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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Hume

CAPITOLO VII
L’Empirismo inglese

V
HUME

Bibliografia. – Traduzione omessa perché irrilevante per il pubblico italiano.


Biografia. – David Hume è nato a Edimburgo nel 1711. Destinato dalla sua famiglia a una
carriera giuridica, non appena può si libera dell’assoggettamento ai genitori per ricercare la propria
gloria nel campo della letteratura e della filosofia. Si posta in Franca e soggiorna tre anni a La
Flèche. Lì scrive la sua prima e fondamentale opera, il Trattato della natura umana, che viene
pubblicato a Londra nel 1739-1740. Comprende tre volumi intitolati: Dell’intelletto, Delle passioni
e Della morale. Purtroppo, quest’imponente opera sulla quale Hume aveva contato per la propria
fama non ebbe successo alcuno. Hume si pentì della propria precipitazione, rimproverandosi
amaramente di aver pubblicato un libro difficile, compatto e composto male.
A partire dal 1740 si mette a scrivere una serie di saggi brevi e mordaci, nei quali ripropone
le idee del suo trattato maggiore su ogni genere di temi: letteratura, politica, morale, psicologia e
religione. Nel 1741 pubblica dei Saggi di morale e di politica, nel 1748 i Saggi filosofici
sull’intelletto umano, riediti a partire dal 1758 con il titolo di Ricerca sull’intelletto umano, che
riprendono le tesi essenziali della prima parte del Trattato. A questo proposito Hume scrive in una
lettera: «Credo che i Saggi filosofici contengano tutto ciò che c’è di importante sull’intelletto nel
Trattato. Di questo ve ne sconsiglio la lettura. Abbreviando e semplificando le questioni, in realtà le
rendo molto più complete. Addo dum minuo». Scrive anche dei Dialogi sulla religione naturale, che
furono pubblicato solo dopo la sua morte, una Storia della Gran Bretagna (1754) e una Storia
naturale della religione (1757).
I suoi saggi lo portano al successo mondano che desiderava. Giunto a Parigi come segretario
dell’Ambasciata, frequenta la società e i filosofi Helvétius, Montesquieu, Rousseau, che porta in
Inghilterra, per poi litigarci poco dopo. Dal 1767 al 1769 è Segretario di Stato per la Scozia. Si ritira
poi a Edimburgo, dove muore nel 1776.
Dal punto di vista del fisico, Hume era piuttosto sovrappeso e di buona forchetta. Le sue
opere testimoniano il suo spirito critico penetrante, affilato come una lama. Kant lo chiamo «il più
ingegnoso di tutti gli scettici». Un giudizio assai esagerato, a nostro avviso, che mostra che Kant
non ha mai conosciuto gli Scettici greci, specialmente Sesto Empirico, a cui Hume si ispira
costantemente ma che quanto a ingegno lo supera cento volte. Nel complesso, l’originalità di Hume
ci sembra abbastanza ridotta. Non fa che seguire la logica dell’empirismo, facendolo sfociare nello
scetticismo e nel fenomenismo.
1. – Critica delle idee
