.

Attraverso l'andirivieni dei personaggi al ricevimento, che si offrono allo sguardo

"radiografante" del narratore, il regista mette in scena il tema dello snobismo, un aspetto della

scrittura proustiana che fu colto tra i primi da Walter Benjamin (in un tempo in cui larga parte dei

critici si stupiva che si potessero dedicare tante pagine a qualcuno che si gira nel letto), che nel

suo saggio su Proust scrisse:

L'analisi proustiana dello snobismo, che è molto più importante della sua esaltazione

dell'arte, rappresenta il punto culminante della sua critica della società. L'atteggiamento dello

snob non è altro che la considerazione coerente, organizzata, fermissima della vita dal punto di

vista del consumatore perfetto, chimicamente puro.15

Gli incontri del narratore alla matinée dei Guermantes lo mettono di fronte a un flusso di

chiacchiere in cui la relatività dei punti di vista si unisce allo sprezzo di coloro che in qualche modo

hanno avuto un iter simile, fatto di arrampicate sociali. Il testo filmico esprime, nei termini di René

Girard (1965: 190), quel "contrasto tra il nulla oggettivo del Faubourg e la prodigiosa realtà che

acquista agli occhi dello snob", attraverso i movimenti irrequieti degli invitati e il vuoto vagare dei

15 Walter Benjamin, Per un ritratto di Proust [1929], in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, p. 35.

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loro sguardi. Nell'espressione del personaggio-narratore affiora il romanziere interessato al processo

di trasfigurazione in oggetto di desiderio di qualcosa che non esiste, qualcosa che egli stesso un

tempo ha desiderato e ora non desidera più.

Gli effetti distruttori del tempo sono resi con brevi sequenze che rappresentano gli ospiti

pietrificati in statue di cera, imbalsamati nelle loro ipocrisie, snobismi e idiosincrasie. Brevi intervalli di

statue che riprendono vita nel vagare dei personaggi, al contempo uguali e diversi, come il

radicale Bloch, di origine ebraica e ora con il nuovo nome di Jacques du Rosier, accompagnato

dalla fidanzata americana che si ostina a prendere appunti sulla bizzarra società francese

muovendosi come un elefante in una cristalleria e vantando parentele che non sono, tutto

sommato, quelle giuste (i Forcheville). E a nulla serve dichiarare la propria affinità con chi da

sempre è considerata, insieme a Charlus, il più puro spirito Guermantes, Oriane (la Duchessa),

perché, come osserva il personaggio--‐‐narratore, "È strano come si considerino i parenti molto

vicini o molto lontani a seconda del grado di interesse che rivestono per noi" 16.

Come il lavoro onirico manipola il materiale del sogno latente, così Ruiz, attraverso

determinate strategie testuali, manipola il testo letterario. Ad essere americana, nella Recherche, è

Mme de Furchy, parente dei Forcheville. Con lo spostamento di questa caratteristica di Mme de

Furchy alla giovane amica di Bloch, Ruiz rielabora la descrizione dello snobismo contenuta nei

passaggi del romanzo17 nel tempo condensato18 del testo filmico. Come la freudiana “persona

composita” condensa gli attributi di persone differenti, attraverso la "figura" della giovane

americana – compagna di Bloch e parente dei Forcheville – il regista/autore mette in scena il

tema dello snobismo, che nel testo letterario si articola in diversi brani e personaggi.

In questo andirivieni di persone che fingono di non vedersi, abbozzano saluti subito ritirati,

ostentano volgarità o discrezione, si cercano e non si trovano, continua a muoversi contro corrente

Odette, irridente e forte di un nuovo amante, il Duca di Guermantes, anch'egli vittima della gelosia

16 Vedi l’inserto filmico nel materiale didattico.


17 Proust, Le temps retrouvé, III, 1954: 959-‐-961, trad. it., Il tempo ritrovato, VII, 1970: 273-‐-275.
18 Il primo risultato del lavoro onirico è la condensazione. Intendiamo con ciò il fatto che il sogno manifesto contiene meno

del sogno latente, ed è quindi una sorta di traduzione abbreviata di quest'ʹultimo», Freud 1978: 78.

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e precipitato in una genealogia che vede Swann, il narratore, Robert, Gilberte soggetti desideranti

e/o oggetto di desiderio.

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Bibliografia

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 Costa, Antonio, Saper vedere il cinema, Milano, Bompiani, 2011.

 Curtius, Ernst Robert, Marcel Proust (1925), Bologna, Il Mulino, 1985.

 Freud, Sigmund, Die Traumdeutung (1899), trad. it L'ʹinterpretazione dei sogni,

Milano, Rizzoli, 2 voll., 1986.

 Id., Introduzione alla psicanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1978.

 Girard, René, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano,

Bompiani, 1965.

 Hutcheon, Linda, A Theory of Adaptation, trad. it. di Giovanni Vito Distefano,

Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi

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 Jauss, Hans Robert, Tempo e ricordo nella Recherche di Marcel Proust (1986),

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 Lavagetto, Mario, Stanza 43, Torino, Einaudi, 1991.

 Masecchia, Anna, Al cinema con Proust, Venezia, Marsilio, 2008.

 Metz, Christian, La significazione nel cinema, Milano, Bompiani (1972), 1975.

 Proust, Marcel, A la recherche du temps perdu (1913-‐-1927), Ed. Pierre

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voll., trad. it. Alla ricerca del tempo perduto, Ed. Mariolina Bongiovanni

Bertini, Milano, Einaudi-Mondadori, 7 voll., 1970.

 Rampello, Liliana, La grande ricerca, Parma, Pratiche, 1994.

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Indice

1. LA STORIA DAL PUNTO DI VISTA DEGLI INERMI ..................................................................................... 3


2. LA MEMORIA CREATURALE ..................................................................................................................... 7
3. L’ALTRO E LA GUERRA ............................................................................................................................. 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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1. La storia dal punto di vista degli inermi

Con La Storia1 di Elsa Morante, l’esigenza della testimonianza trova espressione in una forma

romanzesca che si articola sul contrappunto della Grande Storia con le microstorie della “gente

piccola”, e che si incarna in una narrazione animata da una precisa scelta di rappresentazione. La

Storia è un romanzo che vede l’ingresso in scena degli indifesi, di quella categoria definita oggi, da

Adriana Cavarero, degli “inermi”,2 di chi la Storia la soffre e subisce, talvolta senza neanche aver la

possibilità di comprenderla.

Soffermiamoci brevemente sul concetto di “inerme, così come formulato da Cavarero:

L’inerme è chi non ha armi e quindi non può offendere, uccidere, ferire. [...] Indifeso e in

baia dell’altro, inerme è sostanzialmente chi si trova in una condizione di passività e subisce una

violenza alla quale non può sfuggire né rispondere. La scena è tutta sbilanciata su una violenza

unilaterale. Non c’è né simmetria, né parità, né reciprocità.

In questa direzione si inserisce il verso di Cèsar Vallejo che inaugura il romanzo a mo’ di

epigrafe “Por el analfabeto a quien escribo”.

Il romanzo, pubblicato nel ’74, esce per Einaudi in edizione economica per volontà della

stessa autrice, e viene accompagnato da un grande successo editoriale e da un’accesa

polemica nell’ambito culturale3. Al centro della polemica, figura senza dubbio l’indipendenza

ideologica della scrittrice, la voluta leggibilità del romanzo, distante dalle mode avanguardistiche

del tempo e la sua tiratura da best-seller. La Storia, con il suo portato distante da ogni ideologia e

1 Elsa Morante, La storia, Einaudi, Torino,1974.


2 Si veda di Adriana Cavarero, Orrorismo, Feltrinelli, Milano, 2007, p.43.
3 Alcuni titoli: “I disarmati; Un crocicchio di esistenze” (Carlo Bo-Cesare Garboli, Corriere della Sera, 30 giugno 1974), “Che
dice allo storico un romanzo d'oggi” (Giuseppe Galasso, La Stampa, 5 luglio 1974), “La storia di Elsa Morante” (Liana
Cellerino, Il Manifesto, 6 luglio 1974), “Contro il "romanzone" della Morante” (Il Manifesto, 18 luglio 1974), “La Morante non è
marxista. E allora?” (Rina Gagliardi, Il Manifesto, 19 luglio 1974), "La storia": un mediocre romanzo borghese, da criticare da
un punto di vista marxista e proletario” (Franco Rella, Il Manifesto, 24 luglio 1974), “Vuoto delle piazze e purezza dei cuori” (Il
Manifesto, 6 agosto 1974) “Una storia d'altri tempi” (Rossana Rossanda, Il Manifesto, 7 agosto 1974), “I personaggi di Elsa”
(Natalia Ginzburg, Corriere della Sera, 21 luglio 1974), “Lo scandalo della storia” (Vittorio Spinazzola, L'Unità, 21 luglio 1974),
“La gioia della vita la violenza della storia” (Pier Paolo Pasolini, Tempo, 26 luglio 1974), “Un'idea troppo fragile nel mare
sconfinato della storia” (Pier Paolo Pasolini, 2 agosto 1974), “Dentro e fuori la storia” (Gian Carlo Ferretti, Rinascita, 9 agosto
1974), "La storia: un romanzo crudele con personaggi tenerissimi” (Ulisse, Giorni, 14 agosto 1974), “Il mito di Useppe e il
romanzo popolare” (Bruno Schacherl, Rinascita, 23 agosto 1974), “La storia è o non è un capolavoro?” (La fiera letteraria, 6
ottobre 1974), “Perché tante storie dopo la neoavanguardia” (Gian Carlo Ferretti, Rinascita, 9 maggio 1975), "La Storia" di E.
Morante (G. B., Democrazia progressiva), "La storia" della Morante e la rinascita del romanzo popolare” (G. P., Fronte
popolare).

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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da ogni ”ismo”, e con l’ingresso in scena degli “oppressi” trasversali ad ogni classe sociale, si

scontra con le tendenze filosofiche, politiche e letterarie dell’epoca. Anziché una griglia

ideologica il romanzo è una rappresentazione appassionata delle vite di uomini e donne la cui vita

fu travolta dalla violenza del conflitto. La posizione di Morante è radicalmente antideologica, lo

sguardo è puntato dritto verso l’annientamento dell’umano e verso ciò che resiste di umano negli

interstizi, nelle pratiche del quotidiano della gente piccola.

Citando la definizione di dialectical literature (David Caute, 1972) Linda Hutcheon afferma

che se la combinazione di intensa "self-reflexivity and political committment" è una caratteristica

propria di gran parte della letteratura, nel romanzo della Morante.

It is the act of textual selfquestioning and selfexposing that is seen as entirely radical. A work

like Elsa Morante's History directly addresses political issues through its interrogations of the writing of

both literature and history, and thus places the burden of responsibility for understanding on the

reader. 4

In riferimento alla ondata di reazioni critiche che il libro ricevette, secondo Alfonso

Berardinelli, ciò che ben pochi allora riuscivano ad accettare era la trasformazione del saggio

ideologico in favola e racconto d’avventure, come modo di scoprire la sostanza mitica che

alimenta ogni azione agonistica e di custodire il potenziale simbolico al di là delle contingenze. 5

In un periodo storico che si siede sulla rimozione collettiva della colpa, gli ideali politici dei

partigiani vengono presentati sotto una luce quasi ingenua, così come le loro motivazioni.

L’esempio più calzante è proprio Ninnuzzu, il primogenito di Ida, che passa alla Resistenza dopo un

iniziale periodo di adesione al Fascismo per poi morire nel dopoguerra in un incidente nel corso di

oscuri traffici.

Il romanzo ricostruisce la structure of feeling6 dell’epoca, ricostruendo le varie percezioni

degli eventi in corso e la lettura del fascismo, tramite un punto di vista etero diegetico che si

4 Linda Hutcheon, A Poetics of Postmodernism, History, Theory, Fiction , Routledge, New York, 1988, p.19.
5 Alfonso Berardinelli, Il sogno della cattedrale, Elsa Morante e il romanzo come archetipo, in AA.VV., Per Elsa Morante,
Linea d’ombra, Milano, 1993, p.30.
6 Cfr. nota 9 nell'Introduzione.

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focalizza di volta in volta nei vari personaggi, nella loro percezione della realtà, dalla lettura

ingenua e sbrigativa di Alfio, marito di Ida e “affarista di poco conto, povero e zingarello”.

[Alfio] nutre nei confronti del regime l’atteggiamento tipico dei commercianti piccolo

borghesi: fra scioperi, incidenti e ritardi, da ultimo lavorare sul serio era diventato un problema, per

gli uomini d’affari e di commercio come lui! Da oggi, finalmente, in Italia, s’era stabilito un governo

forte, che riporterebbe l’ordine e la pace fra il popolo.7

A quella appassionatamente ostile al regime del padre di Ida, anarchico convinto.

Vedere questa parodia cupa trionfare al posto dell’altra RIVOLUZIONE da lui sognata ( e

che, da ultimo, pareva già quasi alle porte) per lui era come masticare ogni giorno una poltiglia

disgustosa, che gli voltava o stomaco […] E nelle squadre che rivendicavano i diritti di costoro,

c’erano (ecco il peggio) tanti figli di mamma poveri e zingarelli non meno degli altri, e imbestialiti

con la propaganda o con le paghe per aggredire dei poveri loro uguali.8

Le voci del coro fanno da controcanto, tuttavia, a quella del narratore onnisciente, che, in

tempi segnati dalla “morte dell’autore”, non esita a raccontarci gli eventi storici. La scelta della

pluridiscorsività del romanzo non implica, tuttavia, la cancellazione del posizionamento del

narratore, ricordando alcune dichiarazioni di poetica di Christa Wolf, che in Pini e sabbia del

Brandeburgo scrive “L’autore deve mostrarsi. Non deve celarsi al lettore dietro la sua finzione”. 9

Il [primo] dopoguerra fu un’epoca di fame e di epidemie. Però, come succede, la guerra,

che per i più era stata un disastro totale, per altri era stata un affare di successo finanziario (e non

per niente l’avevano favorita). Fu appunto adesso che costoro incominciarono ad assoldare le

squadre nere a difesa dei propri interessi pericolanti.10

In alcuni passi, l'autrice assume chiaramente il suo punto di vista, evocando una memoria

che non può essere certo di natura testimoniale e autobiografica, come nel caso del racconto

della partenza dei Mille dallo stanzone di Pietralata:

La mattina dell’addio rimane nella memoria sotto il segno di un disordine caotico.

7 Ibidem, p. 38.
8 Ibidem, p. 39.
9 Cfr. Christa Wolf, Inquietudine e coinvolgimento, in Pini e sabbia del Brandeburgo, cit.
10 Ibidem, p. 33.

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E la sequenza visionaria della morte di Giovannino:

Adesso tentiamo di riferire, qui a distanza, attraverso la memoria, le ultime ore di vita di

Giovannino.

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2. La memoria creaturale

Di che memoria si parla? Della memoria obliata degli oppressi, di coloro dimenticati dalla

Storia, degli analfabeti e degli inermi, memoria di un destino condiviso, stratificata, orale,

recuperata e riversata nella narrazione funzionale. In qualche modo, è la memoria del creaturale,

che accompagna e orchestra il coro degli oppressi, e che emerge dagli interstizi della storia, dai

luoghi dell’Altro.

L’idea di creaturale e creaturalità, derivata dallo studio di Rudolf Otto, allude a “un

concetto che coincide con il sentimento appartenente alla creatura che si sente come tale”, con

un’“immediata associazione con la nudità, i bisogni elementari della fame e del freddo (in un

certo senso la ‘miseria creaturale’)”. In questo contesto l’accento va sulla definizione di creaturale

come “sentimento di venerazione, di rispetto verso le altre creature. Il riconoscimento della

creaturalità propria e delle altre creature come comune nesso di dipendenza reciproca”.11

Come sostiene Barnaba Maj, “l’idea di creaturale e creaturalità si delinea come non mai

nella lingua e nella cultura del Novecento, come “indice di un limite inviolabile, non profanabile. In

questa prospettiva il senso del creaturale è fondamento del sacro in un orizzonte che differisce

dalla definizione di Otto”. Sempre secondo Maj, soggiacente al tema del creaturale, c’è una

riflessione sulla realtà storica del Novecento, e nello specifico, sull’estrema crudeltà che la realtà di

questo secolo ha dimostrato.

Con la letteratura del Novecento emerge appunto la questione della “inviolabilità” sia del

corpo “vulnerabile” che della memoria. In sintonia con questa esigenza, La Storia, con il suo

portato antideologico si colloca naturalmente nel solco di questa “polemica diretta ed esplicita

contro l’ideologia” parte integrante del motivo del creaturale. Giovanna Rosa parla in proposito di

una “memoria antropologica”, prossima alla zona del sacro e voce della coscienza antropologica

11
L’aggettivo “creaturale” entra nella lingua italiana nel 1926 con la traduzione di Ernesto Buonaiuti del saggio di Rudolf
Otto Das Heilige: über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt u. Granier,
Leipzig, 1917; trad. it. di E. Buonaiuti, Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli,
Bologna, 1926.

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che sa gli eventi perché ne ha “condiviso” creaturalmente l’esito.12. Nel romanzo, gli eventi storici si

intrecciano a una finissima rappresentazione delle fragilità dell’ego umano e all’irrompere

dell’inconscio nella quotidianità, nella saldatura della dimensione del trauma con lo scontro

quotidiano con il Potere, con il rifiuto e con l’umiliazione, con la lotta per la vita. Fra questa

moltitudine di inermi, figurano sullo sfondo gli ebrei di ritorno dai campi di concentramento, figure

segnate dall’esperienza della morte e marginalizzate dall’incapacità collettiva di ascoltare la

memoria di coloro ritornati dal “crepaccio del tempo” 13. Con il delineare queste figure avvolte dal

silenzio, la narrazione evoca l’esperienza assoluta dei sopravvissuti nei campi, la dimensione

dell’irrappresentabile e che tuttavia deve essere rappresentato, ma che non potendo, riferisce

della reazione degli altri, dello sguardo di tutti gli altri sui “salvati”.14

12 Giovanna Rosa, Il decadentismo popolare della Storia, in Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore,
Milano, 1995, pp.240-241.
13 Immagine poetica del poeta rumeno ebreo di madrelingua tedesca Paul Celan "In fondo - al crepaccio dei tempi ,(...)
attende, un cristallo di respiro, la tua immutabile testimonianza", dal ciclo di poesie dal titolo Atemkristall (Cristallo di
Respiro), in Paul Celan, Poesie, Mondadori, Milano, 1997. L’immagine viene ripresa da Federica Sossi nel titolo del suo libro
Nel crepaccio del tempo. Testimoniare la Shoah, Marcos y Marcos, Milano, 1997.
14 Il riferimento è all’opera di Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.

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3. L’Altro e la Guerra

Il romanzo inizia con una scheda cronologica dei principali eventi della storia del

Novecento, dai primi del secolo al 1940, e prosegue con otto lunghi capitoli dedicati ognuno a un

anno di guerra, dal 1941 al 1947. Attraverso questo movimento intermittente tra la macrostoria e le

microstorie di Ida e di Useppe e di tutti i personaggi che attraversano la loro strada, il romanzo

racconta quanto le vite dei singoli vengano travolte dalla Storia.

Poiché le storie degli esclusi e degli inermi sono necessariamente “mancanti”, l’atto di

immaginazione ripercorre le tracce e registra la presenza di coloro che non hanno potuto

testimoniare, esclusi e cancellati dalla storia ufficiale, ridotti a elementi di una massa impersonale.

La descrizione dettagliata dei personaggi del romanzo, concausa anche dello “sfilacciamento”

della trama, mira proprio a questo: ridare il “volto” alle vittime e ai “nemici” (come Gunther),

insieme alla voce e a una storia. Esattamente l’opposto di ciò che fa la Grande storia, con la

spersonalizzazione degli individui e la loro dispersione nelle statistiche dei morti e dei feriti. Il salto nei

frammenti della storia coincide con il salto nelle vite dei tanti, nelle pratiche del quotidiano,

descritto attraverso una narrazione che ricorda il realismo ottocentesco ma che si colora di

un’intenzionalità rappresentativa situata senza ambiguità.

Ida Raimundo, che con il figlioletto Useppe è una delle figure più importanti del romanzo, è

un’insegnante di scuola elementare stritolata dalle vicende della guerra. Sofferente di epilessia

intermittente, vedova, violentata da un soldato tedesco di stanza in Italia, senza casa a seguito dal

raid aereo che colpisce il quartiere San Lorenzo, Ida lotta ogni giorno per la sopravvivenza di se

stessa e del bambino. Non è una figura particolarmente coraggiosa e non è neanche un

personaggio particolarmente consapevole di sé e di quello che le succede intorno, della

complessità della Storia. Ida si barcamena giorno dopo giorno con i suoi segreti, in primis la sua

discendenza ebrea, l’epilessia e un bambino illegittimo da nascondere al mondo. Non è una

militante ed è completamente estranea a questioni di classe o genere.

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Voltata la pagina della storia ufficiale, entriamo nelle storie del romanzo, che iniziano

nell’anno 1941 e si diramano a partire dalle strade del quartiere San Lorenzo a Roma percorse da

un giovane soldato tedesco di nome Gunther. Attraverso un narratore onnisciente, Roma ci viene

descritta dal suo sguardo. Nel corso del suo girovagare per la città si imbatte in Ida, incontrata di

fronte al portone mentre sta rincasando. Per entrambi, è l’incontro con l’altro da sé e, per Ida, è

l’incontro con il nemico.

E così, alla fine è chiaro perché la disgraziata, in un giorno del gennaio 1941, accogliesse

l’incontro di quel soldatuccio a San Lorenzo come la visione di un incubo. Le paure che la

stringevano non le lasciavano scorgere in colui nient’altro che una uniforme militare tedesca.[…]

Colui doveva essere un emissario dei Comitati razziali, forse un Caporale, o un Capitano, delle SS

venuto a identificarla. Per lei, esso non aveva nessuna fisionomia propria. Era una copia delle

migliaia di figure conformi che moltiplicavano all’infinito l’unica figura incomprensibile della sua

persecuzione.

Il soldato risentì come una ingiustizia quel ribrezzo evidente e straordinario della sconosciuta

signora. 15

Ida vede se stessa immaginando lo sguardo del nemico, la sua identità schiacciata sulle

dicotomie identitarie dell’epoca: una donna ebrea di fronte a un soldato tedesco durante il

dominio nazista.

Più che vedere lui, essa, sdoppiandosi, vedeva davanti a lui se stessa: come ormai

denudata di ogni travestimento, fino al suo cuore geloso di mezza ebrea.16

Nonostante Gunther non sia altro che un giovane lontano da casa, sofferente di nostalgia

per la sua famiglia e fondamentalmente alla ricerca di calore umano, e Ida una donna di buon

cuore che non avrebbe negato aiuto e asilo a nessuno in difficoltà, la condizione umana di

ognuno è totalmente fraintesa agli occhi dell’uno e dell’altro e la loro capacità di comunicare

inevitabilmente distorta dal loro essere storico: un soldato tedesco e donna italiana di origine

ebrea durante la Seconda Guerra Mondiale.

15 Elsa Morante, Op. cit., p. 63.


16 Ibidem, p. 63

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I fantastici movimenti del soldato si convertivano, per Ida, nei movimenti esatti di una

macchina fatale, che stampava anche Nino, oltre a lei stessa, nella lista nera degli Ebrei e dei loro

ibridi. I suoi propri equivoci andavano acquistando, col passare dei minuti, un potere allucinante su

di lei, riducendola al terrore nativo e ingenuo di prima della ragione. 17

Le loro soggettività, che ci vengono sapientemente illustrate da Morante grazie al vagare

del punto di vista, entrano in una sorta di corto-circuito che si risolve, alla fine dell’incontro, in una

sorta di scioglimento della tensione dovuto però, all’aver vissuto, pur a strettissimo contatto, due

realtà diverse.

Allora il soldato, nello sguardo (che pure gli si incupiva) lasciò passare un colore animato di

dolcezza, per il movimento di un affetto inguaribile. E stando là mezzo seduto, come s’era messo,

sull’orlo del tavolino ingombro, in una cert’aria di malavoglia (che tradiva una confidenza gelosa)

trasse di tasca un cartoncino e lo pose sotto gli occhi di Ida.

Essa vi gettò uno sguardo sghembo e raggelato, aspettandosi una tessera di SS con la

croce a uncino; o forse una foto segnaletica di Ninnuzzu Mancuso, con la stella gialla. Ma si

trattava invece di un gruppetto fotografico famigliare, nel quale essa intravide confusamente, su

uno sfondo di casette e canneti, la persona grossa e radiosa di una tedesca di mezza età

circondata da cinque o sei ragazzetti maschi più o meno cresciuti. Fra costoro, il soldato, facendo

un sorrisetto, gliene segnalò col dito uno (se stesso) più cresciuto degli altri, vestito di un giaccone a

vento e di un berretto da ciclista. Poi, siccome le pupille della signora svagavano su quel

gruppetto anonimo in una buia apatia, passando a indicarle, col dito, il paesaggio e il cielo dello

sfondo, la informò:

“Dachau”.

Il suo tono di voce, nel pronunciare questo nome, fu il medesimo che potrebbe avere un

gattino di tre mesi reclamando la propria cesta. E d’altra parte quel nome non significava niente

per Ida, la quale ancora non lo aveva udito mai se non forse appena per caso, senza tenerselo a

memoria…Però a quel nome innocuo e indifferente, il forastico migratore in transito, che ora

17 Ibidem, p.67.

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s’identificava col suo cuore, senza spiegazione sobbalzò dentro di lei. E svolazzando atrocemente

nello spazio snaturato della stanzetta prese a sbattere tra un tumulto vociferante contro le pareti

senza uscita.18

Quello che accade è un fraintendimento degli eventi in corso da parte di entrambi i

protagonisti della narrazione; fraintendimento che si scioglie nei postumi della crisi epilettica avuta

da Ida e dai goffi tentativi di Gunther di darle un po’ di tenerezza e di aiutarla aggiustandole una

presa rotta. Il soldato tedesco, autore di uno stupro, non è ritratto come un carnefice, ma piuttosto

come un essere umano gettato nella violenza del secolo e destinato anch’esso al macello in terra

africana.

La scelta di una rappresentazione empatica di Gunther veicola necessariamente una

riflessione sugli effetti della Storia sugli esseri umani. Il discorso non tocca dunque le colpe relative

all’appartenenza nazionale, ma riguarda il concetto stesso di Potere, che travolge la “gente

piccola”, non importa di che nazionalità o etnia, evocando dunque l’esercizio di quell’arendtiano

senso del perdono verso coloro che in tali circostanze furono essenzialmente delle pedine, come

nel caso del giovane soldato. Gli oppressi sono coloro privati della possibilità di creare il proprio

destino, spogliati del potere di decidere il corso della propria vita e posti di fronte a scelte binarie.

Dai saggi19 della scrittrice emerge la speranza nel potere della scrittura, qualcosa in grado

di liberare il mondo dall’alienazione, dal “sonno della coscienza”, da ciò che lei chiama irrealtà.

Così riflessa nell’amore della madre e del figlio, la resistenza dell’umano è un modello che

contrasterà con l’odio e le ostilità della Seconda guerra mondiale.

18 Ibidem, p. 68.
19 Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, a cura di Cesare Garboli, Adelphi, Milano, 1987.

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Bibliografia

 AA.VV., Per Elsa Morante, Linea d’ombra, Milano, 1993.

 Cavarero, Adriana, Orrorismo, Feltrinelli, Milano, 2007.

 Celan, Paul, Poesie, Mondadori, Milano, 1997.

 Hutcheon, Linda, A Poetics of Postmodernism, History, Theory, Fiction ,

Routledge, New York, 1988.

 Levi, Primo, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.

 Maj, Barnaba, Il volto e l’allegoria della storia, Quodlibet, Macerata, 2007.

 Morante, Elsa, La storia, Einaudi, Torino,1974.

 Morante, Elsa, Pro o contro la bomba atomica, a cura di Cesare Garboli,

Adelphi, Milano, 1987.

 Otto, Rudolf, Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al

razionale, Zanichelli, Bologna, 1926.

 Rosa, Giovanna, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore,

Milano, 1995

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Indice

1. POETICA E CRITICA CULTURALE.............................................................................................................. 3


2. LA STORIA: TEMPO, POLIFONIA E INFRASTORIA .................................................................................... 6
3. LA VISIONE DAL BASSO E IL TEMA DELL’INFANZIA ................................................................................ 9
4. IL RACCONTO DELLA RESISTENZA ........................................................................................................ 14
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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1. Poetica e critica culturale

Nell’estetica di Elsa Morante, l’arte non deve solo limitarsi a denunciare lo scandalo della

“irrealtà”, ma deve indicare anche qualcosa d’altro, poiché “l’arte è il contrario della

disgregazione”. Questa visione della scrittura come portatrice di verità avvicina la scrittrice a certe

riflessioni di Christa Wolf e Ingeborg Bachmann elaborate nella loro produzione saggistica, dove

viene dichiarato necessario il legame della vitalità della letteratura con l’utopia. La struttura

interrogativa, presente nei loro romanzi, trova radici in un’istanza utopica molto forte, nella ricerca

di un umanesimo che riguarda la sfera intersoggettiva e collettiva.

Nella passione per il mutamento, presente anche in Christa Wolf, espressa anche

dall’impianto formale dei romanzi si rispecchia la passione per la mutevolezza della vita, e in

questo mutare si inserisce la domanda utopica, nella quale il presente è proiettato verso il futuro,

verso la progettazione e il desiderio. Non dissimilmente, la scrittrice e poetessa austriaca Ingeborg

Bachmann sosteneva che ciò che impedisce a un’opera di diventare datata o superata sono

proprio i suoi presupposti utopici, “il proprio intento fortissimo di influenzare ogni presente, quello

attuale o quello prossimo venturo”. La letteratura contrappone alla “lingua brutta” della vita

l’utopia della lingua, che non è qualcosa di cristallizzato e fermo, ma è mutevole e in continuo

movimento, e soprattutto è alimentato da una forte spinta morale, da un pensiero nuovo, teso

verso la conoscenza e propulsore di una nuova etica.

La “lingua brutta” della vita, di cui parla Ingeborg Bachmann, ricorda “l’irrealtà” di Elsa

Morante. Secondo Elsa Morante, infatti, la funzione dell’arte risiede nell’impedire la disintegrazione

della coscienza umana, nel suo “quotidiano, e logorante, e alienante, uso col mondo”; di restituirle

di continuo, nella confusione irreale, frammentaria e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale,

o in una parola, la realtà.

Questa ricerca del qualcos’altro da contrapporre alla denuncia dell’irrealtà sembra

ricondurre ai luoghi dell’altro e alla capacità umana di resistere allo scandalo della storia grazie

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alle pratiche di solidarietà e riconoscimento. L’interesse per gli altri sta a monte di ogni processo, e

dunque anche della scrittura. Scrive Morante:

[Lo scrittore] ha bisogno degli altri, specie dei diversi da lui. Senza gli altri, è un disgraziato.

Questa convinzione dell’importanza del riconoscimento dell’altro a monte dello scrivere è

anche una costante della poetica di Christa Wolf, che ritiene qualità indispensabili per uno scrittore

l’interesse fortissimo per la gente, per i rapporti sociali, l’attenzione all’evoluzione della società; una

grande curiosità e sensibilità che gli consentono di riuscire a entrare negli altri, e vivere le loro

emozioni come se fossero le proprie, mantenendo la lucidità e l’onestà sufficiente per parlare delle

proprie.

Secondo Elsa Morante, il ruolo dello scrittore è quello di restare “sul campo” dove ormai si

espande il sistema della disintegrazione, ossia l’irrealtà. Ma non come funzionario o suddito del

sistema (“se si adatterà a questo, sarà perduto”), e neanche come un semplice estraneo o

testimonio che riferisce sul sistema. “Giacché l’arte, per la sua definizione propria, non può fermarsi

alla denuncia: vuole altro. Se lo scrittore è predestinato antagonista alla disintegrazione lo è --

abbiamo veduto – in quanto porta testimonianza del suo contrario”.

“Arte come principio di trasformazione”? Si chiede Ingeborg Bachmann nelle sue Lezioni di

Francoforte, sottolineando come l’opera scaturita dal “pensiero nuovo” ci porti verso nuove

percezioni, consapevolezze. In Wolf questo scatto conoscitivo prende la forma di “ampliamento

della percezione del reale”.

Il legame tra letteratura e vissuto, alla base di quello che Christa Wolf definisce “autenticità

soggettiva” implica un’idea della scrittura come evento che accompagna incessantemente la

vita, che influisce su di essa e che si sforza di interpretarla. L’idea della scrittura che emerge è

quella di una scrittura come evento che accompagna incessantemente la vita, che influisce su di

essa e che si sforza di interpretarla; come dice Bachmann “una scrittura che rispecchia, protesa

verso il futuro”. Ed è in questo rapporto tra letteratura e vita che si intreccia la componente

dell’utopia; si tratterebbe quasi di un modo più intenso di essere, nel quale parola, pensiero,

azione, ne risulterebbero potenziati. Wolf puntualizza come il concetto di “autenticità soggettiva”

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sia molto distante da quello di “soggettivismo”, nel senso che parlare di una scrittura che trova

nell’esperienza la propria spinta non vuole significare una scrittura soggettivistica, ma quell’impulso

alla base di una letteratura capace di “far scaturire nuove strutture nei rapporti umani del nostro

tempo”.

Nel saggio Pro o contro la bomba atomica, Morante sostiene che lo scrittore tende per sua

natura ad avventurarsi fra gente diversa, di ogni sorta e risma, preferendo, senza dubbio, le classi

dominate a quelle dominanti. Puntualizza come ciò avvenga non per dei motivi umanitari ma per

la “solita fatale legge della sua vita”. Conclude questo passo attribuendo il “vizio più grave di

irrealtà” alla classe dominante.

Come nell'opera di Ingeborg Bachmann -- con la sua descrizione dell’insinuarsi della

violenza psicologica, di quello che lei chiama il “fascismo quotidiano”, soprattutto nei rapporti tra

uomo e donna -- la riflessione sul Potere è un tema ricorrente nella scrittura di Elsa Morante, da

quella saggistica a quella narrativa, come per esempio nella descrizione del rapporto tra Nello e la

prostituta Santina nel romanzo. Questa questione viene trattata in maniera esplicita nei suoi saggi,

dove viene ribadito più volte che il dominio di una persona su un’altra da sempre considerato

iniquo è ora definitivamente acquisito anche come irreale, in quanto l’uguaglianza fondamentale

delle persone è acquisita anche nella coscienza di chi fa finta di non saperlo.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. La Storia: tempo, polifonia e infrastoria

Le vicende dei protagonisti, esemplificazione degli oppressi e degli inermi e posti al centro

della narrazione di Morante, sono di volta in volta interrotte brutalmente dalle schede storiche che

inaugurano ogni capitolo. La Storia, con il suo carico di orrori, avanza. Il secondo capitolo ci porta

nel 1942, anno che inizia con la Conferenza del Wannsee per la pianificazione razziale e che vede,

tra i terribili eventi, attivata la “camera della morte” nel campo di concentramento nazista di

Belsen.

Anticipando riflessioni di natura più teorica, come quelle di Michel Foucault e di Hayden

White, Morante ha ben chiaro che quando si parla di Storia si parla soprattutto di narrazione come

pratica culturale che prende forma nel territorio sempre colonizzato del linguaggio. La storia come

forma di conoscenza prodotta e governata dal Potere, la cui logica resta sempre la stessa: chi

vince, vince anche il potere di rappresentare i “fatti” e di cancellare la memoria dei vinti.

Riflessioni analoghe sullo “scandalo della storia” erano già state formulate, in forma teorica,

nelle Tesi sul concetto di storia (1940) del filosofo e critico tedesco Walter Benjamin.

Un passo della Tesi n. 7 sembra particolarmente rilevante:

Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto

sempre. L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di

turno. Con ciò, per il materialista storico, si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato sinora

vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi

giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale.

Lo si designa come il patrimonio culturale.

Secondo Benjamin dunque il ricostruito flusso storico di fatti, che coincide con la storia del

vincitore, rende invisibile la storia degli oppressi. In questo senso, la missione dello storico dovrebbe

essere quello di rendere visibile la barbarie inscritta in ogni documento della cosiddetta

civilizzazione. La Storia osteggiata da Morante è la Storia che spazza via l’essere umano, lo spoglia

da se stesso. Scrive Benjamin nella Tesi n. 5:

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La vera immagine del passato guizza via. È solo come immagine che balena, per non più

comparire, proprio nell’attimo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere. [...] Infatti è

un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che

non si sia riconosciuto inteso in essa.

Come ha messo in luce Concetta D’Angeli il tempo della narrazione, di gran lunga più

esteso rispetto alle pagine con le schede storiche introduttive ai capitoli, stabilisce con forza la

priorità del tempo degli oppressi, le cui storie, normalmente celate negli interstizi della Storia

ufficiale, dilagano invece nel romanzo della Morante. Ed è proprio nelle intermittenze, nelle

interruzioni del “tempo omogeneo e vuoto” (Benjamin, Tesi 13) che “l’altra storia”, la storia degli

oppressi può essere resa visibile.

Nel seguire le vicende dei suoi personaggi Morante crea una moderna infrastoria,

raccontando le vite oscure della gente piccola – così come faceva Alessandro Manzoni – e

confrontandosi in modo serrato con la violenza del suo tempo e la guerra. Non dimentica di

rappresentare le morti violente dei partigiani, come Mosca, torturato senza pietà, Quattro sparato

al petto e travolto da un camion tedesco, Maria, la “roscetta”, violentata e massacrata fino alla

morte. Anche la descrizione dell’uccisione del soldato tedesco da parte di Davide Segre, giovane

anarchico e refrattario alla violenza, non si sottrae alla dimensione dell’orrore. Morante non

trascura neanche il fronte russo, raccontando dell’agonia di Giovannino, abbandonato sul

sentiero ghiacciato dai suoi compagni alle allucinazioni e alla morte per congelamento sulla

disperata via del ritorno.

Quella disomogeneità rimproverata all’architettura del romanzo, composta da tanti rivoli di

storie che si diramano rizomaticamente intrecciandosi alle vicende di Ida e Useppe senza

preoccuparsi di “rientrare” in un tempo narrativo unitario e compatto, è espressione di questa

intenzionalità rappresentativa. Un grande studioso di Elsa Morante, Cesare Garboli, nel suo Il gioco

segreto parla di passages che collegano una stazione del romanzo con un'altra e vede la struttura

del romanzo come uno Stationendrama. Descrive questi passages come strattoni, percorsi narrativi

che corrispondono ad “adagi di grande intensità sui quali ci si ferma a riflettere. La deportazione

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degli ebrei, che non è poca parte del romanzo (dal treno piombato fino alle voci che si sono perse

e si sentono risuonare nel Ghetto) è raccontata attraverso i passages”. In questa direzione, ci torna

utile la riflessione sul tempo di Walter Benjamin, e il suo concetto di tempo attuale, lo Jetztzeit:

La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e

vuoto, ma da quello riempito dell’adesso [Jetztzeit].

Solo una narrazione fatta di sentieri interrotti e indisciplinata può rendere la cifra del

carattere catastrofico della storia: i Jetztzeit sono i momenti cruciali, i momenti in cui riemergono

dai vuoti della Storia le storie dimenticate, come quella simbolica di Ida e Useppe, ignari e

impotenti del ruolo della Storia nelle loro vite e intenti a sopravvivere di fronte al fascismo. Quella

che è stata letta come “fragilità architettonica” e “montaggio sgranato dell’intreccio” è

conseguenza di una scelta consapevole, di una narrazione finzionale animata da un intento

testimoniale, di rappresentazione di una faglia storica irriducibile a una narrazione coesa.

Per quanto riguarda la concezione estetica di Morante, è opportuno citare alcuni passi

significativi del saggio Sul romanzo:

Il romanziere, al pari di un filosofo-psicologo, presenta, nella sua opera, un proprio e

completo, sistema del mondo e delle relazioni umane. Solo che, invece di esporre il proprio sistema

in termini di ragionamento, è tratto, per sua natura, a configurarlo in una finzione poetica, per

mezzo di simboli narrativi. Ogni romanzo, perciò, potrebbe, da parte di un lettore attento e

intelligente (ma purtroppo lettori simili sono molto rari, specie fra i critici) essere tradotto in termini di

saggio, e di “opera di pensiero”.

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3. La visione dal basso e il tema dell’infanzia

Gli eroi della storia non sono coloro che fanno la Storia, ma coloro che ne soffrono le

conseguenze, “le vittime dello scandalo”. Morante racconta le storie dimenticate. Questa storia

alternativa è dedicata alle vittime dello scandalo, che la scrittrice rappresenta soprattutto

attraverso la figura della madre e del fanciullo. Tra le vicende umane che si stagliano su uno

sfondo sempre più devastato dalla guerra e dalla fame, è di particolare importanza la figura di

Useppe, il bambino frutto della violenza usatale dal giovane soldato tedesco. Non a caso Useppe

è una creatura al di là di ogni struttura sociale convenzionale: illegittimo, nascosto al mondo fin

quanto possibile, di madre italiana e di padre tedesco, frutto di uno stupro avvenuto in un

momento storico che vedeva la Germania e l’Italia alleate. La gioia di vivere del bambino non

viene intaccata dalla tragedia storica e dalla distruzione del mondo intorno a lui. Il mondo visto da

Useppe mantiene una dimensione fantastica, una nicchia di resistenza alla morte e di inno alla

vita.

Non s’era mai vista una creatura più allegra di lui. Tutto ciò che vedeva intorno lo

interessava e lo animava gioiosamente. Mirava esilarato i fili della pioggia fuori della finestra, come

fossero coriandoli e stelle filanti multicolori. E se, come accade, la luce solare, arrivando indiretta al

soffitto, vi portava, riflesso in ombre, il movimento mattiniero della strada, lui ci si appassionava

senza stancarsene: come assistesse a uno spettacolo straordinario di giocolieri cinesi che si dava

apposta per lui.

Dall’inizio alla fine della sua produzione, il tema dell’infanzia ha perdurato costantemente in

tutta la produzione letteraria della scrittrice Nella letteratura dell’infanzia (Le bellissime avventure di

Caterina dalla trecciolina, 1942) , nei racconti (Il gioco segreto, 1941, Lo scialle andaluso, 1963 ),

nella sua poesia (Alibi, 1958, Il mondo salvato dai ragazzini, 1968) e nei suoi romanzi (Menzogna e

sortilegio, 1948 , L’Isola di Arturo (1957), La Storia (1974), Aracoeli (1982) .

