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LEZIONE 29- 24/11/2021

Prima parte della lezione, minuti 1-45


Di Calvino non dico altro se non due righe sull’editio princeps de ‘Il sentiero dei nidi di ragno’ del 1947. Le
date di queste opere e di quelle che abbiamo citato collocano le opere precisamente in un contesto su cui
abbiamo ragionato.
Grazie all’opzione Pin, cioè alla scelta, all’idea, alla trovata geniale, originale di un protagonista infantile,
Calvino supera le difficoltà che aveva nella scrittura, data la sua storia di partigiano che tendeva a raccontare.
La sua era una partecipazione, una proiezione soggettiva non adatta al suo progetto. Incontra però anche
alcune difficoltà oggettive, ricordo solo il primo romanzo, l’esordio: una concorrenza spietata da parte di una
pubblicistica molto varia e in particolare di scrittori e romanza agguerrita che si sta affermando.
Con questa scelta riesce a produrre un’opera di qualità, molto apprezzata, valga la lettura autorevole che fa
uno scrittore titolato come Cesare Pavese che apprezza e dà il via libera, salvo la riserva che ricordate che ha
formulato e alla quale Calvino ha detto di no.
Parliamo di un’opera di qualità, apprezzata dalla critica, che è diventata un classico del neorealismo e del
romanzo italiano del secondo ‘900 che però ha un’alta leggibilità.
Per sottolineare questa alta leggibilità io ho percorso due palinsesti letterari che fanno riferimento a opere e
generi non canonici, non tradizionali. Da un lato Kipling, quindi romanzo d’avventura, che è un classico
anche per ragazzi. Dall’altro lato un libro espressamente per ragazzi cioè Collodi che firma Pinocchio.
Lascio a voi i giochi che partono da questa abbinata onomastica che peraltro ha il gusto della simmetria.
L’interesse per la pulizia formale caratterizza Calvino.
Pin e Kim sono l’alter ego uno dell’altro, due proiezioni terze e filtrate dello stesso Calvino: il bambino
ingenuo, carico di vitalità e vitalismo e l’intellettuale invece che è giovane, ma già maturo e consapevole che
ha ragioni ideologiche e politiche interne compiute. Un’abbinata complementare nella quale si proiettano due
Calvini in modo efficace.
Il risultato è quindi un’opera che ha ampia leggibilità e un successo che supera di gran lunga le aspettative di
Calvino. Dice che si aspettava qualche centinaia di lettori, ma sono 6mila le coppie vendute subito e il libro
viene ristampato. Quindi il progetto di un’opera di qualità, ma insieme leggibile e che si rivolge a un
pubblico ampio è centrato.
La prima edizione nel 1947, la seconda nel 1953 con modifiche tacite, la terza definitiva nel 1964 corredata
da una prefazione inedita pensata ad hoc fondamentale. Vi invito a leggerla con attenzione. Avrei voluto
leggere e commentare qualche passato, ma non avevamo il tempo per farlo.
Dice molto meglio di quanto ho fatto io diverse cose sul neorealismo con le quali dovreste trovarvi come
ragionamento d’autore di osservazioni che dovreste ormai condividere.
Ricordo anche che nella prefazione Calvino tira le somme, legge la sua opera da distante. Abbiamo registrato
anche il senso delle modifiche e degli interventi che non ripeto, ma le linee correttorie sono piuttosto chiare:
non intaccano la scrittura, che funziona benissimo, intaccano alcuni aspetti di carattere etico-contenutistico
che, non ripeto, ma richiedono secondo Calvino un aggiornamento che rimane definitivo.
Il passaggio era carino da Calvino a Guareschi perché tra le letture non istituzionali che il giovane Calvino
fa, ci sono due riviste: Marco Aurelio e Bertoldo a cui collabora anche Giovanni Guareschi. C’è un
collegamento interessante da questo punto di vista. Apprezzate queste riviste per la loro novità, riviste
umoristiche, satiriche, illustrate, sintetiche, di taglio fumettistico e sono un buon contrappeso alla retorica del
regime, non ultima ragione per cui Calvino le apprezza e le legge insieme ai fumetti.
Ricordiamo anche il cinema che è stato importante nella formazione di Calvino perché ha aperto a nuove
forme di espressività artistica.
Di Guareschi abbiamo già detto qualcosa. Mi limito come colonna sonora a qualche immagine.

Questa lo ritrae (sx) e questo è un autoritratto (dx) all’interno di ‘Un mondo piccolo’. Illustra uno dei
racconti di ‘ Mondo piccolo’.
Qui invece legge Candido una delle riviste umoristiche con cui collabora e di cui parlavamo. Vi invito a
pensare a quel periodo degli anni ’20 e ’30 che facevano da sfondo alla crisi del romanzo che è determinata
dal successo di queste formule disegnate, sintetiche fatte per apologhi, vignette e quindi qualcosa di molto
lontano dal romanzo tradizionale disteso che l’800, anche in Italia, ci ha lasciato in eredità finalmente.
Mi limito a un paio di considerazioni su Guareschi per poi passare all’Oro di Napoli.
Vi ricordo la centralità dello spazio. Abbiamo una serie di nomi di luoghi, cioè di toponimi precisi dell’area
bolognese che vengono però collocati fantasticamente sulle rive del Po. Sono vicini allo scenario della
vicenda, sono autentici, ma collocati in un luogo e in rapporti di distanza fittizzi.
Questa mescolanza tra reale e fantastico, fra documento e invenzione è certificato dal fatto che il luogo in cui
si svolgono le vicende, il paese centrale di ‘Mondo Piccolo’ è Molinetto. È un paese che non esiste ed è un
toponimo inventato messo però all’interno di una rete di luoghi reali emiliani tra Bologna e Parma. Hanno
tutti la vicinanza del grande fiume Po. Molinetto è un paese inventato e molto semplice ed è in realtà una
quinta teatrale. C’è una via d’accesso, una via d’uscita e la piazza che racchiude la canonica, adiacente alla
chiesa, il regno di Don Camillo e il municipio con la sede del PC che è la roccaforte di Peppone: sindaco da
una parte, parroco dall’altra.
Abbiamo una quinta teatrale molto stilizata, sintetica ed efficace che sopita una serie di personaggi: alcuni
stabili ed altri in transito. I personaggi del primo volume, del primo ‘Mondo piccolo’, ne usciranno una serie.
Ho accennato un po’ la giungla bibliografica di Don Camillo, vengono pubblicate opere pre e postume in
maniere un po’ discutibile.
I personaggi di questa prima opera, quella fondamentale che lancia un po’ il ciclo e la popolarità di
Guareschi, più di 80 traduzioni che hanno una trentina di figure che hanno in comune i tratti tipici dell’essere
emiliani, ragionare e muoversi con pancia e fegato: una serie di elementi di spontaneità e anche i topoi
relativi a questa terra. Sono individui caratterizzati da questi ideali comuni che li radicano immediatamente
in quelle zone.
Essi hanno anche un’individualizzazione attraverso soprannomi (lo smilzo, il Peppone che all’anagrafe si
chiama Giuseppe Bottazzi. In questo senso la dimensione comunitaria ribattezza i personaggi in base a un
ruolo che viene loro riconosciuto all’interno di quel ‘Mondo piccolo’.
