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CANTO III

Ci troviamo nell’anti purgatorio, tra la spiaggia e la prima balza. Qui


vengono puniti i negligenti a pentirsi e i morti scomunicati. La loro pena è di
dovere camminare tra le rocce, e di attendere nell’antipurgatorio un tempo pari
a trenta volte gli anni trascorsi sulla terra in stato di scomunica prima di
potere accedere al Purgatorio.
- Vv. 1-9: Il canto inizia con Dante e Virgilio, che restano indietro rispetto alle
anime che corrono verso la montagna. Dante si stringe a Virgilio, rendendosi
conto che senza di lui non sarebbe potuto arrivare da nessuna parte. Virgilio si
mostra turbato da un rimorso.
- Vv. 10-21: in questi versi Dante fa delle constatazioni sull’ambiente
circostante, descrivendo il sole fiammeggiante e egli stesso che blocca i raggi
con il proprio corpo. A quel punto, Dante vide l’ombra solo davanti a sé
e, spaventato, si voltò per vedere se Virgilio fosse ancora con lui.
- Vv. 22-27: Virgilio chiese a Dante perché fosse così diffidente e se avesse dei
dubbi riguardo il suo ruolo di guida. Spiega poi a Dante che il suo corpo è
sepolto a Napoli, perché vi fu trasferito da Brindisi. Virgilio, infatti, era
morto nel 19 a.C. a Brindisi, mentre stava cercando di raggiungere la Grecia.
Augusto ordinò, però, che le sue spoglie venissero portate a Napoli.
- Vv. 28-33: Virgilio afferma che Dante non deve stupirsi che l’anima di Virgilio
non proietti ombra, proprio come non deve stupirsi per il fatto che le sfere celesti
non impediscono il passaggio dei raggi. Inoltre, dice che il potere divino fa sì che
le anime soffrano pene fisiche, ma non vuole svelare in che modo questo avvenga.
- Vv. 34-45: Virgilio continua il suo discorso, dicendo che chi spera di
conoscere tutto solo con la ragione, è da definirsi pazzo. Continua
dicendo che, se gli esseri umani fossero stati in grado di comprendere tutto, non
ci sarebbe stato bisogno dell’incarnazione di Cristo. Molti uomini hanno
cercato di conoscere queste verità, e adesso questo desiderio gli viene
inflitto come pena eterna, come per Aristotele e Platone.
- Vv. 46-60: Dante e Virgilio arrivano alle pendici del monte. Il monte è
molto ripido, tant’è che Dante afferma che anche se avesse avuto delle gambe
agili, non sarebbero comunque servite, e che la parte tra Lerici e Turbia, a
confronto con il monte, è una scala comoda e larga. Così, cercando di
capire quale sentiero fosse meno ripido, ecco che da sinistra arrivano le
anime, che avanzano molto lentamente. Perciò, la prima impressione che
Dante ha delle anime purganti, è di lentezza e passività. Noi sappiamo che
comunque, nell’antichità, tutti i movimenti verso sinistra o verso il basso
avevano associazioni negative, proprio come le anime purganti che vengono
da sinistra; mentre i movimenti verso destra e verso l’alto avevano associazioni
positive.
- Vv. 61-72: poiché i due erano molto dubbiosi su quale strada prendere, Dante
dice a Virgilio che le anime sapranno sicuramente aiutarli. Quando
raggiusero le anime, queste si avvicinarono tutte alle rocce della costa e
guardavano i due personaggi con atteggiamento dubbioso. In questi versi
abbiamo quasi un’inversione di ruoli, perché Dante invita Virgilio a guardare
verso l’alto, quindi è l’allievo che dà istruzioni al maestro.
- Vv.73-78: Virgilio chiese alle anime di aiutarli e dire in quale parte la
montagna fosse meno ripida, così da poterci salire.
- Vv. 79-87: in questi versi Dante adotta una similitudine. Infatti afferma che,
come le pecore, che quando una inizia a muoversi le altre la seguono,
così facevano le anime. Un’altra impressione che Dante ha delle anime è che
siano piene di contegno. Inoltre, Dante mette in risalto l’umiltà e la fede di
questo gregge, che si contrappone alla presunzione di Manfredi.
