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CAP. 1: impossibilità di cogliere il significato più profondo del MITO nel mondo nomade
– MITO MONGOLO REGISTRATO DA LUI CHE DIMOSTRA IMPOSSIBILITA
– AMICO MOSCOVITA (REINCARNAZIONE/ TRASMISSIONE ECC.)
– MITO SU BAMBINO PRESO DA VECCHIO AIUTATO DA LUPA E CORVO
– SIGNIFICATO DELLA LUPA
– PERCHE I POPOLI BURIATI?: VA IN TILT
– APPENDICE CHE RIPERCORRE LE TAPPE DELL'EROE
CAP. 4: evidenzia gli ASPETTI PIU IMPORTANTI del nomadismo attraverso l'esperienza
emotiva (racconto dove i personaggi diventato portatori del messaggio della cultura nomade)
CAP.7: tramite la sfera emotiva l'autore afferma la sua tesi: la necessità di un cambiamento
socio-culturale che IMPEDISCA la totale SCOMPARSA del modello culturale nomade.
1: A CACCIA DELL'EROE
Il primo capitolo si apre con il racconto di un'anziana signora buriate registrato anni fa dal
nostro autore in una gheer (tenda nomade) della Mongolia, che mette in luce l'impossibilità di
cogliere il significato profondo del mito nel mondo nomade, affermando che ogni storia
dell'origine del mondo si riflette nell'altra e contiene le altre, come a formare un ventaglio
dalle mille sezioni la cui natura unitaria è sfuggente e mutevole; difatti, proprio per questo,
nessuna di queste storie è in grado di fare ordine nelle menti, lasciando spazio solo
all'intuizione. Secondo il racconto, se esci dalla realtà dei tuoi sensi, compaiono i 55 spiriti
dell'Ovest, benevoli e generosi, dalla cui volontà deriva il concepimento del genere umano, e i
44 spiriti dell'Est, malvagi e invidiosi, da cui proviene invece la nascita della morte e del
dolore umano. Sulle Pleiadi, gli spiriti dell'Ovest si riuniscono per mitigare il dolore degli
uomini e scelgono l'aquila (animale sacro con il compito di comunicare il sapere divino dello
sciamano agli uomini) a tal scopo, la quale, però, incontra un nemico nella sua missione: il
tempo. Per fortuna, i Signori dell'Ovest trovano un altro modo per portare direttamente nelle
membra dell'uomo l'arcano sapere, l'unione carnale della stessa aquila con l'essere umano,
dando vita ad uomo che porta con sé la capacità divina di comunicare con l'invisibile e di
cogliere finalmente l'essenza degli spiriti dell'Ovest. È quello che fa una giovane fanciulla, il
cui figlio, a distanza di Trecento anni, sta ancora insegnando agli sciamani buriati il suo
misterioso sapere.
Nel taccuino di Bellatalla si trova anche una variante da aggiungere all'epopea del mito della
creazione. In un tempo lontano, il più autorevole degli spiriti e la sua compagna vivevano
avvolti nel buio e nel silenzio. Fu così che lui creò il sole e la luna, diede vita all'acqua e al
fuoco, di cui giovarono animali e piante, e infine generò l'essere umano e suddivise il creato in
Oriente ed Occidente. Fra i suoi nove figli, il quinto è il suo favorito. I primi quattro
rivendicano il loro diritto all'eredità, che solo a loro compete, e gli ultimi quattro, non
accettando la decisione, preparano un piano per le loro contromosse: scendono sulla terra, si
stabiliscono nelle terre fredde dell'Artico e danno vita a creature malvagie dalla forma
bizzarra di draghi con molteplici teste, che portano sciagure e dolore agli umani. Il padre, che
si trova nella sua grande dimora del cielo, informato dagli spiriti invisibili della situazione in
atto sulla terra, convoca un consiglio con i 99 spiriti della volta celeste. Al consiglio si
presentano tutti tranne uno, che secondo il supremo signore del cielo è proprio colui nei cui
pensieri risiede la soluzione alla disputa tra i suoi figli; così invia due spiriti invisibili alla
residenza dello spirito assente e viene a conoscenza, tramite i sogni, di cosa sia giusto fare:
affidare al primogenito del suo quinto figlio il compito di scendere sulla terra e riportare
l'ordine tra gli esseri umani. Tale spirito assume le sembianze di un grande uccello e, dopo tre
anni in cui si limita a volare sopra le sciagure degli umani per acquisire le conoscenze
necessarie per mettere piede sulla terra, assume le forme di un grande toro azzurro e giunge
presso le terre dell'Artico, alla dimora dei quattro spiriti ribelli, dove una delle creature
malvagie addette alla sorveglianza delle greggi scopre la sua presenza. Lo spirito salvatore
fugge inseguito dallo spirito-guardiano, che non perde le sue tracce nemmeno quando il primo
si trasforma in pietra azzurra per confonderlo. Tuttavia, lo spirito salvatore è astuto e sfrutta
le debolezze dell'avversario (avidità e perfidia) a proprio vantaggio, traendolo in inganno: gli
promette un'alleanza per ottenere la supremazia tra gli spiriti supremi, offrendogli la magica
asta giallo lucente, in cambio della rivelazione di tutti i segreti della sua razza, ma non appena
la creatura finisce il suo racconto l'asta diviene un perfido serpente che sfugge irrequieto alla
sua presa e scompare nelle viscere della terra. Attraverso la conoscenza dei segreti, lo spirito
salvatore riesce ad uccidere la creatura malvagia. Si deve ora preparare allo scontro finale.
Lungo il cammino tra le terre dell'Artico, lo spirito salvatore incontra gli uomini e decide di
fermarsi tra loro per insegnargli come alleviare il dolore. Dall'unione con una giovane donna
nasce una nuova stirpe di uomini. Uno dei nipoti dello spirito salvatore si innamora della
nipote di uno dei quattro spiriti dell'Artico e la porta con sé nelle lontane terre dell'Ovest, ma
i due non possono procreare senza la celebrazione del matrimonio e il consenso dei parenti.
Così, i vecchi antagonisti si incontrano per riconoscere il nuovo legame e i quattro fratelli
vengono riconciliati alla Grande Famiglia: il primogenito del quinto figlio del supremo
signore del cielo ha portato a termine il suo compito. Secondo Bellatalla è la consapevolezza
del fatto che dietro agli scontri tra lo spirito-guardiano e lo spirito salvatore si cela qualcosa
che li unisce, cioè la medesima responsabilità di portare a termine un compito a loro ignoto,
nascosto tra cento metafore, la forma più alta di conoscenza.
L'autore rilegge i propri appunti e riflette sulla natura fuggevole e mutevole del mito: il mito
sfugge al raziocinio, si modifica rimanendo comunque integro nella sua ragione di custode e
latore di messaggi, nonostante l'uomo abbia provato più volte a “fermarlo” (attraverso il rito,
codificandolo e vincolandolo ai gesti, alle parole e all'iconografia, attraverso l'interpretazione
dei testi, l'analisi comparata ecc.). Nel mito, l'azione fisica (ad esempio le continue
trasformazioni dello spirito salvatore e nel suo incessante procedere da un luogo all'altro)
rimanda all'apparente dualismo attraverso il quale il mondo è percepito, vissuto e giudicato.