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Il fanciullo morantiano è la metafora di tutto quello che è ancora buono, puro e naturale; le

virtù personificate dal fanciullo, innocenza, semplicità, sincerità, altruismo amore incondizionato,

sono considerate essenziali per la preservazione di ciò che è umano. Già nei suoi primi due romanzi

il mondo dell’infanzia serviva come alternativa e controcanto alla negatività della società e come

veicolo per esprimere il lato positivo dell’umanità, in quanto l’arte, secondo Morante, non ha solo il

compito di denunciare l’irrealtà, ma anche fornire il suo contrario.

Nel suo saggio Pro o contro la bomba atomica, la scrittrice afferma:

Lo scrittore, nella pratica della vita sociale e politica, si sente sempre attirato verso i

movimenti rivoluzionari o sovversivi, i quali proclamano come fine la cessazione di ogni dominio di

una persona su un’altra persona. Infine, rimane che le sue compagnie più vere lo scrittore le trova

poi quasi sempre fra persone di età estremamente giovane, o infantile addirittura. Soltanto loro,

difatti, riconoscono e frequentano ancora la realtà. Per legge universale, e peggio che mai nel

sistema, la maggioranza degli adulti sono contaminati più o meno dall’irrealtà, e quindi, ostili.

Un simile tentativo di contrapporre l’irrealtà al suo contrario può essere tsrovata nel

passaggio di Morante dalla negatività del mondo della borghesia in Menzogna e sortilegio al

mondo dell’infanzia dell’Isola di Arturo.

Nella Storia, la fragilità di Useppe è compensata da un’infinita e assoluta gioia di vivere e di

vedere il mondo con innocenza e meraviglia, qualsiasi aspetto del mondo; anche lo stanzone nel

territorio di Pietralata è fonte di divertimento e piacere, a dispetto di tutte le avversità. Nel corso

della sua infanzia ci sono però dei momenti nei quali la violenza storica irrompe nello sguardo del

fanciullo, segnando delle fratture. La prima è la vista di un cavallo morto e la scomparsa del cane

Blitz durante il raid aereo che colpì i caseggiati di San Lorenzo riducendo in macerie la loro casa.

Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube

pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa

nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le

vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio,

cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile

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che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra

corone di fiori sfrante. E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida. Soltanto

allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo aveva smesso di essere così

piccolo da pisciarsi addosso.

La seconda volta avviene nel corso di una spedizione al Tiburtino, da Pietralata, per

recuperare degli stivaletti per Useppe, quando Ida si imbatte nella signora Di Segni e la insegue,

con il bambino al collo, nella sua rincorsa alla ricerca della famiglia verso la stazione ferroviaria,

verso i vagoni bestiame colmi di ebrei destinati ai campi di concentramento.

[Ida] sentì dei colpi fondi e ritmati, che rimbombavano da qualche parte vicino a lei; e li

credette, lì per lì, i soffi della macchina in movimento, immaginando che forse il treno si preparasse

alla partenza. Però subitamente si rese conto che quei colpi l’avevano accompagnata per tutto il

tempo ch’era stata qua sulla piattaforma, anche se lei non ci aveva badato prima; e che essi

risuonavano vicinissimi a lei, proprio accosto al suo corpo. Difatti, era il cuore di Useppe che

batteva a quel modo.

Il bambino stava tranquillo, rannicchiato sul suo braccio, col fianco sinistro contro il suo

petto; ma teneva la testa girata a guardare il treno. In realtà non s’era più mosso da quella

posizione fino dal primo istante. E nello sporgersi a scrutarlo, lei lo vide che seguitava a fissare il

treno con la faccina immobile, la bocca semiaperta, e gli occhi spalancati in uno sguardo

indescrivibile di orrore.

“Useppe…” lo chiamò a bassa voce.

Useppe si rigirò al suo richiamo, però gli rimaneva negli occhi lo stesso sguardo fisso, che,

pure ad incontrarsi col suo, non la interrogava. C’era, nell’orrore sterminato del suo sguardo,

anche una paura, o piuttosto uno stupore attonito; ma era uno stupore che non domandava

nessuna spiegazione.

Nella primavera del ’45, la violenza del secolo si presenta in tutto il suo orrore a Useppe in

forma di fotografie: quelle dei partigiani impiccati in un giornale appeso in un‘edicola, e le foto dei

lager nazisti che iniziavano a circolare, sia quelle riprese dagli Alleati all’apertura dei campi che

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quelle trovate negli archivi dei vinti. Dalle foto, ambigue e indistinte, si potevano riconoscere

cumuli di prigionieri assassinati nudi e scomposti e cumuli di scarpe ammonticchiate. Altre foto

rappresentavano i luoghi del lager, come la scala della morte, “di 186 gradini altissimi e irregolari,

che i forzati erano costretti a percorrere sotto carichi enormi fino alla cima, donde poi spesso

venivano precipitati giù nella voragine sottostante per dare spettacolo ai capi del lager”, “un

condannato in ginocchio davanti alla fossa che lui stesso ha dovuto scavarsi, guardato da

numerosi soldati tedeschi, uno dei quali è sull’atto di sparargli alla nuca”. E dall’altra parte della

pagina, si vedono delle “figure di ometti scheletrici, occhieggianti dietro una rete, con addosso

certe casacche a strisce, flosce e cascanti, che li fanno somigliare a burattini. Alcuni di costoro

hanno la testa nuda e rapata, altri portano una scoppoletta; e le loro facce si atteggiano a un

sorrisetto agonizzante, misero come una depravazione infinita”.

Resterà per sempre impossibile sapere che cosa il povero analfabeta Useppe avrà potuto

capire in quelle fotografie senza senso. Rientrando, pochi secondi appresso, Ida lo trovò che le

fissava tutte insieme, come fossero un’immagine sola; e credette di riconoscergli nelle pupille lo

steso orrore che gli aveva visto in quel mezzogiorno alla Stazione Tiburtina, circa venti mesi innanzi.

All’accostarsi della madre, i suoi occhi si levarono a lei, vuoti e scolorati, come quelli di un

ciecolino. E Ida ne risentì un tremito per il corpo, quasi che una mano la scuotesse.

Ognuno di questi momenti marca un avanzamento simbolico verso la morte, verso

l’impossibilità della sopravvivenza dell’innocenza in quel mondo. Nel 1943, il piano inclinato della

storia converge rovinosamente con la microstoria di Iduzza e Useppe che, usciti per recuperare

qualcosa da mangiare perderanno per sempre la loro casa, ridotta a un cumulo di macerie dal

bombardamento, e l’amato cane Blitz. Tutta la drammaticità di un evento finzionale, ma che

rispecchia la storia vissuta, è espressa in questo brano:

Ida provò lo stimolo di urlare; ma ammutolì a un ragionamento immediato: “Se grido, mi

sentiranno, e verranno a portarmelo via…”. Si protese minacciosa verso la cagna: “Sss…” le

bisbiglio, “zitta, non facciamoci sentire da loro…” E dopo aver tirato il catenaccio nell’ingresso, in

silenzio prese a correre le sue stanzucce, urtandosi nei mobili e nei muri con tale violenza da farsi

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dei lividi per il corpo. Si dice che in certi stati cruciali davanti agli uomini ripassino con velocità

incredibile tutte le scene della loro vita. Ora nella mente stolida e mal cresciuta di quella donnetta

mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia

umana (la Storia) che essa percepì come le spire multiple di un assassinio interminabile. E oggi

l’ultimo assassinato era il suo bastarduccio Useppe. Tutta la Storia e le nazioni della terra s’erano

concordate a questo fine: la strage del bambinello Useppe Ramundo.

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4. Il racconto della resistenza

Nonostante l’orrore del tempo e le tragedie in atto, nel romanzo, oltre a una

rappresentazione iperrealista della violenza storica, sopravvive ancora la gioia di vivere e la

capacità di trovare vita e amore negli interstizi della storia, basti pensare ai divertimenti di Nino e

Useppe, alla vitalità della brigata Libera e della famiglia chiamata “I Mille” nello stanzone a

Pietralata. Ma anche la rete di umanità che nonostante le sventure continua a sorreggere Ida per

gran parte delle sue vicende, dall’accoglienza di donna Ezechiele nei giorni del parto, all’eredità

inattesa di Eppetondo, agli aiuti dell’oste Remo, alle cure della dottoressa “scontrosa ma bonaria”.

Una delle scene più intense di sorellanza è la sequenza che vede Ida -- anno 1944, nel

corso delle sue peregrinazioni disperate alla ricerca di cibo per Useppe -- giungere nei pressi di Via

di Porta Labicana e dello Scalo Merci e imbattersi in un camion tedesco contenente farina e

letteralmente preso d’assalto da una folla di donne del popolo che spinte dalla fame si

appropriavano furiosamente dalla farina neutralizzando i militi del Reich.

Ida si fece largo disperata: “Anch’io! Anch’io!” strillava come una bambina. Non riusciva a

rompere l’assedio che stringeva i sacchi buttati a terra. Si sforzò a salire sul camion, ma non ce la

faceva: “Anche a me! Anche a me!!” Dall’alto del camion, una bella ragazza rise sopra di lei. Era

scapigliata, con sopracciglia foltissime e more, i denti forti come di bestia. Si reggeva innanzi per le

cocche la festicciola colma, e le sue cosce, scoperte fino alle mutande nere di raion, splendevano

di un candore straordinario, come quello delle camelie fresche: “Tiè, signò, ma spicciate!” e

accucciandosi verso Ida, con una risata da furia le empì la sporta di farina, versandogliela

direttamente dal proprio grembo.

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Bibliografia

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it. di Magda Olivetti, Ondina se ne va, in Il trentesimo anno, Adelphi, Milano,

1985.

 Ead., Frankfurter Vorlesungen: Probleme Zeitgënossiger Dichtung, Piper,

München, 1980; trad. it di Vanda Perretta, Letteratura come utopia. Lezioni

di Francoforte, Adelphi, Milano, 1993.

 Benjamin, Walter, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e

Michele Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997.

 Boscagli, Maurizia, Brushing Benjamin against the Grain: Elsa Morante and

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Pennsylvania State University Press, Pennsylvania, 1996.

 Morante, Elsa, L’isola di Arturo, Einaudi, Torino, 1957.

 Ead., Opere, a cura di C. Garboli e C. Zecchi, 2 voll., Mondadori, Milano,

1988 e 1990.

 Ead., La Storia, Einaudi, Torino, 1974.

 Ead., Pro o contro la bomba atomica, a cura di C. Garboli, Adelphi, Milano,

1987

 Wolf, Christa, Kassandra / Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra,

Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di Anita Raja, Cassandra e

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Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, e/o,

Roma, 1984.

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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf

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Indice

1. CHRISTA WOLF E TRAMA D’INFANZIA .................................................................................................... 3


2. TRAMA D’INFANZIA: MEMORIA, STORIA, SCRITTURA ............................................................................ 5
3. IL ROMANZO TRA MEMORIA PRIVATA E MEMORIA COLLETTIVA......................................................... 7
4. L’IO DIVISO ............................................................................................................................................. 10
5. SCRIVERE IL RIMOSSO STORICO ........................................................................................................... 13
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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Emanuela Piga Bruni - Un genere ibrido: Trama d'infanzia di Christa Wolf

1. Christa Wolf e Trama d’infanzia

Christa Wolf nacque nel 1929 a Lansberg an der Warthe, nella Germania orientale, a est del

fiume Oder, un territorio che alla fine della Seconda Guerra Mondiale fu assegnato alla Polonia.

Nel 1949, anno in cui venne istituita la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), Christa Wolf iniziò a

scrivere alla fine degli anni Cinquanta, periodo di conclusione della guerra e, per lei, di

identificazione con l’ideologia antifascista e con il progetto sociale marxista. A livello politico sono

gli anni della divisione della Germania in due nazioni separate e della costruzione di uno stato

socialista nella Germania orientale.

Nel 1971 intraprese un viaggio in Polonia per visitare la sua città natale, Landsberg an Der

Warthe, oggi in territorio polacco e chiamata Gorzów Wielkopolski: proprio da tale viaggio nacque

Kindheitsmuster (Trama d’infanzia), pubblicato nel 1976 dopo una stesura lunga e laboriosa. Trama

d’infanzia racconta la fuga della popolazione tedesca verso il Mecklemburgo, per sfuggire

all’occupazione delle truppe sovietiche. Nella scrittrice era vivo l’intento di accendere la memoria

sugli anni del nazismo e su come questi fossero stati vissuti da quella generazione di tedeschi

cresciuta durante gli anni Trenta sotto il Terzo Reich. In prima battuta, è considerato un romanzo

autobiografico, caratterizzato da un grosso lavoro di recupero della memoria e di rielaborazione

dell’esperienza individuale e collettiva, intriso del bisogno di scandagliare il proprio sé in rapporto

alla propria infanzia, evoluzione, famiglia. Christa Wolf, indagando i meccanismi che avevano

portato la memoria alla rimozione e all’autocensura sul passato nazista, voleva anche sfatare la

convinzione diffusa dell’estraneità della DDR a quegli eventi.

Insieme ad autori come Heiner Müller, con la sua pratica di scrittura istituisce un legame tra

memoria individuale e memoria collettiva, tra sfera privata e sfera pubblica, confermando che il

ruolo dell’individuo, nel ristabilire un senso collettivo del passato, è assai significativo per i complessi

rapporti tra silenzio, memoria e oblio. La narrazione si focalizza sul soggetto del ricordare, sugli

atteggiamenti, essenziali per determinare i modi di rottura del silenzio: alcune forme di oblio

suggeriscono una mancanza di identità o uno sforzo per occultare alcune sue componenti. Se la

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memoria del passato è banalizzata, si avranno “individui mancati”, immemori, e quindi facili prede

di movimenti totalitari. Il silenzio è essenziale per ricordarci che la memoria non è solo parola, ma

anche “memoria incarnata”, che prende forma nei rapporti intersoggettivi.

Nel romanzo è molto forte la questione del linguaggio e della narrazione di eventi

appartenenti alla categoria dell’inesplicabile e del rimosso. Si rileva un andamento interrogativo

della narrazione, dovuto prima di tutto alla formazione intellettuale dell’autrice. Christa Wolf nasce

come scrittrice, ma la sua produzione letteraria fu sempre accompagnata da opere di natura

saggistica: basti pensare alle Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra Frankfurter Poetik-

Vorlesungen (Premesse a Cassandra)1, alla Dimension des Autors2 (in Pini e sabbia del

Brandeburgo) o alla sua ultima opera Ein Tag im Jahr 1960-2000 (Un giorno all’anno)3, opera ibrida

dal punto di vista dei generi letterari, fra romanzo, saggio, opera storiografica e diario.

1 Christa Wolf, Cassandra, cit.


2 Christa Wolf, Die Dimension des Autors, Luchterhand, Darmstadt, 1987. Parte dei saggi sono tradotti in italiano nella
raccolta Pini e sabbia del Brandeburgo. Saggi e colloqui, a cura di Maria Teresa Mandalari, e\o, Roma, 1990.
3 Christa Wolf, Ein Tag im Jahr: 1960-2000, BTB, Berlin, 2004; trad. it e note a cura di Anita Raja, Un giorno all'anno: 1960-2000,
e/o, Roma, 2006.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. Trama d’infanzia: memoria, storia, scrittura

Trama d'infanzia è anche una riflessione sulla memoria; l’autrice scava nel passato dopo

anni di rimozione. Romanzo, diario di viaggio, autobiografia, quest'opera è la ricostruzione

dell'infanzia della scrittrice nella Germania nazista. È anche un Lieu de Mémoire, un termine tratto

dalla monumentale opera di Pierre Nora dedicata ai luoghi memoria. Tra questi, Nora include

quelle autobiografieche complicano “le simple exercise de la mémoire d'un jeu d'interrogation sur

la mémoire elle-même”4.

L'esperienza di ricostruzione della memoria privata e collettiva, compiuta passando

attraverso la divisione dell’io, anticipa la riflessione sull’alienazione presente in Kassandra5 e rinvia

alle riflessioni sulla narrazione esplicitate nella sua produzione saggistica.

Un tratto caratteristico della prosa di Wolf è la ricaduta del processo di introspezione

nell'andamento della prosa, caratterizzata dalla forma interrogativa. In Trama d’infanzia sono

presenti tre livelli di narrazione, corrispondenti a tre registri temporali: il primo è quello della

coscienza autoriflessiva e della sua esplorazione attraverso la narrazione in un periodo che va dal 2

novembre 1972 al 2 maggio 1975; il secondo livello è quello della riemersione consapevole di

ricordi ed emozioni risvegliate da una visita di quarantasei ore nella città natale datata 11 e 12

luglio 1971; il terzo e più remoto livello, quello della ricostruzione delle memorie d’infanzia,

corrispondenti all'arco temporale compreso tra il 1931 e il 1947, due anni dopo la fine della guerra.

Il livello riflessivo costituisce la cornice della narrativa di Wolf e introduce la necessità del

presente di venire a patti con il passato. In questo livello, l’autrice riflette su memoria, scrittura,

infanzia, inserendo e commentando materiale documentario sugli eventi del passato nazista e del

presente della Deutsche Demokratische Republik. A differenza della letteratura precedente

pubblicata dalla casa editrice Aufbau, solitamente incentrata sulla tradizione di resistenza al

Nazismo, quest’opera documenta le tracce della mentalità e del comportamento fascista nella

4 Pierre Nora, Op. cit., p. 40.


5 Christa Wolf, Kassandra/ Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra, Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di
Anita Raja, Cassandra e Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, e/o, Roma, 1984.

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vita quotidiana nella DDR, ovvero si interroga sull’autoritarismo, sulla codardia morale e sul

conformismo.

Il tema della continuità tra passato e presente è centrale nell’opera, e l’io narrante incarna

sia il passato nazista che il presente della DDR.

L’atteggiamento verso la memoria è critico in Trama d’infanzia. La memoria delude non

solo nel falsificare le immagini, ma anche nel processo di cancellarle. Si ha l'impressione che una

delle ragioni che spingono Wolf a scrivere il romanzo sia la volontà di comprendere se la difficoltà

a ricordare dipenda dalla lontananza nel passato o da una rimozione. Il bisogno di riattivare la

memoria va di pari passo con l’esigenza di decostruire le immagini falsificate del passato. È questo

il desiderio all’origine del viaggio, compiuto ventisei anni dopo insieme al marito H, al fratello Lutz e

alla figlia adolescente Lenka.

Il viaggio in Polonia funge da catalizzatore per riattivare la memoria, spingendo il narratore

a consultare materiale documentario – inclusi i giornali locali del periodo, come il nazista

“Landsberger General Anzeiger”, e i dialoghi di Hitler, Himmler e Goebbels – per cercare di

risvegliare quegli aspetti del passato senza memoria. Tutto questo materiale dimostra come quegli

eventi, di cui la maggior parte delle persone aveva dichiarato di non essere a conoscenza, fossero

documenti pubblici: il rogo delle bandiere comuniste, la persecuzione dei comunisti, la fondazione

di Dachau. Sul silenzio collettivo di quella generazione dei tedeschi che assistette agli orrori del

nazismo sembrano essere pertinenti le riflessioni di Luisa Passerini sulla funzione della memoria

condivisa come meccanismo di identità culturale soggetto a una costante riformulazione; la verità

sembra essere intesa dalla memoria non tanto come fedeltà all'accaduto, quanto come

aggiustamento costante alle necessità del vivere presente e futuro. 6

6 Luisa Passerini, Postfazione, in, M.Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, Unicopli, Milano, 1987.

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3. Il romanzo tra memoria privata e memoria collettiva

Maurice Halbwachs nel suo La mémoire collective definisce la memoria individuale come

punto di vista sulla memoria collettiva che cambia a seconda del posto che occupa al suo

interno7. La concezione di un soggetto collettivo della memoria, capace di esercitare le stesse

funzioni di conservazione, organizzazione e evocazione di quelle attribuite alla memoria individuale

viene criticato da Paul Ricoeur, che ritiene opportuno attribuire all'idea di memoria collettiva lo

statuto di concetto operativo, privo di originarietà.

Per Ricoeur, una volta riconosciute le entità collettive (derivate) come “prodotti

dell'oggettivazione degli scambi intersoggettivi”, è possibile attribuire a un “noi” tutte le

prerogative della memoria: individualità personale, continuità, polarità passato-futuro. Una volta

riconosciuto il transfert analogico, nulla impedisce di considerare la memoria collettiva come una

“raccolta di tracce lasciate dagli eventi che hanno influenzato il corso della storia dei gruppi

interessati” e di “estendere analogicamente l'individualità personale dei ricordi all'idea di un

possesso comune dei nostri ricordi collettivi”8.

Il mescolamento di materiale documentario e memoria individuale presente in Trama

d’infanzia appartiene a una scelta precisa, orientata a evitare una narrazione assoluta, a lasciar

trapelare le voci multiple della storia. La memoria autobiografica, memoria personale e interiore, si

nutre della memoria storica, memoria sociale ben più estesa della prima. “Poiché dopo tutto la

storia della nostra vita fa parte della storia in generale”.9 Tra queste voci, l’autrice cerca di far

riemergere la voce della bambina che era, facendola interagire con il suo sé adulto. La dialettica

tra i due sé è quella tra la bambina ricordata, presentata nell’immediatezza della sua esperienza,

e l’adulto che la ricorda nel flusso della memoria.

Il libro comincia con la descrizione della difficoltà di trovare un inizio. L'oscillare fra i diversi

livelli narrativi ci porta nel cuore del processo della scrittura: il narratore sperimenta diversi incipit

7 Maurice Halbwachs, La memoria collettiva (1968), postfazione di Luisa Passerini, Unicopli, Milano, 1996, p.61.
8 Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L'enigma del passato (1998), Il Mulino, Bologna, 2004, pp.55-56.
9 M. Halbwachs, Op. cit., p.65.

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centrati sui ricordi dell’infanzia e, in particolare, quelli legati all’emergere della coscienza di sé

come soggetto indipendente. La narrazione delle immagini della propria infanzia contiene, nel suo

darsi, la riflessione sui modi possibili di costruire la narrazione. Infine, la decisione è quella di

abbandonare il controllo della tessitura e di cercare di conoscere quella bambina lontana, che

viene indicata in “terza persona” e alla quale viene dato un nome: Nelly. La scissione dal proprio sé

appare come l'unico modo per ritrovare il proprio passato.

A poco a poco, nel corso dei mesi, il dilemma si è definito: restare senza parola o vivere in

terza persona, pare che questa sia la scelta. Impossibile la prima cosa, inquietante l’altra. E come

al solito procurerai di fare ciò che ti è meno intollerabile.10

L’incapacità di scrivere in prima persona e il dover ricorrere alla terza persona comporta

un’oggettivazione del sé dell’infanzia. Per poter diventare soggetto, l'autrice deve prima

oggettivare quella parte di sé. Conoscenza dell’altro e conoscenza di sé sono strettamente

interrelati.

Philippe Lejeune, lo studioso di riferimento sul genere dell’autobiografia, 11 scrive sul

racconto autobiografico ma in "terza persona”:

Questa identità non essendo più stabilita all’interno del testo dall’uso dell’”io” è stabilita

indirettamente ma senza alcuna ambiguità dalla doppia equazione: autore = narratore e autore =

personaggio, da cui si deduce: narratore = personaggio, anche se il narratore resta implicito. [...] È

una biografia, scritta dall’interessato, ma scritta come una semplice biografia.

Lejeune prosegue enucleando le diverse motivazioni sottese a questo metodo, che

possono andare dall’immenso orgoglio (come nel caso dei Commentari di Cesare o di alcuni testi

di De Gaulle) all’immensa umiltà (come nel caso di alcune autobiografie religiose) 12. In tutti i casi

resta, a prescindere, la distanza stabilita verso il personaggio e la storia.

Nel romanzo Wolf cerca di descrivere i processi sociali che nel Terzo Reich hanno permesso

l’accettazione e il conformismo ai dettami del nazismo. Con il riferirsi a un'intera generazione, senza

10 Christa Wolf, Trama d’infanzia, e/o, p. 9.


11 Si veda Philippe Lejeune, Il patto autobiografico,

12 Philippe Lejeune, Op. cit., p.29.

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limitarsi alla propria singolare esperienza, Wolf viola uno degli assunti alla base del genere

autobiografico: l’enfasi sull’unicità dell’individuale.

La prefazione di Wolf, parodia del romanzo convenzionale e contenente una critica al

conformismo della società, è paradossale per il concetto di verità soggiacente al genere

dell’autobiografia. Per trasmettere l'allontanamento da questa classificazione di genere, quasi a

complicarla, Wolf aggiunse il sottotitolo Roman (Romanzo) all’edizione della Germania Ovest.

La struttura interrogativa del libro coinvolge il lettore nella problematizzazione del passato e

nel tentativo di stabilire delle connessioni con il presente. La convinzione che gli individui e le

società che non vogliono imparare dal passato siano condannate a ripeterle spinge l’autrice a

esplorare le origini del comportamento autodistruttivo, invitando il lettore a fare lo stesso. L’autrice

esplicita alcuni modelli di comportamento nella speranza di vincerli.

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4. L’io diviso

La scissione tra l’infanzia e la vita adulta è cosi grande da impedire la narrazione

autobiografica in prima persona. La difficoltà di dire io per il soggetto narrante dell’opera è

attribuibile al passato nazista: è impossibile collegare la parola io alla parola Auschwitz; è

necessario oggettivare il proprio sé dell’infanzia nella terza persona per poter narrare. Il dilemma è

o il silenzio o la terza persona: il primo impossibile, il secondo Unheimlich (perturbante, non-

familiare). L’io dell’infanzia si incarna nel personaggio di Nelly, mentre la coscienza riflessiva dell’io

narrante è espressa con la seconda persona singolare Du, volta a creare un senso di comunità tra

il lettore e lo scrittore.

In riferimento all’uso della seconda persona nell’autobiografia, Lejeune puntualizza come

tale tipo di procedimento non venga usato per tutta un’opera, ma appaia nella forma di discorso

che il narratore rivolge al personaggio che fu (nel caso di Kindheitsmuster, l’interrogazione si rivolge

all’io narrante, seguendo una forma circolare che coinvolge i due livelli menzionati sopra). Lejeune

aggiunge che tale tipo di racconto rivelerebbe chiaramente, a livello di enunciazione, la

differenza del soggetto dell’enunciazione e del soggetto dell’enunciato, trattato come

destinatario del racconto, citando come esempi di questo tipo di narrazione Modification di

Michel Butor e Un homme qui dort di Georges Perec13.

Partendo dallo schema di Gérard Genette utilizzato da Lejeune, pur nella consapevolezza

della non esaustività di queste categorie, definiamo Kindheitsmuster un‘autobiografia che alterna

la forma dell’autobiografia in seconda persona alla forma dell’autobiografia in terza persona.

La ricerca di Wolf in questo romanzo è anche una ricerca sul silenzio collettivo, dovuto non

a un'imposizione da parte di un regime autoritario, ma interpretabile come atteggiamento

intenzionale assunto da un’intera comunità e società. È significativo in tal senso il ricordo di una

conversazione con l’insegnante di scuola Maria Kranhold diverso tempo dopo la fine della guerra:

13 Philippe Lejeune, Op. cit., p. 16.

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Forse che Hitler non aveva preteso fin dall’inizio un maggior spazio vitale per il popolo

tedesco? Per qualunque essere dotato di intelletto ciò significava la guerra. Non aveva detto in

tutti i modi che voleva sterminare gli ebrei? Lo ha fatto, finché ha potuto. Ha dichiarato che i russi

erano esseri inferiori: e come tali sono stati trattati da persone che volevano credere che fossero

esseri inferiori. E le persone della risma della Sua vecchia insegnante Juliane Strauch sono cadute in

trappola credendoci. Chi può assolverle per aver mandato in licenza il proprio pensiero?

Julia, disse Nelly, non avrebbe mai potuto uccidere nessuno, ne era sicura. 14

Il processo di ricostruzione del passato riporta alla luce i momenti della costituzione del sé,

attraverso lo sguardo degli altri, in un momento storico segnato dalla violenza e

dall’annientamento dell’Altro. Nel processo di riemersione della memoria e nella ricomposizione

dei frammenti del passato emerge una figura: quella di chi, in quel tempo, incarnava il diverso, il

nemico. L'immagine degli ebrei, filtrata dalla memoria e riportata dallo sguardo infantile, è

ingabbiata nelle categorie costruite dal Potere dominante e assorbite dalla mentalità comune.

Nell'atto del ricordare si inserisce lo sguardo collettivo del tempo, portatore del sentimento

di paura e distacco suscitato da quelle figure altre, sulle quali convergevano tutti i problemi della

società. Così la scrittrice racconta, per via frammentaria, i passaggi che portano una società

all'esclusione di chi viene identificato come diverso.

Gli ebrei, senza gambe nel ricordo di Nelly per via dei lunghi caftani, entravano a rischio

della vita nella sinagoga distrutta e portavano i loro sacri tesori d’oro. Gli ebrei, uomini anziani dalle

barbe grigie, abitavano in quelle misere casette sulla piazza della sinagoga. Le loro mogli e i loro

figli forse sedevano dietro le finestrelle minuscole e piangevano. [...] Gli ebrei sono diversi da noi.

Sono sinistri. Degli ebrei bisogna aver paura, se non si riesce a odiarli. Se adesso gli ebrei fossero

forti, ci ammazzerebbero tutti. Nelly sarebbe stata prossima a cedere a un sentimento inopportuno:

compassione. Ma il buon senso tedesco ci mise un argine, sotto forma di paura. [...] Per Nelly era

imbarazzante restare lì. Charlotte le aveva insegnato che cos’è il tatto: innanzitutto ciò che non si

14 Christa Wolf, Trama d’infanzia, cit., p. 451.

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fa. Non si guarda un affamato se si ha la bocca piena. [...] Nelly ha classificato quegli sconosciuti

ebrei barbuti tra i disgraziati.15

15 Ivi, p. 189.

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5. Scrivere il rimosso storico

La generazione di Wolf, nata alla fine degli anni Venti, era troppo giovane per essere

direttamente responsabile dell’ascesa di Hitler, ma abbastanza matura per essere

retrospettivamente cosciente della pervasività del nazismo nella vita quotidiana. Gravata da

questo fardello, quella generazione si è rinchiusa nel silenzio.

Kindheitsmuster è solitamente classificata all’interno della letteratura della

Vergangenheitsbewaltigung (superamento del passato). Wolf rifiutava il concetto di Bewaltigung

(superamento) così come comunemente inteso, ritenendo che non fosse realmente possibile

elaborare il genocidio di sei milioni di ebrei e di venti milioni di sovietici. Con l'esplorare la continuità

tra passato e presente, il romanzo sfida la dichiarazione di discontinuità della DDR rispetto alla

Germania hitleriana, cosa che – come già detto – fu causa della sua pessima ricezione in patria.

Fin dall’inizio del libro si può leggere:

Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come se ci

fosse estraneo. 16

Lamentando l’assenza di una memoria, Wolf usa la sua autobiografia come spunto per la

disamina di quei modelli di comportamento all’origine di alcuni atteggiamenti, come la paura

dell’autorità e l’obbedienza indiscriminata verso il fascismo, ancora percepibili nelle persone della

sua generazione. Nonostante la provocazione della prefazione, Wolf comunque ammette

l’autobiografia di Kindheitsmuster e dichiara che la scelta della narrazione in terza persona nasce

da un senso di straniamento rispetto alla propria biografia durante il periodo vissuto sotto il

Socialismo Reale. La scelta della poesia di Neruda come epigrafe va letta in questa direzione.

L’immagine dello scavo archeologico compare negli scritti di Freud del 1890 per non essere

più abbandonata, seppur con delle modifiche. Nell’opera Studi sull’isteria17 emerge chiaramente

16 Trama d’infanzia, cit. p.9..


17 Sigmund Freud, Opere / Studi sull'Isteria e altri scritti (1886-1895), Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

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la dimensione temporale dell’inconscio, la scissione dell’io, la teoria del rimosso, l’idea che il

passato sia conservato da qualche parte e sia recuperabile dal soggetto rimembrante. La

rimozione suggerisce un oblio apparentemente completo, il seppellimento di avvenimenti del

passato nell’inconscio.

Anche nel caso di Dora, Freud usa l’analogia archeologica, specificando, al pari di un

archeologo, il confine tra le parti autentiche e quelle ricostruite dalla narrazione, così come nelle

autobiografie fabula e intreccio sono combinati insieme. Secondo Freud l’analista è in una migliore

posizione rispetto all’archeologo, poiché nell’inconscio del paziente “ciò che è essenziale viene

conservato”. Tale esperienza, inevitabilmente ricostruita attraverso il linguaggio, oltre a veicolare

l’idea della ricostruzione archeologica del passato, implica anche il segno della finzionalità

dell’interpretazione psicoanalitica e di ogni ricostruzione narrativa del tempo perduto. La

provvisorietà di questa costruzione suggerisce un’apertura a ulteriori ricostruzioni, non nel senso

della ricostruzione di una città in rovine, o di una ricostruzione del passato qual era, ma come

continuo processo di revisione.

Le operazioni psicologiche messe in atto al momento di ricordare, come meccanismo

generale psichico e testuale centrale nella costruzione e lettura delle narrazioni, sono state estese

dallo psicoanalista e saggista Jean Laplanche ad altri ambiti, come le narrazioni di un soggetto

finzionale o autobiografico. La memoria come anamnesi, continuo processo di ricordare e ritorno

ciclico al momento traumatico ri-ricordato nel presente con dettagli via via maggiori. In questo

senso, Trama d’infanzia è una storia che narra il processo di ricostruzione della memoria, sempre

suscettibile di essere ritradotta. Nel saggio Autobiographical times, Susannnah Radstone sottolinea

come un filone dell'autobiografia degli anni Sessanta e Settanta, da lei indicato con il termine

Remembrance, sia caratterizzato dall'impossibilità di colmare la frattura con il passato e la divisione

tra l'Io che scrive e l'Io oggetto della narrazione18.

18 Susannah Radstone, Autobiographical times, in Tina Cosslett, Celia Lury, Summerfield Penny, (a cura di), Feminism and
Autobiography. Texts, Theories, Methods, Routledge, London and New York, 2000, p. 205.

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Bibliografia

 Chiarloni, Anna, Christa Wolf, Tirrenia Stampatori, Torino, 1988.

 Chiarloni, Anna, Germania '89 – Cronache letterarie della riunificazione

tedesca, Franco Angeli, Milano, 1998.

 Freud, Sigmund, Opere / Studi sull'Isteria e altri scritti (1886-1895), Bollati

Boringhieri, Torino, 2003.

 Lejeune, Philippe, Le pacte autobiographique, Seuil, Paris, 1980; trad. it. Il

patto autobiografico, Il Mulino, Bologna, 1986.

 Halbwachs, Maurice, La memoria collettiva (1968), postfazione di Luisa

Passerini, Unicopli, Milano, 1996.

 Radstone, Susannah, Autobiographical times, in Tina Cosslett, Celia Lury,

Summerfield Penny, (a cura di), Feminism and Autobiography. Texts, Theories,

Methods, Routledge, London and New York, 2000.

 Ricoeur, Paul, Ricordare, dimenticare, perdonare. L'enigma del passato

(1998), Il Mulino, Bologna, 2004.

 Wolf, Christa, Kindheitsmuster, Aufbau, Berlin und Weimar, 1976; trad. it. di

Anita Raja, Trama d'infanzia, e/o, Roma, 1992.

 Wolf, Christa, Kassandra / Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra,

Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di Anita Raja, Cassandra e

Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, e/o,

Roma, 1984

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Indice

1. LO SFUMARE DEI CONFINI TRA STORIA E FINZIONE NELLA SCRITTURA................................................ 3


2. LA POLEMICA TRA CARLO GINZBURG E HAYDEN WHITE ..................................................................... 6
3. TEORIE DEL POSTMODERNO .................................................................................................................... 9
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 13

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1. Lo sfumare dei confini tra storia e finzione nella


scrittura

Alla base del romanzo storico sta il rapporto problematico tra storia e finzione. Un rapporto

che può essere anche ambiguo, nella sua dinamica tra fatti realmente accaduti e storie inventate,

tra personaggi storici e personaggi letterari, e in generale, tra le due modalità discorsive del

racconto fattuale e del racconto finzionale. Nel corso dei secoli, la forma della contrapposizione

netta che lega i due termini sfuma sempre di più a favore dell’intreccio. Il romanzo storico

tradizionale – soprattutto nella versione di Manzoni – presupponeva una distinzione netta tra fatti

reali e fatti immaginari, anzi l’effetto dipendeva dalla capacità del lettore di non confondere

questi piani.

Nel romanzo contemporaneo, le trame nitide che compongono l’intreccio di questi due

elementi diventano sempre di più ingredienti solubili di una composizione generata dalla

mescolanza, in cui i confini tra vero, falso e finto, in alcune narrazioni sono sempre più labili. Di pari

passo, la riflessione critica si interroga sempre di più sull’intreccio tra documento storico e

invenzione narrativa. In particolare, nelle fasi successive della modernità, a partire dal primo

Novecento, e da quello che Hayden White ha chiamato «l’evento modernista», la

contrapposizione tra fatto e finzione si sfuma, diventa sempre più confusa con vaste aree di

sovrapposizione e interferenza, fino a sospendere la distinzione tra reale e immaginario.

Dagli sviluppi della scuola delle Annales si sviluppano negli anni Settanta del XX secolo,

soprattutto in ambito anglosassone, prospettive che riducono l’importanza della storia materiale a

favore del linguistic turn, o svolta linguistica, inaugurata dal libro Metahistory di Hayden White:

quest’opera insiste sulla storia in quanto costruzione retorica e narrativa.1

Nell’introduzione al volume, White dichiara di considerare l’opera storica come una

struttura verbale in forma di prosa narrativa: il racconto della storia combina insieme una certa

1H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenthcentury Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimora
e Londra, 1973, tr. it Retorica e storia, Guida, Napoli 1978, p. ix.

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quantità di “dati”, di concetti teorici atti a spiegare questi dati, e una struttura narrativa che li

presenta come una serie di eventi accaduti nel passato. White sottolinea la riluttanza diffusa nel

considerare le narrazioni storiche come costruzioni i cui contenuti sono tanto inventati quanto

trovati, e mette in evidenza la “scrittura discorsiva” propria della storia.

Dalla voce “Metastoria”, redatta da Camilla Miglio per il Dizionario degli Studi Culturali, a

cura di Michele Cometa, possiamo leggere:

Narrazione, retorica, rappresentazione sono gli aspetti che introducono la meta- storia nella

famiglia degli studi culturali contemporanei. Non solo la storia, la letteratura, la cultura sono

oggetto di studio nelle loro rispettive rappresentazioni, ma la stessa storiografia è campo

d’indagine: non più come scienza positiva, ma come narrazione, discorso, ovvero fonte culturale.

In essa si possono rintracciare le rappresentazioni, i valori e le proiezioni degli storici nella doppia

direzione di presente e passato». 2

Esplicitando l’elemento di immaginazione in essa contenuto, definisce l’insieme “struttura

dell’intreccio mitico”, e rende la storia un genere ibrido, «prodotto di un’unione bizzarra, sebbene

non innaturale, fra storia e poesia». Come nella narrativa finzionale, i “fatti” della cronaca vanno a

comporsi in generi precisi di strutture d’intreccio. Eventi storici casualmente registrati non

costituiscono di per sé delle storie, ma offrono allo storico gli elementi per la costruzione di una

storia, che implica la soppressione e la subordinazione di alcuni eventi e la sottolineatura di altri

attraverso la messa in figura, la ripetizione di motivi e la variazione del punto di vista. In breve,

attraverso le stesse tecniche che soggiacciono all’intreccio di un romanzo o di un pezzo teatrale.

Dunque, considerati in quanto elementi di una storia, gli eventi storici non hanno valore intrinseco,

e la loro collocazione finale in una storia, tragica, comica, romantica o ironica che sia, dipende

dalla decisione dello storico. Ben più dell’opera letteraria, l’opera storica si presenta come priva di

marche e funzioni dell’enunciazione, ma la sua pretesa di narrazione dell’evento storico si infrange

proprio nel suo non poter non essere un racconto. È la base di fondo, ben presente a White,

dell’archeologia di Michel Foucault. Riducendo ai minimi termini le strutture alla base del

2Camilla Miglio, “Metastoria”, Dizionario degli Studi Culturali, a cura di Michele Cometa, Meltemi, Roma, 2004, disponibile
anche una versione on line.

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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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documento storico, Foucault intende rivelare i discorsi situati.3 L’identità del soggetto osservante è

la risultante di una serie di rapporti di forza, e con lo svelare il meccanismo di senso sotteso agli

enunciati, ancor più se dissimulato, l’archeologia ne rivela l’elemento di controllo sociale. White

ricorda che ciò che trasforma una situazione tragica in una comica è lo spostamento del punto di

vista. Il significato degli eventi narrati dipende dal modo in cui lo storico li dispone in un intreccio.

Questa è essenzialmente una costruzione fantastica, e dunque un’operazione letteraria, afferma

White, premurandosi di sottolineare come ciò non tolga nulla allo status della narrazione storica.

Successiva alla pubblicazione di Metahistory, la raccolta di scritti Forme di storia 4offre lo spunto per

riconsiderare la riflessione di White all’interno del dibattito italiano.

3 Cfr. M. Foucault, L’Archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1984, tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999.
4 H. White, Forme di storia, a cura di E. Tortarolo, Carocci, Roma 2006.

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2. La polemica tra Carlo Ginzburg e Hayden White

Inizialmente Carlo Ginzburg partecipa di questo sviluppo della storiografia. Si vedano, ad

esempio, forme e stili del saggio di Ginzburg Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del

‘500.5 Successivamente, Ginzburg nel ricordare la scrittura del suo primo libro, I benandanti.

Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento,6 scrive:

«Mi pareva che i documenti su cui stavo lavorando (i processi dell’Inquisizione) aprissero un

ventaglio molto ampio di possibilità narrative. La tendenza a fare esperimenti in questo senso,

certo sollecitata anche dalle mie origini familiari, trovava nelle fonti un impulso e un limite. Ma ero

convinto (lo sono ancora) che tra testimonianze, sia narrative sia non narrative, e realtà

testimoniata esista un rapporto che dev’essere analizzato di volta in volta. L’eventualità che

qualcuno potesse mettere radicalmente in dubbio questo rapporto non mi passava neanche per

la testa».7

Successivamente, ridefinì le proprie posizioni alla luce dei rischi implicati da una tendenza

della storiografia da lui interpretata come ipercostruttivismo scettico: 8

«La svolta per me si verificò solo quando, grazie a un saggio di Arnaldo Momigliano, mi resi

conto delle implicazioni morali e politiche, oltre che cognitive, della tesi che in sostanza cancellava

la distinzione tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione». (ibid.)