- Vv. 88-99: non appena le anime si accorsero che davanti a Dante vi era la
sua ombra, si allontanarono preoccupate. A quel punto intervenne
Virgilio, che spiegò loro che il corpo di Dante fosse ancora in vita ed era
per tale motivo che la luce per terra si interrompeva. Concluse dicendo che
possono tranquillizzarsi, perché Dante deve superare la montagna per ordine
divino.
- Vv. 100-102: allora le anime, dicendo a Dante e Virgilio che stavano procedendo
nella via opposta, li invitano a seguirle.
- Vv. 103-111: un’anima si presenta dinanzi a Dante e Virgilio, e chiede a
Dante se lo avesse mai visto sulla terra, e quindi se sapesse chi fosse. Dante lo
descrive fisicamente, presentandocelo come biondo e bello e di nobile
aspetto, e con un taglio in un sopracciglio. Una volta che negò di conoscerlo,
l’anima mostra una ferita sulla parte superiore del petto. Chi parla è
Manfredi, un ghibellino morto scomunicato e tardo a pentirsi. Le due ferite
potrebbero avere valori allegorici. La prima, quella sul sopracciglio, potrebbe
simboleggiare la superbia abbattuta. La seconda, quella sul petto, potrebbe
rifarsi alla ferita aperta nel fianco di Cristo. Inoltre, la figura di Manfredi si
mostra in opposizione a un personaggio dell’Eneide di Virgilio: Deifobo.
Infatti mentre Deifobo, cerca di nascondere le sue ferite per non essere
riconosciuto, Manfredi è ansioso di mostrare le ferite sul suo corpo per potere
essere riconosciuto.
- Manfredi: era figlio illegittimo di Federico II, e dunque nipote
dell’imperatore Enrico VI e di Costanza di Sicilia. Manfredi aveva anche
una figlia, Costanza, che si era sposata con Pietro III d’Aragona. Alla morte del
padre e alla morte di Corradino, figlio del fratello Corrado, Manfredi divenne
reggente della Sicilia. Nel 1258, fu poi incoronato re. Il Papa
Alessandro IV si oppose e lo scomunicò. La corona fu, così, offerta a Luigi IX
di Francia, che però rifiutò. A quel punto salì al trono Carlo d’Angiò, che
mosse guerra a Manfredi e lo sconfisse nella battaglia di Benevento nel
1266.
- Vv. 112-117: allora a quel punto l’anima si presenta. Egli è Manfredi. Lui si
presenta come nipote dell’imperatrice Costanza e chiede a Dante che, una
volta ritornato sulla terra, vada dalla figlia Costanza, e le dica la verità sulla sua
condizione ultraterrena, quindi che è in Purgatorio. Infatti, si pensava che tutti
coloro che fossero morti scomunicati sarebbero andati all’Inferno, per questo
Manfredi vuole che Dante dica alla sua famiglia che è stato salvato da Dio e che
quindi è in Purgatorio. Inoltre, in questi versi, Manfredi si presenta come nipote
di Costanza, sua nonna paterna e non come figlio di Federico II. Dante ha
preso in prestito questa tattica da Polinice, personaggio di un poema classico,
che quando gli fu chiesto dal re di Argo di presentarsi, lui preferì identificarsi
come figlio della madre Giocasta, e omettere il nome del padre Edipo.
- Vv. 118-123: Manfredi dice che dopo che fu ferito, si rivolse a Dio. Infatti
sappiamo che Manfredi, era anche stato accusato di diversi omicidi, di
conseguenza non era di certo possibile che venisse collocato in paradiso. Viene
collocato in Purgatorio, quindi prossimo alla salvezza, perché in
punto di morte si rivolse a Dio, che è sempre disposto a perdonare. Lo stesso
Manfredi afferma che i suoi peccati furono grandi, ma che fu comunque
perdonato da Dio.
- Vv. 124-132: in questi versi Manfredi afferma che il vescovo di Cosenza, che
era stato reclutato da Papa Clemente IV nella guerra contro i ghibellini guidati da
Manfredi, fece esumare il suo cadavere, sepolto sotto un ammasso di
pietre gettate dai guelfi addosso al suo cadavere dopo la battaglia. Infatti
Carlo d’Angiò aveva fatto seppellire il cadavere di Manfredi sotto il ponte di
Benevento, però il vescovo aveva poi ordinato che il cadavere di Manfredi
venisse nuovamente gettato nel mondo, ed esposto sulla riva del
fiume Verde, a candele spente, perché così si usava per chi moriva
scomunicato.