Difatti, nel mito, la condizione di staticità dell'uomo (di visione parziale della propria
esistenza) è esasperata fino all'imperativo dell'azione. Secondo l'autore, l'uomo concepisce
l'esistenza secondo un piano dualistico (l'odio e l'amore, il buono e il cattivo ecc.) poiché
inconsapevomente fugge da qualcosa che fatica a comprendere e ad accettare, ossia la
consapevolezza del sé quale infinitesima emanazione completa del tutto. Nella visione
dell'autore sono le paure dell'umano esistere a non consentirci di incamminarci, come l'eroe,
verso il mistero della vita, della quale la nostra esistenza è solo un piccolo frammento. Difatti,
nelle tradizioni mistiche di tutto il mondo coloro che riescono a superare l'illusione degli
apparenti opposti vengono considerati “liberati” e non ci insegnano a separare, bensì ad
unificare, armonizzare il dualismo della rappresentazione della reatà. Tale concetto è espresso
in uno dei principali testi religiosi indiani, dove si legge che “colui che è libero dalle coppie è
libero dai conflitti”, o nel Vangelo apocrifo di Tommaso, dove Gesù dice: “allorché di due
farete uno, (…) allora entrerete nel Regno”. La Bibbia è fitta di tali insegnamenti: basti
pensare alla figura di Giacobbe, colui che è nato afferrando il tallone del suo gemello e nel cui
nome sta il duplice significato di “secondogenito” e di “ingannatore”. Come è convinto di
questo, Bellatalla afferma di essere certo che nel racconto mitologico si ritrova una vera e
propria ideologia, una concezione globale dell'Universo derivata dall'esperieza umana, fatto
che gli è confermato da una serie di elementi che accomunano gli episodi annotati sul proprio
taccuino (la ricerca, la lotta, l'inganno, la trasformazione, l'appagamento e l'accordo finale
per ristabilire l'equilibrio cosmico). L'autore legge il suo taccuino mentre è ospite, insieme
all'amico Dino, da due amici a Mosca. Quella sera a cena è presenta anche un amico
moscovita degli ospitanti, che, dopo aver bevuto qualche bicchiere di vodka di troppo,
comincia a esprimere alcuni concetti che affascinano molto David. Parla di reincarnazione,
del fatto che dobbiamo concepire il corso della storia esattamente come una fusione tra
presente passato e futuro. Secondo lui la storia dell'uomo ha significato religioso e l'elemento
emotivo è ciò che determina l'esperienza umana. E il mito racconta proprio questo: la
capacità di passare da una realtà ad un'altra grazie alle emozioni; difatti, quando si è presi da
una forte emozione, le persone e le cose che ci circondano assumono il colore e la forza delle
passioni e tutto appare sotto una nuova luce. L'evento mitico trasmette l'azione attraverso
l'immediatezza dell'evento nel suo dinamismo. Questa capacità di concepire il mondo può
essere persa di vista, secondo il moscovita, solo da un occhio miope come quello della scienza
capitalistica occidentale. L'origine della vita sulla terra è una moltitudine di semi: come in un
seme sono già contenute le radici, le foglie e il frutto, dentro la moltitudine di semi che si
trovava sul nostro pianeta già esistevano, seppur invisibili, tutte le manifestazioni di vita che
noi oggi conosciamo; dunque il processo evolutivo era già contenuto all'interno delle
informazioni genetiche racchiuso nei semi. Un intellettuale svizzero addirittura descrive la
coscienza collettiva come l'eredità un modello originario da cui l'uomo proviene e questa
eredità, secondo il moscovita, ci è raccontata dai nostri miti attraverso immagini e racconti
che ci ricordano come il messaggio originario sia depositato in tutto ciò che ci circonda.
L'uomo racconta come, nel corso dei suoi studi, abbia compreso che la vera ragione del mito
non è da rintracciare nell'origine della sua creazione, bensì nella sua trasmissione, e come da
questa considerazione abbia cominciato ad interrogarsi sui limiti che accompagnano la
trasmissione dei miti attraverso i secoli. Dopo queste parole, andato a letto, David non riesce a
prendere sonno e pensa. Il carattere specifico del mito sembra risiedere nell'uso al quale è
destinato. Il mito è un racconto tradizionale con un riferimento implicito a un “valore-
monito” di importanza collettiva e in cui i fenomeni di importanza collettiva emergono
proprio attraverso la narrazione e la simbologia utilizzata, vengono giustificati e ritualizzati.
All'interno del mito può verificarsi la metanarrazione (racconto nel racconto): alcuni dei temi
trattati possono essere oggetto di storie o vicende che si sviluppano all'interno del mito stesso.
Eventi e dinamiche sociali vengono sacralizzati e cristallizzati nel mito, il cui racconto resta
però flessibile e mutabile, aperto a molteplici possibilità interpretative relative alle circostanze
storiche del momento, e sempre capace di raggiungere il suo obbiettivo; le nuove forme che
assume, infatti, non cancellano assolutamente i messaggi originari, anzi, li arricchiscono con
nuovi livelli interpretativi. Il mito fa uso di metafore, in quanto queste gli permettono di
amplificare la portata del suo messaggio; tuttavia, per arrivare a comprendere il messaggio,
non bastano l'analisi storica e scientifica del testo, ma è necessario il superamento del confine
tra razionale e irrazionale, dunque si rendono fondamentali la capacità dell'evocatore e la
ricettività del fruitore. Il giorno dopo, David si sveglia con l'idea in testa che per conoscere sia
necessario “accogliere”: far fluire i pensieri, diminuire il controllo su di essi, non temendo il
contatto con il mistero. Bellatalla fa ora una digressione sul lupo, figura mitologica più antica
tra i miti dell'origine dei nomani dell'Asia, e descrive il mito della creazione del popoli nomani
delle steppe, risalente agli annali cinesi, la cui fedeltà è stata comprovata da ritrovamenti
archeologici. Il mito racconta la storia di un neonato abbandonato ai margini del deserto e
trovato da un vecchio solitario che si prese cura di lui. Ad aiutare il vecchio nella sua missione
furono una lupa e un corvo, i quali pensarono al suo nutrimento: la prima attraverso
l'allattamento e il secondo fornendogli carne fresca. Alcuni anni dopo, il vecchio si recò dal
principe di una dinastia dell'Asia centrale chiedendogli ospitalità e raccontando il prodigio
occorso. Il capo accolse il giovinetto, considerandolo il suo degno successore mandatogli per
volontà degli spiriti. Nelle numerose versioni del mito (più di 40), si arriva anche a descrivere
l'unione sessuale e il concepimento tra la lupa e l'essere umano come la genesi dell'origine di
popoli e tribù. In tutte le varianti del mito dell'origine, la simbologia della lupa evidenzia i
messaggi della sacralità degli episodi (atti sociali) a cui è legata e di quegli elementi che
stabiliscono i rapporti tra gli esseri umani e gli dèi, grazie ai quali la società e l'universo
possono funzionare bene. La lupa ha infatti la funzione di tramite con il divino, è la possibilità
di comunicazione fra i tre mondi: la volta celeste, regno degli spiriti creatori e delle forze
soprannaturali; il sottosuolo, regno degli spiriti dei defunti e di entità minori; la nostra terra,
dove gli esseri umani vivono la propria esistenza in equilibrio con le due forze spirituali.