A questa fase appartiene la polemica sul revisionismo storico svoltasi fra White e Ginzburg,

in cui quest’ultimo sottolinea con forza i pericolosi risvolti che si aprono quando si va a toccare il

tema del confine che separa il testo “narrativo” basato sul documento storico e l’opera letteraria.

Nel saggio Microstoria: due o tre cose che so di lei, Ginzburg rivendica la polemica

condotta insieme a Giovanni Levi contro le posizioni relativistiche «che riducono la storiografia a

una dimensione testuale, privandola di qualsiasi valore conoscitivo», e precisa come

5 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 1976.
6 Carlo Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino 1966.
7 Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 8.
8 Si veda al riguardo la Postfazione di Ginzburg a Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del

Cinquecento di Natalie Zemon Davis (Einaudi, Torino 1984), ripubblicata nell’appendice al più recente Il filo e le tracce, cit.

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«Tra questa polemica e il debito che ho espresso in queste pagine nei confronti di Calvino,

e più in generale del romanzo otto e novecentesco, non ci sia alcuna contraddizione».9

Ginzburg ricorda anche quanto l’atteggiamento sperimentale dei microstorici italiani fosse

«basato sull’acuta consapevolezza che tutte le fasi che costituiscono la ricerca siano costruite, e

non date», come l’identificazione dell’oggetto, i criteri di prova, i moduli stilistici e narrativi

attraverso cui i risultati vengono trasmessi al lettore. In questo approccio, unito al rifiuto esplicito

delle implicazioni scettiche presente nella storiografia europea e americana degli anni Ottanta e

dei primi anni Novanta, risiede la specificità della microstoria italiana.

Per White, l’esistenza stessa di una retorica della storiografia è prova dell’impossibilità di

stabilire dei criteri di verità: la Storia è narrazione di storie, che in quanto tali sono sempre

inevitabilmente situate e frutto di un’organizzazione discorsiva sovradeterminante rispetto

all’evento storico.

Anziché obiettare riaffermando l’influenza della storia sulla retorica, Ginzburg si rifà ad

Aristotele, ricordando come la prova, concetto chiave della storia, costituisca anche il nucleo

fondamentale della retorica:10

«negli ultimi venticinque anni la nozione di prova è stata considerata di solito come un

tratto caratteristico (il simbolo quasi) della storiografia positivistica. Alla prova si è contrapposta la

retorica: e l’insistenza della dimensione retorica della storiografia, spinta non di rado ad identificare

l’una con l’altra, è diventata l’arma principale della polemica contro il tenace positivismo degli

storici. La svolta linguistica di cui si è parlato spesso dovrebbe essere definita più esattamente

svolta retorica».11

Nel saggio “Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà”,12 Ginzburg critica con

forza la concezione della storia di White, da lui vista come riduzione della realtà alla sua

dimensione linguistica. Nella sua prospettiva, affermare che i fatti siano costruiti dal discorso,

9 C. Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, in Il filo e le tracce, cit., p. 265-266.
10 C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 13, 67.
11 Ivi, p. 73.
12 C. Ginzburg “Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà”, «Quaderni storici», n. 80, 1992, pp. 520-548,

ripubblicato nel libro Il filo e le tracce, cit., pp. 211-2

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significa “derealizzare” la realtà, ossia la materia stessa della storia. Questo significa anche aprire la

strada all’illimitata capacità del linguaggio di creare, negare e manipolare indefinitamente gli

eventi del passato. Con l’antichista Arnaldo Momigliano13 Ginzburg condivide in primo luogo il

timore per l’indistinzione tra finzione e storia imputata a White, al cui relativismo contrappone una

concezione della storia come disciplina scientifica volta ad appurare la verità. Tuttavia, anziché

una “guerra di trincea” tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche, Ginzburg ipotizza «un conflitto

fatto di sfide, prestiti reciproci, ibridi», una strategia che impara «dal nemico per contrastarlo in

maniera più efficace».14

13 Si veda di C. Ginzburg il saggio The Rhetoric of History and the History of Rhetoric: On Hayden White’s Tropes del 1981,
ripubblicato in italiano con il titolo La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White nel volume di A.
Momigliano, Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984.
14 C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit. p. 9.

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3. Teorie del postmoderno

Nella tarda modernità, la relazione tra letteratura, storia e società è stata interpretata in

vario modo. In Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism,15 il critico americano

Fredric Jameson considera la narrazione postmoderna come un “depthless pastiche”, privo di

critica sociale e derivante dalla condizione del lavoro intellettuale imposta dal modo di produzione

tardo capitalista. Al contrario, Linda Hutcheon in Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction16

vede nel gioco postmoderno della narrativa con la storia una forma di critica culturale

potenzialmente sovversiva e definisce questo tipo di narrazione metastorica Historiographic

metafiction. Tra le diverse marche del postmodernismo in letteratura, Jameson rileva la

sospensione della storicità e l’ascesa di dislocazioni narrative come la science–fiction. Alla

scomparsa del passato e dell’utopia si aggiunge la scomparsa dell’autore, seppur in una visione

diversa da quella strutturalista. Secondo il teorico americano, il cedimento dell’unitarietà moderna

dello stile personale all’eterogeneità stilistica del pastiche ha la conseguenza di rendere il soggetto

un correlativo della mancanza di unità del mondo esterno. Jameson indica la necessità di un

ripensamento della posizione del soggetto per una efficace prassi politica o azione rivoluzionaria,

volta a smascherare “la falsa abolizione della subalternità sociale”.17

In Raccontare il postmoderno, Remo Ceserani, più che di scomparsa del passato, parla di

uno schiacciamento di passato e futuro sul presente, in un quadro in cui “uno storicismo

onnipresente, onnivoro e quasi libidico” lavora a ridurre il passato a museo di fotografie e raccolta

di ritagli di immagini e simulacri.18. In linea di massima, la critica sul postmoderno ha interpretato il

distacco ironico dell’io narrante rispetto all’enunciato nel segno della deresponsabilizzazione

autoriale: oltre al “declino dell’affetto” segnalato da Jameson, tra le diverse voci che si sono

15 Saggio pubblicato per la prima volta nella “New Left Review” nel 1984 (n. 146, pp. 53-93) e successivamente come
volume: Fredric Jameson, Postmodernism, or The cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham 1991, tr. it di
Massimiliano Manganelli, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, postfazione di Daniele Giglioli,
Fazi, Roma 2007.
16 L. Hutcheon, A poetics of postmodernism: history, theory, fiction, Routledge, New York and London 1988.
17 F. Jameson, Postmodernismo, cit., p. 147.
18 R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 142. Per una rassegna delle posizioni e una

visione volta a ristabilire la relazione tra postmodernismo e impegno, si veda il volume..

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levate, mi limito a citare “l’apatia politica” di cui parla Christopher Norris, e se Romano Luperini

denuncia “una tendenza all’accettazione apologetica del presente”, Alfonso Berardinelli legge in

questa logica una “perdita di senso storico e anticamera della New Age”.19

Tuttavia, la riflessione di Ceserani suggerisce che il distacco emotivo rintracciato da più voci

nella narrativa postmodernista possa essere strategico a un altro obiettivo: creare la distanza

necessaria per poter mettere a fuoco una realtà dominata da dinamiche e meccanismi che

sfuggono alla comprensione delle persone comuni. Tra gli esempi citati, menziona la ricerca di

Calvino di strumenti narrativi per affrontare le questioni centrali della postmodernità, come:

la complessità del mondo, la misura planetaria delle trasformazioni, la instabilità delle

strutture portanti della nostra società, la necessità di porsi a una certa distanza per cercare di

capire fenomeni così complessi… [e] tradurli in discorso comprensibile.20

Contro una visione apocalittica del clima culturale in Italia che avrebbe contraddistinto gli

anni Novanta e Zero, in Postmodern impegno: ethics and commitment in contemporary Italian

culture,21 Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnug, attraverso un analisi di campioni scelti tra

letteratura, arti visuali, media e diversi campi del sapere, hanno evidenziato le forme esistenti di

consapevolezza etica e politica. Nell’ambito di una proposta teorica focalizzata sul carattere

metanarrativo della narrativa successiva agli anni Sessanta, Amy Elias combina l'interpretazione del

postmodernismo (come forma di sensibilità artistica diffusasi dopo il 1945 e Zeitgeist del capitalismo

postindustriale e di fine secolo) data da Jameson con il giudizio più positivo, in termini di valenza

riflessiva, dato da Linda Hutcheon. Secondo la teorica americana, più che la possibilità di scoprire

e ricostruire la storia mancante, agli scrittori postmoderni resta la “metastoria”, intesa come

capacità di teorizzare e desiderare in maniera ironica la storia.22 A differenza dell'alienazione

modernista procurata dal trauma storico, o dalla concezione di una storia come spazio accessibile

al soggetto razionale attraverso lo studio empirico, il romanzo storico contemporaneo veicola una

19 Per una sintesi sul dibattito in Italia, si veda di Monica Jansen Il dibattito sul postmoderno in Italia: in bilico tra dialettica e
ambiguità (Firenze, F. Cesati, 2002).
20 Corsivo mio.
21 Pp. Antonello e Florian Mussgnug, a cura di, Postmodern impegno: ethics and commitment in contemporary Italian

culture, Oxford, Peter Lang, 2009.


22 A. Elias, Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2001, pp. ix –xvii.

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concezione della storia come di ciò che sfugge, sublime regno di verità mai completamente

accessibile e catturabile: il regno del caos, del terrore ma anche della potenziale rivelazione.

Nel suo rifiuto della fuga dalla Storia, il romanzo “metastorico” si pone come narrazione

fortemente problematica e politicizzata, che nella sua ricerca di mythos e significati apre diversi

modi di relazione al passato. Nato “consapevole” della posta in gioco insita in ogni ricostruzione

storiografica, instaura un rapporto con la storia segnato non tanto dalla pretesa a una ricostruzione

storiografica puntuale, o a una contro-storia da contrapporre alla storia ufficiale, quando dal

desiderio. Nella sua disamina, la coscienza post-traumatica di fine secolo si relaziona alla storia

come un orizzonte desiderato ma mai raggiunto, che può essere soltanto avvicinato. Da qui un

“sublime storico”, a cui allude il titolo del suo libro 23, che genera nuove rappresentazioni del

passato storico. A questo proposito, rifacendosi a Robert Scholes,24 ricorda come sia riscontrabile

nella narrativa postmoderna successiva agli anni Cinquanta (Kurt Vonnegut, Lawrence Durrell,

John Barth, Iris Murdoch...) una prevalenza del romance sul novel, dovuta al piacere della forma e

dell'affabulazione, dalla propensione all'allegoria e da un ritorno dell'afflato etico.25 Da questa

constatazione trae la definizione di metahistorical romance, usato per i romanzi del tardo

ventesimo secolo. dal postmoderno al postcoloniale. A caratterizzarlo è l'immaginazione

metastorica, come atto che si rivolge alla storia e ne interroga le basi epistemologiche e politiche,

a partire dal rapporto tra autorialità, narrazione e documentazione storica. Mentre la metastoria

postcoloniale si presenta come una critica dell'Occidente compiuta dalle cosiddette periferie,

specifica l’autrice, la narrazione metastorica che proviene dal bacino del postmoderno è

un’interrogazione che nasce nel cuore dell'Impero. Questo tipo di sguardo racconta l'approdo

degli Altri dalle periferie e si fa portatore di una riconsiderazione delle politiche storiografiche

occidentali, seppur trasfigurata nella finzione letteraria. Elias sottolinea che mentre la metastoria

postcoloniale solleva frequentemente la questione del sé come Altro nella storia prodotto da un

non sé, la metastoria proveniente dall'Europa problematizza la questione dell'Altro in relazione al sé

23 Ibid.
24 R. Scholes, Fabulation and Metafiction, University of Illinois, Urbana, 1979, pp. 8-20.
25 Ivi, p. 20.

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come produttore di storia. La posizione da cui osserviamo un paesaggio, un atomo, una persona o

un testo incide significativamente sulla nostra prospettiva cosi come l'entità osservata.

Analogamente, il luogo in cui ci situiamo ideologicamente, soggettivamente e economicamente

rispetto a un determinato evento condiziona e circoscrive la nostra visuale. Ciò che ci interessa di

questa prospettiva è l’aver messo a fuoco la convergenza del romanzo metastorico con le istanze

postcoloniali, e il ricorrere di questioni inerenti alla relazione del sé con l'Altro, la cultura e la storia.

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Bibliografia

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and commitment in contemporary Italian culture, Oxford, Peter Lang, 2009.

 Ceserani, R., Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997

 Elias, A., Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore, Johns

Hopkins University Press, 2001,

 White, H., Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenthcentury

Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimora e Londra, 1973, tr. it

Retorica e storia, Guida, Napoli 1978

 Miglio, C., Miglio, “Metastoria”, Dizionario degli Studi Culturali, a cura di

Michele Cometa, Meltemi, Roma, 2004, disponibile anche una versione on

line.

 Foucault, M., L’Archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1984, tr. it.

L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999.

 White, H. Forme di storia, a cura di E. Tortarolo, Carocci, Roma 2006.

 Ginzburg, C., Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi,

Torino 1976.

 Id., Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2006.

 Id., “Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà”, «Quaderni

storici», n. 80, 1992, pp. 520-548, ripubblicato nel libro Il filo e le tracce, cit

 Jameson, F., Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo

capitalismo (1991), postfazione di Daniele Giglioli, Fazi, Roma 2007.

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 Hutcheon, L., A Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction, Routledge,

New York and London 1988.

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Indice

1. MITO, TRAGEDIA E INTERTESTUALITÀ ...................................................................................................... 3


2. ANALISI TESTUALE: LA VOCE E IL TEMPO ................................................................................................ 5
3. LA RIAPPROPRIAZIONE DELLA VOCE FEMMINILE .................................................................................. 8
4. PER UNA CRITICA DELLA VIOLENZA: CONFRONTO CON L’ILIADE DI SIMONE WEIL ........................ 10
5. TEMI. LA COSTRUZIONE DEL NEMICO .................................................................................................. 13
6. LA RIATTUALIZZAZIONE DEL PASSATO .................................................................................................. 14
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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Emanuela Piga Bruni - Mito e letteratura: Cassandra di Christa Wolf

1. Mito, tragedia e intertestualità

«Il n'y a pas de compréhension historique que quand' on a effectué une réactualisation du

passé dans le présent» sostiene Paul Ricoeur nel suo L'écriture de l'histoire et la répresentation du

passé1.

Una delle forme di riattualizzazione del passato nella letteratura moderna è quella delle

pratiche di intertestualità e di ripresa testuale, tra le quali figurano le riscritture del mito. Con la

riscrittura testo e personaggi si fanno migranti, attraversano tempi e spazi per caricarsi di nuovi

significati, di nuove memorie.

Nella Modernità, sostiene Jean-Pierre Vernant, “Le héros légendaire a cessé d’être un

modèle et il est devenu un problème.” 2 L'autore che riscrive sceglie di calarsi nell'immaginario di un

ipotesto per raggiungere più compiutamente il proprio. Lo scavo nel mito, che nella modernità si

incarna essenzialmente nella letteratura (definita da Pierre Brunel, nell’introduzione del Dictionnaire

des mythes littéraires3, "conservatoire des mythes") e nella scrittura cinematografica, si avvale di un

movimento acronico, che permette di dire un'anteriorità radicale, quella delle leggende e dei miti,

e instaura la memoria di ciò che nessuno ha visto o memorizzato.4

Il mito fu un elemento costitutivo della tragedia e una fonte consistente per gli autori tragici,

che non inventarono nuovi intrighi, ma presentarono il vecchio mito attraverso un nuovo prisma

che rifletteva perfettamente il contesto sociale, politico e culturale della loro epoca. I miti moderni

non sono più una semplice versione del testo fondatore e della storia millenaria: i moderni non

hanno la pretesa di reinventare Sofocle o Euripide, al contrario, i miti proiettati nel XX secolo

divengono delle nuove opere, nelle quali Antigone, Elettra e Medea hanno le stesse

preoccupazioni dell'uomo contemporaneo e parlano la sua stessa lingua.

1 Paul Ricoeur, L'écriture de l'histoire et la représentation du passé, “Annales”, vol. 55, 2000.
2 Jean-Pierre Vernant, Pierre Vidal-Naquet, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, François Maspero, Paris, 1973, p.14; trad.
it. di Mario Rettori, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino, 1976.
3 Pierre Brunel (a cura di), Dictionnaire des mythes littéraires, Editions du Roches, Monaco,1988, p. X; trad. it. e cura di
Gianfranco Gabetta, Dizionario dei miti letterari, Bompiani, Milano, 2004, p. IX.
4 Cfr. Jean Bessière, Achronie. Littérature du XX siècle, instauration de la mémoire, in Jean Bessière e Philippe Daros
(a cura di), Instaurer la mémoire, Bulzoni, Roma, 2005.

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Come scrive Sergio Givone nella sua prefazione al Saggio sul tragico di Peter Szondi,

«Dunque, il tragico non come rivelazione del sempre uguale ma come apertura di forme diverse di

esperienza. E questo significa che la storia caratterizza il tragico in modo decisivo».5 Nella sua

metamorfosi permanente, data dalla sua identità dinamica e dalla trasformazione che ne dà ogni

opera, il tragico continua ad agire nella letteratura moderna, con le sue interrogazioni sulla

condizione umana, sul mistero della vita e della morte e su come si concatenano eventi e

calamità, in un divenire che continua a vederlo legato alla metafisica e alla filosofia nello sforzo di

apprendere il reale.

La questione di fondo che spinge la scrittrice negli anni Ottanta allo scavo nel mito e

all’incontro con Cassandra non può, allora, che essere racchiusa nella domanda “Quando e

perché la società nella quale viviamo è diventata così autodistruttiva?” Per cercare una risposta,

l'autrice “sceglie” di riscrivere il personaggio della profetessa come un soggetto in lotta contro

l’alienazione, processo che subisce ogni essere umano oggetto di violenza, e testimone di un

mutamento di valori che si ripercuote sul comportamento e sul linguaggio. Cassandra si può

leggere anche come uno dei percorsi moderni di rilettura delle immagini mitiche del femminile 6,

come Undine geht7 di Ingeborg Bachmann, rivisitazione dell’Ondina romantica di Friedrich La

Motte Fouqué, e Medea, Stimmen8, scritta dalla stessa Wolf quattordici anni dopo.

La domanda all’origine della riscrittura wolfiana della profetessa è su chi fosse veramente

Cassandra al di là dell’immagine tramandata dai vari cantori delle gesta degli eroi. L’intenzionalità

della scrittrice è quella di rinarrare il personaggio oltre l’orizzonte tradizionale costruito dall’epos,

dagli storiografi e tragediografi greci; restituire la soggettività al femminile, che nel mito e nell’epos,

viene percepito o come “altro da sé” - o chiuso nel silenzio e consegnato alla non testimonianza

(Elena, Polissena), o demonizzato (Clitennestra, Medea).

5 Sergio Givone, Prefazione, in Peter Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino, 1999, p. x.
6 Cfr. la bella introduzione di Rita Svandrlik nel libro da lei curato: Il riso di ondina, Quattro venti, Urbino, 1992.
7 Ingeborg Bachmann, Undine geht. Erzählungen, Reclam, Leipzig, 1973; trad. it. di Magda Olivetti, Ondina se ne va, in Il
trentesimo anno, Adelphi, Milano, 1985.
8 Christa Wolf, Medea, Stimmen, Deutschen Taschenbuch, München, 1996; trad. it. e note a cura di Anita Raja, Medea,
e/o, Roma, 1996.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. Analisi testuale: la voce e il tempo

In Cassandra è dunque la veggente a narrarci la guerra di Troia, ogni personaggio ed

evento è filtrato dal suo occhio. L’incipit ha luogo a Micene, con il ritorno di Agamennone

vincitore. La guerra è quindi conclusa, vinta dai greci, e noi ne veniamo a conoscenza seguendo il

filo dei ricordi della profetessa. Il primo capoverso esplicita il legame del racconto con le Premesse

a Cassandra:9 la voce narrante è quella della scrittrice, narratore extradiegetico, che, nel corso del

suo viaggio a Micene, di fronte alla Porta dei Leoni, immagina Cassandra negli ultimi istanti della

sua vita, prima di morire per mano di Clitennestra:

Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l'hanno fissata.

Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l'ultima cosa che vide. Un

nemico da tempo dimenticato e i secoli, sole, pioggia, vento, l'hanno spianata. Immutato il cielo,

un blocco d'azzurro intenso, alto, distante. Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano

il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.

Con il passaggio seguente «Con questo racconto vado nella morte» (Mit der Erzählung geh

ich in den Tod)10 si verifica uno scarto dalla terza alla prima persona, dal tempo passato al tempo

presente. È Cassandra a prendere la parola, e con lei, la scrittura “va nella morte”.

Hier ende ich, ohnmächtig, und nichts, nichts was ich hätte tun oder lassen, wollen oder

denken können, hätte mich an ein andres Ziel geführt.11

Dal terzo fino all’ultimo capoverso la voce narrante è quella della veggente, sotto forma di

monologo interiore, nel quale ricordi, riflessioni, associazioni, si intrecciano in una scrittura che si

srotola in immagini nitide articolandosi su due piani temporali, presente e passato, in una forma

aperta e frammentaria. Il monologo, dal punto di vista temporale, corrisponde ad un lunghissimo

flash-back frammentato da riflessioni e percezioni relative al suo presente (la figura di Clitennestra

e la morte ormai prossima). Il tempo del discorso è diverso da quello della storia che non si

9 Christa Wolf, Premesse a Cassandra, cit.


10 Ibidem, p. 5.
11 Ibidem, p. 5.

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presenta nella sua consequenzialità diegetica, ma attraverso una struttura a regressione analettica

che si chiude con il ritorno della voce narrante dell’autrice:

Ecco dove accadde. Questi leoni di pietra l’hanno fissata. Al mutar della luce paiono

animarsi.

[v. or.: Hier ist es. Diese steinernen Löwen haben sie angeblickt. Im Wechsel des Lichts

scheinen sie sich zu rühren. ]12

La struttura temporale

Nel romanzo, la narrazione si articola su due tempi: il tempo interiore, circolare di

Cassandra, e il tempo lineare delle azioni e degli eroi. L’alternanza di questi due tempi, la linea

sinusoidale che ne deriva, dovuta dal susseguirsi di progresso e ritorno, ci dà un tempo, che

potremmo dire, riprendendo gli studi di Jean Bessière13, complessivamente acronico. L’acronia è

spiegata da Bessière come un tempo non specificato sia per mancanza di nitidezza, sia per il

ricorso ad un concatenamento di tipo non cronologico, tematico o spaziale.

Gli eventi che fanno da sfondo alla figura in divenire di Cassandra sono quelli delineati

dalla violenza della guerra con i greci, le cui immagini potrebbero illustrare perfettamente le

pagine de L’Iliade, où le poème de la force14 di Simone Weil; soprattutto quando, nella prima

parte del romanzo, Achille compare in brevi flash-back, immagini condensate di violenza pura.

Andando avanti nella lettura, le immagini si compongono sempre di più:

«Poi venne Achille la bestia. L‘ingresso dell‘assassinio nel tempio che si oscurò quando lui si

fermò sull‘entrata. Che cosa voleva quell‘uomo. […] Si fece un silenzio di tomba. Fui scrollata via,

non provai nulla. Ed ecco il nemico, il mostro sollevare la spada al cospetto della statua di Apollo e

mozzare il capo di mio fratello dal tronco».

12 Ibidem, p. 164.
13 Jean Bessière, Achronie. Littérature du XX siècle, instauration de la mémoire, in Jean Bessière e Philippe Daros (a cura di),
Instaurer la mémoire, Bulzoni, Roma, 2005.
14 Simone Weil, L’Iliade ou le poème de la force, in Œuvres, Gallimard, Paris, 1999, p. 529; trad .it. di Margherita Harwell
Pieracci e Cristina Campo, L’Iliade o il poema della forza in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino, 1984. Opera
scritta a Marsiglia, tra il ’39 e il ‘41, durante l’invasione tedesca, con lo pseudonimo di Emile Novis.

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[v. or.: Dann kam Achill das Vieh. Des Mörders Eintritt in den Tempel, der, als er im Eingang

stand, verdunkelt wurde. […] Es war totenstill. Ich wurde abgeschüttelt, spürte nichts. Nun hob der

Feind, das Monstrum, im Anblick der Apollon-Statue sein Schwert und trennte meines Bruders Kopf

von Rumpf.]15

Non Achille – l’eroe, quindi, quale ci tramanda Omero, ma Achill das Vieh, Achille – la

bestia, personaggio monodimensionale, dall’interiorità sconosciuta. Ed è proprio da questa

monoliticità che la sua rappresentazione ricava la sua forza e la sua incisività, rendendo il

personaggio simbolo della violenza cieca e ottusa.

15 Christa Wolf, Kassandra, cit., p. 89.

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3. La riappropriazione della voce femminile

In che modo Christa Wolf ridà voce al femminile nel mito?

Attraverso il recupero della storia perduta o mancante, compiuto mediante la produzione

di un “altro” ordine simbolico generato nella libertà della dimensione letteraria. Il mito viene

“demitizzato” e le vicende ricondotte a chiavi interpretative di tipo psicologico e sociale. Il

personaggio della profetessa è raffigurato come una soggettività in continuo mutamento e ricerca

di sé, in transito da una condizione di privilegio ad uno “status” di “diversa”, di marginalità e

opposizione alla politica del Palazzo (il potere).

Nel corso di questo “divenire soggetto” prende forma la domanda «Perché volli a tuti i costi

la veggenza?» (Warum wollte ich die Sehergabe unbedingt?)16

La veggenza riveste infatti un ruolo chiave nel meccanismo narrativo del romanzo: da fonte

di prestigio e fama, legata strettamente al ruolo pubblico di Cassandra, acquista

progressivamente un’altra valenza: il vedere come saper interpretare correttamente il reale, al di

là della fitta cortina mistificatrice perpetrata dal potere, con un’ottica che è “altra”, “diversa” da

quella dominante. La voce diventa il canale di espressione della veggenza, il mezzo con il quale la

profetessa esterna le sue visioni La voce quindi come portavoce dell’alterità di Cassandra; alterità

fino a quel punto relegata alla sfera dell’inconscio, e che non trova una possibilità di espressione se

non nella zona d’ombra.

Con Kassandra, la figura mitica della profetessa, si riattualizza nella Modernità grazie alla

rappresentazione in forma narrativa della questione, assolutamente moderna, dell’espressione

dell’altro da sé. Tema narrato anche da Ingeborg Bachmann, scrittrice molto amata da Wolf, le

cui eroine, come la già citata Undine, esprimono il desiderio di autodistruzione nascente

dall’impossibilità di essere e produrre conformemente ai modelli dominanti.

Nelle Premesse a Cassandra la scrittrice affronta la questione della scrittura, muovendo

dalla constatazione che la letteratura si è sviluppata sul modello della narrazione legata al

16 Ibidem, p.12.

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racconto dei conflitti, e si interroga sulla possibilità di una letteratura non più connessa con le gesta

degli eroi. La sua idea è quella di una scrittura che “parta dal basso”, di una parola viva che

rispecchi la quotidianità. In questo senso va visto il riferimento specifico alla prosa di Virginia Woolf,

riferimento ‘classico’ per la scrittrice tedesca. La memoria della Woolf, gioco associativo di

linguaggi, non lineare, non dialettico, che si dipana in una prosa fluida, ricca di percezioni, flussi di

coscienza, interruzioni, ellissi riprese, è per molti versi un modello per la scrittura della cassandra

wolfiana.

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4. Per una critica della violenza: confronto con l’Iliade


di Simone Weil

Nelle pagine di Simone Weil, nel già citato saggio sull’Iliade, possiamo rintracciare una

riflessione simile sulla violenza e sulla reificazione che si incarna nel concetto di forza, centrale nella

sua lettura dell’opera epica.

Le vrai héros, le vrai sujet, le centre de l’Iliade, c’est la force. La force qui est maniée par les

hommes, la force qui soumet les hommes, la force devant quoi la chair des hommes se rétracte.

[...] La force, c’est ce qui fait de quiconque lui est soumis une chose.

La Forza, dunque, nel saggio di Weil, è il vero argomento, il centro dell’Iliade, e la sua

proprietà principale è quella di reificare, spogliare l’essere umano di se stesso. La Forza, che stritola

chi la subisce, e inebria chi ne è provvisto, dispone del duplice potere di tramutare un uomo in

cosa. portandolo alla morte, e di quello di mutare in cosa un uomo vivente. Il “rendere oggetto”,

l’alienazione, di cui parla Wolf nelle Voraussetzungen.

Nella lettura di Weil, nell’Iliade nessuno domina la forza; è la forza che possiede gli uomini,

non c’è nessun eroe che ad un certo momento non debba piegarvisi. Chi è posseduto dalla forza,

ne è travolto, ed il suo impeto impedisce “ce bref intervalle où se loge la pensée. Où la pensée n’a

pas de place, la justice ni la prudence n’en ont. C’est pourquoi ces hommes armés agissent

durement et follement” . Non c’è distinzione tra vincitori e vinti, sono entrambi colpiti dalla

sventura, la forza reifica il vincitore non meno dello schiavo, lo rende cieco, sordo e incapace di

pensare, di fermarsi.

«Chi ritroverà la parola e quando?» (Wer wird, und wann, die Sprache wiederfinden?) si

interroga Cassandra nel romanzo. Riprendendo ancora Weil: «Un usage modéré de la force, qui

seul permettrait d’échapper à l’engrenage, demanderait une vertu plus qu’humaine, aussi rare

qu’une constante dignité dans la faiblesse.»

La riscrittura del mito operata dalla scrittrice tedesca si distacca dalla celebrazione delle

“gesta degli eroi” e indica l’utopia di un mondo che si sottrae alla colonizzazione dell’essere

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umano, nel quale la più alta forma di eroismo è quella della conoscenza di sé, che è la chiave

della grandezza della Cassandra wolfiana. Con la riscrittura, il mito si carica di temi che vanno al di

là di specifiche coordinate spazio-temporali, per porsi al centro di una radicale critica della

violenza in tutte le sue forme.

Le immagini rievocate da Cassandra nel suo percorso a ritroso nella memoria, riflettono una

violenza molteplice, che non si dispiega unicamente nella guerra, ma che agisce su diversi livelli:

sembra scaturire dal cuore della città, germogliare all’interno del potere, nel Palazzo.

Parallelamente alle descrizioni della violenza bellica, in Kassandra è narrata con finezza la

degenerazione del governo di una città in un sistema coercitivo. Il linguaggio muta piegandosi ai

nuovi scopi, la realtà viene manipolata e riproposta in chiave utile “al nuovo corso”, la guerra

perpetrata come “necessaria”: esiste un nemico, sul quale far convergere tutta l’insoddisfazione

del presente di ogni troiano. Il nemico è rappresentato dai greci, che incarnano la nuova società

violenta e patriarcale, ma l’accento è posto sulla trasformazione di Troia, sulla sua assimilazione al

nemico stesso. La città cambia assetto, la maschera della “sicurezza” nasconde il volto della

repressione, e l’esistenza di un nemico esterno tiene fuori le tensioni dalla città.

Avvolta nell’intreccio narrativo, è presente nel romanzo una lucidissima descrizione dei

meccanismi propulsori del divampare della violenza. Il nemico esterno diventa così un termine di

contrapposizione, che rende il gruppo più coeso e compatto; perché di fronte ad esso, le

differenze interne alla società divengono relative, convergono verso il centro, verso l’Ordine. La

paura, con un’azione semplificatoria, viene espulsa oltre i confini della società e, talvolta, ai suoi

stessi margini. Lo stesso abitare di questo gruppo esterno al di là dei confini, “in uno spazio altro”, lo

rende già pericoloso e malvagio, e provoca la chiusura interna e l’edificazione delle mura verso

l’esterno .

Come si è accennato sopra, il tempo interiore e il tempo dell’azione si ricompongono in un

tempo sinusoidale, nel segno dell’acronia che, secondo Jean Bessière, “permette di dire

un'anteriorità radicale, quella delle leggende e dei miti” e "instaura una memoria di ciò che

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nessuno oggi ha visto e memorizzato" . In questo caso, potremmo dire la “storia perduta,

mancante”.

La riattualizzazione del passato presente nella riscrittura dei testi fondatori del patrimonio

occidentale, è operata nell’orizzonte della ricerca di una coscienza storica, quell’ampliamento

della percezione del reale di cui ci parla Wolf nelle Voraussetzungen, e che, da un altro punto di

vista, coincide con una delle forme in cui il tragico, continuamente in metamorfosi e evoluzione, e

dunque profondamente legato alla storia, ritorna nella Modernità, riemergendo ospitato nelle

maglie del romanzo. Le questioni alla base della riscrittura, e l’andamento interrogativo della

narrazione, fanno dei personaggi descritti dei personaggi tragici, nella loro Modernità di “soggetti

altri”, “in divenire”, “migranti”. Soggetti descritti come un continuum in cui passato e futuro,

memoria e proiezioni sono interrelati.

Nella Modernità, l’eroismo è dato dal guardarsi dentro, dal saper affrontare quello che

Christa Wolf definisce Schmerz der Subjektwerdung (il dolore del divenire soggetto), in un tempo

che scorre non solo in modo lineare, seguendo la linea degli eventi, ma che, con il gioco

dell’acronia, nella composizione di passato e presente, porta all’instaurazione di una memoria

“altra”, che si fa a sua volta, nelle curve di un tempo cicloidale , espressione di una critica radicale

della violenza e premessa di un’istanza utopica.

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5. Temi. La costruzione del nemico

Le immagini rievocate da Cassandra nel suo percorso a ritroso nella memoria, riflettono una

violenza molteplice, che non si dispiega unicamente nella guerra, ma che agisce su diversi livelli:

sembra scaturire dal cuore della città, germogliare all’interno del potere, nel Palazzo.

Parallelamente alle descrizioni della violenza bellica, in Cassandra è narrata con finezza la

degenerazione del governo di una città in un sistema coercitivo. Il linguaggio muta piegandosi ai

nuovi scopi, la realtà viene manipolata e riproposta in chiave utile “al nuovo corso”, la guerra

perpetrata come “necessaria”: esiste un nemico, sul quale far convergere tutta l’insoddisfazione

del presente di ogni troiano. Il nemico è rappresentato dai greci, che incarnano la nuova società

violenta e patriarcale, ma l’accento è posto sulla trasformazione di Troia, sulla sua assimilazione al

nemico stesso. La città cambia assetto, la maschera della “sicurezza” nasconde il volto della

repressione, e l’esistenza di un nemico esterno tiene fuori le tensioni dalla città.

Avvolta nell’intreccio narrativo, è presente nel romanzo una lucidissima descrizione dei

meccanismi propulsori del divampare della violenza. Il nemico esterno diventa così un termine di

contrapposizione, che rende il gruppo più coeso e compatto; perché di fronte ad esso, le

differenze interne alla società divengono relative, convergono verso il centro, verso l’Ordine. La

paura, con un’azione semplificatoria, viene espulsa oltre i confini della società e, talvolta, ai suoi

stessi margini. Lo stesso abitare di questo gruppo esterno al di là dei confini, “in uno spazio altro”, lo

rende già pericoloso e malvagio, e provoca la chiusura interna e l’edificazione delle mura verso

l’esterno .

Come si è accennato sopra, il tempo interiore e il tempo dell’azione si ricompongono in un

tempo sinusoidale, nel segno dell’acronia che, secondo Jean Bessière, “permette di dire

un'anteriorità radicale, quella delle leggende e dei miti” e "instaura una memoria di ciò che

nessuno oggi ha visto e memorizzato". In questo caso, potremmo dire la “storia perduta,

mancante”.

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6. La riattualizzazione del passato

La riattualizzazione del passato presente nella riscrittura dei testi fondatori del patrimonio

occidentale, è operata nell’orizzonte della ricerca di una coscienza storica, quell’ampliamento

della percezione del reale di cui ci parla Wolf nelle Premesse, e che, da un altro punto di vista,

coincide con una delle forme in cui il tragico, continuamente in metamorfosi e evoluzione, e

dunque profondamente legato alla storia, ritorna nella Modernità, riemergendo ospitato nelle

maglie del romanzo. Le questioni alla base della riscrittura, e l’andamento interrogativo della

narrazione, fanno dei personaggi descritti dei personaggi tragici, nella loro Modernità di “soggetti

altri”, “in divenire”, “migranti”. Soggetti descritti come un continuum in cui passato e futuro,

memoria e proiezioni sono interrelati.

Nella Modernità, l’eroismo è dato dal guardarsi dentro, dal saper affrontare quello che

Christa Wolf definisce Schmerz der Subjektwerdung (il dolore del divenire soggetto), in un tempo

che scorre non solo in modo lineare, seguendo la linea degli eventi, ma che, con il gioco

dell’acronia, nella composizione di passato e presente, porta all’instaurazione di una memoria

“altra”, che si fa a sua volta, nelle curve di un tempo cicloidale , espressione di una critica radicale

della violenza e premessa di un’istanza utopica.

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Bibliografia

 Bachmann, Ingeborg, Undine geht. Erzählungen, 1973; trad. it. di Magda

Olivetti, Ondina se ne va, in Il trentesimo anno, Adelphi, Milano, 1985.

 Bessière, Jean, Achronie. Littérature du XX siècle, instauration de la mémoire,

in Jean Bessière e Philippe Daros (a cura di), Instaurer la mémoire, Bulzoni,

Roma, 2005.

 Givone, Sergio, Prefazione, in Peter Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino,

1999.

 Brunel, Pierre, (a cura di), Dictionnaire des mythes littéraires, E1988; trad. it. e

cura di Gianfranco Gabetta, Dizionario dei miti letterari, Bompiani, Milano,

2004.

 Schiavoni, Giulio, Prospettive su Christa Wolf. Dalle sponde del mito,

Francoangeli, Milano, 1988.

 Svandrlik, Rita (a cura di), Il riso di ondina, Quattro venti, Urbino, 1992.

 Vernant, Jean-Pierre - Vidal-Naquet, Pierre , Mythe et tragédie en Grèce

ancienne, 1973; trad. it. di Mario Rettori, Mito e tragedia nell’antica Grecia,

Einaudi, Torino, 1976.

 Weil, Simone, L’Iliade ou le poème de la force, 1999; trad .it. di Margherita

Harwell Pieracci e Cristina Campo, L’Iliade o il poema della forza in La

Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino, 1984.

 Wolf, Christa, Kassandra / Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra,

Aufbau, Berlin und Weimar, 1983; trad. it e cura di Anita Raja, Cassandra e

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Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, e/o,

Roma, 1984.

 Wolf, Christa, Medea, Stimmen, Deutschen Taschenbuch, München, 1996;

trad. it. e note a cura di Anita Raja, Medea, e/o, Roma, 1996.

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Indice

1. LO SCARTO DALLA TRADIZIONE ............................................................................................................. 3


2. CHRISTA WOLF: UNA RIFLESSIONE SUL CAPRO ESPIATORIO ................................................................ 6
3. LINEAMENTI DI ANALISI DEL TESTO: LA VOCE ....................................................................................... 8
4. USO DEL PUNTO DI VISTA NELLE NARRATIVE SITUATE ......................................................................... 11
5. TEMI. LA RAPPRESENTAZIONE DEL DIVERSO E DEL NEMICO INTERNO ............................................... 15
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 17

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1. Lo scarto dalla tradizione

L'episodio centrale della Medea di Euripide, e che costituisce lo scarto rispetto alle versioni

precedenti, è l'infanticidio. L'immagine presentata da Euripide di Medea è quella di un essere

umano dotato della conoscenza di arti malefiche, mentre altre fonti rimandano ad un'origine

divina (discendente del sole, nipote di Eros e Selene, nipote o sorella di Circe, figlia di Ecate).

In Euripide, Medea, ingannando il padre e il fratello, aiuta Giasone e gli Argonauti a

riconquistare il vello d'oro e fugge con lui a Corinto. Qui, abbandonata dal marito che medita di

sposare Glauce, la figlia del Re Creonte, le procura la morte con una veste avvelenata, incendia

la città, e uccide i propri figli per punire Giasone. Il suo ruolo è quello di vittima e carnefice, preda

di una terribile passione che la spinge a commettere il più orrendo dei crimini: l'infanticidio. Ed è

proprio nell'infanticidio che risiede la maggiore innovazione, o "menzogna", di Euripide rispetto alle

versioni precedenti.

Dopo Euripide, la storia di Medea a Corinto sarà narrata, fino a Christa Wolf, seguendo la

versione del mito scelta dal tragediografo ateniese. In Seneca, la trama euripidea si carica ancor

più di valenze negative. La Medea di Seneca è "nera", infernale, demoniaca. Scomparso anche

l'elemento della passione amorosa che la travolge, Medea qui è privata dei suoi tratti umani, e il

suo agire è ispirato da una fredda e premeditata crudeltà. Ella incarna il Male, e l'ebbrezza nel

compierlo: "Medea nunc sum; crevit ingenium malis", "Ora sono Medea, il mio io è maturato nel

male".

Facendo un salto avanti nel tempo, nel 1817, troviamo Grillpärzer, colpito dall'opera lirica di

Cherubini, alle prese con Medea. Il drammaturgo tedesco scrisse la trilogia Il vello d 'oro composta

da: L 'ospite, che narra di Medea adolescente e figlia di Re in Colchide; Gli Argonauti, sulla fuga di

Medea dalla sua terra natia per amore di Giasone, dopo averlo aiutato a conquistare il vello d'oro

ed aver tradito il padre e la patria; Medea, che narra del suo arrivo in Grecia, dove si svolge la

tragedia. Medea, a Corinto è la barbara, la straniera, dotata di inquietanti doti magiche. La sua

diversità suscita repulsione, perfino in Giasone, che l'abbandona per Creusa. A differenza delle

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altre versioni, la Medea di Grillpärzer si conclude con la dolorosa separazione dei due, senza

l'elemento dell'infanticidio.

Più di un secolo dopo viene rappresentata "La lunga notte di Medea" al Teatro nuovo di

Milano (1949). L'opera è scritta da Alvaro, la regia e le interpretazioni sono affidate a Tatiana

Pavlova, le scene e i costumi di Giorgio De Chirico. Il periodo è quello del dopoguerra, nel quale il

tema della diversità razziale è di dolorosa attualità. La Medea di Alvaro è una creatura oppressa

che arriva ad uccidere i figli per salvarli dalla furia dei Corinzi, da una morte quindi peggiore.

