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Indice

chiusura 288

Ringraziamenti (manca)
Prefazione (manca?)

Parte prima

Sei un Creator, non dimenticarlo 3


Idee contagiose 11
Il segreto della viralità 19
Viral history 24
Sesso, gattini e cose assurde? 32
Dio è virale 41
Il Fronte di Liberazione dei Simboli 49
Life’s for Sharing 60
Il Web è il mio ’68! 64
Produco (senso), quindi sono 68
Do it yourself (DIY)! 71
Dirottare un brand 76
Per autore:
in italiano? Greed is (not) good 79
L’economia del dono 84
Mossi da un pathos condiviso 89

V
Parte seconda

Progettare il viral-dna 99
Cosa ci insegnano i miti e le leggende urbane 112
Tutti vogliono essere il DJ 124
Identificare una tensione 129
La catarsi come finalità 136
Dalle tribù agli emotoni 141
«I mercati sono emozioni» 147
Gli archetipi come attivatori di emozioni 158
L’Archetypal Branding 168
Alla scoperta del codice culturale 185
Il brand come soul maker 196
Verso un marketing spirituale 205
Innescare un movimento sociale 216
Il Chief Meaning Officer 227
Che fine ha fatto Alex Bogusky? 234

Appendice

Viral tips & tricks 247


I 10 principi fondamentali della «sacra scuola
del marketing non-convenzionale» 259

Note 261

VI
Parte prima

1
2
Sei un Creator,
non dimenticarlo

Secondo la Kabbalah, prima ancora che il tempo stesso avesse


inizio, esisteva un’energia infinita, detta Luce, o anche «la cau-
sa prima». Essa si estendeva senza limiti e riempiva l’eternità,
espandendosi nell’infinito al di là del tempo e dello spazio. Questa
energia aveva un’unica essenza, una sola volontà, quella di con-
dividere infinitamente. Per appagare la sua natura così generosa,
finalizzata a dare, quella forza senza fine dovette creare un rice-
vente con il quale condividere la sua essenza, chiamato il Vaso.
Questo è il «primo effetto» e la sua natura è il desiderio di
ricevere.
Mentre la Luce riempiva il Vaso gli trasmetteva i suoi attri-
buti. Il Vaso ereditò così la natura di quella forza creatrice, vale
a dire il potere di dare gioia, di condividerla e di essere parte
attiva nel processo della creazione. Il Vaso ereditò il potere di
creare. Per questo iniziò a desiderare non solo di ricevere, ma
anche di essere la causa della propria felicità. Il Vaso desiderò
di avere il controllo sulla propria esistenza. Come un genitore
amorevole non interviene e lascia che il bambino cada affinché
impari a camminare, allo stesso modo la Luce si ritrasse, pro-
prio nel momento in cui il Vaso decise di provare a condividere
la luce con le sue sole forze. Fu questo secondo la Kabbalah il

3
momento della creazione dell’universo, quello che gli scienziati
chiamano il Big Bang.
Trattenendo per un istante la sua generosa emanazione di
energia benefica, la Luce fece un vuoto attorno a sé e donò al Vaso
il tempo e lo spazio necessari a far evolvere la sua natura divina.
Così l’universo fu spezzettato e trasformato in un complicato
puzzle, il mondo caotico e disordinato di cui facciamo parte. Si
dice che questa sia la ragione per cui noi esseri umani aspiriamo
a diventare gli artefici del nostro destino e la causa della nostra
gioia. Per questo nella profondità del nostro cuore sentiamo
di essere simili al Creatore. Rimettendo insieme il puzzle della
creazione saremo infatti in grado di riconnetterci alla sua Luce.1

Il libro che hai fra le mani è stato scritto per condividere con
te qualcosa di ben più importante delle tecniche che apprenderai
per migliorare la tua arte di vendere prodotti. Probabilmente ti
avrà colpito il sottotitolo che contiene l’esplicita promessa di
svelarti una formula segreta in grado di migliorare la tua capacità
di produrre idee e di comunicarle. Ma dentro a quelle parole c’è
un’altra anima, quella che mira a ricostruire insieme a te il puzzle
di un mondo andato in frantumi. Quello che ti vorrei proporre
è di trasformare il tuo modo di vedere le cose, per rendenderti
consapevole (se già non lo sei) del tuo immenso potere creativo e
per stimolarti a indirizzarlo verso l’evoluzione di te stesso e della
società di cui fai parte. Creatività per l’evoluzione: è questo in
estrema sintesi l’invito di Create! Siamo dei Creator e abbiamo in
noi il potere di creare. Come dice Ben Parker al nipote Peter nel
film Spider-Man: «Da un grande potere derivano grandi respon-
sabilità». è questa la cosa più importante che mi hanno insegnato
i miei maestri. Ma immagino che il tuo desiderio di concretezza
e la frenesia tipica di un mondo che cerca ricette semplici e di
facile applicazione ti stiano già mettendo ansia. Del resto, stai
solo cercando una risposta alle tue domande.

4
Vuoi sapere come progettare un’idea contagiosa? Se stai
pensando di saltare a piè pari la prima parte del libro per sa-
pere subito a cosa corrispondono le lettere che compongono la
parola Create, continua a leggere, perché soddisferò subito ogni
curiosità. Come avrai capito, si tratta di una specie di formula
segreta contenuta nel titolo del libro. Ogni lettera corrisponde a
un elemento della formula, come in una sequenza di proteine che
vanno a formare il DNA dell’idea. è una formula semplice, che
potrai applicare ogni qual volta ti troverai di fronte alla necessità
di dover partorire un’idea di comunicazione o di business, oppure
dovrai scegliere l’idea migliore fra le diverse che ti propongono.
Se sei un addetto ai lavori e ti occupi di comunicazione, avrai
forse sentito parlare di «marketing virale», ovvero di quel tipo
di marketing finalizzato a realizzare prodotti, marche e comuni-
cazioni commerciali capaci di diffondersi spontaneamente fra le
persone proprio come un virus. Oggi per lanciare un prodotto
o un’idea di business non basta più definire il DNA della marca
, con il suo logo, l’identità grafica, la sua personalità e i tratti di
immagine da imporre alle persone con i bombardamenti a tappeto
della pubblicità. è necessario che la tua idea sia contagiosa in par-
tenza. Per questo con il termine viral-dna ho identificato proprio
l’intrinseca capacità di un’idea di essere adottata emoltiplicata.
è sul viral-dna che bisogna quindi concentrare la maggior parte
degli sforzi nella progettazione di un prodotto, di una marca e
di una comunicazione che siano in grado di «risuonare» con le
persone. Passare dal brand-dna al viral-dna significa cambiare
prospettiva, iniziando a considerare l’idea – e non più solo gli
investimenti in pubblicità – come il vero segreto del successo di
un progetto.
Una volta le marche si costruivano a suon di spot. Il cosid-
detto brand building alla vecchia maniera considerava i soldi
spesi in comunicazione come la moneta prioritaria. Solo grandi
budget da investire sui media tradizionali potevano garantire
a una marca di farsi conoscere, portando dalla notorietà alla

5
vendita e permettendo così di reinvestire moneta in pressione
pubblicitaria. Oggi è più importante che l’idea sia in grado di
generare un entusiasmo spontaneo fra le persone. Sono loro che
diventeranno i moltiplicatori del messaggio e che decreteranno
il successo dell’idea. La creatività è la nuova moneta!

Dal brand-dna al viral-dna:


progetta la natura virale del tuo brand
prima di ogni cosa.

Questo è il primo principio del marketing non-convenzionale.


Ma se nel mio primo libro2 ne veniva sottolineata in tutti i modi
l’importanza, tuttavia, non esaudiva il desiderio del lettore di
sapere come progettare il viral-dna. Per questo è nato Create!,
con l’obiettivo di approfondire l’argomento ed esporre in maniera
esaustiva gli elementi fondamentali della natura virale di un’idea
contagiosa, ovvero quel codice genetico che ne determina la
propagazione e ne decreta il successo.
Il viaggio che ho intrapreso per arrivare fino a qui è stato lungo
ed è iniziato in realtà molto prima della consapevolezza di doverlo
poi raccontare in un libro. Stavo per laurearmi quando a Milano
incontrai il mio mentore, Michelangelo, il vero maestro della sacra
scuola dei Ninja. Capelli e barba lunghi e bianchi come nel Platone
ritratto da Raffaello nella Scuola di Atene. Le sue parole erano
profonde, i gesti dolci e affettuosi. è lui che mi ha trasmesso la
consapevolezza della «sacralità della comunicazione», ovvero di
avere a che fare con qualcosa che è degno di rispetto, ossequio,
venerazione, in quanto potere di derivazione divina. Qualcosa
da maneggiare con cura e grande responsabilità. Credi che stia
esagerando? Pensa allora alla parola «comunicazione». Il primo
significato è quello di mettere in comune, di condividere. Comuni-
care deriva dall’aggettivo latino communis che significa «comune»,

6
«che appartiene a molti». Da qui il sostantivo comunità, e anche
comunione. è grazie a Michelangelo e alle sue straordinarie lezioni
di forma mentis che ho iniziato a padroneggiare le tecniche più
avanzate dell’arte della comunicazione. Ed è lì, in quel convivio di
saperi, che ho incontrato Alex, il mio socio e fraterno compagno
di viaggio. Seguendo quella scintilla di conoscenza, da Milano
mi sono trasferito in Magna Grecia, ovvero nel Sud Italia, dove
con lui ho fondato il sito Ninja Marketing e la Sacra scuola del
marketing non-convenzionale dedicata a formare i comunicatori
del futuro. Il tutto con ironia, un taglio decisamente pop e senza
mai prenderci troppo sul serio. «Seri ma non seriosi», come ci
teniamo a dire. E dopo aver portato un po’ di creatività in più
nel marketing e aver dato vita a un movimento di guerrieri della
comunicazione, ho continuato a seguire quella «chiamata» che
mi aveva portato a indagare prima l’animo umano e poi la sua
relazione con la comunicazione. è stato un viaggio interiore, nel
corso del quale mi sono immerso nei simboli, nelle immagini, nelle
parole che vivono nell’inconscio e che si perdono lontano nei
tempi. Ne ho saggiato il potere ancestrale, l’energia primordiale.
Lungo questo cammino ho incontrato buoni e cattivi maestri,
guerrieri dal cuore puro e mercenari. E altri viandanti che come
me si stavano interrogando sul loro ruolo di comunicatori e
su come contribuire attraverso la loro professione a rendere il
mondo migliore.
Anche fra i manager del marketing e della comunicazione si
stanno affermando sempre più rapidamente nuovi valori e nuove
pratiche di business. Le vere innovazioni oggi non riguardano
più solo gli aspetti tecnologici e funzionali di nuovi prodotti e
beni di consumo, ma hanno iniziato ad abbracciare questioni
più ampie che dal mercato vanno a riguardare la società nel suo
complesso. Gran parte delle innovazioni che hanno veramente
fatto la differenza negli ultimi anni sono state «innovazioni so-
ciali»: Facebook permette nuovi modi di relazionarsi, conoscere
persone, organizzare progetti e stare insieme, iPhone oltre a essere

7
uno smartphone è una piattaforma che aggrega una pluralità di
servizi e li integra in un solo strumento diventando così parte
integrante della vita quotidiana.
Le persone, grazie agli strumenti offerti dalla Rete, mettono
sempre più in campo il loro potere di creare, comunicare e in-
novare e chiedono alle aziende di contribuire all’innovazione e
all’evoluzione della società. Molte di queste innovazioni sociali, e
anche di importanti innovazioni tecniche, non sono più il prodotto
esclusivo di grandi società e centri di ricerca, ma incorporano
la creatività quotidiana di piccole imprese, comunità produttive
auto-organizzate e persino di singoli individui che adesso riescono
a mettersi in contatto più facilmente fra simili e a collaborare;
basta pensare, per esempio, alle comunità di sviluppatori di
software gratuito e open source.3
L’innovazione e l’evoluzione sociale si traducono in un mar-
keting più sostenibile e in una comunicazione più significativa
e consapevole. Il mondo delle aziende, del marketing e della
comunicazione, del design hanno oggi davvero la possibilità di
contribuire a migliorare le cose attraverso un approccio sempre
più sociale e spirituale. E noi, come professionisti, possiamo
prendere consapevolezza del ruolo sociale e spirituale della
comunicazione e decidere di portare avanti la nostra missione,
ovvero quella di adoperarci per rendere il mondo un posto
migliore con i mezzi e le risorse che abbiamo a disposizione.
Conosci la Fun Theory di Volkswagen? è semplice e di grande
impatto. Si basa sull’idea che il divertimento sia un ottimo modo
per cambiare l’atteggiamento e il comportamento delle persone
in meglio. Per esempio è possibile incoraggiare gli abitanti di una
città a fare più moto. Lo ha fatto l’agenzia DDB che ha realizzato
una serie di esperimenti di innovazione sociale come quello che
ha trasformato le scale della metropolitana di Stoccolma in un
gigantesco pianoforte. Le persone incuriosite di fronte a questa
insolita installazione decidevano di «suonare i gradini con i piedi»
al posto di utilizzare la scala mobile. Dario Solina è invece un

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creativo che si è inventato una nuova pratica che ha chiamato
«chattivism», un’azione semplice e positiva in grado di miglirare
l’umore delle persone all’interno delle chat facendole sorridere
per mezzo di semplici e simpatici espedienti (come mettere uno
smile sulla faccia o una parrucca ridicola in testa). Il brand di
gelati Ben & Jerry’s, di proprietà di Unilever, si adopera per
sostenere i progetti delle comunità con cui entra in contatto. A
San Francisco, per esempio, ha difeso i diritti della comunità
omossessuale creando un nuovo gelato chiamato Hubby Hubby.
Brand di nuova generazione ma anche molte marche storiche si
stanno stanno indirizzando verso un tipo di economia sociale,
ovvero un nuovo tipo di economia che combina alcuni elementi
del passato con altri innovativi.
Le sue caratteristiche basilari includono il cospicuo uso dei
network per sostenere e gestire le relazioni, un confine sfumato
tra produzione e consumo, l’importanza data alla collaborazione,
alla cura e alla manutenzione piuttosto che a un irresponsabile
comportamento usa e getta. Inoltre, la crescente enfasi sulla
dimensione umana e sul ruolo degli individui unita al crescente
sviluppo dei social network alimenta una nuova economia non
più basata su strutture centralizzate ma su sistemi distribuiti che
risolvono problemi grazie alle persone. Per esempio FixMyStreet4
è un servizio online che permette a tutti i cittadini inglesi di se-
gnalare le buche nelle strade, i marciapiedi dissestati, i lampioni
rotti in modo che si possa procedere alla riparazione.
In questo nuovo tipo di economia incentrata sul crescente
ruolo degli individui e dei network assumono un ruolo sempre
più rilevante le relazioni fra le persone e le emozioni da loro
condivise, ovvero la forza in grado di fare da collante e di ali-
mentare la collaborazione e l’azione collettiva. Nel libro scoprirai
che «virale è la condivisione sociale delle emozioni». Emozioni
positive mosse da una intenzione di elevazione sociale e spirituale
possono sostenere e incrementare le energie vitali delle persone
permettendogli di agire nell’ambiente in modo collaborativo e

