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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

CAPITOLO VIII
KANT

Bibliografia. – Traduzione omessa perché irrilevante per il pubblico italiano.


Biografia. – Studiare dal libro.

I
IDEA GENERALE DEL KANTISMO

Per quanto un filosofo possa essere originale, è sempre possibile spiegare il suo pensiero
facendo riferimento alle fonti a cui ha attinto e alle influenze che ha subito. In qualche modo è come
se fosse il punto di incontro di un certo numero di linee di pensiero. Il miglior modo di penetrare nel
pensiero di Kant, quindi, ci sembra essere quello di passare in rassegna le sue fonti e di vedere in
che modo le ha impiegate.
1. – Le fonti del kantismo
Gli autori che hanno influenzato maggiormente Kant possono essere ridotti a cinque, che
rispondono, in ordine cronologico, al nome di Lutero, Wolf, Newton, Hume e Rousseau.
Non sarebbe serio sostenere che Kant si spieghi interamente con le sue origini protestanti,
che la sua filosofia in fondo non sia altro che una laicizzazione della teologia luterana. Tuttavia, è
chiaro che la sua prima formazione l’ha segnato a vita. Sul piano filosofico, si vede specialmente in
due punti. Primo, Kant adotta la concezione luterana della fede come atto pratico senza fondamento
teorico, ovvero come azione della volontà senza motivo intellettuale. È su questo presupposto che
rifonda le tesi essenziali della metafisica – la libertà, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio –
dopo aver negato ogni possibilità di dimostrarle e persino di conoscerle. Secondo, accetta la dottrina
del libero esame e ne fa il perno della sua morale. Nel protestantesimo, l’espressione fa riferimento
alla coscienza religiosa, libera d’interpretare le Scritture senza regole d’ortodossia imposte da una
Chiesa. Kant traspone questo ideale sul piano morale: la coscienza è autonoma, obbedisce solo alle
leggi che si dà da sé.
Come abbiamo già detto, l’unica metafisica che Kant ha conosciuto è quella di Wolf, ed è
quella che prende di mira ogni volta che parla di metafisica dogmatica. Ai suoi occhi, questa
metafisica è dogmatica prima di tutto perché si sviluppa senza aver criticato preventivamente il
proprio strumento, la ragione; e poi nel senso che pretende di conoscere l’essere in sé tramite la
ragione pura, indipendentemente da qualsiasi esperienza, ovvero a priori. Nonostante questo Kant
ritiene che la metafisica debba essere a priori. Si tratta di una pura questione di definizione, e di
definizione nominale: «I suoi principi non devono mai essere attinti dall’esperienza, perché bisogna
che sia una conoscenza non fisica, ma metafisica, che significa al di là dell’esperienza»
(Prolegomeni, Premessa).
Come Wolf rappresenta la metafisica, così, agli occhi di Kant, Newton rappresenta la
scienza moderna. I Principia di Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica (1687),
sono in qualche modo la magna carta della sua fondazione. Questa scienza ha successo, apporta
una spiegazione dei denomini fisici che soddisfa interamente, e sarebbe assurdo metterne in dubbio
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la verità. E in che modo si è costituita? Grazie all’unione tra matematica ed esperienza.


L’esperienza presenta dei fatti spari, diversi, separati, e la mente li lega secondo delle leggi
necessarie da lei ideate. Quindi è la mente umana, con la sua attività, a conferire ai fatti
l’intelligibilità, ma è l’esperienza a fornire al pensiero un contenuto reale. Siamo di fronte a un
nocciolo di idee che è centrale nella teoria kantiana della conoscenza: ogni conoscenza nasce
dall’incontro di una «forma» e di una «materia». La forma è a priori, è un atto del soggetto, è
indipendente dall’esperienza. La materia è a posteriori, è ricevuta dal soggetto, è un dato
dell’esperienza. La materia è pura diversità, fatta di elementi sparsi, la forma è principio di unità, di
legame, di sintesi.
Per Kant, rispetto al dogmatismo di Wolf, Hume rappresenta lo scetticismo. Kant gli dà
ragione nel limitare la conoscenza possibile ai fenomeni. Ma per quanto riguarda la critica del
principio di causalità, Hume rappresenta la rovina della scienza, che pretende di affermare delle
leggi necessarie, e della morale, che pretende di porre degli obblighi incondizionati. Tutto lo sforzo
di Kant consisterà nel trovare un modo di sfuggire alla critica dissolutrice di Hume e di fondare su
delle basi indubitabili la scienza e la morale. Da qui si capisce perché Kant sia stato chiamato lo
«Hume prussiano», ma anche quanto questo appellativo sia falso.
Infine, Kant ha letto con passione Rousseau, vedendoci «il Newton del mondo morale». Ciò
che l’ha ispirato non è tanto la dottrina del Discorso sull’ineguaglianza: l’uomo è naturalmente
buono, la società lo corrompe (benché anch’egli professasse che tutti gli uomini nascono liberi e
uguali nei diritti); neanche la dottrina del Contratto sociale, che fonda la società su un atto di delega
dei diritti (benché avesse accolto con entusiasmo la notizia della Rivoluzione francese, al punto che
– secondo la leggenda – avrebbe modificato per una volta l’itinerario della sua passeggiata per
andare dal corriere). Ciò che ricevette da Rousseau fu ciò che la sua educazione pietista l’aveva
predisposto a ricevere, ovvero quel «sentimentalismo» espresso nella Professione di fede del
Vicario savoiardo: «Coscienza, coscienza, istinto divino, voce celeste e immortale, guida sicura di
un essere ignorante e limitato, giudice infallibile del bene e del male, che rende l’uomo simile a
Dio…». L’idea, quindi, che la coscienza morale sia un assoluto, la regola unica dell’azione e il
fondamento delle certezze metafisiche; l’idea, poi, che tutta la moralità risieda nella purezza di
intenzione, senza riferimento alla materia o all’oggetto degli atti umani.

2. – La sintesi kantiana
Non a torto la dottrina di Kant è chiamata «criticismo», per quanto la parola stessa non
venga impiegata direttamente dal filosofo. Da un punto di vista sintetico, il criticismo consiste nello
sfuggire allo scetticismo tramite la demolizione del dogmatismo, che gli offre le premesse, per poi
sfociare in una forma originale d’idealismo.
Il punto di partenza di Kant consiste in due fatti di cui la mente umana è assolutamente certa
perché avvengono al suo interno: il fatto della scienza e il fatto della morale. Ci sono delle
conoscenze vere e ci sono degli obblighi morali; le une e gli altri s’impongono da sé a ogni
coscienza ragionevole.
Pertanto, Kant non si chiede se le scienze e la morale siano possibili, dato che ne ammette
l’esistenza; però, prendendole come dei fatti, riflette su di esse e cerca di capirle; si chiede allora
come siano possibili, cioè quali siano i principi e le condizioni che esse richiedono. Dunque, Kant si
trova davanti a tre questioni connesse tra di loro: Come è possibile la scienza? Come è possibile la
morale? Come conciliare la scienza e la morale, dal momento che presuppongono l’una la necessità
delle leggi naturali e l’altra la libertà degli atti umani?
Per rispondere a queste domande, occorre istituire una critica della ragione. Ci sarà da una
parte una critica della ragione pura (speculativa), che risponde alla domanda: che cosa possiamo
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sapere? E dall’altra parte una critica della ragione (pura) pratica, che risponde alla domanda: che
cosa dobbiamo fare?
La soluzione di Kant prende il nome di idealismo trascendentale o critico.
La necessità delle leggi scientifiche non può provenire dall’esperienza, ma proviene dal
soggetto stesso che applica certe leggi generali del proprio pensiero alle cose, per percepirle e
comprenderle. Queste leggi sono a priori: si trovano nella mente indipendentemente
dall’esperienza, e sono condizione di ogni esperienza possibile. Di conseguenza, non si possono
conoscere le cose come sono in sé stesse, ma solamente quello che di esse ci appare
sottomettendosi alle nostre proprie leggi: i fenomeni.
Così, contro Hume, Kant giustifica la necessità delle leggi scientifiche, perché non è
possibile nessuna esperienza che non sia sottomessa alle leggi del soggetto. Contro Wolf, distrugge
il dogmatismo, perché mostra l’impossibilità di conoscere con la pura ragione le cose in sé. Kant
ritiene di compiere una vera e propria rivoluzione filosofica, analoga a quella di Copernico per
l’astronomia. Per lungo tempo si è creduto che il sole ruotasse intorno alla terra, e Copernico ha
dimostrato che è la terra a ruotare intorno al sole. Allo stesso modo qui, fino a Kant si sosteneva che
fosse la mente ad adeguarsi alle cose per conoscerle, ma Kant dimostra che è vero il contrario: è
l’oggetto ad adeguarsi alla mente per poter essere conosciuto.
A partire da questo, Kant lascia uno spazio libero per la morale. In effetti, l’idea di necessità
ha senso soltanto nel mondo dei fenomeni; niente impedisce che esista la libertà nel mondo delle
cose in sé, il quale sfugge alla nostra conoscenza.
Non resta che fondare questa morale. Ecco in che modo. La ragione, che ha delle leggi per
conoscere, ha delle leggi anche per guidare l’azione. Il dovere è una regola dell’azione ed emana a
priori dalla ragione. Pertanto, la coscienza morale è autonoma, in quanto si dà le proprie leggi da sé.
Il dovere si traduce nella coscienza come imperativo categorico, s’impone da sé a ogni essere
ragionevole, e non richiede alcun fondamento, alcuna giustificazione.
Dato che il dovere è un assoluto, è esso stesso a giustificare le proprie condizioni. Tutto ciò
che il dovere implica, cioè quei [principi] che sono richiesti per rendere possibile la vita morale, li
dobbiamo ammettere e tenere per veri. Nei riguardi di queste cose non possiamo avere alcuna
certezza teorica, dato che questa via è stata sbarrata dalla prima Critica, però le affermiamo tramite
un atto di «fede», a titolo di «postulati» della ragion pratica. Questi postulati sono la libertà,
l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Facendo così Kant afferma delle tesi metafisiche:
quelle verità senza le quali l’uomo non può vivere bene egli le restituisce su un nuovo fondamento,
l’unico solido ai suoi occhi. «Ho dovuto abolire il sapere per far spazio alla fede».
Dopo questo sguardo generale, entriamo un po’ più nel dettaglio, soprattutto per quanto
riguarda la Critica della ragion pura, perché è lei a governare tutto il kantismo.

II
IL PUNTO DI VISTA CRITICO

Prima di tutto bisogna provare a capire il punto di vista scelto da Kant nella Critica della
ragion pura. Per farlo, è necessario e sufficiente definire il problema che si prefigge di risolvere e
poi il metodo che impiega per riuscirci.