1970: esce nelle sale la Medea di Pier Paolo Pasolini, interpretata da Maria Callas, già

interprete della Medea di Cherubini. Ecco le parole di Pasolini sulla sua opera:

Il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale, e sempre irrisolto, tra un

mondo povero, plebeo, diciamo sottoproletario e un mondo colto, borghese storico. Questa volta

ho affrontato direttamente questo tema: Medea è l'eroina di un mondo sottoproletario, arcaico,

religioso; Giasone, invece, è l'eroe di un mondo razionale, laico, moderno ed il loro amore

rappresenta il conflitto tra questi due mondi [...] Medea viene da un mondo arcaico religioso, in cui

si fanno ancora dei sacrifici umani, quindi preistorico. Passa dieci anni a Corinto, in seno a una

civiltà molto evoluta, opulenta; questi dieci anni l'hanno levigata, le hanno fatto acquisire certi

aspetti esteriori di una donna moderna, elegante: nel suo fondo è però incancellabile la sua

origine, che viene fuori in questa visione in cui immagina di vendicarsi crudelmente, violentemente,

come è nel suo carattere di barbara, attraverso un'opera di magia. E quindi sogna il mito, il mito di

Euripide, cioè di mandare dei vestiti magici a Glauce, che li indossa, brucia e muore; e così si

compie la vendetta di Medea barbara. Poi Medea si risveglia e ritorna nel modo della realtà; ma

pian piano le cose si mettono in modo che avviene nella realtà quello che lei aveva sognato. La

morte, però, il riaccadimento del destino non avviene per ragioni mitiche, e magiche, ma per

ragioni psicologiche, perché nell'epoca moderna quello che conta sono le ragioni psicologiche,

razionali, determinabili. È una mia vecchia polemica contro la civiltà borghese e piccolo-borghese,

mentre tutto ciò che è irrazionale, ad esempio l'arte, contesta questo. Il potere si fonda sempre

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sulla ragione. E allora in Medea ho voluto dimostrare. in maniera assolutamente favolosa, mitica e

narrativa, la violenza incancellabile dell'irrazionalità. 1

1 Intervista in, Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, La Nuova Italia, Firenze, 1996.

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2. Christa Wolf: una riflessione sul capro espiatorio

Tredici anni dopo, gli eventi storici (la caduta del muro di Berlino, 1989, e la Wende in

Germania) spingono nuovamente la scrittrice, come era già successo con Kassandra, a risalire il

tempo sino ad arrivare alle sponde del mito. La figura che appare è Medea: la maga, la barbara,

l'infanticida, la fonte di tutti i guai di Corinto. Medea 2 (1996) è infatti una riflessione sul tema della

vittima e del capro espiatorio, che parte dalla constatazione di come la nostra cultura, nei

momenti di crisi, ricade negli stessi modelli di comportamento.

La ricerca di un capro espiatorio è un istinto incredibilmente forte e radicato dentro di noi.

Durante la Wende [svolta] si è visto che proprio la DDR e molti di quanti vi avevano vissuto sono

stati demonizzati e poi trasformati in capro espiatorio...3

"Per quale ragione abbiamo sempre bisogno di vittime umane? Perché in modo ricorrente

si verifica il sacrificio di interi popoli, oppure di intere "razze", o anche di singoli individui? Perché

abbiamo bisogno di tutto ciò?" Queste sono le domande contenute nel romanzo. Con Medea,

attraverso il mito si vogliono illustrare i meccanismi che portano i nativi, incapaci di risolvere i propri

problemi, alla trasformazione dello "straniero" in capro espiatorio.

La stretta correlazione tra l'elaborazione dell'opera di Wolf e gli avvenimenti storico-politici

che attraversano la Germania e che servono poi da spunto per una riflessione più ampia non è

difficile da cogliere: Medea si situa al confine tra due sistemi di valori: la Colchide, terra barbara e

matriarcale, e Corinto, patriarcale e "civilizzata", nella quale Medea è vista con sospetto, perché

"diversa", e ritenuta di una civiltà inferiore, barbara. Medea per sopravvivere deve adattarsi alle

nuove condizioni, considerate superiori, più evolute, ma non necessariamente più umane. Anche

qui, come in Cassandra, la figura di Medea diviene una figura simbolica nella quale la

2 Christa Wolf, Medea, Stimmen, cit.


3 Christa Wolf al Salone del libro di Torino, intervista pubblicata in G. Schiavoni (a cura di), Prospettive su Christa Wolf. Dalle
sponde del mito, Francoangeli, Milano, 1998, p. 39.

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riappropriazione della soggettività delle figure femminili nel mito si intreccia alla riflessione sulla

violenza nelle sue diramazioni: la violenza verso ciò che è "altro", "diverso" e che spinge l'essere

umano, nei momenti di crisi, ad individuare una fonte di tutti i mali, un capro espiatorio. Cassandra

e Medea: figure di donne marginalizzate, storicamente perdenti, espressioni di una tormentata

soggettività non conforme ai meccanismi di potere, e ai parametri dominanti.

L'interesse di Christa Wolf per Medea risale al 1990. Dopo la Wende in Germania e la

violenza della caccia alle streghe che colpì gli intellettuali sospetti di aver collaborato con la Stasi

la sua riflessione si soffermò sul bisogno radicato nella nostra cultura di trovare sempre, nei periodi

di crisi, dei capri espiatori.

Fu innanzi tutto il tema della "colonizzazione" e dell'avversione per ciò che è straniero a

sembrarmi insito nella figura di Medea: per me lei era la "barbara che viene dall'est. 4

4 Christa Wolf, cfr. la lettera scritta a H. Gottner-Abendroth, tradotta in Italia da Anita Raja, in L'altra Medea. Premesse a un
romanzo, e/o, Roma, 2000.

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3. Lineamenti di analisi del testo: la voce

In Cassandra l'io narrante è rappresentato come un punto d'intersezione di persone, tempi,

luoghi molteplici; un io in divenire che prende forma da un monologo interiore nel quale le altre

figure sono tracce nella coscienza di Cassandra. La struttura di Medea è una struttura polifonica,

non a caso il sottotitolo è Stimmen, Voci. L'io narrante si dissemina nelle voci di Medea, Giasone,

Agameda, Acamante, Leuco e Glauce.

È opportuno aprire una piccola parentesi sul concetto di polifonia e punto di vista, in

quanto elementi fortementi caratterizzanti della struttura formale del romanzo.

L’espressione punto di vista è stata tecnicizzata in ambito critico dalle osservazioni di Henry

James contenute nelle sue Prefazioni, sulla necessità per il romanziere di dare l’illusione di un

processo reale, inquadrando «via via i fatti nella coscienza dell’uno o dell’altro personaggio, ed

evitando la neutralità del cosiddetto “narratore onnisciente”, propria della narrazione classica e in

particolare dell’epopea».

Possiamo “narrare più o meno quel che narriamo, e narrarlo secondo vari punti di vista; la

nostra categoria del modo narrativo si riferisce precisamente a una simile capacità, e alle

modalità del suo esercizio. Su questo punto, Gerard Genette spiega:

la «rappresentazione», o più esattamente l'informazione narrativa, ha i suoi gradi; il racconto

può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno diretta, e sembrare così

(per riprendere una metafora spaziale corrente e pratica, a condizione di non prenderla alla

lettera) a più o meno grande distanza da quel che esso racconta; può anche scegliere di dosare

l'informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro uniforme, ma a

seconda delle capacità di conoscenza del « punto di vista» che ha deciso di adottare.

«Distanza» e «prospettiva» sono le due modalità essenziali della regolazione

dell'informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la mia visione di un quadro

dipende, per la precisione, dalla distanza che mi separa da esso, e per l'estensione, dalla mia

posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da schermo.

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Genette distingue a ragione tra le due domande a cui implicitamente si tenta di rispondere

con lo studio del punto di vista. La prima è la: «Qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la

prospettiva narrativa?», ovvero si sta parlando di chi vede.

Segue la seconda: «Chi è il narratore?» Abbiamo visto che, rispondendo alla seconda

domanda, si può fare un uso abbastanza preciso delle persone (che Genette chiama voci). In

questo caso la domanda riguarda chi parla.

Si è registrato un accordo generale su una tipologia a tre termini, il primo dei quali

corrisponde al racconto chiamato, dalla critica anglosassone, «racconto con narratore

onnisciente», simboleggiato, da parte di Todorov, mediante la formula

Narratore > Personaggio (in cui cioè il narratore ne sa di più del personaggio, o meglio ne

dice più di quanto ne sappia uno qualunque dei personaggi);

Narratore = Personaggio (il narratore dice solo quello che sa il personaggio in questione): è

il racconto con «punto di vista», o «campo ristretto», o ancora «visione con»;

Narratore < Personaggio (il narratore ne dice meno di quanto ne sappia il personaggio): si

tratta del racconto «oggettivo» o «behaviourista», chiamato da Pouillon «visione dall'esterno».

Per evitare il carattere troppo specificamente visivo dei termini visione, campo, e punto di

vista, riprendiamo ora il termine un po' più astratto di focalizzazione, elaborato da Genette. La

focalizzazione indica il luogo (la persona) nella cui prospettiva (nel cui campo di visione) la

narrazione è condotta.

Nel caso del narratore onnisciente, rappresentato in genere dal racconto classico, si parla

di racconto non-focalizzato, o di racconto a focalizzazione zero. Esempi di narrazione

«onnisciente», con o senza «intrusioni d'autore», sono i romanzi di Henry Fielding o Thomas Hardy.

Il secondo caso è il racconto a focalizzazione interna, che può essere:

fissa, quando tutto è visto da un solo personaggio. Ad esempio nel romanzi di Henry James

Gli ambasciatori – dove tutto passa attraverso la visione di Strether –o in Cosa sapeva Maisie , dove

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non abbandoniamo quasi mai il punto di vista della ragazzina, la cui « restrizione di campo» è

particolarmente spettacolare in quella storia di adulti, il cui significato le sfugge.

variabile, quando più di un personaggio, secondo gli episodi, diventa di volta in volta

«focale». Un esempio classico è Madame Bovary di Flaubert, dove il personaggio focale è in un

primo tempo Charles, per poi essere Emma, e infine ancora Charles. In maniera molto più rapida e

inafferrabile, avviene anche nei romanzi di Stendhal.

multipla, come nei romanzi epistolari, dove lo stesso avvenimento può essere evocato

varie volte a seconda del punto di vista di numerosi personaggi corrispondenti. Genette ricorda

come “poema narrativo di Robert Browning, The Ring and the Book (su un caso criminale visto

successivamente dall'assassino, dalle vittime, dalla difesa, dall'accusa, ecc.) abbia costituito per

vari anni l'esempio canonico di questo tipo di racconto prima di essere sostituito dal film

Rashomon.

Il terzo caso è il racconto a focalizzazione esterna, reso popolare, nel periodo fra le due

guerre, dai romanzi di Dashiel Hammet, dove il protagonista agisce davanti a noi senza che siamo

mai ammessi a conoscere i suoi pensieri o i suoi sentimenti. Lo stesso si verifica in certe novelle di

Ernest Hemingway, come The Killers o, meglio ancora, Hills like White Elephants, dove la discrezione

viene spinta ai limiti dell'indovinello.

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4. Uso del punto di vista nelle narrative situate

Il punto di vista e la voce sono strumenti importanti in quel tipo di narrativa che intende

raccontare la Storia o il Mito da prospettive diverse e minoritarie, restituendo dunque la voce ai

soggetti dimenticati o considerati marginali, come le donne o i soggetti non occidentali. In questo

ambito, lo sviluppo degli studi culturali è stato attraversato dalle riflessioni degli studi di genere e

degli studi postcoloniali. Poiché questa lezione è dedicata alla riscrittura di una figura femminile del

mito, ad opera di un’autrice caratterizzata da un forte impegno etico e politico, vale la pena

riprendere alcune considerazioni appartenenti all’ambito degli studi di genere, definiti come «un

discorso complesso dove diversi saperi interagiscono, coinvolgendo questioni legate al potere e

alle diverse posizioni – complicità e resistenze incluse – che uomini e donne assumono o rivestono

nella società».5 Secondo Rita Monticelli,

Gli studi di genere, i women’s studies e la critica post-coloniale hanno obiettivi comuni

importanti, tra questi riportare alla luce le storie e le esperienze dei soggetti altri. In tal senso la

carica decostruttiva degli studi di genere e della critica post-coloniale si pone come

magnificazione del ritorno del represso, cosicché questi studi si presentano come un testo

metamorfico, che riporta alla luce i substrati profondi dei testi letterari, che si apre al perturbante e

propone visioni dal punto di vista dell’altro, delle voci messe a tacere, dei personaggi minori [...].

(Ivi)

Sul concetto di riscrittura, e dunque di re-visione, è stato detto:

Con re-visione si intende “ri- guardare” la Storia, i saperi non più da un punto di vista andro-

e eurocentrico, ma con originali prospettive critiche, partendo dal punto di vista del soggetto

donna. Questo nuovo sguardo, che ha costituito un’importante svolta epistemologica, si attua

proprio tramite l’atto del comparare, del mettere a confronto per esempio negli studi letterari la

cultura cosiddetta mainstream con le culture emarginate, eliminando la separazione tra cultura

5 R. Monticelli, “Identità e differenza: teorie critiche negli studi di genere e post-coloniali”,


in Le prospettive di genere: discipline, soglie e confini, 2005.

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alta e bassa e facendo interagire diversi saperi e codici artistici (per esempio il cinema, la

televisione, il fumetto e la cultura orale). 6

La rivendicazione della voce, e la scrittura situata, posizionata, sono alla base di questo

approccio. Dei saggi importanti su questo tema, che hanno ispirato la letteratura critica a venire

sono stati:

 Adrienne Rich, Notes Toward a Politics of Location (1986)

 Donna Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege

of Partial Perspective, «Feminist Studies» 14, pp. 575-99 (1988)

Insieme a Donna Haraway, e la sua teoria dei «saperi situati» (1988), Rich sostiene che il

riconoscimento della posizione da cui parliamo, leggiamo e produciamo cultura porta

inevitabilmente al rifiuto di false generalizzazioni su tutte le donne e di ogni pericolosa forma di

universalismo. A differenza del soggetto egemone, le identità postulate dalla critica femminista

sono radicate nelle condizioni materiali e culturali che danno forma alla loro soggettività. 7

Il posizionamento, la riappropriazione della voce, e la possibilità di raccontare le voci

sommerse, trascurate dalle narrazioni dominanti, a un livello formale sono determinate dall’uso che

si fa del punto di vista e della voce. L’utilizzo di molteplici punti di vista, ad esempio, è spesso rivolto

a evitare una narrazione assoluta, ma a fornire aspetti inediti in una prospettiva corale.

1.1 5. Le voci e l’Altra Medea di Christa Wolf

Ogni voce è un ritratto di Medea filtrato dall'occhio e dalle passioni (o dai calcoli) che la

guardano. Le voci sono sei "io" differenti che raccontano ognuno la propria "verità" su Medea, "io"

isolati, imprigionati nell'incomunicabilità, in uno sguardo troppo condizionato per poter conoscere

anche solo la verità su loro stessi. L'oggetto dei loro monologhi è Medea, dalla quale sono attratti e

respinti allo stesso tempo. Subiscono il suo fascino, ma la sua indipendenza li urta.

6 V. Fortunati, “Gli studi di genere e il comparatismo: un confronto critico tra discipline”,


in Le prospettive di genere: discipline, soglie e confini, 2005.
7 R. Baccolini, “Leggere da donne, leggere le donne: le critiche letterarie femministe”,

in Le prospettive di genere: discipline, soglie e confini, 2005.

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[Leuco] A volte mi chiedo che cosa dà a una persona, che cosa ha dato a questa donna il

diritto di porci di fronte a decisioni che non siamo all'altezza di prendere, ma che ci lacerano e ci

lasciano sconfitti, falliti, colpevoli.

[Leukos] Und manchmal frage ich mich, was gibt einem Menschen, was gab dieser Frau

das Recht, uns vor Entscheidungen zu stellen, denen wir nicht gewachsen sind, die uns aber

zerreißen und uns als Unterlegene, als Versagende, als Schuldige zurücklassen. 8

Nel costruire il personaggio Wolf risale alle fonti pre-euripidee (Esiodo, Pindaro, Apollonio

Rodio), secondo le quali Medea era una divinità che nel corso della degradazione delle figure

femminili fu trasferita sulla terra con il ruolo di maga e guaritrice. Una figura mitica dotata quindi di

arti benefiche, espresse anche dalla radice "med" (la stessa di medicina) del suo nome,

dispensatrice di vitalità, salute, bellezza; una creatura libera e orgogliosa, scevra di qualsiasi

carattere maligno e demoniaco. Così come era narrato in origine, la Medea di Wolf è innocente:

non ha ucciso il fratello Absirto, non uccide Glauce, e soprattutto, non uccide i figli.

La sua colpa è quella di essere "diversa"; Medea, fiera e ardente, è la "donna selvaggia".

Come le viene costantemente rimproverato, Medea non è greca perché manca di misura, si

abbandona alla passione, alla sensualità, alla gelosia, ed è detentrice di un sapere diverso,

connesso al corpo e alla natura e non riconducibile al logos.

”[Merope] mi aveva condotta fin qui, alla fine degli inferi, dove dopo il terrore mi assalì il

panico, giacché in un silenzio sinistro si avvicinò strisciando qualcosa davanti a cui dovetti

nascondermi, ma non c'erano feritoie, aperture nella roccia. Quel che avanzava strisciando aveva

appreso a muoversi senza rumore e senza produrre spostamenti d'aria, meglio di quanto riesca a

fare io, perché tu mi hai insegnato molto presto questo modo di muoversi, madre, che consiste in

8 Christa Wolf, Medea, cit., p. 207. Traduzione di Anita Raja in op. cit., p.223.

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minuscoli non-movimenti, e anche a fondermi col muro mi hai addestrato – ne avrei avuto bisogno

nel palazzo di mio padre, dicesti, prima ancora che capissi perché”

[Merope] Die mich bis hierher geführt hatte, ans Ende der Unterwelt, wo mich nach dem

Grauem die Panik überfiel, denn da kroch in unheimlicher Stille etwas heran, vor dem ich mich

verbergen mußte, aber da war kein Spalt, keine Ritze im Fels. Was da heranschlich, hatte gelernt,

sich lautlos zu bewegen und nicht einmal einen Luftzug zu verursachen, besser noch, als ich es

kann, denn du hast mir sehr früh diese Art der Bewegung beigebracht, Mutter, die aus winzigen

Nichtbewegungen besteht, und auch mit der Mauer zu verschmelzen hast du mich gelehrt – ich

brauche das in meines Vaters Palast, sagtest du, ehe ich verstand, warum. 9

9 Ibidem, p. 21. Trad. cit., p. 24.

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5. Temi. La rappresentazione del diverso e del nemico


interno

In Cassandra e Medea, attraverso la narrazione letteraria, è presente una lucidissima

descrizione dei meccanismi propulsori del divampare della violenza, che in Kassandra paiono

svilupparsi secondo lo schema delle masse contrapposte, in base al quale è garanzia e fonte di

coesione di un gruppo l'esistenza di un altro, dal quale esso si senta minacciato e "con la cui massa

si intrecci specularmente o doppiamente"10.

Il nemico esterno diventa così un termine di contrapposizione che rende il gruppo più

coeso e compatto; di fronte ad esso le differenze interne alla società divengono relative e

convergono verso il centro, verso l'Ordine. La paura, con un'azione semplificatoria, viene espulsa

oltre i confini della società e, a volte, ai suoi stessi margini. Lo stesso abitare di questo gruppo

esterno al di là dei confini, "in uno spazio altro", lo rende già pericoloso e malvagio e provoca la

chiusura interna e l'edificazione delle mura verso l'esterno.

In Medea l'Ordine interno è mantenuto invece dall'identificazione di un capro espiatorio sul

quale scaricare le magagne della società: Medea; donna, barbara, maga. Cosa poteva trovare

di meglio Corinto? Lo scheletro dell'opera, sul quale si snodano gli avvenimenti che portano al

sacrificio di Medea, ci porta alle riflessioni di René Girard sul capro espiatorio, citato non a caso

nelle epigrafi del romanzo.

La società cerca di sviare in direzione di una vittima relativamente indifferente, una vittima

“sacrificabile”, una violenza che rischia di colpire i suoi stessi membri, coloro che intende

proteggere a tutti i costi. [...] Sono i dissensi, le rivalità, le gelosie, le liti tra i vicini che il sacrificio

pretende anzitutto di eliminare, è l'armonia della comunità che esso restaura, è l'unità sociale che

esso rafforza”.11

10 Sul tema delle masse contrapposte, si veda Elias Canetti, Masse und Macht (1960), Fischer Tachenbuch, Frankfurt am
Main, 1980; trad. it di Furio Jesi, Massa e Potere, Adelphi, Milano, 1981, pp. 80-90. Cfr. anche Roberto Escobar, Op. cit., p.
154.
11 René Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris, 1972; trad. it. di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, La violenza e il sacro,
Adelphi, Milano, 1980, p.p. 17-22.

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Nella "barbara" Medea, contrassegnata dall'alterità, la "civilizzata" Corinto localizza la colpa

della sua crisi interna, rinsaldando così i legami tra i suoi abitanti. Creando un nemico, Corinto

scinde il bene dal male e lo identifica in Medea, che appare alla massa come "Altro" da essa e

quindi colpevole, responsabile di tutta l'angoscia ed insicurezza del mondo. Medea assume quindi

il ruolo di pharmakos12, veleno e antidoto al tempo stesso, causa del disordine e, poiché vittima

sacrificale, propiziatrice del ripristino dell'Ordine.

12 Pharmakos: nella Grecia del quinto secolo, la città manteneva a sue spese un capro espiatorio da sacrificare
all'occorrenza, soprattutto nei periodi di calamità. Cfr. René Girard, op. cit.

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Bibliografia

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 Haraway, Donna, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism

and the Privilege of Partial Perspective, «Feminist Studies» 14, pp. 575-99

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Adelphi, 2002.

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punto di vista, Zanichelli, Bologna, 1985.

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Francoangeli, Milano, 1988.

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 Rich, Adrienne, Notes Toward a Politics of Location (1986)

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 Wolf, Christa, Medea. Voraussetzungen zu einem Text. Mythos und Bild,

Luchterhand, München, 1996; trad. it. di Chiara Guidi, L'altra Medea:

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Indice

1. L’IMMAGINAZIONE METASTORICA ........................................................................................................ 3


2. CONCETTI PSICOANALITICI: L’INCONSCIO........................................................................................... 5
3. LE FORMAZIONI DI COMPROMESSO E IL LAVORO ONIRICO .............................................................. 7
4. IL RITORNO DEL RIMOSSO E LA TEORIA LETTERARIA ............................................................................. 9
5. IL CONCETTO DI “TRAUMA” E I TRAUMA STUDIES ............................................................................... 12
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 14

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1. L’immaginazione metastorica

In riferimento al dibattito contemporaneo sul rapporto tra letteratura e storia, la teorica

americana Amy J. Elias riprende le posizioni di Frederic Jameson e Linda Hutcheon, aggiungendo

degli elementi interpretativi nuovi1. Per Elias, nell’immaginario postmoderno, la storia è desiderio per

un luogo sempre differito, sfuggente. Questo desiderio per la storia, e per un’alterità imprendibile e

in divenire, secondo la studiosa, coincide con la dimensione romanzesca e fiabesca del romanzo

metastorico (2001, 67).2

La storia, dunque, è ciò che sfugge, sublime regno di verità mai completamente

accessibile e catturabile, regno del caos, del terrore ma anche della potenziale rivelazione. Con il

rifiuto della fuga dalla storia, il romanzo metastorico si pone come narrazione fortemente

problematica e autoriflessiva che nella sua ricerca di significati instaura diversi modi di relazione

con il passato.

Secondo Amy Elias, le opere di questo genere, nate «consapevoli» della posta in gioco

insita in ogni ricostruzione storiografica, rivelano una tensione verso la storia segnata più dal

desiderio che dalla pretesa di una ricostruzione storiografica puntuale o di una controstoria da

contrapporre alla storia ufficiale. In questo senso Elias utilizza il concetto di sublime desire che

intitola il suo libro. Nella sua disamina, la coscienza storica di fine secolo si configura come una

coscienza post-traumatica che si relaziona alla storia come un orizzonte desiderato ma mai

raggiunto, e che può essere soltanto avvicinato.

Tornando alla letteratura e alle sue strategie narrative, questo desiderio verso la Storia porta

a nuove rappresentazioni del passato storico: come ricorda Amy Elias (2000, p. 20), Robert Scholes

1 Nel suo Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism Jameson considera la narrazione postmoderna come
«depthless pastiche» privo di critica sociale e derivante dalla condizione del lavoro intellettuale imposta dal modo di
produzione tardo capitalista. Al contrario, Linda Hutcheon in Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction vede nel
gioco postmoderno della narrativa con la storia una forma di critica culturale potenzialmente sovversiva e definisce questo
tipo di narrazione metastorica Historiographical metafiction. Cfr. Jameson, F. (1991) Postmodernismo, ovvero la logica
culturale del tardo capitalismo, trad. it di Stefano Velotti, Garzanti, Milano, 1989; L. Hutcheon (1988), A Poetics of
Postmodernism, History, Theory, Fiction, New York, Routledge.
2 «For the postmodernist imagination, history is desire, the desire for the space of History that it finds is always deferred [...] The

desire for history is the fabulatory, romance element of the metahistorical romance, the desire for the always receding,
always beckoning Other». A. Elias, Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore, Johns Hopkins University Press,
2001, p.67.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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vede nella narrativa postmoderna successiva agli anni Cinquanta (quella, tra gli altri, di Kurt

Vonnegut, Lawrence Durrell, John Barth e Iris Murdoch) una prevalenza del romance sul novel,

dovuta al piacere della forma, dell’affabulazione, della propensione all’allegoria e, non da ultimo,

un ritorno dell’afflato etico.

La sua interpretazione della narrativa postmoderna, e nello specifico, di quello che lei

chiama il romanzo metastorico, comprende il concetto di trauma, sul quale è necessario aprire

una piccola parentesi, e introdurre alcuni concetti di psicoanalisi.

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2. Concetti psicoanalitici: l’inconscio

Prima di tutto, è opportuno tenere presente che termini e concetti della critica

psicoanalitica provengono dalle innovazioni introdotte da Sigmund Freud, alle soglie del

Novecento, nel trattamento delle malattie mentali. La “rivoluzione copernicana” di Freud ha

sottratto lo studio e la cura delle patologie nervose all’ambito strettamente medico della

neurofisiologia.

Anziché affrontare i casi clinici attribuendo le cause a delle disfunzioni cerebrali, Freud ne

cercava il motivo in accadimenti traumatici dell’esistenza trascorsa, di cui il paziente ha perduto la

memoria. Il medico doveva rivestire i panni dell’analista per riportare alla luce i problemi psichici

profondi; e ciò era possibile attraverso un minuto lavoro di interpretazione e scavo delle espressioni

meno controllate (soprattutto i sogni e le libere associazioni). Da queste premesse deriva la

psicoanalisi, e con essa, la verifica pratica nel dialogo con i pazienti: la cosiddetta “relazione

analitica”.

L'inconscio è la parte della nostra psiche che non raggiunge il livello della coscienza. La

nozione include il luogo delle pulsioni elementari, tra cui le pulsioni sessuali (lat. Libido, gr. Eros).

L’aggettivo “inconscio” è talora usato per qualificare l’insieme dei contenuti non presenti nel

campo attuale della coscienza.

Nel senso “topico”, inconscio designa uno dei sistemi definiti da Freud nel quadro della sua

prima teoria dell’apparato psichico: esso è costituito da contenuti rimossi cui è stato rifiutato

l’accesso al sistema preconscio- conscio mediante la rimozione.

Tra la coscienza e l’inconscio Freud ipotizzò uno strato intermedio: il preconscio, attraverso

cui le propaggini del preconscio potevano raggiungere la coscienza. Di tipo preconscio sono i

sogni e le libere associazioni che costituiscono il materiale privilegiato dell’analisi freudiana.

Tra preconscio e inconscio si situa la “censura”, cioè quel meccanismo che impedisce

l’accesso ai desideri inconsci e ne provoca la rimozione. Attraverso la rimozione, l’Io erige un

meccanismo di difesa contro l’aggressività istintuale contro le pulsioni; queste però possono

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riaffacciarsi con un “ritorno del rimosso”, puntando su obiettivi deviati rispetto a quelli che erano

stati impediti. Così dalle istanze sessuali bloccate derivano i sintomi dei diversi disturbi mentali che

possono concernere altri oggetti e motivi.

I caratteri essenziali dell’inconscio come sistema possono essere così riassunti:

A. I suoi contenuti sono “rappresentanze” delle pulsioni;

B. Questi contenuti sono regolati da meccanismi specifici del processo primario, specie dalla

condensazione e dallo spostamento

C. Fortemente investiti di energia pulsionale, essi cercano di ritornare nella coscienza e

nell’azione (ritorno del rimosso); ma non possono avere accesso al sistema Prec-C

(preconscio – conscio) se non in formazione di compromesso e dopo essere stati sottoposti

alle deformazioni della censura.

Studiare la psiche da un punto di vista topico vuol dire costruire dei modelli di tipo spaziale

(dal greco topos=luogo); da un punto di vista dinamico, vuol dire concentrare l’attenzione sui

rapporti tra i sistemi; tali rapporti possono essere di cooperazione, di conflitto, o di compromesso.

Per quanto riguarda la struttura psichica: alla triade coscienza- preconscio-inconscio, nel

1922, con il saggio L’io e l’Es, Freud aggiunge la terna: Io, Es, Super Io.

In questa terna:

 Es: serbatoio primario dell’energia psichica contenente le pulsioni ereditarie, innate e

rimosse

 Io: quella parte della psiche che è in contatto con l’esterno, attraverso la percezione.

 Super Io: costituto da quei divieti che l’IO è stato costretto ad accettare e introiettare,

erigendoli a valori ideali. Il Super Io è solo in parte cosciente e può arrivare a opprimere l’Io

con angosciosi sensi di colpa.

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3. Le formazioni di compromesso e il lavoro onirico

Freud indica con il termine “Formazione di compromesso” i fenomeni come i sogni, i lapsus, i

sintomi, i motti di spirito, in cui sistemi reciprocamente ostili non riescono a conciliarsi. Infatti il

compromesso non è pacificazione: il conflitto persiste senza che nessuna delle due forze riesca a

prevalere, anzi ne risulta qualcosa che viene sorretto da entrambe le parti.

Il punto di partenza della ricerca freudiana era stato l’interpretazione dei sogni. Freud

aveva supposto l’esistenza, al di sotto del contenuto “manifesto” del sogno, di un contenuto

“latente”, collegato all’appagamento di un desiderio inconscio. Interpretare il sogno doveva

quindi consistere in una sorta di traduzione che dalle immagini oniriche passasse ai pensieri

nascosti. Le incongruenze e le illogicità che riscontriamo nei sogni sono dovute, secondo Freud, al

particolare linguaggio del sogno, che egli chiama “lavoro onirico”.

Conosciamo l’inconscio solo indirettamente, attraverso le formazioni di compromesso,

come sogni, sintomi, deliri. Freud spiega come il racconto del sogno sia costituito da pensieri

manifesti; ci dice che se scomponiamo questo tessuto nei suoi elementi e raccogliamo le libere

associazioni del sognatore, ci troveremo a disporre di un materiale più ampio e disordinato: i

pensieri latenti, che attraverso il lavoro onirico vengono trasformati in pensieri manifesti.

Il lavoro onirico trasforma i pensieri latenti, trasportandoli il più possibile nel linguaggio

iconico; [...] quando il sogno cerca di sfociare in una scena in cui viene a realizzarsi un desiderio

che entra in conflitto con l’Io o il Super Io, scatta la censura, cioè un meccanismo di deformazione

grazie a cui il desiderio proibito o semplicemente conflittuale si realizza in maniera mascherata:

tanto da non essere più comprensibile neanche alla persona del sognatore.

I due meccanismi di cui si avvale maggiormente la censura –che Freud paragona a un

guardiano, incaricato di sorvegliare la soglia di accesso alla coscienza – sono la condensazione e

lo spostamento.

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Si ha:

 la condensazione quando diverse figure vengono fuse in una sola; ad esempio, a un

personaggio famigliare possono essere attribuiti tratti di altre persone;

 si ha lo spostamento quando l’intensità psichica sostituisce il proprio oggetto, per effetto

della censura, e si concentra su una figura o un aspetto marginali.

La condensazione si attua come una traduzione abbreviata, in vari modi: nei pensieri

manifesti troviamo meno di quanto vi fosse nei pensieri latenti, o perché certi elementi vengono

omessi del tutto, o perché viene lasciato passare solo qualche frammento, o perché gli elementi

latenti che hanno qualcosa in comune vengono combinati, sovrapposti (ad esempio, capita di

sognare una persona che è la fusione di altre due, o tre, che ha l’aspetto di X, però è vestita come

Y, o porta gli occhiali come Z, ecc.)

Lo spostamento è il processo in base a cui l’accento psichico passa da un elemento

latente, e rilevante dal punto di vista emotivo, a un elemento irrilevante [..] Talvolta lo spostamento

si manifesta come una semplice allusione.

Nella critica letteraria di impostazione freudiana, è stato sottolineato ampiamente come

tanto la letteratura quanto la psicoanalisi diano la parola al rimosso. L’oggetto comune è la psiche

nelle sue divisioni, che la letteratura esplora con i suoi linguaggi e non con le tecniche e il

metalinguaggio inaugurati da Freud. In questa idea di letteratura, la letteratura è vista come

formazione di compromesso, e il testo letterario come un testo diviso, attraversato da formazioni

eterogenee e conflittuali.

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4. Il ritorno del rimosso e la teoria letteraria

La rimozione è l’operazione con cui il soggetto cerca di respingere o di mantenere

nell’inconscio rappresentazioni (pensieri, immagini, ricordi) legati a una pulsione. La rimozione si

attua in quei casi in cui il soddisfacimento di una pulsione – atta di per sé a procurare piacere -

rischierebbe di procurare del dispiacere rispetto ad altre esigenze. Nella critica letteraria di

impostazione freudiana, è stato sottolineato ampiamente come tanto la letteratura quanto la

psicoanalisi diano la parola al rimosso. L’oggetto comune è la psiche nelle sue divisioni, che la

letteratura esplora con i suoi linguaggi e non con le tecniche e il metalinguaggio inaugurati da

Freud. In questa idea di letteratura, la letteratura è vista come formazione di compromesso, e il

testo letterario come un testo diviso, attraversato da formazioni eterogenee e conflittuali.

Un merito importante che gli va riconosciuto, ereditato dai successori di Freud, risiede

nell’atteggiamento basato sull’attenzione ai particolari apparentemente insignificanti e ai dettagli

che tendono a prima vista a sfuggire. L’analisi di Freud ci insegna a “indovinare cose segrete e

nascoste in base a elementi poco apprezzati e inavvertiti, al rimasuglio – ai rifiuti dell’osservazione”.

Tra i critici letterari di scuola freudiana si è distinto un critico italiano, Francesco Orlando (-

2012), che però si è differenziato molto dalla critica psicoanalitica tradizionale: a interessarlo non

era il Freud psicologo ma il Freud semiologo, che ha studiato le manifestazioni linguistiche

dell’inconscio. Orlando, dopo avere svolto alcune letture freudiane di Molière e di Racine, ha

proposto un libro dal titolo Per una teoria freudiana della letteratura (1973),3 in cui ha sostenuto

che, estrapolando alcune categorie interpretative del saggio di Freud su Il motto di spirito, era

possibile considerare la letteratura stessa come una formazione di compromesso, che riesce a far

emergere il represso (termine preferito a rimosso) contro le censure moral-comportamentali: il

ritorno del represso si manifesta in particolare nelle figure retoriche e nei passi ad alta densità

figurale, quindi bisognosi di interpretazione.

3 F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1973.

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Nella sua teoria, Orlando scarta gli scritti freudiani più famosi, dal libro sull’interpretazione

dei sogni a quello sul lapsus; parte invece dal libro sul motto di spirito (Il motto di spirito e la sua

relazione con l'inconscio, 1905). In questo testo, la parola arguta, la barzelletta sono viste come

esempio di comunicazione letteraria. Questo è l’unico testo in cui Freud si è occupato di una

espressione linguistica dell’inconscio socialmente fruibile.

Perché Orlando si interessa a questo testo, meno noto?

Perché mentre il sogno o il lapsus sono manifestazioni dell’inconscio che sfuggono alla

nostra volontà, nel motto, ovvero la battuta, l’inconscio si manifesta in una comunicazione

linguistica intenzionalmente rivolta a qualcuno, come succede nel linguaggio letterario. Se da una

parte Freud ritiene essenziale la forma dei motti (breve e icastica) per spiegare la loro efficacia

(una volta parafrasati perdono di forza) dall’altra pensa anche che essi siano tanto più efficaci, nel

senso di illuminanti, quando sono tendenziosi. Cioè quando suggeriscono attraverso

l’accostamento sorprendente di parole e concetti una qualche verità alternativa a quella ufficiale.

Orlando si chiede: non si potrebbe dire la stessa cosa di qualunque testo letterario valido? Non si

potrebbe dire che ci piace perché stabilisce nessi originali e perspicui tra ordini di pensiero e realtà

che i discorsi normali tengono distinti?

Orlando sottolinea come Freud veda il ricorso al motto di spirito come un modo per

aggirare la censura (ad esempio per esprimere l’aggressività sessuale, con i motti osceni). Al

tempo stesso, la tecnica della battuta – basata sul collegamento rapido tra il linguaggio e il

pensiero – permette di liberare dei contenuti e comporta “un profitto di piacere”.

Per Orlando, queste considerazioni sono estese alla letteratura. Aggiunge tuttavia una

variazione importante: mentre Freud parla di ritorno del rimosso riferendosi al premere e

all’emergere delle pulsioni censurate nella coscienza dell’individuo, dunque privata, Orlando

preferisce parlare di “ritorno del represso”, allargando così l’orizzonte alle censure imposte dalle

forze sociali.

Se Orlando avesse parlato di un ritorno del rimosso si sarebbe riferito soltanto a quelle

pulsioni di cui il soggetto è inconsapevole, mentre la letteratura è un fenomeno conscio e perciò

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sociale. Questo non riguarda solo la letteratura dichiaratamente antagonista, perché anche nei

testi letterari che presentano una versione ufficiale e conformista della realtà o della storia, dietro

la maschera, ci sono sempre delle tracce, delle istanze avverse all’ordine costituito. In questa

visione, i testi letterari ci colpirebbero perché vanno a toccare e infrangere i divieti culturali, in

questo caso, non attraverso forme inconsce ma di consapevole rivendicazione.

Quello che ci interessa è che Orlando lega l’emersione dei contenuti alla considerazione

della tecnica della letteratura: il piacere della letteratura è prodotto da una manipolazione del

linguaggio affine al gioco infantile con le parole. E poiché la società consente allo scrittore la

finzione e il gioco con il linguaggio si può parlare di “ritorno del represso formale”.

I giochi del testo sono riconducibili agli spostamenti del legame tra significato e significante,

dunque alle figure. Se questo scarto aumenta troppo, se gli spostamenti e le deviazioni tra

significati e significanti sono troppi, il testo diventa oscuro. E questo è quello che avviene nelle

manifestazioni dell’inconscio come il sogno, dove il contenuto profondo ha subito talmente tante

modificazioni che il testo del sogno risulta incomprensibile allo stesso sognatore.

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5. Il concetto di “trauma” e i Trauma Studies

Gli studi sul trauma, nati all’interno dei Memory Studies, sono diventati un filone importante

della teoria critica contemporanea. «Il trauma, in altre parole, riporta la storia e il corpo nel testo, e

fa della lettura e dell’interpretazione un atto potenzialmente politico». 4 Al centro del campo

transdisciplinare dei Trauma Studies,5 la categoria di trauma, come ha sottolineato Roger

Luckhurst,6 è stata definita in diversi modi, nell'ambito di una imponente bibliografia. Il trauma, in

quanto «messa in crisi delle fondamenta su cui si regge l'ego o l'identità di una collettività», è una

«ferita che può ricomparire come sintomo ripetuto in modo coatto», ha spiegato Cristina Demaria.7

In questa lezione il termine è usato nell’accezione formulata da Freud negli Studi sull'isteria8

e in Al di là del principio di piacere,9 ovvero di una sofferenza legata alla reminiscenza di un

determinato evento; reminiscenza che, nel momento in cui si inscrive all'interno di una dialettica tra

evento e il suo ritorno come sintomo, diventa, nell'ambito della critica letteraria e nei termini di

Cathy Caruth, “struttura dell'esperienza”. Chi ha subito un trauma non esperisce l’evento nel suo

accadere, ma lo assimila in un secondo tempo, generandone la ripetizione in diverse forme.

«Essere traumatizzati significa essere posseduti da un'immagine o un evento», spiega Caruth. 10

The pathology consists, rather, solely in the structure of its experience or reception: the event

is not assimilated or experienced fully at the time, but only belatedly, in its repeated possession of

the one who experiences it. To be traumatized is precisely to be possessed by an image or event

(Caruth 1995, 4).

4 C. Demaria, Il trauma, l'archivio e il testimone, Bononia University Press, Bologna 2012, p. 29.
5 Alcuni degli autori specialisti di questo ambito: Cathy Caruth, Cristina Demaria, Roger Luckhurst, Dominick LaCapra, Paul
Antze, Michael Lambek, Kirby Farrell, Ruth Leys, Shoshana Felman, Dori Laub, Anne Whitehead. Per un inquadramento e un
contributo recente al dibattito, si veda C. Demaria, Il trauma, l'archivio e il testimone, cit.
6 R. Luckhurst (2008) The Trauma Question, London Routledge, Chapman & Hall.
7 C. Demaria, Il trauma, l'archivio e il testimone, cit., p. 12.
8 S. Freud, J. Breuer, Studien über Histerie, Gesammelte Werke, I, (1940-1968), tr. it. Studi sull'isteria, in Opere complete, Bollati

Boringhieri, Torino 2013.


9 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (1920), tr. it. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1975.
10 Cfr. C. Caruth (a cura di), Trauma. Explorations in Memory, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1995, p.

4.

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Secondo Jonathan Morse,11 il problema della memoria è l’incapacità di dire nel tempo,

attraverso le parole che cambiano, cosa abbiamo visto e vediamo. Nel parlare, le parole

diventano note a piè di pagina di altre parole, differendo il significato margine per margine.12La

tardività della memoria trova inevitabilmente il modo di articolarsi attraverso la tardività del

linguaggio.