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positivo con il fine di creare valore. O addirittura scatenare una
rivoluzione.
Power to you è una campagna di Vodafone. In Egitto era in-
centrata su un bellissimo spot di tre minuti con la voce narrante
dell’attore arabo Adel Imam che descriveva il «potere di 80 mi-
lioni di persone» su splendide immagini di vita quotidiana degli
egiziani. Lanciato il primo gennaio 2011, solo 23 giorni prima
della storica rivoluzione che ha abbattuto il regime di Mubarak,
ha ispirato le persone, ricordandogli attraverso un messaggio
fortemente emotivo il loro immenso potere di cambiamento.
«Non importano gli anni di attivismo, le proteste, i decenni di
risentimenti accumulati, la terribile situazione economica, le
libertà politiche calpestate, la brutalità della polizia, la tortura
eccetera», ha dichiarato il blogger egiziano Mohamed El Dahshan
al Guardian. «No, abbiamo visto la pubblicità di Vodafone e ci
ci siamo detti: Ehi! Siamo potenti! Buttiamo giù il Presidente!»5

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Idee contagiose

Negli anni Novanta a Parigi un anonimo artista francese iniziò


a bersagliare la città con mosaici colorati cementati furtivamente
sui muri. I mosaici raffiguravano in forma stilizzata gli alieni di
Space Invaders, uno dei primi videogiochi creato nel 1978 da
Toshihiro Nishikado e oggi oggetto di culto tecno-vintage. In
breve tempo le immagini degli alieni, fatte di mattonelle invece
che di pixel, iniziarono a invadere anche altre città arrivando
fino a Londra, Montpellier, Tokyo, Amsterdam, Grenoble, Los
Angeles, New York, Hong Kong, Berlino, Barcellona, Istanbul.
E l’invasione è tutt’ora in corso.
Gli artisti autori di queste curiose opere murali, chiamati
appunto Space Invaders, si contraddistinguono per l’anonimato
e l’invisibilità con cui agiscono. Nessuna loro opera viene fir-
mata. Il loro scopo è quello di «contaminare» lo spazio visivo
metropolitano attraverso la trasposizione del videogioco dal
mondo virtuale a quello reale. Un detournement, per usare il
linguaggio della communication guerrilla, vale a dire un metodo
di straniamento che modifica il modo di vedere gli oggetti co-
munemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale
e inserendoli in una nuova, inconsueta relazione con la realtà
che ci circonda.
L’impatto è davvero notevole, emozionante e creativo. L’ef-

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fetto sorpresa deriva la sua forza dal riutilizzo di un’idea già
contagiosa in partenza: un «meme»1 ancorato ai ricordi e alle
emozioni dell’infanzia di una generazione vissuta agli albori
dell’era videoludica, quando i personaggi dei videogame erano
fatti di grandi pixel. Simpatici e squadrati mostriciattoli a 16
bit (fatti di una grafica con una risoluzione semplice ed estre-
mamente minimale) proprio come gli alieni di Space Invaders,
che questa volta sembrano essere usciti dagli schermi e aver
invaso il mondo reale come un virus, riportandoci alla memoria
i ricordi di interi pomeriggi trascorsi da bambini a cercare di
salvare il mondo.
Un’idea contagiosa che ultimamente è ricomparsa nella co-
siddetta «guerra dei post-it», una sorta di battaglia artistica che
si combatte giorno per giorno da una finestra all’altra degli uffici
francesi e che ha avuto una certa eco sui media di tutto il mondo.
Sembra che il tutto sia iniziato quando alcuni impiegati
dell’azienda di videogiochi Ubisoft, seccati perché loro erano
in ufficio mentre Parigi si stava svuotando per le ferie, hanno
iniziato a dare sfogo alla loro creatività ricreando sulle finestre
dell’ufficio le sagome di personaggi dei videogame con i famosi
fogliettini adesivi colorati (dagli alieni di Space Invaders si è
passati poi ad Angry Birds e a Super Mario). Pare che il passa-
tempo inventato per gioco aiuti davvero a combattere noia e
stress: «Fa incontrare persone di diversi piani dell’ufficio che
altrimenti non si sarebbero mai conosciute», hanno dichiarato
gli impiegati intervistati, che si sono anche vantati di aver abolito
la classica pausa sigaretta per una più salutare pausa-post-it.
Da sempre esistono idee contagiose. Culture, stili di vita,
immagini, prodotti, brani musicali, modi di dire, si diffondono
costantemente a macchia d’olio fra le persone.
Per esempio la cultura hip-hop e la musica rap sono modelli
di espressione culturale e musicale che hanno attecchito in ogni
parte del pianeta. Dagli Stati Uniti all’Australia, dall’Europa ai
Caraibi, nei cinque continenti e in ogni Nazione del mondo esiste

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una «scena hip-hop». Questa cultura prevalentemente giovanile –
che si esprime in varie forme che vanno dal ballo, alla musica alle
arti visive – è nata dagli afroamericani negli USA, ma è riuscita a
entusiasmare i ragazzi di tutto il pianeta. Un’idea davvero conta-
giosa che ha fornito dei modelli culturali ed espressivi ai giovani
delle aree urbane più degradate. L’hip-hop ha fatto tornare di
moda i dialetti, ha diffuso l’orgoglio del multiculturalismo ed ha
anche creato una industria milionaria.
I «paninari» sono invece un’altra subcultura giovanile, sicu-
ramente meno creativa e più conformista, nata a Milano negli
anni Ottanta e da lì diffusasi prima nell’area metropolitana
milanese poi in tutta Italia e in alcuni Paesi europei. I paninari
si caratterizzavano come giovani apolitici, in aperta rottura
con quelli super-politicizzati degli anni Settanta. Erano osses-
sionati dalle griffe e aderivano a uno stile di vita fondato sul
consumo, sul divertimento a ogni costo e sulla spensieratezza
tipica di quegli anni. Un’idea contagiosa anche questa che ha
confezionato un periodo d’oro per marche come Timberland,
Moncler, Naj Oleari.
Il braccialetto Power Balance, diffusosi inizialmente nella
tribù dei surfisti, ha invece impazzato per una estate intera
promettendo benefici all’equilibrio e alle funzioni vitali. Detto
anche «braccialetto dell’equilibrio», si tratta un dispositivo che
promette forza, bilanciamento e resistenza grazie a un piccolo
ologramma che sarebbe in grado di entrare in risonanza con i
sistemi elettrici, chimici e biologici del corpo. Il braccialetto
Power Balance è stato portato all’attenzione del pubblico dal
calciatore Lavezzi del Napoli che l’ha indossato in una partita
di campionato. Poi sull’onda di un successo strepitoso l’azienda
produttrice ha collezionato anche una istruttoria dell’Antitrust
per pratica commerciale scorretta.
Fi.Gà. – che si legge con l’accento sulla a – è una bevanda
energetica dolce e frizzante dal nome volutamente ammiccante
e malizioso (qualcuno direbbe volgare). Da bere preferibil-

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mente fredda e in vendita nei bar in una elegante bottiglietta
in alluminio smaltato bianco è un drink analcolico a base di
succo di frutta, estratto di guaranà e caffeina. Per questo il suo
inventore, l’imprenditore veneto Giovanni Bagnoli, gli ha dato
il nome Fi.Gà, ovvero «fiori di guaranà». In pochi giorni dal
suo ingresso nel mercato, senza un euro di spesa pubblicitaria
e senza un proprio sito Internet, la bibita ha conquistato centi-
naia di migliaia di affezionati clienti, soprattutto donne, attratte
evidentemente non solo dallo stile glamour del packaging e dalla
dolcezza della bevanda, ma anche dalla possibilità di stuzzicare
le attenzioni e le fantasie maschili, grazie agli innumerevoli doppi
sensi e alle relative opportunità di conversazione scatenate dal
nome del prodotto. Risultato? 12 milioni di bottiglie nei primi
tre anni di vita.
Innumerevoli sono le idee contagiose realizzate invece in for-
ma musicale, come per esempio Gioca Jouer, il ballo di gruppo
portato al successo da Claudio Cecchetto nel 1981, così come
l’odiosissimo Ballo del qua qua di Al Bano e Romina Power.
Ma ci sono molti esempi di tormentoni basati su semplici e
appiccicosissimi modi di dire come il Whassup! (una specie di
«Tutto a posto?» di Budweiser, che ha imperversato agli inizi
del Duemila e il nostrano Buonaseeera, di cui nessuno ricorda il
prodotto pubblicizzato.2 Ci sono anche delle immagini ad alto
tasso di viralità. Pensa a quelle icone che diventano il simbolo
di un’idea, di un progetto, di un sogno, di un movimento, di
un’era. Come l’immagine del Che Guevara ricavata da una foto
di Alberto Corda o più recentemente il ritratto rosso e blu del
primo presidente afroamericano Barack Obama realizzato dallo
street artist Shepard Fairey detto Obey.
Ebbene, cosa accomuna tutti questi fenomeni? Qual è il segreto
della loro forza di diffusione? E come utilizzarlo per progettare
prodotti e marche contagiose? Seppur con la consapevolezza
che si tratta di un viaggio nei meandri dell’animo umano, di un
percorso non facile di ricerca della «pietra filosofale»– quella che

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trasformava i metalli in oro – della comunicazione, ti offrirò una
formula segreta. O perlomeno la mia formula segreta. Si tratta
di una ricetta che si propone di essere buona per te e per i tuoi
progetti di business, ma anche per gli altri. Perciò fanne buon
uso. Ricorda che non potrai garantire il il tuo benessere se non
ti curi delle persone che ti stanno intorno e non ti preoccupi
dell’intera società in cui vivi.
«L’uomo è un essere in movimento. Se non si muove nel
bene, necessariamente si muoverà nel non-bene. Se in lui non
sorge un pensiero qui, gli verrà un altro pensiero là». Così si
apre l’opera di grandissima qualità letteraria e straordinaria pro-
fondità psicologica, di Issai Chozanshi, scritta nel Diciottesimo
secolo.3 Nel corso del mio viaggio alla ricerca della formula, mi
sono infatti chiesto se sia lecito, se sia etico o meno, utilizzare
e diffondere la conoscenza su quelle che definisco «tecnologie
dell’anima», ovvero tecniche di persuasione che attingono alle
forme psichiche ancestrali dell’umanità. A questo può rispon-
dere un botta e risposta tra due tengu, i demoni che dialogano
sull’arte della spada:«La strategia è l’arte di ingannare gli uo-
mini con metodo? Perfezionarsi in quest’ambito non significa
favorire il nostro sapere superficiale e danneggiare il nostro
cuore?» chiede uno.
«Se il nobile ne fa uso, è un mezzo per assicurare la pace al
regno», risponde l’altro. «Se ne fa uso l’uomo comune, dan-
neggerà se stesso e potrebbe diventare un tramite per infliggere
sofferenza anche agli altri. Ma ciò vale per tutte le cose. Se sopra
ogni cosa si indirizza la propria volontà su quella via e non ci si
lascia fuorviare da un cuore imprigionato dal proprio io, allora
si può imparare perfino l’arte del ladro e del brigante senza che
la volontà ne soffra. Ma se la volontà pone al centro i sentimenti,
i desideri, il guadagno e le cattive azioni, allora anche i libri dei
santi e dei saggi favoriranno le pretese del sapere superficiale.
Perciò, in prima battuta, bisogna indicare alla volontà il giusto

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percorso e poi, senza lasciarsi sviare, accogliere nel proprio studio
tutte le cose di questo mondo.»
Con questa consapevolezza continuiamo il nostro viaggio che
ci porterà sempre più nel profondo della materia, nei meandri
dell’animo umano. Immagino che la tua curiosità stia crescendo
in modo esponenziale, come il contatore impazzito di un video
virale su YouTube. Comprendo il tuo desiderio di conoscere,
tipico di un guerriero della comunicazione pronto ad apprendere
nuove tecniche sempre più avanzate. E come per apprezzare
appieno le gioie della conversazione a tavola è fondamentale
iniziare con un rapido antipasto in grado di placare i morsi della
fame, così, per smorzare il tuo ardore, ti svelerò in anticipo gli
elementi della formula Create! In questo modo potrai rilassarti
e concentrarti sul percorso che ti propongo. Senza fretta, senza
correre, ma con cuore aperto e mente sgombra Ti consiglio di
goderti il viaggio che stiamo per iniziare insieme.

Catarsi, Riusabilità, Emozioni, Archetipi,


Tensione, Elevazione.

Ecco la formula Create!: Catarsi, Riusabilità, Emozioni, Ar-


chetipi, Tensione, Elevazione, sono gli elementi che compongono
la chimica di un’idea contagiosa. Le idee che si diffondono sono
catartiche, possono essere riutilizzate dalle persone, sono emo-
zionanti, contengono storie archetipiche, fanno leva su tensioni
psicologiche e sociali e – nel contesto storico ed economico in
cui viviamo – devono essere in grado di elevare gli esseri umani
e rendere la società migliore. Contento ora? Ecco qui la formula
che cercavi con tutti gli elementi alla base di un’idea che sia in
grado di attecchire fra le persone e di stimolare il passaparola e la
condivisione in Rete. Ho cercato di codificare le mie osservazioni,
le mie ricerche e l’esperienza fatta nella progettazione di cam-

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pagne virali in una formula chiara, utile e di facile applicazione.
Spero davvero che possa aiutarti a progettare idee in grado di
portare grandi benefici economici alla azienda per cui lavori, alla
tua impresa o all’agenzia in cui sei chiamato a proporre idee che
funzionano. Tuttavia Create! vuole fare di più.
Quello che ti sto proponendo, come ti dicevo, è un approccio
nuovo, etico, addirittura spirituale alla progettazione strategica
e creativa di idee di comunicazione. Con questa formula potrai
migliorare il potenziale di contagio dei tuoi progetti, dei tuoi
prodotti e dei tuoi brand. Massimizzerai la possibilità che faccia-
no presa e che si diffondano. Ma soprattutto, potrai decidere di
progettare idee che siano funzionali all’evoluzione della società.
Potrai scegliere di dare un nuovo senso al tuo lavoro e alla tua
professionalità. è finito il tempo di vergognarsi di fare il pubbli-
citario, come era costretto a fare Jacques Séguéla che preferiva
dire alla madre che faceva il pianista in un bordello!4 D’ora in
poi potrai considerare la comunicazione come qualcosa di utile
per la società, di sacro se vuoi, in grado di agire per il bene delle
persone e non più nel solo interesse del business. Business as
unusual direi. è questa la strada più non-convenzionale che ti
posso proporre alla luce della svolta epocale che stiamo vivendo.
Chissà che Create! possa servire non solo come un modello per
progettare idee contagiose, ma anche come una sorta di manuale
di «ecologia simbolica» per i nuovi marketer, altro concetto che
ho a cuore. Le persone hanno bisogno di una comunicazione
veramente creativa, densa di senso, di energia, di vitalità. Mi
auguro che la diffusione fra gli addetti ai lavori di conoscenze
e approcci derivanti da altre discipline – come per esempio la
psicologia archetipica e dottrine ancora più profonde e antiche
come quelle della tradizione spirituale – possa rendere il settore
della comunicazione più consapevole di quanto già lo sia del
valore psicologico, sociale e spirituale della comunicazione. Se
sei un professionista potrai portare valore a te, alla tua azienda e
alla società nel suo complesso. Le persone che, più in generale,

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si avvicinano a queste tematiche per curiosità potranno invece
imparare a pretendere di più dalle aziende e dalla loro comu-
nicazione: più rispetto, più senso, più valore. Sono sicuro che i
consumatori, che oggi preferisco chiamare «creatori», ricambie-
ranno queste attenzioni.