1. – Il problema critico

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Il problema centrale della prima Critica è la possibilità di una conoscenza metafisica, come
sottolineato bene nel titolo dei Prolegomeni: «Prolegomeni a ogni metafisica futura che vorrà
presentarsi come scienza». Non è l’unico problema, anzi si può capire soltanto in funzione degli
altri.
L’Introduzione della Critica fornisce i chiarimenti necessari.
Che ogni conoscenza cominci con l’esperienza non c’è dubbio, perché la nostra mente è
risvegliata e messa in azione soltanto se degli oggetti le vengono presentati dai sensi. Ma la
conoscenza viene dall’esperienza? No. Ogni volta che poniamo un giudizio necessario e universale
non si può dire che esso sia fondato sull’esperienza. L’esperienza, infatti, fornisce sempre e solo
fatti contingenti e particolari. Per quanto riguarda la contingenza, se ci mostra che una cosa è in un
modo, non ci può mostrare che non può essere altrimenti. Per quanto riguarda invece l’aspetto
dell’universalità, l’esperienza ci dà contezza di un certo numero di casi osservati, ma non si estende
a tutti i casi possibili. Così, quello ciò che vi è di necessario e universale nella conoscenza non è
empirico bensì a priori.
Ora, bisogna distinguere due tipi di giudizio: i giudizi analitici e i giudizi sintetici. Kant
ritiene che questa sia una delle sue scoperte essenziali. Un giudizio analitico è un giudizio in cui il
predicato è incluso nel soggetto, cioè contenuto in esso in maniera confusa e implicita, di modo che,
per porre il giudizio, alla mente è sufficiente analizzare il soggetto, in virtù del principio d’identità.
Per esempio, «tutti i corpi sono estesi» è un giudizio analitico, perché il concetto di estensione è
implicato in quello di corpo. Un giudizio è sintetico quando la mente attribuisce al soggetto un
predicato che non è contenuto in esso. Per esempio «tutti i corpi sono pesanti» è un giudizio
sintetico, perché il concetto di pesantezza non rientra nella definizione di corpo.
I giudizi analitici sono puramente esplicativi, non estendono la conoscenza, ma sviluppano,
esplicitano o esplicano ciò che sappiamo già. Giocano un ruolo importante nel pensiero, perché gli
apportano chiarezza e distinzione, ma non aggiungono nessuna acquisizione nuova. Al contrario, i
giudizi sintetici sono estensivi, nel senso che sono quelli che estendono la nostra conoscenza.
I giudizi analitici non presentano difficoltà. Sono affermati a priori, senza che si debba
ricorrere all’esperienza né dimostrarli, poiché sono fondati sul principio di contraddizione di cui
rappresentano un’applicazione immediata. Neanche i giudizi sintetici a posteriori presentano
difficoltà. Sono basati sull’esperienza, la quale ci presenta tale soggetto con tale predicato. Altra
cosa, invece, sono i giudizi sintetici a priori; la difficoltà consiste in questi. Non sono basati sul
principio di contraddizione perché sono sintetici. Qual è allora il loro fondamento? Cosa legittima la
mente a fare la sintesi di due concetti differenti? «Qui si nasconde un certo mistero» dice Kant, e
tutta la Critica è finalizzata a chiarirlo.
In effetti, in tutte le scienze i principi sono dei giudizi sintetici a priori. Nella matematica è
evidente: le proposizioni matematiche sono a priori perché sono necessarie, e sono sintetiche
perché fanno progredire la conoscenza. In geometria, per esempio, il principio «la linea retta è il
percorso più breve da un punto a un altro» è un giudizio sintetico, perché il principio di «retta», è
qualitativo, non include il concetto di «più corto», che è quantitativo. In aritmetica, la proposizione
7 + 5 = 12 è dello stesso tipo, perché per quanto si voglia analizzare il primo membro non vi si
troverà il secondo; per farlo occorrerà un atto diverso: contare, fare l’addizione.
In fisica, i principi sono dei giudizi sintetici a priori. È il caso del principio di causalità, per
cui «tutto ciò che accade ha una causa»: «causa» significa tutt’altro rispetto a «ciò che accade».
Vale lo stesso per il principio della permanenza della quantità di materia attraverso i cambiamenti o
per il principio dell’uguaglianza di azione e reazione.
La metafisica, infine, deve comportare anch’essa dei giudizi sintetici a priori. In effetti, se
intende far progredire la conoscenza senza accontentarsi di chiarire dei concetti per semplice
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analisi, la metafisica deve far uso di giudizi sintetici. E tali giudizi devono essere a priori, perché
per definizione riguardano oggetti che sono al di là di ogni esperienza possibile.
Di conseguenza, il problema generale della critica è il seguente: «Come sono possibili dei
giudizi sintetici a priori?».
Il problema, tuttavia, non ha lo stesso senso a seconda che riguardi le scienze o la metafisica,
perché le scienze sono un fatto, mentre la metafisica non esiste ancora come scienza. «Con
l’ammirevole popolo greco, la matematica è entrata nella via sicura della scienza». «La fisica è
arrivante più lentamente alla grande via della scienza»; ma infine ha trovato anch’essa la sua strada.
La metafisica invece «fino a ora non ha ancora avuto la fortuna di potersi impegnare nella via sicura
della scienza». La prova è che le verità scientifiche sono accettate da tutti gli eruditi, mentre
nessuna dottrina metafisica è riuscita fino a ora a ottenere l’accordo dei filosofi; al contrario, sono
tutte contestate. La metafisica sembra essere «un’arena destinata a esercitare le forze dei
combattenti in scontri fittizi, in cui nessun campione ha mai potuto espugnare il minimo territorio
né fondare sulla sua vittoria un possesso durevole». Insomma, Kant è colpito dall’argomento
scettico delle contradizioni dei filosofi, e ne conclude che la metafisica non esiste ancora in quanto
scienza.
Kant ammette tuttavia che la metafisica esiste a titolo di «disposizione naturale» della mente
umana. Esiste, cioè, come tendenza o bisogno iscritto nella natura umana. Per questa ragione c’è
sempre stata, e sempre ci sarà, una metafisica. «Essa è più antica di tutte le altre scienze, e
continuerebbe a esistere quandanche tutte le altre insieme venissero inghiottite nell’abisso di una
barbarie devastatrice». «Ne possiamo tagliarne i germogli, ma non strapparne le radici».
Adesso il problema si delinea meglio. Le scienze non hanno bisogno di una critica della
ragione per fondarsi. La metafisica, invece, che è una tendenza naturale della ragione, potrà
diventare una scienza a condizione di essere preceduta da una critica. Quest’ultima è quindi una
«prefazione obbligatoria» alla metafisica, una «propedeutica» o un «prolegomeno». Il suo fine è
cercare le origini e i limiti della conoscenza a priori. Il suo oggetto non è la natura delle cose, ma la
ragione in quanto giudica a priori la natura delle cose.
Ma se ne cogliamo tutte le implicazioni, il problema critico se riassume bene nella domanda:
come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Dato che questo tipo di giudizi è presente nelle
scienze, sarà sufficiente analizzare la conoscenza scientifica per trovare su quali principi si fondano,
e per trovare anche, allo stesso tempo, a che condizioni la metafisica potrà diventare una scienza.
Nel frattempo, colpita da un dubbio metodico, ogni metafisica è sospesa. Come dichiara Kant, senza
nascondere una certa enfasi: «Di conseguenza, tutti i metafisici sono, conformemente alla legge,
solennemente sospesi dalle loro funzioni finché non avranno risolto in maniera soddisfacente questo
problema: come siano possibili delle conoscenze sintetiche a priori. Perché è soltanto in questa
risposta che troveranno le lettere credenziali che gli occorrono per presentarsi se intendono
apportare qualcosa in nome della ragion pura. In mancanza di queste, non possono aspettarsi altro
che di essere congedati da persone ragionevoli, già così spesso tratte in inganno, e senza esaminare
oltre ciò che propongono».

2. – Il metodo critico
I termini stessi del problema determinano il metodo capace di risolverlo. Il metodo è
l’analisi trascendentale. Basta capire il senso che Kant dà a queste due parole. Cominciamo dalla
seconda.
La nozione di «trascendentale», scrive Vaihinger, un commentatore tedesco di Kant, è una
delle nozioni più confuse e anche più contradditorie di tutta la filosofia moderna. Ma è una delle