Un altro esponente dei trauma studies, Dominic Lacapra, nel suo libro Writing History, Writing

Trauma, 13afferma che il trauma indica una rottura, una cesura nell’esperienza che comporta degli

effetti tardivi. La scrittura post-traumatica implica un processo di acting out, ovvero di

rielaborazione, insieme a un’analisi e a un’espressione del passato, in modo da poterlo accettare e

superare.

Trauma indicates a shattering break or cesura in experience which has belated effects.

Writing Trauma would be one of those telling after-effects in what I termed traumatic and post-

traumatic writing (or signifying practice in general). It involves processes of acting out, working

over, and to some extent working through in analyzing and “giving voice” to the past – processes

of coming to terms with traumatic “experiences”, limit events, and their symptomatic effects that

achieve articulation in different combinations and hybridized forms.

11 J. Morse, Word by word, the language of memory, Cornell University Press, Ithaca 1990, p.158.
12 Ibid.
13 D. LaCapra (2001) Writing History, Writing Trauma, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press.

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Bibliografia

 Caruth, C. (a cura di) (1995) Trauma. Explorations in Memory, Baltimore, The

Johns Hopkins University Press.

 Caruth, C. (1996) Unclaimed Experience. Trauma, Narrative and History,

Baltimore & London, The Johns Hopkins University Press.

 Elias, A.J. (2001) Sublime Desire: History and Post-1960s Fiction, Baltimore,

Johns Hopkins University Press.

 Demaria, C. (2012) Il trauma, l’archivio e il testimone, Bologna, Bononia

University Press.

 Freud, S. (1899) L’interpretazione dei sogni, trad. it. Milano, Rizzoli, 1986, 2 voll.

 Freud, S. (1915-1917) Introduzione alla psicanalisi, Torino, Bollati Boringhieri,

1978.

 Freud, S. (1920) Al di là del principio di piacere, trad. it. Torino, Bollati

Boringhieri, 1975.

 Freud, S. e Breuer, J. (1940-1968) Studi sull’isteria, trad. it. in S. Freud, Opere

complete, 2013, I.

 LaCapra, D. (2001) Writing History, Writing Trauma, Baltimore and London, The

Johns Hopkins University Press.

 Laplanche J., Pontalis J.B. (1990), Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza,

Roma-Bari.

 Luckhurst, R. (2008) The Trauma Question, London Routledge, Chapman &

Hall.

 Muzzioli, F. (2010), Le teorie della critica letteraria, Roma, Carocci.

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 Orlando, F. (1973), Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi.

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Emanuela Piga Bruni - Un romanzo metastorico: In fuga di Anne Michaels

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Emanuela Piga Bruni - Un romanzo metastorico: In fuga di Anne Michaels

Indice

1. QUELL’OSCURO OGGETTO DI DESIDERIO: LA STORIA .......................................................................... 3


2. TRAMA E STRUTTURA ................................................................................................................................ 4
3. PERSONAGGI E MEMORIA ...................................................................................................................... 6
4. RAPPRESENTARE IL TRAUMA: LA COAZIONE A RIPETERE ...................................................................... 9
5. TEMI: SUPERARE IL TRAUMA .................................................................................................................. 11
6. TEMI. NOSTALGIA E DESIDERIO ............................................................................................................. 13
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 15

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Emanuela Piga Bruni - Un romanzo metastorico: In fuga di Anne Michaels

1. Quell’oscuro oggetto di desiderio: la Storia

Il tentativo del racconto e rielaborazione del trauma storico, nelle sue diverse

concretizzazioni, è un tema che attraversa molta narrativa contemporanea.

In riferimento al dibattito contemporaneo sul rapporto tra letteratura e storia, la teorica

americana Amy J. Elias, parla di “metahistorical romance”, e riprende le posizioni di Frederic

Jameson e Linda Hutcheon, aggiungendo degli elementi interpretativi nuovi 1. Per Elias,

nell’immaginario postmoderno, la storia è desiderio per un luogo sempre differito, sfuggente. La

storia, dunque, è ciò che sfugge, sublime regno di verità mai completamente accessibile e

catturabile, regno del caos, del terrore ma anche della potenziale rivelazione. Con il rifiuto della

fuga dalla storia, il romanzo metastorico si pone come narrazione fortemente problematica e

autoriflessiva che nella sua ricerca di significati instaura diversi modi di relazione con il passato.

Tra i romanzi metastorici, di particolare rilievo è l’opera di Anne Michaels, scrittrice e

poetessa canadese di origine ebraica (1958 – vivente), e di seconda generazione che, nei suoi

romanzi In fuga (Fugitive Pieces, 1996) e La cripta d’inverno (The Winter Vault, 2009) ha affrontato il

tema della memoria della Seconda Guerra Mondiale.

In questa lezione ci occuperemo del primo romanzo della scrittrice canadese, In fuga2,

analizzando il modo in cui quest’opera mette in figura, attraverso il divenire dei personaggi e l’uso

diffuso della metafora nella scrittura (di una scrittrice che è anche, non dimentichiamo, una

poetessa), questioni riluttanti alla messa in parola, come la nostalgia verso una storia perduta e il

desiderio verso un futuro passato mancante, nel difficile percorso di rielaborazione di un trauma

privato e collettivo.

1 Nel suo Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism Jameson considera la narrazione postmoderna come
«depthless pastiche» privo di critica sociale e derivante dalla condizione del lavoro intellettuale imposta dal modo di
produzione tardo capitalista. Al contrario, Linda Hutcheon in Poetics of Postmodernism: History, Theory, Fiction vede nel
gioco postmoderno della narrativa con la storia una forma di critica culturale potenzialmente sovversiva e definisce questo
tipo di narrazione metastorica Historiographical metafiction.
2 Vincitore dei seguenti premi: Lannan Literary Fiction Award, Guardian Fiction Award, Orange Prize, Trillium Award, Jewish

Book Award, City of Toronto Book Award.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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2. Trama e struttura

La cornice storica alla base della storia è il contesto dell’invasione nazista della Polonia: un

bambino ebreo, Jakob, scampa al massacro dei genitori ad opera dei nazisti e nella fuga viene

tratto in salvo da Athos, geologo greco – in missione scientifica nei resti dell’antichissima città

dell’età del ferro, Biskupin – che lo porta con sé a Zacinto. Jakob trascorre la sua infanzia in Grecia

e la sua giovinezza in Canada, profondamente segnato da un sentimento di nostalgia (nel

romanzo, longing)3 per la famiglia perduta che lo porta a trasferire nei suoi sogni la ripetizione

dell’esperienza traumatica.

Le manifestazioni del trauma si alimentano dei fatti violenti della guerra, vissuti direttamente

nel corso della prima tappa con Athos in Grecia e rivissuti attraverso le notizie dei giornali a

Toronto, «stazione di cambio» (The Way Station) e, come la precedente, destinazione «nel segno

dell’esilio»4, segnata da una «forzata, quindi inevitabile, dispersione di corpi e affetti» 5. Come ha

scritto il critico letterario Edward Said,

L’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi. È una

crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è

nato, tra il sé e la sua casa nel mondo. La tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile.6

Dalla forte valenza simbolica, il titolo originale del romanzo, Fugitive Pieces, coinvolge

molteplici aspetti che giungono ad armonizzarsi in un insieme complesso nel quale lo stile della

scrittura, i temi che attraversano il romanzo e la struttura dell’opera sono correlati da una trama di

3 La parola «nostalgia», presente sia in italiano che in inglese (con un significato originario di severe homesickness
considered as a disease), deriva dal greco nostos (ritorno) e algos (dolore). Si veda ciò che scrive Antonio Prete (1992, 85-
86): «La nostalgia, sottoposta al trattamento di poeti e scrittori, si apre in un ventaglio di sensi, sfuma nell’indefinito, si
contamina con tutte le forme di una sensibilità che conosce l’abbandono alla rêverie e il bianco torpore dello spleen,
diviene insomma la sponda sensitiva, increspata e irrisolta della memoria». Tuttavia, in Fugitive Pieces, la figura ricorrente
della nostalgia è strettamente legata all’etimologia del termine longing, dall’inglese antico langian, divenuto to long for, dal
significato di to yearn after, grieve for (desiderare ardentemente, rattristarsi per). Non a caso Roberto Serrai, il traduttore
dell’edizione italiana, ha tradotto l’espressione «biography of longing» con «una biografia del desiderio e della nostalgia»,
evitando in tal modo la riduzione del concetto (si veda Michaels 1996a, 17 e 1996b, 21).
4 Edward W. Said (2000) Riflessioni sull’esilio, trad. it. in Id., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli,

2008.
5 Roberta Mazzanti, Liana Borghi, (2007) Mappe della perdita: periperformatività della diaspora in Anne Michaels e Dionne

Brand, in AAVV (a cura di), Il globale e l’intimo: luoghi del non ritorno, Perugia, Morlacchi.
6 E.W. Said (2000), Riflessioni sull’esilio, trad. it. in Id., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 2008,

p. 217.

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corrispondenze. Se l’aggettivo fugitive si riferisce chiaramente ai protagonisti delle due storie che

compongono il romanzo – entrambi, in modi diversi, êtres de fuite – il taglio che divide il libro in due

instaura un contrappunto i cui estremi sono incarnati nel rapporto che Ben, l’io narrante della

seconda storia, istituisce con la storia precedente di Jakob. Al di là del tema e della composizione

dell’opera, la narrazione stessa è permeata dal ritmo musicale: il fluire progressivo del racconto

retrospettivo dei due protagonisti è incessantemente bucato da resoconti storici, ricordi traumatici

e, nella storia di Jakob, dalle descrizioni delle esecuzioni musicali di Bella, la sorella scomparsa nel

corso del rastrellamento che sterminò la sua famiglia.

I frammenti di vissuto, dal carattere in fuga perché indicibile, compaiono in corsivo

distaccandosi dal tessuto nel quale si inscrivono. Il movimento contrappuntistico è evidenziato

anche dalla titolazione dei capitoli nelle due storie, che coincide parzialmente rivelando nella

ripresa dei temi l’incedere della fuga 7.

7I capitoli che inaugurano entrambe le parti si intitolano «The Drowned City» (La città sommersa); entrambi sono
caratterizzati dalla presenza del fiume, dal forte valore simbolico, e si concludono con l’arrivo del protagonista (Jakob nella
prima, Ben nella seconda storia) nella luminosa isola della Grecia, Zacinto.

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3. Personaggi e memoria

L’opera inizia come un’autobiografia di un personaggio romanzesco che rievoca la sua

vita a partire da un evento fondamentale della sua infanzia: la fuga dai nazisti, compiuta

scappando nella foresta e nascondendosi nella terra, per trovare poi la salvezza nella palude di

Biskupin. Come in un rovesciamento dell’incipit di Great Expectations di Dickens, il narratore-

bambino, isomorfo con l’ambiente che lo circonda, «color prugna della palude fradicia di torba»8,

emerge dalla melma e spaventa con la sua apparizione l’oggetto della sua attenzione, l’uomo

che scava, che sarà la sua salvezza.

Il tempo è una guida cieca. Figlio della palude, nacqui dalle strade fangose della città

sommersa. Per più di mille anni, soltanto i pesci avevano passeggiato sui marciapiedi di legno di

Biskupin. Le case, costruite rivolte verso il sole, furono allagate dalla limacciosa oscurità del fiume

Gasawaka. I giardini fiorirono magnifici nel silenzio subacqueo; ninfee, giunchi, stramonio.

Nessuno nasce una volta sola. Chi è fortunato, vedrà di nuovo la luce tra le braccia di qualcuno;

oppure, se sfortunato, si sveglierà quando la lunga coda del terrore sfiorerà l'interno del suo cranio.

Colui che lo ritrova, Athos, salva Jakob nascondendoselo nel grembo, che costituirà il

rifugio del bambino per tutto il pericoloso viaggio che avrà termine in Grecia. Il cielo lucente di

Zacinto sovrasta la seconda nascita di Jakob, che ritrova la luce facendo capolino dall’ampio

cappotto del geologo greco, al principio di una seconda storia:

Anche se ero solo un bambino, anche se mi veniva tolto il passato dal sangue, capivo che

se fossi stato abbastanza forte da accettarla mi si stava offrendo una seconda storia.

Even as a child, even as my blood-past was drained from me, I understood that if I were

strong enough to accept it, I was being offered a second history 9.

8 Nella versione originale: «[…] dripping with the prune-coloured juices of the peat-sweating bog» (Michaels 1996b, 5).
9 Anne Michaels, (1996) In fuga, trad. it. di Roberto Serrai, Milano, Giunti, 2009, p. 24.

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La figura di Athos è una spia della marcata auto-riflessività del romanzo nel rappresentare

questioni fondamentali nel dibattito critico sul trauma. In questo personaggio la decifrazione del

mondo si accompagna a un’incessante riflessione sul potere del linguaggio come via di

rielaborazione (terapeutica), resistenza e re-azione10 (esistenziale e politica). Ultimo di una

genealogia di marinai, esperti di carte nautiche, rotte commerciali e imbarcazioni di tutti i tipi,

appassionato di letteratura e poesia e fortemente convinto del potere rigenerante della parola,

Athos racconta storie di vario genere, passando dalla storia della navigazione alle storie dei suoi

antenati, dalla geologia alla paleontologia, dalla descrizione della riproduzione delle cellule al

racconto che ne fa Lucrezio. La trasmissione della memoria, insieme alla cura del presente, sono al

centro delle pratiche quotidiane del geologo, che invita Jakob a non dimenticare l’alfabeto

ebraico: «È il tuo futuro che stai ricordando» («It is your future you are remembering»)11.

L’importanza che la cura della memoria riveste per Athos è simboleggiata dalla sua

passione per l’arenaria, «memoria frantumata», pietra vivente e storia organica. Da sempre il

mondo delle storie segna la fantasia di Jakob, prima nutrita dai racconti che Bella (la sorella

perduta) traeva dalle sue letture di romanzi e biografie dei compositori e dopo dalle infinite storie

di Athos. Nei quattro anni che Jakob trascorre nascosto nella casa a Zacinto, Athos con i suoi

racconti cerca di strappare il bambino dagli aspetti più angosciosi del passato. Jakob ricorda:

Grazie ad Athos passavo delle ore in altri mondi e poi riemergevo gocciolando, come dal

mare

[Because of Athos, I spent hours in other worlds then surfaced dripping, as from the sea]12

I confini chiusi della stanza adibita a nascondiglio si dilatano grazie al potere

dell’immaginazione, accogliendo nelle stanze oceani costellati dal vagare di blocchi di ghiaccio,

fiumi della Russia solcati dai Vichinghi e la città celeste di Marco Polo. La lanterna della stanza di

10 Questa abitudine viene assorbita da Jakob a partire dall’osservazione dei luoghi: se a Zacinto la sua attenzione è attirata
dalla statua di Solomos nella piazza, ad Atene si volge ai muri recanti ancora, dopo la guerra, i graffiti compiuti dai greci
durante l’occupazione tedesca. Sarà Kostas, l’amico di Athos, a spiegargli che nessuno vuole cancellare quei segni poiché
chi li faceva rischiava la vita, sotto il tiro dei tedeschi. L’insegnamento di Athos e Kostas ritorna più volte anche sul potere
terapeutico del linguaggio, espresso al massimo con la poesia. (Michaels 1996a, 85)
11 « (Michaels 1996b, 26).
12 A. Michaels, In fuga, cit., p. 34.

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Jakob disegna ogni sera sul pavimento un cerchio di luce che circoscrive l’ingresso a mondi

immaginari evocati da mappe, illustrazioni, diagrammi.

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4. Rappresentare il trauma: la coazione a ripetere

Nel racconto di Jakob, il passato perduto a causa di eventi traumatici punteggia il presente

nella forma del ricordo, sia volontario sia involontario. La conseguenza di questo contrappunto è il

distacco dal presente, il cui senso è svuotato dalla profonda nostalgia verso un passato annientato

dalla violenza della storia. La sua biografia immaginaria sembra incarnare le parole di Freud: «[…] il

trauma psichico, o meglio il ricordo del trauma, agisce al modo di un corpo estraneo, che deve

essere considerato come un agente attualmente efficiente anche molto tempo dopo la sua

intrusione»13.

Nel romanzo si può leggere la messa in scena del meccanismo della freudiana coazione a

ripetere, nella forma della fissazione all’esperienza del trauma, nutrita dal presente degli eventi

violenti legati all’occupazione tedesca di Zacinto, che offrono continui punti d’ancoraggio per il

ritorno del rimosso. Se riprendiamo la riflessione di Freud nel suo celebre Al di là del principio di

piacere (1920), leggiamo:

[...] troveremo il coraggio di affermare che nella vita psichica esiste davvero una coazione

a ripetere che si afferma anche contro il principio di piacere. A questo punto saremmo anche

propensi a mettere in rapporto con tale coazione i sogni che si presentano nelle nevrosi

traumatiche e l’impulso che spinge il bambino a giocare.

Nell’universo finzionale del romanzo, il divenire psicologico del personaggio sembra illustrare

il meccanismo classico delle pulsioni di morte (Todestrieben), dal carattere regressivo e volte alla

ricerca del soddisfacimento nel cammino a ritroso (Michaels 1996a, 62): in Jakob la storia

sommersa dilaga nella sfera cosciente attraverso rappresentazioni patogene, e nella sfera onirica

con sogni che lo riportano al momento dell’evento traumatico, attraverso la rappresentazione

13 Si veda la Comunicazione preliminare sul meccanismo psichico dei fenomeni isterici di Freud (1893); per una riflessione
sulla dimensione di «étrangèreté» (da étrangèté, estraneità, ma con una deformazione della parola che vuole
comprendere il riferimento all’elemento straniero, alieno) del corpo estraneo e sul suo legame con «l’altro psichico,
l’inconscio», si veda Laplanche 1992a (o la successiva versione inglese (Laplanche 1992b, 64-65), in cui il neologismo
francese è reso con «alien-ness».

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deformata14 dell’assassinio dei genitori e della morte di Bella. Secondo la teoria di Freud, i sogni

che si verificano nelle nevrosi traumatiche «ubbidiscono alla coazione a ripetere», riportando il

malato alla situazione dell’incidente. Questi sogni cercano di dominare gli stimoli

retrospettivamente, sviluppando quell’angoscia il cui venir meno era stata la causa della nevrosi

traumatica (si veda Freud 1920, 54-55). In Jakob la nostalgia verso il passato perduto è all’origine di

fantasticherie diurne che, nel tentativo di ripristinare uno stato precedente la perdita, insediano i

morti nella vita reale. È quanto succede con l’immagine di Bella, incastonata nell’interiorità di

Jakob «come una matrioska». Mentre i rituali di Athos sono volti a onorare e ricordare i morti, per un

giusto proseguimento della vita, i cerimoniali di Jakob mirano a includere il fantasma della sorella

nelle pratiche quotidiane15.

Questa duplicità è all’origine di una simultaneità dagli effetti nocivi, che fa si che «Every

moment is two moments»16 (Michaels 1996a, 140) ma in realtà la reminiscenza del passato corrode

la percezione dell’istante attuale. La narrazione stessa è continuamente segnata da scarti

temporali, incursioni in corsivo nel testo corrispondenti a reminiscenze che impediscono a Jakob

una piena esperienza del presente, soprattutto quando si tratta del presente condiviso con il

mondo effervescente della moglie Alex – alla quale, il movimento tellurico del divenire interiore di

Jakob resta inaccessibile. Così, il resoconto della vita coniugale con Alex diventa sempre più

residuale, divorato dall’aumento progressivo delle reminiscenze, segmenti narrativi intermittenti che

rimandano l’immagine di Bella, condensata nel ricordo della sua esecuzione degli Intermezzi di

Brahms o de Il chiaro di luna di Beethoven.

14 Sulla deformazione onirica si veda Freud, L’interpretazione dei sogni: «Il fatto che il contenuto onirico contenga i residui di
esperienze secondarie deve essere spiegato come un’espressione della deformazione onirica (mediante spostamento),
ricordando che abbiamo riconosciuto nella deformazione onirica il prodotto di una censura che agisce nel passaggio fra
due istanze psichiche» (1899, 254-55); «[...]Spostamento e condensazione sono i due fattori alla cui attività si può
essenzialmente attribuire la configurazione del sogno» (Ivi, 399). Si veda anche la lezione 11 «Il lavoro onirico» di
L’introduzione alla psicanalisi (Freud 1920, 110-114).
15 «Sul desiderio di tenere in vita con il ricordo persone che non ci sono più» e sul rapporto tra passato e presente nei

meccanismi della memoria si veda anche l’analisi di Francesca Viscone (2013) del racconto La gita delle ragazze morte di
Anne Seghers.
16 «Ogni momento è due momenti» (Michaels 1996b, 146),

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5. Temi: superare il trauma

A questa altezza del romanzo, la simultaneità causata dall’insorgere delle reminiscenze

corrisponde al ricorrere dei sintomi dell’esperienza traumatica. Eppure, il percorso esistenziale e il

divenire poeta di Jakob saranno segnati da una trasmutazione, nel cui arco la reminiscenza da

traccia mnestica di origine traumatica diverrà percezione dell’essenza attraverso la poesia.

Tuttavia, per giungere a questo, bisognerà attraversare una fase difficile, ritornare «sott’acqua, gli

scarponi bloccati dal fango» (In fuga, p. 146)17, immersi nel sottobosco marcescente della storia

ma sostenuti dalla luce abbagliante di Idra, successiva stazione di cambio in cui il tempo si fa

verticale18 consentendo l’approdo alla poesia e la redazione del libro, momento terapeutico.

Lo stesso ricorrere, a livello stilistico, della metafora 19 nella scrittura di Michaels sembra

illustrare quello che Dominick LaCapra (2001) definisce scrivere il trauma (writing trauma) in

contrapposizione allo scrivere sul trauma (writing on trauma). Nella teoria di LaCapra lo scrivere il

trauma è già di per sé metafora, data la sua concezione del trauma come sublime20, evento dalla

natura sfuggente, non localizzabile. Si può vedere come questa visione della scrittura del trauma

sia vicina alla concezione di Amy Elias sul metahistorical romance. In questa visione, la Storia è ciò

che sfugge, un sublime regno di verità mai completamente accessibile e catturabile, un orizzonte

desiderato ma mai raggiunto, che Elias rintraccia nella coscienza storica, dalla natura post-

traumatica, di fine secolo (Amy Elias, Sublime Desire, cit., p. 87).

Caratterizzata da un alto tasso figurale, la scrittura di Michaels si misura dunque con la

rappresentazione di ciò che viene definito «l’unione di due istanti separati nel tempo» e narra il

mutamento di questo particolarissimo momento nel percorso del protagonista verso l’espressione

di ciò che è «difficilmente o diversamente figurabile» (Demaria 2012, 72); questo fa sì che la

17 Mi riferisco qui a un brano del romanzo, nella versione originale: «And then the world fell silent. Again I was standing under
water, my boots locked in mud» (Michaels 1996a, 139 corsivo mio).
18 Il riferimento è ai titoli dei capitoli The Way Station e Vertical Time.
19 Robert Eaglestone (2008, 23) sottolinea l’influenza di W.H.Auden sulla scrittura di Michaels, in particolare per quanto

riguarda il contenuto tematico e metaforico delle sue poesie. In particolare lo studioso evidenzia il ritorno delle metafore
naturali e geologiche e dei temi della memoria, del corpo, del tempo (Weather), della geologia, dell’amore, della perdita
e del dolore.
20 Si veda C. Demaria, (2012) Il trauma, l’archivio e il testimone, Bologna, Bononia University Press, 2012, p. 46.

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duplicità delle reminiscenze di origine traumatica si distilli nella duplicità metaforica della poesia. A

sua volta, in una convergenza di stile e contenuto, questo movimento sembra rimandare al

passaggio dall’acting out (la ripetizione compulsiva del trauma) al working-through21(la

rielaborazione e il superamento del trauma) che nello specifico coincide nel passaggio dalla

memoria traumatica alla memoria narrativa.

21«Trauma indicates a shattering break or cesura in experience which has belated effects. Writing Trauma would be one of
those telling after-effects in what I termed traumatic and post-traumatic writing (or signifying practice in general). It involves
processes of acting out, working over, and to some extent working through in analyzing and «giving voice» to the past –
processes of coming to terms with traumatic «experiences», limit events, and their symptomatic effects that achieve
articulation in different combinations and hybridized forms» (LaCapra 2001, 186). Si veda anche la ripresa della distinzione in
Demaria (2012, 46) e l’uso che Eaglestone (2008) fa del concetto di working-through in riferimento alla prosa di Anne
Michaels.

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6. Temi. Nostalgia e desiderio

Le diverse tappe dell’autobiografia di Jakob si concretizzano in luoghi diversi, scanditi da

una cartografia semantica che abbraccia le traiettorie dell’esilio e del ritorno. Successivo alla

morte di Athos e al fallimento del matrimonio con Alex, il soggiorno a Idra coincide con

l’immersione nell’oscurità del passato, affrontata grazie alla potenza del paesaggio dell’isola e alla

rielaborazione dell’esperienza traumatica nella scrittura; finché un giorno Jakob comprende che

«Restare con i morti vuol dire abbandonarli» («to remain with the dead is to abandon them»)22 e

l’immagine di Bella che lo chiama si tramuta nella sua immagine che lo sospinge nel mondo.

Nella quiete dell’isola, il ritrovamento di sé e della storia perduta è la condizione necessaria

per il ritorno di Jakob a Toronto, dove l’incontro con Michaela siglerà la conversione del sentimento

della nostalgia nel desiderio del mondo e dell’avvenire. Le caratteristiche e il ruolo nella storia del

personaggio di Michaela – la cui figura incarna il tema, già introdotto da Athos, della cura del

mondo – ci riportano qui, con un salto interdisciplinare, alla disamina di Freud: nelle sue riflessioni sui

due fondamentali moti pulsionali, le pulsioni di vita e le pulsioni di morte, il celebre studioso aveva

fatto un confronto con l’attività delle cellule, muovendo dalla constatazione di come la fusione di

due organismi unicellulari avesse l’effetto di mantenerli in vita e ringiovanirli. Da questa premessa,

trasferendo lo stesso schema, in ambito psicanalitico, alla teoria della libido, egli giunse ad

affermare che le pulsioni di vita presenti in ogni cellula, con l’assumere come proprio oggetto di

congiungimento le altre cellule, neutralizzerebbero in parte le pulsioni di morte mantenendo così le

cellule in vita. Partendo dalla biologia, dalla spiegazione del rinvigorimento vitale dato dall’unione

sessuale, Freud giunge, sconfinando a sua volta nell’ambito della letteratura, ad affermare la

coincidenza della libido delle pulsioni sessuali con «l’Eros dei poeti e dei filosofi, che tiene unito tutto

ciò che è vivente» (1920, 81-82).

Tornando ai mondi possibili di Fugitive Pieces, il protagonista della seconda storia, Ben, nel

leggere le poesie di Jakob avverte un mutamento di tono tra le prime e le ultime e comprende

22 A. Michaels, In fuga, p. 176.

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che l’ingresso di Michaela nella vita del poeta sposta l’ombra scura della Storia dal centro ai

margini della scena. La storia resta come testimonianza e ricordo ma non divora più l’esperienza,

mentre la nostalgia del passato diventa cura del ricordo e desiderio del presente. Come ricorda

Paolo Jedlowski, «se da un lato il fluire della vita nel tempo comporta effetti che condizionano il

presente, dall’altro è il presente stesso che dà forma al passato, ordinando, ricostruendo e

interpretando i suoi lasciti» (2007, 32). Ed è così che in In fuga 23 possiamo leggere nella figura di

Jakob il passaggio dalla relazione con «l’altro psichico»24, o meglio, con il «corpo estraneo del

trauma psichico» (si veda Freud 1893, 330) – al presente dell’incontro con l’altra (Michaela), corpo

situato nello spazio esterno del mondo sociale e affettivo. Innescato dai richiami del presente,

questo movimento fa sì che le diverse tonalità della nostalgia25 si articolino in una dialettica

temporale che apre a un presente ritrovato e a un futuro possibile26.

Attraverso il divenire di Jakob nel tempo, il romanzo mette in scena, in filigrana agli eventi

della storia narrata, la parabola di un doloroso percorso compiuto da chi è stato segnato in modo

indicibile dall’esperienza della perdita. Percorso interiore il cui arco si distende dalla ricerca

dell’appagamento del desiderio nel mondo fantastico alla conquistata capacità di rielaborazione

del passato, attivata dalla relazione affettiva e dall’esperienza artistica della poesia.

23 Riprendendo la mappatura di Vera e Ansgar Nünning, questo romanzo metastorico (o metabiografico, con le parole di
Roberta Mazzanti), potrebbe rientrare anche nella definizione di «romanzo metamnemonico», per la caratteristica di
rappresentare una finzione della metamemoria anziché della semplice memoria: «[…] I romanzi appartenenti a questa
categoria tematizzano ed esplorano in modo autoconsapevole questioni come il complesso agire e l’(in)affidabilità della
memoria» (2007, 574-575).
24 Si veda Laplanche (ibidem) METTERE ANNO E PAGINA.
25 Nel costellare il romanzo, la figura della nostalgia e del desiderio (longing, si veda la nota 6) giunge ad abbracciare

l’intera rete semantica del termine, che riverbera le diverse sfumature del desiderio e rimanda al vicino belonging
(appartenenza), con il suo significato di legame profondo e desiderante.
26 Sulla «rilettura della nostalgia come desiderio e forza emotiva che conduce la memoria in una direzione costruttiva» si

vedano Monticelli (2007, 611) e Baccolini (2007).

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Bibliografia

 Nünning, V. e Nünning, A. (2007), Finzioni della memoria e metamemoria, in

Agazzi, E. e Fortunati, V. (a cura di), Memoria e saperi. Percorsi

transdisciplinari, Roma, Meltemi.

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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neostorico: Le Rondini di Montecassino

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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neostorico: Le Rondini di Montecassino

Indice

1 HELENA JANECZEK E LE RONDINI DI MONTECASSINO ........................................................................................ 3


2 IMPIANTO NARRATIVO E UCRONIA ................................................................................................................... 5
3 METANARRAZIONE E POLIFONIA ....................................................................................................................... 6
4 STRUTTURA CORALE E MEMORIA MULTIDIREZIONALE ...................................................................................... 9
5 MICROSTORIE: PROSPETTIVE POSTCOLONIALI E POSTMEMORIA .....................................................................11
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................15
SITOGRAFIA ...............................................................................................................................................................16

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1 Helena Janeczek e Le rondini di Montecassino

Helena Janeczek, nata a monaco di baviera nel 1964, da una famiglia di ebrei originari della

Polonia e naturalizzati tedeschi, vive in italia dal 1983. Ha esordito in lingua tedesca con i versi di Ins

freie (1989) e come narratrice in italiano con Lezioni di tenebra (Mondadori 1997, Premio Bagutta

opera prima).

Ha pubblicato i romanzi Cibo (Mondadori 2002) e Le rondini di montecassino (Guanda 2011),

e nel 2012 è uscito Bloody cow (Il Saggiatore).

 Ins freie: gedichte, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1989

 Lezioni di tenebra, Milano: Mondadori, 1997; Guanda, 2011

 Cibo, Milano: Mondadori, 2002

 Le Rondini di Montecassino, Parma, Guanda, 2010

 Bloody Cow, Milano, il Saggiatore, 2012

 La ragazza con la leica, Parma, Guanda, 2017

Collabora con le riviste «Nazione indiana» e «Nuovi argomenti».

Come è stato osservato, Le rondini di Montecassino rientra in quel filone del romanzo

contemporaneo che è stato definito da Giuliana Benvenuti come neostorico, riferendosi a

narrazioni che intendono proporsi come «“integrazioni” all’indagine storiografica, recupero della

memoria di eventi dimenticati dalla storiografia, o più radicalmente contro-narrazioni volte a

sovvertire la storia narrata dai vincitori mediante la presa di parola da parte dei soggetti

subalterni».1

Su un piano formale, la produzione di un “effetto di realtà” ottenuto mediante inedite

1
G. Benvenuti, Il romanzo neostorico. Storia, memoria, narrazione, Roma, Carocci, 2012, pp. 19-20.

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combinazioni di vero, falso e finto2 è una caratteristica di questo genere.

Nelle Rondini di Montecassino3 ci troviamo a percorrere un labirinto di vicende che a volte si

ricongiungono altre volte corrono parallele senza mai incontrarsi, intorno allo stesso scenario e nel

medesimo segmento temporale: l'Abbazia di Montecassino, teatro di guerra dell'omonima

battaglia, nel lasso di tempo tra il 15 febbraio e il 18 maggio 1944.4

La battaglia si svolse in Italia, ma fu una storia che travalicò i confini europei fino a riguardare

i maori della Nuova Zelanda, gli americani del Texas e soprattutto coloro che ebbero un ruolo

centrale nella presa di ciò che restava dell'abbazia: i “polacchi in esilio” dell'armata del generale

Wladyslaw Anders. 5

Come accade nella rappresentazione epica, il romanzo in questione si confronta con un

evento “eccezionale”: la Seconda Guerra Mondiale in una delle sue battaglie più feroci, che

riporta l'orologio alle trincee della Prima Guerra Mondiale con la fanteria proiettata nel cuore dello

scontro a causa della natura selvaggia del territorio. In questa lezione l’obiettivo è interpretare il

significato e la funzione della tonalità epica e la sua articolazione con temi importanti del romanzo

come l'invenzione (romanzesca e non), il racconto della Storia, l'eredità e l'elaborazione della

memoria, il valore terapeutico della scrittura.

2
Ivi, p. 21.
3
H. Janeczek, Le rondini di Montecassino, Parma, Guanda, 2010.
4
Punto nodale della linea Gustav, la barriera difensiva che attraversava l'Italia dal Tirreno all'Adriatico, con la quale
Hitler voleva fermare l'avanzata alleata. Sulla battaglia di Montecassino si veda M. Parker, Montecassino 15 gennaio -
18 maggio 1944. Storia e uomini di una grande battaglia, Milano, Il Saggiatore, 2003.
5
Il generale Anders fu a capo dei soldati del II Corpo d'Armata polacco, i primi a sfondare le linee tedesche nella
Quarta battaglia di Montecassino. La maggior parte di quei soldati sbarcò in Italia dopo essere stati liberati dai campi
staliniani e aver transitato per il Medio Oriente. Dopo la guerra, con l'occupazione Sovietica della Polonia, Anders si
stabilì a Londra dove fu membro del Governo polacco in esilio. Gran parte di loro non tornò in una patria che non
esisteva più.

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2 Impianto narrativo e ucronia

Il mosaico di storie che costituisce Le rondini di Montecassino è incorniciato dalla voce della

narratrice, simulacro testuale dell'autrice, che ci parla da un cronotopo6 localizzabile nella Milano

tra il 2007 e il 2009. La narrazione autobiografica costeggia e si infiltra nella superficie del mosaico,

complicato dall'incastro di scalini temporali. In esso troviamo dei piani pertinenti al passato e dei

piani che rimandano al presente della narrazione, come dei punti di fuga verso l'attualità.

La sezione iniziale «Prima della battaglia» (Milano 2007) è il punto d'ingresso della narrazione

in prima persona, che ci proietta all'interno di un taxi animato da una conversazione tra l'io

narrante e l'autista. Il dialogo, che ha per oggetto la partecipazione del padre di lei alla Battaglia

di Montecassino, è fluido e condotto con piglio deciso e allegro. Distaccato da uno spazio bianco,

il monologo interiore seguente è di tutt'altra tonalità emotiva. Comprendiamo quindi di aver

appena letto un what if, ovvero come sarebbe potuta andare la conversazione se la narratrice

avesse raccontato dell'esperienza del padre nella campagna d'Italia anziché improvvisare una

serie di menzogne per arginare le domande.

«Così mi ci impigliavo dentro, rispondendo mezze verità e scoprendo che

l'invenzione riesce male quando sgorga dalla costrizione, che le menzogne nate per

caso sono brutte».7

Segue infine un'ulteriore versione, quella del "come è andata veramente": il padre, ebreo

polacco, non ha mai combattuto a Montecassino né è stato un soldato del generale Anders.

Veniamo a sapere che il cognome paterno è falso, dovuto a un'invenzione necessaria per

sopravvivere in un'epoca in cui gli ebrei rischiavano la vita ovunque; come a Kielce, teatro del

primo grande pogrom del dopoguerra e luogo di origine del ciarliero tassista.

6
«L'interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita
artisticamente», Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 230.
7
H. Janeczek, op. cit., p. 12.

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3 Metanarrazione e polifonia

La prosa assume un andamento interrogativo, soffermandosi sul significato e sugli usi possibili

del concetto di finzione.

Che cos'è una finzione quando si incarna, quando detiene il vero potere di

modificare il corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua

volta? Cosa diventa la menzogna quando è salvifica?

E quali storie, mi domando infine, posso narrare io di fronte a questo? A quale

invenzione posso ricorrere essendo testimone in carne e ossa che fra il vero e il falso, tra

realtà e finzione, corre talvolta il confine labile che separa la vita dalla morte?8

La storia di una vita salvatasi grazie a un'invenzione diventa parte di una storia più grande

ma dai contorni plurali, composta di una moltitudine di storie dimenticate, perse nel tempo e in

una geografia fatta di campi di concentramento, fosse, sacrari e anfratti di montagne ricolmi di

roccia, esplosivo e corpi smembrati. Ma anche di spostamenti, battaglie, resistenze, abnegazione

e solidarietà. La sopravvivenza di questo nome inventato, di contro a milioni di nomi inghiottiti dalla

vertigine della violenza storica, merita anziché «menzogne nate per caso» e dunque «brutte» –

un'invenzione di ben altro respiro, dai confini ampi e generosi, in grado di accogliere quante più

storie possibili: «una storia tanto mitica9 per chi l'ascolta che troncherebbe ogni domanda».10

Sullo sfondo di una moltitudine di esistenze dimenticate, i rivoli delle memorie confluiscono

nell'alveo maggiore della Storia e danno corpo alle figure del soldato Emilio Steinwurzel e del

medico Dolek Szer: entrambi sono ebrei polacchi finiti nel Secondo Corpo d'Armata polacco di

Anders dopo comuni esperienze di deportazione e displacement; entrambi eroi-protagonisti del

capitolo finale, in cui viene narrata l'ultima battaglia, quella che vide i soldati polacchi issare la

8
Ibidem.
9
Corsivo mio.
10
Op. cit., p. 14.

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bandiera sulle rovine di Montecassino.

«Mio padre non ha mai combattuto a Montecassino, non è mai stato un soldato

del generale Anders Ma per quell'imbuto di montagne e valli e fiumi della Ciociaria,

forse, è passato qualcosa di mio: di me perduta e ritrovata in un punto geografico, un

luogo che ci contiene tutti».11

La memoria privata si apre verso una rievocazione di più ampio respiro, che fa emergere dal

passato gli oltre trentamila caduti sepolti nei sacrari militari che circondano l'abbazia. Oltre ai

rammemorati soldati anglo-americani, la narratrice ricorda gli italiani delle formazioni regolari

dell'esercito, gli indiani, i nepalesi, i maori, gli algerini, i nippo-hawaiani, i brasiliani, i senegalesi, gli

ebrei venuti dalla Palestina con la Jewish Brigade e tutti gli altri soldati del mondo intero.

«Eppure troppo vere le loro vite e le loro morti corrose dall'oblio per non cercare

di aderire il più possibile alle fonti che mappano le loro traiettorie e documentano il loro

passaggio da un continente a un altro, dal tempo passato al tempo presente». 12

Il testo riflette la volontà di recuperare il racconto di vite dimenticate, che si unisce al

sentimento di comunione con una storia talmente vasta da non poter essere delimitata dai confini

di una memoria nazionale, ma piuttosto, da una memoria che varca confini e frontiere e parla in

lingue diverse. L'istanza di fondo, che rivela una comunanza di intenti e di tecniche con parte della

storiografia contemporanea,13 si manifesta anche a livello formale: il libro è configurato come un

mosaico-labirinto percorso da personaggi che raccontano la guerra dal loro punto di vista. Sono

personaggi dalle origini diverse, realmente esistiti o di invenzione. L'immagine del labirinto da

percorrere mi sembra anche corrispondere meglio al contenuto evocato: come i sentieri scoscesi

e tortuosi delle montagne intorno all'Abbazia; o le gelide e impetuose acque dei fiumi Garigliano e

11
H. Janeczek, op. cit., p.15.
12
Ibidem.
13
Per nominare alcune importanti tendenze, penso alla microstoria (Carlo Ginzburg, Giovanni Levi), alla storia dal
basso (Jim Sharpe), alla storia delle donne (Joan Scott) e d'oltremare (Henk Wesseling). Per un'autorevole rassegna in
materia si veda P. Burke, La storiografia contemporanea, Bari-Roma, Laterza, 2007.

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Rapido, che rendevano il raggiungimento della meta quasi impossibile e che sottoponevano i

soldati a una serie di prove. A questo si aggiunge la dimensione dello spostamento: non solo quello

causato dalla geografia dei fronti bellici, ma anche quello causato dalle persecuzioni in Europa

Orientale e in Unione Sovietica e dalle diaspore di quei profughi che furono definite dalle Nazioni

Unite displaced persons.14.

14
«Nell'aprile del 1945 gli Alleati definiscono displaced persons (DPs) "tutti i civili che si trovano fuori dai confini del
proprio paese per motivi legati alla guerra"», Silvia Salvatici, Le "displaced persons", un nuovo soggetto collettivo, in
G. Crainz, R. Pupo, Raoul, S. Selvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise
d'Europa, Roma, Donzelli, 2008, p. 94.