All’interno di questi personaggi, indiscussi protagonisti sono Don Camillo, Peppone e il Cristo dell’altar
maggiore. Don Camillo è un personaggio integrale, tutto d’un pezzo, ha maggior spazio sulla pagina,
convoglia i valori ideologicamente positivi secondo Guareschi e quindi è il protagonista assoluto. Peppone
gli funziona da contraltare dialettico e da antagonista. È a sua volta divertente e ben tratteggiato ed è
dimidiato. Nel senso che in privato è credente e cattolico (abbiamo visto che in realtà per Guareschi la
dimensione religiosa è naturale, fondamentale, antropologica). Peppone non può non essere religioso e
cattolico, ma è combattutto con la sua fede comunista che pubblicamente esprime, ma a casa invece è un
credente come tutti gli altri (comunisti compresi). Questa è una sua debolezza, una dissociazione tra pubblico
e privato che è manifestata anche a livello topografico perché Don Camillo sta nel centro del paese, abita,
vive, agisce insieme al Cristo, in canonica. Viceversa Don Peppone abita fuori dal paese, ha l’offcina fuori
dal paese ed esercita in paese, in centro il ruolo pubblico, ma non quello privato.
Fondamentale è il ruolo del Cristo che permette dei toni da commedia leggera. Ci sono batttute divertenti,
Dio che si definisce da solo ‘povero Cristo’. Cristo si presenta come un personaggio qualunque, disposto a
scendere al livello dei suoi interlocutori, in particolare di Don Camillo che lo consulta, lo interroga, gli
chiede valutazioni. Don Camillo a volte ingenuamente nasconde a volte delle cose al Cristo, che è
onniscente, lo tratta come un povero Cristo. Da qui dei giochi divertenti.
Tra alti e bassi, tra momenti di confronto e di sintonia tra questi tre personaggi, abbiamo parlato di un
protagonista tripartito. In realtà i valori condivisi sono quelli del Cristo, di Camillo e che Peppone sposa nel
momento in cui la cittadinanza o il paese è in pericolo e occorre a quel punto condividere all’unisono tutti
insieme gli obiettivi di salvezza comune.
Ci sono dei personaggi collettivi. E qui c’è la distinzione folla / gente. La folla è quella divisa, quella che si
spacca, che si contrappone ideologicamente e politicamente. Essa diventa gente quando emergono i valori
fondanti di difesa della collettività.
Dal punto di vista dell’articolazione sociale di questo mondo abbiamo una centralità del ceto di mezzo:
braccianti, piccoli artigiani, contadini, relativamente benestanti. Mancano i proletari, manca il ceto sofferente
ed indigente, ben presente negli ambienti della bassa padana in quegli anni e anche prima e dopo.
I braccianti incarnerebbero la funzione emblematica di questo mondo. L’idealizzazione di questo mondo
contadino che insegna valori sani e perenni che Guareschi vuole proporre ai suoi lettori.
L’utopia positiva di ‘Mondo piccolo’ esclude questi personaggi che non si prestano ad una idealizzazione
così come chi è relativamente benestante ed è rappresentato in queste vicende.
Non mancano, anche se sullo sfondo, personaggi di città che sono però interscanbiabili, piatti, privi di
caratteristiche, scialbi, omologati e tutti uguali. Il mondo della città ideologicamente è criticato alla radice da
Guareschi. Allora a fronte dell’autenticità umana e dei personaggi di ‘Mondo piccolo’ c’è la folla anonima
della città.
Qui arriviamo alla visione del mondo, all’ideologia e alla politica. Volevo fare una precisazione forse
superflua, ma fondamentale. Qualunque opera letteraria, di alto o basso livello, che sia istituzionale, popolare
nell ‘800, di intrattenimento nell’800 e così via, esprime sempre un’ideologia, una visione del mondo, un
sistema di valori a cui fa riferimento e in fin dei conti una dimensione politica.
L’idea che la letteratura o un’opera sia priva di queste implicazioni, è un’idea ingenua e sbagliata.
Naturalmente ci sono delle opere programmaticamente impegnate, ad esempio Le ultime lettere a Jacopo
Ortis, in cui l’impegno politico è uno dei temi fondamentali del romanzo, altre opere invece in cui non si
parla di politica e di ideologia, ma qualunque opera implica riferimenti espliciti o impliciti a dei valori
precisi che governano i comportamenti dei personaggi, che governano i giudizi del narratore, la morale della
vicenza.
In questo senso è possibile sempre da qualunque opera desumere i presupposti ideologici e politici che
esprime in modo esplicito o implicito. Nel caso di Guareschi siamo in una dimensione abbastanza esplicita
come abbiamo visto. I connotati politici ed ideologici sono esibiti e sono alla base della rappresentazione: il
contrasto tra Don Camillo e Peppone e l’alleanza di Don Camillo con il Cristo si giocano in questo modo.
Rimane il fatto che dal punto di vista ideologico e politico siamo di fronte a una visione filocattolica e
anticomunista, a favore di una religiosità popolare e non dogmatica ritenuta istintiva e naturale. È una
dimensione che Guareschi fa passare in termini antropologici: qualunque uomo può non avere questa visione
religiosa, con il sistema morale di riferimento che lui celebra nelle sue storielle.
Questo vuol dire un’apologia del mondo contadino, un’apologia della tradizione, degli usi e dei costumi
antichi e tramandati. È notevole la rilevanza che hanno i vecchi; i cultori, quelli che tramandano questi
valori. E natralmente una contrarietà esibita contro il progresso, l’urbanesimo moderno, contro la politica, la
cultura, contro gli intellettuali che sono dei ‘parolai’. Chi parla troppo e non fa nulla è persona di cui
diffidare.
Discende da ciò, da un lato l’attaccamento al luogo natale, il campanilismo, il radicamento territoriale di tutti
questi uomini al paesucolo di ‘Mondo piccolo’, dall’altro un’avversione totale alle dinamiche delle nuove
città.
Ultimo elemento: abbiamo uan valorizzazione del privato rispetto al pubblico. Con privato si intende la
famiglia con un luogo di eccellenza e guida da parte del maschio, molto tradizionale. La donna rimane come
nell’800 l’angelo del focolare. Ad ognuno il suo ruolo, la famiglia è da non scardinare, da non rompere
perché è la base del sistema sociale.
Siamo di fronte a una posizione totalmente antiistituzionale. Lo stato non esite, di Roma non si parla mai né
di rappresentanti istituzionali. È un mondo autonomo che fa a meno della politica, della cultura, degli
intellettuali, ma anche deile istituzioni, un mondo autosufficiente, idealizzato, un’utopia.
È un’ideologia diffusa che fa presa soprattutto sui ceti recentemente inurbati che sono molti. Negli anni ’40,
’50 e ’60 partirà (precisamente tra il ’45 e il ’55) il boom economico cioè una migrazione fortissima dalle
campagne alle città. Ad esempio pensiamo a Torino sede della Fiat, prima città industriale in Italia, Milano,
sede di imprenditoria media e diffusa e l’abbandono progressivo delle campagne. Ci sono quindi tutta una
serie di soggetti, ex-contadini che lasciano le campagne e si inurbano, diventano operai o impiegati e
rivoluzionano la propria esistenza.