Lo scopo di Hume è inquadrato perfettamente dal sottotitolo del Trattato della natura
umana: «Saggio per introdurre il metodo sperimentale del ragionamento negli argomenti morali».
Tutte le scienze dipendono più o meno direttamente dalla scienza dell’uomo, e «il solo fondamento
solido che possiamo fornire a questa scienza deve consistere nell’esperienza e nell’osservazione».
Più in particolare, tutte le scienze verrebbero trasformate «se conoscessimo a fondo l’estensione e la
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forza dell’intelletto, se sapessimo spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo e delle operazioni
che compiamo quando ragioniamo». Ecco perché la prima parte del Trattato riguarda l’intelletto, e
la prima sezione l’origine delle idee.
Il primo passo di Hume è una critica dell’innatismo. La questione è presto risolta, dopo
Locke. Che cosa ci insegna l’esperienza? «Tutte le percezioni della mente umana fanno capo a due
generi distinti che chiamerei le impressioni e le idee. La differenza consiste nel grado di forza e di
vivacità con la quale colpiscono la mente». Le percezioni più forti sono le impressioni, siano esse
esterno o interne, come vedere, sentire, amare, volere. Le percezioni deboli sono le idee: sono
«delle copie delle nostre impressioni». Quindi non esistono idee innate. Per assicurarsi della realtà
di un’idea, è necessario e sufficiente riuscire a individuare l’impressione da cui deriva.
Il secondo passo è una critica dell’astrazione. Hume ritiene e afferma che su questo tema
l’essenziale è già stato detto da Berkeley. Tutte le idee sono particolari, perché sono delle copie
sbiadite delle nostre impressioni. «Che si provi a concepire un triangolo in generale, che non sia né
isoscele, né scaleno, i cui lati non abbiano né lunghezza particolare, né rapporti determinati, e ci si
accorgerà subito dell’assurdità di tutte le opinioni scolastiche sull’astrazione e le idee generali». Ma
un’idea particolare diventa generale quand’è unita a un termine generale. E un termine generale è
quello che evoca nella mente un gran numero di idee particolari aventi delle somiglianze. L’idea
generale è quindi fondata sull’associazione delle idee.
Perché rimane ancora un fatto che le nostre idee sono legate le une alle altre. Quali sono i
principi di tale connessione? Hume ne trova tre. «A me risulta che vi sono soltanto tre principi di
connessione tra le idee, ovvero la rassomiglianza, la contiguità nel tempo o nello spazio, e la
relazione di causa ed effetto». Il contrasto è anch’esso un principio di legame, ma che non è
primitivo, in quanto è riconducibile a «un misto di causalità e somiglianza», perché se due oggetti
sono contrari, l’uno distrugge l’altro.
Così, le relazioni tra idee sono delle semplici associazioni, e in fondo le tre leggi non sono
che diverse forme di un unico principio: l’abitudine.