Questa funzione è sancita dal suo colore, dalle sue fattezze e dalla sua provenienza e non a
caso l'immagine dell'animale che allatta un essere umano rimanda all'Età dell'Oro, dove tutti
gli esseri umani vivevano in armonia con la propria esistenza nell'unità del creato.
Dopo questa digressione, la scena torna al risveglio; dopo la colazione, l'amico moscovita dei
due amici che ospitano l'autore a Mosca accompagna David e Dino alla stazione ferroviaria
per comprare i biglietti per Ulan Bator, la capitale della Mongolia, dove i due andranno a
studiare i popoli Buriati. Nel viaggio, alla domanda “perché proprio i Buriati?”, la mente
dell'autore torna indietro di qualche anno, a quando la stessa domanda gli era stata porta da
Nathalia Zhukovskaja, antropologa che già si era affacciata a questo mondo. La risposta era
semplice, ne era rimasto attratto dalle sue prime espierienze, ma non voleva dirlo e cercava
piuttosto argomentazioni più valide, più logiche, più razionali, cadendo nell'errore di volersi
calare con la ragione in un mondo irrazionale. In quell'occasione, parlando da una persona
che già aveva vissuto questo tipo di esperienza, l'antropologa gli preannuncia che i problemi
che incontrerà nel corso del cammino saranno molti. In particolare, dice che i problemi
inizieranno da dopo che avrà passato l'immenso lago Bajkal (Siberia meridionale), chiamato
“oceano” da coloro che vivono sulle sue sponde, al quale ben 336 tra fiumi e ruscelli portano
acqua, ma solo uno di questi, il fiume Angarà, esce dal lago; una leggenda dice che chi tocca le
acque del fiume Angarà dovrà fare i conti con 336 spiriti che vi vivono e misurarsi con
altrettante prove. Quel giorno, quelle parole scombussolarono sicuramente Bellatalla, tanto
che racconta che, tornando nell'appartemento in cui risiedeva a Mosca, sbagliò treno e gli
furono rubati chiavi di casa e portafoglio.
Bellatalla, alla conclusione del primo capitolo del suo libro, inserisce un'appendice. L'autore
prova a convincersi di una possibile cattura dell'eroe e di un suo successivo interrogatorio.
Pensa che nei miti risiedano le ragioni più profonde dell'attività fisica ed intellettuale
dell'uomo. In questo modo, i miti di popoli in perenne movimento assumeranno maschere e
significati che rispondono a un modello di vita dove il movimento è ragione dell'esistere, in
funzione della sua impercettibile staticità. Attraverso la partenza e la trasfigurazione, si
definiscono quelle crisi necessarie a raggiungere la dimensione spirituale più alta e, quindi, a
proseguire l'opera della creazione. La parabola convenzionale dell'avventura dell'eroe
(partenza-iniziazione-ritorno), che è metafora della vita materiale del nomade, pone come
condizione indispensabile quella di mettersi in gioco su un terreno ignoto. La chiamata è la
prima maschera che illumina il volto dell'eroe, che lo invita a mettersi in gioco attraverso la
partenza, e non può essere rifiutata, in quanto l'umano deve saper stare di fronte al mistero
della vita. Così, cielo, terra, oceani, deserti diventano immagini invisibili all'occhio razionale,
con la funzione di predisporci all'ascolto inconscio interiore. Il viaggio, ricco di peripezie,
diviene il centro di gravità spirituale dell'intero popolo sospinto; non a caso per il membro del
clan il pericolo sorge dove non c'è protezione del proprio gruppo. Il nomade è animato al
contempo da speranza e paura: speranza di riuscire ad afferrare il mistero e paura che farlo
spezzerà per sempre la sua vita terrena. Le lotte che l'eroe deve affrontare sono titaniche, ma
per fortuna interviene il destino benevolo: in aiuto dell'eroe accorre lo spirito adiutore
(guida), che si configura come un animale inviato dagli spiriti supremi. Difatti, il grembo
materno, l'allattamento, il nutrimemto e la veglia protrettrice sono immagini che rimandano
all'atto di aver risposto alla chiamata e di essere stati riconosciuti dalle divinità. Con l'aiuto
dello spirito adiutore, l'eroe procede fino alla soglia dei tre mondi paralleli, al di là della quale
si trova l'ignoto, e lo fa superando le prove e costringendo la guida a mostrarsi nel suo vero
aspetto, a volte distruttivo. Solo una volta che l'eroe ha annientato se stesso, può accedere al
tempio interiore situato al varco, rinascendo. Varcata la soglia, l'eroe, nel proprio labirinto
spirituale, dovrà affrontare altre difficili prove che lo porteranno alla purificazione dell'io.
Dopodiché, per divenire dominatore della propria vita, dovrà unirsi misticamente alla grande
madre, la vita. Tuttavia, occorre sempre tenere alta l'attenzione, perché, dall'altra parte,
l'immagine riflette una tentatrice pronta a verificare la forza dell'eroe; difatti il mito ci
racconta di eroi che giungono fino al vuoto ineluttabile. Bellatalla chiude il capitolo
chiedendosi se forse semplicemente le immagini mitologiche provengano dall'energia vitale
che ci anima e siano la rappresentazione di fluidi frammenti che riflettono la forza universale
di un mistero impenetrabile.
4: L'ALTERNATIVA NOMADE
La steppa, insieme al deserto, è la terra dei nomani per eccellenza. Descrivibile come un
“grande oceano d'erba”, è capace di suscitare anche nel più esperto dei viaggiatori un senso di
smarrimento. Bellatalla si chiede cosa distingue la scelta nomade dal modello sedentario.
Nella Genesi biblica si legge che prima di diventare pastore, dunque prima di Noè, l'uomo si
cibava di frutti e grani; dopodiché, si osserva un distacco dall'ordine natutale delle cose: si
cerca di trasformare la natura per renderla più produttiva attraverso la ragione. Fino al
periodo illumistico si è pensato che l'evoluzione delle società avvenisse attraverso precise fasi
successive (la tappa dei cacciatori-raccoglitori, quella della pastorizia e infine quella
dell'agricoltura e conseguente sedentarizzazione). Nel XVIII secolo la pastorizia viene
proposta come soluzione per le regioni dal clima estremo e nascono ipotesi che considerano un
processo di convivenza tra la pastorizia e l'agricoltura. Nella metà del XIX secolo, List
propone i principali gradi successivi di sviluppo economico: condizione selvaggia, pastorizia,
agricoltura, artigianato e commercio. La prima vera chiarificazione sulle origini della
pastorizia ci è data nel 1885 da Ratzel, secondo il quale pastorizia e agricoltura nascono
dall'attitudine dell'uomo alla protezione e alla conservazione di ciò che è addomesticabile.
