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Le voci delle primavere arabe dieci

anni dopo
Marta Bellingreri, Costanza Spocci
14 gennaio 2021
Per Bochra Triki tutto è cominciato esattamente dieci anni fa. A Tunisi.

Il suo ventitreesimo compleanno è stato uno di quelli impossibili da


dimenticare. Gli amici cercavano di farle gli auguri in mezzo alla folla, tra i
lacrimogeni e gli spari della polizia. A quell’odore insopportabile di
repressione si mescolavano degli auguri che sapevano molto di più di “buon
compleanno”. Era il 13 gennaio 2011. La stessa sera, l’allora presidente della
Tunisia, Zine el Abidine Ben Ali, aveva pronunciato un discorso alla nazione,
chiedendo scusa per le vittime delle proteste delle ultime tre settimane e,
poggiando la mano sul petto, aveva detto: “Fahimtkum”, “Vi ho capito”. Era la
terza volta in un mese che si rivolgeva al popolo tunisino e la prima in assoluto
che lo faceva usandone il dialetto. Bochra compiva ventitré anni, gli stessi
ventitré in cui Ben Ali era stato al potere. Quel discorso, in cui prometteva di
realizzare delle riforme e di non ricandidarsi alle future elezioni, sarebbe stato
l’ultimo, mentre per Bochra, dal giorno dopo, sarebbe cominciata per sempre
una nuova vita.

La fuga di Ben Ali il 14 gennaio 2011 è stato il primo risultato di un movimento


nato nel centro del paese, a Sidi Bouzid, dove un mese prima un giovane
venditore ambulante, Mohammed Bouazizi, si era dato fuoco, scatenando una
serie di proteste in tutta la Tunisia, da Kasserine a Bizerte. Nel giro di poche
settimane, l’ondata di rivolte avrebbe travolto l’Egitto e poi lo Yemen, il
Bahrein e la Libia, fino a raggiungere la Siria. Anche le monarchie in Marocco
e in Giordania sono state scosse da questo movimento e i cittadini sono scesi
in piazza per rivendicare riforme e maggiori diritti.
A dieci anni dalle rivolte arabe del 2011, gli elementi che portano a trarre un
bilancio negativo sono molti. La Siria è piombata nella peggior guerra civile
d’inizio millennio, l’Egitto è passato dalla trentennale dittatura di Hosni
Mubarak a quella di Abdel Fattah al Sisi, e la Tunisia si destreggia tra le
montagne russe della sua politica interna e una crisi economica che moltiplica
il numero dei disoccupati. Ma le vite e i percorsi di alcuni suoi protagonisti
raccontano un processo di cambiamento molto più profondo. Un processo
lungo e ormai avviato, per cui nulla potrà più essere come prima.

Lavoro, libertà, dignità


“Nell’avenue Bourguiba, di fronte alla sede del ministero dell’interno a Tunisi,
le persone chiedevano le stesse cose: lavoro, libertà, dignità, e con un gesto
della mano tutti insieme all’unisono gridavamo ‘Dégage’, vattene”, ricorda
Bochra raccontando il suo 14 gennaio in piazza. “Era molto coreografico. Ed
era la prima volta che insieme chiedevamo la fine di un intero sistema di
potere”.
Da quel giorno lo slogan di tutte le rivoluzioni del 2011 diventa: “Il popolo
vuole la caduta del regime”. Ma la fuga di Ben Ali non ferma le proteste di
piazza, anzi apre un processo di transizione politica che durerà anni.
Dall’occupazione della Kasbah alle prime elezioni libere, nell’ottobre del 2011,
è nella strada che Bochra vive quel cambiamento: “C’era un clima festoso, di
proteste e di musica. Dopo cinquant’anni di dittatura, e prima di
colonizzazione, ci sembrava di vivere in uno spazio finalmente nostro”.