- Vv. 133-141: Manfredi conclude dicendo che, nonostante la scomunica, lui non
perde la speranza di potersi salvare. Però afferma anche che chi muore
scomunicato dalla chiesa, nonostante si penta, dovrà comunque attendere
nell’antipurgatorio trent’anni per ogni anno che ha trascorso come
scomunicato, a meno che gli uomini sulla terra non preghino per velocizzare
questo periodo.
- Vv. 142-145: nei versi conclusivi Manfredi chiede a Dante di rivelare tutto
quanto detto alla figlia Costanza, affinché lei, pregando, posso velocizzare
la sua permanenza nell’Anti Purgatorio.

PURGATORIO-VI CANTO
Ci troviamo nella seconda balza dell’antipurgatorio, dove si trovano le anime
dei negligenti morti per violenza che si sono pentiti in fin di vita e che, per
potere essere ammessi nel Purgatorio, sono costrette ad attendere
nell’antipurgatorio tanto tempo quanto vissero nel peccato. Questo canto
si può suddividere in quattro momenti:
- Vi è un primo momento narrativo: che va dal primo verso al 24º, in cui
Dante racconta l’incontro con diverse anime purganti
- Vi è un secondo momento di carattere argomentativo: in cui il poeta
dialoga con Virgilio riguardo l’utilità delle preghiere ai defunti
- Un terzo momento narrativo: dove Dante e Virgilio incontrano Sordello.
- L’ultimo momento, di natura argomentativa: in cui Dante pronuncia
un’invettiva sulla decadenza politica italiana.
Questo sesto canto, come i sesti di ogni cantica, è dedicato al tema politico.
All’inizio del canto Dante viene attorniato dalle anime di coloro che sono stati uccisi
violentemente. Queste anime chiedono a Dante, una volta che sarà tornato nel
mondo dei vivi, di ottenere preghiere, in modo da abbreviare le loro pene nel
purgatorio. Nella seconda parte Dante, oltrepassata la folla, si trova solo con Virgilio
e viene colto da un dubbio. Si chiede, infatti, se le preghiere possano davvero
accelerare il cammino verso la salvezza. Virgilio cerca di dargli una risposta,
dicendogli che questa questione sarà chiarita da Beatrice. Nella terza parte
appare ai due uno spirito, e Virgilio gli chiede informazioni sul cammino. Prima di
rispondere, l’anima vuole sapere chi siano i due e Virgilio dice di essere di Mantova.
Una volta sentita la provenienza di Virgilio, ecco che l’anima lo abbraccia dicendo di
essere il suo concittadino Sordello. A vedere questa dimostrazione di affetto, e così
inizia l’ultimo momento del canto, Dante impartisce una feroce invettiva contro
la decadenza dell’Italia, abbandonata dall’imperatore e in balia dello strapotere
della chiesa. In una seconda invettiva conclusiva, Dante rivolge la sua invettiva
alla città di Firenze, e in modo ironico riporta questa situazione.

- Vv. 1-9: Il canto comincia con un’immagine, che ha la funzione di similitudine.


Infatti viene presentato l’esempio di un vincitore al gioco dei dadi. Quando
due si confrontano al gioco dei dadi, colui che perde rimane triste, ripetendo da
solo i tiri del dado e impara dagli errori commessi. Tutta la gente che ha
partecipato alla gara, va verso il vincitore, ma il vincitore non si ferma a
parlare con loro, ma si allontana da loro e porge le mani a qualche membro della
folla.
- Vv. 10-15: Dante si trova proprio nelle stesse condizioni del vincitore,
che deve muoversi qua e là attraverso la folla di anime. Tra queste anime
riconosce l’Aretino, ovvero Benincasa da Laterina, che fu ucciso da Ghino
di Tacco, e un altro aretino che annegò mentre correva in un inseguimento.
Benincasa da Laterina era un giudice, che aveva fatto condannare a morte
un fratello e uno zio di un brigante senese, Ghino di Tacco, da cui fu poi ucciso.