Oggi, sopratutto grazie agli scavi archeologici, è stata fatta chiarezza sul tema. Tali ricerche
dimostrano che la domesticazione delle piante e degli animali è iniziata circa 10.000 anni fa in
Asia; in Iran l'agricoltura esisteva già in epoca neolitica; nell'Iraq settentrionale la pastorizia
è precedente all'agricoltura. È stato ipotizzato un passaggio alla sedentarietà come risposta al
venir meno degli alimenti su cui si basava l'economia dei cacciatori raccogglitori, dovuto
all'incremento demografico, ai mutamenti climatici e al conseguente aumento dell'attività di
caccia; tale assenza avrebbe spinto i gruppi umani verso la caccia di animali di taglia più
piccola e verso l'agricoltura (senza dimenticare la raccolta, dalla quale la prima deriva).
Indubbio è che le tre attività siano state e vengano tuttoggi praticate congiuntamente. La
coesistenza iniziale tra pastorizia e agricoltura è stata spiegata anche con il fatto che i
sedentari, mettendo a disposizione i surplus dei campi, potevano prendersi cura degli animali;
inoltre, attirati dalle coltivazioni, gli animali potevano essere catturati più facilmente.
Sembrerebbe che lo sviluppo parallelo delle due pratiche abbia portato ad una opposizione,
che da una parte ha visto i coltivatori affinare le loro tecniche grazie alla vita stanziale e
dall'altra ha assistito alla nascita del nomadismo pastorale. Se i coltivatori consideravano i
pastori rozzi e poco civilizzati, questi ultimi vedevano i primi costretti a una vita priva di
libertà e in totale disarmonia con la natura. Tale antagonismo è visibile anche nell'episodio
biblico di Caino e Abele, dove il primo, agricoltore, impersonifica il cattivo, mentre il secondo,
pastore, il buono; secondo un'interpretazione, la condanna verte verso Caino per aver
infranto l'ordine della natura e questo, per Bellatalla, suona come un monito per scongiurare
la futura rovina del genere umano, legata all'annientamento del modello nomade, al quale
oggi stiamo assistendo. Tuttavia, senza dubbio, anche il clima e l'ambiente hanno inciso sulla
differenziazione delle due attività. Con l'estinguersi delle fasi pluviali post-glaciali, soprattutto
nelle regioni dove si ebbe un impoverimento dell'ambiente, si rese necessario l'allevamento
estensivo, che pose le basi per un progressivo distacco dal luogo residenziale. Da un diario che
Bellatalla scrive nel suo soggiorno presso il popolo nomade degli Aghin-buriati si evince che,
nonostante l'itinerario nomade venga visto dalla maggior parte dei sedentari come un
semplice girovagare alla ricerca di pascoli freschi per il bestiame, esso è pregno di significati
profondi, diversi per ogni singolo contesto culturale; ad esempio, tra gli Aghin-buriati del
Dornod, l'itinerario di ogni clan è un modello arcaico legato alla tradizione orale, dove ogni
luogo fissato per i diversi periodi dell'anno viene indicato da riferimenti ad antenati o spiriti
tutelari, che è integrato con un altro modello secondo cui la natura fornisce continui segni (il
volo degli uccelli, il vento, il profumo dell'aria ecc.) all'uomo che, se non li legge, si allontana
dall'unità originaria.
Nell'esperienza dell'autore presso gli Aghin Buriati della Mongolia orientale, egli ha avuto
l'occasione di partecipare, insieme all'amico Dino, ad uno spostamento di campo: Bator, il
capo clan, annuncia che il cielo e gli uccelli gli hanno detto di andare verso nord. A
determinare un cambio di itinerario contribuiscono anche le condizioni climatiche e il sogno e
la malattia. Il sogno rappresenta un territorio di confine tra la vita terrena e il mondo
spirituale, da cui l'uomo proviene, che può fornire indicazioni sui territori che il clan deve
raggiungere o evitare. Per questo, esso deve essere comunicato a tutte le persone del clan e
interpretato correttamente; quando il messaggio non è chiaro è infatti richiesto l'aiuto dello
sciamano e di una cerimonia chirificatrice. Affinché il messaggio del sogno venga interpretato
in modo corretto, è necessario trovarsi in uno stato di cosciente lucidà tale per cui, tuttavia, il
principio della realtà ordinaria non eserciti nessun tipo di condizionamento. Nella visione
tripartita della cosmologia e della realtà, il sogno è un viaggio dell'anima attraverso uno dei
due piani spirituali, che, a seguito dell'influenza di spiriti ed entità estranee, può addirittura
portare alla malattia, ossia la separazione dell'anima dal proprio corpo. La morte,
seperazione definitiva dell'anima dal corpo, differisce solo in termini quantitativi rispetto alla
malattia: entrambe indicano un imperativo di arresto del movimento e necessitano del
recupero dell'equilibrio dell'individuo e del clan. Dunque, stabilendo località sacre e luoghi di
accampamento, l'itinerario dei viaggianti mitizza il territorio, assumendo affascinanti e
profondi significati. La migrazione primaverile è un rito che soddisfa le esigenze spirituali
delle tribù nomadi. Bellatalla dice che dai sorrisi delle persone aghin-buriate trasuda un senso
di serenità e armonia che lo contagia, facendolo sentire sempre più a suo agio nella sua
esperienza sul campo. Al campo arriva una grande carovana di un altro clan. Coloro che
precedono gli altri legano i propri cavalli ed entrano nella gheer di Orchirbat: sorseggiano con
lui una tazza di “suuteitsae” (bevanda tradizionale del popolo mongolo offerta in segno di
ospitalità, composta da tè, latte e sale) mentre si scambiano saluti e ringraziamenti di rito;
dopodiché parlano di parentele, antenati comuni e vincoli di amicizia che legano i due clan e
Orchirbat invita uno di loro a sedersi vicino a lui nella parte settentrionale della tenda (gesto
di riconoscimento di un alto lignaggio e di un vincolo di parentela che rende il personaggio un
ospite di primissimo piano). Una volta che le tende sono sistemate, la cena si svolge in tre di
queste, muovendosi da una all'altra, ricominciando ogni volta a mangiare. La mattina
successiva le donne mungono le giumente di entrambi i clan, radunate tutte insieme. La
ripartizione del latte alle famiglie non avviene in base alla proprità, bensì al numero di
beneficiari. Il processo di assimilazione del nuovo gruppo avviene quindi secondo specifiche
dinamiche socio-economiche che prescindono dalla provenienza e dalla proprietà privata, che
gli altropologi definiscono “metodo di ripartizione del processo di aggregazione-distacco”.