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chiavi della filosofia kantiana. Proviamo quindi a definirla il più chiaramente possibile,
confrontandola con tre nozioni classiche.
Prima di tutto la nozione kantiana di trascendentale non dev’essere confusa con la nozione
scolastica, da cui tuttavia è tratto il termine. Sarebbe l’errore peggiore che si possa commettere,
perché nella metafisica aristotelica i trascendentali sono delle proprietà dell’essere, che quindi si
trovano in ogni essere, come l’unità, la verità, la bontà. In Kant, invece, il trascendentale non indica
affatto l’essere e le sue proprietà, ma è riferito alla conoscenza, e più precisamente alla conoscenza
a priori. «Chiamo trascendentale ogni conoscenza (ricerca o metodo) che si occupa non degli
oggetti, bensì dei nostri concetti (rappresentazioni o giudizi) a priori degli oggetti».
In secondo luogo, bisogna fare attenzione a non confondere il trascendentale con il
trascendente. Kant chiama trascendente ciò che esiste in sé, al di fuori della mente, e ciò che si situa
al di là di ogni esperienza possibile. Ciò corrisponde pressappoco a quello che la scolastica
aristotelica chiama una realtà metafisica, con una differenza capitale però, e cioè che per Kant il
trascendente è inconoscibile. E quello che chiama trascendentale è tutt’altro che trascendente, è
l’esatto contrario: è immanente. Esso è l’insieme delle leggi interne della mente che sono
condizione dell’esperienza.
Infine, trascendentale è opposto a logico. Secondo Kant, la logica formale fa astrazione da
ogni oggetto, non si interessa della verità della conoscenza, ma si limita ad assicurare la coerenza
interna del pensiero, ponendo le leggi senza le quali non ci sarebbe pensiero alcuno. Il
trascendentale, invece, riguarda la conoscenza e la sua verità, almeno quando si tratta di conoscenza
a priori. Ogni conoscenza è in relazione a un oggetto, e quando la conoscenza è a priori, il rapporto
con l’oggetto è reso possibile non dall’esperienza, ma dai principi che Kant chiama trascendentali.
Da questi raffronti risulta che il termine «trascendentale» all’incirca: tutto ciò che riguarda la
conoscenza a priori degli oggetti. Ci sarà dunque una «filosofia trascendentale» che non è altro che
la critica, cioè l’insieme delle ricerche effettuate e dei risultati ottenuti nel campo della conoscenza
a priori. Ci sarà una «investigazione trascendentale», che è la ricerca, e un «idealismo
trascendentale», che è la dottrina ricavata da questa ricerca. E ci sarà una «analisi trascendentale»
che è il metodo di ricerca.
Anche il termine «analisi» è impiegato da Kant in diversi sensi. C’è un’analisi che è la
scomposizione del pensiero nei suoi elementi, per esempio distinguendo la sensazione e il concetto.
Ma come metodo generale della critica, l’analisi è presa nel suo significato logico: risalire da un
fatto alle cause, da una conclusione ai principi. Qui il fatto da cui si parte è la conoscenza
scientifica, o più esattamente i giudizi sintetici a priori su cui essa si basa. L’analisi consisterà
dunque nel risalire dal giudizio formulato da cui deriva, che lo spiegano e lo fondano.
Poiché si tratta di spiegare la conoscenza a priori, l’analisi è orientata verso il soggetto
conoscente, e non verso l’essere conosciuto. Questo va da sé. Un’analisi dell’essere sarebbe una
metafisica: per esempio cercare i principi e le cause dell’essere contingente dato dall’esperienza.
Un’analisi della conoscenza in generale dovrebbe dirigersi tanto verso l’oggetto quanto verso il
soggetto: da una parte cercare come dev’essere l’oggetto per poter essere conosciuto, d’altra parte
cercare come dev’essere il soggetto per poter conoscere. Ma un’analisi della conoscenza a priori
può essere fatta solo sul soggetto, perché questa specie di conoscenza viene elaborata dalla mente
indipendentemente da qualsiasi esperienza.
Non a caso l’analisi viene definita «riflessiva» da Lachelier e Brunschvicg. D’altronde Kant
impiega il termine di «riflessione trascendentale», anche se non lo fa per designare l’insieme del
metodo, ma soltanto una delle sue tappe.
Non bisogna pensare, tuttavia, che quest’analisi della mente, che la si chiami riflessa o
riflessiva, sia d’ordine psicologico, come una sorta d’introspezione o di psicanalisi. Nel XIX secolo,
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gli storici francesi, influenzati da Victor Cousin, hanno presentato Kant come uno psicologo. Si
tratta di un grave errore, che Kant aveva pensato bene di prevenire, distinguendo il suo metodo da
quello di Locke. Anche Locke analizza la mente, ma a livello della coscienza e dei fatti; approccio
che Kant definisce una «fisiologia dell’intelletto». Kant non intende fare una psicologia, ma una
critica: non colleziona fatti né fa riferimento all’esperienza interna, ma procede per via logica o
razionale. Risale dai fatti (i giudizi sintetici a priori) ai principi logicamente richiesti per spiegarli,
ai principi che ne fondano logicamente la possibilità. L’analisi trascendentale consiste in questo.
Bisogna anche aggiungere che una delle tappe del metodo critico è chiamata da Kant
«deduzione trascendentale». Infatti, non basta aver trovato i principi che rendono possibile la
conoscenza scientifica, bisogna anche mostrare in che modo la fondano, vale a dire dedurre dai
principi trovati il fatto stesso da cui si era partiti. In realtà, ciò equivale a mostrare che l’analisi ha
effettivamente scoperto i principi che si cercavano. A nostro modo di vedere, quindi, non bisogna
considerare la deduzione come un metodo altro rispetto all’analisi, un metodo inverso che
consisterebbe in una sintesi, bensì come l’ultimo momento o il coronamento dell’analisi stessa.
Entrando adesso nel merito, Kant distingue tre funzioni di conoscenza: la sensibilità,
l’intelletto e la ragione. Quindi la critica si svilupperà su tre livelli: la critica della sensibilità,
chiamata «estetica trascendentale», la critica dell’intelletto o «analitica trascendentale», e quella
della ragione, detta «dialettica trascendentale».
L’estetica trascendentale fonda la scienza matematica scoprendo le forme della sensibilità.
L’analitica fonda la scienza fisica, scoprendo le categorie dell’intelletto. La dialettica dimostra
l’impossibilità di una metafisica dogmatica.

III
LA CRITICA DELLA SENSIBILITÀ
(ESTETICA TRASCENDENTALE)

Il primo passo compiuto da Kant, come un chimico che isola un corpo puro facendo
astrazione da ciò che vi aggiunge l’intelletto, è quello di «isolare la sensibilità» e di analizzarla per
poterne determinare il valore o la portata.
1. – Le forme «a priori»
L’Estetica trascendentale inizia con alcune definizioni che sono capitali per il seguito di
tutta la critica.
L’intuizione è una conoscenza tramite la quale un oggetto concreto ci è presentato
immediatamente. Per l’uomo l’unica intuizione è quella sensibile ed è quindi su di essa che si fonda,
in definitiva, tutta la nostra conoscenza. È un’idea che ritroveremo più avanti, ma è chiaro fin da
ora, dalle prime pagine dell’Estetica, che il problema critico è per lo più risolto. Perché il punto era
sapere come la metafisica è possibile. Ma se l’unica funzione che ci mette in contatto con un
oggetto è un’intuizione, e se l’unica intuizione di cui l’uomo è capace è l’intuizione sensibile, allora
nessuna conoscenza metafisica è possibile.
La sensibilità, a sua volta, è definita come pura passività o «ricettività»: è la «capacità di
ricevere (ricettività) delle impressioni secondo il modo in cui siamo modificati dagli oggetti».
Anche qui occorre notare le conseguenze di questa definizione. Se si definisce la sensibilità come
passività o ricettività, bisognerà definire l’intelletto come attività o spontaneità. Ma allora
l’intelletto non potrà ricevere nulla dall’esterno, il suo ruolo sarà unicamente quello di aggiungere
qualcosa ai dati sensibili, di apportare loro un nesso, un legame, una sintesi.
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Infine, la sensazione è «l’impressione di un oggetto sulla facoltà rappresentativa», tramite


cui abbiamo un’intuizione degli oggetti, chiamata da Kant «intuizione empirica».
Tutte le nostre sensazioni sono coordinate nello spazio e nel tempo, perché un oggetto
appare sempre in un luogo determinato e a un dato momento. Pertanto, nella conoscenza sensibile
bisogna sempre distinguere due elementi: la «materia», che sono le impressioni, le qualità sensibili,
e la «forma», che è il quado spazio-temporale in cui tali qualità sensibili sono situate.
Consideriamo lo spazio (lo stesso ragionamento si applica al tempo). Kant intende mostrare
due cose: 1° che non si tratta di un concetto astratto, ma di una rappresentazione sensibile, 2° che è
una rappresentazione non empirica, data dall’esperienza, ma a priori, indipendente dall’esperienza.
Lo spazio non è un concetto, perché non è un’essenza astratta e universale, applicabile a una
molteplicità di casi particolari, come sarebbe per esempio l’essenza «uomo». Infatti, non ci sono più
spazi, ma uno solo, e questo non è un’essenza astratta ma un ambiente concreto in cui prendono
posto tutti gli oggetti sensibili. D’altra parte, lo spazio non è un dato d’esperienza, bensì una
condizione dell’esperienza: ogni sensazione di un oggetto esteriore suppone una rappresentazione
dello spazio; infatti, possiamo situare gli oggetti fuori di noi o gli uni a fianco agli altri a condizione
di avere già la nozione di spazio.
Lo spazio e il tempo sono quindi delle «forme a priori della sensibilità», il che significa che
non sono dei caratteri o delle proprietà reali delle cose, ma delle leggi del soggetto, esprimenti la
sua costituzione. Queste leggi si rivelano soltanto nell’atto di percepire un oggetto; perciò, Kant
dice che sono «acquisite» e non innate. Appartengono però alla struttura del soggetto, non
provengono dall’esperienza, cosicché sono comunque innate, ma di un innatismo virtuale, come
diceva Leibniz.
Lo spazio è la forma dei sensi esterni, mentre il tempo è la forma del senso interno, cioè
della coscienza, dell’intuizione che abbiamo dei nostri stati interiori. In questo modo si spiega il
fatto che i nostri stati non siano nello spazio, ma solamente nel tempo (Bergson riprenderà e
svilupperà quest’idea da un punto di vista psicologico). Si spiega anche perché gli oggetti esteriori
che percepiamo sono al contempo nello spazio e nel tempo: sono nello spazio perché provenienti
dai sensi esterni, sono nel tempo perché le sensazioni sono degli stati di coscienza.

2. – L’idealismo trascendentale
Ecco definitiva e dimostrata al contempo la teoria che Kant chiama «idealismo
trascendentale». Questa dottrina consiste proprio nel sostenere che lo spazio e il tempo non sono
degli esseri in sé, né delle proprietà reali delle cose, ma delle leggi del soggetto. Le conseguenze
verranno sviluppate progressivamente. Per il momento Kant si limita a mostrare ch’essa fonda la
scienza matematica e che limita la conoscenza sensibile ai fenomeni.
Si è dimostrato che lo spazio e il tempo sono delle forme a priori della sensibilità. Ora,
queste forme sono esse stesse oggetto di un’intuizione speciale che Kant chiama «intuizione pura».
Che abbiamo una rappresentazione dello spazio e del tempo è un fatto. Poiché non è un concetto
astratto e universale, si tratta di un’intuizione. E siccome non proviene dall’esperienza è a priori o
«pura».
L’intuizione pura è il fondamento che cercavamo per i giudizi sintetici a priori che
costituiscono la matematica. Essendo un’intuizione, dà alla mente gli oggetti matematici, figure e
numeri. Essendo pura, rende possibili dei giudizi a priori. Così la mente costruisce le definizioni, le
figure e i numeri, se li dà, se li rappresenta come determinazioni dello spazio e del tempo. Lo spazio
è il principio della geometrica, ovviamente. Il tempo è il principio dell’aritmetica, perché
l’operazione fondamentale di tale scienza è l’addizione, che è un fatto di tempo. In maniera ancora
più semplice, Kant fonda la matematica su una sorta di esperienza mentale, su un’esperienza non
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empirica, se si può dire così. Il matematico vede gli oggetti, verifica i teoremi come il fisico verifica
le ipotesi. La differenza è che il matematico fa riferimento all’intuizione pura, mentre il fisico si
riferisce all’intuizione empirica.
Nel fondare la conoscenza matematica, al tempo stesso la critica limita la conoscenza
sensibile ai fenomeni. In effetti possiamo percepire le cose solo nella misura in cui sono soggette
alle forme della nostra sensibilità. Quindi non possiamo mai conoscere le cose in sé, tali quali sono
in sé stesse, ma solamente i fenomeni in noi, le cose così come ci appaiono.
Forse non occorrono dei giri così lunghi per giungere a questa conclusione, perché Kant
considera evidente il principio d'immanenza: «È evidente che non possiamo sentire fuori da noi, ma
soltanto dentro di noi». Ad ogni modo, la tesi di Kant è fermissima: «Non abbiamo mai a che fare
con qualcosa che non siano le nostre rappresentazioni. Quanto a sapere cosa siano le cose in sé
stesse, questo è completamente al di fuori della sfera della nostra conoscenza».
Che esistano delle cose in sé dietro i fenomeni, Kant lo ritiene necessario. «Non mi è mai
venuto in mente di dubitarne», scrive nei Prolegomeni. È ciò che distingue l’idealismo
trascendentale dall’idealismo dogmatico. Berkeley riduceva le cose materiali alle nostre idee; Kant
mantiene l’esistenza delle cose in sé al di là delle nostre rappresentazioni sensibili. Perché? Avanza
due ragioni: prima di tutto, essendo la nostra sensibilità una funzione passiva, le nostre impressioni
presuppongono una causa esteriore; inoltre, l’idea stessa di fenomeno implica quella di cosa in sé:
«altrimenti si arriverebbe all’assurdità per cui un fenomeno esisterebbe senza che ci sia nulla che
appare».
Esistono dunque delle cose in sé, ma sono inconoscibili, proprio perché sono «in sé» e non
«in noi», perché sono al di là dei fenomeni, al di fuori delle nostre rappresentazioni. Kant, quindi, è
ancora lontano dall’idealismo assoluto che sosterranno i suoi discepoli. Tuttavia, nel suo sistema
porta il realismo all’estremo e lo salvaguarda solo grazie all’agnosticismo, che non è una posizione
molto comoda per un filosofo.
Infine, Kant ha cura di segnalare che il suo idealismo trascendentale è un «realismo
empirico». In questo caso l’espressione non riguarda la realtà delle cose in sé, ma significa che i
fenomeni dati dalla sensibilità nello spazio e nel tempo non sono «delle semplici apparenze», delle
apparenze illusorie e puramente soggettive. I fenomeni sono oggettivi, reali. Sono il reale stesso, la
sola realtà che ci viene data. Tuttavia, affinché questo nuovo tipo di realismo sia fondato, bisogna
che l’intelletto entri in gioco, unendo i fenomeni secondo delle leggi.