Su questi ceti, che hanno difficoltà ad inurbarsi, ad esempio Torino alza le barriere contro gli immigrati
meridionali, in maniera molto violenta discriminante e razzista.
Presso questi ceti, l’idea di un mondo antico e del mondo contadino con i suoi valori comunitari, il suo
comune sentire, la sua sicurezza, è sicuramente un elemento di presa che fa breccia, quindi dal punto di vista
sociologico, il riferimento a questo pubblico è vincente. E ripeto quel che ho detto, la scelta di Guareschi, da
questo punto di vista, è il contrario di quella di Calvino: Calvino sceglie Pin che è preideologico e prepolitico
e quindi non divide, viceversa Guareschi sottolinea l’opposizione tra comunisti, democristiani e cattolici, e in
questo modo i lettori di don Camillo e di Peppone possono essere sia gli uni sia gli altri, naturalmente gli uni
opteranno per Peppone e gli altri tra don Camillo; quindi è abile la strategia, una strategia che gioca sulla
divisione, rivolgendosi ad entrambi, con due campioni diversamente protagonisti, simpatici, accattivanti e
determinati, in modo tale da raggiungere un pubblico che effettivamente riesce a raggiungere.
Alla fine, dal punto di vista ideologico non vanno desunte, dicevo ieri, nessuna valutazione critica e quindi
fatte queste considerazioni, che sono considerazioni di un’opera appunto che è fondamentalmente reazionaria
e conservatrice, non aperta al futuro (accennavo anche la difesa della monarchia estrema, le campagne contro
i comunisti) abbiamo, al di là di questo, una indubbia capacità, efficacia, intelligenza nel costruire una
macchina che è una macchina semplice, efficace e di sicuro effetto. È una semplicità data dalla misura, vi
dicevo racconto più lungo sono 14 o 15 pagine, molto spesso sono brevi, nascono sul giornale, naturalmente
con i vincoli che il giornale sappiamo da a chiunque collabori, dal feuilleton passando poi dal reportage
all’elzeviro, una semplicità nello spazio (la quinta teatrale) nella caratterizzazione dei personaggi e così via.
Anche dal punto di vista linguistico e stilistico, e concludo, siamo di fronte a una scelta in economia, una
scelta di semplicità. Non è un caso che la premessa al Don Camillo, anzitutto, mette in luce proprio questo
aspetto. Dice nel secondo paragrafo della prima pagina, L’introduzione di Guareschi a Don Camillo, dice:
‘Io nel mio vocabolario avrò si e no 200 parole e sono le stesse che usavo per raccontare l’avventura del
vecchio travolto da un ciclista o quello della massaia che, sbucciando le patate, ci rimetteva un polpastrello.
Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere. In questo libro ci sono quel cronista di giornale e mi
limito a raccontare dei fatti di cronaca, robe inventate, perciò tanto verosimile che mi è successo un sacco
di volte di scrivere una storia e di vederla, dopo un paio di mesi, ripetersi nella realtà. E non c'è niente di
straordinario, è semplice questione di ragionamento. Uno considera il tempo, la stagione, la moda, il
momento psicologico e conclude che, stando così le cose, in un ambiente x, possono verificarsi questa e
quest'altra vicenda’.
Questo è un passo molto significativo per due aspetti:
1. La rivendicazione orgogliosa di un vocabolario di sole 200 parole: a me bastano 200 parole, io
racconto un universo, un mondo, per quanto piccolo; è un successo planetario quasi, film compresi,
senza dover ricorrere alle parole, alle altre parole, quelle della letteratura, le parole che appunto io
disprezzo. Sono le stesse parole che usavo per raccontare le storie vere, cioè quando ero cronista,
orgoglio di una formazione non letteraria ma giornalistica e l'idea che lo stile debba essere il
medesimo. È ovvio che questa scelta è una scelta di economicità straordinaria e di funzionalità
espressiva, nonché di accessibilità. 200 parole le posseggono tutti, chiunque sappia leggere può
godere di queste storie.
2. È interessante che il secondo passo è a un livello diverso perché in realtà cosa dice? Dice che a volte
racconta delle storie inventate che poi si rivelano vere perché succedono. Questo è un paradosso
tipico di molta letteratura ma ciò che conta è che dice che non è niente straordinario perché, scelto un
luogo x, in un tempo x, con caratteristiche di quei soggetti y, quelle cose succedono per forza. Perché
è interessante? Perché è una concezione deterministica: dato l'ambiente, dato il carattere, succede
quello, e perché è una concezione chiusa, adatta a un mondo piccolo, adatta cioè a una popolazione
ridotta, uniforme, popolata da valori condivisi, contratti antropologico-caratteriali che sono simili per
tutti. In queste condizioni e in quel luogo idealizzato e semplificato, quello che dice Guareschi ha
senso. Capite che in un’ottica urbana, aperta allo sviluppo, alle trasformazioni, al mutamento che
trasformerà l’Italia nel boom economico, questa affermazione è totalmente priva di senso: ogni
soggetto reagisce in modo diverso a un contesto dinamico e quindi ogni storia è diversa e non è
affatto desumibile, così, in maniera deterministica come dice Guareschi.
Uno stile, una lingua di sapore popolareggiante, un'enfasi melodrammatica, sentimenti e azioni conformi alla
terra del melodramma. Molti verbi, molte azioni, poche descrizioni, cioè c'è un fare, colpi di scena,
prevalenza di paragoni e similitudini rispetto alle metafore: i paragoni sono più semplici perché c’è il come
esplicativo, sono più facili da assimilare. Tutto ciò rimanda evidentemente, in maniera diretta, alla attitudine,
capacità e bravura di Guareschi vignettista. Credo che sia interessante collegare i due aspetti perché la pratica
delle vignette, l’abbiamo visto no, anche lui persegue sin da giovane su questi su queste testate umoristiche è
appunto dettata dall’essenzialità espressiva, dall' economicità, dalla leggibilità, dall'efficacia, dalla trovata,
dalla sorpresa che, letterariamente tradotto in modo efficace e semplice, dà origine alle storie di mondo
piccolo. E qui vorrei concludere con una citazione di sintesi conclusiva tratta dal saggio di cui ho letto alcuni
passi ieri. Un vostro compagno era curioso di sapere da dove avevo pescato quelle citazioni, nel senso che
vedeva che ogni tanto io prendevo spunto e vi leggevo dei passi di un libro. Vi leggo la citazione; è un
saggio che si conclude fondamentalmente così e ci funziona come sintesi:
‘Abbiamo già visto come l’obiettivo centrale perseguito da Guareschi, in sedi di poetica (cioè di idea della
sua letteratura), un’esigenza di larga comunicatività, si traduca in una serie di precise scelte tecnico-
formali, un bagaglio lessicale volutamente esiguo, una sintassi rapida e lineare, un repertorio di immagini
convenzionali, un trattamento veloce di spazio e tempo, un sistema di gesti rigido (la psicologia
comportamentistica), un personaggio tripartito e polifunzionale e poi l'idea unificante ma semplice di
mondo piccolo. Il criterio che indirizza la strategia narrativa di Guareschi, in tutte le sue articolazioni, è
quello di una efficace povertà: è una costruzione che ricorre all’abile fusione di materiali poveri e soluzioni
semplici, combinati con forza e buona organicità. Il mondo e le vicende rappresentate vivono sulla pagina
con bell’evidenza e la loro icasticità elementare favorisce un rapporto immediato con un pubblico di
ampiezza inconsueta’.