Bellatalla, per descrivere tale processo di aggregazione e distacco tra le famiglie e i clan, usa
l'immagine del termometro rotto, le cui sfere di mercurio si inglobano l'una nell'altra
formando una sfera più grande e, con l'aiuto di una pressione, si staccano nuovamente
tornando allo stato iniziale. Ma allora, una volta entrati a far parte della collettività, cos'è la
proprietà privata? L'autore parte con la premessa che, per quanto siamo portati ad accostare
il pastoralismo all'agricoltura, esse sono due attività molto diverse. L'agricoltore, per
coltivare, ha bisogno di trasformare l'ambiente (attraverso l'irrigazione, il cambiamento della
tipologia delle piante ecc.), mentre il pastore non effettua nessuna trasformazione nei
confronti dell'ambiente, agisce su di esso in maniera indiretta attraverso due azioni: il
dominio sugli animali allevati e la “sostituzione” di specie (togliere alcune specie per far posto
a quelle allevate); tuttavia, per il nomade, tali attività comportano la rottura di un ordine
naturale, perturbando le forze sovrannaturali, e per questo non possono passare impunite: in
cambio le divinità chiedono simbolicamente un animale (atto sacrificale). Per spiegare il
rapporto del nomade con la proprietà privata, nonché con il territorio, occorre distinguere il
pastoralismo delle zone aride più meridionali dal pastoralismo delle regioni del nord. Nel
primo caso, dove le condizioni ambientali sono estreme, il pascolo è strettamente legato alla
sopravvivenza e il territorio assuma un valore non simbolico e marginale; nelle regioni del
nord, invece, dove il pascolo è sempre garantito, si è potuto rincogiungere il pastoralismo a un
modello ideologico sovrannaturale meno ferreo e intransigente, in cui il territorio, l'itineriario
e il campo assumono un valore sacro legato al senso della vita, che viene scorto ripercorrendo
simbolicamente il percorso stesso. Da questi due tipi di pastoralismo nomade, contraddistinti
da una diversa disponibilità di risorse ambientali e sociali, sorgono due modi completamente
differenti di ripartire il territorio e di concepire la proprietà privata. Nelle comunità nomadi
delle aree desertiche o semi-aride si arriva addirittura al possesso del territorio attraverso atti
di forza e alla razzia di capi di bestiame, che sono eticamente giustificati e talvolta persino
accettati dal pensiero religioso; un esempio è il pensiero religioso pre-islamico,
successivamente tramutato in legge, che giustificava la razzia, da parte di tribù colpite da
epidemie che avessero decimato gli animali o di comunità dove la mancanza di un numero
sufficiente di animali metteva in pericolo la sopravvivenza, nei confronti di altri gruppi più
abbienti. Nelle aree del nord, invece, si riconosce la proprietà temporale legata allo
spostamento ciclico annuale, ma essa rimane margine a una condivisione di spazi nei confronti
di clan che si trovano temporaneamente nella stessa area. Pur rimanendo ferrea l'identità di
proprietà privata nei confronti dei capi di bestiame, in funzione delle dinamiche di
aggregazione e distacco dei clan, i prodotti di derivazione animale possono essere concessi o
condivisi e gli spazi possono essere temporalmente ripartiti. Tale complesso modello di
ripartizione temporanea non è subordinato a fattori economici, ma piuttosto agli ambiti
etnici, sociali e religiosi.
Dopo due giorni, il clan ospitato (Nirgui), a seguito dei saluti di rito, se ne va, riprendendo il
proprio cammino. Di questa esperienza di incontro tra le due comunità, Bellatalla ricorda un
episodio particolare, quello in cui un membro del gruppo Nirgui rubò un cavallo di un
membro del clan che ospitava lui e l'amico Dino. L'uomo, ubriaco, era caduto dal cavallo che
aveva rubato, provocandogli gravi lesioni. Per la perdita del proprio cavallo, il proprietario
chiese risarcimento alla famiglia dell'uomo che glielo aveva rubato e, per questo, venne
convocata la riunione degli anziani, dove il rapitore disse che la caduta era dovuta al cavallo
impazzito, e dove, dopo aver parlato di antenati comuni, il più anziano degli anziani invitò i
due uomini a compiere il giuramento di fronte alla pietra degli antenati, la sera della luna
piena, i quali avrebbero aiutato la comunità a trovare una soluzione alla vicenda. Ma la sera
della luna piena solo la vittima del furto andò a fare giuramento davanti agli spiriti, l'altro
uomo non si presentò, non lasciando dubbi sulla sua responsabilità nel gesto commesso. Gli
anziani e il capo clan Bator furono, così, obbligati a sancire il numero di capi di bestiame che
la famiglia dell'uomo avrebbe dovuto consegnare al gruppo della vittima del furto come
compenso della perdita del cavallo.
Bellatalla si chiede come la vastità e il vuoto dei grandi spazi della steppa possano
rappresentare per coloro che ci vivono una effettiva condizione di libertà. Osservando la
storia, sembrerebbe che fossimo portati a rifuggire gli spazi vuoti e a privilegiare quelli pieni,
per la loro maggiore funzionalità nei confronti della produzione, dello scambio e
dell'associazione. Ma è anche vero che, nel loro adattamento, alcune società hanno risposto
maggiormente ad esigenze di tipo interiore, che gli spazi aperti sanno meglio soddisfare; come
ci testimoniano i grandi nomi della fede, gli spazi aperti contribuiscono al dialogo con se stessi
e con il sovrannaturale: il deserto per Gesù Cristo e Maometto, le foreste per Siddharta ecc.
I nomadi, per cui i grandi spazi vuoti hanno tale capacità introspettiva, oppongono a questi
l'intimità e il calore della tenda, con la sua fitta trama di relazioni interpersonali e sociali, e
all'individualismo la consapevolezza della propria personalità in funzione dell'altro. Le grandi
distanze vengono in un certo modo assuefatte dalle relazioni con le altre persone e con gli altri
gruppi. Difatti, ogni clan e ogni famiglia è in grado di vivere in piena autonomia, senza
interventi esterni, ma le relazioni con gli altri costituiscono una condizione necessaria per
completare l'esistenza, nel senso più ampio del termine. L'isolamento e l'unicità del singolo
vengono opposti alla necessità di partecipazione e condivisione sociale. Bellatalla afferma di
essersi ambientato nella steppa, ma che nel momento in cui si avventura a cavallo in quegli
immensi spazi, dopo la prima ora, l'entusiasmo svanisce e, se inizia a dubitare di aver
smarrito la pista, l'ansia del sedentario si fa viva, riportandolo alla sua vera condizione.
CAP. 5: IL MONDO ALLA ROVESCIA
Una famiglia ha fatto richiesta di una cerimonia di guarigione da parte di Namjim (la
sciamana buriate del clan dove Bellatalla e il suo compagno di ricerche Dino sono ospiti) per
una giovane donna gravemente malata. La bramosia di vedere la cerimonia porta l'autore a
leggere un diario dell'amico Dino sulla partecipazione alla loro prima cerimonia sciamanica.