IV
LA CRITICA DELL’INTELLETTO
(ANALITICA TRASCENDENTALE)

Con la sensibilità gli oggetti ci vengono dati; con l’intelletto, sono pensati. Le due funzioni
sono complementari. La sensibilità è passiva: è la «recettività delle impressioni», l’intelletto è
attivo: è la «spontaneità dei concetti». E le due funzioni sono ugualmente necessarie per costituire
una conoscenza: senza concetti l’intuizione sensibile è «cieca», non si sa letteralmente ciò che si
vede; e senza intuizione i concetti sono «vuoti», non si pensa nulla.
Quindi, dopo aver isolato la sensibilità nell’Estetica, adesso bisogna esaminare ciò che
l’intelletto aggiunge ai dati sensibili; che è il compito dell’Analitica.
1. – I concetti puri

9
Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

Prima di tutto bisogna notare che la conoscenza intellettuale è «discorsiva», che significa
che non è intuitiva. Kant nega qualunque tipo d’intuizione intellettuale tramite la quale l’uomo
possa cogliere l’essere al di là dei fenomeni. «La nostra natura è fatta in maniera tale che l’intuito
non può essere che sensibile», «l’intelletto non è un potere d’intuizione». Agli occhi di Kant è un
fatto. Anzi, più di un fatto, come si deduce dalle definizioni alla base del kantismo. La sensibilità è
pura passività, quindi l’intelletto è pura spontaneità. A queste condizioni, che cosa sarebbe
un’intuizione intellettuale? Un atto che pone un oggetto nel concreto, un’intuizione creatrice. Ma
una tale intuizione forse è concepibile in Dio, ma è fin troppo evidente che l’uomo non è Dio e che
non crea le cose col pensiero.
La conoscenza intellettuale, pertanto, si ha tramite dei concetti. Essa consiste nel riordinare
diverse rappresentazioni sensibili sotto una rappresentazione comune o, come dice Kant, a
«sussumere le diverse intuizioni sensibili sotto dei concetti» [letteralmente: sussumere sotto dei
concetti la diversità offerta dall’intuizione sensibile, ndt]. Questa unificazione avviene mediante il
giudizio. Quindi i concetti hanno valore unicamente come soggetti o predicati di giudizi possibili.
«Dei suoi concetti, l’intelletto non può fare altro che giudicare per mezzo loro». Possiamo allora
elaborare una nuova definizione di intelletto: «il potere di giudicare». E, in fin dei conti, pensare si
riduce al giudizio: «pensare è giudicare».
Come sul piano sensibile, anche su quello intellettuale bisogna distinguere la materia e la
forma della conoscenza. La materia è ciò di cui si giudica; la forma è il modo di giudicare. Per
svelare le forme del pensiero, allora, bisogna cominciare col classificare i giudizi secondo i loro
diversi tipi logici. Kant, facendo riferimento alla classificazione di Aristotele, ma modificandola in
diversi punti, divide i giudizi secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità.
Per ogni classe individua tre forme. Secondo la quantità, i giudizi sono universali, particolari
o singolari. Secondo la qualità, sono affermativi, negativi o indefiniti, ecc. Il dettaglio conta poco:
teniamo a mente soltanto che ci sono dodici tipi di giudizio.
Ci sono quindi anche nell’intelletto dodici funzioni di sintesi, che sono principio dei giudizi
indipendentemente dalla loro materia. Queste funzioni sono chiamate «concetti puri» o «categorie».
Mentre per Kant le categorie sono i generi supremi dell’essere, in Kant sono le regole secondo le
quali la mente, per comprenderli, unifica i fenomeni dati dall’intuizione sensibile. Prendiamo per
esempio la categoria di causalità, che è la principale. «Tutto ciò che accade ha una causa»: non si
tratta di una legge dell’essere, bensì di una legge della mente. Non possiamo comprendere i
fenomeni se non collegandoli secondo il rapporto di causa ed effetto.
Di conseguenza, la mente coglie nelle cose soltanto ciò che ci mette. Se scorge dell’ordine e
delle leggi nella natura è perché ha collegato i fenomeni conformemente alle proprie esigenze e
secondo le proprie leggi. «Siamo noi, dunque, a introdurre l’ordine e la regolarità nei fenomeni che
chiamiamo Natura, e non potremmo trovarli se non vi fossero stati messi in origine da noi, dalla
natura della nostra mente». Per impiegare un’espressione familiare, ma che esprime esattamente la
teoria kantiana, se la mente umana comprende la natura è perché «ci si ritrova».
Tuttavia, detto ciò, rimane il passaggio più difficile, che è quello di mostrare perché e in che
modo le categorie soggettive della nostra mente hanno un valore oggettivo e fondano la scienza
fisica. Questo delicato problema ha richiesto a Kant dieci anni di lavoro. La soluzione è data tramite
la «deduzione trascendentale», che la parte più difficile di tutta la Critica della ragion pura.
2. – La deduzione trascendentale
Kant intende mostrare non solamente che le categorie sono applicabili all’esperienza, ma
soprattutto che l’esperienza stessa non è possibile che grazie alle categorie.

10
Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

La questione non si poneva per le forme della sensibilità, perché nessun fenomeno può
apparirci senza essere nello spazio e nel tempo. Si pone però nel caso delle categorie dell’intelletto,
perché non c’è nulla di impossibile a ipotizzare che dei fenomeni presentati dalla sensibilità non
siano intelligibili, cioè che non rientrino nelle nostre categorie.
Ecco la soluzione, ridotta ai suoi tratti essenziali. Le categorie sono necessarie affinché
abbiamo l’esperienza di oggetti. Sono le categorie a rendere i fenomeni «oggettivi». Infatti,
sappiamo che i fenomeni sono delle semplici rappresentazioni. Kant ammette senza problemi che
dei fenomeni possano apparirci senza essere soggetti alle categorie: ma allora sono puramente
soggettivi. Soltanto le categorie gli conferiscono «il sigillo dell’oggettività», come dice Lachelier. E
perché? Perché sono delle leggi necessarie, comuni a tutte le menti umane. Un fenomeno che sono
il solo a percepire è soggettivo, perché vale solo per la mia coscienza individuale. Un fenomeno
soggetto a delle leggi è oggettivo perché vale per una coscienza in generale, cioè per ogni mente.
Qui tocchiamo la teoria kantiana della verità. Per Kant, verità significa oggettività, e oggettività
significa «validità universale». In maniera più semplice, è vero ciò che è affermato necessariamente
da ogni essere ragionevole. Pertanto, possiamo sperimentare degli oggetti (veri) soltanto tramite
l’applicazione delle categorie ai fenomeni.
Queste considerazioni possono bastare per una comprensione superficiale del kantismo, ma
non spiegano tutto. Ci sono almeno tre questioni ancora in sospeso.
La prima è sapere perché l’uomo è dotato di queste categorie e non di altre. Kant si rifiuta di
prenderlo in considerazione: prende le categorie come un fatto primo, o ultimo, e dichiara che la
critica non può spingersi oltre. Questo tirarsi indietro, però, non soddisferà i suoi successori, che si
sforzeranno di mostrare perché l’uomo pensa secondo tali categorie, ovvero tenteranno di dedurre le
categorie a partire da un principio superiore. L’ha fatto Fichte, quando era ancora vivo Kant, ma
Kant la sconfessato, dicendo che stava cadendo nella metafisica ed era infedele allo spirito critico.
Il secondo problema è sapere in che modo le categorie siano esse stesse unificate, cioè come
costituiscano un oggetto. A questo Kant risponde con la sua teoria della «coscienza pura» o
«appercezione trascendentale». Introduce nel suo sistema il cogito, non come verità prima d’ordine
metafisico che ci permetterebbe di mettere piede nell’esistenza, ma come ingranaggio logico della
critica della conoscenza. La coscienza pura si distingue da quella empirica, anche detta senso
interno, la quale appartiene alla sensibilità e percepisce i fenomeni interni nel tempo. Questa invece
è di ordine intellettuale e non ci fa conoscere nulla, ma è principio di unità. In primis unifica le
categorie poiché, essendo queste diverse maniere di collegare i fenomeni, la coscienza è, in
ciascuna, il principio attivo di questa sintesi. Inoltre, essa proietta la propria unità nell’oggetto,
facendo in modo che i diversi fenomeni dell’intuizione sensibile e le diverse categorie dell’intelletto
siano rapportate a uno stesso oggetto. In fondo, l’idea è semplicissima e assai caratteristica
dell’idealismo: un oggetto dev’essere uno; e poiché la sensibilità presenta soltanto dei fenomeni
molteplici, l’unità dell’oggetto conosciuto può provenire unicamente dalla coscienza nella quale i
fenomeni appaiono.
La terza questione è sapere come sia possibile l’applicazione delle categorie ai fenomeni.
Tra i due termini c’è infatti una differenza di natura, essendo l’uno sensibile e l’altro intellettuale.
Se categorie e fenomeni sono eterogenei, come possono incontrarsi? La risposta è data dalla teoria
dello «schematismo trascendentale». Lo «schema» è un prodotto dell’immaginazione, che fa da
intermediaria tra il piano sensibile e quello intellettuale. Tale «schema» non è una sensazione né un
concetto; non è neanche un’immagine, ma è un metodo per costruire un’immagine conformemente
a un concetto. E come si fa questa costruzione? Determinando il tempo, che è incluso in ogni
rappresentazione sensibile, secondo le esigenze di ogni categoria. Così lo schema della causalità è la