Mi pare che come sintesi possa andare bene e questo passo, come alcuni quelli che ho letto ieri, è tratto da un
saggio che si intitola ‘Il mondo in duecento parole di Guareschi’ scritto dal sottoscritto e da Bruno Falcetto.
Perché lo cito? Perché in realtà è un saggio di molti molti molti anni fa ed è rimasto l’unico contributo
diciamo oggettivamente scientifico, quindi strutturato su Guareschi (e questo la dice lunga sul fatto che
ancora la critica letteraria in Italia disprezzi questo tipo di produzione ad ampia diffusione, che sia
ottocentesca o novecentesca) ma anche perché mi permette di fare un’allusione eccolo qua un'allusione a
qualcosa che ho detto nel primo nel primo modulo per chi c'era già.
Mi ero presentato se vi ricordate con una sorta di autobiografia scientifico-letteraria-critica, cioè vi avevo
raccontato la mia carriera di studioso per desumere da lì alcuni elementi circa l’idea di letteratura italiana
moderna e contemporanea che abbiamo condiviso. Avevo citato all’epoca il saggio su Guareschi perché è
stato il primo saggio io ho scritto in assoluto e pubblicato a quattro mani con il professor Falcetto in un
volume curato da Spinazzola che faceva proprio il punto, in maniera criticamente approfondita, avvertita,
senza nessuno snobismo intellettuale, su opere di grande successo, chiedendosi: quali sono le formule, le
ragioni di questo successo, gli elementi di originalità popolare? E allora c’era un saggio Liala di Giovanna
Rosa, uno su Fruttero e Lucentini giallisti di Gianni Canova, c’era Granzotto di Mario Barenghi, c’era
Montanelli di Gianni Turchetta e così via. Quindi è, come dire, un richiamo a qualcosa che ci eravamo detti
all’inizio del corso.

Giuseppe Marotta, L’Oro di Napoli

Ma a questo punto questo è Giuseppe Marotta con in mano una copia dell’Oro di Napoli, prima edizione.
Coordinate anagrafiche come sempre: 1902-1963 (ricordiamoci anche delle coordinate di nascita e morte dei
nostri autori). Vi do alcuni elementi diciamo per inquadrare la figura e poi ragioniamo del libro che potete
scegliere.
Marotta è napoletano, quindi l’Oro di Napoli racconta la sua città di nascita, ma vedremo dalla quale si
stacca per poi tornare. Infanzia difficile, malato di tubercolosi ossea, una malattia grave, dalla prima infanzia
ai 17 anni. Vive a Napoli, malato, con difficoltà, nella Napoli povera dei “quartieri”, tra virgolette, poi
vedremo cosa sono i quartieri, e dei bassi napoletani. Frequenta l’istituto tecnico, quindi nessun liceo. È di
estrazione modesta, ha una condizione di difficoltà personale, è tendenzialmente povero o indigente e quindi
tecnico e poi basta perché subito si mette a lavorare, per necessità, come letturista dei contatori presso la
società del Gas, nulla a che fare con la letteratura. Ma fin dall’adolescenza, fin da ragazzo, fin da giovane
mostra vivo interesse per la letteratura: soprattutto la poesia prima e poi la musica e legge e studia fin quando
gli è possibile. Accennerò alle tracce per esempio di Emilio Salgari, che sono disseminate nell’Oro di Napoli
come una lettura fatta entusiasticamente dal giovane e giovanissimo Marotta. Quindi una formazione
culturale da autodidatta che si forma su autori soprattutto della tradizione meridionale e napoletana, in
particolare il radicamento della sua immagine di Napoli nella tradizione letteraria che ha fatto di Napoli il
soggetto privilegiato. Siamo siamo tra ‘800 e ‘900, vi faccio alcuni nomi: Matilde Serao, la fondatrice del
Mattino, donna straordinaria che è presente peraltro anche e interviene in scena anche nell’Oro di Napoli,
una cronista bozzettista e romanziera. E poi Salvatore di Giacomo, Eduardo De Filippo, Viviani. Diciamo
che l’esperienza di Marotta riguarda la tradizione napoletana con attenzione diciamo così al versante verista
(la Serao): abbiamo visto che i neorealisti ripartono spesso, si misurano quasi necessariamente con i veristi.
Ma c’è anche una sensibilità, potremmo dire, crepuscolare e una vena ironica, umoristica ma anche
trasfiguratrice che è caratteristica poi di tutta la sua produzione. Quindi Marotta diciamo sta mettendo a
fuoco le sue caratteristiche di aspirante scrittore sulla base di una napoletanità di fatto, è una napoletanità
letteraria scelta come riferimento privilegiato delle sue letture dell’infanzia, insieme naturalmente a
un’attenzione particolare per le fonti orali del folclore napoletano, i caratteri diciamo così del popolo così
come viene rappresentato e tramandato anche nel senso comune, lo vedremo.
Dico subito che, in maniera abile, Marotta gioca molto con gli stereotipi napoletani, vedremo in che modo.
Stereotipo vuol dire un’immagine già consolidata presso il pubblico e nell’immaginario collettivo. Quali
sono le caratteristiche del genius loci, della specificità napoletana? Un’emotività mediterranea, una fatalistica
accettazione degli eventi della vita (doveva andare così, è inutile ribellarsi) compresa la morte, che è in
Marotta è una compagna, una presenza umanizzata, a un certo punto compare anche nell’Oro di Napoli e
viene rimandata a casa e trattata come una donna diciamo che è bene che faccia visita all'autore più tardi. La
dimensione irrazionale, il senso del fantastico, del meraviglioso che però si lega al buon senso diffuso. La
naturale propensione alla convivenza, la paziente capacità di adattamento, che discende appunto dal bisogno:
è il bisogno che detta, diciamo così, la necessità di andare d'accordo, di sostentarsi, di fare piccola comunità,
che sia il basso, che sia il vicolo, che sia quartiere, una forma di mutuo soccorso tra bisognosi spontaneo.
Tutti elementi, ripeto, che in parte vive, in parte studia, in parte legge nella tradizione napoletana e che fa
suoi appunto.
Marotta comincia a scrivere presto, scrive poesie, esordisce da poeta: credo che sia interessante perché
l’esordio da poeta è l’esordio, diciamo così, in versi di chi ingenuamente pensa alla letteratura come era
dominata dal verso; la grande letteratura, l’idea tradizionale di letteratura vede al centro il verso. Marotta
inizia facendo poesie da giovane, da ragazzo perché quella è letteratura, salvo poi professionalmente
approdare in modo pressoché definitivo alla prosa e alla forma dell’elzeviro, cioè dell’articolo breve o medio
di giornale, con cui costruirà anche questo libro che è, dico subito, il suo più famoso, più popolare e più
venduto. Quindi comincia scrivendo poesie su alcuni giornali di piccolo cabotaggio napoletani e pian piano
le sue pubblicazioni vengono accolte in testate più significative. Tra il ‘23 e il ’24, così diamo una datazione,
vengono accettati una decina di racconti sul supplemento illustrato della Tribuna, che è un periodico di
successo romano, La Tribuna. Alla Tribuna aveva collaborato per esempio anche Gabriele D’Annunzio, per
darvi l’idea della qualità della testata, quindi è un emancipazione significativa che però è all’insegna appunto
della prosa.