2. – Critica del principio di causalità


Le operazioni dell’intelletto vertono su delle idee oppure su dei fatti.
Le scienze delle idee sono quelle matematiche. Sono rigorose perché le idee da esse trattate
sono sensibili, sempre chiare e distinte, e perché si limitano a sostituire un’idea a un’altra per
identità. A dire il vero, la geometria è già meno precisa e meno certa dell’aritmetica, perché non ha
un campione o un’unità che permetta di misurare esattamente l’estensione; ma raggiunge pur
sempre il massimo di probabilità.
Le scienze dei fatti sono fondate sul principio di causalità. Qual è l’origine e il valore di
questo principio? L’esame di tale questione è il punto centrale della critica di Hume.
Il principio di causalità non è evidente a priori, e non si può ricondurre al principio
d’identità o di contraddizione. In effetti, se si analizza una cosa, non si troverà mai che essa debba
produrre un certo effetto, perché «l’effetto è totalmente differente rispetto alla causa, e non lo si può
mai scoprire in essa». Adamo, per esempio, non poteva prevedere, esaminando l’acqua, che questa
può essere bevuta e che può andare di traverso. Se analizzando una cosa troviamo che essa deve
produrre un certo effetto, è perché abbiamo preventivamente incluso tale effetto nell’idea della
causa. Ma dicendo così il problema viene solo spostato, perché bisogna spiegare come siamo venuti
a sapere che la causa aveva questo effetto: può essere avvenuto solo tramite l’esperienza. Oppure,
ancora, considerando il rapporto dal punto di vista opposto, possiamo tranquillamente concepire un
oggetto come inesistente in un dato momento e come esistente nell’istante successivo, senza per
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questo far intervenire l’idea di una causa. Ciò non ha nulla di contradditorio, poiché l’idea di causa
e quella di effetto sono distinte.
Dall’analisi razionale, dunque, dobbiamo rivolgerci all’esperienza. E questa cosa ci mostra?
Non ci mostra mai l’idea dell’azione o della causalità di una cosa su un’altra.
Per quanto riguarda l’esperienza esterna, consideriamo una biglia da biliardo che ne colpisce
un’altra. Che cosa vediamo? Semplicemente una biglia che rotola ed entra in contatto con un’altra:
la prima si ferma, la seconda si mette in moto. Non vediamo la trasmissione del movimento dall’una
all’altra, ma solamente la successione di due movimenti.
Lo stesso vale per l’esperienza interna. Hume anticipa la critica di Maine de Biran 1 che
sosterrà che la coscienza trova in sé la propria causalità, nello sforzo motore, nel passaggio dalla
volontà al movimento. Che cosa mostra la coscienza? Semplicemente la successione di due stati:
prima c’è la decisione (voglio alzare il braccio), poi il movimento (il mio braccio si alza). La
coscienza non coglie l’influenza della volontà sulle idee, ma solamente l’avvenimento, cioè il fatto
che un’idea si palesa in seguito a un comando della volontà.
Di conseguenza, il principio di causalità non è altro che un’associazione di impressioni
consecutive. Tale associazione dà l’illusione della necessità, in quanto è psicologicamente
determinante per la mente, ed è determinante perché è abituale. Se ci aspettiamo un tale effetto alla
vista di una determinata cosa, è perché siamo abituati a vedere che questa cosa è seguita da
quell’effetto; e una volta acquisita l’abitudine non possiamo più pensare altrimenti. In realtà, però,
non esiste alcuna «connessione necessaria» tra i fenomeni, c’è solamente una «concomitanza
costante».
Un’altra conseguenza è che il principio di causalità non può essere impiegato per
oltrepassare il piano dell’esperienza per affermare l’esistenza di una causa trascendente rispetto ai
fenomeni. In questo modo qualsiasi metafisica è condannata in partenza. E la stessa scienza fisica
ha valore soltanto nella misura in cui si limita a riassumere le esperienze passate, perché nulla
garantisce che l’avvenire debba essere identico al passato. L’anticipazione del futuro, la previsione
dei fenomeni, è solamente probabile. Nulla legittima la scienza a formulare delle leggi necessarie e
universali.
Tuttavia, la forza dell’abitudine è tale da impedirci di credere ai miracoli. Si potrebbe
pensare che Hume sia portato dalla sua critica della causalità a vedere nei fenomeni naturali dei
miracoli perpetui. Il che è anche vero, purché si intenda il termine in un senso molto ampio, senza
riferimento alla religione, a significare un fatto senza causa. Ma non se si intende per miracolo «una
violazione delle leggi naturali». Nel suo saggio sui Miracoli, Hume sostiene che «nessuna
testimonianza umana può avere forza sufficiente per provare un miracolo e farne il giusto
fondamento di un sistema religioso». Perché? È una pura questione di calcolo: per accettare il
racconto di un miracolo, bisognerebbe che la falsità della testimonianza sia ancora più miracolosa
del fatto attestato; il che non avviene mai. E anche ammettendo la realtà del fatto, poiché va contro
le leggi naturali che sono fondate su un gran numero di esperienze è sufficiente sottrarre la prima
esperienza dalle altre e accettare l’opinione che ne risulta, cioè lasciarsi portare dalla forza
dell’abitudine.

3. – Critica del realismo


Non rimane che determinare l’estensione della nostra conoscenza, ovvero cercare quali sono
gli oggetti che possiamo conoscere. Hume sostiene che non possiamo conoscere altro al di fuori
delle nostre proprie impressioni; la definisce una «filosofia accademica o scettica». Per mostrarlo,