Le elezioni, vinte dal partito Ennahda, il ramo tunisino dei Fratelli


musulmani, sono seguite nel 2012 da una serie di attacchi da parte di gruppi
salafiti a musicisti e artisti, che fanno tremare la libertà conquistata. Nel 2013,
gli omicidi politici di due leader dell’opposizione, Choukri Belaidi a febbraio e
Mohamed Brahmi a luglio, riportano in strada migliaia di persone. Nel
gennaio del 2014 la Tunisia riesce ad approvare la sua costituzione post-
rivoluzione, superando una delicata crisi politica che le varrà il premio Nobel
per la pace nel 2015.

Nel frattempo Bochra, di quello spazio guadagnato dal giorno del suo
compleanno, non vuole perdere nemmeno un centimetro, e comincia a
organizzarsi per creare la sua alternativa di società civile. Dopo il 2011 migliaia
di tunisini hanno fondato associazioni di ogni sorta che spaziano dalla libertà
di espressione all’ambiente. Lei, insieme a un gruppo di femministe, decide di
fondare l’associazione per i diritti queer, Chouf, che sarà la base di partenza
per l’organizzazione del Festival d’arte femminista Choufthounna, aperto a
tutte le artiste del mondo, purché siano donne o si identifichino come tali.
“Si discuteva di arte, politica, femminismo, identità queer, in un discorso
artistico e comunitario. In un paese dove pochi anni prima avevamo paura di
parlare di politica e toglievamo le batterie del cellulare e le carte sim per
timore di essere sotto ascolto, qualche anno dopo ci ritroviamo a organizzare
un festival queer nel pieno centro di Tunisi. Era un mondo magico che si
apriva”.

Quella piazza di Halfaouine, nella medina di Tunisi, tra il mercato di frutta e i


caffè frequentati in prevalenza da uomini, diventa con Choufthounna un via
vai di cittadini di tutte le classi e provenienti da diverse province della Tunisia
e dal mondo. Un’altra rivoluzione, in piccolo, che nel 2011 Bochra non osava
nemmeno sognare. Nel 2019 Choufthounna festeggiava già la quinta edizione.
Tutto questo è avvenuto in un paese colpito anche, nel 2015, da violenti
attentati terroristici commessi dal gruppo Stato islamico (Is) al Museo del
Bardo della capitale e a Sousse. L’anno dopo, l’Istanza di verità e giustizia, una
commissione nata per documentare le violazioni dei diritti umani dalla
colonizzazione a Ben Ali, aprirà la prima audizione pubblica tracciando un
altro passaggio rivoluzionario. “È stata una cosa enorme”, ammette Bochra.
“Ascoltare le testimonianze di chi aveva vissuto la tortura nella dittatura ci ha
ricordato che anche i passi difficili del presente sono qualcosa di concreto
rispetto a prima del 2011, quando avevamo paura perfino delle nostre ombre”.

Oggi Bochra, attivista queer e giornalista di Inkyfada, un sito d’informazione


indipendente a sua volta frutto di quel 2011, fatica a riassumere gli eventi degli
ultimi dieci anni: “Quello che stiamo facendo ora l’abbiamo imparato in questi
anni, la Tunisia è un caos”, ma in fondo “è come assistere a un grande corso di
recupero su come fare politica”. E solo una certezza l’accompagna: “Non sarei
la stessa persona se non fosse successo tutto questo”.

Le speranze dell’Egitto
Lo stesso senso di liberazione che ha cambiato la vita di Bochra in Tunisia lo
prova anche Sanaa Moghazi in Egitto che, quando ripensa a com’era dieci anni
fa, quasi non si riconosce: “Se non ci fosse stata la rivoluzione, sarei diventata
una professoressa di inglese o avrei lavorato in un call center”. Prima di
scendere in piazza al Cairo, nel 2011, Sanaa pensava che avrebbe seguito il
percorso di molte ragazze che studiano letteratura inglese all’università. Ma
non è andata così.
Il 25 gennaio 2011, il giorno dedicato alle forze dell’ordine in Egitto,
l’atmosfera era carica di attesa, soprattutto dopo la fuga del presidente
tunisino Ben Ali. Sanaa aveva 19 anni e non abitava molto lontano da piazza
Tahrir. Sapeva di un raduno nei paraggi di casa per protestare contro la morte
di un giovane di Alessandria torturato e ucciso dalla polizia. Presto però il
ritrovo si era trasformato in una manifestazione di migliaia di persone e Sanaa
si era ritrovata a urlare in corteo “Siamo tutti Khaled Said”.