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4 Struttura corale e memoria multidirezionale

Il romanzo è suddiviso in sezioni intitolate in funzione delle battaglie. Ogni pagina inaugurale,

come un monumento funebre, riporta la data di nascita e di morte del protagonista principale e

una canzone o una preghiera riconducibili all'identità nazionale dell'eroe. Le vicende sono narrate

da una voce eterodiegetica e tutte hanno qualcosa in comune: un eroe che viene da lontano e

affronta varie traversie per raggiungere il campo di battaglia in terra straniera, nel quadro della

Seconda Guerra Mondiale, "unico gorgo che risucchia pressoché ogni luogo della terra, ogni

animale e paesaggio, e che gettandoli alla rinfusa, unisce e divide gli uomini".15

Nell'uso della parola «eroe» mi riferisco alla caratterizzazione di Christopher Vogler nel suo

libro Il viaggio dell'eroe (Roma, Dino Audino, 1999). Qui l'autore, partendo dalla critica mossa al

viaggio dell'eroe come manifestazione della cultura maschile violenta dominante, puntualizza che

malgrado la prevalenza di guerrieri tra gli eroi leggendari e storici, e la frequente

strumentalizzazione del viaggio dell'eroe per scopi di propaganda e reclutamento, il guerriero è

solo una delle facce dell'eroe, che può essere anche pacifista, madre, pellegrino, vagabondo,

ribelle, tragico, codardo ecc. (Vogler, op. cit., p. 11). Nel contesto della narrazione presa in esame,

la dimensione del viaggio, declinata in chiave contemporanea, si confà particolarmente agli eroi

del racconto, che giungono sul fronte bellico da luoghi lontani che vanno dal Texas alla Nuova

Zelanda senza dimenticare la Siberia, seguendo rotte talvolta volontarie talvolta determinate dalla

necessità di fuga dalla deportazione o dall'annientamento.

La storia della Battaglia di Montecassino emerge anche nel dialogo con altre trasformazioni,

come la creazione dell'assetto post-bellico dell'Europa e dell'Unione Sovietica e le conseguenze

dell'era della decolonizzazione, attraversata da lotte per il riconoscimento delle identità politiche e

l'emancipazione delle minoranze sparse nel mondo, come nel caso dei Maori della Nuova

Zelanda. La narrazione del tema principale, le Battaglie di Montecassino, si articola con il racconto

15
H. Janeczek, op. cit., p.15.

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di altre storie a essa intrecciate. Il mosaico si compone sulla spinta di una memoria che definirei,

sulla scia di Michael Rotbergh, multidirezionale, opposta alla memoria competitiva che, nel lottare

per il riconoscimento della memoria e della identità di un determinato gruppo sociale, esclude le

memorie degli altri gruppi.

Against the framework that understands collective memory as competitive

memory - as a zero-sum struggle over scarce resources - I suggest that we consider

memory as multidirectional: as subject to ongoing negotiation, cross-referencing, and

borrowing; as productive and not privative. [...] This interaction of different historical

memories illustrates the productive, intercultural dynamic that I call multidirectional

memory.16

Rotberg nel suo libro, muovendo da un articolo del critico letterario Walter Benn Michaels

sulle dinamiche del rapporto tra la memoria collettiva della Shoah e la memoria della schiavitù dei

neri in America, affronta la questione del come articolare la relazione tra le memorie dei diversi

gruppi sociali oggetto di violenza storica. Lo studioso sviluppa il discorso e argomenta come

l'emergere della memoria dell'Olocausto su scala globale abbia contributo all'articolazione di altre

storie, come la schiavitù dei neri d'America, la Guerra di indipendenza dell'Algeria (1954-62) o il

genocidio in Bosnia negli anni Novanta. Contro un frame diffuso che comprende la memoria

collettiva come memoria competitiva, all'interno della quale le diverse memorie lottano per la

preminenza, in un’articolazione del passato che ripropone la divisione tra vincitori e vinti, Rotbergh

propone di considerare la memoria come multidirezionale, soggetta a negoziazioni in corso,

riferimenti incrociati e prestiti.

16 M. Rothberg, Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford
University Press, 2009, p. 3.

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5 Microstorie: prospettive postcoloniali e postmemoria

La seconda parte del libro è dedicata al contributo di sangue texano, con il racconto della

Prima Battaglia (12 gennaio - 12 febbraio 1944) dal punto di vista del sergente John "Jacko" Wilkins,

della 36a Divisione "Texas". Dopo l'arruolamento nella Guardia Nazionale, Jacko abbandona il suo

piccolo ranch texano per andare a finire nella 36ª Divisione dell'Esercito degli Stati Uniti. Il passaggio

successivo consiste nella traversata transoceanica verso l'Algeria come tappa di addestramento

per la guerra in Europa. Lo sbarco e la presa di Paestum (9 settembre 1943) corrispondono al suo

ingresso vero e proprio nel teatro di guerra. Personalità disciplinata e patriottica, Jacko vede l'Italia

con gli occhi di un americano e la vede fredda, scura e povera. Al tempo stesso, lo sguardo sulla

terra straniera si rivolge contro di sé: egli si vede dal di fuori come Flash Gordon atterrato su un altro

pianeta, abitato da uomini profondamente segnati dalla guerra. La sua traiettoria di vita si

conclude nel corso della prima azione volta a sfondare la linea Gustav: guadate miracolosamente

le gelide acque del fiume Rapido e giunto sulla riva opposta, viene colpito in fronte e il suo corpo

inghiottito dal fiume. Mentre la 5ª armata del generale Clark sbarcava ad Anzio, i ragazzi del Texas

venivano mandati a morire sulla linea Gustav. Il brano della petizione firmata dai veterani

sopravvissuti contro il generale Mark Wayne Clark inserito all'interno della diegesi acquista un

sovraccarico di senso grazie alle linee forza, motivate dalla spinta etica autoriale, che

sottintendono le scelte di montaggio.

Charles Maui Hira, del 28° battaglione Maori, e suo nipote Rapata Sullivan, in volo dalla

Nuova Zelanda verso l'Italia, sono al centro della terza parte, dedicata alla Seconda e Terza

battaglia (15 febbraio – 24 marzo 1944). Nel 2004 la memoria privata di Rapata, che porta in tasca

la medaglia del nonno, si alterna a quella pubblica e commemorata a Montecassino in occasione

della sessantesima ricorrenza della battaglia. I racconti del nonno che rivivono nei pensieri di

Rapata rimandano al passato neozelandese delle lotte dei maori con i coloniali. L'alternanza dei

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piani temporali genera un movimento narrativo che vede la storia dei maori nella lontana Nuova

Zelanda confluire nella storia della seconda guerra mondiale nella vecchia Europa.

Il nonno di Rapata, appartenente alla tribù maori dei Waikato, decise di arruolarsi e

partecipare alla guerra per pagare il diritto di cittadinanza e per questo venne chiamato

"kupapa", cioè venduto ai pakeha17. Dalle memorie di Rapata emerge la divisione interiore tra

l'eroismo militare del nonno e il ribellismo del padre, leader del movimento per i diritti dei maori.

L'identità di Rapata è quella di un uomo diviso a metà, tra le periferie di Auckland e il villaggio

nativo sul Waikato. I maori, come altre truppe di provenienza non europea o nordamericana,

furono utilizzati come testa di ponte per le azioni di guerra, in modo da lasciare il campo alle

truppe anglo-americane per le azioni conclusive.

«Serviva a questo aver dominato per secoli su mezzo mondo con l'impero:

mandare avanti a farsi massacrare il buon soldato indigeno».18

Durante il viaggio in aereo si fa strada l'idea di un'altra via, quella di evitare le

commemorazioni ufficiali e cercare i frammenti sommersi della vita del nonno, come per esempio,

quel che restava della miniera in Polonia dove il nonno era stato imprigionato.

Adesso le parole lette nei libri sul 28° battaglione e su Montecassino che portava

nello zaino, sembravano portarsi dentro il rischio di cancellare i racconti di Charles Maui

Hira.19

Rapata ha l'impulso di disertare la commemorazione e «tradire la memoria, ma per

salvarlo»20, nel timore che la memoria ufficiale possa confliggere con la memoria privata.

Nondimeno vi si reca e, una volta sul luogo, il presente del ristorante in compagnia degli ex-

combattenti maori che avevano combattuto a fianco di Charles Maui Hira si alterna al passato

17
Pākehā è una parola della lingua maori che indica i cittadini neozelandesi di sangue non maori, per maggiore parte di
origine britannica, ma anche irlandesi, olandesi, tedeschi ed europei in generale.
18
H. Janeczek, op. cit., p. 41.
19
Ibidem.
20
Op. cit., p. 42.

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della sua infanzia con il nonno.

La quarta parte del romanzo, «Prima e dopo l'ultima battaglia», combina due narrazioni

differenti per contenuti e forma narrativa: da una parte il racconto in prima persona del viaggio

compiuto dalla narratrice in Israele per incontrare Irena Levick (Irka), la moglie del cugino Zygmunt;

dall'altra le vicende di due ragazzi romani legati da profonda amicizia, Edoardo Bielinski e Anand

Gupta, entrambi italiani, ma di origine polacca il primo e indiana il secondo.

La storia di Irka, originaria di Vilna, si unisce a quella dei tanti ebrei polacchi sopravvissuti alla

Shoah "grazie" alla deportazione nei Gulag sovietici. Nella sua testimonianza, i ricordi sono come le

isole di un arcipelago separate da acque di oblio, che velano l'indicibilità del senso di colpa per

non aver potuto proteggere la giovane madre morta a Treblinka. La consapevolezza e il rispetto

del significato delle alterazioni della memoria spinge la narratrice a integrare la testimonianza con

altre ricerche: la consultazione degli archivi nel museo di Yad Vashem e la lettura

dell'autobiografia di Gustaw Herling Un mondo a parte. Il frutto di questa combinazione di

testimonianza e ricerca confluisce nel capitolo "Irka nel Gulag", preceduto dalla vicenda di

Edoardo e Anand: all'ingresso del cimitero polacco di Montecassino, situato sul versante della

collina tra Quota 445 e il monastero, i due sono intenti a diffondere volantini informativi sui polacchi

scomparsi in Italia.

L'episodio è centrato sul tema dell'identità multiculturale: se l'attivismo di Edoardo e il suo

interesse per Montecassino deriva da una genealogia famigliare che – come dice Anand – li

immerge nella storia fino al collo e li spinge a «lottare da nonno a nipote», l'interesse di Anand per

la storia del generale Anders si risveglia attraverso altri canali che non hanno niente a che fare con

questioni etnico-nazionali ma, piuttosto, appartengono al sentimento del creaturale. La sua

comprensione della violenza storica passa attraverso l'osservazione di una rondine e dei suoi

piccoli al sicuro nel nido alloggiato tra sottotetto e cornicione del monastero. L'immaginazione di

Anand, che si interroga sul destino delle rondini sfollate nella primavera del 1944 dall'abbazia e

disperse nel cielo sconvolto dai bombardamenti, genera l'allegoria di quanto avveniva in tutti i

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fronti della Seconda Guerra Mondiale: gorghi infernali che rigettavano "stormi di poveri uccelli neri

impazziti, in tutto il mondo".21

21
Cfr. il capitolo «Le rondini e l'abbazia», pp. 248-274.

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Bibliografia

 Anders, Wladyslaw - An Army in Exile, Macmillan, London, 1949; trad. it. Un'armata in

esilio, Bologna, Cappelli, 1950.

 Benjamin, Walter - Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997.

 Burke, Peter - New Perspectives on Historical Writing, Polity Press. Cambridge, 1991;

trad. it. La storiografia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2000.

 Casadei, Alberto - Il romanzo del secondo Novecento e i problemi del realismo, in

Spazi e confini del romanzo. Narrative tra Novecento e Duemila, Bologna,

Pendragon, 2002.

 Crainz, Guido, Pupo, Raoul, Selvatici, Silvia - Naufraghi della pace. Il 1945, i profugi e le

memorie divise d'Europa, Roma, Donzelli, 2008.

 Janeczek, Helena - Le rondini di Montecassino, Parma, Guanda, 2010.

 Ead. - Cibo, Milano, Mondadori, 2002.

 Ead. - Lezioni di tenebra, Parma, Guanda, 1997.

 Parker, Matthew - Montecassino. The Story of the Hardest-fought Battle of World War

Two, 2003; trad. it Montecassino 15 gennaio - 18 maggio 1944. Storia e uomini di una

grande battaglia, Milano, Il Saggiatore, 2003.

 Rothberg, Michael - Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age

of Decolonization, Stanford University Press, 2009.

 Terdiman, Richard - Present Past: Modernity and the Memory Crisis, Ithaca - London,

Cornell University Press, 1993.

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neostorico: Le Rondini di Montecassino

Sitografia

 Dal Volturno a Cassino, <http://www.dalvolturnoacassino.it/asp/n_main.asp>

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Emanuela Piga Bruni - Storia, finzione e postmemoria: Le rondini di Montecassino

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Emanuela Piga Bruni - Storia, finzione e postmemoria: Le rondini di Montecassino

Indice

1 RAPPRESENTARE LA GUERRA: UNA PROSPETTIVA POSTCOLONIALE .................................................................. 3


2 UN CONFRONTO CON NELLE TEMPESTE DI ACCIAIO DI ERNST JÜNGER ............................................................. 5
3 MEMORIA PRIVATA E COLLETTIVA: LA STORIA DI MILEK ................................................................................... 8
4 TEMI. MENZOGNA E CORAGGIO .......................................................................................................................11
5 STORIA COME WORKING THROUGH E POSTMEMORIA ....................................................................................13

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1 Rappresentare la guerra: una prospettiva


postcoloniale

Questa lezione è dedicata al tema della rappresentazione della guerra, del racconto della

storia e della memoria attraverso la scrittura letteraria a partire da un romanzo storico

contemporaneo: Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek, scrittrice nata a Monaco di

Baviera nel 1964, da una famiglia di ebrei originari della polonia e naturalizzati tedeschi, e che vive

in Italia dal 1983. Il romanzo narra una vicenda importante e cruenta della Seconda Guerra

Mondiale, la battaglia di Montecassino, ed è stato pubblicato nel 2010 da Guanda.

Riprendendo temi della vecchia “infrastoria” di manzoniana memoria, ma arricchita dalla

presenza dell’elemento autobiografico – una memoria genealogica (postmemoria, come

vedremo più avanti) – e da una prospettiva postcoloniale, il romanzo mette al centro della

narrazione gli ultimi, i sommersi, le vittime obliate dalla Storia ufficiale.

I dimenticati non figurano solo nelle storie dei vinti, ma anche nelle file dei vincitori, funestate

in misura non minore da razzismi e gerarchie. L'opera di Janeczek riporta alla luce le strategie

belliche adottate in guerra, all'interno delle quali le truppe coloniali – in grado di scalare gli

strapiombi più ripidi dei Monti Aurunci e conquistare le quote più rischiose – venivano utilizzate

come "truppe puniche", inviate come avanguardia e al macello, nel quadro di una strategia ad

ampio raggio ignorata dai soldati. Ai fini del risultato finale, poco importavano alle gerarchie

militari alcuni effetti collaterali della tattica bellica: ad esempio lo stupro di massa delle donne in

Ciociaria, marchiate come "marocchinate" e poi private anche dell'elaborazione collettiva del

trauma a causa del manto di silenzio calato su quel crinale della storia. Come ricorda la narratrice,

non fu certo l'Armata d'Africa di Alphonse Juin, protagonista della conquista dei Monti Aurunci, a

sfilare nella parata trionfale a Parigi.

La storia dei polacchi, particolarmente cara per ragioni biografiche a Helena Janeczek,

intercetta le altre storie minori narrate in precedenza, come quelle dei Maori, dei soldati della 4ª

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Divisione indiana o dei Gurkha nepalesi. Questi ultimi, ignari della decisione del generale Freyberg1

di bombardare il monastero, furono fatti avanzare verso la montagna e perirono sotto il fuoco

amico. Nel romanzo, il precipitare delle bombe sul monastero è narrato dal punto di vista di chi è

assediato e inerme: i rifugiati e gli sfollati riparati nell'abbazia, nelle grotte, nei costoni, nei bunker.

«Si muore di una morte sorda e assordante, si vive respirando polvere col panico,

ingoiando affreschi sgretolati in sabbia, cercando di muoversi, di spostarsi».2

I loro punti di vista vanno a convergere in un unico punto di vista descrivibile come

“obliquo”:3 un occhio che sorvola l'interno dell'abbazia, sorta di cinepresa volante che riprende la

distruzione della cupola, il crollo del chiostro del Bramante su un centinaio di profughi e il rovinare

delle colonne; ma anche l'incrociarsi per aria di frammenti di cose e corpi ad ogni deflagrazione e

il crescere degli ammassi di detriti e calcinacci. La narrazione trasmette il rumore assordante che

copre le grida dei feriti e gli spostamenti di polvere e di sabbia che rendono confusa la visione

degli assediati.

1
A capo del nuovo corpo d'armata neozelandese.
2
H. Janeczek, op. cit., p. 59.
3
Sull'uso del termine, si veda il capitolo "Sguardo obliquo. Azzardo del punto di vista" in New Italian Epic di Wu Ming
1: «Nel corpus del New Italian Epic si riscontra un'intensa esplorazione di punti di vista inattesi e inconsueti, compresi
quelli di animali, oggetti, luoghi e addirittura flussi immateriali. [...] Lo spostamento del punto di vista rende l'epica
"eccentrica", in senso letterale». Wu Ming 1, New Italian Epic, Torino, Einaudi, pp. 26-31.

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2 Un confronto con Nelle tempeste di acciaio di Ernst


Jünger

Nel corso dell'ultima battaglia, all'armata del generale Anders venne affidato il compito più

difficile della prima fase: la conquista delle alture intorno a Montecassino e Piedimonte, tra le quali

la Cresta del Fantasma e la famigerata Quota 593, detta il Calvario.4 In questo punto della storia si

innesta la vicenda di Emilio Steinwurzel, sbarcato sul versante meridionale dell'Adriatico dopo

essere stato di stanza in Iraq e in Palestina. Emilio viene raffigurato in marcia sulla montagna verso il

primo obiettivo, la Cresta del Fantasma. La situazione narrata ricorda la guerra di fanteria, con le

stesse terribili prove che tormentavano i soldati nelle trincee della Grande Guerra, ma la

connotazione che ne scaturisce è ben lontana dalle tonalità di Ernst Jünger nel suo diario di guerra

In Stahlgewittern (Le tempeste di acciaio).

Le leggi stesse della natura sembravano non aver più valore. L'aria tremava

come nei giorni ardenti dell'estate e la sua varia densità faceva ballare di qua e di là

oggetti assolutamente immobili. Strisce d'ombra nera filtravano attraverso le nuvole di

fumo. Il fragore era diventato assoluto: non lo si sentiva più. 5

In queste pagine, il racconto epico delle battaglie, pur nel testimoniare l'orrore che dilagò

nelle pianure della Somme e nelle trincee dello Champagne, riflette anche la visione ludica del

combattimento e la fascinazione che la guerra esercitava sull'autore combattente.

Un'impressione soffocante d'irrealtà mi prese, allorché lo sguardo andò a posarsi

su una forma umana orribilmente insanguinata; una gamba pendeva da quel corpo

4
«Il compito forse più duro di tutti sarebbe stato assolto dai corpi polacchi, al comando del generale di Corpo d'Armata
Wladyslaw Anders. La 3ª divisione dei fucilieri dei Carpazi e la 5ª divisione di fanteria Kresowa, sostenute dalla 2ª
brigata corazzata polacca avrebbero dovuto isolare il monastero assumendo il controllo delle alture adiacenti e poi
spingersi nella Valle del Liri per entrare in contatto con il XIII Corpo d'armata britannico in avanzata». Matthew Parker,
Montecassino 15 gennaio - 18 maggio 1944. Storia e uomini di una grande battaglia, Milano, Il Saggiatore, 2003, p.
331.
5
p. 264.

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con un'angolazione innaturale. Con voce rauca, come se la morte la tenesse ancora

stretta alla gola, quella forma invocava incessantemente aiuto. [...] Cos'era avvenuto?

La guerra aveva mostrato gli artigli e gettato via di colpo la sua maschera di bonomia.

Come era misterioso e irreale tutto ciò!6

Nel romanzo di Janeczek, la tonalità epica della prosa, dovuta alla natura della materia

narrata e al lavoro sulla connotazione che catapulta il lettore nel mezzo degli eventi, non manca

di testimoniare le difficoltà visive dei soldati, insieme al frastuono delle artiglierie, al freddo, al cibo

scadente, ai pidocchi, l'impossibilità di lavarsi e, soprattutto, lo squallore dell'attesa. Non c'è niente

di razionale e geometrico nel divampare della battaglia che, vissuta dall'interno, manca di centro

e prospettiva.

Vola di tutto sopra: razzi, obici, granate, schegge di ogni genere e materia - ferro,

roccia, legno spaccato, legno in fiamme e pure roba che è meglio non capire.7

Per i soldati è impossibile comprendere quanto succede sul campo e la natura stravolta

partecipa della violenza della guerra:

Le pietre dei ripari vibrano come elettriche, la montagna sotto i corpi appiattiti

trasmette un brontolio profondo, arrabbiatissimo, che però monta in qualcosa di

indefinibile quando parte la risposta dell'artiglieria nemica.8

La vera consapevolezza dello sfacelo in corso è appannaggio di chi cerca di rimediare gli

orrori in corso, come i medici impegnati a «segare un braccio o una gamba» o a «estrarre schegge

conficcate ovunque assieme a frammenti ossei». Ecco qui comparire un'altra figura sgorgata dalla

memoria privata: Dolek, il cugino della madre di Helena Janeczek, anche lui sul celebre fronte di

Montecassino.

La ristrettezza della visuale di chi combatte, oltre a giocarsi nell'immanenza della battaglia e

6
E. Jünger, Le tempeste di acciaio, Parma, Guanda, 1990, p. 7.
7
H. Janeczek, op. cit., p. 323.
8
Ibidem.

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riguardare la dimensione dello spazio, si estende alla dimensione temporale del destino. I soldati

sono giocatori di una partita di cui ignorano la regia, privi di una visione d'insieme e ignari della loro

funzione: è il caso delle truppe polacche utilizzate come parafulmine delle artiglierie tedesche sulla

Cresta del Fantasma, mentre i "protagonisti designati della battaglia" fanno retrocedere i tedeschi

a valle.9

Alla fine dello scontro, Anders sale sul campo e vede ciò che resta del baluardo della fede

cristiana nell'Occidente: «mucchi di mine terrestri» e «cadaveri di soldati tedeschi e polacchi», tra

brandelli di uniformi alleate e tedesche incorniciate dai papaveri. La vertigine di macerie, corpi e

rovine nella quale ci precipita la narrazione si chiude nell'immagine assente dello splendido

Monastero.

9
H. Janeczek, op. cit., p. 334.

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3 Memoria privata e collettiva: la storia di Milek

Il capitolo finale del romanzo è dedicato alla Quarta Battaglia di Montecassino (11-18

maggio 1944). Nella pagina di apertura sono indicate le coordinate temporali che lo attraversano:

il presente della narratrice (Milano, settembre-ottobre 2009) e la direttrice temporale della vita di

Samuel Steinwurzel (Leopoli, settembre 1939 - Milano, gennaio 1965), che partecipò alla battaglia

con il 52° Battaglione Fucilieri di Vilna, del Secondo Corpo d'Armata polacco.

L'eroe appare in una fotografia del 1943 nella casa milanese del figlio Gianni:

L'uomo nella foto è all'origine di tutto. L'uomo è lo zampillo della sorgente che mi

ha portato a scoprire i rivoli sgorgati fra i continenti e confluiti nel fiume di queste

pagine, a seguirne i meandri fino a che raggiunge la Valle del Liri e sfocia nella

battaglia. Ma poi, come spesso accade alle sorgenti, quella prima fonte sembrava

essersi persa, inabissata.10

La partecipazione alla battaglia di Montecassino di Samuel Steinwurzel, amico di famiglia

divenuto in Italia "Emilio", è un dato tanto acquisito quanto misterioso per la memoria della

narratrice. Il ricordo di questo soldato polacco, protagonista di una storia eroica ma smarrita nella

geografia della vecchia Europa e dell'Unione Sovietica, la conduce alla casa di Gianni.

Ricordi e attualità si mescolano in queste pagine, nelle quali le vicende di Emilio prendono

forma via via nel corso della conversazione e si diluiscono nelle riflessioni interiori sul mutamento

della circostante Chinatown milanese a partire dai ricordi di infanzia. La Chinatown odierna,

«dilagata ben oltre via Paolo Sarpi, centrale di smistamento della mercanzia cinese verso le

bancarelle e i negozi di non so quanta parte d'Italia»,11 rappresenta per la narratrice non uno

snaturamento, ma una possibilità in più: la lontana Cina è a disposizione qui, nel perimetro di

alcune strade milanesi. Il presente degli attuali flussi migratori che attraversano il globo si

10
Op. cit., p 277.
11
Ibidem, p. 280.

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verticalizza in una profondità temporale dalla quale affiorano interrogativi sull'eredità della

memoria.

«Che cosa restava della presenza di un ebreo polacco in questo lembo annesso

alla Cina, in questa mappa che restituiva le ultime grandi migrazioni cancellando

quelle più remote e minoritarie? Persino i nostri sopravvissuti sono quasi tutti morti, e non

c'è coltivazione della memoria, né singola, né collettiva, che possa farci nulla.

Ora ci siamo solo noi, i figli, in via Bramante».12

Nell'osservarsi reciprocamente, nella comune somiglianza di ognuno con il proprio genitore -

il padre per Gianni, la madre per la narratrice - si annida il timore di un mutamento nel senso

inverso alla progressione del tempo. Un mutamento rivolto al passato, senza un punto di rottura

generazionale, ma con l'eredità di un «patrimonio invisibile che ci modella dal di dentro quando è

tardi, quando le tracce che cominciamo a rincorrere sono scarse e parzialmente indecifrabili».

Come la narratrice,13 anche Gianni fece un “viaggio della memoria” alla ricerca delle origini

della famiglia paterna: prima in Israele per cercare nella sala archivi del museo Yad Vashem i nomi

dei famigliari sterminati, successivamente in Ucraina. Entrambi sono «testimoni di seconda

generazione», con alle spalle una genealogia famigliare interrotta dalla violenza della Shoah.

Insieme tentano di ritrovare l'uomo della fotografia: ricostruiscono le sue possibilità esistenziali

attraverso carte geografiche e materiale documentario, mescolando eventi possibili ed eventi

storici. La storia di Emilio si fa strada dal fondo oscuro del passato, all'interno di una storia più

grande, quella dei «prigionieri di guerra polacchi mandati nel Gulag».14 Samuel/Emilio nacque nel

1914 a Radziechow (oggi Radehiv), terra di confine abitata da polacchi, ucraini, ebrei, cattolici e

minoranze varie e si trasferì con la famiglia nella vicina Leopoli (Lwów); soldato polacco durante

l'invasione tedesca, fu fatto in seguito prigioniero dai russi e deportato in Siberia; da lì riuscì a

12
Ibidem, p. 281-282.
13
Nel suo libro Lezioni di tenebra (Parma, Guanda, 1997) Helena Janeczek narra il “viaggio della memoria”, intrapreso
insieme alla madre sopravvissuta ad Auschwitz, che la portò in Polonia alla ricerca delle sue origini e a visitare il campo
di concentramento.
14
Ibidem, p. 283.

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raggiungere l'armata di Anders e con quella giunse in Italia. Le vicende private si inseriscono in uno

scenario storico segnato da eventi come le negoziazioni sui confini della Polonia tra Stalin e gli

alleati, l'antisemitismo diffuso nelle armate alleate e la difficile opera di costituzione dell'armata

polacca compiuta da Anders.

La struttura complessa del romanzo, con il suo intreccio di finzione e materiale

documentale, il decentramento della narrazione su vari "fronti", il gioco tra i livelli temporali e la

presenza di enunciati metanarrativi, implica un'alta consapevolezza della posta in gioco implicita

nell'elaborare la materia incandescente della storia e della memoria privata.

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4 Temi. Menzogna e coraggio

Analogamente, l'eroe di un romanzo può avere un portato di immaginario che travalica la

sua identità individuale. La sua immagine può accogliere e ristorare un numero infinito di lettori-

protagonisti di vicende analoghe o contigue per identità, luoghi e tempi. Le vicende di Samuel

Steinwurzel sono emblematiche dei tortuosi percorsi del displacement ebraico durante e dopo la

Seconda Guerra Mondiale, a partire dagli stermini di massa e deportazioni nei campi che ebbero

luogo nei territori del cosiddetto “Occidente Sovietico”.15 Inoltre, fanno riemergere di pari passo

tante altre storie di lotta dimenticate dalla Tradizione: le rivolte nei ghetti polacchi, i gruppi di

resistenza armata a Leopoli, le formazioni di partigiani ebrei nei boschi di Galizia, Bielorussia e

Lituania. La sua storia privata si intreccia, nel filo delle analogie, a quella più pubblica di Israel

Gutman16, anch'egli attivo nella resistenza perfino a Birkenau e confluito nella Jewish Brigade dopo

essere scampato al campo di concentramento di Mathausen.

Al tempo stesso, nonostante il suo passato eroico, Emilio Steinwurzel non ha mai voluto

raccontare nulla della sua vita, così come il padre della narratrice ha preferito raccontare una

storia diversa. Perché non volle mai raccontare una storia che poteva essere invece fonte di

ossigeno per la memoria collettiva di un gruppo sociale così tanto bersagliato dalla storia? La

risposta a cui giunge la narratrice parte dal senso di colpa e insensatezza inevitabile in ogni

sopravvissuto: non basta aver partecipato a una guerra di liberazione e aver reagito contro

l'oppressione e la violenza storica per cancellare l'orrore della guerra. Tuttavia, la “piccola

epopea”, probabilmente fonte di sofferenza per l'eroe che l'aveva vissuta, veniva considerata

preziosa da altri, come il padre della narratrice. Perché la lotta armata pone «un argine alla

percezione di non aver vissuto altro che orrore» e, all'interno di questo orizzonte, è possibile andare

oltre l'orrore con gesti di solidarietà e di aiuto che si imprimono nella memoria.

15
Cfr. A. Ferrara, Il displacement degli ebrei nell'Occidente Sovietico, in G. Crainz, R. Pupo, Raoul, S. Selvatici (a cura
di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d'Europa, Roma, Donzelli, 2008.
16
Storico, direttore del centro di ricerca di Yad Vashem e curatore dell'Enciclopedia dell'Olocausto, consulente del
governo polacco per le questioni ebraiche.

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Perché mio padre quella storia la invidiava. Perché mio padre, con gli altri suoi

amici italiani che erano stati in Jugoslavia o addirittura in Val d'Ossola con i partigiani,

aveva raccontato che anche lui era stato da qualche parte nei boschi, con i russi o i

polacchi a combattere contro i nazisti. Però non era vero. L'ho scoperto per caso un

giorno, dopo che era già morto, come ho scoperto poco prima del suo funerale che

era falsa tutta la sua identità: nome e cognome, data di nascita corrispondente a

quella in cui avevamo sempre festeggiato il suo compleanno.17

Ritorna in questi brani il tema della menzogna, legato a doppia mandata al tema del

desiderio, delle possibilità esistenziali che sfrondate dall'inesorabilità del divenire storico si riducono

a delle scelte che non sono vere scelte, e che spesso sono compiute per amore di persone care,

come nel caso del padre. Resta tuttavia la verità dell'invenzione, del what if, di quello che sarebbe

stato possibile, di un'altra parte di noi che avrebbe potuto manifestarsi in circostanze diverse. Quel

desiderio che ci fa amare persone con una storia diversa dalla nostra perché riconosciamo in loro

un'essenza che comprendiamo, ammiriamo e che avrebbe potuto anche, in circostanze diverse,

fare parte di noi.

Milek o Emilio era quel che mio padre avrebbe voluto essere, il suo doppio

immaginario a cui tutto questo libro è dedicato. Ma è strano che sia arrivata in fondo

per capire che mio padre avrebbe potuto compiere un'altra scelta.18

Così le fotografie di Emilio Steinwurzel e del padre si fondono in un'unica immagine che

contiene il vissuto di coloro che hanno scelto di sopportare in solitudine il peso del passato,

avvolgendolo con il silenzio o con la verità di una storia inventata.

Credo di aver fatto bene a non chiedergli mai niente, e so che farò sempre di

tutto per non dire mai niente di come è riuscito veramente a salvarsi e alla fine

diventare quel padre che ho amato e che amo per tutto quel che è stato, così come

17
H. Janeczek, op. cit., p. 361.
18
Ibidem.

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pure per tutto quel che avrebbe voluto essere.19

5 Storia come Working through e postmemoria

19
Op. cit., p. 362.

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I protagonisti del romanzo, nel loro convergere verso l'abbazia di Montecassino, sembrano

far propria un'idea di memoria che aderisce a quello che Richard Terdiman chiama Making

Present e che si basa su due importanti corollari: la memoria come fenomeno contemporaneo,

qualcosa che riguarda il passato ma avviene nel presente, e la memoria come forma di lavoro

(Working through) e azione.20 Questo processo riguarda tanto il personaggio finzionale di Rapata

quanto l'io-testimone di seconda generazione della narratrice, entrambi posti di fronte alle

responsabilità dell'eredità del passato.

La relazione con il passato, che determina in larga parte la nostra identità nel presente, non si

svolge lungo una linea retta, bensì attraverso un percorso a spirale, fatto di avanzamenti e

momenti di arresto. La problematicità della memoria della figura paterna era già emersa in un

precedente libro di Helena Janeczek, Cibo, nel quale è scritto «non mi sarei aspettata, rispetto a

questo avvenimento, tanti vuoti, lacune, cedimenti e ottusità della memoria».21 Marianne Hirsch

chiama Postmemory la relazione dei bambini agli eventi traumatici sperimentati dai genitori. Si

tratta di una relazione che si riverbera nei testi, come nel caso dell'autrice, sia per Lezioni di

tenebra, pervaso dal lacerante rapporto con la memoria della Shoah trasmessa per via materna,22

sia per Le Rondini di Montecassino, dominato dalla domanda «Che cosa resta del padre»?

«And yet postmemory is not a movement, method or idea; I see it, rather as a

structure of inter- and trans-generational transmission of traumatical knowledge and

experience. It is a consequence of a traumatic recall but (unlike post-traumatic stress

disorder) at a generational remove».23

A sua volta, il carattere differito e mediato della postmemoria instaura dei punti di ingresso

per la confluenza multidirezionale di altri immaginari storici. Il prestare attenzione alle dinamiche

20
R. Terdiman, Present Past: Modernity and the Memory Crisis, Ithaca - London, Cornell University Press, 1993.
21
H. Janeczek, Cibo, Milano, Mondadori, 2002, p. 214.
22
«Io, già da un pezzo, vorrei sapere un’altra cosa. Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non
con il latte materno, ma ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre non
l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più». H. Janeczeck, Lezioni di
tenebra, cit., p. 10.
23
M. Hirsch, The Generation of Postmemory, in «Poetics Today» 29, N.1 (spring 2008), p.106.

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che coinvolgono posti e tempi diversi nella storia, incarnati in una politica della memoria, genera

momenti di solidarietà nei quali la memoria storica serve come mezzo per la creazione di identità

politiche e comuni. Il romanzo illustra come la condivisione di storie, di percorsi dimenticati di

guerra e segnati da esperienze comuni di fame e freddo, crea i presupposti per nuove forme di

collettività, che vanno oltre la cornice tramandata della tradizione degli Alleati e superano i confini

della storia nazionale.

Il legame tra l'esperienza individuale vissuta e incarnata e la memoria collettiva riflessa nei

processi di memorializzazione interseca la rappresentazione e la percezione delle identità. I confini

della memoria seguono parallelamente i confini dell'identità di gruppo, ma la memoria individuale

e collettiva di un dato gruppo può ricondurre alle esperienze di altri gruppi. Cosa significa porre

delle storie a contatto in un sito della memoria? L'abbazia di Montecassino diventa una proprietà

comune, una risorsa pubblica per una riflessione che oltrepassa le diverse appartenenze nazionali

e che crea delle possibilità di alleanza e solidarietà tra i vari gruppi.

Ad esempio, quando Rapata si ritrova di fronte al sacrario militare, lo colpisce il numero

ridotto di tombe riservate alla divisione indiana in confronto alla prevalenza dei nativi britannici.

Questa osservazione nasce dal ricordo dei racconti del nonno sulla cospicua presenza dei

battaglioni indiani mandati all'Abbazia e dei Gurkha senza gambe. Ripensare la relazione tra

memoria e identità significa affrontare la questione della distribuzione del riconoscimento: oltre a

che cosa viene riconosciuto, la domanda deve volgere anche su “chi” deve essere riconosciuto

dalla storia e dalla cultura, poiché senza rappresentazione non vi è riconoscimento. In un caso

come questo, seppur rappresentato dalla verità della finzione romanzesca, la memoria privata di

Rapata non solo entra in collisione con quella ufficiale, ma serve a riportare alla luce memorie

altrui, seguendo una logica, come già detto in precedenza, multidirezionale e non competitiva. La

testimonianza e il riconoscimento delle memorie dei dimenticati, anziché chiudere lo spazio residuo

lasciato vacante dalla memoria ufficiale, illumina l'emergere di altre memorie intrecciate alla

matassa della Storia.

Analogamente, lo spazio della letteratura può offrire ospitalità alle storie degli altri. Ed è verso

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Storia, finzione e postmemoria: Le rondini di Montecassino

questo orizzonte che guarda Le rondini di Montecassino, con la sua «collezione di piccole epopee»

ottenuta con l'incastro di materiale documentale, testimonianze, autobiografia e finzione.

Ed è proprio questa «produzione di un “effetto di realtà” ottenuto mediante inedite

combinazioni di vero, falso e finto», a fare gravitare quest’opera nel filone impegnato del romanzo

neostorico. 24 Mentre caratteristiche come la forte componente metanarrativa, la tensione verso la

storia come desiderio situato di ricostruzione dei coni d'ombra lo proiettano nell'orbita del romanzo

metastorico contemporaneo.25 La forma del mosaico, sfaccettata nel gioco costante tra un

presente e un passato plurali, dislocati geograficamente a seconda del punto di vista, rimanda al

Working through della memoria multidirezionale, le cui pratiche di valorizzazione delle contiguità e

similitudini delle lotte generano empatia storica.

24
G. Benvenuti, Il romanzo neostorico. Storia, memoria, narrazione, Roma, Carocci, 2012, p. 21.
25
Su questo duplice orizzonte di appartenenza si veda di C. Boscolo The Idea of Epic and New Italian Epic e di chi
scrive Metahistory, Microhistories and Mythopoeia in Wu Ming, in C. Boscolo (a cura di), Overcoming
Postmodernism: the debate on New Italian Epic, cit.

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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neoepico

Indice

1 IL NEW ITALIAN EPIC .......................................................................................................................................... 3


2 NEOEPICA E POSTMODERNISMO: TRA RIFIUTO E CONTAMINAZIONE ............................................................... 6
3 WU MING E IL CICLO DELLA RIVOLUZIONE ......................................................................................................... 8
4 TRA WHAT IF E POSTMEMORIA: HELENA JANECZEK .........................................................................................12
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................15

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1 Il New Italian Epic

Nel 2008, in un periodo in cui la critica inizia a parlare di “ritorno alla storia” e di “nuovo

realismo1, Wu Ming 1 pubblica online New Italian Epic, memorandum 1993-2008, un saggio che

verrà poi riproposto in versione 2.0 e infine in cartaceo, intitolato New Italian Epic: letteratura,

sguardo obliquo, ritorno al futuro (2009). Si tratta di un tentativo di rilevare una struttura, un pattern

dominante, nella letteratura odierna. I Wu Ming (che in cinese mandarino vuol dire “senza nome”)

sono un collettivo di scrittori bolognesi, per cui, bisogna tenere presente che le idee contenute nel

saggio sono frutto di una discussione comune e sono condivise dall’ambiente del collettivo. Wu

Ming 1 osserva un cambiamento, una “liberazione di energie” nella letteratura italiana a partire dal

1993, quando appaiono sempre più frequenti «opere figlie del terremoto che pose fine al

bipolarismo, concepite e scritte in questa Seconda Repubblica, con alcuni “salti di fase” (giri di

boa, eccetera) determinati da eventi come la guerra in Iugoslavia, il G8 di Genova, l’11 settembre,

l’invasione dell’Iraq»2. Si tratta di una “nebulosa” di testi anche molto diversi tra loro, ma che hanno

in comune un tratto fondamentale: un respiro “epico”. Nel saggio vengono citate svariate opere

che rispondono a questo principio, tra cui Black flag di Valerio Evangelisti (2002), Romanzo

criminale di Giancarlo De Cataldo (2002), Dies irae e Hitler di Giuseppe Genna (2006 e 2008),

Lezioni di tenebra e Cibo di Helena Janeczek (1997 e 2002), Gomorra di Roberto Saviano (2006),

Una storia romantica di Antonio Scurati (2007), Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones

(2007).

Wu Ming 1 specifica che:

1
Si vedano Romano Luperini, La fine del postmoderno, Guida, Napoli 2005, e il cosiddetto “Ritorno alla realtà”
proposto dal numero 57 di “Allegoria”.
2
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009, p. 79.

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«Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche,

eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la

sopravvivenza, sempre all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi,

popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi,

formazioni sociali al collasso»3.

Le opere del New Italian Epic (da ora in poi abbreviato in NIE), dunque, sono “grandi

opere”, non per la dimensione fisica, ma perché mettono in scena soggettività che rimandano a

questioni – storiche, sociali, politiche - di importanza collettiva. L’obiettivo che si pongono è molto

ambizioso: nonostante siano spesso ambientate nel passato, attraverso questa operazione

vogliono ridare senso al presente e gettare lo sguardo al futuro. I testi che fanno parte della

nebulosa del NIE hanno alcune caratteristiche in comune, di cui però solo una è indispensabile:

una nuova etica del narrare che si propone di ritagliarsi uno spazio di critica seria a livello politico,

storico e sociale. Altri tratti distintivi sono:

 Lo sguardo obliquo: l’adozione di punti di vista inattesi e inconsueti, anche non-

umani, che si rendono necessari perché «noi siamo intossicati dall’adozione di punti di vista

“normali”, prescritti, messi a fuoco per noi dall’ideologia dei dominanti. È imperativo

depurarsi, cercare di vedere il mondo in altri modi, sorprendendo noi stessi»4.

 La popular culture: rivolgersi a un pubblico popolare senza alcuna pretesa elitaria e

utilizzare elementi della popular culture.

 La lingua: stile linguistico che va oltre la classica divisione tra prosa e poesia e

attraversa generi diversi; prevalenza della paratassi.

 Il discorso ucronico: abbondanza di narrazioni che riflettono su cosa sarebbe

accaduto se un evento nel corso della storia fosse andato diversamente; tratto presente

anche in opere in cui il tema ucronico non è centrale.

3
Ivi, p. 14.
4
Ivi, p. 81.

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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neoepico

 Gli oggetti narrativi non-identificati: testi che non possono essere ingabbiati in una

categoria precisa a causa della contaminazione tra generi letterari.

 Comunità e transmedialità: possibilità di estendere i confini del testo su altre

piattaforme mediali e creazione di una comunità attorno all’opera letteraria grazie a

Internet (come in Manituana degli stessi Wu Ming5).