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Il segreto della viralità

Sebbene siano stati scritti molti libri sul marketing virale, nessuno
finora è riuscito a spiegare quale sia il vero segreto della viralità.
Attenzione! Se per caso hai letto «virilità», hai sbagliato scaffale,
oppure hai bisogno di rilassarti un po’. In questo libro si parla di
marketing e di comunicazione contagiosa, di come raggiungere
il maggior numero di persone con un’idea senza avere enormi
budget da spendere e ottenendo il massimo dagli investimenti
in comunicazione.
Oggi grazie a Internet, un’idea ben progettata e realizzata
(e adeguatamente «seminata», ovvero ben distribuita) è infatti
in grado di diffondersi in maniera spontanea fra le persone
attraverso il tam tam della Rete. Mai come adesso, nella storia
dell’umanità, le persone sono diventate dei veri e propri media.
I network sociali sono in grado di moltiplicare un messaggio
all’infinito, una cassa di risonanza potentissima che amplifica le
idee migliori decretandone il successo.
Una volta il passaparola percorreva lo spazio fisico e quindi
limitato al contatto reale fra bocche e orecchie. Oggi è digitale.
In questo mezzo senza attrito le buone idee hanno quindi la
possibilità di propagarsi come un’onda, arrivando a centinaia,
migliaia, milioni di persone in pochissimo tempo.
Un’onda è una perturbazione che si propaga. Per la gioia dei

19
surfisti le onde dell’oceano, nate dalla perturbazione dei venti,
sono in grado di percorrere migliaia di chilometri dal mare
aperto alla spiaggia. Allo stesso modo un’idea contagiosa riesce
a muoversi altrettanto rapidamente fra le persone nel mezzo di-
gitale. Facendo surf tra i like di Facebook e i retweet di Twitter
si propaga letteralmente a macchia di bit, e il tutto con grande
gioia degli uomini di marketing! La differenza tra un’onda del
mare e un’idea contagiosa che si propaga in Rete è che il mez-
zo di trasmissione non è fatto di materia fisica ma di bit e che
l’energia che muove l’idea non nasce da una perturbazione ma
da una emozione.

Virale è la condivisione sociale delle emozioni.


Il mezzo attraverso cui si muovono
le idee è l’animo umano.

Un’onda corrisponde a uno spostamento di energia. Quando


un’onda si propaga nel mare, lo fa in virtù dell’energia cinetica,
non sono le molecole d’acqua a spostarsi autonomamente. è
quindi proprio su questa forza che dobbiamo concentrare la
nostra attenzione per comprendere il segreto alla base delle idee
più contagiose.
Oggi i contenuti prodotti dalle persone, che siano video su
YouTube, campagne di mobilitazione via Twitter, applicazioni
per smartphone, competono con quelli partoriti dalle agenzie
di comunicazione. Per questo ti invito a iniziare a considerare
gli individui come creatori anziché semplici consumatori. La
profusione di contenuti della Rete diventa il serbatoio di idee
dei dipartimenti di creativi professionisti, spesso in evidente
affanno e sempre più alla spasmodica ricerca del «santo graal»
della creatività digitale. Se è vero che la pubblicità ha sempre
tratto ispirazione dall’industria culturale, alcune operazioni com-

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merciali che hanno avuto successo sul Web hanno chiaramente
plagiato le hit amatoriali autoprodotte dagli stessi utenti. Come
nel caso di Royal Wedding di T-Mobile,5 il surreale balletto della
famiglia reale da oltre venti milioni di visualizzazioni diffuso
in occasione del matrimonio fra William e Kate, una copia
spudorata dello struggente Jill and Kevin’s Wedding Entrance
Dance,6 video realizzato con grande autenticità e sentimento
da una coppia di sposi con i loro veri amici. Una hit vista oltre
70 milioni di volte.
Evidentemente è più facile copiare (o sarebbe meglio dire
«citare»), puntando sul sicuro e sfruttando l’eco di un evento
di rilevanza mondiale, piuttosto che creare qualcosa di nuovo
e originale. Pur di evitare di fare un tremendo flop è meglio
sacrificare il proprio estro sull’altare del babau di ogni creati-
vo digitale, un mostro tremendo che imperversa nei peggiori
incubi minacciando silenzi tombali ed epic fails (fallimenti
epici). è molto meglio andare a spulciare nell’inesauribile e
sempre aggiornato catalogo video di YouTube dove si possono
trovare spunti sempre nuovi, ideati e realizzati gratuitamente
dai nuovi creativi per caso, «felici e sfruttati» come direbbe
Carlo Formenti.7
è sicuramente la Rete il miglior database di format e spun-
ti virali, dotati di senso autogenerato e della giusta energia
emotiva, a disposizione di ogni agenzia di comunicazione. E
se funzionano perché non riprodurli con maggiori budget e
potenziale di diffusione a favore dei propri clienti? Del resto
non possiamo biasimarli questi creativi che lo fanno per la-
voro. La chimera di ogni direttore creativo, il sogno proibito
di ogni brand manager che gestisce con amore i budget di
comunicazione della sua azienda si chiama effetto virale e
corrisponde a quella misteriosa ondata di propagazione che
scaturisce dalle campagne più riuscite. Chi riesce ad attivare
quel processo di contagio sociale è in grado di moltiplicare il

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messaggio in maniera esponenziale, riuscendo a far rendere al
meglio i soldi investiti.
I megagalattici successi del bagnoschiuma Old Spice8 del Web
colossal Write the Future9 di Nike realizzato dal regista Alejandro
González Iñárritu in occasione dei mondiali, del sempreverde
Dove Evolution10 fanno sognare una nuova generazione di creativi
post-pubblicitari. Nata sul Web, questa nuova generazione di
star della Rete gode tremendamente nel visualizzare contatori
impazziti di YouTube e hashtag che diventano trending topic su
Twitter.11 Molto di più che nell’assaporare cocktail sulla croisette
dei Cannes Lions.
Come Guglielmo Scilla, alias Willwoosh, una vera star del
Web. Nato nel 1987, cresciuto a Roma, è l’anima di GuTube, il
canale YouTube con più iscritti in Italia. I suoi esilaranti video
hanno collezionato più di 32 milioni di visualizzazioni. Si tratta
di suoi monologhi intervallati da alter ego che raccontano il
mondo giovanile in modo spontaneo e caricaturale. Guglielmo,
che ha già un programma tutto suo su Radio Deejay, è anche
uno dei protagonisti di Freaks!, una Web serie prodotta a basso
costo dai migliori youtubbers e diventata subito un cult. Davide
Mardegan con Clemente De Muro e Niccolò Dal Corso (tutti
sotto i trent’anni), oggi riuniti sotto la sigla Cric, sono invece
i ragazzi del virale da milioni di visualizzazioni Perché tu mi
piaci. Ragazzi che senza una agenzia, senza un cliente (solo in
un secondo momento Poste Italiane12 ha adottato il video) e
senza un prodotto hanno ideato e girato un film di poco più
di un minuto, lo hanno iscritto al Festival Internazionale della
Creatività di Cannes – il più prestigioso a cui un pubblicitario
possa aspirare – e hanno vinto un bronzo. Alla faccia delle
grandi multinazionali della pubblicità. Il corto racconta una
storia di amore che dura tutta la vita mostrando l’innocenza
di un bambino che dichiara l’amore per la «sua bimba» con
una letterina scritta a mano. Il risultato è un video delicato e
struggente che ha toccato i cuori degli italiani e che in poco

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meno di dieci giorni ha contagiato l’intero Web producendo
quasi un milione di condivisioni su Facebook e superando
complessivamente le tre milioni di visualizzazioni. La dimo-
strazione che nulla è più virale delle emozioni e del desiderio
di un amore vero e duraturo.

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Viral history

Il mondo della pubblicità si sta spostando velocemente verso


Internet in cerca di una nuova età dell’oro. Si tratta di un mercato
che ancora cresce a due cifre e con il quale tutti i grandi gruppi
industriali del settore si devono (spesso loro malgrado) confron-
tare. I vecchi feudi e gli antichi feudatari sono sostituiti da facce
e sigle nuove: Aqka, Wieden + Kennedy, Droga5, Crispin Porter
+ Bogusky sono tra i nuovi protagonisti della creatività digitale. I
premi dell’industria pubblicitaria dicono addio alla parola «ad-
vertising» come ha fatto dal 2011 il Cannes Lions, il più ambito
da generazioni di creativi, che da «festival della pubblicità» si è
trasformato in «festival della creatività». Cresce l’importanza dei
riconoscimenti ufficiali alla creatività digitale. I Webby Awards
di New York celebrano ogni anno le agenzie creative e le star di
Internet in ogni campo: oltre agli imprenditori del Web, i nuovi
eroi del nostro tempo, come i fondatori di Google, YouTube,
Facebook, Twitter, Foursquare, l’Oscar del Web premia i progetti
in Rete di star dell’entertainment del calibro di David Bowie,
Prince, Beastie Boys, Isabella Rossellini, gli OK Go.
Ma nonostante la creatività digitale, la comunicazione virale
e i social media siano la nuova big thing è difficile, se non impos-
sibile, trovare in giro buoni manuali per diventare veri esperti
del nuovo marketing di successo in Rete, quello in grado di

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trasformare una buona idea di comunicazione in una viral hit.
Perché è questo che oggi ci si aspetta da una buona creatività
digitale: che sia davvero un’idea contagiosa, che faccia presa
sulle persone, che stimoli la conversazione, scateni post sui blog,
generi commenti appassionati e cascate di condivisioni sui social
network. Da una buona creatività digitale si pretende che sia ad
alto tasso di engagement, o per usare un termine nostrano, che sia
davvero coinvolgente. Altrimenti difficilmente potremo definirla
una buona creatività. I buoni spot erano convincenti, le idee sul
Web devono essere contagiose.
Molto spesso chi ha analizzato i fenomeni virali l’ha fatto dal
punto di vista del marketing, un punto di vista troppo autore-
ferenziale. Molti studi hanno analizzato principalmente storici
casi di successo commerciale come quello di Hotmail, il servizio
di posta elettronica che in calce a ogni messaggio invitava a
iscriversi alla nuova mail gratuita e che nel 1996 è stato in grado
di raggiungere 12 milioni di utenti spendendo meno di 500.000
dollari in marketing. Oppure la storia di A-Style, l’azienda di
abbigliamento street wear di Marco Bruns, un giovane imprendi-
tore che grazie a quel logo che cela maliziosamente due persone
che fanno sesso è diventata in pochi anni un brand globale da
oltre 20 milioni di euro di fatturato. Altre analisi sul marketing
virale si sono concentrate sull’aspetto estetico dei «video virali»,
quelli che fanno il giro delle Rete e che ottengono milioni di
visualizzazioni in tutto il mondo – come per esempio Ronaldin-
ho1 di Nike in cui il dio del calcio colpisce ben quattro traverse
durante un allenamento, Sunglass Catch di Ray-Ban,2 che vede
due tipi da spiaggia divertirsi a lanciare e acchiappare occhiali
da sole Wayfarer con la faccia. Oppure i celeberrimi esperimenti
degli scienziati di Mentos e Diet Coke,3 due folli in grado di
realizzare incredibili coreografie di geyser a base di cola grazie
a una particolare reazione chimica innescata dalle caramelle alla
menta. Fino ad arrivare alla serie del potentissimo frullatore della

25
Blendtec,4 quello che frulla tutto, addirittura l’iPhone e l’iPad
appena usciti sul mercato (ma non Chuck Norris!).
Di questi tormentoni in Rete ne abbiamo infiniti esempi.
Sono tantissimi i video del genere infarciti di cose davvero folli
e assurde, ma non sempre il loro successo in termini di propa-
gazione virale corrisponde ad altrettanti benefici per la marca
che li ha commissionati. Sicuramente non il video del terrorista
arabo che si fa esplodere in una Polo Volkswagen5 e che si dice
sia un falso realizzato da qualche creativo in vena di azioni di
guerrilla autopromozionale. «Piccola ma resistente», diceva lo
slogan finale. Davvero agghiacciante. Così come quello che vede
come protagonista una automobile Ka che decapita un gattino
con il tettuccio apribile. Ributtante.
è questo probabilmente il risultato di una serie di teorie e idee
sbagliate che in passato hanno voluto sintetizzare il segreto della
viralità con slogan d’effetto ma di assoluta superficialità. Secondo
alcuni praticoni del marketing virale i contenuti contagiosi non
sarebbero altro che a base di Sex, Pets and Absurd (sesso, gattini
e cose assurde). Avrebbe allora ragione Paolo Iabichino, direttore
creativo di Ogilvy e autore di Invertising,6 che – provocatoriamente
– ha proposto la formula delle 4 S: «Sesso, Splatter, Sadismo e
Stronzate» per realizzare comunicazioni virali vincenti. Occhio,
che questa non è la strada corretta! Anzi ti farà fare un sacco di
danni alla marca. Lasciamola passare alla storia dei video virali
relegandola in un periodo oscuro ormai lontano, prima dell’av-
vento di YouTube, quando il pubblico di Internet era popolato
da smanettoni brufolosi ed erano in pochi ad avere la banda
larga. Per questo i video virali erano spesso caratterizzati da un
tipico e demenziale cinismo adolescenziale ed erano visivamente
semplici e brevi, dal momento che dovevano essere scambiati via
email come allegati. A quei tempi i principali canali di veicola-
zione dei video erano portali dai nomi che la dicevano tutta sul
tipo pubblico che li frequentava: Kontraband, Bastardidentro,
CollegeHumor, AdFreak.

26
Con l’aumento della banda a disposizione e l’accesso alla Rete
di un pubblico più eterogeneo e adulto fortunatamente lo stile
è cambiato. Così anche i formati, le strategie di comunicazione
e di diffusione. L’avvento di YouTube ha permesso la nascita di
vere e proprie viral series come quella di Blendtec (il frullatore,
ricordi?) e della mitica Get a Mac7 di Apple, da noi meglio co-
nosciuta come «Mac contro PC». Quest’ultima è una campagna
televisiva iniziata nel 2006 e durata ben quattro anni. Nata dalla
mentre creativa di TBWA\Media Arts Lab, ha dato letteralmente
vita a ciò che l’universo Apple rappresenta: gioventù, efficienza,
coolness, qualità tutte incarnate dall’attore americano Justin Long.
Il comico John Hodgman impersona invece il PC rappresentan-
dolo come un signore di mezza età con volto da nerd, vestiti da
impiegato mediocre e l’arroganza di chi crede di saper fare le cose
meglio di chiunque altro. L’idea è semplice, il format asciutto.
I due si confrontano in brevi dialoghi che mirano a mettere in
evidenza quanti difetti abbia Windows e quanta efficienza, inve-
ce, garantisca il Mac. Il successo della campagna grazie al Web
è planetario. Non solo molti degli spot vengono sottotitolati in
varie lingue, ma si creano versioni destinate esclusivamente ai
mercati nazionali, mentre una serie è realizzata e distribuita solo
su Internet in formati banner interattivi e particolarmente creativi.
Nel 2008 Windows risponde all’iniziativa con la campagna
da 300 milioni dollari I’m a PC ideata da Crispin Porter + Bo-
gusky. L’idea è quella di sostituire alla produzione precedente
– che aveva per protagonisti il celebre comico Jerry Seinfeld e
Bill Gates – la rappresentazione di gente comune che ha scelto
Microsoft. Una campagna molto umana, autentica, una specie
di «Microsoft Pride». Peccato che un utente abbia però notato
che per realizzare gli spot era stato usato software che girava su
hardware Apple.
Ma al di là del botta e risposta fra quest’ultima e Microsoft,
il vero impatto di idee contagiose come Get a Mac si misura so-
prattutto dall’enorme quantità di parodie (spoof) diffusi online.