11
Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

successione irreversibile dei fenomeni nel tempo; lo schema della sostanza è, al contrario, la
permanenza di un fenomeno attraverso un certo lasso di tempo.
Ora, non resta che trarre le conseguenze della deduzione trascendentale. È abbastanza facile.
Da una parte è evidente che le categorie fondano i giudizi sintetici a priori della fisica. In
effetti, permettono di porre a priori le leggi generali della natura, perché la natura è costituita
dall’applicazione delle categorie ai fenomeni.
D’altra parte, però, è evidente anche che le categorie servono soltanto a unire i fenomeni,
perché senza i dati dell’intuizione sarebbero vuote e non ci farebbero conoscere nulla. «L’Analitica
dunque porta questo importante risultato di mostrare che l’intelletto non può fare altro a priori che
anticipare la forma di un’esperienza possibile, e che non potendo essere oggetto di esperienza ciò
che non è un fenomeno, l’intelletto non può mai oltrepassare i confini della sensibilità, entro i quali
– esclusivamente – ci vengono dati degli oggetti». In termini tecnici si dirà che l’uso delle categorie
può essere solo immanente e mai trascendentale.
Kant ammette che l’intelletto possa pensare un oggetto trascendente: è ciò che chiama un
«noùmeno», che se avessimo un’intuizione intellettuale sarebbe il suo oggetto proprio. Ma dato che
non ce l’abbiamo, questo oggetto è per noi strettamente inconoscibile. La cosa in sé, che la
sensibilità supponeva come fonte delle impressioni, ma che non era in grado di conoscere,
l’intelletto la può pensare come noùmeno, ma senza poterla conoscere a sua volta.

V
LA CRITICA DELLA RAGIONE
(DIALETTICA TRASCENDENTALE)
L’ultima parte della Critica dà il nome a tutta l’opera, perché le scienze non hanno bisogno
di una critica preliminare, mentre la metafisica può costituirsi come scienza soltanto per mezzo di
una critica della ragione in quanto potere di conoscere a priori. È tutto chiaro fin da subito: la
conoscenza possibile è limitata ai fenomeni, perché l’unica nostra intuizione è d’ordine sensibile e
perché i concetti dell’intelletto non forniscono di per sé stessi nessuna conoscenza, e se non
ricevono un contenuto dall’intuizione restano vuoti. Tuttavia, Kant consacra 250 pagina alla
dimostrazione in dettaglio dell’impossibilità di una metafisica dogmatica.
1. – Le idee
Anzitutto, che cos’è la ragione? «Ogni nostra conoscenza inizia dai sensi, da lì passa
all’intelletto per terminare nella ragione, al di sopra della quale non c’è altro di più elevato in noi
per elaborare la materia dell’intuizione e per ricondurla all’unità somma del pensiero».
La ragione è dunque la funzione che fornisce alle conoscenze provenienti dall’intelletto la
più alta unità possibile. Lo fa per mezzo di principi. In effetti, l’atto proprio della ragione è di
ragione. Ma in cosa consiste il ragionamento? A unire dei giudizi gli uni agli altri, secondo il
rapporto di principi a conseguenza. Così, la ragione non si rapporto all’esperienza, come fa
l’intelletto, bensì ai giudizi già affermati dall’intelletto. Il suo ruolo è di risalire di condizione in
condizione fino a giungere a un termine primo che è esso stesso «incondizionato» o assoluto. E
questo movimento verso l’unità è necessario, perché corrisponde a un bisogno della mente umana
che non può accontentarsi di conoscenze disperse.
I principi supremi, condizione di tutto il resto ed essi stessi incondizionati, Kant li chiama le
«idee» della ragione, per allusione alle idee di Platone. «Per idea intendo un concetto razionale
necessario, tale per cui nessun oggetto che gli corrisponda può essere dato dai sensi». Poiché ci
sono tre tipi di ragionamento – categorico, ipotetico e disgiuntivo – ci sono anche tre idee della

12
Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

ragione. La prima è l’unità assoluta del soggetto pensante, la seconda l’unità assoluta della serie dei
fenomeni, la terza l’unità assoluta di tutti gli oggetti del pensiero. In maniera più semplice, diciamo
che tutti i fenomeni dell’esperienza interna sono unificati dall’idea di anima, tutti quelli
dell’esperienza esterna sono unificati dall’idea di mondo, e le due sfere insieme sono unificate
dall’idea di Dio.
Va da sé che questi oggetti, l’anima, il mondo e Dio, sono solamente degli «oggetti in idea»,
costruiti dalla mente per soddisfarsi, ma l’esistenza dei quali non si può né dimostrare né conoscere.
Poiché sono trascendenti non possono provenire dall’esperienza, e noi non possiamo conoscere
alcunché al di fuori della sfera dell’esperienza possibile.
Attribuire a queste idee un’esistenza reale, o «in sé», Kant lo chiama «illusione
trascendentale». Lo scopo della Dialettica è precisamente di riconoscere e di denunciare
quest’illusione. Essa è però naturale alla mente umana, in quanto esprime la sua tendenza metafisica
e, così come quest’ultima, non può essere sradicata. «Noi abbiamo a che fare con un’illusione
naturale e inevitabile, che riposa su dei principi soggettivi da essa dati come oggettivi». «Vi è qui
un’illusione che ci è impossibile evitare, così come non è in nostro potere impedire che il mare ci
sembri più alto a largo che sulla riva, oppure come l’astronomo che, sebbene non si lasci ingannare
dall’apparenza, è incapace di fare a meno che la luna gli sembri più grande quando sorge».
La caratteristica propria della metafisica dogmatica è di lasciarsi sopraffare da
quest’illusione naturale. Lo fa quando attribuisce alle idee della ragione una realtà in sé, ma per ciò
stesso giunge a delle difficoltà insolubili che forniscono le armi migliori allo scetticismo. La critica,
dunque, scoprendo il carattere illusorio dei giudizi trascendenti, eliminerà al contempo il
dogmatismo e lo scetticismo.
L’anima è l’oggetto della psicologia razionale, il mondo l’oggetto della cosmologia
razionale, e Dio l’oggetto della teologia razionale. Kant esamina in successione queste tre parti della
metafisica wolffiana.

2. – Critica della psicologia razionale


La psicologia razionale dev’essere sviluppata interamente a priori. La base o, come dice
Kant, il «testo unico» è il cogito. Ma dal pensiero non si può trarre alcuna conoscenza riguardante il
soggetto pensante, e la psicologia che pretende di farlo commette dei «paralogismi».
Con la sua mania per le classificazioni, Kant distingue quattro paralogismi: il «paralogismo
della sostanzialità», che consiste nell’affermare l’anima come sostanza, il «paralogismo della
semplicità», che consiste nel porre l’anima come sostanza semplice, il «paralogismo della
personalità», che consiste nel porre l’anima come soggetto identico a sé stesso attraverso il tempo, e
infine il «paralogismo del rapporto esteriore», che consiste nel dichiarare dubbia l’esistenza degli
oggetti sensibili fuori di noi.
Evidentemente a essere preso di mira attraverso Wolff è Cartesio, il quale passa dal semplice
fenomeno del pensiero, il cogito, all’affermazione di una cosa pensante, la res cogitans, sostanza
spirituale la cui esistenza è più certa di quella dei corpi.
Studieremo soltanto il primo e il quarto paralogismo, perché il secondo e il terzo non si
distinguono punto dal primo.
Perché ci sarebbe paralogismo nel passaggio dal cogito alla res cogitans? Perché si
abuserebbe della categoria di sostanza. Questa categoria può servire certamente a legare i fenomeni;
è in questo senso che la chimica impiega il termine di sostanza per indicare un gruppo stabile di
fenomeni; non può essere impiegato, invece, per oltrepassare il piano dei fenomeni. L’anima, come
essere in sé, non può essere oggetto d’intuizione; quindi, il concetto di sostanza rimane vuoto. Il
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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

cogito non è un’intuizione intellettuale dell’essere pensante, come credeva Descartes, ma può
significare due cose: la coscienza empirica o la coscienza pura. Ora, la coscienza empirica è
soggetta alla forma del tempo, e coglia soltanto dei fenomeni successivi. La coscienza pura, d’altro
canto, è un puro soggetto logico o trascendentale, che garantisce l’unità della conoscenza degli
oggetti, ma non ci rivela nulla sulla natura del soggetto reale, com’è in sé stesso.
In questo modo Kant equipara lo spiritualismo e il materialismo come dottrine metafisiche.
L’anima resta un’idea che è impossibile sapere se esiste o no. Ma bisogna quantomeno sostenere
che la ragione è condotta necessariamente a quest’idea, e che non c’è nulla d’impossibile riguardo
alla sua esistenza.
La critica del quarto paralogismo è interessante perché permette di comprendere meglio
l’idealismo kantiano. Di questo abbiamo già incontrato la formula: un «idealismo trascendentale»
che implica un «realismo empirico». L’idealismo trascendentale consiste nel sostenere che lo spazio
e il tempo sono delle forme a priori della sensibilità, e che di conseguenza non possiamo mai
conoscere altro che i fenomeni. Il realismo empirico consiste nel sostenere che abbiamo una
conoscenza immediata degli oggetti sensibili fuori di noi. Qui Kant insiste sull’aspetto realista della
propria posizione.
Egli sottolinea innanzitutto che un tale realismo immediato è possibile solo entro i confini
dell’idealismo. Se gli oggetti sensibili esistessero in sé, come supposto dal realismo metafisico che
Kant chiama «realismo trascendentale», non potremmo averne coscienza. Anzi, non potremmo del
tutto conoscerli, perché «è evidente che non possiamo sentire fuori di noi, ma solo in noi».
Kant procede poi alla confutazione dell’idealismo problematico. Secondo Cartesio,
l’esperienza interna è l’unica immediata, mentre l’esistenza delle cose fuori di noi è dubbia fintanto
che non la si dimostra. Ora, Kant è sicuro di mostrare che l’esperienza interna essa stessa è possibile
soltanto se percepiamo immediatamente delle cose fuori di noi nello spazio. Ecco la prova.
L’esperienza interna si fa nel tempo. Ma per percepire una successione di fenomeni, bisogna avere
un punto di riferimento permanente. Questo elemento di permanenza, a sua volta, da dove
proviene? Non dall’esperienza interna, perché si fa nel tempo. Non resta altro, dunque, che
l’esperienza esterna, che si fa nello spazio.
La percezione immediata delle cose fuori di noi è quindi una condizione della coscienza che
abbiamo di noi stessi. Ad ogni modo, non si tratta che di fenomeni, cioè di semplici
rappresentazioni. La coscienza dei fenomeni nello spazio, però, che noi chiamiamo cose o oggetti
sensibili, è logicamente anteriore a quella dei fenomeni psicologici.