Questa si svolse in una piccola casa, davanti alla quale c'erano una betulla e un cavallo, parte
del rituale. Dentro la casa una stanza era illuminata da candele e in un'altra era posto,
perfettamente centrale, un tavolo basso che fungeva da altare per il rito, sopra il quale erano
sistemate coppe ricolme di cibo e dolci, piccole somme di denaro coperte da erbe e semi e
candele e bicchierini ricolmi di airag (latte di giumenta fermentato) e di una bevanda alcolica
ricavata dal latte; accanto al tavolo c'era una grande coppa contenente braci ardenti sulle
quali venivano disposte bacche e sementi. Prima dell'inizio del rituale avvenne l'abituale
vestizione della sciamana, accompagnata da una complessa liturgia: dapprima un corpetto di
colore scuro con grandi pendenti in metallo, poi il mantello, il copricapo con corona e frangia
frontale, un grande disco metallico da porre al centro del petto e, infine, le cinture e le trecce.
Solo allora la sciamana era pronta al rito. Per spiegare cos'è lo sciamano, Bellatalla parte di
solito con un preambolo volto a chiarire come lo sciamanesimo debba essere considerato come
un complesso di credenze più che una vera e propria religione e, successivamente, ripercorre il
cammino storico-etimologico del termine “sciamano”. La parola arriva al nostro dizionario
attraverso il vocabolo russo “shaman”, che le popolazioni moscoviti appresero per primi dalle
popolazioni manciù e tunguse alla fine del XVII secolo. Il termine venne ritrovato per la
prima volta nel 1130 su un documento di alcune popolazioni della Cina settentrionale a diretto
contatto con le popolazioni manciù e tunguse per definire un loro stregone. Il termine
indicava, tra i Manciù, l'arte del divinare ed era legato all'astrologia, tra i Tungus, lo stato di
“esaltazione e tremito” dello sciamano durante lo svolgimento del rituale. Secondo alcuni
studiosi, il vocabolo sarebbe stato acquisito dalle lingue manciù e tungusa quale eredità delle
notevoli influenze religiose e culturali dell'Asia centro meridionale (India, Tibet e Persia).
L'ipotesi dell'origine sanscrita del termine è stata avvolorata grazie a termini le cui traduzioni
possono riportare alle parole “asceta buddista”, “monaco” o a vocaboli delle lingue tocaria e
sogdiana che, grazie ai commerci, lascerebbero supporre un vero e proprio cammino della
parola dall'India settentrionale alla Siberia attraverso la Persia e le distese dell'Asia centrale.
Un importante studioso finlandese ha osservato che soprattutto nelle cerimonie d'iniziazione
sciamanica tra i buriati e i tungusi si ritrovano rilevanti simbologie e passaggi: alcuni elementi
riconducibili alla mitologia tungusa dell'albero miracoloso presso il quale si trova una
mostruosa lucertola trovano corrispondenza nel mito d'iniziazione sciamanica buriate legata
alla figura del serpente presso l'albero del latte. Ciò fa supporre una reciproca relazione tra il
mondo iranico-centroasiatico e le realtà siberiane. A livello geografico, effettivamente, le
regioni settentrionali dell'Euroasia hanno sempre avuto “le porte aperte” nei confronti di
contatti con i modelli culturali centro-asiatici e con il pensiero delle grandi religioni
(buddismo, ebraismo, cristianesimo, islamismo, manicheismo, culto mazdeo e taoismo);
soprattutto l'impatto del buddismo e dell'islamismo sembrano aver dato luogo a forme di
sciamanesimo sincretistico tra molti popoli dell'area settentrionale.
I vocaboli mongolo-buriati “boo” e “utgan” indentificano lo sciamano; il primo nella figura
maschile e il secondo in quella femminile. Per quanto riguarda il termine “boo”, due famosi
linguisti hanno stabilito che esso non può essere anteriore al XI secolo; altri linguisti
suppongono che la sua origine sia più recente e legata all'affinità con il vocabolo tataro “bo-
gu” (saggio). Attualmente il termine identifica per la maggior parte delle popolazioni della
Mongolia il credo sciamanico, non inteso come forma di religione, quanto piuttosto come
complesso di credenze e sistema idelogico. Per quanto concerne invece il vocabolo “utgan”, i
due linguisti hanno stabilito che esso è più antico di “boo”. È interessante notare come, tra le
popolazioni dell'Asia settentrionale, se per indicare la figura dello sciamano maschio esistono
molteplici termini, per quanto riguarda la donna sciamano “utgan” è l'unico termine comune
a tutti i gruppi etnici. Questo ha testimoniato per molti studiosi una maggiore antichità dello
sciamanesimo “al femminile”. Il termine affonda le proprie radici in alcuni vocaboli del ceppo
linguistico mongolo-altaico, che riportano al concetto di Natura come madre originaria
generatrice e dispensatrice di vita, che dunque sarebbe collegato al ruolo dello sciamano
donna. Sembrerebbe che ciò avesse una esatta corrispondenza nella società nomade, dove, in
passato, i compiti svolti all'interno della “gher” (come la preparazione e la spartizione del
cibo) avevano una maggiore corrispondenza nel complesso di credenze rispetto ad oggi ed
erano riservati solo alla donna, che detenava una particolare forma di potere nei confronti
dell'uomo. Bellatalla osserva che la tenda riveste tuttoggi un importante valore simbolico:
oltre ad essere il riparo e l'abitazione della famiglia, rappresenta l'immagine simbolica del
cosmo, dell'universo. Dunque, nonostante nella letteratura occidentale si faccia riferimento
allo sciamano con un termine unicamente maschile, è lo sciamano donna rivestire il ruolo
privilegiato. A testimonianza di questo abbiamo il ritrovamento di alcuni gioielli in legno
raffiguranti l'“utgan” durante lo svolgimento di cerimonie sciamaniche; gli annali cinesi del II
secolo d.C, che testimoniano che alcune cerimonie officiate presso alberi sacri venivano
eseguite solo dalle donne; gli annali che riportano che, fra i manciù, gli sciamani più potenti
vivevano al servizio della famiglia reale, presso la corte, ed erano solo donne; uno studio che
rivela che tra i popoli yakuti e siberiani le cerimonie più importanti potevano essere officiate
solo da sciamani donne o da uomini che durante il rito indossassero abiti e acconciature
femminili sotto la supervisione di un'anziana sciamana.
COMPITI DELLO SCIAMANO
Entrando nel vivo della domanda “cos'è lo sciamano?”, Bellatalla lo descrive come un anello
di collegamento tra la vita terrena e il mondo degli spiriti. Il suo compito è quello di ottenere
risultati concreti volti ad aiutare il singolo e la collettività attraverso la sua esperienza estatica
e di trance durante cerimonie e azioni. Lo sciamano, con la trance, uno stato modificato della
coscienza che gli permette di scatenare processi di autoguarigione nel paziente che ha di
fronte, si espone ad un rischio di natura psico-fisica non trascurabile. Le azioni che svolge
possono riassumersi in termini occidentali nei seguenti ruoli: medico (in quanto compie
diagnosi attraverso il contatto con gli spiriti e interviene sul malato cercandone la guarigione);
psicologo (poiché svolge un'azione diretta sulla psiche del paziente attraverso i rituali, la
liturgia e il dialogo); sacerdote (in quanto svolge i compiti relativi all'officio di sacrifici e riti
inerenti al pensiero religioso e sacro); divinatore (poiché acquisisce indicazioni su avvenimenti
e luoghi al di fuori dello stato ordinario di coscienza attraverso il contatto con gli spiriti
nell'esperienza estatica); psicopompo (nonché accompagnatore dell'anima nel defunto nel
viaggio al regno dei morti).