27
Si parte così dai video della Novell per promuovere Linux, ai
confronti in stile South Park, fino ai confronti tra i supereroi
Superman della DC Comics e Spider-Man della Marvel. Come
vedremo più avanti, la riusabilità, ovvero la facilità di replicazione
e riadattamento del format e dei contenuti dell’idea da parte degli
utenti, è una delle variabili in grado di alimentarne la viralità.
Get a Mac è quindi un ottimo esempio di idea contagiosa che ha
permesso di argomentare le caratteristiche funzionali dei prodotti
Apple attraverso una forma di narrazione comica formalmente
semplice, catartica, riutilizzabile, emotiva, basata su una storia
archetipica (il creativo giovane e smart contro il vecchio noioso
e borioso), che fa leva su una tensione culturale (lo scontro fra le
due diverse concezioni di prodotto e fra due gruppi fortemente
tribali, ovvero gli appassionati di Mac e PC) e in grado di elevare
l’animo grazie a una dolce e pacatamente arguta ironia (in cui la
musica gioca un ruolo fondamentale, quasi ipnotico).
Con YouTube quindi il virale passa dall’underground all’over-
ground. E con l’arrivo in Rete di un pubblico più di massa, te-
nerezza e buoni sentimenti sostituiscono lo stile irriverente della
prima fase della storia dei virali. Nascono e si affermano le asso-
ciazioni di categoria dedicate al marketing del passaparola come
il Womma (da noi Wommi, ovvero Word of Mouth Marketing
Italia) finalizzate a regolamentare il mercato e il seeding, ovvero la
pratica di inseminazione e diffusione dei progetti virali si fa etico
e trasparente. I blog e non più le mail diventano la principale
piattaforma di distribuzione dei contenuti progettati per diventare
virali. In contrapposizione alle classiche media relation nascono
le attività di blogosfera relation finalizzate ad instaurare buone e
profittevoli relazioni con gli influenti della Rete.
Con Facebook, la cui dichiarata missione è «connettere tutti
gli esseri umani del mondo», nasce il più grande strumento di
marketing mai esistito. è l’era dei social buttons, dei semplici
tasti che permettono agli utenti di condividere immediatamente
un contenuto all’interno dei propri social network. Fare «Mi

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piace» con un click diventa lo sport preferito degli internauti
che possono affermare in modo immediato e in ogni momento la
loro partecipazione emotiva a contenuti e idee. In questo modo
diventa possibile raggiungere un pubblico immenso. 15 milioni
di persone entrano ogni giorno in Facebook e 40 milioni di like
permettono la condivisione e la diffusione epidemica di ogni tipo
di contenuto audio, video, foto, testi, giochi. Con un trend del
genere è facilmente prevedibile che l’alleanza fra Facebook e i
grandi brand globali andrà sempre più a definire i nuovi standard
della comunicazione online.
è il momento delle viral application come la geniale Whopper
Sacrifice8 realizzata da Burger King. All’inizio del 2009 la catena
di fast food americana ha lanciato una delle sue tipiche campagne
fuori di testa con l’obiettivo di dimostrare che le persone amano
più Burger King dei loro amici. Si è trattato di un’idea esplosiva:
l’applicazione ti faceva guadagnare un enorme hamburger in
cambio del sacrificio di dieci dei tuoi contatti su Facebook. Al
suo lancio si è immeditamente scatenata una sanguinosa corsa al
sacrificio virtuale, che ha portato alla rimozione di più di 200.000
amici in solo una settimana, prima che Facebook decidesse di
bloccare l’applicazione ritenendola irrispettosa della sua policy.
Samsung invece, scegliendo 24.000 influencers fra il suo mi-
lione di fan è riuscita a raggiungere con il passaparola 7 milioni
di persone per lanciare il nuovo Galaxy Tab. Nike ha utilizzato
Facebook a mo’ di prime time per presentare il cortometraggio
Write the Future. Lo straordinario film di tre minuti realizzato
dal regista Iñárritu in occasione dei mondiali è stato trasmesso in
anteprima ai fan del brand su Facebook, prima ancora di mandarlo
in Tv o su YouTube. Il video, che ha come protagonisti sei dei più
grandi giocatori del mondo, mostra come il futuro possa cambiare
in ogni istante in base al successo o alla sconfitta nei momenti
più critici della vita. «Facebook non è solo il più grande mass
media al mondo è anche un canale estremamente targettizabile.
è il nuovo prime time» – dichiarano entusiasti Ricky Engelberg e

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Jesse Stollak, director of digital e brand innovation di Nike. «La
Tv può portarti di fronte a un pubblico in un preciso momento,
durante un grande evento. Può essere come la dinamite, ma
Facebook riesce a trasformare quell’energia in una connessione
che permette una relazione costante. è la relazione quello che
cercano i brand come Nike».
Per i grandi brand globali la cosa più importante è costruire
una grande community, connettersi alle persone in modo umano
e autentico. E i risultati per l’azienda sono stati quelli dichiarati
dal CEO Mark Parker, ovvero: «Il campionato del mondo di
calcio di maggior successo nella storia di Nike».
Durante e dopo il torneo gli ordini dei prodotti Nike sono
aumentati del 7% a livello globale. La pagina Facebook del
brand ha quadruplicato i fan, passando da 1,1 a oltre 4,8 mi-
lioni di persone. Attualmente conta oltre 12 milioni di tifosi. Ci
sono state più di 40 milioni di visualizzazioni del film online e
2,1 miliardi di impressions della campagna. Durante l’estate dei
mondiali il marchio Nike ha avuto un livello di buzz (letteralmente
il «ronzio» di un passaparola molto intenso, ovvero di commenti
online) del 30%, il doppio di Adidas. Tutto questo ha fatto di
Nike il marchio più condiviso in Rete nel 2010.
Con i commenti ai video su YouTube e la diffusione di massa
di social network come Facebook e Twitter la conversazione e i
feedback degli utenti diventano parte integrante della campagna
di comunicazione. Le aziende inseriscono la conversazione con
gli utenti della Rete nelle loro strategie arrivando ad utilizzare
i video come «botta e risposta» per dialogare con i propri fan.
Lo ha fatto Old Spice, la marca di bagnoschiuma americana di
proprietà di Procter & Gamble, con la mitica Response Cam-
paign,9 in cui l’attore Isaiah Mustafa, un figaccione di attore
afroamericano protagonista dello spot televisivo, risponde con
degli instant video alle domande dei fan fatte via Facebook e
Twitter. La campagna è di quelle che rimarrà nella storia: quasi
6 milioni di visualizzazioni il primo giorno, più del discorso

30
della vittoria di Obama nelle prime ventiquattro ore e oltre 40
milioni di visualizzazioni in totale. Oltre un miliardo di contatti
generati dalla campagna e un incremento delle vendite del 107%.
Oggi le idee contagiose hanno un nuovo e potente strumento
a disposizione per la loro propagazione. La diffusione degli
smartphone permette alle persone di essere sempre connesse
anche in mobilità. Liberi finalmente dalle catene del desktop,
in ogni momento della nostra vita possiamo immergerci in una
realtà aumentata dalle applicazioni presenti sui nostri device,
partecipare alle conversazioni che avvengono online e decidere
di diventare amplificatori delle idee contagiose delle aziende.
è quello che hanno pensato Heineken e l’agenzia Aqka quan-
do hanno realizzato Star Player,10 un’applicazione per iphone
dedicata ai tifosi che permette di dimostrare il proprio «istinto
calcistico» scommettendo in tempo reale sul risultato delle azioni
di una partita di calcio. Lanciata in occasione della semifinale di
Coppa Uefa fra Manchester United e Schalke ha permesso una
nuova forma di interazione fra televisione, mobile e social media
davvero rivoluzionaria. è davvero utile e divertente approfondire
la storiografia del virale e conoscere tutte le campagne di successo.
Tuttavia, per capire veramente quali siano gli elementi che fanno
di un’idea e di una comunicazione un successo contagioso ci è
utile e necessario andare oltre lo studio dei tormentoni commer-
ciali e degli esperimenti creativi dei pubblicitari. Basta parlare di
video virali e di Facebook application! Dobbiamo spingerci più
in profondità e affrontare la questione da un’altra prospettiva.

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Sesso, gattini
e cose assurde?

Se hai in mano questo libro, è probabile che tu abbia già rag-


giunto la consapevolezza che bisogna cambiare approccio per
risultare efficaci nelle strategie di comunicazione sui mezzi rela-
zionali. Il tuo dipartimento marketing ha deciso di concentrarsi
finalmente nella creazione di un prodotto, di un brand e di una
comunicazione in grado di ispirare le persone e di attecchire
nel sistema culturale. Vorresti progettare un prodotto degno
dell’iPad, lanciare progetti più smart di quelli di Google, vincere
un Titanium a Cannes. Oppure hai semplicemente una piccola
attività o stai lanciando una start up e non vedi l’ora di mettere
in pratica i consigli di questo libro per fare il botto. Ma ancora
non ti è chiaro da dove partire. Con calma guerriero, un passo
alla volta e inizierai a far volteggiare la tua spada.
Quello che è comunemente chiamato dagli addetti ai lavori
«viralità di un messaggio», e che noi abbiamo definito viral-dna,
ovvero la sua capacità intrinseca di moltiplicarsi all’interno del
mezzo digitale, è l’ingrediente fondamentale alla base di una
campagna di «marketing virale» ben congegnata. «Farlo virale»
è il sogno di tutti i creativi. Ma può anche trasformarsi in un
brutto incubo per quelli che provengono dalla vecchia scuola
televisiva, risocializzati con difficoltà alle dinamiche di un mezzo
dialogico e democratico come il Web. Probabilmente il motivo

32
è che non esistono ancora modelli di riferimento, strumenti di
facile applicazione, semplici ricette in grado di svolgere il ruolo
che ha avuto fino a oggi la copy strategy, il principale modello
operativo usato in pubblicità nella progettazione di uno spot
di successo. Implementata durante gli anni Sessanta a opera di
alcune aziende e agenzie pubblicitarie statunitensi, per quanto si
sia cercato di rinnovarla e superarla, la copy strategy da sempre
definisce le scelte strategiche di un’azione pubblicitaria e della
definizione del suo messaggio in questi punti principali:

• Target è la definizione precisa della categoria di pubblico cui


rivolgersi.
• Promise (promessa) o anche consumer’s benefit ovvero il van-
taggio che il prodotto promette al consumatore.
• Reason why (giustificazione) è l’argomento che la pubblicità
fornisce per rendere credibili i vantaggi promessi dal prodotto.
• Supporting evidence (supporto) sono le prove concrete dell’at-
tendibilità di promessa e reason why.
• Tone of voice (tono di voce) rappresenta lo stile, il tono del
messaggio, l’atmosfera della comunicazione.
• Consumer insight (intuizione sul consumatore) è una quel
legame «di pancia» tra il prodotto e il consumatore, una sua
opinione, una credenza che permetta di drammatizzare la
promessa.
• Consumer response (risposta del consumatore): è la reazione
che vogliamo ottenere dal consumatore.

Un esempio di copy strategy applicata ai reggiseni Wonderbra


è la seguente. Le donne di oggi (il target) di qualunque età amano
apparire belle e sottolineare la propria femminilità. Sono sicure
e non si fanno problemi rispetto al sesso e alla sessualità. Won-
derbra fa risaltare al massimo ciò che una donna ha (promessa),
fisicamente ma anche emozionalmente, donando sicurezza e
aumentando il sex appeal. Wonderbra è l’unico, l’originale (giu-

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stificazione) con un particolare sistema che trasforma le tue tette
in due sode melagrane (supporto). Il tono è allegro, ammicante,
provocante, moderno. Le donne affermano (consumer insight): «è
importante essere sexy, il reggiseno ti aiuta, perché non portarlo?
è per noi, gli uomini non c’entrano, anzi prendiamoli un po’ in
giro!» Come effetto della comunicazione le donne percepiscono
un alto profilo di status, una marca alla moda malgrado i suoi
30 anni di storia.1 In questo utilissimo modello di progettazione
il fondamento e l’obiettivo principale dell’azione pubblicitaria
sono rappresentati dal ricordo del messaggio. Questo viene favorito
dalla brevità e dalla semplicità dell’annuncio, oltre che dalla sua
ripetizione. Il messaggio viene poi pianificato su mezzi tradizio-
nali unidirezionali con lo scopo di massimizzare la pressione e
la copertura del target group (il pubblico obiettivo).
La copy strategy nasce da una concezione del consumo e
della pubblicità legata a un certo tipo di economica classica. Si
tratta di un approccio di tipo razionale, basato sul sostegno delle
argomentazioni. Si fonda sui fatti, sulle prove, sulle dimostrazioni.
Pur non rinunciando all’apporto della creatività e dell’emotività
in alcuni dei modelli più recenti di branding e negli approcci di
molte delle migliori agenzie di pubblicità,l’approccio classico alla
costruzione di un messaggio pubblicitario privilegia la logica, il
valore d’uso a quello simbolico, la ragione al sentimento. Ma
soprattutto, l’approccio tradizionale della pubblicità ha dentro
di sé un germe difficile da sradicare, ovvero quello del «com-
portamentismo», una corrente della psicologia che considera gli
esseri umani come una specie di robot controllabili premendo
dei pulsanti. Non è un caso che John Broadus Watson, creatore
del manifesto del movimento comportamentista, si sia ritrovato
a essere consulente di una nota agenzia pubblicitaria: la J. Walter
Thompson. Watson anni prima aveva tenuto una serie di corsi sulla
psicologia della pubblicità ed era stato incaricato di valutare gli
effetti di una campagna sociale contro la diffusione delle malattie
veneree. La sua prospettiva teorica e di ricerca ha influenzato

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le agenzie pubblicitarie con l’opinione che il consumatore sia
«come il rospo verde per lo psicologo», in pratica una sorta di
automa dai comportamenti puramente reattivi. Il rospo verde,
dotato di una corteccia molto semplificata, era infatti considerato
dagli studiosi di psicologia animale come una struttura biologica
semiautomatica, guidata esclusivamente dall’istinto.
Razionalismo e meccanicismo sono tutt’oggi difficili da estir-
pare dalla forma mentis dei vecchi pubblicitari. Ma è chiaro che
questi modelli di pensiero sulla Rete non funzionano per nulla.
Non è un caso che alcuni degli spot vintage più condivisi sul
Web siano quelli con il più alto contenuto narrativo ed emotivo,
senza alcuna traccia di leziosità pubblicitaria, nessuna reason
why, nessuna supporting evidence, solo una narrazione forte-
mente archetipica e carica di emozione. Come per esempio negli
storici Think Different2 e 19843 di Apple. Chi non se li ritrova
periodicamente in giro per la Rete?
Come ti dicevo, i media interattivi come Internet e il mobile,
diversamente da quelli unidirezionali come la Tv, richiedono
che il focus della comunicazione passi dal prodotto e dalle sue
caratteristiche (tangibili o intangibili) alla relazione fra le persone
grazie al prodotto e alla sua comunicazione.
è quindi necessario riconsiderarne il ruolo all’interno dei
rapporti sociali fra le persone e dei loro percorsi esistenziali.
Progetti di vita e di senso che creano e ricreano quel puzzle che
chiamiamo identità, oggi sempre più difficile da tenere insieme
e ancorato alla relazione con gli altri, che avviene anche grazie e
attraverso i prodotti e le idee contagiose. Se la nostra immagina-
zione, qualità squisitamente umana, ci permette di fantasticare
con gli scenari della nostra vita, le marche e i prodotti sono come
i pennelli con cui ne disegnamo le ambientazioni e attraverso le
quali intessiamo le relazioni con le persone che ne fanno parte.
Una identità che si esprime nella relazione e che oggi si ali-
mentata sempre di più attraverso i mezzi digitali. In questo
passaggio, la comunicazione da smaccatamente commerciale

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diventa sociale, focalizzandosi sulla «relazione» e limitando le sue
velleità persuasive. Dalla comunicazione persuasiva della pubbli-
cità tradizionale si passa quindi alla comunicazione relazionale.
«Persuadere» significa farsi largo più o meno subdolamente nella
mente del consumatore. è quello che la pubblicità ha sempre
fatto con i suoi messaggi ammiccanti, finalizzati a costruire
oggetti del desiderio attraverso un sapiente uso delle immagini
e delle parole. L’obiettivo era quello di riuscire a far coincidere
nell’immaginario collettivo l’idea della felicità o del successo
con un determinato aperitivo, una marca di abbigliamento o un
deodorante. Tuttavia, c’è un abisso fra il modo in cui una azienda
prova a convincere le persone che la sua marca è la migliore e
ciò che motiva i consumatori a diffondere un contenuto tra di
loro. Si tratta di un contrasto di fondo, quello tra una cultura del
commercio dell’era televisiva e un’economia del dono tipica della
Rete. Questo è davvero difficile da fare entrare nella testa delle
aziende ma è un contrasto di cui non ci occuperemo in questo
testo. Meglio affidarsi alla lettura di Economia della felicità4 di
Luca De Biase. Siamo in un’epoca di passaggio in cui le vecchie
chiavi non riescono più ad aprire le porte e il «rospo verde» ha
iniziato a non rispondere più ai comandi dei pubblicitari com-
portamentisti. E dal momento che non abbiamo ancora imparato
a muoverci con agilità in un contesto in rapido mutamento, è
necessario elaborare dei nuovi modelli di progettazione funzionali
alla nuova società in via di definizione.
Dovendo progettare un’idea contagiosa è quindi necessario
lasciare in disparte i vecchi modelli di pensiero e ripensare gli
strumenti di progettazione. Quello che ti propongo è di ini-
ziare a utilizzare nuovi modelli operativi come il «modello di
brief»5 che ti propongo alla fine di questo testo o altri che tu
stesso andrai a elaborare sulla base della nuova impostazione
teorica. Modelli più adatti a progettare idee creative nell’am-
biente digitale. In un contesto relazionale in cui quello che
conta è il «valore di legame»6 più che il «valore d’uso», in cui

36
la narrazione di marca diventa supporto all’identità personale
e che trasforma le persone in attivi propagatori del messaggio
e non più in passivi fruitori, dal ricordo come fondamento della
comunicazione si deve necessariamente passare alla rilevanza,
come prerogativa fondamentale nella progettazione dell’idea.
Conseguenza della rilevanza del contenuto sarà la sua capacità
di risuonare con le persone, di generare quell’energia in grado
contagiare le menti e i cuori.