L’altro aretino, invece, è Guccio de’ Tarlati di Pietramala, capo dei
ghibellini di Arezzo, sulla cui morte si avanzano varie ipotesi. La prima è
che egli trovò la morte quando, in seguito all’attacco dei Bostoli, fu
trascinato da un cavallo nel fiume Arno, dove annegò. Altri dicono che
trovò la morte mentre inseguiva il nemico durante quello stesso
scontro. Altri ancora avanzano l’ipotesi secondo cui Guccio morì nel 1289,
durante la rotta di Campaldino.
- Vv 16-24: Dante scorge anche, nell’atto di pregare, Federigo Novello e
l’uomo pisano che fece apparire buono e forte Marzucco. Federigo Novello
apparteneva alla famiglia dei conti del Casentino, e fu ucciso presso Bibbiena
da un guelfo. Il secondo è invece Gano degli Scorniciani, un pisano, che
venne assassinato dal conte Ugolino nel corso delle lotte tra guelfi e
ghibellini per il potere su Pisa. Marzucco è invece il padre di Gano, che fu
uno tra i più influenti uomini di Pisa, che sopportò con dignità la morte
del figlio rinunciando alla vendetta. Gli antichi commentatori portano come
prova della forza morale di Marzucco due aneddoti. Nel primo si racconta che
Marzucco stupì Ugolino per la calma con cui chiese che il corpo del figlio
venisse sepolto e quindi fosse tolto dalla piazza. Nel secondo aneddoto,
Marzucco dimostrò di sapere perdonare, quando decise di non vendicarsi
per l’omicidio del figlio. Vide anche l’anima del conte Orso degli Alberti di
Mangona, che venne ucciso dal cugino Alberto per vendicare il padre
Alessandro. Presenta anche Pier de la Broccia, un umile chirurgo, che venne
impiccato, vittima dell’odio della regina Maria di Brabante (moglie del re
Filippo di Francia), che insieme ad altri cortigiani lo aveva accusato di
avere avvelenato un figlio del re. Qui si conclude la prima sequenza del
canto, con una sorta di ammonimento da parte di Dante alla regina. Infatti
Dante dice che, fino a che sarà ancora in vita, la Regina Maria deve cercare di
non finire nell’Inferno.
- Vv 25-33: non appena Dante si liberò da tutte quelle anime che chiedevano a
Dante di far sì che gli uomini pregassero per loro sulla terra, così da accelerare la
loro beatitudine, Dante si rivolge a Virgilio dicendo che lui affermi
esplicitamente in un passo (si riferisce a un passo del sesto libro dell’Eneide),
che le preghiere non possano fare cambiare le decisioni di Dio; ma
intanto le anime pregano proprio per questo fine. Quindi vuole chiedere se
la speranza delle anime sia vana o se le parole di Virgilio abbiano un altro
significato.
- Vv 34-42: Virgilio spiega che il suo testo è chiaro e che la speranza di queste
anime non è ingannevole. Continua dicendo che nel passo in cui lui affermò
questo concetto, non era possibile correggere i peccati attraverso la preghiera,
perché nel paganesimo la preghiera non era rivolta a Dio. Virgilio
nell’Eneide aveva detto che le preghiere non possono modificare le
decisioni divine, però tutto ciò valeva per il mondo pagano, non per
quello cristiano. Anche se comunque, chiunque prega per le anime del
purgatorio, non può modificare le decisioni prese da Dio, ma regalare a
quest’ultimo una gioia simile a quella che viene offerta a Dio dagli spiriti
grazie al loro percorso di purificazione. Quindi Virgilio vuole mettere in luce il
tema e l’importanza della preghiera. La preghiera è uno dei temi
fondamentali di tutto il purgatorio perché, da una parte la forza dell’amore
umano contenuta nelle preghiere è capace di piegare il giudizio di Dio, ma è
anche vero che se ciò è possibile lo è solo perché Dio stesso lo consente.
- Vv 43-48: Virgilio introduce la parte conclusiva del suo discorso con l’avverbio
“veramente”, che però non ha tale significato. Infatti è un latinismo, viene da
verum+tamen, che siginifica tuttavia. Virgilio afferma che questo problema sarà
chiarito a Dante da Beatrice, una volta arrivati in cima al monte.
- Vv 49-57: non appena Dante sente il nome di Beatrice viene preso dalla fretta
di accelerare il passo, ed esorta Virgilio ad andare più velocemente, poiché il
sole sta tramontando ed è quasi sera. Virgilio risponde a Dante che andranno
avanti finché durerà la luce del giorno.