Intende intraprendere la professione diciamo di scrittore ma si rende ben conto che a Napoli è pressoché
impossibile e quindi, dopo un paio di perlustrazioni a Milano nel 1924, decide di trasferirsi sotto la
Madonnina nel 1926. Ancora una volta Milano si conferma capitale dell’editoria, dell’imprenditoria libraria
e periodica, polo attrattivo, calamita per scrittori di altre luoghi d’Italia. Collabora subito qui con Mondadori,
che è destinato già a diventare il colosso editoriale che sappiamo. In particolare si occupa dei periodici ma
come archivista, correttore di bozze, segretario quindi con funzioni diciamo di carattere subalterno-
impiegatizio. Quando nel ‘27 i periodici Mondadori passano a Rizzoli, a questo punto lui passa la nuova
proprietà e diventa redattore ed è assunto in pianta stabile. Redattore è un ruolo che si confà di più alle sue
ambizioni letterarie. Sono gli anni in cui frequenta la società milanese e tra gli altri conosci Cesare Zavattini
e Giovannino Guareschi, di cui diventa buon amico, quindi vedete che ci sono i rapporti all’interno del
mondo giornalistico, dei rapporti orizzontali fra giornalisti, Guareschi e appunto Marotta, così come con
scrittori più titolati che collaborano ai quotidiani. Continua a scrivere pubblicare soprattutto racconti e dico
solo che complessivamente, alla fine della carriera, avrà collaborato con più di 30 testate, quindi una gran
varietà e un gran numero di articoli, che sono segno di una professionalità ormai raggiunta e matura, lo
scrivere tanto è richiesto professionalmente al giornalista.
Il racconto si impone e, fino al 1934, Marotta rimane in Rizzoli dopodiché decide di emanciparsi e di
diventare quello che oggi si direbbe freelance perché da questo momento in poi si emancipa, svincola da un
contratto fisso e si ritaglia una libertà professionale che lo porta tra l’altro a collaborare alla stampa e al
Corriere della Sera perché ormai si è guadagnato una posizione di riconoscibilità ormai oggettiva e anche
naturalmente di forte grande gradimento da parte del pubblico. Collabora all'universo delle riviste
umoristiche che sono un tipo di pubblicistica molto importante negli anni ’20, ’30 e ’40.
Vi ricordo il Marc'Aurelio, siamo a Roma 1931. Il diciottenne Federico Fellini disegna qui. Strepitoso
successo, dal ‘35 a ‘40 350.000 copie.
La risposta milanese del Bertoldo, perché anche visivamente si capisce come siano come un genere, una
tipologia editoriale nuova, con caratteristiche comuni anche se singole individualità spiccate. Qui siamo a
Milano 1936, la risposta milanese al Marc’Aurelio, Rizzoli, collabora Guareschi.
Candido, che avevo citato anche questo ieri, di cui Guareschi non solo è condirettore fino al ‘50 ma poi
direttore unico fino al ’57.
Marotta collabora in particolare a un’altra testata, che inserisco in fila alle altre così vi fate un’idea dell’
articolazione, dell’offerta umoristica della popolarità di questi fogli, negli anni ’20-‘40 diciamo il Guarino
Meschino, questa è un’immagine.
Altra immagine del Guarino Meschino, stavolta aperto, dove firma appunto, facendo parte di questa famiglia,
con Guareschi e altri che citavo, anche Marotta.
Interessante il fatto che Marotta si occupa anche di cinema dal punto di vista critico: la raccolta dei saggi
critici di Marotta sul cinema è stata introdotta da Goffredo Fofi che è un grande intellettuale ed espertissimo
di letteratura e di cinema. È stato critico, soggettista, sceneggiatore tanto che nel ‘38 si sposta a Roma perché
ovviamente a Roma c’è Cinecittà, a Roma c’è l’industria italiana del cinema e quindi ancora per ragioni
professionali, diciamo così, abbiamo un trasferimento. Pubblica moltissimo e nel ‘47 esce a Milano L’Oro di
Napoli. Titolo felicissimo, diventato poi proverbiale, che allude al dono alla città e ai suoi abitanti di una
superiore, intelligente, inesauribile pazienza, ma lo vedremo meglio. Il libro è destinato a una notorietà
nazionale e ai primi riconoscimenti della critica, che era sempre stata, diciamo, ostile con il suo silenzio
sistematico a Marotta. Dice lui: ‘La critica in generale mi tiene il broncio, come se la avessi in qualche
indimenticabile modo, e non so come, offesa’. Il libro consta di 36 articoli già apparsi sul Corriere della Sera,
cioè sul giornale più autorevole d’Italia, testimonianza appunto di uno status ormai consolidato. Nel ‘54
anche qui un film di grande successo, sceneggiatura di Zavattini e regista De Sica, che contribuisce a
consolidare la diffusione del libro. Tantissimi articoli, fra le opere di Marotta, prima, durante, dopo l’Oro di
Napoli ma anche tanti libri. Interessante la trilogia dedicata a Milano perché, se da una parte il filone
napoletano viene coltivato da lui in altre opere, dall’altra si apre anche una rappresentazione di Milano. A
Milano non fa freddo nel ’49, Mal di galleria nel ’58, Le milanesi ’62.
Candido di cui Guareschi, non solo è condirettore fino al ’50, ma poi direttore unico fino al ’57.
E Marotta collabora in particolare a un’altra testata (inserisco in slides, così vi fate un’idea della popolarità
di questi fogli negli anni ’20-40):slide: Il Guerin Meschino, dove firma, entrando a far parte di questa grande
famiglia con Guareschi e gli altri che citavo, anche Marotta.
Interessante che Marotta si occupa anche di cinema, sia dal punto di vista critico: La raccolta di saggi critici
sul cinema di Marotta, è stata introdotta da Goffredo Fofi, che è un grande intellettuale, espertissimo di lett e
di cinema, è stato critico, soggettista e sceneggiatore, tanto che nel ’38 si sposta a Roma, per ragioni
professionali abbiamo ancora un trasferimento (a Roma: c’è cinecittà, l’industria del cinema…).
Pubblica moltissimo e nel ’47 esce a Milano L’oro di Napoli, titolo felicissimo, diventato poi proverbiale,
che allude a dono alla città e suoi abitanti di una straordinaria e inesauribile pazienza. Il libro è destinato a
una popolarità nazionale e ai primi riconoscimenti da parte della critica, che era sempre stata ostile, con un
silenzio sistematico a Marotta: > dice Marotta: “ La critica in generale mi tiene il broncio, come se io
l’avessi, in qualche indimenticabile modo e non so come, offesa.”> il libro consta di 36 articoli già apparsi
sul Corriere della sera: il giornale più autorevole di Italia, testimonianza di uno status ormai affermato.
Nel ’54 anche qui: un film di grande successo: sceneggiatura di Zavattini, regista De sica, che contribuisce a
consolidare la diffusione del libro.