Quando la famiglia dell'ammalata giunge al campo dovrà aspettare viene ospitata dalla nipote
della sciamana in attesa del rituale. Ciò che nota il nostro autore è che l'attesa per il rituale
sembra avere un effetto terapeutico e contagioso su tutto il campo. Dal confronto con
un'ipotetica situazione occidentale, Bellatalla mette in luce i punti focali di una tale pratica di
guarigione. Nel mondo occidentale, se in una sala colma di gente una persona si sente male, i
presenti rimangono temporaneamente sconcertati e affranti, ma, una volta a casa, ben presto
si dimenticano dell'accaduto; il medico provvederà alla diagnosi e alla cura dello sfortunato e
solo i familiari parteciperanno al suo dolore. Se, invece, in una comunità nomade, un pastore
manifesta malessere o malattia, l'intero clan partecipa attivamente al dolore; lo sciamano si
occuperà di effettuare la diagnosi al malcapitato, che potrà avvenire solo ed esclusivamente
durante la cerimonia. Ciò che emerge dal confronto tra le due situazioni ipotetiche è
innanzittutto uno spostamento della condizione dal piano visibile a quello invisibile, che lo
sciamano riesce a compiere attraverso le diverse fasi del rito, mediante l'uso della trance.
Inoltre, possiamo osservare che, se nella nostra società rimane il peso della malattia come
condizione individuale, nella società nomade si assiste ad uno spostamento dall'individuale al
collettivo, con una partecipazione alla sofferenza da parte di tutti, volta a sdrammatizzare
l'evento, che viene visto come un “nodo di comunicazione con l'invisibile”, dunque anche
come un'opportunità per l'intero gruppo. Infine, ciò che nel primo caso viene vissuto come
inevitabile, e talvolta persino irreparabile, nel modello sciamanico può divenire rimediabile;
assistiamo cioè ad un ultimo spostamento, dal piano fatale al piano sanabile.
Più volte nel corso della storia, e tuttoggi, gli sciamani sono stati e vengono spesso accostati
alla follia. Essi sono stati descritti da studiosi come individui nevrotici e mentalmente malati,
isterici, schizofrenici (ricordiamo il libro “La schizofrenia artica”, dove l'autrice asserisce che
le ragioni della schizofrenia sciamanica sono da riscontrarsi nelle condizioni climatiche e di
isolamento in cui vivono) ecc. Bellatalla definisce tali etichette “semplicistici schemi riduttivi”
e ci spiega la differenza tra lo stato psicologico di uno schifofrenico e quello di uno sciamano
in stato di trance: il primo rapporta le sue esperienze al livello dell'Io, riconducendo a livello
personale esperienze che sono transpersonali, in una generale confusione dei livelli di
coscienza; il secondo passa attraverso episodi di psicosi, ma è lui stesso che decide dove e
quando intraprendere questo “viaggio”, di cui è in grado di riconoscere le tappe attraverso
modelli culturali e mitologici. Lo sciamano è, cioè , al contrario dello schizofrenico,
consapevole di ciò che lo aspetta, grazie alla preparazione avvenuta durante la sua iniziazione,
nonché la malattia nella quale lui stesso è stato al contempo il malato e il guaritore; attraverso
l'esperienza estatica ha riconosciuto e tracciato una mappa del suo spazio interiore ed è
capace di indirizzare e gestire l'esperienza estatica per il fine stesso della cerimonia, la
guarigione del paziente. Lo sciamano attraversa la soglia del raziocinio verso l'oscuro mondo
delle emozioni; per questo, per capire lo sciamanesimo è necessario riuscire a penetrare le
nostre stesse emozioni. A tal proposito Bellatalla introduce i due concetti di stati ordinari di
coscienza e di stati modificati di coscienza, i quali non sono da considerarsi come esperienze
opposte. In uno stato ordinario di coscienza abbiamo la massima separazione tra l'Io e il
mondo esterno; attraverso una leggera intensificazione dell'emozione, il senso di sé si allaccia
all'ambiente, agli altri esseri e alle cose e a questo livello si sviluppa la capacità di empatia e
compassione. Tale processo, che riconduce ad un'immagine di riconciliazione tra sé e il mondo
circostante, implica una sensazione di benessere. Aumentando l'intensità dell'emozione, la
separazione tra l'Io e l'ambiente circostante comincia a venir meno, fino ad arrivare alla
sostituzione della coscienza dell'Io con l'oggetto stesso dell'emozione. Lo stato modificato di
coscienza è il culmine di tale processo emozionale, che può risolversi in una netta scissione
dell'Io con l'espansione di altri contenuti della coscienza. Tale processo evolutivo si riconduce
all'identificazione con altre persone, con il mondo animale e vegetale, ad una esperienza di
Unità, alla capacità di cogliere l'esperienza umana nella sua essenza. È in questo senso che lo
sciamanesimo dovrebbe essere visto come un'intensificazione dell'esperienza emotiva del
mondo e che chiunque voglia comprenderlo deve innanzittutto riuscire ad entrare nelle sue
stesse emozioni.
Una volta che i partecipanti al rituale si sono disposti secondo le indicazioni della sciamana, la
donna malata viene trasportata all'interno della tenda e aiutata a sedersi. Bellatalla sottolinea
più volte che, nonostante sia visibilmente sofferente, appare fiduciosa e impaziente. Inizia la
vestizione della sciamana: prima il pesante abito fatto di catenelle e oggetti metallici che
riproducono la composizione delle sue ossa, poi l'abito coloratissimo, nove lunghe code e
infine il copricapo con le frange che le nascondono il volto. Dopodiché è la volta del tamburo:
un aiutante inizia a canticchiare seguito dai partecipanti, il tamburo viene fatto ruotare sopra
la stufa di ghisa e percosso, finché non viene preso dalla sciamana, che lo percuote con il suo
barket saldamente legato al polso. Adesso la voce del tamburo è quella giusta e la sciamana,
seduta su un piccolo sgabello di fronte all'altare, comincia a cantare. Il canto e il ritmo del
tambuto crescono ossessivamente e si aggiungono sibili, fischietti e rantoli. La sciamana
sembra in bilico, finché non salta in piedi continuando a far crescere canto e voce del tamburo
e non inizia a saltare e compiere rotazioni. Improvvisamente si scaraventa sulla malata, che
stramazza al suolo, e inveisce su di lei. Il battito del tamburo si interrope: Namjil è in trance.