- Vv 58: Sordello era un poeta, nativo di Mantova, che ha vissuto nelle corti
della Provenza, svolgendo la sua attività di poeta trobadorico. I trovatori si
occupavano di poesie amorose, che venivano recitate e cantate. È stato un
famosissimo poeta, che ha scritto tante liriche provenzali, ma anche una satira
di carattere politico (forse per questi viene collocato nel sesto canto). “In
compianto della morte di Sir Blacaz”. Sir Blacaz era un altro poeta
provenzale. In questa satira, Sordello incita i poeti provenzali a cibarsi del
cuore di Sir Blacaz, per avere la sua benevolenza d’animo.
- Vv. 58-66: l’anima che va incontro a Dante e Virgilio si mostra composta e piena
di dignità. L’anima è silenziosa, e ha lo sguardo di chi guarda come fa il
Leone quando è immobile, pronto a ghermire la preda.
- Vv. 67-75: Virgilio chiese all’anima la strada da prendere, ma quella non
risponde, ma chiede a Virgilio chi siano e a quale paese appartengano. Virgilio
rispose che proveniva da Mantova. Appena l’anima sente il nome della città,
Sordello abbraccia Virgilio, affermando di essere suo concittadino.
- Vv. 76-78: inizia L’invettiva all’Italia. In questa terzina, Dante si rivolge
direttamente all’Italia, che si è ridotta in schiavitù ed è abitata dal dolore. La
definisce come una nave senza timoniere, paragonandola non a una donna di
provincia (come venivano chiamate le donne perbene nell’Antica Roma), ma
paragonandola a una prostituta.
- Vv. 79-90: Dante sottolinea come l’anima di Sordello si mostrò subito contenta
quando sentì parlare della sua città, mentre quelli che vivono ancora sulla
terra passano il loro tempo a litigare e lottare. Continua, poi, chiedendo
all’Italia di cercare se esiste una città italiana che goda di pace. Chiama
addirittura in causa Giustiniano, chiedendosi a che cosa è servito che abbia
promulgato delle leggi, se poi non c’è nessuno a farle rispettare.
- Vv. 91-93: comincia a rivolgere la sua invettiva contro le persone di chiesa,
il clero e la stessa chiesa. Questi dovrebbero concedere che Cesare possa
sedere sul loro trono. Cesare diventa antonomasia del potere imperiale,
di cui la chiesa si è appropriata. (Dante vorrebbe nuovamente la Distinzione
del potere imperiale da quello ecclesiastico). La chiesa non deve occuparsi
dell’impero e il Papa non deve comportarsi come regnante. Dante
individua negli uomini della chiesa un fattore che ha contribuito alla
rovina dell’Italia.
- Vv. 94-96: metafora del cavallo. Dal momento in cui la chiesa ha iniziato a
esercitare il potere imperiale, il cavallo si è imbizzarrito. Questa confusione
di ruoli è all’origine dell’infelicità degli uomini.
- Vv. 97-102: Dante si riferisce all’imperatore Alberto d’Austria, figlio di
Rodolfo d’Asburgo. Dante afferma che spera che cada un giusto giudizio
dal cielo sulla famiglia d’Asburgo, che deteneva il potere, e che sia un
castigo nuovo, ma evidente e con chiaro significato. Infatti la punizione deve
essere così significativa, che il successore di Alberto deve averne
timore. Probabilmente questo è un anatema che Dante lancia ad Alberto,
perché suo figlio Rodolfo, nonché suo successore, morì precocemente. 
- Vv. 103-105: Dante afferma che Alberto I e suo padre hanno permesso
che l’Italia andasse in rovina, perché si sono occupati solo dei loro
interessi in Germania.
- Vv. 106-108: Dante si rivolge direttamente ad Alberto I, chiedendogli di
andare a vedere le quattro famiglie che al meglio esprimono l’idea che le lotte
civili in Italia siano eccessivamente presenti, ovvero i ghibellini Montecchi
(Verona) e i guelfi Ceppelletti (Cremona), i guelfi Monaldi e i ghibellini
Filippeschi (entrambi di Orvieto), le prime due famiglie erano già state
sconfitte, le altre due combattevano ancora tra di loro. Per quanto riguarda
Montecchi e Cappelletti, sono i medesimi cantati da Shakespeare, solo che,
mentre Shakespeare li presenta entrambi di Verona, per Dante solo i Montecchi
erano veronesi. Ricordiamo, invece, che i Filippeschi tentarono di
sconfiggere i Monaldi, ma fallirono e quindi vennero banditi da
Orvieto nel 1312. 