Da quel momento in poi, ogni giorno per 18 giorni, si era presentata in piazza
Tahrir al mattino presto, armata di scopa, stracci e piena di voglia di
chiacchierare con una marea di sconosciuti che con le tende si erano
accampati in piazza a reclamare “pane, libertà e giustizia sociale”. “Durante la
rivoluzione un milione di persone viveva insieme. Pulivamo le strade,
aiutavamo gente senza cibo e portavamo le medicine agli ospedali da campo
dopo gli attacchi sulla piazza”, ricorda.

Sanaa si riferisce alle violenze del “venerdì della rabbia” e alla battaglia dei
cammelli in piazza Tahrir, che non avevano intimidito lei né quella
moltitudine di egiziani decisa a restare finché “il dittatore” Mubarak non se ne
fosse andato. “Sono entrata in contatto con persone di diverse classi sociali e
per la prima volta a Tahrir sentivo cosa succedeva nel paese: le persone erano
frustrate. Lì ho capito cos’erano i diritti umani e ho deciso di far parte del
cambiamento politico dell’Egitto”.

Infatti la sera dell’11 febbraio 2011 Sanaa c’è, in mezzo alla folla di una
Tahrir in visibilio, quando arriva l’annuncio delle dimissioni di Mubarak.
Davanti ai suoi occhi, dopo trent’anni di potere assoluto, cadeva così la
seconda pedina di un effetto domino che di lì a poco avrebbe travolto l’intera
regione.

La rivoluzione aveva dato una sterzata alla storia, gli eventi si susseguivano
veloci sotto il naso di Sanaa e di milioni di egiziani. Il Consiglio supremo delle
forze armate (Scaf) aveva preso le redini del paese e dettava i passi dei diciotto
mesi previsti per la transizione: elezioni parlamentari a novembre,
presidenziali a maggio del 2012 e una nuova costituzione.

In poco tempo lo Scaf si era palesato come forza controrivoluzionaria


compiendo i massacri di manifestanti a Maspero, Mohamed Mahmoud, e Port
Said. Sanaa continuava però a gravitare tra università e piazza Tahrir, e si era
arruolata volontaria nella campagna presidenziale di un candidato nato dalla
piazza, Abdel Moneim Aboul Fotouh. Durante il primo storico dibattito
elettorale in tv, Sanaa aveva seguito Aboul Fotouh incollata al maxischermo
che proiettava i dodici candidati alle prime elezioni presidenziali della storia
egiziana, fumando una shisha stipata con altre centinaia di ragazzi intorno ai
tavolini di plastica del caffè Al Boursa del Cairo.
Il vincitore della corsa sarà invece Mohamed Morsi, leader dei Fratelli
musulmani, ma per pochi voti e in un’arena politica sempre più divisa. Sanaa,
delusa dai risultati, cercava uno sfogo negli spazi aperti dalla rivoluzione:
concerti, spettacoli di teatro, mostre, e festival d’avanguardia. Dopo la laurea,
aveva comunicato in famiglia che stava pensando di togliersi il velo. “Lo sai
che i vicini parleranno”, le diceva il padre, “fallo, ma devi sentirti pronta”. Così
l’aveva tolto: ora le si vedevano i capelli, ma aveva lo stesso sorriso di prima.

Per l’Egitto, invece, tutto stava cambiando. Il 30 giugno 2013 il


movimento Tamarrod portava milioni di egiziani in strada per chiedere la
destituzione di Morsi e apriva la strada al colpo di stato di Al Sisi che prendeva
il potere e si sbarazzava dell’opposizione islamista con i massacri nelle piazze
di Rabaa al Adawiya e Al Nahda.