Molti critici hanno osservato un cambio di prospettiva nella letteratura contemporanea, e

le loro considerazioni presentano vari punti in comune con la definizione wuminghiana di NIE.

Raffaele Donnarumma, per esempio, afferma che negli scrittori di oggi è chiaramente percepibile

un ritorno al ruolo etico della narrazione, così come al ruolo sociale degli scrittori stessi6. Giuliana

Benvenuti segnala le particolarità del romanzo storico contemporaneo – adoperando infatti la

definizione di “romanzo neostorico” –, mettendo l’accento sull’emergere di una “nuova

mitopoiesi” e su come questi testi adattino l’importante tradizione del romanzo storico alle nuove

esigenze letterarie della nostra società7. Anche Emanuela Piga Bruni, nell’individuare nella “lotta” e

nel “negativo” due filoni principali nel romanzo storico contemporaneo, sottolinea le tonalità

epiche tipiche della prima categoria e l’“impegno” che questo tipo di scrittura presuppone: «i

romanzi storici che narrano lotte dimenticate e possibili infondono coraggio e trasmettono

immaginazione»8..

5
L’esperimento più significativo da questo punto di vista viene dai Wu Ming, che hanno creato un sito
(www.manituana.com) dove i lettori del loro romanzo Manituana (2007) possono pubblicare elementi correlati al
mondo del testo.
6
Raffaele Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi, in «Allegoria», 57, 2018.
7
Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano. Storia, memoria, narrazione, Carocci, Roma 2012.
8
Emanuela Piga Bruni, La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2018, p.
216.

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2 Neoepica e postmodernismo: tra rifiuto e


contaminazione

Considerando le caratteristiche delle opere del NIE, il contrasto nei confronti della tendenza

letteraria precedente – il postmodernismo – è evidente. Nello stesso saggio-manifesto, Wu Ming 1

apre la discussione con una chiara condanna nei confronti dei «postmodernismi da quattro soldi»9

fatti di citazioni, pastiches, parodie, “strizzate d’occhio compulsive”. Il vero bersaglio di questa

critica, però, non è tanto il postmodernismo di Umberto Eco (le cui opere, benché indirettamente,

mantenevano una certa critica della società) quanto invece il postmodernismo degli anni

Novanta, ormai ridotto a maniera, a virtuosismo intellettualoide totalmente privo di una

qualsivoglia funzione “seria”.

Questa polemica, tuttavia, non indica necessariamente che le opere del NIE cancellino il

postmodernismo, sovvertendolo alla base; anzi, alcuni tratti “utili” del postmodernismo

permangono. Donnarumma, per esempio, parla dell’emergere di un nuovo tipo di intellettuale, per

certi versi postmoderno, anche prendendo in considerazione Giuseppe Genna, uno degli autori

più vicini al NIE: la varietà dei materiali ripresi in questi romanzi e la labilissima distinzione tra storia e

invenzione è un’eredità del postmodernismo, benché sia ovviamente rifunzionalizzata nell’ottica di

una nuova funzione etica. Benvenuti e Ceserani, inoltre, rilevano la presenza – in entrambi i filoni

(romanzi storici e oggetti narrativi-non identificati) che individuano nella letteratura

contemporanea – di:

«certi modi del postmoderno (non euforico) che comprendono la

sovrapposizione dei piani temporali, la proliferazione delle voci e dei punti di vista e

l’abolizione della distinzione fra letteratura alta e letteratura popolare (con un riuso

consapevole dell’immaginario mainstream e un uso aggiornato delle nuove tecnologie

9
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, cit., p. 7.

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e dei diversi media)»10.

Il romanzo neoepico, dunque, non rifiuta interamente la stagione postmoderna; si

tratta, piuttosto, di un superamento ragionato, come è evidente nella rielaborazione che Wu

Ming 1 propone a partire dalla nota definizione del postmoderno tratta dalle Postille a Il

nome della rosa di Eco:

«Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna,

molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che

lei (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una

soluzione. Potrà dire: "Come direbbe Liala, ti amo disperatamente"»11.

Secondo Wu Ming 1, invece, lo scrittore dovrebbe ormai essere in grado di dire «nonostante

Liala, ti amo disperatamente», perché solo in tal modo «la dichiarazione d’amore inizia a ricaricarsi

di senso»12.

10
Giuliana Benvenuti, Remo Ceserani, Autori collettivi e creazione di comunità: il caso Wu Ming, in L’autorità
plurima. Scritture collettive, testi a più mani, opere a firma multipla, Bressanone 10-13 luglio 2014, pp. 10-11.
11
Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1983, p.39.
12
Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, cit., p. 24.

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3 Wu Ming e il ciclo della rivoluzione

I Wu Ming, si è detto, sono un collettivo di scrittori, diventato noto al grande pubblico grazie

al successo del loro romanzo d’esordio, Q (1999), pubblicato sotto il precedente pseudonimo di

Luther Blissett (i Wu Ming nascono infatti dalla sezione bolognese del Luther Blissett Project). Q,

romanzo sulla rivolta dei contadini in Germania nel periodo della Controriforma, è anche la prima

tappa di una ininterrotta riflessione sulla Rivoluzione, che prosegue con Asce di guerra e 54

(entrambi ruotano attorno alla rivoluzione mancata dei partigiani in Italia), Manituana (sulla

rivoluzione americana), Altai (legato a Q, l’ambientazione viene riportata al XVI secolo) e L’armata

dei Sonnambuli (sulla rivoluzione francese). Nel considerare l’opera dei Wu Ming, è sempre

necessario tenere presenti le ragioni che rendono particolarmente significativo l’impiego del

passato storico che ricorre nei loro testi. Alcune osservazioni di Wu Ming 2 sono particolarmente

efficaci per chiarire questo concetto:

«il ritorno al passato, per noi, nasce dal bisogno di capire come funziona la

macchina della storia: come si produce l’oblio, e come lo si può colmare. […] Come si

produce la vulgata, la storia monumentale, e come si può sbriciolare il monumento.

Naturalmente, si tratta di un’indagine portata avanti con strumenti narrativi, e la sua

ricaduta sul presente è prima di tutto critica: grazie alla distanza temporale, grazie ad

archivi parzialmente ordinati, raccontare la Storia diventa una palestra del raccontare

altrimenti, una palestra dove si rafforzano muscoli critici e consapevolezze che possono

aiutarci a raccontare altrimenti anche l’oggi»13.

I Wu Ming, dunque, mirano a una letteratura che sia capace di dar vita a una

collettività attenta a determinate istanze civili e politiche e che, nonostante la distanza

cronologica rispetto agli eventi presentati nel testo, ne condivida le lotte. In quest’ottica si

13
Raccontare altrimenti. Cinque domande su letteratura e storia, 15 ottobre 2015, su www.wumingfoundation.com.

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comprende meglio l’importanza del ricorso a una nuova mitopoiesi: come insegna Barthes,

infatti, un mito che rimane in condizione statica mantiene una carica conservatrice.

I principi delineati sono certamente presenti in Q14, romanzo storico che segue le

(dis)avventure di un protagonista senza nome dal 1518 al 1555: è il periodo della riforma

protestante, delle guerre di religione in Germania e della stampa clandestina. La questione delle

identità dei personaggi principali è molto interessante, dato che si tratta di un romanzo in cui la

vera protagonista è la storia, storia delle masse come motore dell’azione, dei contadini che

combattono accanto al protagonista. Gian Paolo Renello ha parlato di “identità mutanti”, sia in

riferimento al protagonista – il quale nel corso del testo assume vari nomi (tra cui i più noti sono Gert

dal Pozzo e il finale Ismael Il-Viaggiatore-Del-Mondo – che al suo misterioso antagonista Q.

Nell’agnizione finale, viene rivelato che Q è una spia al servizio del cardinale e futuro papa

Giovanni Pietro Carafa. Se ogni volta che una sua avventura finisce tragicamente il protagonista

cambia nome, bisogna tenere presente che «ogni volta che l’identità muta non viene

semplicemente smesso un abito per assumerne un altro», ma invece «l’identità abbandonata fa

[…] da sostrato per le nuove identità in azione»15. È così che il protagonista diventa davvero un

eroe collettivo: «Nomi di morti, adesso. Non avrò più nomi, mai più. Non legherò la vita al cadavere

di un nome. Così li avrò tutti»16. Anche Q ha un’identità mutante, ma in questo caso la funzione è

del tutto diversa: si tratta di identità-coperture che gli permettono di agire nell’ombra («sei come

un’ombra, uno spettro che scivola al margine degli eventi e aspetta nel buio»17), nascondendo il

suo effettivo ruolo di emissario del potere.

Tra i personaggi storici di rilievo che appaiono o vengono evocati nel romanzo, come

Martin Lutero, Gian Pietro Carafa (il futuro papa Paolo IV) e Thomas Münzer, il più significativo è

14
Il successo di Q ne fece anche un’ispirazione per le manifestazioni – dalle conseguenze tragiche – contro il G8 di
Genova nel 2001.
15
Gian Paolo Renello, Q. Romanzo storico e azione politica, «Centre de recherches italienna», 20/21, Université Paris
X – Nanterre, giugno 2001, p. 352.
16
Luther Blissett, Q, Einaudi, Torino 1999, p. 82.
17
Ivi, p. 170. Sono le parole del protagonista appena capisce che Magister Thomas è stato ingannato da un certo Qoèlet.

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indubbiamente quest’ultimo. Münzer, o Magister Thomas18 (pastore protestante riformatore e uno

dei capi della rivolta dei contadini) incarna la volontà rivoluzionaria di cambiare il sistema alla

radice, dalla prospettiva politico-economica come da quella spirituale. Il suo motto, Omnia sunt

communia, è il principio che guida le azioni del protagonista per tutto il romanzo, anche dopo la

cattura e la morte del Magister. L’alone mitico che la sua figura assume, dunque, fa sì che Münzer,

più che un personaggio storico, diventi un vero e proprio simbolo della lotta universale, «un’icona

che condensa la speranza nella vittoria degli oppressi, dei subalterni, di quella moltitudine che

ancora oggi non ha smesso di perdere»19.

Come è ormai evidente, Q non è affatto una semplice ricostruzione storica, ma ha una

dimensione politica molto consistente. In questo senso, la scelta stessa del periodo storico

rappresentato è eloquente, come spiegano gli stessi Wu Ming:

«Abbiamo scelto il sedicesimo secolo perché ci interessava descrivere i primi

decenni di agonia del feudalesimo e di affermazione del capitalismo moderno. L’inizio

di un’epoca somiglia molto alla sua fine, e noi oggi assistiamo alla fine della modernità,

sostituita da un nuovo feudalesimo ipertecnologico, con l’economia che insedia poteri

neoimperiali non elettivi (pensa al Fondo monetario internazionale, all’Organizzazione

mondiale del commercio eccetera), e col lavoro salariato sostituito da nuove forme di

schiavitù in diverse parti del mondo»20.

Se la dimensione politica del romanzo è sempre stata al centro della ricezione e della

critica su Q, è comunque importante osservare, come fa Giuliana Benvenuti, che anche se «non

possiede una dimensione politica intrinseca», poiché questa emerge piuttosto dai «discorsi che

precedono e accompagnano la sua pubblicazione, da una sorta di paratesto diffuso in rete che

fornisce la chiave di lettura rivoluzionaria a chi segua Luther Blisset», rimane sempre il fatto che Q

18
Il trattato di Ernst Bloch, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, è una fonte importante per la caratterizzazione di
questo personaggio.
19
Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico, cit., p. 78.
20
Wu Ming, Giap! Tre anni di narrazione e movimenti, Einaudi, Torino 2003, p. 171.

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«induce il lettore a sentirsi parte di una comunità in lotta che attraversa il “tempo lungo” di una

storia plurisecolare»21.

21
Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico, cit., pp 74-75.

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4 Tra what if e postmemoria: Helena Janeczek

Helena Janeczek, nata in Germania da genitori ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah, è

una scrittrice che fa dell’indagine sulle radici familiari e della ricostruzione storica due principi

fondamentali per la sua narrativa. Così, le sue opere, oltre ad essere pienamente ascrivibili alla

nebulosa del NIE (i primi due romanzi, Lezioni di tenebra e Cibo, sono direttamente citati nel saggio

di Wu Ming 1), costituiscono anche una rielaborazione della cosiddetta postmemoria. La

postmemoria, definita da Marianne Hirsch nei termini di una “testimonianza retrospettiva”, è un

concetto che descrive la relazione tra i figli dei sopravvissuti e dei testimoni di traumi collettivi e le

esperienze dei loro genitori22.

Le rondini di Montecassino (2010) è sicuramente un altro esempio importante di romanzo

neoepico. Come sottolinea Lorenzo Marchese, è emblematico di quel potere della scrittura che

consiste nel «partire dai documenti ed espanderli, conferendo loro un potere comunicativo più

ampio di quello che effettivamente lo storico ne trae»23. Il romanzo di Janeczek ruota attorno a un

episodio particolarmente significativo della seconda guerra mondiale, la battaglia di

Montecassino (gennaio-maggio 1944), ma segue le storie reali e inventate di molteplici

personaggi, sempre nell’ottica della ricostruzione delle storie sommerse. Quando narra le vicende

di un personaggio senza avere a disposizione dati storici affidabili, l’autrice ricorre alla finzione

letteraria, con la costante preoccupazione della plausibilità di tale ricostruzione; per esempio,

quando si trova a narrare del soldato Kułakowski a partire solo da una manciata di date che lo

riguardano, Janeczek fa un’osservazione che, in quanto ai suoi intenti, è illuminante: «Ridisegnare

un corpo immaginario quale tributo alla sua vera vita: vorrei pervenisse a questo il potere simbolico

dell’invenzione»24. Ricostruire le vite possibili, concentrarsi su come sarebbe potuta andare, è un

tratto del what-if, del discorso ucronico che caratterizza molte opere del NIE, anche quelle che

22
M. Hirsch e L. Spitzer, «War stories. Witnessing in Retrospect», in, Image and Remembrance. Representation and
the Holocaust, a cura di S. Hornstein e F. Jacobowitz, Indiana University Press, Bloomington 2003.
23
Lorenzo Marchese, Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction, Quodlibet, Macerata 2019, p. 113.
24
Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda, Parma 2010, p. 343.

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non si pongono esplicitamente come ucronie. D’altronde, Le rondini di Montecassino inizia proprio

con what-if: durante una conversazione in taxi, la narratrice discute con l’autista della battaglia di

Montecassino a cui suo padre ha preso parte. Poco dopo, però, il lettore capisce di aver appena

letto come sarebbe andata la conversazione se la narratrice non avesse risposto con una serie di

bugie improvvisate. D’altra parte, suo padre non ha mai partecipato alla battaglia di

Montecassino come soldato del generale Anders: come la stessa Janeczek ha scoperto solo prima

del funerale del padre, veniamo a sapere che perfino il suo cognome è falso, l’aveva cambiato

per sopravvivere in un’epoca di persecuzione per gli ebrei.

La narratrice ricostruisce accuratamente la storia di un amico di famiglia, Samuel

Steinwurzel (poi Milek, e in Italia Emilio), combattente a Montecassino, che, come fece suo padre,

non raccontò la verità sul suo trascorso – o meglio, non raccontò nulla a riguardo. Per questo

motivo, Janeczek traccia un parallelismo tra il padre e Emilio: «Milek o Emilio era quel che mio

padre avrebbe voluto essere, il suo doppio immaginario a cui tutto questo libro è dedicato»25.

Questa è una caratteristica importante del ruolo dell’invenzione nelle Rondini: la significatività,

addirittura la verità del “cosa sarebbe successo se”.

Un aspetto ancora più importante riguardo il ruolo della finzione romanzesca nel testo di

Janeczek è ancora dedicato alle storie “sommerse”:

«la storia di una vita salvatasi grazie a un'invenzione diventa parte di una storia

più grande ma dai contorni plurali, composta di una moltitudine di storie dimenticate,

perse nel tempo e in una geografia fatta di campi di concentramento, fosse, sacrari e

anfratti di montagne ricolmi di roccia, esplosivo e corpi smembrati. Ma anche di

spostamenti, battaglie, resistenze, abnegazione e solidarietà»26.

25
Ivi, p. 361.
26
Emanuela Piga, Epica, storia e memoria. «Le Rondini di Montecassino» di Helena Janeczek, in «Bollettino ‘900»,
2012, n. 1-2, http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2012-i/Piga.html

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Se le vicende di Emilio, infatti, fanno riemergere anche quelle di tanti altri ebrei polacchi

dimenticati dalla storia, anche i protagonisti delle numerose altre storie narrate nel libro di

Janeczek assolvono alla stessa funzione: benché la battaglia sia stata combattuta sul suolo

italiano, vi parteciparono soldati da varie parti del mondo. L’opera si sofferma sulle strategie di

guerra che mandarono sistematicamente in avanscoperta le truppe coloniali: la storia di Charles

Maui Hira, soldato maori, viene raccontata nella terza parte del romanzo (insieme alle vicende del

nipote Rapata Sullivan nel presente); la seconda parte del libro, invece, è dedicata al sergente

John “Jacko” Wilkins, della divisione texana mandata a morire sulla linea Gustav. Quelle di Charles

Maui Hira e di Jacko Wilkins, tra gli altri, sono prospettive personali che vanno oltre la singola storia

e vogliono invece ridare voce, rendere giustizia, a tutti i combattenti che vi presero parte. È

dunque lecito osservare che il mosaico di storie che ruota attorno alla battaglia di Montecassino

nasce «sulla spinta di una memoria che definirei, «sulla scia di Michael Rotbergh, multidirezionale,

opposta alla memoria competitiva che, nel lottare per il riconoscimento della memoria e della

identità di un determinato gruppo sociale, esclude le memorie degli altri gruppi»27.

27
Ibidem.

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Il romanzo neoepico

Bibliografia

Testi primari:

 Luther Blissett, Q, Einaudi, Torino 1999

 Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda, Parma 2010

Testi secondari:

 Wu Ming, New Italian Epic: letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi,

Torino 2009

 Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano. Storia, memoria, narrazione,

Carocci, Roma 2012

 Emanuela Piga Bruni, La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo,

Mimesis, Milano-Udine 2018

 Raffaele Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di

oggi, in «Allegoria», 57, 2018.

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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV

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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV

Indice

1 MEDIAMORFOSI DEL ROMANZO ....................................................................................................................... 3


2 LA ROMA DEL CRIMINE A PUNTATE ................................................................................................................... 5
3 IL BRAND GOMORRA ......................................................................................................................................... 8
4 LA SAGA E LA SERIE TV: UN’AFFINITÀ NATURALE .............................................................................................11
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................14

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1 Mediamorfosi del romanzo

Sia il romanzo che le serie TV si presentano al lettore o allo spettatore come veri e propri

universi narrativi: la lunga durata, le digressioni, le trame parallele e l’approfondimento della

psicologia dei personaggi, infatti, configurano un quadro in cui molteplici mondi possibili (attivati

dalle visioni del mondo dei personaggi, come dai progetti e dalle ipotesi che si intersecano in una

polifonia) coesistono in una narrazione complessa1. Anche la dimensione della serialità, che può

sembrare un’esclusiva delle serie TV, non è estranea al romanzo: bisogna ricordare la fortuna del

“romanzo a puntate” nell’Ottocento (si pensi al feuilleton francese). Autori del calibro di Charles

Dickens e Honoré de Balzac pubblicavano i loro romanzi in rivista, a cadenza episodica; per cui,

quando arrivava il momento di assemblarli nell’organicità della forma-romanzo, spesso le

“puntate” apparse in precedenza – che a volte, per invogliare il lettore ad acquistare il numero

successivo, terminavano con veri e propri cliffhanger 2– andavano a comporre la scansione in

capitoli definitiva.

Nonostante l’iniziale reticenza della critica nei confronti dell’inclusione della serialità

televisiva negli studi accademici, il paragone tra quest’ultima e la grande narrazione del romanzo

ottocentesco (sia nella forma popolare che nel grande romanzo realistico) è stato tracciato da più

parti3. Ovviamente vale lo stesso anche per il gemello naturale della televisione e della serie TV, il

cinema, anch’esso medium visuale: non a caso, spesso i criteri estetici propri della sfera

cinematografica sono gli stessi adoperati per riconoscere le serie “di qualità”. La differenza

principale tra questi due tipi di narrazione viene efficacemente riassunta da Bandirali e Terrone:

I film raccontano la loro storia in un unico testo, mentre le serie tv articolano la

1
Il concetto di “mondi possibili” è qui inteso secondo i principi della teoria dei mondi possibili, in particolare seguendo
Marie-Laure Ryan, Possible worlds, artificial intelligence and narrative theory, Indiana university press, Bloomington-
Indianapolis, 1991.
2
Emanuela Piga Bruni, Mediamorfosi del romanzo popolare: dal feuilleton al serial TV, in “Between”, vol. IV, n. 8,
novembre 2014, p. 7. Il cliffhanger è un momento di sospensione narrativa che blocca la narrazione proprio in un
momento che appare cruciale per il suo svolgimento.
3
Si vedano, tra gli altri, Emanuela Piga Bruni, Romanzo e serie TV. Critica sintomatica dei finali, Pacini editore, Pisa
2018; Daniela Cardini, La lunga serialità televisiva. Origini e modelli, Carocci, Milano 2004; Aldo Grasso, Buona
maestra: perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Mondadori, Milano 2007.

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propria narrazione in puntate e in stagioni [...] Il racconto filmico si svolge su un solo

livello, mentre il racconto seriale si svolge su tre livelli: la puntata, la stagione e la serie

nella sua interezza4.

Come osserva Daniela Cardini, dunque, la serialità televisiva si avvicina a un’idea di «cinema

espanso», poiché amplifica «le potenzialità narrative e gli universi di senso compressi nella ristretta

dimensione temporale del film» mentre aggiunge anche «la forza dell’immagine alle grandi

narrazioni del romanzo»5.

Un altro carattere fondamentale della serialità televisiva – non a caso definita come

“endlessly deferred narration” da Matt Hills – è il senso di attesa che divide i singoli episodi (anche

se la pratica del binge-watching, facilitata da piattaforme di streaming online come Netflix, può

annullare questa dimensione) e le varie stagioni. Queste “pause”, infatti, permettono anche il

proliferare di fandom in cui gli spettatori trovano uno spazio di confronto per le loro congetture,

anche molto elaborate, sul futuro svolgimento delle vicende o sui punti “oscuri” che rimangono da

sciogliere nell’universo narrativo di una data serie. Il Web, dunque, come andava delineandosi

lentamente già dagli anni Novanta, è diventato l’estensione transmediale principale per la serialità

televisiva odierna; a tal proposito, è sintomatico che gran parte degli spettatori usufruiscano delle

serie TV su computer, tablet e smartphone: dopo aver visto una serie in rete, è forte l’impulso di

digitarne il titolo sul motore di ricerca, per confrontare (attivamente o non) le proprie impressioni

con quelle di una gigantesca comunità virtuale.

4
Luca Bandirali, Enrico Terrone, Filosofia delle serie tv. Dalla scena del crimine al trono di spade, Mimesis, Milano
2012, p. 24.
5
Daniela Cardini, Il tele-cinefilo. Il nuovo spettatore della Grande Serialità televisiva, “Between”, vol. IV, n.8,
novembre 2014, p. 12.

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2 La Roma del crimine a puntate

Il magistrato Giancarlo De Cataldo scrive in uno stile rapido, scorrevole e godibile: uno stile,

insomma, che oltre a rispondere a quell’estetica della velocità propria della narrativa degli anni

Zero, è anche eminentemente cinematografico. Non sorprende, dunque, che dalle sue opere più

riuscite siano stati tratti film e serie TV di successo. Il suo Romanzo criminale (2002), benché non sia

un libro-inchiesta, inaugura un rinnovato interesse per la rappresentazione della criminalità

organizzata in Italia e, allo stesso tempo, si inserisce nella cornice del “ritorno alla Storia”, dal respiro

epico, della narrativa contemporanea. Romanzo criminale – nelle parole di Wu Ming, «un’Iliade

sull’Italia anni ’80, sulle sue voracità, stracciona e terribile»6 – narra le vicende della Banda della

Magliana nella Roma degli anni Ottanta (più precisamente, il lasso temporale va dal 1977 al 1992)

e, dunque, presenta al lettore lo scontro tra i membri della banda (guidata dal Libanese) che

vogliono “prendersi” Roma e la magistratura, rappresentata dal commissario Nicola Scialoja e dal

procuratore Fernando Borgia. Nonostante De Cataldo sia «senz’altro uno dei rappresentanti di

spicco della rinnovata intenzione civile della nostra letteratura»7, la sfera morale del romanzo è

continuamente pervasa da un’ambiguità tipica del genere noir (c’è chi ha osservato la presenza

di un certo “fascino del male” nell’opera) e non manca di mostrare il lato marcio di una parte

degli uomini di Stato; al termine del romanzo, nonostante la fine della Banda della Magliana, risulta

evidente che le radici criminali della città sono tutt’altro che sradicate. Dall’opera di De Cataldo

sono stati tratti due adattamenti: l’omonimo film di Michele Placido del 2005 e la ancora più

significativa serie di Stefano Sollima (2008-2010).

Romanzo criminale – la serie rappresenta una tappa fondamentale, dal ruolo addirittura

fondante, per la serialità televisiva italiana. È stata definita, infatti, come «il primo caso di

6
Su Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, di Wu Ming:
https://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/romanzocriminale.html
7
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna 2017, p. 131.

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produzione seriale televisiva italiana a elevata originalità linguistica, tecnica e stilistica»8. L’enorme

successo della serie – peraltro rinforzato dalla imponente campagna mediatica che ne

accompagnò l’uscita – si deve in parte anche alla scelta di attori ben poco conosciuti, per questo

(sulla scorta del neorealismo) sono «ritenuti più capaci di vivere il (e nel) ruolo e permettono allo

spettatore di identificarsi con il personaggio»9. Romanzo criminale, acquisendo immediatamente

una connotazione cult, apre la strada ad alcune delle più brillanti serie televisive a venire, tra cui

Suburra – la serie (2017 - in corso) di nuovo tratta da un romanzo di De Cataldo (questa volta scritto

in collaborazione con Carlo Bonini, ed uscito nel 2011), di nuovo ambientata in una Roma cinica e

violenta, dove, nei vuoti lasciati dallo Stato, la criminalità la fa da padrona.

Rispetto a Romanzo criminale, l’ambientazione sostanzialmente contemporanea di

Suburra preclude ogni liricità: l’amarezza e lo squallore del crimine che pervade la capitale non

lascia spazio a deformazioni poetiche, e, perlomeno nel romanzo, prevale il registro del ritratto

amaro. L’universo transmediale di Suburra si espande sul versante cinematografico con il film dello

stesso Stefano Sollima (2015), rispetto al quale la serie TV si pone come un prequel che racconta il

tentativo di scalare il potere da parte di tre giovani: Spadino, Aureliano (il futuro boss di Ostia,

soprannominato numero 8) e Gabriele. È importante segnalare che Suburra - la serie rappresenta

la prima produzione originale Netflix italiana: dopo la proiezione in anteprima dei primi due episodi

alla mostra del cinema di Venezia, la serie è stata distribuita sulla piattaforma di streaming

internazionale nell’ottobre del 2017, riscuotendo un buon successo di pubblico e critica;

attualmente si attende l’uscita della terza e ultima stagione. A conferma del ruolo pionieristico di

Romanzo criminale, basta scorgere rapidamente le recensioni di Suburra: la frequenza con cui i

due titoli vengono accostati è paragonabile solo a quella in cui ricorre il richiamo a Gomorra; a

titolo esemplificativo, in una di queste recensioni si legge: «this is the potential that I saw back in the

days in "Romanzo Criminale La Serie" transferred in a series targeted to an international audience.

8
Adiano D’aloia, Romanzo Criminale, in A. Grasso, M. Scaglioni (a cura di) Televisione convergente. La tv oltre il
piccolo schermo, Link-RTI, Milano 2010, p. 199.
9
Catherine O’Rawe, Romanzo criminale, la serie: stardom, ideologia, nostalgia, in “Bianco e nero”, 581, gannaio-
aprile 2015, p. 44.

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Brilliant, intriguing, violent» [questo è il potenziale che ho visto al tempo di “Romanzo criminale – la

serie” trasferito in una serie indirizzata ad un pubblico internazionale. Geniale, intrigante, violenta]10.

10
Recensione dal sito IMDb, https://www.imdb.com/title/tt7197684/reviews?ref_=tt_ov_rt

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3 Il brand Gomorra

Gomorra. La serie (2014- in corso; regia di Stefano Sollima), distribuita in oltre 190 paesi in tutto

il mondo, si inserisce nell’«ecosistema narrativo»11 costruitosi attorno al romanzo di Roberto Saviano

(Gomorra, 2006), a cui avevano già fatto seguito un film (2008, regia di Matteo Garrone) e una

trasposizione teatrale (2007, regia di Marco Gelardi). Secondo Benvenuti, è proprio a partire dalla

serie che possiamo considerare Gomorra un vero e proprio media franchise12: questa, infatti, non

può più ricondursi alla logica dell’adattamento, ma si inserisce in un contesto di transmedia

storytelling:

l’idea fondante che anima la pratica transmediale è quindi quella di creare

un’esperienza narrativa in cui i frammenti di una storia, spesso riconducibile a un

franchise di successo, vengono disseminati in diverse piattaforme mediali, lasciando

agli «iconauti partecipativi» della cosiddetta Software culture il compito di rintracciarli e

ricomporli13.

Da qualsiasi lato ci si approcci all’universo mediale di Gomorra (anche dalla parodia dei

“The Jackal”), dunque, si ha accesso ad una porzione della storia che, spesso e volentieri, invoglia

a rivolgersi alle altre produzioni su cui questa si estende, in una logica del tutto affine a quella delle

più note saghe transmediali (si pensi agli universi Marvel e DC).

Gomorra. La serie è un’estensione della materia narrativa del romanzo e del film e segue

le vicende di personaggi che non apparivano in questi ultimi; essendo ambientata negli anni

successivi al 2006, inoltre, segue l’evoluzione del Sistema della camorra, anche grazie alle ricerche

11
Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, Dalla crossmedialità all’ecosistema narrativo. L’architettura complessa
del cinema hollywoodiano contemporaneo, in F. Zecca (a cura di), Il cinema della convergenza. Industria, racconto,
pubblico, Mimesis, Milano-Udine 2012.
12
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, cit., p. 123. Per media franchise si intende «un
metatesto potenzialmente infinito e aperto alla creatività» (Ivi, p. 114).
13
Micol Lorenzato, «Gomorra». Transmedialità vera o presunta?
https://www.academia.edu/8613680/Gomorra_transme- dialità_vera_o_presunta.

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successive di Saviano, tra cui le dichiarazioni a lui rilasciate da Maurizio Prestieri, ex boss inserito

nelle dinamiche dell’alleanza di Secondigliano. Il fatto che Saviano stesso, che ha collaborato alla

sceneggiatura, abbia certificato la coerenza della serie con il progetto di denuncia avviato dal

suo romanzo, assicura il mantenimento di quel “patto di realtà” che pone ai realizzatori della serie

la sfida di creare un prodotto di successo «senza tradire il sistema valoriale che struttura il brand

Gomorra, fondato sull’intenzione di evitare la creazione di affascinanti eroi del male»14. È pur vero,

tuttavia, che la serie – rispondendo ai meccanismi costitutivi della serialità televisiva stessa -

presenta personaggi a cui lo spettatore può affezionarsi, e riprende molti aspetti tipici del gangster

movie, assenti dal film di Garrone.

Prendendo avvio dalle vicende del boss Pietro Savastano, della moglie Imma e del figlio

Genny che si sviluppano in una sempre più intricata faida tra clan, la serie «costruisce una

mostruosa epica del male, che solamente contaminandosi con la distopia, mantiene una distanza

critica verso ciò che rappresenta»15. La dimensione distopica viene sottolineata anche da Aldo

Grasso – secondo il quale Gomorra, grazie a una «scrittura capace di trasformare le vele di

Scampia in una lunga veglia nelle tenebre, in un’intollerabile monotonia del male», è «il racconto

di una civiltà esausta, senza redenzione»16. È proprio nell’ottica della distopia bisogna leggere la

sistematica assenza di un lieto fine che (ad oggi) caratterizza la serie e che ha una funzione

insieme didascalica e rispondente al realismo dell’opera: «tanto meno le cose si risolvono

positivamente nella finzione e tanto più starà a noi contrastare nei fatti l’ordine negativo che la

distopia rappresenta»17.

Nonostante il fatto che Gomorra. La serie sia diventata rapidamente un cult, portando

anche a fenomeni di citazione delle frasi più emblematiche dei boss da parte anche dei giovani

camorristi di oggi (sul modello Scarface), è comunque necessario riconoscere che l’obiettivo di

denuncia che caratterizza il brand Gomorra nel suo complesso non viene in tal modo sradicato;

14
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, cit., p. 130.
15
Ivi, 135.
16
Aldo Grasso, «Gomorra», la serie è meglio del film, in «Corriere della Sera», 7 maggio 2014.
17
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, cit., p. 135.

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oltre alla funzione critica di una rappresentazione distopica, infatti, rimane vero che, come si usa

dire, “parlare di camorra è già un modo di combatterla”.

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4 La saga e la serie TV: un’affinità naturale

L’espressione Ferrante Fever (diventato anche un hashtag attraverso cui i suoi fan si

riconoscono online) la dice lunga sul successo internazionale di Elena Ferrante, in modo particolare

in ambito anglo-americano. Benché con qualche eccezione, la critica italiana, tuttavia, ha

generalmente ignorato questo fenomeno, ascrivendolo più o meno implicitamente alla letteratura

di consumo. È invece fondamentale rivolgere la giusta attenzione alle opere di questa autrice, se è

vero che «Elena Ferrante è in questo momento l’emblema della letteratura italiana nel mondo»18.

Elena Ferrante – pseudonimo di un’autrice che ha scelto di mantenere nascosta la sua

identità – pubblica il suo primo romanzo nel 1992: L’amore molesto. Questo e i due romanzi

successivi (I giorni dell’abbandono, 2002, e La figlia oscura, 2006) confluiranno in un unico volume

in virtù di una certa affinità tematica (Cronache del mal d’amore, 2012). Ma il successo su scala

mondiale prende il via con la quadrilogia che comprende L’amica geniale (2011), Storia del nuovo

cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014). Le

protagoniste di questa vera e propria saga, che copre un vasto arco temporale, dal 1950 ai giorni

nostri, sono Elena Greco e Raffaella (Lila) Cerullo. La storia della loro amicizia continuamente in

bilico tra affetto e invidia, prevalentemente ambientata nello scenario degradato della periferia

napoletana, ci viene raccontata dall’infanzia alla vecchiaia attraverso la voce narrante di Elena –

che, grazie ad alcuni stratagemmi, spesso si sdoppia in quella dell’amica, in una prospettiva

polifonica19 – dopo la misteriosa scomparsa di Lila.

Tiziana De Rogatis ha individuato quattro ragioni principali per il successo della quadrilogia

dell’Amica geniale (all’estero nota come la serie delle Neapolitan Novels); le prime due sono

legate a tratti costitutivi dell’opera (la rappresentazione dell’alterità, in forma geografica e di

genere), e le restanti sono maggiormente connesse alle tendenze della narrativa contemporanea

18
Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano, in
D. Balicco (a cura di), Made in Italy e cultura, 2016, p. 288.
19
Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, edizioni e/o, Roma 2018, pp. 42 e seguenti.

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più popolare, soprattutto in area anglo-americana:

1) Napoli come emblema di una delle diversità italiane, emblematica

nell’inversione delle gerarchie tra centro e periferia tipica del mondo globalizzato;

2) Una nuova identità femminile: la soggettività femminile, immersa in un

mondo paradossalmente arcaico e contemporaneo allo stesso tempo, è al centro della

saga. Elena Ferrante rappresenta donne capaci di «rielaborare gli stati di “frantumaglia” o

di “smarginatura” e di farne un modulo dell’esperienza in grado di attraversare il tragico

senza farsi interamente abitare da esso». Entrambe parole chiave della poetica di Elena

Ferrante, la “smarginatura” indica la fuoriuscita dal margine della realtà convenzionale,

mentre la “frantumaglia” è la «parte di noi che sfugge alla riduzione in parole o ad altre

forme e che nei momenti di crisi riduce a se stessa, dissolve, l’intero ordine dentro cui

pareva di essere stabilmente inseriti»20.

3) Il gusto del memoir: la tendenza (involontariamente facilitata dall’anonimato

dell’autrice) a leggere le sue opere come un’autobiografia particolarmente estesa, genere

molto apprezzato nella cultura americana odierna;

4) La lunga durata: la scelta di una narrazione di lunga durata (ciascun

romanzo porta il sottotitolo di una macro-scansione temporale della vita, da Infanzia-

adolescenza fino a Maturità-Vecchiaia), unita alla ben orchestrata scorrevolezza

dell’intreccio, avvicina naturalmente la saga di Elena Ferrante al modello della lunga

serialità televisiva.

Non a caso, L’amica geniale (2018 – in corso) è oggi una serie TV italo-statunitense, creata

da Saverio Costanzo e distribuita su Rai Fiction e HBO. Con un grande successo di pubblico e

critica (come è evidente dagli indici di gradimento di Metacritic e Rotten Tomatoes,

rispettivamente 88% e 96%), L’amica geniale è un’ottima candidata come esempio di quality

20
Elena Ferrante, La frantumaglia. Nuova edizione ampliata, Edizioni E/O, Roma 2016, p. 302.

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television21 di stampo nostrano. A proposito del successo riscosso dalla serie alla messa in chiaro

sulla tv generalista, Alice Cucchetti scrive su «Rolling Stone»:

il pubblico ha risposto, mantenendo alti gli ascolti, ben oltre i 6 milioni di telespettatori a

serata, e questa è una vittoria che attendevamo come l’aria: che il pubblico generalista si

sedesse ogni lunedì a guardare su Rai 1 una serie HBO, una serie con i sottotitoli, una serie il cui

punto di vista è esclusivamente femminile e che ripercorre la storia d’Italia, il dopoguerra e, in

questa stagione, gli anni ’60 del Boom, attraverso gli occhi di chi, quasi sempre, è stato in

seconda fila, difficilmente protagonista, al massimo oggetto di desiderio22.

21
Il concetto di quality television è stato introdotto da R. J. Thompson in riferimento alla seconda “età dell’oro” della
televisione americana, a partire dalla metà degli anni Ottanta. Secondo Kristin Thompson, le serie che rispondono ai
principi della quality television presentano tipicamente un’alta complessità narrativa, ibridazione dei generi,
autoriflessività e una tendenza al realismo. Si veda Kristin Thompson, Storytelling in Film and Television, Harvard
University Press, Cambridge 2003.
22
Alice Cucchetti, “L’amica geniale”: bilancio di una serie che ha cambiato la tv italiana (e ha raccontato tutti noi)
https://www.rollingstone.it/opinioni/opinioni-tv/lamica-geniale-bilancio-di-una-serie-che-ha-cambiato-la-tv-italiana-e-
ha-raccontato-tutti-noi/505908/#Part1

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Bibliografia

Testi primari:

 Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, Einaudi 2002

 Giancarlo De Cataldo, Carlo Bonini, Suburra, Mondadori 2016

 Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006

 Elena Ferrante, L’amica geniale, Edizioni E/O, 2011

 Ead. Storia del nuovo cognome, Edizioni E/O, Roma 2012.

 Ead. Storia di chi fugge e di chi resta, Edizioni E/O, Roma 2013.

 Ead. Storia della bambina perduta, Edizioni E/O, Roma 2014.

 Romanzo criminale. La serie, Reg. Stefano Sollima, Cattleya e Sky Cinema, (2008-2010)

 Suburra. La serie. Reg. Michele Placido, Andrea Molaioli e Giuseppe Capotondi,

Cattleya, Rai Fiction e Netflix, (2017 – in corso)

 Gomorra. La serie. Reg. Stefano Sollima, Sky, Cattleya, Fandango, (2014- in corso)

 L’amica geniale. Reg. Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher, Wildside, Fandango (2018

– in corso)

Testi secondari:

 Emanuela Piga Bruni, Romanzo e serie TV. Critica sintomatica dei finali, Pacini editore,

Pisa 2018

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Emanuela Piga Bruni - Romanzo e serie TV

 Luca Bandirali, Enrico Terrone, Filosofia delle serie tv. Dalla scena del crimine al trono

di spade, Mimesis, Milano 2012

 Daniela Cardini, Il tele-cinefilo. Il nuovo spettatore della Grande Serialità televisiva,

“Between”, vol. IV, n.8, novembre 2014

 Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna

2017

 Adiano D’aloia, Romanzo Criminale, in A. Grasso, M. Scaglioni (a cura di) Televisione

convergente. La tv oltre il piccolo schermo, Link-RTI, Milano 2010

 Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, edizioni e/o, Roma 2018

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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema

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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema

Indice

1 CINEMA E LETTERATURA: ARTI A CONTATTO .................................................................................................... 3


2 UNA RELAZIONE MULTIFOCALE ......................................................................................................................... 5
3 LA TEMATICA CINEMATOGRAFICA..................................................................................................................... 7
4 UN CASO DI ADATTAMENTO: DA GOMORRA DI ROBERTO SAVIANO… .............................................................10
5 …A GOMORRA DI MATTEO GARRONE ..............................................................................................................13
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................15

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1 Cinema e letteratura: arti a contatto

Nonostante il cinema sia con tutta probabilità l’arte con cui la letteratura ha intrattenuto il

rapporto più significativo nel corso del Novecento, all’inizio del secolo la maggior parte degli

scrittori italiani vi guardavano quasi con arroganza e, quando collaboravano con l’industria

cinematografica, il più delle volte lo facevano in sordina. Verga, per esempio, quando vendette i

diritti di adattamento per alcune sue novelle, si assicurò prima che il suo nome non apparisse nella

lista dei collaboratori dell’industria cinematografica. E ancora: D’Annunzio e Gozzano,

consideravano utile il cinema, ma solo in quanto mezzo di divulgazione popolare, certo non in

funzione delle sue notevoli potenzialità estetiche e narrative.