- Vv. 109-114: Dante invita, ancora, Alberto I a visitare i suoi nobili e curare i
loro danni; così da accorgersi di come i conti di Santafiora, ovvero gli
Aldobrandeschi, sono decaduti, in quanto il comune di Siena aveva tolto loro
gran parte dei territori. Uno degli Aldobrandeschi viene presentato da Dante
nell’undicesimo canto del purgatorio (Omberto Aldobrandesco). Continua
incitandolo a vedere la città di Roma, che dovrebbe essere la capitale
dell’impero, e che adesso è vedova e sola, in quanto in mano al potere
ecclesiastico, e per questo motivo la città chiede dove sia Cesare (sempre
antonomasia del potere imperiale).
- Vv. 115-117: Dante dice, totalmente ironicamente, che la gente in Italia si
ama, e che se l’imperatore non è smosso dalla pietà che dovrebbe avere degli
italiani, dovrebbe sentire quello che gli italiani dicono di lui, che lo
dovrebbe solo fare vergognare. 
- Vv. 118-123: Dante arriva a rivolgere la sua invettiva anche contro Giove,
che equivale a Dio (scandaloso). Il poeta chiede appunto a Gesù, che è morto in
croce per noi, se in questo momento i suoi occhi siano rivolti altrove.
Nonostante il poeta si renda conto che, mettendo in discussione la giustizia
divina, sta oltrepassando i limiti del lecito (infatti dice “se licito mi è”), Dante
vuole comunque farlo. Qui L’invettiva raggiunge l’apice perché, dopo essersi
riferito all’Italia, al clero, e all’imperatore, Dante si rivolge addirittura a Dio,
mettendo in dubbio che non si sia accorto di ciò che stava accadendo.
Continua, chiedendo a Cristo se sta facendo ciò perché sta preparando per
gli uomini un bene futuro che non può essere da noi compreso.
- Vv. 124-126: negli ultimi versi dell’invettiva all’Italia, Dante afferma come tutte
le città italiane, in assenza dell’imperatore, siano dominate da tiranni
locali, e qualsiasi villano che si fa avanti diventa un Marcello. Sulla
figura di Marcello vi è un ampio dibattito. Infatti a Roma ci furono tre consoli,
nello stesso periodo, che si chiamavano Marcello. Tra questi il più probabile a cui
Dante allude è Marco Claudio Marcello, console nel 51 a.C., che divenne
famoso per l’odio che provava nei confronti di Cesare. Viene preso in
considerazione anche un altro Marcello, che fu console nel 222 a.C., e che più di
una volta era riuscito a rispondere alle parole di Annibale, ed era
conosciuto con il titolo di “la spada di Roma”. Inoltre il riferimento che Dante fa
ai villani che padroneggiano le città italiane, potrebbe alludere alla
cittadinanza che i fiorentini avevano dato agli abitanti del contado (in
particolare alla famiglia dei Cerchi, che era diventata una famiglia molto
importante di Firenze) (fuori Firenze). Se fosse così, l’allusione ai fiorentini
servirebbe per introdurre l’invettiva contro Firenze.
- Vv. 127-138: in questi versi inizia l’invettiva contro Firenze. Con molta
ironia, Dante, rivolgendosi direttamente alla sua Firenze, dice che sarà di certo
contenta che la digressione fatta sui problemi dell’Italia non la sfiori. In questo
Dante è sicuramente ironico, perché è chiaro che anche Firenze, a causa dei suoi
cittadini, è coinvolta in questi problemi. Continua dicendo che molti uomini
hanno la giustizia in cuore, ma che ci mette tanto ad uscire come una freccia
scoccata dall’arco. Invece i cittadini di Firenze ce l’hanno sempre pronta
ad uscire dalla bocca, spesso anche senza criterio. Dante continua
dicendo che molti uomini rifiutano le cariche pubbliche, mentre invece i
fiorentini vogliono sempre assumere cariche pubbliche, anche senza
essere stati nominati. Con questa frase Dante vuole fare capire che ai fiorentini
interessavano le cariche pubbliche solo per conquistare un posto
importante nella società, non per prestare servizio per lo stato. Arriva
all’apice del sarcasmo, poi, dicendo a Firenze che ha tutti i motivi per stare
serena, in quanto ricca e in pace. Questa è sicurante un’antifrasi, perché Firenze
era tutto il contrario.