“È impressionante vedere come le cose sono progressivamente precipitate


verso il peggio”, ricorda Sanaa. Al Sisi ha inaugurato una spirale di repressione
sempre più violenta: la persecuzione di oppositori di ogni colore politico, il
divieto di proteste, l’annientamento della società civile, fino alle purghe
nell’apparato militare.“Quello che viviamo ora è al di fuori di ogni
immaginazione”.
I numeri parlano da soli: 60mila prigionieri politici e circa 2.700 persone
ufficialmente fatte sparire. “C’è solo un one man show, nessuno può fiatare!
Quanti in questa rivoluzione sono finiti in esilio, in prigione, o sono spariti?”.
Sanaa oggi è diventata un’attivista per la difesa dei diritti umani, una specie in
via di estinzione in Egitto, ma resiste. Quando passa da piazza Tahrir quasi
non la riconosce: “Non sembra nemmeno un paese in cui c’è stata una
rivoluzione. È una prigione a cielo aperto”.

L’incubo della Siria


La prigione è un tema che ricorre non solo nella storia dell’Egitto. Anche in
Siria il carcere duro e le torture hanno definito gli ultimi decenni. Yassin al
Haj Saleh, scrittore e intellettuale dell’opposizione, ha conosciuto bene le
carceri di Hafez al Assad, dove ha passato sedici anni come prigioniero politico
tra gli anni ottanta e novanta. Con la salita al potere nel 2000 del figlio
Bashar, molti siriani avevano sperato in un’apertura del regime ma presto
avevano capito che l’incubo non era terminato.
Le rivoluzioni del 2011 – e l’ultimo decennio – ne saranno la prova definitiva.

È il 16 febbraio quando dei giovanissimi ragazzi vengono arrestati e torturati.


La loro colpa: aver scritto sul muro della scuola della loro città Daraa: “È
arrivato il tuo turno, dottore!”. Con quell’appellativo si riferivano a Bashar al
Assad: come Ben Ali e Mubarak a Tunisi e al Cairo, era giunta l’ora che anche
il dittatore siriano se ne andasse. Da marzo cominciò a diffondersi una serie di
manifestazioni-lampo nella capitale Damasco e proteste in diverse città della
Siria. Nasce un movimento civile che sarà la culla della rivoluzione siriana.
Presto sotterrato da una guerra civile, con centinaia di migliaia di morti,
detenuti e persone scomparse.

Yassin è oggi rifugiato in Germania e non ha notizie di sua moglie Samira da


oltre sette anni. Samira Khalil, un’attivista per i diritti umani, lavorava
insieme a Razan Zaitouneh, avvocata del Centro di documentazione delle
violazioni. “Sono state rapite il 9 dicembre 2013 a Duma, vicino alla capitale
Damasco, nella Ghuta orientale, insieme al marito di Razan, Wael Hamadeh, e
al poeta e attivista Nazem Hammadi. Da allora non si sono avute più loro
notizie”, racconta Yassin. Duma era sotto il controllo della milizia islamista
Jaysh al Islam. “Ho raccolto le pagine del ‘Diario di Samira’ con i suoi post su
Facebook che parlano dell’assedio e dell’attacco chimico nella Ghuta, e ne ho
fatto un libro”. Questo è quello che ci rimane di lei, insieme alle voci di chi l’ha
conosciuta.

Bayan Rehan è una di loro. Yassin non l’ha mai incontrata di persona, ma con
Samira aveva organizzato una campagna per parlare delle detenute siriane
nelle carceri di Assad. “Lei era stata in prigione negli anni ottanta, ai tempi di
Assad padre. Io due volte, nel 2011”, ricorda Bayan. “Samira era una persona
meravigliosa! Mi ha cambiata davvero tanto”.