Dalla persuasione alla relazione,


dal ricordo alla rilevanza,
dalla copy strategy al viral-dna.

È inoltre necessario affidare ai nuovi media il giusto ruolo


all’interno di un più ampia strategia di comunicazione della marca,
che deve essere necessariamente coordinato con il piano media
più generale che comprenderà anche i mezzi tradizionali. Una
campagna virale difficilmente ti potrà permettere di descrivere
nei particolari le caratteristiche funzionali del prodotto e le sue
argomentazioni di vendita. Se questo è il tuo scopo sarà meglio
rivolgersi ad altri strumenti e mezzi. Per dare informazioni più
tecniche e commerciali potrai usare il sito Web o il blog aziendale,
verso i quali la strategia virale potrà far convergere l’utente. Tra
l’altro la Rete è di per sé un crogiuolo di informazioni grazie
alle quali è possibile sapere tutto sul prodotto. Si trovano le
informazioni rilasciate dall’azienda, ma soprattutto le conver-
sazioni che avvengono spontaneamente fra le persone nei blog
e sui social media. E in questo il marketing virale può aiutarti
a conquistare spazi di visibilità e occasioni di conversazione sui
cosìddetti earned media, ovvero quegli spazi che guadagni grazie
alla forza della tua idea (in contrapposizione con gli owned e i
paid media, rispettivamente i media aziendali come appunto il sito

37
e la fanpage di Facebook e quelli a pagamento sui quali invece
gli spazi si comprano).
Ricorda che il prodotto e la marca devono essere sì inseriti in
una narrazione, ma il focus e il linguaggio non potranno essere
quelli tipicamente affettati degli spot televisivi. Tra l’altro, se
avessi un amico che ti parla come la pubblicità non penseresti
che è un po’deficiente? Tranne che in rari casi, è difficile se non
impossibile, progettare un’idea contagiosa incentrandola sui be-
nefici tangibili del prodotto e sulle sue caratteristiche funzionali,
oppure cercare di conquistare le bacheche di Facebook con mes-
saggi smaccatamente commerciali o iperbrandizzati. Per questo
ci sono i mezzi tradizionali, che continueranno ad avere il loro
ruolo all’interno della strategia di comunicazione, ovvero quello
di stimolare il ricordo del prodotto e della marca e di descriverne
in modo semplice e memorabile le argomentazioni di vendita. Ma
un detersivo non attecchirà mai in Rete perché «lava più bianco»,
una tariffa telefonica non svilupperà conversazioni grazie a De
Sica e Fiorello che si cimentano in simpatiche macchiette e uno
yogurt dovrà fare di più che promettere la regolarità intestinale
in sette giorni per scatenare l’entusiasmo.

viral marketing
Punti di forza Punti di debolezza
Scatena il buzz e sostiene le È uno strumento (principalmente)
conversazioni tattico
Crea attenzione sul lancio di un È difficile da segmentare
prodotto o su un evento geograficamente
Ha un effetto teaser pre-lancio Non riesce a fornire
prodotto e pre-campagna above argomentazioni di vendita
the line dettagliate
Catalizza l’interesse delle persone Non puoi salvarti con un
sui social media testimonial

38
Più che dare risposte a problemi funzionali, l’idea contagiosa
sarà in grado di soddisfare il bisogno di «purezza», la necessità di
«comunicazione», la voglia di «leggerezza» che si trova nell’animo
delle persone. Il tuo prodotto potrà quindi essere il protagonista
di una storia in grado di ispirare le persone, oppure avere il ruolo
di mentore o di aiutante. Potrà essere un’arma magica come le
Nike per Ronaldinho oppure impersonare il personaggio cool
come in Get a Mac.
In fondo è quello che ha sempre fatto la buona pubblicità,
quella più creativa ed emozionante, quella ironica, che non si
prende troppo sul serio. E infatti ci sono molti spot realizzati per
la televisione che hanno un grande successo online. La buona
creatività è davvero contagiosa, da sempre, e ora c’è Internet per
dargli modo di esprimersi al meglio. La tua comunicazione deve
ritornare a essere autentica e umana, parlare con voce umana e
raccontare storie che contengono una verità umana. Hai bisogno
di diventare un più fine conoscitore dell’animo delle persone
per riuscire a dialogare invece di continuare a parlare da solo
ad alta voce!
Tuttavia non disperare. Se ancora benefit e reason why in-
chiodano la tua mente a modelli di lavoro oggi non più adeguati
alla nuove forme di comunicazione relazionale, hai trovato quello
che fa per te. In questo libro, come ti dicevo, cercherò di pro-
portene di nuovi. E ti darò anche qualche consiglio semplice
relativo agli aspetti più operativi. Da professionista della comu-
nicazione abituato a confrontarmi ogni giorno con le esigenze
delle aziende, conoscono bene il senso di smarrimento che è in
grado di provocare nel team di lavoro un brief che contiene tra
gli obiettivi «realizzare un virale».
Ti auguro che questa ansia da visualizzazioni non ti porti mai
fuori strada. Il successo in termini di propagazione non deve andare
a scapito della marca danneggiando la sua brand equity7 Questo
è un aspetto importantissimo. Per chi si occupa di marketing,
puntare sul virale non vuole dire solamente sfruttare la forza delle

39
dinamiche di diffusione contagiosa di una idea per spingere il
proprio contenuto commerciale. Fare del buon marketing virale
vuol dire rispettare l’identità e i valori di marca, il suo «archetipo»
dominante, la sua più profonda vocazione. è quindi possibile
e secondo me è necessario fare del buon «viral branding»! Af-
fronterò più avanti questo tema. Per ora ti basti sapere che ogni
marca è come se avesse un suo daimon, uno spirito-guida che le
dà energia e che le indica il suo destino. In termini aziendali si
chiama «missione», «visione» o «personalità di marca». è quella
sua essenza che, se raccontata in forme e modi sempre diversi ma
in connessione con la cultura del tempo, le permette di toccare
l’animo delle persone, di cavalcare quell’energia in grado di
decretarne il successo.

40
Dio è virale

Se a noi pubblicitari, comunicatori, uomini di marketing, hanno


attribuito la definizione di creativi, un motivo ci sarà. Ed è la
parola stessa che deve farci riflettere sul potere che contiene.
Un potere divino. Il verbo «creare» deriva dal latino e condi-
vide con il verbo crescere la radice kar-. In sanscrito kar-tr è
colui che dal niente fa, ovvero il creatore. «Creare» ci riporta
quindi al più grande mistero, quello della creazione. Il fatto che
gli uomini si siano attribuiti lo stesso potere che una volta era
riservato agli dei è cosa recente: probabilmente Catullo, Dante
e Leonardo non si sarebbero mai definiti «creativi», cosa che
invece hanno fatto i pubblicitari di Madison Avenue.1 E fino a
qualche secolo fa sarebbe stato considerato blasfemo. Propri
dell’uomo, più che la creazione, erano invece l’invenzione, il
genio, il progresso sociale.
è però vero che esiste una stretta relazione tra ciò che è in alto
e ciò che è in basso. Per l’ebraismo l’uomo è la creatura perfetta,
la più vicina alla sapienza divina. L’uomo in quanto espressione
del Mondo Superiore e del Mondo Inferiore, è un essere com-
pleto. Adamo o meglio l’adam qadmon, l’uomo primordiale o
uomo supremo della sapienza mistica ebraica, la cui anima era
originariamente unita a quella di Eva, è l’archetipo della totalità

41
creativa. Forse è per questo che i direttori creativi di certe agenzie
sono adorati come delle divinità?
La parola «creatività» entra nel lessico italiano solo negli
anni Cinquanta. I sociologi hanno rilevato che il termine com-
pare nei dizionari alla fine dell’Ottocento, restando confinato al
linguaggio degli specialisti.2 Oggi invece ritroviamo il sostantivo
creatività e l’aggettivo creativo nella vita di tutti i giorni, nelle
conversazioni da bar e nei media. Si parla di creatività in cucina,
in giardino, nel marketing, nell’abbigliamento, nei rapporti di
coppia, nell’educazione dei figli, nella finanza, nel lavoro e nel
tempo libero.
L’economia e la società sono sempre più influenzate dalla
creatività, intesa come capacità di produrre idee, conoscenze e
innovazione, ma negli ultimi anni la sua importanza è letteral-
mente esplosa, tanto che oggi la creatività viene considerata una
fonte determinante del vantaggio competitivo. Richard Florida
nel suo celebre saggio L’ascesa della nuova classe creativa3 supera
i concetti di economia dell’informazione o della conoscenza,
preannunciando, nei Paesi a capitalismo avanzato, la nascita della
cosiddetta «economia creativa» e di una nuova classe sociale: la
classe creativa.
I protagonisti della società creativa sono le persone con una
maggior dominanza dell’emisfero destro del cervello. Queste
lavorano in settori creativi come le scienze, l’arte e i servizi
professionali come il marketing, la comunicazione e il design.
Daniel Pink identifica questo tipo di società come il massimo
sviluppo sociale nella civiltà umana.4 Dalle società primitive
di cacciatori, agricole e industriali, in cui il lavoro si basa sulla
forza muscolare, siamo prima passati per una società incentrata
sul lavoro intellettuale e sull’utilizzo prevalente dell’emisfero
sinistro del cervello, quello della razionalità. Oggi siamo nell’era
del lavoratore-artista, siamo nell’era dei creatori come mi pia-
ce chiamarli, che si affidano all’emisfero destro, quello della
creatività, e sempre di più andremo verso una società che farà

42
affidamento su un altro strumento ancora quasi completamen-
te sottovalutato e di cui si stanno da poco comprendendo le
enormi potenzialità: il cuore. Sì il cuore, un organo in grado di
fare cose straordinarie.
«Senza il cuore, saremmo solo macchine» ci ricorda lo slogan
della Giulietta Alfa Romeo completando la citazione shakespe-
ariana. Dopo la mistica, anche la scienza sta cominciando ad
affrontare cautamente la comprensione di questo organo così
trascurato dalla cultura razionalista di cui siamo permeati.
Dal punto di vista del marketing, da tempo sappiamo che i
consumatori ricercano sempre di più nei prodotti esperienze in
grado di coinvolgerli a un livello sempre più emozionale Vogliono
prodotti ed esperienze che parlino al cuore e non solo al cervello.
E questo non significa limitarsi a trasformare ogni cosa in una
specie di luna park con effetti speciali, musiche ritmate e odori
allettanti. Questo vuol dire parlare ai sensi.

In un mercato saturo di prodotti


dalle caratteristiche simili,
il significato è la proposta di valore
del nuovo marketing.
– Philip Kotler

Kotler dixit. E se lo dice chi ha inventato il marketing possiamo


esserne sicuri!5 Per questo sempre di più il cuore avrà un ruolo
fondamentale nel progettare idee che siano in grado di entrare
in risonanza con le persone, di far vibrare il loro cuore.

43
confronto fra marketing 1.0 – 2.0 – 3.0
Marketing 1.0 Marketing 2.0 Marketing 3.0
Obiettivo Vendere prodotti Soddisfare e Rendere il
fidelizzare i mondo un posto
consumatori migliore in cui
vivere
Fattori abilitanti Rivoluzione Tecnologia Nuova ondata
industriale dell’informazione tecnologica
Come le imprese Mercato Consumatore Essere umano
guardano al di massa con intelligente con nel pieno senso
mercato esigenze di beni esigenze anche del termine,
fisici immateriali con esigenze
materiali e
spirituali
Concetto chiave Sviluppo prodotti Differenziazione Valori
di marketing
Linee guida Caratteristiche Posizionamento Missione,
dell’impresa dei prodotti dell’impresa e visione e valori
dei prodotti dell’impresa
Proposte di Funzionali Funzionali ed Funzionali,
valore emotive emotive e
spirituali
Interazione con i Transazione da Rapporto da uno Collaborazione da
consumatori uno a molti a uno molti a molti

Fonte: Philip Kotler, Hermawan Kartajaya, Iwan Setiawan, Marketing 3.0, Il Sole 24
Ore, Milano 2010.