Tantissimi articoli by Marotta, prima e dopo L’oro di Napoli, ma anche tanti libri: interessante: La trilogia
dedicata a Milano: perché se da una parte il filone napoletano viene portato avanti in altre opere, dall’altra
parte si apre anche un orizzonte dedicato a Milano: A Milano non fa freddo nel ’49; Mal di galleria nel ’58;
Le milanesi nel ’62: primo: titolo paradossale; secondo: dedicato a galleria Vittorio Emanuele, cuore della
città, galleria Mengoni; il terzo dedicato alle donne particolarm intraprendenti della città.
( si potrebbe fare un corso eh ci pensavo in questi giorni sulla rappr.ne lett di Napoli, oppure di Roma,
oppure di Milano: vari scrittoti con libri di vario genere per queste città es. scrittori milanesi, o immigrati a
Milano, non originari di Milano: per Milano: Filippo Tommaso Marinetti, pubblica un libro futurista che è
straordinario; Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuor città: libro strepitoso; Marotta, A Milano non fa freddo
etc. idem per Napoli: L’oro di Napoli; Il mare non bagna Napoli dell’Ortese; su su salendo fino a oggi).
Bene, poligrafo estremam prolifico si occ anche di teatro e scrive anche testi per canzoni: interessante quasi
tutti scritti in dialetto napoletano: scelta saggiam esclusa in L’oro di Napoli: opera esclusivam partenopea,
per aderenza alla realtà sarebbe stato richiesto il dialetto, protagonisti non parlano italiano, ma scelta dilingua
nazionale per parlare a tutti.
Nei primi dei 50 Marotta torna alla sua città, a Napoli, e muore qui nel 1963.
L’oro di Napoli dunque adesso:
-esce nel 1947 da Bompiani, che è ed. che aveva in mano appunto l’autore.
-Conta almeno un 60ina di edizioni: successo notevolissimo.
-Nell’ 87: approda alla Rizzoli: BUR: bibl univers Rizzoli; ancora oggi con intro di Raffele Nigro. ( ed
consigliata)
Il libro si apre con una PREFAZIONE: scritta in prima persona che parla dell’autore stesso, quindi imposta
un patto di lettura di carattere autobiografico, di carattere memorialistico, all’insegna della sincerità,
dell’autenticità. Con una contrapp.ne immediata tra Milano e Napoli, che è anche complementarietà: due
città opposte e complementari. Marotta è Milanese di adozione, ma di nascita estrazione cult e lett di Napoli,
e in questa premessa racconta della madre, del viaggio della madre scomparsa verso Musocco, del cimitero
dei milanesi: dim personale ma in particolare familiare è introdotta. Non piange accompagnando la madre
nel suo ultimo viaggio, così si suol dire, ma trattiene le lacrime: il tema delle lacrime e dim patetica,
sentimento tipicam meridionale, già alluso fin inizio, sta pure nel tema della sepoltura, nella centralità della
scomparsa della madre per il figlio maschio: un topos. e poi parallelismo tra Musocco e il cimitero di Napoli,
Poggio reale: legge. > allora Mi e Na sono distanti ma da questo p.v. anche vicine: allora Marotta guarda a
Napoli, alla sua città da Milano, attraverso una distanza temporale che però è indispensabile per attivare
ricordo, nostalgico della famiglia e terra a distanza: tema del ricordo: imposta spesso il libro: il ricordo, le
memorie: > due città, vicine ma distanti: distanza essenziale per attivare il tema della rimemorazione
sentimentale dei valori familiari e poi del contesto in cui lui e sua famiglia, il suo mondo dei vicoli dei bassi,
lo aveva visto protag da giovane.
>dunque il tema: del ricordo, la distanza sentimentale e temporale, la centralità del narratore che racc di sé
con funzione autobiografica.
Un autobiografismo confermato nella serie di racconti: potremmo dire che L’oro di Napoli si apre come una
sorta di memoria familiare: compaiono sulla scena nei vari racconti i parenti stretti di G Marotta: primo racc
è lettera di Ada, sua sorella, da Napoli; secondo: padre e Luisa, altra sorella; mamma è presenza costante nei
pensieri e racconti del narratore, addirittura uno dei primi racc si intitola Cara mamma: formula di lettera
figlio a madre; poi c’è la sorella Maria: Cara sorella è il titolo (si può fare, se c’è tempo lo faremo alla fine,
se no fatelo voi, che è anche divertente, ragionare sull’indice della raccolta che è molto molto significativo):
vedete l’identificazione di figure femminili parentali strette, donne, per lui maschio fondamentali, all’insegna
del ricordo, della nostalgia, dell’affetto. La zia Luisa, la nonna Teresa: tutte info autentiche, reali: la morte
del padre, ricordata con la data giusta in un racconto, il trasferimento della fam da Avellino a Napoli e così
via.
Ma progressivam questi elementi autobiografici, familiari, la dim personale si perdono, tende a diluire e
scomparire: andiamo incontro a una progressiva spersonalizzazione e generalizzazione dell’esperienza:
ormai sappiamo che lui napoletano, che ha avuto un radicamento familiare, ci racconta quel mondo senza
fare più rif a quelle basi: usa la prima persona per certificare veridicità dei ricordi: viene fuori RACCONTO
COLLETTIVO: RITRATTO COLLETTIVO non più fam.re o personale: una collettività fatta di individui,
ben caratterizzati e spesso memorabili.
Qualcuno prima forse da casa diceva, se ho capito bene un’ allusione ai primi racconti: ecco: i primi racconti
sono diversi dagli ultimi: un’autobiografia più evidente, che pian piano lascia posto a rappr.ne corale e
tendenzialm impersonale, ma che prima però ha radicamento locale, che ci fa dare fiducia a narratore:
racconta ciò che sa perfettam.
Un racconto collettivo ma fatto da personaggi ben riconoscibili, individuabili, dipinti con caratteristiche
emblematiche e memorabili: elemento imp della valutazione critica dell’opera: Marotta racconta e descrive
p.ggi a partire da quelli del primo racconto: emblematico: titolo come opera: L’oro di Napoli: si ricorda Don
Ignazio, memorabile, tipico, individuato, con storia drammatica e anche un po’ paradossale, che viene racc: e
così tutti p.ggi ricordati con loro storia, ma insieme sono tipici: cioè ricalcano ed esprimono degli stereotipi:
sono p.ggi individuali ma insieme stereotipi.
Così come la Napoli racc.ta è quella del 1920-1945: questi gli estremi che ci lascia la lettura: quindi una Na
precisa, pre durante e dopo guerra: ma è anche una Na stereotipata, da cartolina, eterna: infatti la rappr.ne è sì
cronotopica (tempi e luoghi specifici e determinati, vie, tempi: hic et nunc: cronotopo efficace): ma sono
anche simbolici, astratti: rappresentano “i bassi” in generale, “l’anima” napoletana, gli usi e i costumi
napoletani che sono di sempre e per sempre: quindi vedete da un lato una precisione referenziale, di
radicamento testimoniale, collocazione spazio temporale precisa; dall’altro rappr.ne simbolica,
caratterizzazione antropologica, astrazione stereotipica: insomma è quel gioco concreto-astratto, vicino-
lontano che è anche la linea di Levi, di Calvino, di Guareschi: (Levi: gli elementi di mitizzazione di un
mondo precisissimo, vissuto in prima persona; Calvino: la spersonalizz.ne di un esp autobiografico;
Guareschi: un mondo piccolo che in realtà non esiste, che è radicato in quella terraccia, ma in realtà non c’è).