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Marie-François-Pierre Gonthier de Biran, filosofo, psicologo e massone francese (1766-1824). NdT.
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in effetti, riprende degli argomenti classici dello scetticismo greco, ma a dirimere la questione in un
solo colpo è il principio di immanenza, che egli eredita da Locke e da Berkeley. «La filosofia più
elementare ci insegna che null’altro può essere mai presente alla mente che non sia un’immagine o
una percezione»; «le sole esistenze di cui siamo certi sono le percezioni»; «mai sono presenti alla
mente altre esistenze al di fuori delle percezioni». Se teniamo questo principio per evidente, tutto è
risolto, e Hume non ha torto nel dire che il dott. Berkeley è un maestro di scetticismo: «le migliori
lezioni di scetticismo che si possano trovare tra i filosofi antichi o moderni sono costituite dalla
maggior parte degli scritti di questo ingegnoso autore».
Consideriamo prima di tutto il problema del «mondo esterno». L’esistenza delle cose fuori
di noi non è evidente, perché i sensi ci ingannano spesso. Non serve per spiegare le nostre
sensazioni, in quanto molte di esse sono prodotte dalla mente stessa, come riconosciuto da tutti nel
caso dei sogni e della follia. Anche volendo non potrebbe servire da spiegazione, perché nulla è più
inspiegabile del modo in cui un corpo agirebbe sulla mente. L’esistenza delle cose esterne non è
resa certa neanche dalla veracità divina, perché se a Dio interessasse questo, dovrebbe garantire
l’infallibilità completa dei sensi. Insomma, l’esistenza delle cose esterne è inconoscibile perché la
mente non ha presente nient’altro che le sue percezioni; nessuna esperienza può consentirgli di
cogliere la connessione tra le sue impressioni e gli oggetti esterni. In fin dei conti, quindi, è solo
l’immaginazione che ci fa giudicare come reali le nostre impressioni, come esistenti
indipendentemente da noi, quando ci si presentano con una certa coerenza e una certa costanza. Né
i sensi né la ragione legittimano tale giudizio.
Consideriamo poi il nostro io. Certi filosofi immaginano che noi siamo coscienti del nostro
io in ogni momento, che ne sentiamo l’esistenza e la continuità, che abbiamo l’evidenza della sua
identità e semplicità. L’esperienza mostra il contrario. «Quando penetro più intimamente in quello
che io chiamo me stesso, m’imbatto sempre nell’una o nell’altra percezione particolare, di caldo o
di freddo, di luce di oscurità, di amore o di odio. Non posso mai, in nessun momento, cogliere me
stesso senza una percezione, e non posso mai osservare altro che la percezione». L’esistenza dell’io,
quindi, non è più certa di quella del mondo, è inconoscibile per la stessa ragione. Ciò che
chiamiamo io non è altro che «un fascio o una collezione di diverse percezioni che si succedono con
una rapidità inconcepibile e che sono in flusso e in un movimento perpetuo».
Consideriamo infine, in maniera del tutto generale, la sostanza. L’idea di sostanza non
deriva dai sensi, perché questi non ci presentano mai delle qualità, dei sapori, dei colori. Non
proviene neanche dalla riflessione, perché la coscienza ci fa conoscere solo le nostre passioni ed
emozioni. Tutto ciò che di positivo si può dire della nozione di sostanza si riduce a questo: «una
collezione di qualità particolari»; o meglio: «una collezione d’idee particolari unite
dall’immaginazione e alle quali è assegnato un nome particolare». Niente autorizza il filosofo a
supporre che le qualità siano inerenti a un qualche cosa di sconosciuto. Se ci tenessimo a utilizzare
la nozione metafisica di sostanza, definita come «qualcosa che può esistere per sé sola», dovremmo
dire che tutte le nostre percezioni sono delle sostanze, perché sono distinte le une dalle altre,
«possono esistere separatamente, non hanno bisogno di nessun’altra cosa per supportare la loro
esistenza». Ma questo, per Hume, è un modo di ridurre la metafisica all’assurdo.
La critica, quindi, conduce inevitabilmente allo scetticismo. Forse non allo scetticismo
radicale di Pirrone, che rifiutava ogni certezza, ma allo scetticismo classico, come lo troviamo in
Enesidemo e Sesto Empirico, che ammette i fenomeni immediatamente presenti alla coscienza.
Diciamo che la critica di Hume conduce a uno scetticismo che si confonde con il fenomenismo e il
soggettivismo.
Tuttavia, secondo Hume lo scetticismo, per quanto possa essere speculativamente
inespugnabile, non può essere vissuto, cioè è insostenibile praticamente. Di fatto, dice, nessun uomo
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è mai stato scettico. «Né io né altri siamo stati mai sinceramente e costantemente di questa
opinione». Gli argomenti scettici, come quelli del dott. Berkeley, «non ammettono risposta e non
producono la convinzione». La natura, l’istinto, l’azione forzano l’uomo a credere. Gli uomini non
possono fare a meno di fidarsi dei loro sensi e della loro ragione, «nonostante siano incapaci, con la
più diligente ricerca, di ritenersi soddisfatti circa il fondamento di queste operazioni o di scartare le
obiezioni che si potrebbero sollevare contro di esse».
Questa la celebre conclusione dei Saggi sull’intelletto: «Quando, persuasi di questi principi,
percorriamo una biblioteca, che danni saremmo portati a fare! Se prendiamo per esempio un volume
di teologia o di metafisica, chiediamoci: contiene dei ragionamenti astratti sulla quantità o sul
numero? No. Contiene dei ragionamenti sperimentali su questioni di fatto o di esistenza? No.
Allora, buttato al fuoco, perché contiene solo sofismi e illusioni».