3. – Critica della cosmologia razionale


Qui la critica consiste nel mostrare che, se teniamo il mondo per reale in sé, e se speculiamo
su di esso, cadiamo in delle «antinomie» insolubili.
Un’antinomia è il contrasto da due proposizioni contradditorie, la tesi e l’antitesi, dimostrate
entrambe con degli argomenti ugualmente probanti. A seconda che si consideri il mondo dal punto
di vista della quantità, della qualità, della relazione o della modalità, si hanno quattro antinomie:

Prima tesi: il mondo è limitato nello spazio e nel tempo.


Antitesi: il mondo non è limitato nello spazio né nel tempo.
Seconda tesi: la materia è composta di elementi semplici e indivisibili
Antitesi: non esistono elementi semplici, e la materia è divisibile all’infinito.

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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

Terza tesi: nel mondo esiste una causalità libera.


Antitesi: non esiste la libertà, ma tutto accade nel mondo secondo delle leggi necessarie.
Quarta tesi: il mondo implica l’esistenza di un essere necessario.
Antitesi: non esiste un essere necessario che sia la causa del mondo.
Queste antinomie riguardano tutte il rapporto tra il finito e l’infinito, considerato sotto
diversi aspetti, e Kant mette in evidenza delle difficoltà reali. Prendiamo per esempio la questione
di sapere se il mondo ha avuto inizio oppure no. San Tommaso riteneva che non si possa dimostrare
che il mondo è limitato nel tempo, ma che neanche il contrario sia dimostrabile. Kant estende l’idea
e soprattutto la inasprisce: invece di dire che non si può dimostrare né la tesi né l’antitesi, dice che è
possibile dimostrare entrambe.
L’antinomia della ragion pura conduce evidentemente allo scetticismo, perché la mente resta
sospesa tra due tesi opposte. Come uscirne? Abbandonando l’attitudine metafisica e assumendo un
atteggiamento critico. La soluzione critica delle antinomie e la seguente. Prima di tutto, occorre
separare le prime due antinomie, che Kant definisce «matematiche», dalle altre due, che chiama
«dinamiche». Nelle antinomie matematiche, la tesi e l’antitesi sono false entrambe. Infatti, non
possiamo avere intuizione alcune del mondo nella sua totalità, perché le nostre intuizioni si fanno
nello spazio e nel tempo. Di conseguenza, è impossibile sapere se il mondo è finito o infinito. È
falso affermare l’uno o l’altro. Per noi, il mondo non né finito né infinito.
Nelle antinomie dinamiche, la tesi e l’antitesi sono vere entrambe: le tesi sono vere rispetto
alle cose in sé, le antitesi sono vere rispetto ai fenomeni. Grazie alla distinzione tra i due ordini di
realtà, si può ammettere al contempo la libertà nel mondo delle cose in sé, e la necessità nel mondo
dei fenomeni. Allo stesso modo, si può ammettere che il mondo dei fenomeni non esige un essere
necessario, ma che l’essere necessario esiste al di fuori di questo mondo.
Tuttavia, la soluzione delle due ultime antinomie non pretende di affermare l’esistenza della
libertà né quella di Dio. Kant si limita a dar loro uno spazio, mostrando che non sono impossibili.
Ma lo spazio rimane vuoto, perché la ragione non può conoscere nulla delle cose in sé.

4. – Critica della teologia razionale


La critica consiste nel mostrare che gli argomenti avanzati dalla metafisica classica per
dimostrare l’esistenza di Dio sono senza valore. Kant li riduce a tre e li chiama: la «prova
antologica», che procede a priori, la «prova cosmologica», fondata sul principio di causalità, e la
«prova fisico-teologica», basata sull’ordine del mondo.
La critica kantiana della prova ontologica è parallela alla critica tomista: è impossibile
trovare l’esistenza di un oggetto per semplice analisi del suo concetto. Il concetto rappresenta
un’essenza. Analizzandolo, si troveranno dei caratteri essenziali, ma l’esistenza è di un ordine altro
rispetto all’essenza, è la posizione 1 «in sé» dell’essenza con tutte le sue proprietà. Nel linguaggio
kantiano si dirà: «l’esistenza non è un predicato» oppure «ogni giudizio di esistenza è sintetico».
Ecco, quindi, lo sviluppo della confutazione.
Se di un soggetto si nega un predicato che gli è identico, ci si contraddice. Per esempio, il
giudizio «Dio non è onnipotente» è intrinsecamente contradditorio. Ma se si nega il soggetto
insieme al predicato «non c’è più contraddizione, perché non resta più nulla a cui applicare la
contraddizione». Così, il giudizio «Dio non esiste» non implica nessuna contraddizione. Allo stesso
modo possiamo anche dire – comparazione divenuta celebre – che non c’è differenza essenziale tra
cento talleri possibili e cento talleri reali; «cento talleri reali non contengono niente di più che cento
1
Nel senso di porre e di essere posto (ndt).
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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

talleri possibili», perché altrimenti il concetto di tallero non esprimerebbe lo stesso oggetto, il
tallero, ma un’altra cosa. La differenza risiede nel puro fatto che gli uni esistono, mentre gli altri no.
L’argomento ontologico, quindi, opera un passaggio illegittimo dall’ordine logico all’ordine reale.
Il filosofo cartesiano, che è convinto di aumentare la propria conoscenza attraverso un’operazione
logica su delle idee, assomiglia a un commerciante che crede di aumentare la propria ricchezza
aggiungendo degli zeri sul libro cassa.
L’argomento cosmologico consiste nel risalire dall’essere contingente all’essere necessario.
Ha un doppio difetto. Primo difetto: si basa su un abuso della categoria di causalità, identico
all’abuso della categoria di sostanza che è stato denunciato in psicologia. La categoria di causalità
ha senso solo nei limiti dell’esperienza possibile. Può servire a legare i fenomeni gli uni agli altri,
ma quando la si vuole impiegare per oltrepassare la sfera dell’esperienza possibile e giungere alla
conclusione dell’esistenza di un essere trascendente perde tutto il suo senso, rimane vuota. Secondo
difetto: l’argomento implica la prova ontologica che si voleva evitare. Infatti, come si sa che
l’essere necessario è Dio, il Dio trascendente del teismo che Kant chiama ens realissimum, l’Essere
perfetto o l’Essere supremo, anziché la materia o il Dio del panteismo? Se lo si afferma, è perché si
suppone che l’essere supremo sia necessario. Ma dire che l’Essere supremo esiste necessariamente
vuol dire ricadere nella prova ontologica.
La prova che Kant chiama fisico-teologica, ma che sarebbe più corretto chiamare teologica,
parte dall’ordine del mondo e si eleva a Dio per mezzo del principio di finalità. «Quest’argomento
merita sempre di essere menzionato con rispetto. È il più antico, il più chiaro, il più appropriato alla
ragione comune». Ma è senza valore. Prima di tutto perché impiega la categoria di finalità in un
senso trascendente. Poi perché giunge solo ad affermare un «architetto del mondo» un’intelligenza
organizzatrice, e non un creatore. Per passare dall’architetto al creatore bisogna ricorrere
surrettiziamente alla prova cosmologica.
In conclusione, per la ragione Dio resta un «ideale». La ragione non può dimostrarne
l’esistenza, ma neanche l’inesistenza. Come per l’anima e per la libertà, la critica fa uno spazio per
Dio, e lo lascia vuoto.
La critica della ragion pura speculativa ha terminato il suo compito di propedeutica alla
metafisica. Ha mostrato come è possibile la conoscenza a priori nella matematica e nella fisica, e
perché una tale conoscenza è impossibile in metafisica.
Ne consegue dunque che ogni specie di metafisica è condannata? Assolutamente no. La
critica ha chiuso definitivamente la via della metafisica «dogmatica», cioè di una metafisica al
tempo stesso razionalista e realista, che pretende di conoscere a priori l’essere in sé. Apre la strada,
però, a una metafisica nuova, idealista, che consisterà nell’enumerare e nello sviluppare i principi
puri della conoscenza. Perché le leggi del pensiero sono evidentemente le leggi dell’essere pensato
e, secondo l’idealismo, per noi non c’è altro essere oltre a questo. L’analisi della mente e delle sue
categorie è quindi una metafisica, la sola che l’idealismo possa ammettere.