I brand più di successo riescono a parlare alla mente e al


cuore delle persone. Starbucks, Virgin, Apple, Dove, Nike,
Burger King, sono marche che già lo fanno. Avrai sentito parlare
dell’experiential marketing di Bernd Schmitt,6 dell’emotional
branding di Marc Gobé,7 dei lovemarks di Kevin Roberts.8 Ma
anche dell’«esperienza autentica» di James Gilmore e Joseph
Pine.9 Tutte queste teorie puntano a mettere in risalto l’impor-
tanza delle emozioni e del cuore nelle strategie di marketing.
Grandi esempi di idee contagiose basate sulle emozioni sono
il posizionamento di Nike quale «evocazione della vittoria», il

44
«marketing non-convenzionale» di Virgin e l’«immaginazione
creativa» di Apple. Messaggi diretti al cuore.
Le marche più di successo sono assimilate a vere e proprie
religioni in grado di dare intensificare il senso della vita delle
persone. In una presentazione fatta sul palco dei Cannes Lions,
l’esperto di branding Martin Lindstrom, per dimostrare il paralle-
lismo fra le marche e le religioni, racconta un aneddoto personale:
nel 2003, andando a visitare un tempio a Bangkok in Tailandia,
con suo incredibile stupore, si trovò di fronte a una statua dorata
del Buddha Beckham. Sì hai capito bene, il giocatore di calcio
inglese era raffigurato come una specie di divinità in un tempio
buddista. Lindstrom ha dimostrato che le principali religioni e i
brand più forti si basano entrambi su complesse narrazioni e su
simboli dettagliati che veicolano le loro storie attraverso il tempo.
La sua ricerca di neuroscienze condotta in sei Paesi e costata 7
milioni di euro ha rilevato la crescente importanza delle marche
nella vita delle persone: dal 2001 al 2011 il numero delle conver-
sazioni riguardanti brand e prodotti è passato dal 15% al 37%.10
Secondo questo studio quasi la metà delle nostre conversazioni
di tutti i giorni riguarderebbero marche e prodotti! La ricerca
ha anche rilevato che certi brand come Apple, Ferrari, Guiness
e Harley Davidson stimolano le stesse aree del cervello attivate
dai simboli religiosi. Si tratta di marche con potenti narrazioni,
legate a rituali e a simboli che contengono concetti di grandezza
e mistero.
Già nel mio primo libro avevo proposto il passaggio dal brand
positioning, in cui l’idea del prodotto pretende di essere posizio-
nata unilateralmente in modo significativo e univoco nella mente
del consumatore, al sense providing, ovvero a un approccio più
profondo, emozionale e spirituale, in cui la marca si propone come
supporto esistenziale ai progetti di senso delle persone. è quello
che è riuscita a fare Apple con i suoi fan. Secondo la ricerca di
Lindstrom l’azienda di Cupertino, che su parametri razionali se
la vede con Microsoft in un testa a testa, supera invece di gran

45
lunga la marca rivale rispetto ai parametri inconsci. Ed è quello
che ho verificato personalmente parlando a lungo con Jacopo
Mele, alias Guedado, un ragazzo di diciassette anni molto attivo
in Rete che si cimenta in produzioni video, inserito da Wired in
un ipotetico governo formato da nativi digitali. Jacopo, che da
un lato propende per un atteggiamento libertario a favore del
free software e dei sistemi aperti, dall’altro non riesce a spie-
garsi razionalmente perché per lui la Mela sia una fede cieca e
indiscutibile! Il motivo è che Apple batte Microsoft non con la
testa, ma con il cuore.
Per riuscire a fare uno scarto in questo senso, per andare in
avanti e proiettarsi nel marketing del futuro, le organizzazioni
dovranno essere in grado di aggiungere un terzo elemento a
mente e cuore. Non si tratterà più di gestire un rapporto basato
su benefici funzionali o su esperienze sensoriali, estetiche o di
semplice intrattenimento. Questo terzo elemento, che comprende
mente e cuore, è l’anima.

Devi aggiungere un terzo elemento


a mente e cuore.
Puoi chiamarlo anima.

Nel 1665 Christiaan Huygens, fisico e matematico olandese ,


pose due pendoli sulla stessa parete e osservò che questi tende-
vano a sincronizzare il loro movimento oscillatorio. Lo studioso
definì il fenomeno «risonanza». è lo stesso che accade quando
percuotiamo un diapason e lo avviciniamo ad un altro silenzio-
so. Dopo un po’ anche questo si mette a vibrare. In entrambi i
casi il primo oggetto fa risuonare l’altro alla propria frequenza.
è questa la nuova metafora che deve sostituire quella militare
del marketing tradizionale.La comunicazione deve iniziare a
lavorare sulle vibrazioni che muovono l’animo delle persone con

46
l’obiettivo di entrare in risonanza con loro. «Non ci sono target
da colpire, ma persone con cui risuonare», come dice il secondo
principio del marketing non-convenzionale. Questa deve essere
l’ottica per progettare idee contagiose. Passare da un marketing
basato sull’interruzione e la persuasione (interruption marketing)
a uno focalizzato sulla relazione (permission marketing) per poi
approdare a un marketing che riesce a comprendere e agire sulle
corde più sottili, significa imparare a parlare all’anima. La marca
dovrà fare molto di più per entrare in vibrazione profonda con
le persone. Dovrà essere in grado di farsi riconoscere nella sua
autenticità. Come dicono Kotler, Kartajaya e Setiawan, in Mar-
keting 3.011 il marketing dovrà evolvere a una terza fase, quella
emozionale e spirituale. «Per rivolgersi alla mente, al cuore e
allo spirito dei consumatori, gli operatori di marketing devono
riuscire a identificarne le ansie e i desideri. Nel paradosso della
globalizzazione, le ansie e i desideri dei consumatori hanno a
che fare con la volontà di fare del loro contesto sociale – e del
mondo in generale – un posto migliore, forse anche ideale, in cui
vivere. Le imprese che aspirano a diventare icone dei consumatori
devono, dunque, condividere con loro lo stesso sogno e mostrare
di fare qualcosa per realizzarlo». Per essere competitivi e riuscire
a «risuonare» con le persone sempre di più i professionisti della
comunicazione dovranno padroneggiare il management del senso
e la tecnologia dell’anima. Dovranno essere in grado di costruire
attorno alle idee delle storie potenti e coinvolgenti, chiamando
in causa le emozioni, evocando progetti di senso, incoraggian-
do le esistenze delle persone a un livello spirituale, puntando
all’evoluzione sociale..
Nel 1984 il successo senza precedenti dei computer Macintosh
non fu dovuto solamente alla loro facilità d’uso (per la prima volta
una interfaccia grafica usava metafore facili da comprendere, come
il cestino, la scrivania, le finestre). I Mac, hanno dato un epico
inizio a una nuova e rivoluzionaria era di creatività. L’iPod ci ha
permesso di portarci in tasca tutte le canzoni (e le emozioni!)

47
della nostra vita. Wikipedia ci ha dato la possibilità di parteci-
pare attivamente alla scrittura collettiva delle basi del nostro
patrimonio culturale. Nike ha incarnato la scintilla del talento e
della vittoria che è presente in ognuno di noi. Tutte queste sono
storie incredibili dotate di personaggi, di intreccio, di metafore
avvincenti, che stimolano la passione per le sfide. Sono storie
capaci di incoraggiare le persone, di metterle in connessione, di
spronarle a esprimere il loro potenziale creativo.
Ed è proprio di queste storie che voglio parlarti. Perciò ti
condurrò nei meandri delle forme psichiche elementari, ovvero
gli archetipi. Dovremo studiare le emozioni e indagare insieme
le narrazioni mitologiche e le leggende urbane. E non ci farà
male scoprire la teoria dei «dieci mondi», che spiega gli stati
vitali comuni a tutti noi. Ti sembrerà di fare un viaggio dentro
di te, nel mondo sconfinato e affascinante dell’animo umano.
Pensavi che questo libro fosse un semplice how to? Be’… mi sa
che ti sei sbagliato.

48
Il Fronte di Liberazione
dei Simboli

Nel nostro mondo (occidentale) le persone, soddisfatti i bisogni


primari, mirano sempre di più a realizzarsi come individui. Il che
significa che ascoltiamo sempre di più i nostri bisogni profondi
e non ci accontentiamo delle facili risposte del consumo e delle
subdole seduzioni della pubblicità. «Compra questa macchina
e sarai felice!» oppure «Usa il nostro profumo e diventerai
irresistibile!». Non so se anche tu hai la stessa sensazione ma,
soprattutto in questo periodo di crisi economica, sembra che ci
sia nell’aria qualcosa che spinge le persone a farsi delle domande
a cui non trovano più risposta nel modello di vita proposto dalla
società dei consumi.
Ho visto molti amici rinunciare a brillanti carriere e alle gioie
del consumo sfrenato per cercare un più profondo «senso della
vita», basato sulla espressione della propria individualità creativa.
C’è addirittura chi si è spinto a mettere in discussione uno
dei pilastri cardine dell’economia classica: la piramide di Ma-
slow, che da sempre ordina in modo crescente la gerarchia dei
bisogni degli esseri umani. Secondo questa teoria i primi bisogni
che l’uomo ha necessità di soddisfare sono quelli fondamentali,
come i bisogni fisiologici, la sicurezza fisica, per arrivare a quelli
sociali e di appartenenza, proseguendo per i bisogni che riguar-
dano la stima personale, come lo status e lo stile, per poi finire

49
con quelli più complessi, ovvero l’autorealizzazione. Poiché la
motivazione a soddisfare le necessità superiori non può esistere
se non sono state appagate quelle più elementari, il bisogno di
dare significato all’esistenza, secondo Maslow, sarebbe quindi
l’ultimo da soddisfare, una volta trovata risposta a tutti gli altri.
Questo era vero prima dell’avvento dell’era della creatività e
dell’affermazione della classe creativa.
Danah Zohar e Ian Marshall in Spiritual Capital1 rilevano
il ruolo crescente nella società di scienziati, artisti e creativi
che, spesso, non si curano dei beni materiali per perseguire la
propria realizzazione e seguono un percorso di ricerca interiore
anziché la strada indicata dalle convenzioni sociali. Richard
Lloyd2 nel 2006 ha evidenziato l’incredibile aumento delle
persone che negli Stati Uniti si autodefiniscono «artisti». Una
crescita letteralmente esplosa a partire dagli anni Sessanta e
che continua tuttora.
Secondo molti autori l’autorealizzazione e la spiritualità an-
drebbero quindi lentamente a diventare bisogni primari, ribaltan-
do completamente la piramide dei bisogni. Del resto Maslow ha
concepito la sua teoria dei bisogni mezzo secolo fa e oggi, grazie
al lavoro di antropologi, neuroscienziati e psicologi, sappiamo
che gli esseri umani desiderano profondamente realizzarsi nella
vita. Per vivere abbiamo bisogno di dare significato alla nostra
esistenza. Lo psichiatra Viktor Frankl, che subì tre anni di pri-
gionia in vari campi di concentramento nazisti, ha scoperto che
gli internati che avevano tradito i compagni per sopravvivere
non erano poi più stati in grado di sopportare le conseguenze del
loro gesto. Al contrario, esistono innumerevoli casi di persone
che hanno sacrificato la propria vita per il bene degli altri o per
la causa in cui credevano.

Sulla scia dell’affermazione dei valori «postmaterialisti»3 ri-


levati dai sociologi negli anni Settanta, in particolare da Ronald

50
Inglehart nel suo The Silent Revolution,4 siamo ormai arrivati a
osservare la predominanza di valori sempre più etici e spirituali.
Nel corso degli ultimi decenni la società dei consumi è passata
dall’ostentazione degli status symbol, che identificava una deter-
minata appartenenza di classe, allo style symbol, che connotava
uno stile personale, per arrivare finalmente al mind symbol, vale a
dire al riconoscimento reciproco in comunità reali o immaginarie
basate su affinità intellettuali, emotive e spirituali. Le ricerche
indicano che, sebbene il numero delle persone creative sia di
lunga inferiore a quello degli individui standard, il loro ruolo
sta diventando sempre più rilevante.
Seth Godin afferma nel suo La chiave di svolta5 che il futuro
è delle aziende e delle persone creative che riescono a rendersi
indispensabili perché pensano fuori dagli schemi e sono in grado
di produrre lavoro e idee emozionali.
Sto parlando di persone che creano e utilizzano nuove tecno-
logie, dei consumatori più espressivi e collaborativi, di quelli che
utilizzano costantemente i social media, che sono dei nodi nella
Rete con molteplici connessioni e che stanno portando a un’«on-
da anomala» di cambiamento, quella che Forrester Research ha
chiamato groundswell.6 Queste persone con i loro stili di vita e
con il loro modo di pensare e di vedere il mondo influenzano
l’opinione delle altre persone e l’intera società.
Una delle caratteristiche di questa nostra civiltà sempre più
creativa è che si sforza costantemente di migliorare se stessa
arrivando a espressioni e pratiche sempre più tecnologiche,
artistiche, sociali e spirituali.
Ma togliti subito dalla testa l’idea che la creatività sia una
prerogativa dei soli Paesi avanzati! Nelle Nazioni più povere
fioriscono spesso tecnologie che risolvono problemi urgenti e
lo fanno con creatività e a basso costo.

51
Viviamo in una società
sempre più «creativa» e
in costante evoluzione ed elevazione.

Negli anni Sessanta i giovani lottavano per affermare nuovi


valori e una nuova visione del mondo. Questo movimento non
si è mai fermato, anzi, i dati delle ricerche dimostrano che il pro-
cesso di discussione critica della cultura dominante ha fatto in
questi ultimi anni sensibili passi in avanti. I risultati delle indagini
fatte negli USA e pubblicati nel libro The Cultural Creatives7 ci
dicono che nel 1995 la classe creativa era composta da 44 milioni
di adulti, nel 1999 da 50 milioni e che nel 2008, in soli 13 anni,
ha raggiunto quota 80 milioni, vale a dire circa il 35% della
popolazione adulta, con una crescita del 175%.
Questa avanguardia culturale si aggrega attorno ad alcuni valori
comuni quali la sensibilità ecologica, l’attenzione alla pace e alla
qualità delle relazioni interpersonali, l’interesse verso la crescita
personale e la pratica spirituale, il disinteresse per l’esibizione
della posizione sociale, la parità di diritti fra uomo e donna, la
coscienza sociale, la fiducia e la speranza nella possibilità di una
evoluzione in meglio dell’individuo e della collettività.8
La verità è che ci troviamo nel bel mezzo di una vera e propria
rivoluzione culturale, oltre che economica, che trova la maggior
parte delle aziende impreparate. Quello che in realtà sta accaden-
do, e che era già stato evidenziato dagli studiosi dei movimenti
culturali e sociali degli anni Settanta, è che ci troviamo di fronte
a una battaglia che non si conduce a colpi di mitra, si tratta di
una rivolta messa in atto dai consumatori. Un conflitto che non è
militare ma simbolico, che si combatte sulla base della capacità di
diffondere idee. E se da un lato ogni giorno siamo costantemente
sotto il fuoco dei media, le cui tecniche di disinformazione, di
persuasione e suggestione sono molteplici, dall’altro le persone

52
agiscono nel quotidiano per far emergere una nuova realtà. Una
nuova cultura, quella dei «creativi culturali», vale a dire i creatori
attivi di una nuova cultura, di un nuovo mondo. Se è vero che
grazie alla loro forza e supremazia i media definiscono l’agenda-
setting – ovvero dirigono la nostra attenzione verso alcune cose
a scapito di altre e in tal modo esercitano il potere di definire la
realtà, di nominarla, di dare importanza e rilevanza ad alcune
cose rispetto ad altre – a questo potere egemonico di costruzione
e definizione della realtà si contrappongono i progetti di senso
delle persone. Mi riferisco non solo al giornalismo fatto dai cit-
tadini (il cosiddetto citizen journalism, che vede le redazioni dei
giornali affiancate da privati cittadini che inviano spontaneamente
i propri articoli), ma soprattutto al ruolo crescente e sempre
più determinante dei blogger e dei twitteri, il popolo fluido e
auto-organizzato della Rete che, grazie all’utilizzo – sempre più
in mobilità – delle piattaforme di social networking, veicola
contro-informazione e mobilita le smart mobs, ovvero le folle
intelligenti, in grado di organizzarsi in azioni collettive.
Senza di essi il mondo non avrebbe saputo nulla della feroce
repressione del governo iraniano e della morte di Neda Salehi
Agha-Soltan, la ragazza diventata un simbolo della protesta
democratica in un regime autoritario e integralista, nel giugno
del 2009. Senza di loro non sarebbero stati abbattuti i regimi
autoritari del mondo arabo. Senza di loro non sarebbe possibile
inaugurare una nuova primavera politica fatta di mobilitazione e
partecipazione democratica dal basso. E se nelle regioni più povere
del mondo la battaglia è reale e purtroppo sanguinosa, qui da noi
nell’emisfero dei consumi, il livello dello scontro è fortunatamente
meno drammatico. Si tratta di un conflitto immateriale, che vede
le persone riappropriarsi dei «mezzi di produzione» per dirla con
Marx, i quali, in una società postmaterialista sono rappresentati
dagli strumenti di produzione simbolica. Mezzi con grande potere
strategico che permettono di «nominare il mondo», di definire
stili di vita, di affermare nuovi valori. Di dire cosa è bene e cosa

53
è male, di dare un proprio senso alle cose, fino a oggi etichettate
da un potere lontano e spesso contrario ai desideri delle persone.
Se da un lato la pubblicità pretende di poter rappresentare le
nostre vite, proponendo immagini della donna, della famiglia,
dei giovani, dall’altro le persone che non si riconoscono più in
quei modelli si adoperano per diffonderne di nuovi: producono
immagini, video, scrivono articoli, li commentano, li condividono.
Combattono una battaglia collaborativa per creare insieme un
nuovo mondo.