Originaria di Duma, Bayan è stata la prima donna siriana che, arrestata dal
regime per il suo attivismo nella rivoluzione, ha parlato apertamente della sua
esperienza in carcere. “Mi sono rivolta a Razan Zaitouneh, che tutti nella
rivoluzione conoscevamo come Madame Blue. Razan aveva accolto con
entusiasmo il mio desiderio di parlare e da allora non avevamo più smesso di
lavorare insieme”. Ma il video in cui Bayan parla delle prigioni di Assad verrà
visto come uno scandalo dai militanti di Jaysh al Islam: “Erano gli stessi
ragazzi con cui avevamo cominciato la rivoluzione, fianco a fianco nelle strade,
avevamo formato i comitati locali e ci occupavamo dei mezzi d’informazione.
Poi però, secondo loro, la mia testimonianza era ‘aib, una vergogna, per una
donna. Da lì è cominciato il nostro scontro. Era diventata
una controrivoluzione”.

Il movimento civile nato dalla rivoluzione del 2011 doveva combattere una


duplice battaglia: da un lato, Bashar al Assad, contro cui si erano sollevati, che
avanzava con il supporto di Iran e Russia, ufficialmente in guerra al fianco del
regime dal settembre 2015. Dall’altro i gruppi jihadisti, foraggiati da
finanziamenti stranieri fin dal 2012. Al culmine della violenza l’organizzazione
terroristica denominata Stato islamico (Is) occuperà tra il 2014 e il 2017 un
terzo del territorio siriano, proclamando la sua capitale a Raqqa. Saranno i
curdi siriani, affiancati dalla coalizione statunitense, a sconfiggere l’Is
militarmente, allargando così il territorio sotto il loro controllo nel nordest
della Siria. Nel frattempo Assad riporta tutte le province sotto il suo controllo,
eccetto Idlib dove l’opposizione è tuttora supportata dalla Turchia.
Se però Bayan ripensa alla primavera del 2011, ricorda quel momento con
gioia: “È stata una liberazione nelle nostre vite: eravamo tutti insieme in
strada, insegnanti, intellettuali, medici, ingegneri, ma anche contadini,
lavoratori, gli studenti delle scuole, dell’università, bambini al fianco di uomini
e donne, con tutte le nostre differenze e appartenenze”.

Sull’onda di quell’entusiasmo e partecipazione, Bayan aveva fondato dei centri


di formazione in tutta la Ghuta. Qualche anno dopo, nel 2016, si presenta
insieme ad altre quindici candidate alle elezioni del Consiglio locale di Duma.
Ne diventa la prima presidente, un risultato sperato fin dalla fondazione
dell’ufficio per le donne che aveva contribuito a creare. Ma la sua forza e
intraprendenza ancora una volta sono sgradite ai jihadisti e le costeranno
diversi attentati. “Solo grazie ad alcuni amici nell’Esercito siriano libero, e
qualcuno di Jaysh al Islam, sono riuscita a salvarmi”. Nel 2018 l’offensiva
finale di Assad spalleggiata dai bombardamenti russi per la riconquista della
Ghuta la lascia però senza scelta. “Sapevamo che se fossimo rimasti, il regime
ci avrebbe fatte fuori subito o imprigionate”.

Bayan parte alla volta di Idlib, nel nordovest della Siria, dove il suo
instancabile attivismo le porterà nuove minacce di morte, questa volta da
parte dei jihadisti di Jabhat al Nusra. L’ultima via di salvezza resta la Turchia,
e poi la Germania, a febbraio del 2020.

“Ho lasciato il mio paese in guerra e le persone che faticano a sopravvivere.


Ma un giorno una signora di cinquant’anni che veniva al mio ufficio al
Consiglio locale mi ha mandato un messaggio. Lei a Duma aveva molti
problemi e io tentavo di aiutarla”, racconta Bayan, ora alle prese con le lezioni
di tedesco. “’Peccato che non ci sei più, il paese ti ha perso’, mi ha scritto.
Questo messaggio mi ha restituito gli otto anni di lavoro per la rivoluzione
siriana. Mi ha restituito la mia vita intera. Le ragioni per cui ho gioito, per cui
ho lottato. I ragazzi che abbiamo educato nella Ghuta faranno la differenza:
noi abbiamo tentato, ma era tutto contro di noi. La prossima generazione farà
ciò che noi non abbiamo potuto completare”.

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