IV
LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

La prima critica ha risposto alla domanda: che cosa possiamo sapere? La seconda deve
rispondere alla domanda: che cosa dobbiamo fare? Come la prima ha fondato la scienza, così la
seconda deve fondare la morale. E come la prima compiva una rivoluzione «copernicana»
mostrando che nella conoscenza non è la mente che si adegua alle cose, ma le cose che si adeguano
alla mente, così la seconda critica prosegue con questo spirito rivoluzionario mostrando che non è il
16
Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

bene che determina il dovere, ma il dovere che determina il bene, che non è la metafisica che fonda
la morale, bensì la morale che fonda la metafisica.
1. – Il dovere
La morale kantiana è una «morale del dovere». Fin qui i filosofi hanno fondato la morale
sull’idea di bene. Pensano che un’azione sia buona o cattiva nella misura in cui è conforme o meno
alla finalità naturale dell’uomo, la quale lo conduce verso un fine ultimo, un sommo bene. Ma
questa concezione, afferma Kant, invece di fondare la morale, la distrugge.
L’affermazione è facilmente comprensibile in riferimento alle morali empiriste, che
identificano il bene con il piacere o con l’interesse. Il punto di vista degli empiristi, infatti, è
puramente soggettivo, individuale: non se ne può trarre alcuna regola universale di condotta. Ed è
un punto di vista strettamente egoista, che non ha nulla di morale, e che è persino sovversivo nei
confronti di ogni moralità.
L’affermazione è invece meno chiara se la si riferisce alle morali razionali, quelle che
definiscono il bene come un assoluto trascendente rispetto al sensibile. Eppure, Kant ritiene che
anche queste ritornino a una ricerca della felicità, e che non siano in grado fondare un vero obbligo.
La ragione è che una tendenza verso un bene qualunque è essenzialmente egoista, perché per
definizione essa si dirige verso il suo bene, cioè verso un bene capace di soddisfarla. E che l’uomo
cerchi il proprio bene è un fatto, anzi persino una necessità naturale, ma precisamente per questo
motivo non è un obbligo morale.
Non è possibile quindi fondare la moralità di un atto sul suo oggetto, o come dice Kant sulla
sua «materia». La moralità di un atto dipende unicamente dalla sua «forma», cioè dall’intenzione
che lo anima, nella misura in cui è conforme al dovere dettato dalla ragione.
Per dimostrare la sua tesi, Kant procede per analisi. Partendo dal concetto di «buona
volontà», ne trova il fondamento ne dovere, fondando poi il dovere nell’autonomia della volontà.
Seguiamo i Fondamenti della metafisica dei costumi. Nella prima frase, divenuta celebre,
Kant pone una sorta di assioma tenuto per evidente dalla coscienza comune. «Di tutto ciò che è
possibile concepire nel mondo, e anche fuori di esso, nulla può essere considerato buono senza
restrizioni tranne la buona volontà».
Che cosa rende buona la volontà? Non sono le sue opere né i suoi successi, perché è buona
in sé stessa. È piuttosto la sua rettitudine, l’intenzione, cioè, di agire per dovere. In effetti, affinché
un atto sia buono, non è sufficiente che sia «conforme al dovere», o «legale», bisogna che sia
«compiuto per dovere». Per quanto sia materialmente conforme al dovere, quindi, se è compiuto
«per inclinazione» e non per dovere, è senza valore morale. Da ciò consegue che la purezza
d’intenzione si rivela nella lotta contro le tendenze naturali. Kant non nega che l’atto morale possa
andare nel senso delle inclinazioni. Dice anzi che è un dovere per l’uomo cercare la felicità, «perché
il fatto di non essere contenti del proprio stato, di essere compressi da numerose preoccupazioni e
da bisogni non soddisfatti potrebbe diventare facilmente una grande tentazione di mancare al
proprio dovere». Quindi il rigorismo di Kant non è assoluto, ma consiste unicamente in questo, che
l’azione è buona soltanto nella misura in cui è compiuta per puro rispetto del dovere, a esclusione di
ogni motivo ispirato dalla natura e dalla sensibilità. Così, non siamo certi che un atto perfetto sia
mai stato compiuto.
Quindi, dobbiamo fare riferimento da una parte al rispetto come principio soggettivo della
moralità, e d’altra parte al dovere come suo principio oggettivo.
Il rispetto è il solo sentimento morale, il solo motore che la morale kantiana ammetta. Non è
un’inclinazione, né un’avversione, perché non è in vista né di ricompensa né di castigo. È una
sottomissione della volontà alla legge, accompagnata dalla convinzione che si cresca tramite
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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

l’obbedienza. Con il rispetto si stabilisce un’armonia tra il piano razionale e il piano sensibile,
un’impregnazione della sensibilità con la ragione.
Il fondamento della moralità è però il dovere. Che cos’è il dovere? È una legge che emana a
priori dalla ragione e che s’impone da sé a ogni essere ragionevole. È una sorta di «fatto», nel senso
che non è possibile dedurlo da un principio superiore. È però un fatto razionale, factum rationis, che
per ciò stesso è oggettivo. Nella coscienza si traduce con «l’imperativo categorico».
L’imperativo categorico è un assoluto, valido per sé stesso. Mentre «l’imperativo ipotetico»
è solamente condizionale: «se vuoi questo, fai questo», regola di capacità o consiglio di prudenza,
l’imperativo categorico «dichiara l’azione oggettivamente necessaria in sé stessa senza relazione a
un fine qualunque». È un comando della moralità.
La sua formulazione è la seguente: «Agisci unicamente secondo quella massima che tu
possa erigere a legge universale». Una massima è una regola soggettiva dell’azione, per esempio:
«mentirò» o «non mentirò». Ora, così come un giudizio teorico è vero se è valido per tutti, allo
stesso modo una massima pratica è buona se è valida per ogni coscienza. Infatti, l’universalità è
l’opera propria della ragione, non è solamente il segno o il criterio della razionalità, ma la
costituisce. Una massima che possa essere eretta a legge universale è quindi razionale e oggettiva;
quella che non lo è resta soggettiva ed empirica. Ecco perché devo decidere di non mentire.
Da questa formula fondamentale, Kant deduce altre tre formule. «Agisci sempre come se la
massima della tua azione dovesse essere eretta a legge universale della natura». Questo va da sé,
perché le leggi della ragione costituiscono la natura. «Agisci sempre in modo tale da trattare sempre
l’umanità, in te o in altri, come un fine e mai come un mezzo». Qui si reintroduce nel kantismo
l’idea di fine, ma come espressione del dovere, non come fondamento. La formula significa
precisamente che l’uomo deve sottomettere la sua azione alla ragione, perché è la ragione a fare
l’umanità all’uomo. Trattare l’umanità come un mezzo sarebbe subordinare la ragione a un fine
estraneo. «Agisci sempre come se tu al tempo stesso legislatore e suddito nella repubblica delle
volontà libere e ragionevoli». L’influenza di Rousseau si fa sentire, ma trasposta dal piano sociale a
quello morale. Gli uomini che vivono moralmente formano una società perfetta, il cui principio è la
ragione alla quale ognuno di essi partecipa.
Quest’ultima formulazione introduce l’idea di autonomia, che è la chiave di volta della
morale kantiana. Il dovere non s’impone alla volontà dal di fuori, poiché emana dalla ragione,
costitutiva dell’uomo. Sottomettersi a una legge estranea è una «eteronomia» degradante,
incompatibile con la dignità della persona umana. Eppure, è su questo principio che tutte le morali
sono state fondate finora, dato che subordinano la volontà a qualche oggetto. Al contrario, quando
la volontà si sottomette al dovere resta indeterminata nei confronti di qualsiasi oggetto, dandosi da
sé la propria legge. La libertà consiste precisamente in questo.
Essere libero, vuol dire agire senza essere determinato da delle cause esterne, ma
determinando noi stessi la legge della nostra azione. Senza ancora rispondere alla domanda se
siamo realmente liberi, almeno possiamo affermare da ora in poi che libertà e moralità sono
identiche. E possiamo anche dedurre a priori il dovere dalla libertà, solo supponendo che l’uomo è
al tempo stesso ragione e sensibilità. Perché, se l’uomo non fosse che ragione, le sue azioni
sarebbero necessariamente e spontaneamente «sante», cioè allineate all’autonomia della volontà. Se
l’uomo non fosse che sensibilità, le sue azioni sarebbero necessariamente soggette a eteronomia.
Ma dato che egli è ragione e sensibilità insieme, la necessità razionale gli si impone sottoforma di
un dovere da compiere.
Con l’idea di libertà siamo giunti a toccare il limite di ogni filosofia pratica. Chiedersi come
la libertà sia possibile non ha alcun senso, perché la questione implica che la libertà abbia delle
condizioni, quando invece si definisce come causalità incondizionata. La libertà è quindi
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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

inspiegabile e incomprensibile, «ma quantomeno possiamo capire la sua incomprensibilità, il che è


tutto ciò che si può ragionevolmente pretendere da una filosofia che si sforzi di raggiungere i limiti
della ragione umana».

2. – I postulati della ragion pratica


Fin qui abbiamo seguito i Fondamenti della metafisica dei costumi. La Critica della ragion
pratica riprende le stesse idee, ma prolungandole in una teoria della fede, che ci resta da studiare.
Il dovere, essendo un assoluto che si impone da sé a ogni essere ragionevole, può servire da
fondamento per restituire delle tesi metafisiche che la ragione è incapace di dimostrare. Queste tesi
sono i «postulati della ragion pratica», e affermarle è un atto di «fede pratica».
Il termine di postulato calza perfettamente. Queste tesi sono infatti richieste dalla ragion
pratica perché sono delle condizioni della vita morale, ma non è possibile giustificarle dal punto di
vista teorico. La Critica della ragion pura ha mostrato che la mente umana non è in grado di
conoscere nulla delle realtà trascendenti i fenomeni, dato che l’intuizione intellettuale non esiste.
Nel suo progredire verso l’unità, essa forma necessariamente delle idee, ma ciò che viene così
rappresentato resta un «oggetto sottoforma di idea», e non può provare che una realtà «in sé» gli
corrisponde. La Critica della ragion pratica, allora, mostra che la realtà di questi oggetti deve
essere affermata.
Un tale giudizio di esistenza, fondato su un’esigenza della ragione pratica, a esclusione di
ogni motivo teorico, è un atto di fede. Non aumenta in nessun modo la nostra conoscenza. È
un’affermazione volontaria, libera, motivata dai vantaggi morali che essa comporta, «una libera
determinazione del nostro giudizio, a vantaggio della moralità». Non è forse azzardato affermare
qualcosa non perché si sa che esiste, ma perché si vuole che esista? Certamente. Un giudizio simile
è puramente soggettivo in tutti i casi, tranne che in questo. Perché qui il principio del giudizio non è
un’inclinazione, bensì il dovere. La coscienza morale non solamente può, ma deve affermare.
«L’uomo onesto può dire: voglio che ci sia un Dio… A ciò mi aggrappo fermamente, e sono delle
credenze che non mi lascio togliere; perché è il solo caso in cui il mio interesse, a cui non mi è
permesso di togliere nulla, determina inevitabilmente il mio giudizio». Così, sebbene sia libera,
l’affermazione è soggettiva, poiché ogni essere ragionevole ha il dovere di porla; è «valida
universalmente». La ragione pratica gode dunque di un primato o di una supremazia sulla ragione
teorica.
Ora, quali sono i postulati della ragion pratica? Il più delle volte Kant ne indica tre: «Questi
postulati sono quelli dell’immortalità, della libertà e dell’esistenza di Dio». La libertà, però, non
dev’essere messa sullo stesso piano degli altri due. Anzi, ci potremmo chiedere se essa sia
veramente un postulato, dato che coincide con la legge morale, la quale è un fatto assolutamente
certo. Si tratta di una questione dibattuta tra gli storici. Noi pensiamo che per Kant la libertà sia
effettivamente un postulato, dal momento che non si afferma tanto che la ragion pratica è
«autonoma», quanto piuttosto che è «autocrate», come dice talvolta Kant, nel senso che l’uomo è
capace di compiere degli atti da essa imperati; oppure, ma vuol dire la stessa cosa, [si può dire che è
un postulato] se si passa dal punto di vista trascendentale (quali siano i principi che fondano
logicamente la moralità) al punto di vista metafisico (se questi principi esistano realmente). Resta il
fatto, comunque, che la libertà è il primo postulato, perché è il fondamento degli altri due.
Che la libertà sia condizione della vita morale è stato dimostrato; si potrebbe persino dire
che un fatto è evidente, perché l’obbligo ha senso solo in relazione a dei soggetti liberi. Quindi per
poter vivere moralmente siamo obbligati a crederci liberi. Ma quest’affermazione non è forse
contraria alle conclusioni della prima Critica? Nient’affatto. La Critica della ragion pura
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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