I nuovi media permettono


di rinominare il mondo
e di illuminare l’«altra faccia della luna».9

Le donne italiane, per esempio, si sono riunite nel comitato


Pari o Dispare, un gruppo impegnato a proporre una diversa
rappresentazione dell’immagine femminile nei media. Il grup-
po chiede alle aziende di impegnarsi responsabilmente a non
trasmettere messaggi discriminatori o degradanti, basati su una
concezione stereotipata dei rapporti tra i due generi, o addirit-
tura messaggi che incitino alla violenza verso le donne. Le donne
denunciano il fatto che lo stereotipo di genere è dannoso per la
famiglia, per la società, per lo stesso mercato del lavoro, nelle
professioni e nelle carriere. Ecco cosa chiedono nel loro Manifesto
per un utilizzo responsabile dell’immagine femminile, un testo
che di fatto raccoglie e rilancia raccomandazioni e risoluzioni
più volte espresse anche dalle Nazioni Unite e dal Parlamento
Europeo e che è stato sottoscritto da più di quaranta aziende.

«Una pubblicità creativa e innovativa può contribuire


all’evoluzione sociale nella direzione di una più realistica

54
e attuale visione della donna e di una compiuta parità di
genere. Come:

• Astenendosi dal proporre immagini femminili riduttive o


in termini di intelligenza o in quanto associate a stereotipi
limitati, ripetitivi e segreganti e promuovendo una diversi-
ficazione delle immagini che comprenda tagli, proporzioni,
ed età differenti.
• Dissuadendo da una trasformazione esagerata dell’aspet-
to fisico e dalla produzione di ideali estetici basati sulla
finzione.
• Astenendosi dal ridurre il ruolo femminile a un corpo espo-
sto a sproposito o non pertinente al contesto del prodotto/
servizio promosso e ridotto a merce per l’appagamento di
pulsioni sessuali.
• Articolando le immagini proposte entro una varietà di re-
gistri e una più moderna concezione dei ruoli, rispetto sia
alle donne che agli uomini, essendo lo stereotipo bilaterale.
• Garantendo il rispetto della dignità umana e dell’integrità
della persona, evitando messaggi che comportino discri-
minazioni dirette o indirette, o incitamento all’odio basato
su sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni
personali, disabilità, età o orientamento sessuale, o con-
tengano elementi che, valutati nel loro contesto, approvino
e esaltino la violenza contro le donne.
Fonte: http://www.pariodispare.org/

Le persone hanno iniziato a chiedere a gran voce a creativi e


direttori marketing, considerati i veri responsabili dell’approva-
zione di una campagna, di smetterla di proporre campagne che
riproducono stereotipi di genere. Come hanno fatto, tra gli altri,
Amaro del Capo con la campagna dal sapore sadomaso Fatti
il capo oppure Tim con la controversa serie di spot che, scim-
miottando la commedia all’italiana anni Settanta di Pierino, ha

55
messo in scena Christian De Sica nei panni del maturo seduttore
che ci prova con la sexy e giovane professoressa di latino Belén
Rodriguez durante il colloquio genitore-insegnante. Una scelta
pruriginosa che mal si addice allo spirito di un brand come Tim,
da sempre sinonimo di famiglia. «Scegliere Belén Rodriguez è
stato un errore», avrebbe detto al Corriere delle Comunicazioni
una fonte interna a Telecom Italia. «Molti dei clienti storici di
Telecom, in particolare le famiglie, non hanno gradito la scelta
della show girl in qualità di testimonial. E ciò si è tradotto in
fuoriuscite di clienti verso operatori concorrenti.»
Nel 2009 l’amministratore delegato di Telecom, Franco Ber-
nabè, per rilanciare Tim aveva chiamato Fabrizio Bona, in pre-
cedenza manager di Wind. I dati indicano che i risultati della
sua gestione sono stati disastrosi. Nei primi nove mesi del 2010 i
ricavi nel settore mobile dell’azienda sono calati del 10,4%. Ma
soprattutto, la batosta più grande a livello simbolico è stato il
sorpasso di Vodafone su Tim per numero di clienti e anche per
volume di traffico telefonico.10
Ma pensiamo al futuro. è finalmente arrivato il momento di
darci da fare e contribuire a costruire insieme un nuovo marketing
in grado di creare valore ai brand e allo stesso tempo capace di
redistribuire quel valore anche alle persone, sotto forma di gioia,
prosperità, incoraggiamento esistenziale, senso. Possiamo decidere
quindi, se lo vogliamo – e qui sta la vera sfida – di fare un passo
in più, di prendere veramente posizione, come cittadini e come
professionisti, decidendo di non rimanere neutrali di fronte a
quello che sta accadendo. Possiamo scegliere di sostenere gli
interessi delle aziende difendendo i diritti delle persone e, poiché
ne abbiamo il potere, possiamo decidere di indirizzare molti
dei battaglioni più armati verso l’evoluzione sociale e spirituale
dell’umanità. è finito il tempo di agire con leggerezza e superfi-
cialità, continuando ad alimentare un immaginario di stereotipi
e volgarità fine a sé stessa.
Se solo lo vogliamo, il nostro lavoro può contribuire a elevare

56
l’essere umano, sostenendo progetti di senso evolutivi e positivi.
Invece di frustrarle, possiamo contribuire a incoraggiare le persone
a trovare la strada verso la felicità. Se ti piace la metafora e non sei
una persone seriosa – e soprattutto hai visto il film L’uomo che
fissa le capre di Grant Heslov –, puoi decidere da questo momento
di entrare a far parte di un corpo speciale di comunicatori scelti,
il «Battaglione Terra11 della Comunicazione» che combatte al
fianco del «Fronte di Liberazione dei Simboli».
è così che mi piace immaginare il movimento sociale nato dal
basso nel momento in cui le persone hanno trovato in Internet
uno strumento democratico e alla portata di tutti per aggregare
le forze e prendere parte al conflitto simbolico in corso. Un
movimento sociale che utilizza i prodotti e la comunicazione
delle marche per sostenere la diffusione dei propri «progetti
di senso» da contrapporre a quelli dei grandi gruppi di potere.
Per questo oggi le marche devono decidere da che parte stare.
Se vogliono continuare a essere amate, rispettate (e acquistate!),
devono scegliere di scendere in campo a fianco delle persone e
fornirgli le munizioni per vincere la battaglia per la presa del
potere. La battaglia per riprendere in mano il senso delle cose.
Intendiamoci, non di un potere politico in senso stretto, ma di
quello basato sui nuovi mezzi di produzione dell’economia cre-
ativa, ovvero il potere di costruire e di definire il senso. Possiamo
chiamarlo «potere creativo». La battaglia è per il controllo dei
simboli, delle identità, delle visioni del mondo e questo potere
sta ritornando in mano alle persone.
Le marche devono decidere da che parte vogliono stare.
Anche Jacques Séguéla, il maestro della comunicazione francese
che ha definito il modello pubblicitario della star strategy, quello
basato sui testimonial che ha orientato per decenni le agenzie
di pubblicità, ha dichiarato: «Non ci sarà spazio nei prossimi
decenni per una marca che non saprà agganciarsi a una delle
grandi battaglie sociali del momento».
Qualche esempio di marche che hanno deciso di appoggiare il

57
Fronte di Liberazione dei Simboli lo stiamo già vedendo. L’acqua
minerale Ferrarelle ha invitato le persone a celebrare l’unicità
del proprio essere autentico, la banca Unicredit ha sostenuto
psicologicamente con i suoi spot gli imprenditori incoraggiandoli
a non arrendersi di fronte alle difficoltà economiche, Sky che ha
promosso il servizio My Sky ricordandoci che ci sono cose più
importanti nella vita che stare di fronte alla Tv! Tutto questo può
sembrare paradossale, ma senza coinvolgere l’anima in maniera
autentica le marche non saranno in grado di resistere ai grandi
cambiamenti che stiamo vivendo. D’ora in avanti saranno le
persone a scegliere di definire il proprio mondo. E se le aziende
vogliono restare connesse ai processi dinamici dei consumatori,
autogenerati e non più innescati dalle politiche di marca – ma
soprattutto non più facilmente manipolabili dal potere –, allora
dovranno per forza riuscire a integrarsi con essi. Le marche
dovranno mettersi a lavorare insieme alle persone creative per
contribuire a costruire quei pezzetti di senso che diverranno ma-
teria prima nella costruzione delle identità e dei progetti di vita
delle persone. Le aziende devono aiutare le persone a rimettere
insieme il puzzle del mondo andato in frantumi! Il nuovo van-
taggio competitivo sarà sempre più il «vantaggio collaborativo».
Difficile? Bisogna stare nel flusso, esserne parte. La tua azienda
dovrà «fondersi con le persone» ed «essere la comunicazione»
invece di «fare comunicazione». Sarà necessario restare sempre
connessi a quell’energia sociale e culturale, permettendo alle per-
sone di continuare a esprimere il loro potenziale creativo. Dovrai
concentrarti sulla causa e non sull’effetto, essere un soggetto
proattivo e non passivo, attivo e non reattivo. Dovrai iniziare a
condividere invece di pensare solo a ricevere (in termini di mar-
keting smettere di concentrarsi esclusivamente sulla vendita!).
Prima di tutto dovrai focalizzare la missione della tua mar-
ca, la vocazione della tua idea contagiosa. Tutto questo per
essere leader del cambiamento, per guidare le persone verso
l’evoluzione sociale e l’elevazione spirituale. Per comprendere i

58
segreti virale delle idee contagiose dovrai essere uno sciamano,
un cabalista, un alchimista che sa padroneggiare l’arte della
trasformazione. E ricordarti quello che pensavano gli antichi:la
creazione è prerogativa degli Dei! Ma non preoccuparti troppo,
siamo solo all’inizio del percorso. Al livello di principiante, la
spada è nella mano del guerriero ed egli impara a usarla. A uno
stadio successivo, qualsiasi cosa sia nella mano del guerriero è
spada: egli padroneggia il principio. All’ultimo livello la mano
del guerriero è vuota. Egli stesso è spada, egli è il principio.

59
Life’s for Sharing

Londra, stazione di Liverpool Street. Sono le 11 del mattino


quando gli annunci degli altoparlanti della grande sala centrale
sono interrotti dal caldo vocalizzo soul di Lulu & The Luvvers.
è l’attacco di Shout, scatenato rhythm and blues del 1964. Un
pendolare come tanti, che in quel momento attraversa la hall,
come d’incanto inizia a ballare tra la folla. Pochi istanti e alla
coreografia del ballerino solitario si aggiungono altre persone.
Poi altre ancora, come folgorate dalla musica e rianimate a nuova
vita da un variegato medley musicale che spazia da The Only Way
Is Up degli Yazz al valzer di Strauss.
Musica e ballo. L’energia è travolgente, così come lo stupore
dei passanti. Un’onda di magica follia trasforma gli anonimi
business people della City nei protagonisti di un musical in stile
Bollywood (avete presente quei film indiani?). Gente comune –
giovani e non – sembra improvvisamente colta dall’irrefrenabile
voglia di scatenarsi. Tutti amano quelle canzoni sparate a tutto
volume e nessuno può fare a meno di ballarle! Meraviglia. Sono
tre minuti di rottura degli schemi, di straniamento, di follia, di
reincantamento della realtà grigia e banale dello spazio urbano.
Poi tutto finisce così come è iniziato. E i trecentocinquanta flash
mobbers tornano di colpo a essere passanti in una stazione: rapidi,
come automi, proseguono verso le loro ordinarie mete quotidia-

60
ne. Applausi, facce incredule, il tutto ripreso da telecamere e da
decine di cellulari. Si è trattato di un sogno, di realtà o fantasia?
Era forse una candid camera?
Da quando l’arte è uscita dai musei diventando situazionista,1
la pubblicità, che notoriamente trae linfa vitale dai movimenti, è
diventata guerrillera. Gli spot sono usciti dagli schermi per andare
in strada tra la gente con l’obiettivo di sorprendere, rompendo
(ma solo per un istante) le convenzioni prestabilite negli spazi
sociali quotidiani. I passanti nella stazione di Liverpool Street
sono stati infatti i protagonisti di un’azione di guerrilla marke-
ting realizzata ad arte dall’agenzia creativa Saatchi & Saatchi
per T-Mobile, compagnia telefonica inglese. Ripresa da diverse
telecamere l’azione è diventata dopo solo 24 ore uno spot di tre
minuti andato in onda per un intero break pubblicitario durante
il Celebrity Big Brother su Channel 4 – il Grande Fratello inglese,
per intenderci. Life’s for Sharing , ovvero «la vita va condivisa», è
l’impeccabile slogan della campagna. Ed è solo l’inizio. L’agenzia
creativa spinge sull’acceleratore. Dopo aver lanciato su YouTube
un videoappello per radunare più gente possibile – questa volta
a Trafalgar Square – ripete il colpaccio che ha dell’incredibile.
Si presentano 13.500 persone. Ad attenderli 2.000 microfoni, 24
telecamere e un maxischermo: tutto quello che serve per realizzare
e riprendere il più grande karaoke mai visto prima. Migliaia di
persone si ritrovano in una piazza a cantare a squarciagola Hey
Jude dei Beatles, pezzo storico e struggente della tradizione mu-
sicale popolare inglese. Persone di ogni età, razza ed estrazione
sociale, diventano per un istante un’unica grande tribù, unita
dalla condivisione di un’emozione unica e intensa.
Il successo dei due spot è strepitoso: il primo, Dance, viene
visto da 3 milioni e mezzo di persone in un solo mese e da oltre 12
milioni nei tre mesi successivi. Lysa Hardy, responsabile brand e
comunicazione dell’azienda spiega gli obiettivi di branding della
campagna: «Dance ci mostra che spesso accadono cose inaspettate,
meravigliose, eccitanti che vorresti poter condividere con i tuoi