Se ci pensate gioco che c’è anche in altre opere neorealiste: es. Elio Vittorini, Conversazioni in Sicilia, 1941;
Vittorini, Sardegna come un’infanzia, 1952: lirismo soggettivistico legato a un’esp.za autentica: anche qui:
NEOREALISMO: racconta le varie, piccole ma presenti Italie, dall’altro ambisce a una soggettività molto
maggiore, a un’astrattezza che le stacchi da quella contingenza storica e geografica.
Nel caso di Marotta abbiamo una realtà oggettiva, che diventa astratta o generale attraverso il ricorso e la
sceneggiatura di luoghi comuni, stereotipi, che Marotta riprende e avvalora, corrobora: e il successo della
raccolta contrib a rafforzare tale visione di Na, rappr.ta attraverso esperienze di singoli fortem
individualizzati: quale rappresentazione?
>PRIMO RACCONTO: emblematico di tutta raccolta, titolo della raccolta,
- protagonista: un gobbo che porta fortuna: il gobbo, lo storpio: fig tipica del proletariato non solo
napoletano: chiede elemosina e persone sfiorano gobba con pudore, con el scaramantico che è tipico della
mentalità popolare.
- capolavoro dell’arte di arrangiarsi: tutte le volte gliene capita una a sto vecchio, ma lui si tira fuori:
l’inventiva meridionale, l’arte di arrangiarsi.
- la iella che lo persgeuita: perde famiglia, figli, si inventa vari lavori
- la teatralità: “aveva un certo uso/gusto (?) per il teatro”
-l’elemosina: che chiede e sollecita in vario modo: aiuto del vicinato, sostegno che dato in vario modo perché
vicoli sono sostegno
-gioco azzardo: gioco carte, Don ippolito: la zecchinetta, gioco tipicam napolet che viene raccontato e
rappr.to
-estrazione del lotto: immancabile a Na: è un luogo comune, radicato effettivam che si dice essere nato a
Napoli e c’è un racconto che si intitola Il numero vincente: i racc a volte hanno nomi neutri, a volte
identificano degli stereotipi o modi di dire, a volte identif delle figure folkloristiche.
-la supertistizione, la iettatura. (anche ultimo racc)
-attitudine a imbrogliare: tipico dei napoletani -legge-: cliente che fuori Na da per scontato che imbroglio
covi assolutam
>>>tutti questi elementi sono presenti nel primo racconto e vengono ulteriorm sviluppati e ribaditi nella
prosecuzione della nostra lettura : fig, luoghi, tipicità romane: portinaio zoppo, suonatore pianola con
scimmietta elemosina, il guappo: delinquente di piccolo cabotaggio, la bella pizzaiola, il venditore di
saggezza, i “Luciani”: abitanti di quartiere specif S. Lucia: particolare napoletanità: anzitutto si sentono
gente di mare (affacciano su mare): lì le più belle donne, pesce pregiato (coquiage oggi), poi fig come Il
pazzaviello (?) del racconto Porta Capuana, fig tipica Na: > personaggi tipici, presentati individualm da fig
efficaci, che condividono degli atteggiamenti*:
-immagine di S. Lucia-
* atteggiamenti dei personaggi, condivisi: il riso e pianto e passaggio brusco tra i due, ipersensibilità,
eccitazione che porta a commuoversi e ilarità, la teatralità, tema della recitazione molto diffuso (uno dei
primi racc: base: mamma di Giuseppe che chiede al capezzale del padre ai parenti, di far finta per il defunto
per dargli questa estrema soddisfazione, di far finta di garantire il futuro dei figli suoi: messa in scena e
finzione davanti a un moribondo.
Fenomeni sociali: che investono il costume, l’usura, la beneficenza. Di costume come il culto e la diffusione
delle canzoni e delle canzonette, a un certo punto si intona Funiculì funiculà celebre in tutta Italia, e c’è un
capitolo intitolato Le canzonette: con questo tema caratteristico. Oppure Il “pernacchio”, titolo Lo sberleffo
=traduzione in italiani: -legge-: rappresentato da un personaggio il pernacchio come un’espressione tipica e
sociale.
-le malattie sono tipiche a Na: malattie in versioni tipiche napoletane: es. a un certo punto un p.ggio ha un
attacco di tisi, nella versione tipica napoletana “ha decorso lento”.
>>>in questa dim di stereotipo folklore, incarnato in vicende singole, ironiche, divertenti e non di rado
commoventi di vari p.ggi, molto interessante è la centralità del CIBO: anzitutto come
-cronica e endemica mancanza di cibo: la fame, condivisa da tutti, tipica di questo mondo, che colpisce
brutalm il giovane Marotta che fa fame spesso e volentieri
-collegate a ciò: centralità degli odori e dei profumi: Le pizze a oggi a otto: racconto geniale, per cui le pizze
vengono vendute subito a credito, da pagare in otto gg: gli affari vanno a gonfie vele, perché clientela
mangia più pizze che se pagare di volta in volta e poi rimane creditore, e costretto, anche a causa
dell’incombenza dell’usura, di pagare i conti dopo; e la pizza è paradigmatica della città di Napoli.
I taralli si rincorrono da primo racc in poi, i lupini, i provoloni, la frutta messa in mostra: -legge “bisogna
aver visto a Napoli una mostra natalizia di frutta…”-: il luogo comune rappresentato in un caso singolo,
legato a un personaggio particolare. Faccio notare come emerga qui piuttosto bene una vena espressionista,
eccessiva, che sottolinea in modo efficace modo di racc di M: potrebbe essere punto di vista dell’affamato:
albero di cuccagna, abbondanza, paese dei balocchi, idealizzati ma mai realizzati davvero nel pensiero
popolare: compresenza di queste componenti.
I babbà, comprati coi soldi rubati in chiesa dal giovane Giuseppe; la visita a Nisida: emblematica: mandolini,
chitarre, taralli e vino: una serie di stereotipi.
E nella parte finale, sorprendente, del libro ecco che il cibo assurge a dignità piena: titolo: racconti: Pane con
sale e olio, Il cappone, Il ragù, Gli Spaghetti: un’apoteosi del cibo, che i napoletani non hanno ma di cui
sono cultori. -legge-: introdotte almeno un paio di ricette alla napoletana.
-Il tema della morte e del cibo quindi si accompagnano e rimandano in realtà a usi e costumi tipicam
meridionali, e napoletani: es. funerale: disperazione e poi banchetti funebri, cibo in abbondanza: un p.ggio
nel libro ha congestione a seguito di un’abbuffata post sepoltura: siamo dim folklorica:
un’ANTROPOLOGIA NAPOLETANA; che consolida l’idea di Na e suoi ab.i.
>la sintesi è data a fine primo racconto: summa dell’opera e personaggi e narrazione: -legge- fine primo
racconto “ è l’oro di Napoli questa pazienza”: una dim storica, ctonia, autoctona: le caratteristiche, tutto ciò
che è rappr.to appartiene al luogo prima ancora che a chi lo abita: il Vesuvio, le insolfatare, la dim tellurica,
l’instabilità, l’incertezza e dall’altro la pazienza e un armamentario culturale per resistere in modo epico e
programmatico a tutto ciò.
