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anni dopo
Marta Bellingreri, Costanza Spocci
14 gennaio 2021
Per Bochra Triki tutto è cominciato esattamente dieci anni fa. A Tunisi.
Nel frattempo Bochra, di quello spazio guadagnato dal giorno del suo
compleanno, non vuole perdere nemmeno un centimetro, e comincia a
organizzarsi per creare la sua alternativa di società civile. Dopo il 2011 migliaia
di tunisini hanno fondato associazioni di ogni sorta che spaziano dalla libertà
di espressione all’ambiente. Lei, insieme a un gruppo di femministe, decide di
fondare l’associazione per i diritti queer, Chouf, che sarà la base di partenza
per l’organizzazione del Festival d’arte femminista Choufthounna, aperto a
tutte le artiste del mondo, purché siano donne o si identifichino come tali.
“Si discuteva di arte, politica, femminismo, identità queer, in un discorso
artistico e comunitario. In un paese dove pochi anni prima avevamo paura di
parlare di politica e toglievamo le batterie del cellulare e le carte sim per
timore di essere sotto ascolto, qualche anno dopo ci ritroviamo a organizzare
un festival queer nel pieno centro di Tunisi. Era un mondo magico che si
apriva”.
Le speranze dell’Egitto
Lo stesso senso di liberazione che ha cambiato la vita di Bochra in Tunisia lo
prova anche Sanaa Moghazi in Egitto che, quando ripensa a com’era dieci anni
fa, quasi non si riconosce: “Se non ci fosse stata la rivoluzione, sarei diventata
una professoressa di inglese o avrei lavorato in un call center”. Prima di
scendere in piazza al Cairo, nel 2011, Sanaa pensava che avrebbe seguito il
percorso di molte ragazze che studiano letteratura inglese all’università. Ma
non è andata così.
Il 25 gennaio 2011, il giorno dedicato alle forze dell’ordine in Egitto,
l’atmosfera era carica di attesa, soprattutto dopo la fuga del presidente
tunisino Ben Ali. Sanaa aveva 19 anni e non abitava molto lontano da piazza
Tahrir. Sapeva di un raduno nei paraggi di casa per protestare contro la morte
di un giovane di Alessandria torturato e ucciso dalla polizia. Presto però il
ritrovo si era trasformato in una manifestazione di migliaia di persone e Sanaa
si era ritrovata a urlare in corteo “Siamo tutti Khaled Said”.
Da quel momento in poi, ogni giorno per 18 giorni, si era presentata in piazza
Tahrir al mattino presto, armata di scopa, stracci e piena di voglia di
chiacchierare con una marea di sconosciuti che con le tende si erano
accampati in piazza a reclamare “pane, libertà e giustizia sociale”. “Durante la
rivoluzione un milione di persone viveva insieme. Pulivamo le strade,
aiutavamo gente senza cibo e portavamo le medicine agli ospedali da campo
dopo gli attacchi sulla piazza”, ricorda.
Sanaa si riferisce alle violenze del “venerdì della rabbia” e alla battaglia dei
cammelli in piazza Tahrir, che non avevano intimidito lei né quella
moltitudine di egiziani decisa a restare finché “il dittatore” Mubarak non se ne
fosse andato. “Sono entrata in contatto con persone di diverse classi sociali e
per la prima volta a Tahrir sentivo cosa succedeva nel paese: le persone erano
frustrate. Lì ho capito cos’erano i diritti umani e ho deciso di far parte del
cambiamento politico dell’Egitto”.
Infatti la sera dell’11 febbraio 2011 Sanaa c’è, in mezzo alla folla di una
Tahrir in visibilio, quando arriva l’annuncio delle dimissioni di Mubarak.
Davanti ai suoi occhi, dopo trent’anni di potere assoluto, cadeva così la
seconda pedina di un effetto domino che di lì a poco avrebbe travolto l’intera
regione.
La rivoluzione aveva dato una sterzata alla storia, gli eventi si susseguivano
veloci sotto il naso di Sanaa e di milioni di egiziani. Il Consiglio supremo delle
forze armate (Scaf) aveva preso le redini del paese e dettava i passi dei diciotto
mesi previsti per la transizione: elezioni parlamentari a novembre,
presidenziali a maggio del 2012 e una nuova costituzione.
Bayan Rehan è una di loro. Yassin non l’ha mai incontrata di persona, ma con
Samira aveva organizzato una campagna per parlare delle detenute siriane
nelle carceri di Assad. “Lei era stata in prigione negli anni ottanta, ai tempi di
Assad padre. Io due volte, nel 2011”, ricorda Bayan. “Samira era una persona
meravigliosa! Mi ha cambiata davvero tanto”.
Originaria di Duma, Bayan è stata la prima donna siriana che, arrestata dal
regime per il suo attivismo nella rivoluzione, ha parlato apertamente della sua
esperienza in carcere. “Mi sono rivolta a Razan Zaitouneh, che tutti nella
rivoluzione conoscevamo come Madame Blue. Razan aveva accolto con
entusiasmo il mio desiderio di parlare e da allora non avevamo più smesso di
lavorare insieme”. Ma il video in cui Bayan parla delle prigioni di Assad verrà
visto come uno scandalo dai militanti di Jaysh al Islam: “Erano gli stessi
ragazzi con cui avevamo cominciato la rivoluzione, fianco a fianco nelle strade,
avevamo formato i comitati locali e ci occupavamo dei mezzi d’informazione.
Poi però, secondo loro, la mia testimonianza era ‘aib, una vergogna, per una
donna. Da lì è cominciato il nostro scontro. Era diventata
una controrivoluzione”.
Bayan parte alla volta di Idlib, nel nordovest della Siria, dove il suo
instancabile attivismo le porterà nuove minacce di morte, questa volta da
parte dei jihadisti di Jabhat al Nusra. L’ultima via di salvezza resta la Turchia,
e poi la Germania, a febbraio del 2020.