Con l’avvento del sonoro, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, le cose

iniziano lentamente a cambiare, e dal secondo dopoguerra in poi diventa ormai evidente che il

cinema è un’arte narrativa al pari del romanzo; anzi, si ha l’impressione che inizi a batterlo sul suo

stesso campo: dalla sprezzante superiorità iniziale, la letteratura inizia a sperimentare addirittura un

complesso di inferiorità nei confronti del cinema. Si inizia a parlare di una grammatica strutturale

del cinema – dibattito che si afferma in Italia soprattutto grazie a Pasolini, che, com’è noto, oltre

che scrittore, fu un brillante regista e sceneggiatore1 – mentre in molte opere letterarie è ormai

evidente l’influenza del mondo cinematografico:

Dal momento in cui il cinema ha assunto un ruolo predominante nel sistema delle

arti e dei mezzi di comunicazione, si sono andate via via sviluppando generazioni di

scrittori che hanno desunto dal cinema non solo una serie di modelli iconografici e

caratteriali, bensì una vera e propria sensibilità narrativa2.

Sul fronte teorico, allo studio dei rapporti di reciproca influenza tra letteratura e cinema si

1
Si vedano Pier Paolo Pasolini, La lingua scritta della realtà (1966), in Id. Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di
W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999 e le più recenti riflessioni di Christian Metz, Semiologia del cinema.
Saggi sulla significazione del cinema, Garzanti, Milano 1972.
2
Federica Ivaldi, Effetto rebound. Quando la letteratura imita il cinema, Felici, Ghezzano 2011, p. 18.

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Emanuela Piga Bruni - Letteratura e cinema

è dedicata in misura crescente la comparatistica (il raggio d’azione della letteratura comparata,

disciplina dallo «statuto fluttuante»3 che studia le relazioni tra testi scritti in lingue ed epoche

diverse, non poteva non includere anche l’analisi intersemiotica dei rapporti tra la letteratura e le

altre arti). Come sintetizza efficacemente Elisabetta Abignente,

alla relazione tra le arti, poste tutte rigorosamente sullo stesso piano nel tentativo

di sfatare il plurisecolare pregiudizio letterariocentrico, si guarda negli ultimi decenni

alla luce dei due concetti chiave di ibridazione (tra i linguaggi e le forme) e di

contaminazione4.

Per quanto riguarda il caso specifico in analisi, il parallelo tracciato da Calvino nelle Lezioni

americane rappresenta un utile punto di partenza per arrivare a cogliere il legame

particolarmente profondo, fatto di somiglianze e specificità, che intercorre tra letteratura e

cinema. Secondo Calvino, infatti, la letteratura possiede una qualità fondamentale, la visibilità,

che attiva il nostro «cinema mentale» attraverso «il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi,

di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di

pensare per immagini»5. Nel caso del cinema, dunque, è l’immaginazione mentale del regista,

stimolata dal testo della sceneggiatura, a produrre immagini “vere”, impresse sulla pellicola e

fruibili da uno schermo.

3
Massimo Fusillo, Marina Polacco (a cura di), La letteratura e le altre arti. Atti del convegno annuale
dell’Associazione di teoria e studi di letteratura comparata, numero di «Contemporanea» n. 3.
4
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, in Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate,
Carocci, Roma 2014, p. 171.
5
Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp. 94- 102.

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2 Una relazione multifocale

Si è detto che, a differenza della maggior parte delle altre arti, il cinema condivide con la

letteratura e, in particolare, con il romanzo, il procedimento stesso della narrazione. Ovviamente

narrativa e cinema utilizzano codici espressivi e strumenti medium-specifici diversi (e non potrebbe

essere altrimenti, dal momento che l’uno agisce nella sfera visuale, mentre l’altra è legata alla

parola scritta), eppure i punti di contatto sono molti:

Nel narrare una storia, i due linguaggi ricorrono a strategie comuni tanto

nell’organizzazione delle sequenze narrative – si pensi al ricorso alla figura del flashback

che capovolge nell’intreccio l’ordinato susseguirsi di eventi della fabula – quanto nei

meccanismi messi in campo per dosare la tensione del plot creando effetti di sorpresa

e di suspense – come avviene con il ricorso alla tecnica del cliffhanger6.

I rapporti tra le due arti, dunque, agiscono su più livelli, che possiamo riassumere in due

macro-aree:

- Il livello tematico: i temi letterari sono stati fin dalle origini un repertorio fondamentale

per il cinema, ma ormai questa relazione è valida anche nella direzione opposta (e in

letteratura c’è una crescente presenta tematica dell’immaginario filmico);

- Il livello tecnico-strutturale: secondo la logica della rifrazione (l’effetto rebound di

Genette) la letteratura fa propri alcuni procedimenti e tecniche del linguaggio

cinematografico, adattandoli alla pagina scritta. La tecnica del montaggio, per esempio, si

ritrova in opere costruite per tagli e accostamenti inusuali; similmente accade con il riuso

delle tecniche di inquadratura, che nel testo portano all’assunzione di punti di vista

particolari.

Il caso degli adattamenti cinematografici di opere letterarie merita un’attenzione

6
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, cit., p. 180.

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particolare. Infatti, oggi la teoria degli adattamenti non mette più al centro il criterio di fedeltà

all’originale, che aveva dominato a lungo il dibattito sul tema7. Ogni opera, anche se è una

trasposizione, è dotata della propria originalità, e deve essere riconosciuta come tale: a tal

proposito, sono state proposte alcune alternative al termine “adattamento”, come

“transcodificazione” e “ri-creazione”, che rendono più giustizia a «quel doppio sforzo, ermeneutico

e creativo, con il quale fa necessariamente i conti chi si appresta a rappresentare con stile,

strumenti e forme nuove un’opera già scritta da altri»8.

7
Per uno studio fondativo per le nuove direzioni della teoria dell’adattamento, si veda Linda Hutcheon, A Theory of
Adaptation, [trad. it.] Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie tra letteratura, cinema, nuovi media, Armando,
Roma 2011.
8
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, cit., p. 182.

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3 La tematica cinematografica

La rilevanza che il cinema assume nella narrativa contemporanea, anche come repertorio di

temi e generatore di tendenze, è notevole. Si è spesso parlato degli anni Novanta come un

decennio “scarno” sul fronte letterario, e Gabriele Pedullà osserva a ragione che «gli eroi degli anni

Novanta non ci sono giunti dalla letteratura, ma dal cinema»9. Se Pedullà fa questa affermazione

nel rilevare che i modelli principali della narrativa di Tommaso Pincio sono cinematografici (gli “a-

eroi” dei suoi romanzi assomigliano molto ai protagonisti dei film dei fratelli Cohen, da Il grande

Lebowski a L’uomo che non c’era), si tratta di un principio altrettanto riscontrabile in buona parte

dei narratori degli anni Zero. Il protagonista della Separazione del maschio (2008) di Francesco

Piccolo, per esempio, fa il montatore, mestiere quanto mai azzeccato, le cui mansioni rimandano

anche al modo in cui il protagonista gestisce la sua realtà, le sue riflessioni e la sua visione del

mondo. Il tema centrale del romanzo è la vita sentimentale del protagonista, “inspiegabilmente”

lasciato dalla moglie all’improvviso, in realtà adultero seriale e irredimibile. Il suo bisogno di avere

più relazioni extraconiugali contemporaneamente risponde a una nevrosi che si manifesta anche

nel suo lavoro:

Quando mi capita di lavorare a un solo film, invece di aumentare la

concentrazione, mi sento spaesato, ossessionato, insofferente. [...] Non solo. Ma anche

all’interno del film, il mio modo di lavorare è digressivo. Spezzetto il film per segmenti

narrativi: da qui a qui, e allora è come se avessi a che fare con venti film in un film10.

Ma la metafora cinematografica è una presenza costante nel romanzo; anche il

concetto di “quasi-verità” – il tipo di menzogna di cui il protagonista si ritiene un maestro e che

consiste nel raccontare minuziosamente i dettagli delle sue giornate e dei suoi incontri, omettendo

“solo” la componente del rapporto sessuale –si ripresenta a sua volta nella tecnica di montaggio

9
Gabriele Pedullà, L’amore ai tempi di Twin Peaks, «Il Caffè illustrato», 5, marzo-aprile 2002.
10
Francesco Piccolo, La separazione del maschio, Einaudi, Torino 2008, p. 18.

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cinematografico che adotta sul lavoro:

C’è una verità oggettiva, di sostanza, che è il film come è stato scritto e come è

stato girato. C’è una scena in cui il protagonista entra in casa ed è stupito per il

disordine che trova. E poi ce n’è un’altra in cui è triste. Prendo il primo piano della

scena di delusione e lo uso per la scena di tristezza, perché è migliore, meno

intenzionale, più sorprendente. […] Quello che importa è quell’espressione di tristezza

era in realtà di delusione. Tutto ciò che è successo per davvero si perde, non esiste più,

viene dimenticato. La quasi verità sostituisce la verità per sempre11.

Al di là dei riferimenti (che pure sono una presenza costante) a film ben precisi, o

all’immaginario cinematografico inteso in senso più ampio, dunque, il livello più profondo su cui

agisce l’influenza cinematografica nel romanzo di Piccolo è quello della modalità di pensiero del

protagonista: «in Piccolo, […]il cinema è un modello di filosofia antigerarchica e antitragica – un

modo per godere nella molteplicità, senza scottarsi con grandezze intere e non scomponibili come

la verità […] in Piccolo l’assoluto si può esorcizzare col montaggio, spezzettandolo,

miniaturizzandolo e disseminandolo nel quotidiano»12.

D’altronde, il ruolo centrale dell’immaginario cinematografico ha nelle sue opere non

può stupire, se si considera che, dopo aver esordito come scrittore alla fine degli anni Novanta,

Piccolo inizia ben presto anche a firmare delle sceneggiature: le sue collaborazioni più note su

questo fronte sono probabilmente quelle con Nanni Moretti e Paolo Virzì. Dal 2008, con Caos

Calmo (regia di Antonello Grimaldi), tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, Piccolo si

cimenta per la prima volta con le sceneggiature tratte da opere letterarie, esperienza che ripeterà

firmando, tra le altre, anche la sceneggiatura de Il capitale umano (2013, regia di Paolo Virzì)

liberamente ispirato al romanzo omonimo di Stephen Amidon. Quanto alla procedura della

transcodificazione di una storia dalla forma letteraria a quella cinematografica, Piccolo suona

11
Ivi, p. 58-59.
12
Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna
2018, p. 316.

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decisamente d’accordo con i principi della contemporanea teoria dell’adattamento: «Occorre

avere il coraggio di tagliare cose poco funzionali al racconto cinematografico e dedicarsi a quelle

sfumature che invece rendono meglio. […] In pratica credo occorra tradire il libro per farlo

rivivere sullo schermo in altro modo»13.

13
Da Scrivere per il cinema: intervista a Francesco Piccolo, di Paolo Borio: https://www.filmdoc.it/2015/10/scrivere-
per-il-cinema-intervista-a-francesco-piccolo/

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4 Un caso di adattamento: Da Gomorra di


Roberto Saviano…

Gomorra (2016) di Roberto Saviano non solo è un esempio emblematico delle nuove

tendenze della narrativa italiana – a più riprese individuate nel “nuovo realismo” e nella “nuova

epica italiana” – ma ha innescato anche il primo eclatante caso italiano di quella estensione di

una storia su molteplici piattaforme mediali che viene definita transmedia storytelling14. Come

sostiene Giuliana Benvenuti, in uno studio significativamente intitolato Il Brand Gomorra «è

impossibile non vedere il libro alla luce di ciò che lo ha seguito»15. Per poterne apprezzare il

paragone con una delle sue estensioni transmediali (il film di Matteo Garrone), è necessario

ripercorrere prima le caratteristiche più innovative del libro di Saviano.

Gomorra è un testo ibrido che accosta racconto, testimonianza autobiografica e

saggistica, al punto che, secondo Donnarumma, per cercare di definirlo «si potrebbe scomodare

la perifrasi di “narrazione documentaria”»16. Come promesso dal sottotitolo (Viaggio nell’impero

economico e nel sogno di dominio della camorra), Gomorra restituisce al lettore un ritratto delle

strategie di dominio della camorra in diversi ambiti (dal contrabbando al traffico di droga e allo

smaltimento dei rifiuti, per citarne alcuni); eppure, non si tratta di un viaggio organico, dotato di un

preciso ordine di svolgimento: il testo procede invece quasi attraverso una giustapposizione di

sequenze che lo configura come un «romanzo-collage» che riunisce memorie autobiografiche,

indagini e inchieste senza un criterio cronologico preciso, al punto che è possibile leggere

disordinatamente i diversi capitoli del libro, senza che se ne perda il senso complessivo. A fare da

collante è proprio la figura del narratore, onnipresente testimone diretto degli eventi, che rivendica

di fronte al lettore la veridicità dei fatti narrati: a questo proposito, è ben nota la ripresa del

pasoliniano “Io so. Ma non ho le prove”, che diventa “Io so e ho le prove”. Secondo Daniele

14
Per una rassegna sulle direzioni attuali degli studi sul transmedia storytelling, si veda Marie-Laure Ryan e Jan- Noel
Thon (a cura di), Storyworlds across media. Towards a media-conscious narratology, University of Nebraska Press,
2014.
15
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna 2017, p. 8.
16
Raffaele Donnarumma, “Storie vere”. Narrazioni e realismi dopo il postmoderno, «Narrativa», 31-32, 2020.

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Giglioli, quello che colpisce maggiormente il pubblico, ed è quindi alla radice dello straordinario

successo dell’opera, è che Saviano «è andato là dove noi non avremmo avuto il coraggio di

andare […] se ci appassioniamo al suo “io c’ero” è perché fa da contraltare al nostro “io non

c’ero”»17. Una ragione almeno altrettanto importante che spiega la calorosa ricezione del libro

all’estero è la scelta esplicita di rivolgersi a un pubblico che è insieme locale, nazionale e

internazionale: Saviano non mette sotto una lente d’ingrandimento solo la realtà napoletana, ma

parla dettagliatamente dell’esistenza di una rete fittissima di traffici commerciali dei clan casalesi

che operano in tutta Europa, negli USA e in Sud America.

Gomorra, come molti modelli cinematografici statunitensi che raccontano le storie dei più

noti boss mafiosi, presenta un linguaggio iperbolico che risente dell’influenza del pulp, ma i

propositi che guidano questa strategia sono sensibilmente diversi. Come nota Benvenuti, oltre a

Pasolini, Primo Levi e il New Journalism, infatti, uno dei modelli principali dell’opera di Saviano è

Scarface (1983, regia di Brian De Palma), che ne diventa una sorta di sottotesto. La

spettacolarizzazione di un certo “fascino del male” di cui Scarface è intriso ha avuto una

ripercussione non solo sull’immaginario (giovanile e non) nel riuso delle frasi di Tony Montana, ma,

come racconta Saviano, diventa un riferimento anche per i camorristi stessi:

Le ville dei camorristi sono le perle di cemento nascoste nelle strade dei paesi del

casertano, protette da mura e telecamere. […] Hollywood è la villa di Walter

Schiavone, fratello di Sandokan [...]. Si racconta a Casal di Principe che il boss aveva

chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella del gangster cubano di

Miami, Tony Montana, in Scarface.18

Così, Saviano «riusa gli stessi elementi della narrazione “epica” della vita dei boss e ne

utilizza anche il linguaggio, per costruire una controepica, un’epica della ribellione»19, riuscendo a

17
Daniele Giglioli, Lui c’era al posto mio, «Alias», 28 ottobre 2006.
18
Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006, p. 267.
19
Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna 2017, p. 75.

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descrivere efficacemente lo squallore della camorra e della violenza perpetrata dai suoi adepti,

senza mai farne motivo di un fascino oscuro.

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5 …A Gomorra di Matteo Garrone

L’adattamento cinematografico di Matteo Garrone esce nelle sale italiane nel maggio del

2008 e riscuote subito un buon successo. Quello che era l’imperativo di Saviano – rappresentare il

Sistema senza lasciare il minimo spazio al fascino per il potere dei boss – rimane centrale nel film di

Garrone, ma le strategie che adotta in questo senso sono piuttosto diverse. Se Saviano utilizza un

linguaggio iperbolico nel tentativo di decostruire il mito dall’interno, Garrone rinuncia del tutto

all’eccesso, evitando le ben consolidate convenzioni del gangster movie di scuola hollywoodiana,

con un’unica eccezione: la scena iniziale del massacro nel solarium, un richiamo intertestuale del

film di Brian De Palma, Gli intoccabili (1987)20. È altrettanto vero, però, che il contrasto segnato dal

cambio di rotta che segue il violento incipit è funzionale a disattendere le aspettative dello

spettatore, guidandolo in un altro tipo di percorso. Garrone elimina del tutto la figura del narratore-

testimone (Saviano stesso) che nel libro era onnipresente: «la forza della parola che denuncia,

completamente assente nel film, è sostituita dall’evidenza visiva di un’apocalisse topografica e

sociale»21. Il risultato è un riuscito ritratto della banalità del male che emerge attraverso cinque

storie tra loro indipendenti, che seguono le vicende di personaggi secondari, senza soffermarsi sulla

vita dei boss veri e propri e premendo molto sulla questione degli adolescenti attratti dal mondo

dell’illegalità in un velleitario sogno di potere, dall’esito regolarmente tragico (dal tradimento del

piccolo Totò all’omicidio di Marco e Pisellì).

Gomorra è essenzialmente un film “di osservazione”, come rileva Holdaway analizzandone

la retorica cinematografica anche attraverso la durata media delle scene22 . Anche la scelta di

usare il dialetto, spesso parlato da attori non professionisti, risponde alla stessa esigenza mimetica.

Queste caratteristiche sono tipiche della poetica che ricorre negli altri film di Garrone:

i suoi non sono film politici, ma sono film girati politicamente: più che «l’aspetto

20
Ivi, p. 84.
21
Ivi, p. 100.
22
Dom Holdaway, Osservazioni sulla retorica di «Gomorra», in W, Hope, L. D’Arcangeli e F. Stefanoni (a cura di), Un
nuovo cinema politico italiano, Troubador, Leicester 2014
https://www.academia.edu/10243259/Osservazioni_sulla_retorica_di_Gomorra

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delle informazioni». […] Partendo dalla perlustrazione di una situazione, dallo studio dei

luoghi e dei comportamenti più che delle psicologie, Garrone arriva spesso a una

limpida e coerente reinvenzione della realtà, conseguenza di un atteggiamento che

non impone a priori una propria visione, ma si limita a osservare fino in fondo23.

È lo stesso regista, in effetti, a rivendicare l’impiego di un approccio quasi neutrale («non

ho voluto fare un film contro il “Sistema”, ma sul “Sistema”»24), per lo più funzionale – si è detto – a

segnare uno scarto rispetto al pericoloso effetto-glamour dei boss mafiosi tipico del modello

Scarface: Gomorra, attraverso l’atmosfera opprimente delle Vele di Scampia e le storie di

“ordinaria” criminalità, lascia che lo squallore quotidiano della camorra parli da sé, evocando

l’inevitabile risposta emotiva dello spettatore.

23
P. De Sanctis, Il crepuscolo della bellezza. Lo sguardo e il metodo di Matteo Garrone, in De Sanctis, Monetti e
Pallanch (a cura di), Non solo Gomorra. Tutto il cinema di Matteo Garrone, Ed. Sabinae, 2008, p. 9.
24
R. Porton, Inside the System; An Interview with Matteo Garrone, in «Cineaste», 2, 2009.

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Bibliografia

Testi primari:

 Francesco Piccolo, La separazione del maschio, Einaudi, Torino 2008

 Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006

 Gomorra, Reg. Matteo Garrone, Fandango, Rai Cinema, 2008

Testi secondari:

 Federica Ivaldi, Effetto rebound. Quando la letteratura imita il cinema, Felici,

Ghezzano 2011

 Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, in Francesco de Cristofaro (a cura

di), Letterature comparate, Carocci, Roma 2014

 Linda Hutcheon, A Theory of Adaptation, [trad. it.] Teoria degli adattamenti. I percorsi

delle storie tra letteratura, cinema, nuovi media, Armando, Roma 2011

 Giuliana Benvenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV, Il Mulino, Bologna

2017

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Emanuela Piga Bruni - Romanzo, transmedialità e arti visive

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Indice

1 IBRIDAZIONI ...................................................................................................................................................... 3
2 IL TESTO SENZA CONFINI: MANITUANA ............................................................................................................. 5
3 LE FORME IBRIDE: UNA LETTERATURA-FUMETTO .............................................................................................. 7
4 LE FORME IBRIDE: IL FOTOTESTO ....................................................................................................................... 9
5 IL “FUMETTO DI REALTÀ” ....................................................................................................................................11
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................................14

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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1 Ibridazioni

L’impiego di una prospettiva transmediale è ormai imprescindibile per qualsiasi studio che

voglia dedicarsi all’immaginario collettivo contemporaneo nelle sue manifestazioni letterarie e

artistiche. Gli studi transmediali, che sono ormai la direzione privilegiata da gran parte della

narratologia odierna1, si articolano in una doppia direzione, legata all’ampiezza semantica dello

stesso termine “transmedialità”: in senso più generale, allude all’applicabilità di un dato concetto

teorico (come la ricorrenza di un particolare tema, o una tendenza) a espressioni artistiche

appartenenti a media differenti; in senso maggiormente specifico, per “transmedialità” si intende

l’estensione di uno stesso mondo finzionale su media differenti. In quest’ultima accezione, in

ambito italiano si è parlato di transmedialità anche nei termini di un «ecosistema narrativo»2.

È evidente, dunque, che la transmedialità è intimamente legata al rapporto tra la

letteratura e le altre arti. Un legame particolarmente longevo in questo senso è quello con le arti

visive: si pensi all’oraziano ut pictura poësis e, sul piano pratico, alle illustrazioni nei romanzi (pratica

molto diffusa nell’Ottocento), o alle più recenti forme in cui «testo e immagine risultano inscindibili e

l’eliminazione di uno dei due produrrebbe un deficit di comprensione»3, come il fumetto, a cui

Umberto Eco (il primo in Italia a difenderne il valore artistico in una prospettiva accademica) ha

dedicato pagine importanti4. Anche il caso della contaminazione tra letteratura e fotografia è

estremamente significativo, non solo dal punto di vista tematico, indagato a fondo da Remo

Ceserani5, ma anche nella forma del cosiddetto fototesto, in cui la parola scritta coesiste con

1
Si veda Jan-Noël Thon, Storyworlds across Media. Toward a Media-Conscious Narratology, University of Nebraska
Press, Lincoln-London 2016
2
V. Innocenti e G. Pescatore, Dalla crossmedialità all’ecosistema narrativo. L’architettura complessa del cinema
hollywoodiano contemporaneo, in Il cinema della convergenza. Industria, racconto, pubblico, Mimesis, Milano-Udine,
pp. 127-138.
3
Elisabetta Abignente, La letteratura e le altre arti, in Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate,
Carocci, Roma 2014, p. 174.
4
Per esempio, si veda Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa,
Bompiani, Milano 1987.
5
Analizzando i modi in cui la fotografia influenza l’immaginario narrativo, Ceserani scrive: «c’è stata da parte di molti
scrittori della modernità un’attenzione intensa e profonda per le tecniche e i modi di percezione della memoria e della
realtà interiore ed esteriore, le pratiche di cattura e di esorcizzazione di parti e dettagli del mondo, le tecniche stesse

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immagini fotografiche che non vanno intese come illustrazioni, ma sono dotate di una vera e

propria autonomia narrativa.

Per comprendere a fondo il carattere transmediale di gran parte della narrativa

contemporanea, è utile indagare le forme molteplici di cui si compone questo panorama,

partendo da un esempio di transmedia storytelling, utile a dimostrare le strategie attraverso cui un

dato mondo finzionale si estende su più piattaforme mediali.

della descrizione e ricreazione letteraria». Remo Ceserani, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura, Bollati
Boringhieri, Torino 2011, p. 13.

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2 Il testo senza confini: Manituana

Nell’attività (letteraria e non) collettivo di scrittori Wu Ming (“senza nome”), che gestisce

anche Giap, un blog di successo, l’elemento transmediale è sempre stato presente; questa affinità

naturale raggiunge l’apice quando, con la pubblicazione di Manituana (2007) e la contestuale

messa in rete del sito www.manituana.com, i Wu Ming mettono a punto un progetto molto

ambizioso di transmedia storytelling.

Il romanzo Manituana – che per i fini del nostro discorso, possiamo considerare come

“mondo possibile base” – è ambientato agli inizi della rivoluzione americana e adotta la

prospettiva dei popoli delle Sei Nazioni Irochesi alleate con re Giorgio III d’Inghilterra. Includendo in

misura consistente quell’elemento ucronico che gli stessi Wu Ming identificano come componente

importante della tendenza letteraria definita New Italian Epic, l’intera narrazione prende il via a

partire da un what-if: cosa sarebbe successo se i lealisti avessero sconfitto le truppe dei coloni?

Ridando voce ai vinti, ai dimenticati dalla storia, e affiancando all’attenta ricostruzione

storica la riflessione su eventi fittizi, ma verosimili, Manituana riesce a raccontarci una civiltà – quella

degli irochesi, appunto, in cui i coloni e i nativi convivevano in pace e di cui è esempio la figura di

Molly Brant6 – annientata dalla violenza della nascente nazione americana. In altre parole, il

romanzo dei Wu Ming presenta al lettore «la genesi dello sterminio di un “mondo possibile”»7.

Entrando più nel dettaglio della natura transmediale dell’opera dei Wu Ming, è necessario

considerare che, attraverso la piattaforma online di Manituana, il mondo finzionale del romanzo

diventa la materia di partenza per molteplici mondi possibili che si estendono dalla sua base,

andando a costituire un grande universo narrativo, che è un ottimo esempio (sul fronte letterario)

6
È soprattutto attraverso la figura storica di Molly Brant che, in Manituana, viene messo in evidenza il carattere ibrido
e pacifico della cultura irochese: è rispettata parimenti e partecipa attivamente alla vita culturale dei coloni inglesi e dei
nativi.
7
Emanuela Piga, Una storia dalla parte sbagliata della Storia: Manituana dei Wu Ming, in Memoria e oblio: le
scritture del tempo. Atti del Convegno annuale dell’Associazione per gli studi di Teoria e Storia Comparata della
Letteratura (Lecce, 24-26 ottobre 2007), Peter Lang 2009, p. 32

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della cosiddetta “cultura convergente”8 – termine che indica la tendenza contemporanea alla

declinazione dei contenuti su tutte le piattaforme mediali. Sul sito, progettato da Andrea Alberti, si

può liberamente navigare nel mondo finzionale, attraverso approfondimenti, book trailer e

l’originale combinazione interazione tra mappe geografiche reali (con possibilità di navigazione su

Google Earth) e mappe storiche; non solo: i lettori-utenti possono contribuire attivamente allo

sviluppo dell’universo narrativo Manituana attraverso la composizione di spin-off, fan fiction,

illustrazioni, fumetti e componimenti musicali. Il what-if, insomma, riappare nei racconti della

comunità online, che è libera di immaginare scenari alternativi e estensioni della materia narrativa;

in tal modo, «il testo sorgente dell’opera letteraria si offre alla co-creazione della comunità dei fan

e si dissemina e deterritorializza in rizomi narrativi e transmediali che intersecano e esorbitano dalla

conchiusa composizione originaria»9.

Nella sezione “racconti ammutinati”, tra l’altro, sono presenti anche dei testi scritti dagli

stessi Wu Ming ed esclusi dalla versione finale del romanzo pubblicata in cartaceo. Includendo

questi materiali, queste “intersezioni di immaginario”, i Wu Ming recuperano – inserendoli a tutti gli

effetti nell’universo narrativo – quelli che erano i fogli accartocciati, gli sviluppi scartati da Dumas

nel racconto Il conte di Montecristo di Italo Calvino. Possiamo affermare, dunque, che grazie al

carattere transmediale dell’opera e al supporto della rete-comunità che partecipa alla sua

costruzione, Manituana riesce a realizzare effettivamente, dandole un’efficace forma di

espressione, quell’ossessione del possibile-a-ogni-istante che tormenta tanti romanzieri del

Novecento, da Paul Valery allo stesso Calvino.

8
Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
9
Emanuela Piga, Comunità, intelligenza connettiva e letteratura: dall’open sourceall’opera aperta in Wu Ming, in C.
Brook, E. Patti (a cura di), Transmedia. Storia, memoria e narrazioni attraverso i media, Mimesis, Milano 2016, p. 70.

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3 Le forme ibride: una letteratura-fumetto

La contaminazione tra due forme d’arte può agire sul piano dei temi e delle tecniche

(nell’impiego di riferimenti all’immaginario filmico, ad esempio, o nell’adattamento letterario di

tecniche proprie del cinema e della fotografia), ma può anche configurarsi come un vero e

proprio accostamento di due forme artistiche separate e legate a medium differenti, che vanno a

formare una forma “ibrida”. Questo principio vale anche per il rapporto tra la letteratura e il

fumetto, o il manga10. Un esempio della prima tipologia di influenza, nel panorama della

letteratura contemporanea italiana, è Sirene (2007), romanzo distopico di Silvia Pugno ambientato

in un futuro post-apocalittico vessato da un’epidemia di “cancro nero” che costringe gli uomini a

vivere in edifici sotto l’oceano per sfuggire ai raggi del sole (lo strato di ozono che protegge la

terra è ormai ridotto ai minimi). Il romanzo narra le vicende di Samuel, sorvegliante di un

allevamento di sirene – creature destinate alla macellazione o alla soddisfazione delle voglie

sessuali dei membri della yakuza, la mafia giapponese. Nella nota finale, l’autrice dichiara

espressamente il aver voluto dare vita a un “manga scritto”: la profonda contaminazione con il

manga, più che sul fronte tematico, è evidente sul piano della lingua e dello stile. La lingua di

Sirene, infatti, depurata da «ogni riempitivo affettivo, viene ricondotta con severità ai suoi elementi

minimi, basilari»11. Man mano che la narrazione procede e le disavventure di Samuel si fanno più

concitate, inoltre, le frasi danno sempre più «l’idea di essere effettivamente pensate come

vignette, ognuna in grado di isolare un dettaglio visivo, o il segmento precisamente delineato di

un’azione in corso»12.

Il primo libro di Emmanuela Carbé, Mio salmone domestico (2013), è invece un esempio di

scrittura che include nel testo veri e propri inserti fumettistici. Il libro racconta la storia di una

10
Il manga è un fumetto di origine giapponese, che si distingue per l’uso esclusivo del bianco e nero e l’ordine di lettura
delle vignette, che è invertito rispetto al corrispettivo occidentale del fumetto.
11
Andrea Cortellessa, La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), L’orma, Roma 2014, p.
273.
12
Emanuele Trevi, Da Laura Pugno dettagli oscuri di un medioevo apocalittico, «Il Manifesto», 12 luglio 2007

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studentessa e di Crodo, il suo salmone domestico, appunto, somiglia un po’ a un amico

immaginario o alla coscienza della protagonista, ma è anche una presenza concreta: «Ogni volta

che io e mio salmone domestico andiamo in giro per la città a noi ci viene da ridere da soli perché

a me sembra strano pensare a mio salmone domestico in mezzo alla gente e a mio salmone

domestico pare strano pensare di essere un salmone domestico che gira per le vie della città»13.

Salmone domestico, insomma, si innamora, fatica a trovare un lavoro e dorme in una cassetta di

fragole perché, quando vuole, può coprire la “o” con la pinna, in modo che si legga “fragile”.

Un aspetto che ricorre nella ricezione del libro di Emmanuela Carbé è l’esitazione nel

definire la tipologia dell’opera (romanzo? diario con le figure?); si tratta, infatti, di una forma ibrida

– un oggetto narrativo-non-identificato –, come è evidente fin dal sottotitolo, Manuale per la

costruzione di un mondo, completo di tavole per esercitazioni a casa. Queste tavole sono,

appunto, le trenta pagine che concludono il libro, in forma di fumetto che racconta la storia di un

pesce rosso che vive in una palla di vetro in fondo al mare e da lì osserva il mondo, finché,

ammaliata da un pesce barbuto di nome Palomar, si arrampica fuori dall’acquario con una

scaletta; qui, il libro si conclude con una ripresa di Calvino: «Si congedò da ogni pensiero e da ogni

catalogo dei mondi possibili. Per sceglierne uno, uno solo, per “farlo durare” e “dargli spazio”»14.

13
Emmanuela Carbé, Mio salmone domestico, Laterza, Roma-Bari 2013
14
Ivi

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4 Le forme ibride: il fototesto

I primi fototesti – opere letterarie accompagnate da fotografie – sono apparsi alla fine

dell’Ottocento, ma negli ultimi decenni questa forma narrativa si è presentata con frequenza

sempre maggiore, e ormai rappresenta una tendenza importante, la cui analisi è imprescindibile

per comprendere il variegato panorama della narrativa degli anni Zero. Nel tracciare una

mappatura dei fototesti italiani contemporanei, Maria Rizzarelli individua tre tipologie principali: i

fototesti autobiografici (che spesso utilizzano immagini tratte dagli album di famiglia), i fototesti

della scrittura finzionale e i fototesti che includono soprattutto immagini di luoghi.

Autopsia dell’ossessione (2010) di Walter Siti è un esempio di fototesto finzionale (o

autofinzionale) perché le fotografie che contiene servono a delineare i personaggi e le loro storie,

e infatti sono letteralmente incastonate nel discorso e non presentano didascalie. Gli scatti

(diciotto in tutto) sono di fotografi diversi, tra cui lo stesso Siti, e ritraggono un body-builder che ha il

compito di impersonare l’oggetto del desiderio di Danilo Pulvirenti, il protagonista (e alter ego dello

stesso autore) che ne è ossessionato. Solo l’ultima immagine cambia bruscamente soggetto: ritrae

un bambino in un giardino e sembra essere un riferimento alla Camera chiara di Barthes15. Nel

testo, inoltre, si legge che l’impiego della fotografia è un mezzo per tenere a bada «l’ossessione

attraverso il catalogo». Come osserva Rizzarelli, dunque,

il testo di Siti può essere considerato […] un caso esemplare di narrazione

fototestuale in cui la lettura delle immagini assume una finalità eminentemente

narrativa, volta alla costruzione dei personaggi e alla messa in scena della

triangolazione fra sguardi corpi e desideri, triangolazione che costituisce l’asse portante

della struttura romanzesca16.

15
Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano contemporaneo, in G. Carrara, R.
Lapia (a cura di), Narrativa italiana degli anni Duemila: cartografie e percorsi, Presses universitaires de Paris
Nanterre, 2019, p. 49.
16
Ibidem.

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Condominio Oltremare (2014) di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci, d’altro canto,

rappresenta quella categoria di fototesti che privilegiano le immagini di luoghi rispetto ai ritratti di

persone. S tratta di un testo-reportage sul paesaggio delle “case estive” della riviera romagnola,

dove Falco aveva passato le vacanze durante l’infanzia e l’adolescenza e vi fa ritorno dopo anni,

quando il suo “Condominio Oltremare” è ormai disabitato da tempo, al punto da essere quasi

irriconoscibile:

Ho dubitato che quello fosse il luogo dove avevo trascorso parecchie estati

della mia esistenza, quelle che si vorrebbero decisive nella costruzione della memoria.

[…] La targa d’acciaio affissa al muro dell’edificio mi ha confermato di essere giunto al

Condominio Oltremare17.

Anche le foto di Sabrina Ragucci, dunque, si rivolgono a questo paesaggio abbandonato

in cui «la continua insistenza e riproposizione di soglie – porte, finestre, recinzioni, persino il filo

dell’orizzonte – rende visibile il percorso di uno sguardo che si addentra in uno spazio-tempo la cui

metamorfosi impone il confronto fra il presente e il passato»18. Falco e Ragucci ci raccontano un

territorio abbandonato, soffermandosi ora sugli stessi dettagli, ora su prospettive differenti, ma

sempre con l’obiettivo comune di raccontare, decifrando le tracce del passato con gli occhi del

presente, il profondo legame tra il paesaggio e la sua percezione.

L’autorialità dell’opera, condivisa tra chi scrive e chi si occupa delle fotografie,

è un altro aspetto importante di Condominio Oltremare: riconoscere la stessa dignità

anche al codice delle immagini è molto significativo, soprattutto dal momento che

questo aspetto è stato a lungo trascurato, anche nella tradizione del fototesto.

17
Giorgio Falco, Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, L’Orma, Roma 2014
18
Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano contemporaneo, cit., p. 53.

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5 Il “fumetto di realtà”

Le forme iconotestuali costituiscono una parte significativa del panorama narrativo

contemporaneo: la diffusione della definizione di “graphip novel” al posto di fumetto ha

legittimato ulteriormente lo statuto di autorialità dei fumettisti. Se, in riferimento al panorama

letterario si è parlato spesso di “nuovo realismo”, è altrettanto vero che le stesse istanze culturali

attraversano parte della produzione fumettistica contemporanea: particolarmente popolare,

infatti, è il cosiddetto “fumetto di realtà”, connotato da un forte impegno civile che tende a

prendere la forma del reportage e della cronaca:

La tendenza del fumetto italiano contemporaneo, non diversamente dalla

produzione narrativa che ha raggiunto una vasta platea di acquirenti dalla fine degli

anni Novanta a oggi, coincide sempre più col racconto (se non direttamente con la

cronaca) della realtà19.

Un sottogenere molto frequentato in quest’area è sicuramente il travelogue (diario di

viaggio) in forma grafica; le opere di due fumettisti italiani ben noti al grande pubblico (Quaderni

russi di Igort e Kobane calling di Zerocalcare) possiamo cogliere come due strategie

rappresentative piuttosto diverse siano funzionali ad esprimere la stessa tensione civile, lo stesso

“impegno” che sta alla base del “fumetto di realtà”.

Quaderni russi. La guerra dimenticata del Caucaso (2011) fa parte di una trilogia

incentrata sul viaggio-indagine di Igort nei territori dell’ex Unione Sovietica: è preceduto, infatti, da

Quaderni ucraini. Memorie dai tempi dell’URSS (2010) e da Pagine nomadi. Pagine non ufficiali

dall’ex Unione Sovietica (2012). Nel Quaderni russi, Igort assume come modello umano e

professionale la giornalista Anna Politkovskaja, raccontando gli eventi che hanno portato alla sua

barbara uccisione e ripercorrendo gli stessi luoghi in cui ha abitato, raccogliendo le testimonianze

di chi la conosceva e, allo stesso tempo, annotando le impressioni di viaggio. Le riflessioni e gli

19
Giuliana Benvenuti, Tra nuovi realismi e fumetto di realtà, «Narrativa», 41, 2019, p. 59.

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approfondimenti storici emergono attraverso l’uso prevalente del testo scorporato e delle

didascalie (preferite ai balloon), mentre la progressione narrativa viene devoluta quasi

completamente alle immagini, pensate per evocare una risposta emotiva nel lettore:

Anche le scene più cruente risultano, in virtù del carattere evocativo delle

immagini e del testo che le accompagna, lontane dal rischio della esibizione gratuita

della violenza, riuscendo a creare empatia verso la sofferenza e indignazione, in

coerenza con le intenzioni del racconto20.

Anche Kobane calling (2016) di Zerocalcare è un travelogue situato in un contesto di

impegno civile: racconta, infatti, il viaggio dell’autore tra Turchia e Siria, nei territori assediati

dall’ISIS, con l’obiettivo di informare il lettore su quanto la narrazione mainstream dei media

principali non lascia trapelare, dai rapporti tra lo stato turco e i curdi, della resistenza degli stessi

curdi a Kobane e dell’esistenza di forme di governo autonome come il Rojava. L’atteggiamento

autoriale, tuttavia, è diverso rispetto a quello di Igort; d’altronde, Zerocalcare è da sempre attivo su

un versante più pop, e in Kobane calling coniuga essenzialmente l’impegno civile al fumetto di

intrattenimento, non rinunciando ad inserti comici e linguaggio autoironico. Si pensi al fatto che gli

inserti di spiegazioni storiche e geopolitiche che costellano necessariamente la narrazione,

vengono ironicamente definiti “pipponi”. A testimonianza della differenza dei due approcci, si

confrontino le quarte di copertina delle due opere, da quella di Quaderni russi, immediatamente

riconoscibile come un reportage di un autore impegnato:

Dopo l’Ucraina, la Russia sulle tracce di Anna Politkovskaja, con la stessa volontà

ostinata di fare domande per capire e raccontare, Igort prosegue la sua esplorazione

del mondo ex sovietico. Cos’è oggi la “democrazia travestita” dell’era di Putin,

segnata dalle morti violente e misteriose di tanti oppositori? Dai giornalisti uccisi ai

ceceni torturati e massacrati in una guerra dimenticata. L’autore registra storie e

20
Ivi, p. 73.

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disegna, non con il distacco del cronista, ma con l’atteggiamento di chi si mette in

cammino, ascolta le voci più deboli e vuole restare umano di fronte a fatti disumani.

[…] Un appello a non voltare la testa dall’altra parte. Un libro che ci interroga a ogni

pagina21.

A quella di Kobane calling, scritta in prima persona dall’autore, che si identifica con il suo

alter ego (Zerocalcare, appunto) e che si esprime in quella lingua semplice e incisiva, contaminata

con il parlato romanesco, che è la cifra stilistica dell’aurore, riuscendo ad alludere comunque a

una funzione civile:

A me risulta difficile concepire un’appartenenza diversa dal mio quartiere. Forse

però ci sono cose che trascendono la geografia e parlano di altre cose, che manco

sappiamo di avere22.

21
Igort, Quaderni russi, Coconino press, Fandango, 2011
22
Zerocalcare, Kobane calling, BAO publishing, 2016

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Bibliografia

Testi primari:

 Wu Ming, Manituana, Einaudi, Torino 2007

 Laura Pugno, Sirene, Marsilio, 2007

 Emmanuela Carbé, Mio salmone domestico, Laterza, Roma-Bari 2013

 Walter Siti, Autopsia dell’ossessione, Mondadori, 2010

 Giorgio Falco, Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, L’Orma, Roma 2014

 Igort, Quaderni russi, Coconino press, Fandango, 2011

 Zerocalcare, Kobane calling, BAO publishing, 2016

Testi secondari:

 Jan-Noël Thon, Storyworlds across Media. Toward a Media-Conscious Narratology,

University of Nebraska Press, Lincoln-London 2016

 Giuliana Benvenuti, Tra nuovi realismi e fumetto di realtà, «Narrativa», 41, 2019

 Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007

 Emanuela Piga, Comunità, intelligenza connettiva e letteratura: dall’open

sourceall’opera aperta in Wu Ming, in C. Brook, E. Patti (a cura di), Transmedia. Storia,

memoria e narrazioni attraverso i media, Mimesis, Milano 2016

 Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano

contemporaneo, in G. Carrara, R. Lapia (a cura di), Narrativa italiana degli anni

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Duemila: cartografie e percorsi, Presses universitaires de Paris Nanterre, 2019

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