Il tempo va dagli anni 20 al 45, con la NAPOLETANITà che quindi non ha tempo: temporalità circoscritta
da un lato, dall’altro volontà di superare qualsiasi restrizione di calendario.
Lo spazio è definito in modo preciso: solo qui: nei bassi napoletani, nei quartieri questo mondo si esprime
nei termini che abbiamo visto: es. un racc Scoglio di Mergellina, Corsea, La discesa del Calascione, ecco -
foto- che scende da alto a basso: quella è la Nunziatella, caserma Ortese e Prunas (?) a fare Sud, la rivista
(figlio militare avevo accennato), Mater dei, chiesa S Agostino degli scalzi, che è protag di Gente del Vicolo,
Foria e S biagio dei librai, S chiara, la parte dei vicoli vista dall’alto: zone oggi turistiche. Capitolo:
Quartieri, Porta Capuana:
Na storica, popolare dei quartieri alle spalle di Toledo, lunga la riviera di Chiaia, con un radicamento molto
molto preciso, è la Napoli sottoproletaria, fatta di indigenti, disoccupati che si arrangiano: un mondo appunto
proletario e sottoproletario, uno spazio sociale che vede un’assenza eclatante: protagonisti assoluti sono
pezzenti, proletari, di questi quartieri e vicoli, come del resto G Marotta da giovane; non mancano delle fig.e
aristocratiche: il vizioso degenerato conte di M con turbe omosessuali e pedofile, protag racc memorabile,
nobiltà anacronistica e degenerata che sfrutta questa indigenza. A essere assente in modo memorabile è la
borghesia, la classe dirigente, gli intellettuali: non esistono: fotografia storica: le condizioni di indigenza
endemica e cronica di Na sono dovute innanzitutto all’assenza di una moderna cl dirigente, di estrazione
borghese, che invece di assumersi, diciamo così, l’onere della guida della città, in un’epoca di progresso e di
sviluppo, tende ad allearsi a quella nobiltà decrepita, per mantenere lo status quo e privilegi atavici.
Il narratore dunque è uno di loro: - legge- “Allora mi chiamavano Peppiniello ed ero mezzo tisico, una faccia
olivastra e lunga, …correrci il treno…ero così smunto allora…”: e così ritratti di indigenza: ciò non toglie e
concludo che lo sguardo, favorito dalla lontananza, dalla vita milanese, dal tempo trascorso è un
atteggiamento, uno sguardo di un TESTIMONE PARTECIPE, che vive quella provenienza, quel luogo,
quelle esperienze, ma dotato di ironia, di bonarietà, benevolo, no vendetta o rivalsa, è benevole: introduce
deformazioni fantastiche, una scrittura molto accessibile, un’ottima leggibilità e Il RIFIUTO DEL
DIALETTO: tutti questi p.ggi parlano esclusivam dialetto, ma naturalm Marotta non vuole rivolgersi a
napoletani e basta o a protag proletari del libro, lo pubblica da Bompiani a Milano: il più grande editore di
narrativa di quegli anni insieme a Einaudi, la scelta è quello di un italiano, che no dialetto neanche in
dialoghi e neanche un termine in corsivo, se non ho guardato male, come es e prelievo della parlata locale:
dallo specifico al generale, dal referenziale al simbolico, da una realtà locale dialettale alla traduzione per
tutti di quelle storie.
Quanto al lettore: il lettore a cui mira è un lettore medio, un pubblico ampio, non a caso ci sono tre rif a
Salgari, non li riprendo, lettura popolare, è una conferma, del giovane Marotta, l’immagine dei dervisci
salgariani in una trasfigurazione, la citazione di Guido da Verona (Mimì Bluette fiore del mio gradino): cioè
di un romanzo popolare un po’ osè, e dalla trad tipicam napoletana.
Ecco in conclusione possiamo dire che l’operazione riuscita e particolarm efficace, da pv ideologico ancora
una volta conservatrice: perché l’immagine che esce di Napoli è una conferma dell’immagine che abbiamo
già, stereotipata che in quanto tale è falsa, una generalizzazione standardizzata, non a caso tra i pochi odgi
descritti nel libro, perché le case sono descritte ma non c’è nulla dentro, spoglie, c’è una palla di vetro con
dentro il Vesuvio e la neve, cioè un souvenir, la sintesi dello stereotipo.
Ecco contro questa descrizione napoletana e questa tradizione: Anna Maria Ortese pubblicherà nel 1953,
nella collana I Gettoni di Vittorini di Einaudi, sempre ambito neorealista: Il mare non bagna Napoli, dove
invece metterà a fuoco queste stesse geografie con uno sguardo feroce, contro qualunque stereotipo e anzi a
demolire gli stereotipi, a rappresentare la realtà drammatica e catastrofica così come è, a denunciare la cl
dirigente e anche il ceto intellettuale dei suoi amici, di cui lei faceva parte xk non sono riusciti a scalfire
quell’immagine di Napoli durissima a morire allora, ma in realtà anche oggi.
L’oro di Napoli raccoglie una serie di elzeviri usciti sul Corriere della Sera secondo un diverso ordine
rispetto a quello di pubblicazione sul periodico: porre degli articoli all’interno di un libro dà loro una
dimensione completamente diversa in quanto sono inseriti all’interno di una cornice che comporta una serie
di conseguenze sui singoli pezzi. L’insieme che scaturisce dalla somma delle parti va ben oltre la semplice
successione dei racconti, nel senso che il libro in quanto tale consente anche una lettura d’insieme inerente
all’intera opera. Il mezzo del libro ha la capacità di dare una maggiore potenza e un valore aggiunto a testi
già pubblicati e noti in virtù della sua carica identitaria e della sua fondamentale compattezza. Per questo,
Marotta passa in rassegna i suoi racconti in una prima fase di selezione; una volta scelti, si pone poi il
problema della disposizione e dell’organizzazione dei pezzi dato che, cambiandone la successione, si
possono ottenere risultati ben diversi fra loro pur essendo fatti con i medesimi tasselli (a conferma del fatto
che l’architettura del libro è fondamentale per conferire l’identità all’opera).
La prima parte quindi si configura in modo autobiografico, per poi lasciare progressivamente spazio
all’oggettività rappresentativa del mondo. I personaggi, che costituiscono pur sempre delle figure di racconti-
bozzetto, formano una comunità in quanto condividono, accostati l’un l’altro, la medesima situazione socio-
economica e la dimensione popolare.
Osservare l’indice dell’opera consente di ragionare sul significato aggiunto dell’opera: si possono
individuare (prescindendo dall’ordine di disposizione) i maggiori nuclei tematici: quello della famiglia, del
radicamento territoriale nella Napoli dei quartieri bassi, delle canzonette, dei giocatori di lotto e di carte,
degli usi e costumi tradizionali, del cibo tipico e delle celebrazioni funebri.
Gli stereotipi di cui Marotta si avvale, pur individualizzandoli, non fanno che veicolare e corroborare l’idea
di Napoli già consolidata nell’immaginario comune, il che risulta in una rassicurazione del lettore in quanto
si trova a leggere proprio la descrizione che si aspetta. Parziali e limitati correttivi di questa visione sono
individuabili nell’ironia, nella fantasia, nella caricatura, nella deformazione spesso espressionistica dei
personaggi, le quali costituiscono una sorta di presa di distanza implicita da parte dell’autore rispetto a quel
mondo.

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