In ginocchio davanti alla donna, ciondola il capo ed emette suoni senza senso, sibili, rumori,
rantoli e invoca nomi di entità; vicino a lei ci sono suo figlio e il suo amico, pronti ad aiutarla
in caso di perdita dei sensi. Sempre in stato di trance, la sciamana si alza continuando a
ruotare e saltellare e il tamburo riprende a picchiare. Un uomo che si era allontanato dalla
gher, quando rientra viene trascinato al suolo e colpito ripetutamente da Namjil, evocando
nomi ed episodi. A un certo punto, la sciamana lascia cadere a terra il tamburo e soffia sul
volto della donna malata che ha perso i sensi, fuma del tabacco con una pipa, poi estrae ciò
che rimane del tabacco, lo mastica e lo sputa sul volto della donna. La sciamana ulula come un
lupo e opera una forte pressione sulla parte posteriore del collo della donna, poi, dopo averla
violentamente girata sottosopra, preme sulla schiena, tira e comprime in corrispondeza dei
reni. Dopodiché la sciamana perde coscienza per venti minuti e poi riprende il suo lavoro. La
donna malata ha iniziato a tremare e rantolare e ha vomitato. La cerimonia si è protratta per
più di otto ore. Dopo tre settimane, la donna malata è andata al clan con sua figlia e ha
portato dei doni per Namjil: biscotti fatti in casa, airag (latte fermentato di giumenta),
tabacco e la sciarpa azzurra di cotone. La donna ha chiacchierato con la sciamana senza fare
alcun riferimento al rituale di guarigione, come da etichetta nomade. Circa la validità di tale
metodo di guarigione, Bellatalla ricorda quando una fotografa italiana a lui sconosciuta
arrivò improvvisamente al campo dove si trovava per fare un servizio fotografico e, al
momento di andarsene, esordì con una domanda retorica, chiedendogli se lui, essendo un
uomo di scienza, non credesse di certo ai rituali sciamanici. L'autore racconta che sorrise e
non lasciò risposta alla fotografa, lasciandole la possibilità di ovviare con autorevoli
testimonianze sullo sciamenesimo.
CAP. 6: LO SPECCHIO DI ALICE
In questo capitolo Bellatalla racconta la sua esperienza nella taiga nomade siberiana presso gli
Tsaatan e l'iniziativa che ha intrapreso per aiutare tale popolo. Con i consigli e gli strumenti
messi a disposizione da un famoso etnografo, Bellatalla è partito con l'amico Dino per il
distretto di Tsagaan Nuur, passando per Moron, dove i due hanno potuto acquistare i biglietti
aerei a prezzo mongolo; una cittadina adatta per girare film surreali, che l'autore ci descrive
tramite immagini (un binario ferroviario, un vigile urbano che dirige un traffico inesistente,
cavalieri incuranti di strade, automobili che trasportano carcasse di auto fissate sul tetto ecc).
Da lì 270 chilometri di guadi, passi, boschi intricati e ghiaioni per raggiungere il villaggio di
Tsagaan Nuur, una striscia di case di legno aggiustate un po' alla meglio (con reti da letto,
parti di pneumatici e tavaole di legno) sui lati di una “strada” che costeggia la riva di un
grande lago incorniciato dai monti Sayan. Il villaggio è privo di luoghi per ospitare i viandanti
e Bellatalla e l'amico vengono ospitati da un uomo, Gambolt, che gli apre le porte della sua
casa di legno, dove per loro ha riservato una camera e una sorta di soggiorno-cucina con una
stufa di ghisa. A Tsagaan Nuur non esistono tubature o fogne e l'acqua va recuperata dal lago
con secchi e bidoni. I bagni sono costituiti da piccolissimi parallelepipedi di legno posti nel
mezzo del prato di fronte alla casa e da un buco nel terreno. Esiste un solo negozio,
considerato un vero e proprio “shopping center”, che vende pochissimi oggetti per lavarsi,
scrivere, fumare e pochissimo cibo. Il palazzo del governo è l'unico edificio a due piani, nel
quale delle piccole stanzette sono adibite a uffici pubblici.
Per qualche giorno Bellatalla e l'amico notano qualcosa di nuovo: dopo la legatura degli
animali ai tronchi d'albero abbattuti sistemati intorno alle tende per evitare che si allontanino
nella notte e che diventino preda dei lupi, alcuni uomini riportano al clan le carcasse di alcune
renne morte, delle quali si sarebbero cibati.
Si trattava di un'epidemia che colpiva gli animali, i quali iniziavano a zoppicare a causa
dell'ingrossamento delle giunture e a non cibarsi più, fino a morire. Per gli Tsataan era una
situazione del tutto nuova, per cui le cure a base di erbe non funzionavano. Decisero così di
lasciare una lettera di richiesta di aiuto a Bellatalla e a Dino. I due, appena lasciato il campo,
si mossero subito verso enti nazionali ed internazionali per cercare delle soluzioni, ma sei mesi
dopo nessuno era ancora intervenuto e la situazione era peggiorata: anche le persone stavano
male e quattro di loro erano già morte. È da qui che Bellatalla inizia a fare qualcosa di
concentro: grazie ad un competente veterinario tedesco portato nella taiga, riuscirono ad
avere un quadro completo della situazione, con l'aiuto del tecnico della Croce Rossa della
Mongolia iniziarono ad elaborare un progetto di aiuto umanitario e di assistenza medico
sanitaria, a la Spezia crearono l'Associazione Taiganà per raccogliere i fondi necessari. La
situazione era veramente difficile: degli oltre 1400 capi di bestiame ne rimasero solo 420 e le
condizioni di salute della comunità erano molro compromesse, inoltre si doveva intervenire
nel rispetto della loro identità socio-culturale. Ci vollero sei anni per poter tirare un primo
respiro di sollievo. Bellatalla racconta come la comunità traeva conforto dalla presenza sua e
di Dino sul campo e come, allo stesso modo, il loro sostegno lo abbia aiutato a rimanere
speranzoso. Una sera l'autore disse al suo caro amico Gombo che forse per la sua famiglia
sarebbe stato conveniente spostarsi a Tsagaan Nuur, dove avrebbero potuto avere una vita più
sicura e con migliori opportunità. La risposta decisa di Gombo è stata che non avrebbero mai
lasciato la taiga, poiché lì avevano un impegno da adempiere nei confronti dei propri figli,
quello di rinnovare il legame con i loro antenati tramite la terra nella quale vivono con gli
animali.
Oggi, la storia degli Tsataan ha fatto il giro del mondo ed essi sono diventati una delle
principali attrazioni turistiche della Mongolia. Bellatalla sottolinea il rischio più grande
derivante da una tale strumentalizzazione, cioè quello di perdere di vista ciò che c'è stato tra i
rappresentanti del mondo sedentario e i nomadi della taiga: un'esperienza dove lo scambio ha
arricchito entrambe le parti di ciò di cui avevano veramente bisogno. Per l'autore è tempo di
attraversare lo specchio di Alice, guardare noi stessi stando dall'altra parte e capire ciò di cui
abbiamo davvero bisogno.