distingueva il mondo dei fenomeni, o mondo sensibile, il quale è soggetto alla necessità delle leggi
che l’intelletto gli impone per percepirlo, e il mondo delle cose in sé, o mondo intelligibile, del
quale non sappiamo nulla se non che è il fondamento del mondo sensibile e che non è soggetto alle
nostre categorie. Quindi nulla impedisce che affermiamo la libertà nel mondo intelligibile.
In questo modo dobbiamo concludere che l’uomo è duplice. Come fenomeno, egli è un
elemento della natura, e le sue azioni sono strettamente determinate da delle cause. Come esse in sé,
egli è capace di determinare sé stesso all’azione, gode di una spontaneità e di un’iniziativa assolute,
può iniziare da sé stesso un’azione che nel mondo sensibile si traduce in una serie di fenomeni
concatenati. Un essere dotato di libertà Kant lo chiama causa noumenon, e questa parte dell’uomo,
o piuttosto questo suo fondo che gode della libertà, «carattere intelligibile».
Gli altri due postulati sono strettamente legati, perché riguardano entrambi la realizzazione
del sommo bene. Kant ha mostrato che a fondamento della morale non c’è il bene, ma il dovere.
Ora, l’ultimo momento della sua filosofia pratica consiste nel dimostrare che il dovere esige e
garantisce il sommo bene.
Che cos’è il sommo bene, in una prospettiva morale? Prima di tutto è la conformità perfetta
delle nostre intenzioni con il dovere, la perfezione della virtù, o santità. Ed è anche l’accordo tra
virtù e felicità, perché la virtù a meritarci la felicità. «La morale non è una dottrina che ci insegna in
che modo dobbiamo renderci felici, ma come dobbiamo renderci degni di essere felici». Connessi
al concetto di sommo bene esistono dunque questi due concetti. Il primo conduce a postulare
l’immortalità dell’anima, il secondo a postulare l’esistenza di Dio.
Kant ritiene impossibile che l’uomo raggiunga mai la santità. Questa, dice, «è una
perfezione di cui non è capace alcun essere ragionevole del mondo sensibile e in nessun momento
della sua esistenza». Ma poiché è richiesta tuttavia dalla ragion pratica, essa deve potersi ritrovare
come progresso all’infinito. A sua volta, un progresso indefinito della persona «è ciò che si chiama
immortalità dell’anima». «Quindi il sommo bene è praticamente possibile solo nella supposizione
dell’immortalità dell’anima; questa, di conseguenza, essendo indissolubilmente legata alla legge
morale, è un postulato della ragion pratica».
D’altra parte, la virtù ci rende degni di essere felici, «essendo la felicità lo stato di un essere
ragionevole al quale, nel mondo, accade tutto secondo il proprio desiderio e la propria volontà». Ma
l’uomo non è in grado di garantirsi la felicità tramite la virtù, perché non vi è alcun rapporto diretto
tra la purezza d’intenzione e gli avvenimenti del mondo. L’uomo fa parte del mondo, dipende dalle
leggi di natura, non può con le proprie forze mettere d’accordo la natura con le esigenze del mondo.
La coscienza postula dunque «l’esistenza di una causa di tutta la natura, distinta da essa e
contenente il principio dell’armonia tra felicità e moralità». Questa causa dev’essere capace di agire
secondo la rappresentazione della legge morale; essa è dunque dotata di intelligenza e di volontà; è
«l’autore della natura», è Dio. Così, il sommo bene è possibile solo a condizione che Dio esista, e
dato che abbiamo il dovere di realizzarlo, siamo anche moralmente obbligati ad affermare
l’esistenza di Dio.
Quest’atto di fede è l’ultimo passo nella morale e il primo passo nella religione.
Per terminare, la cosa migliore da fare è citare semplicemente la frase celebre che chiude la
Critica della ragion pratica. Se ne cogliamo le implicazioni, vediamo che in essa è riassunto
mirabilmente tutto il kantismo, e al tempo stesso è espressa la personalità di Kant. «Due cose
riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più
a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di
me».

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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

VII
CONCLUSIONE

Se Cartesio viene definito il padre della filosofia moderna, Kant bisogna definirlo il suo
pedagogo. Il padre dà la vita al bambino, ma il pedagogo lo educa, e questo è proprio il ruolo di
Kant nella storia. Da ormai un secolo e mezzo, nessun filosofo può vantarsi di essere totalmente
indipendente dal suo insegnamento, che è diventato poco a poco la scolastica del mondo moderno,
dato che è lui a essere trasmesso nelle scuole e a formare le menti.
1. – L’influenza del kantismo
Conviene prima di tutto indicare quale è stata l’influenza positiva di Kant, ovvero quali sono
le principali correnti di idee che traggono origine da lui.
Nella misura in cui professa ancora un realismo metafisico, Kant è fermento di
agnosticismo, perché ammette l’esistenza di realtà trascendenti. Poco importa il nome che si dà
loro, sia esso quello di cose in sé, noumeni, o mondo intelligibile. Poco importa che questo realismo
si coniughi male con i principi generali della critica. Il fatto è che Kant giudica necessario porre
dietro i fenomeni qualcosa che li fondi, ma subito la critica dimostra che le cose in sé sono
inconoscibili perché non abbiamo l’intuizione intellettuale. È kantiana, quindi, l’idea che l’uomo sia
radicalmente incapace di conoscere l’essere com’è in sé stesso, o più in generale qualsiasi realtà
trascendente l’esperienza sensibile, sebbene per una ragione o per l’altra ne debba affermare
l’esistenza.
Parlare ora di fenomenismo e di positivismo vuol dire pressappoco la stessa cosa con altre
parole. Il fenomenismo consiste nel limitare la conoscenza possibile ai fenomeni. È esattamente ciò
che fa Kant. Ma se prolunghiamo un po’ quest’idea, si arriva alla conclusione che, essendo le cose
in sé stesse inconoscibili, per noi non esistono. Per noi, nulla esiste all’infuori dei fenomeni. Quanto
al positivismo, sarebbe molto difficile distinguerlo dal fenomenismo, in quanto non fa che applicare
l’idea precedente alla conoscenza scientifica. Finisce quindi per sostenere che l’unica scienza valida
è quella dei fenomeni, scienza che non solo si fonda sull’esperienza, ma che si fa anche un dovere
di non superarla, neanche minimamente. Le leggi della natura che la scienza scopre sono esse stesse
dei fenomeni.
L’idealismo è senza dubbio la parte più importante dell’eredità kantiana. Esso tra origine dal
fenomenismo, ma lo supera e fa opera di filosofia nel cercare di spiegare il mondo così come ci è
dato, nelle sue leggi e persino nella sua esistenza. Si tratta di una corrente di pensiero assai
complessa. Riconduciamola a due tendenze.
L’idealismo più conforme all’ortodossia kantiana è l’idealismo critico, che assorbe la
metafisica nella critica e che limita la propria ricerca alla scoperta, tramite analisi riflessiva, delle
leggi che governano la mente che fa scienza. Dato che sono le leggi del pensiero a costituire l’essere
pensato, e dato che nessun altro oggetto è concepibile, va da sé che scoprendo le leggi del pensiero
scientifico si trovino per il fatto stesso le leggi dell’essere.
L’idealismo sistematico, invece, è stato formalmente rigettato da Kant; cionondimeno, è
figlio del suo pensiero, perché Kant prendeva le categorie dell’intelletto come un fatto al di là del
quale non è possibile risalire. Ma veramente non è possibile? Se si riuscisse a dedurre le categorie
da un principio superiore, o a costruirle a partire da una di esse, si riuscirebbero a spiegare anche le
leggi dell’essere. In questo modo si restituirà una metafisica di tipo razionalista all’interno
dell’idealismo.

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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Kant

Il primato della ragion pratica sulla ragione teorica è anch’esso una tesi centrale della
filosofia id Kant, ed è all’origine del volontarismo, del fideismo e del pragmatismo. La volontà è il
solo principio che rende possibile l’affermazione delle realtà trascendenti il piano sensibile, perché
l’intelligenza è priva dell’intuizione che le permetterebbe di conoscerle e perché la ragione non è
capace di dimostrarle. La metafisica, pertanto, dipende unicamente dalla fede, la quale è un moto
cieco del cuore. È sufficiente estende un poco quest’idea per sfociare nel pragmatismo, che consiste
nel sostenere che, in ogni ambito, anche scientifico, una qualunque idea, dal momento che
oltrepassa anche di poco l’esperienza immediata, può essere verificata solo tramite le sue
conseguenze pratica, tramite l’esito dell’azione che la assume come principio e che la mette alla
prova. L’introduzione di questi temi kantiani nella teologia cattolica ha dato luogo al movimento
conosciuto col nome di modernismo.
Nell’ambito morale, infine, Kant è all’origine del formalismo. Non c’è molto da aggiungere
su questo punto, visto che è la dottrina stessa di Kant. Ridurre la moralità alla pura intenzione di
conformarsi al dovere emanato dalla ragione, o più in generale, ridurre la dignità dell’uomo alla sua
autonomia; parallelamente, condannare ogni morale fondata sull’amore per il bene e giudicare
intrinsecamente cattiva la sottomissione del volere a una legge che non è stata scelta liberamente,
sono questi dei temi generali che verranno sfruttati da ogni filosofia moderna.
2. – Le difficoltà del kantismo
Victor Cousin, e tutta la Scuola eclettica a lui fedele, credevano che le due Critiche di Kant
si contradicessero, dal momento che la seconda Critica ristabiliva ciò che la prima aveva distrutto.
Si tratta di un’interpretazione completamente falsa. Non c’è la minima contraddizione tra le due
Critiche, perché non si situano allo stesso punto di vista
3. – Quadro della filosofia post-kantiana
Asdasd

Tratto da : Roger Verneaux, Histoire de la philosophie moderne, pp. 52-65, 196818, Paris, Beauchesne, trad. S. Cansella

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