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Come avrete probabilmente intuito, sono Socrate; sono consapevole che le notizie sulla mia

vita siano scarse e poco precise, ma chi potrebbe fornirvele meglio del protagonista di così
tante storie? Sono nato ad Atene nel 470 a.C. dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice
Fenarete; la mia era una famiglia benestante, infatti non ho mai praticato alcun lavoro. Ho
combattuto nelle battaglie di Potidea, Delio e Anfipoli come oplita, dimostrando grande
coraggio per aver salvato la vita di Alcibiade. Ho sposato una donna di nome Santippe e ho
avuto tre figli, due dei quali con la concubina Mirto, ma questo è un dettaglio irrilevante; se
dovessi presentarvi mia moglie direi che è una donna bisbetica e difficile da sopportare,
anche se vivere con lei mi ha insegnato ad adattarmi a qualunque altra persona.

I posteri mi hanno descritto come un uomo costantemente dedito alle ricerche filosofiche e
non posso dargli torto; reputo la filosofia come un esame incessante di se stessi e degli altri
esseri umani; non a caso amo ripetere il ben noto motto dell’oracolo di Delfi “conosci te
stesso”. Mi diverto a frequentare le piazze e le strade di Atene intrattenendomi a parlare
con i miei concittadini a proposito di argomenti morali e politici, tanto che in molti dicono
di me che sono un “chiacchierone perditempo”, ma si tratta di uno sciocco pettegolezzo.
Questo suo spiccato interesse filosofico mi ha però portato a trascurare gli aspetti pratici
della vita, primo fra tutti l’amore di Santippe; ho iniziato ad dilettarmi in simposi per
discutere e bere e vi confesso che tollero l’alcol piuttosto bene, infatti sembra che io sia
sobrio mentre il resto della mia compagnia è completamente ubriaco.

Sfortunatamente, questa mia tendenza a dialogare con i miei concittadini è stata giudicata
negativamente dai capi del governo ateniese, che non vedevano l’ora di sbarazzarsi di me;
mi accusano di essere un nemico politico, di non credere agli dei, di non rispettare le leggi
sacre e persino di corrompere i giovani e plasmarli con i miei insegnamenti che mirano a
generare un disordine sociale. Nel 399 a.C. avviene il mio processo; non mi sono
presentato con la mia famiglia al seguito per commuovere i giudici: ci si potrebbe aspettare
un comportamento simile da molti uomini ma non da me. Non ho neanche intenzione di
difendermi da queste accuse infondate ma, rimanendo fedele alle mie convinzioni e al mio
modo di agire, contesto le stesse basi del processo. Come ci si poteva aspettare, vengo
giudicato colpevole e i giudici chiedono il peggio: la condanna a morte. So dove vogliono
arrivare, ma se sperano che per sfuggirvi lascerò la città si sbagliano di grosso, accetto la
condanna. Trascorro la mia ultima giornata di vita con i miei discepoli, discutendo a
proposito dell’immortalità dell’anima anche dopo la morte del corpo e, quando arriva il
momento, bevo il veleno consegnatomi dal boia.

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