- Vv. 139-144: Dante fa riferimento alle due maggiori poleis del mondo classico,
Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi per mantenere il bene comune, in
confronto a Firenze fecero solo un piccolo accenno. Anche qui è molto ironico,
infatti continua dicendo che i provvedimenti fiorentini sono talmente solidi che,
se elaborati a ottobre, non arriveranno neanche a novembre. Qui Dante
si riferisce a qualcosa di estremamente personale, infatti, a ottobre c’era stato
un decreto fiorentino che aveva stabilito che Dante fosse
ambasciatore a Roma. A metà novembre, arrivato Carlo di Valois, tutto ciò
che era stato stabilito il mese di ottobre, venne totalmente ribaltato.
- Vv. 145-151: negli ultimi versi del canto, Dante passa da una forte ironia, a
un’immagine terribile della città. Infatti, dopo avere detto che Firenze ha
cambiato tantissime volte le leggi, o le funzioni, o le monete, afferma che la città
appare come una vecchia inferma che, sul letto di morte, non riesce a
trovare una posizione comoda, e si gira e rigira tentando di alleviare il
dolore. Ormai però, per la vecchia donna e per Firenze è troppo tardi per potere
porre fine al dolore, ormai lancinante. Inoltre, in questi ultimi versi, si possono
notare riferimenti al sesto libro di Agostino. In questo, ormai vicino alla
conversione, Agostino racconta di come la propria anima cerchi ancora di
sfuggire a Dio, e si gira e rigira in un letto cercando la pace che, però, può trovare
solo in Dio.

DANTE E L’IMPERO
All’interno dello scontro tra Guelfi e Ghibellini, Dante si trovò, innanzitutto per
ragioni familiari, nella parte guelfa. I guelfi erano i sostenitori del Papa,
mentre i ghibellini sostenevano l’impero.
Nella concezione di Dante esiste un solo Impero, quello romano, poiché sin dai
tempi di Costantino, il mondo cristiano si basava sull’idea che ci fosse un solo Dio
in cielo e un solo imperatore in terra.
Dante chiarisce la sua posizione riguardo ai due poteri, nel De Monarchia. Infatti
afferma che impero e papato siano complementari, perché l’uno non potrebbe
esistere senza l’altro, e inoltre hanno anche la stessa funzione. Il compito
dell’Impero è permettere la realizzazione della felicità terrena, mentre
quello del Papato è di operare per assicurare la beatitudine eterna. Il
potere imperiale e quello papale sono dunque autonomi, infatti Dante utilizza
l’immagine di due soli; ma la loro azione è complementare, poiché entrambi
devono agire per il bene dell’umanità.
Per quanto riguarda, invece, la suddivisione dei guelfi, Dante faceva parte dei
guelfi bianchi, che erano a favore dell’indipendenza della città dallo
strapotere del Papa. A questo si aggiunge la grande fiducia che Dante ha
nell’Impero, che è per lui necessario, e lo dimostra nel VI canto.
In certi sensi, infatti, Dante si avvicina ai ghibellini, in particolare durante
l’esilio. In apparenza, dunque, sembrò che Dante avesse tradito i guelfi e si
fosse alleato con i ghibellini. In realtà non era così, in quanto Dante riteneva
solo che i Guelfi dovessero rispettare anche l’impero. Inoltre Dante
conosce bene la Bibbia, citando spesso i libri profetici (Isaia e Geremia).
Dante cita più volte il profeta Geremia, identificandosi con lui. Il profeta
Geremia aveva, infatti, detto che aveva spezzato dei vasi mentre stava
denunciando la corruzione dei sacerdoti. Dante racconta che anche lui
capitò, nel battistero di Firenze, mentre stava denunciando la corruzione della
chiesa, di spezzare un vaso riempito di acqua santa, in cui un bambino
stava annegando. Dante ebbe, anche solo per un momento, la sensazione di
avere il ruolo di profeta.

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