Conclusione
Se osserviamo sufficientemente da lontano la storia della filosofia, ci rendiamo conto che
tutti i grandi movimenti di pensiero di tipo dogmatico sono stato seguiti, più o meno a lungo
termine, da una crisi di scetticismo. Questa dissolve le verità che si credevano più consolidate e
riduce a nulla i risultati dati per assodati. La critica di Hume, presa nel suo insieme, è il termine di
movimento di dissoluzione analogo, applicato alla filosofia cartesiana.
Wolf e Hume costituiscono come due poli di attrazione, tra i quali il cartesianesimo viene
dilaniato, rappresentando l’uno il razionalismo, l’altro l’empirismo. Non si può fare di meglio né in
un senso né nell’altro. Se la filosofia deve sopravvive, deve tornare a dei principi anteriori a
Cartesio, oppure deve tracciarsi una nuova strada. Così, verso il 1750 la filosofia si trova
pressappoco nella stessa situazione della filosofia greca del IV secolo, quando, divisa tra Eraclito e
Parmenide, veniva smantellata dalla sofistica. Il Platone dei tempi moderni è Kant.
La gloria di Hume fu la sua critica al principio di causalità. Essa è talmente penetrante da
obbligare ogni filosofo a riflettere sulla questione. Il primo a farvi i conti fu Kant. La lettura dei
Saggi, come dice nella prefazione dei Prolegomeni, lo svegliò dal sonno dogmatico. «Lo confesso
francamente, fu l’avvertimento di David Hume che, ormai tanti anni fa, interruppe il mio sonno
dogmatico e che diede alle mie ricerche di filosofia speculativa una direzione tutta nuova». Kant era
andato diritto all’essenziale. Il punto di partenza delle sue riflessioni fu la questione che egli chiama
«il problema di Hume»: «come comprendere che, poiché una cosa esiste, un’altra cosa debba
esistere necessariamente anch’essa?».
Quale sia la risposta data da Kant lo vedremo a breve. Per il momento, presentiamo le grandi
linee della nostra.
Prima di tutto, in generale, anche noi ammettiamo che l’uomo non ha idee innate: è la verità
detta dall’empirismo. Ma in opposizione a esso, sosteniamo che l’intelligenza è una funzione che
trascende la sensibilità, che ha per oggetto l’essere e che è capace di astrazione. Questi sono per noi
dei fatti.
Per quanto riguarda in particolare il problema della causalità, diamo ragione a Hume su due
punti: da una parte che il principio di causalità, in quanto necessario e universale, non può derivare
dall’esperienza, e d’altra parte che non può essere ricondotto al principio di contraddizione. Ci
separiamo però da Hume in altri due punti: primo, sosteniamo che l’esperienza fornisce una base
alle idee di azione, di causa e di effetto, che sono delle idee astratte; secondo, e più importante,
sosteniamo che l’intelligenza percepisce intuitivamente la verità del principio di causalità come
legge dell’essere contingente.

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Tratto da : Roger Verneaux, Histoire de la philosophie moderne, pp. 125-133, 196818, Paris, Beauchesne, trad. S.
Cansella

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