61
amici e la tua famiglia». Life’s for Sharing, la vita va condivisa,
te lo dice T-Mobile. Tutto questo senza Internet non sarebbe
stato possibile. I due guerrilla spot di T-Mobile trasudano di
citazioni, riferimenti culturali e dinamiche riprese dal mondo e
dalla cultura della Rete. A cominciare dallo spunto creativo di
Dance, chiaramente ispirato da uno dei video più visti per mol-
to tempo su YouTube: The Evolution of Dance. Realizzato dal
comico americano Judson Laipply e con dieci milioni di visioni
in due settimane, il video è un’efficace rappresentazione in sei
minuti della storia dei balletti della musica pop da Elvis Presley
a MC Hammer, fino ad arrivare a Michael Jackson. Il comico, sul
palco di un teatro e ripreso da una telecamera fissa, ripercorre la
storia della musica attraverso i passi resi celebri con i videoclip.
Movenze di culto che fanno parte del nostro immaginario, dei
nostri ricordi, della nostra identità culturale, dal Moonwalk al
Ballo del qua qua, passando per le tipiche mosse di MC Hammer
e delle Bangles. Poi c’è la dinamica del flash mob, anch’essa nata
dalla cultura della Rete e ripresa nello spot di T-Mobile: anonimi
passanti che diventano improvvisamente ballerini. Si tratta di
una mobilitazione (mob) estemporanea (flash) di una folla di
persone che si riunisce all’improvviso in uno spazio pubblico
per fare qualcosa di insolito. Il tutto per un breve periodo di
tempo e destando un forte effetto sorpresa per poi disperdersi
immediatamente con la velocità con cui si è radunata.
Un classico esempio è Critical Mass, movimento di ciclisti che
occupano in massa le strade urbane per protestare contro il traffico
e l’inquinamento. I flash mob, nati principalmente con finalità
di comunicazione politico-sociale, sono un modo di esprimere
nuove identità, di riappropriarsi di spazi urbani, di ridefinire il
senso delle cose. Sono una forma espressiva nata dai movimenti
e potenziata dalla Rete. Il raduno viene, infatti, generalmente
organizzato attraverso comunicazioni via Internet o tramite te-
lefoni cellulari. E oggi via Facebook e Twitter, utilizzati sempre
più in mobilità. Anche i London Riots che hanno devastato la

62
città di Londra nell’estate 2011 sono una specie di flash mob,
ma con finalità decisamente molto meno nobili e creative. In
ogni caso lo spunto è perfetto per una compagnia telefonica che
vuole posizionarsi come efficiente fornitrice di servizi Internet.
Per radunare migliaia di persone a Trafalgar Square T-Mobile
aveva usato la Rete diffondendo un invito sotto forma di video.
Ma soprattutto c’è lo slogan finale, a mio avviso uno dei più
potenti mai realizzati: Life’s for Sharing, che puntella l’impianto
concettuale dell’intera operazione con il messaggio valoriale del
brand, esaltando tutta l’attualità culturale di questa impeccabile
campagna di comunicazione. Si tratta di una poetica e universale
«presa di posizione» della marca, che dichiara apertamente il
proprio supporto, la propria affinità emotiva a un grande valore
della società dei network: lo sharing, ovvero la condivisione. La
condivisione della conoscenza, delle esperienze, dei contenuti,
delle identità, ma soprattutto delle emozioni. Un valore sociale e
culturale radicato profondamente nell’animo umano e oggi parti-
colarmente attuale ed evocativo. è così che la rilevanza dell’idea
si àncora a emozioni universali e senza tempo elevando il brand
a supporter di un progetto di senso condiviso dalle persone.

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Il Web è il mio ’68!

Per noi comunicatori la cosa più interessante di Internet, più


dell’aspetto tecnologico fatto di server, computer e nuovi sistemi
di programmazione, è sicuramente quello antropologico e sociale.
Internet è una grande piattaforma di relazioni e conversazioni
che ha cambiato il modo in cui le persone si relazionano fra loro.
Il fattore partecipativo di Internet è la vera novità: è questo che
caratterizza maggiormente il Web 2.0 rispetto alla prima epoca
della Rete. Una rivoluzione in ambito tecnologico, infatti, non
può che comportare profonde trasformazioni in tutti gli aspetti
del sistema sociale. Cambiano i mercati, cambia il concetto di
copyright,1 cambia l’industria della comunicazione, cambiano
le aziende e il rapporto con i clienti. è una rivoluzione di tutta
la struttura, come direbbe Marx. Un cambiamento radicale del
sistema che deriva dall’affermarsi di nuovi mezzi e modi di pro-
duzione, quelli del Web.
Una rivoluzione tecnologica che sta cambiando tutto, anche
il modo in cui vediamo noi stessi e ci percepiamo nel mondo
e rispetto agli altri. Mi piace pensare che grazie ad Internet le
persone stiano iniziando a sentirsi parte di un grande tutto.
Una allegoria buddista esprime questo concetto con la metafora
della «rete di Indra». Nel cielo esiste una rete di perle disposta
in modo tale che, osservandone una, si vedono tutte le altre

64
riflesse in essa. Allo stesso modo ogni oggetto nel mondo non è
semplicemente se stesso ma contiene ogni altro oggetto e quindi
è, in effetti, ogni altra cosa. Questa è una rete di fili che unisce
ogni cosa nell’universo. Siamo tutti collegati gli uni agli altri, da
sempre, anche prima dell’avvento di Internet!
La diffusione di massa delle tecnologie della Rete sta arrivando
a cambiare la nostra coscienza. Il Web ci porta a un cambia-
mento soprattutto cognitivo, oltre che tecnologico. E una nuova
coscienza è la base di una nuova azione. Possiamo vedere anche
il Web come un grande movimento sociale e culturale, alla pari
di quelli studenteschi e giovanili degli anni Sessanta e Settanta.
Come dice Carlo Formenti, in realtà molto critico rispetto a una
visione fideistica sulle magnifiche sorti e progressive della Rete,
Internet diventa la metafora irresistibile di una nuova era in cui
cadono le barriere geografiche e politiche che impediscono agli
esseri umani di dialogare tra loro. Tutto questo mentre l’econo-
mia si sbarazza dei vincoli della scarsità permettendo a tutti di
produrre e distribuire a costo zero un’infinita gamma di servizi e
prodotti immateriali, e mentre le gerarchie sociali si appiattiscono
regalando così la possibilità di parlare, di associarsi liberamente,
di produrre nuovi stili di vita e nuove industrie. In fondo è così,
anche se come in ogni cosa c’è sempre l’altra faccia della medaglia.
Il blogger Lele Dainesi durante la presentazione della rivista
Wired in Italia ha orgogliosamente dichiarato: «Il Web è il mio
’68». Uno slogan d’effetto che bene esprime un sentimento
comune a molti dei protagonisti della Rete. Non è un caso che
proprio Wired abbia dato il via alla campagna di comunicazione
per il lancio della testata con un evento a metà tra una confe-
renza stampa e un focus group in live streaming. In occasione
della «Colazione da Wired» alcuni vip della Rete, considerati
rappresentanti di spicco del pubblico a cui si rivolge la rivista,
hanno discusso sul significato e sulle potenzialità di Wired in
Italia, caricando pubblicamente il brand di personali significati

65
affettivi (ed elargendo gratuitamente consulenze all’editore su
come gestire al meglio il lancio sul mercato italiano).
Il tema centrale emerso indicava Wired quale portavoce e
interprete di una rivoluzione che grazie alla tecnologia stava
investendo le imprese, l’economia, la politica, la società nel
suo complesso. Moderati dallo stesso Riccardo Luna, ai tempi
direttore della testata, gli influencer hanno tracciato le linee
guida di una strategia di comunicazione che puntava a portare
Wired fra il grande pubblico come una specie di organo politico
di un movimento culturale e sociale. Sembravano una specie di
«carbonari 2.0». In verità, una società davvero poco segreta, che
pianificava una rivoluzione culturale da una sede davvero poco
rivoluzionaria (quella di Conde Nast, lo stesso editore di riviste
come Glamour, GQ, Vogue e Vanity Fair per intenderci).
A questa riflessione è poi seguita la campagna Internet for
Peace, che ha candidato Internet al Nobel per la pace. Incentrata
sulla figura del suo direttore, così da poter trainare la marca in
ogni luogo di rappresentanza e su ogni media, la campagna di
Wired ha per mesi mobilitato la Rete a supporto dell’iniziativa.
Wired è riuscito a fare quello che oggi devono fare i grandi
brand, ovvero alimentare dei movimenti sociali, incanalandone
l’energia e diventandone esponenti di spicco. La marca che si fa
leader di un movimento.. E un movimento esiste per chiedere
un cambiamento, che nel caso di Wired è stato quello di far ri-
conoscere Internet come strumento di «costruzione di massa»,
di pace, libertà e democrazia. Un movimento che ha i suoi eroi e
le sue parole d’ordine: Negroponte, Chris Anderson, Lawrence
Lessig e oggi lo stesso Riccardo Luna, arrivato a farsi ascoltare
fino nelle sedi istituzionali e governative come portavoce delle
sue istanze. Le battaglie portate avanti sono anche le parole
d’ordine del movimento: «Ci batteremo ogni giorno per tre cose
fondamentali: una più che decente connessione a banda larga
per tutti, il wi-fi libero e la libertà della Rete» proclamava Luna
a mo’ di capopopolo. Wired ha preso posizione, attestandosi

66
come portavoce di un movimento sociale e culturale, quello della
generazione digitale che con il proprio stile di vita impregnato di
neo-imprenditorialità, social innovation e cultura hacker, alimenta
una nuova visione tecno-ecologico-socialista-liberale, chiedendo
un cambiamento sociale, politico ed economico. Certo che una
volta questi termini erano in contrapposizione. Sarà forse che
stiamo entrando in un mondo non-duale?

67
Produco (senso),
quindi sono

The Machine is Us1 è un celebre video realizzato dalla facoltà


di antropologia culturale del Kansas. Sulle note di una musica
elettronica minimale il video ci mostra il passaggio chiave dal
testo scritto su un foglio di carta al testo digitale, detto anche
ipertesto. Si tratta in pratica delle parole cliccabili sullo schermo
che conducono a nuovi link, quindi a nuove informazioni, a
nuovi concetti. Il passaggio dal testo scritto e lineare all’ipertesto
è all’origine della pratica alla base del Web 2.0, vale a dire del
cosiddetto mash up, ovvero il «rimescolamento delle informa-
zioni». Quelle che nelle pagine Web vediamo sullo schermo e
che pescano da altri computer, database, software e tecnologie.
è come se, per fare una bella torta, prendessimo le uova, il latte e
lo zucchero dai nostri vicini, ma senza portarceli completamente
in casa. Gli ingredienti restano lì a casa dei vicini e contempora-
neamente vanno a comporre la nostra buonissima torta. Il fatto
è che grazie a questa condivisione di ingredienti, che arrivano
da ogni parte del mondo e senza alcuna fatica, le persone hanno
iniziato a inventarsi torte sempre più buone, diverse, elaborate,
straordinarie. Ma forse l’esempio della torta ti porta fuori strada,
e ti fa venire pure fame. Allora pensa a una grande poesia, rea-
lizzata con le parole, i ricordi, le emozioni di tantissime persone.
Questa pratica sta cambiando non solo il nostro modo di

68
lavorare, di comunicare, di produrre, ma anche il nostro modo
di pensare. Di fatto l’ipertesto sta andando a creare una nuova
coscienza collettiva in cui le persone si rendono conto di essere
parte di un grande flusso di informazioni che produce senso. Sia-
mo una grande rete fatta da persone che ogni giorno selezionano
informazioni, le rielaborano e ne creano altre attribuendovi nuovi
significati. è un grande cambiamento della mente, oltre che della
tecnologia. Dal testo lineare si passa alla conoscenza circolare.
Dalla ricerca individuale si passa alla creazione collettiva.
Il testo digitale ha infatti permesso di separare il contenuto
dal suo contenitore, l’informazione dalla carta, consentendogli
di viaggiare da un contenitore all’altro, da un computer all’altro,
modificandosi, cambiando, migliorando, evolvendosi. Il conte-
nuto può essere riutilizzato, andando ad assumere nuove forme,
creando nuovi significati, costruendo nuovo valore. Non solo
testi, ma anche foto e video, che resi indipendenti dal conteni-
tore hanno iniziato a viaggiare e a ricomporsi nei blog, nei social
network, negli aggregatori di notizie, rimescolandosi in nuove
forme, codificando nuove informazioni, elaborando nuovo senso.
Due siti con contenuti diversi possono ora mescolarsi e crearne
uno nuovo. Se tu hai migliaia di annunci su case in vendita puoi
collegare questa informazione alle mappe fornite da Google e
dare vita a un nuovo sito di annunci immobiliari georeferenziati.
Addirittura se poi ci incroci i dati dei check in di Foursquare, che
indicano le tipologie di luoghi più frequentati dalle persone in
una determinata zona, puoi avere una mappa del tipo di locali,
impianti sportivi, scuole per poter scegliere di acquistare casa
secondo le tue esigenze.
Il Web è una grande macchina, fatta di computer e di sof-
tware, ma siamo noi a renderla intelligente. Il Web può davvero
risolvere problemi, elaborare soluzioni molto meglio di qualsiasi
classe dirigente e consiglio di amministrazione. Il Web siamo noi
e sempre più ci stiamo rendendo conto di questa grande forza
chiamata intelligenza collettiva. Siamo noi a riorganizzare tutta

69
questa informazione, a taggarla, a catalogarla e a darvi senso.
Siamo noi che associamo informazioni ad altre informazioni
andando a creare nuove idee: The Machine is Us. 100 bilioni di
click umani al giorno che stanno insegnando e alimentando un
superorganismo fatto di computer, connessioni ed esseri umani.
Qualcosa di molto simile a quello che Joël de Rosnay ha chiamato
«Cybionte», con un termine che deriva dalla cibernetica – la
scienza dei sistemi complessi – e dalla biologia (bios). Un ma-
crorganismo planetario, costituito dagli uomini, dalle città, dai
centri informatici, dai computer e dalle macchine. Un organismo
ibrido, nello stesso tempo biologico, elettronico e meccanico.
Non si tratta quindi solo di link fra informazioni, si tratta di
connessioni fra persone. Persone che ogni giorno collaborano
alla creazione e ricreazione del mondo. La macchina è fatta di
persone. Persone che stanno cambiando il mondo. 
Tutto questo sta necessariamente portando a una revisione
dei concetti base e dei valori che hanno orientato la società fino
a oggi: il diritto d’autore, l’identità, l’etica, l’estetica, la retorica,
le forme di governo, la privacy, il commercio, l’amore, la famiglia.
Noi stessi. E il «nuovo senso delle cose» sta nascendo dal basso,
dalle persone. Non sono più le istituzioni o le aziende ad avere
il potere assoluto di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato, di
indicare la strada per il futuro. Internet è la più grande rivolu-
zione dopo quella industriale, la vera rivoluzione che ha messo il
potere nelle mani delle persone. People Have the Power cantava
Patti Smith nel 1988, quando Internet praticamente non c’era,
e oggi il concetto inizia finalmente a farsi largo anche nei dipar-
timenti marketing delle aziende. Tutti oggi vogliono essere il DJ
e realizzare con la propria vita la migliore compilation possibile.

70
Do it yourself (DIY)!

Basta chiamarli consumatori! La parola «consumatore» è figlia


della società industriale, in cui le aziende producevano i prodotti
e le persone li consumavano. Tutti ormai concordano che il ter-
mine non è più appropriato per definire degli attori sociali che
hanno un ruolo attivo e produttivo e in molti hanno cercato di
sostituirlo. Da tempo si parla di consumer empowerment, ovvero
di un consumatore che ha sempre più potere. Ma la verità è che
ormai i confini tra l’azienda produttrice e i cittadini consumatori
sono sempre più sfumati. Ci troviamo di fronte a una società di
co-produttori, di co-creatori, in cui addirittura si invertono i
ruoli tra chi produce e chi consuma.
Nella nostra società sempre più basata sulle idee, sulla cono-
scenza e su prodotti immateriali fatti di bit e di pixel, le aziende
sempre più spesso si trovano a consumare quello che i clienti
producono sotto forma di idee, stili di vita, software, innovazioni
sociali, oppure a dover addirittura competere con i prodotti creati
dagli stessi consumatori. Si diffonde un approccio collaborativo
e co-produttivo. Lo storico marchio di biscotti Mulino Bianco, di
proprietà di Barilla, per riallacciare un rapporto più empatico e
autentico – soprattutto con le nuove generazioni – e dimostrare
la propria apertura all’ascolto, ha creato una piattaforma online
che raccoglie le idee dei suoi fan. Dalla stereotipata e televisiva

71
famiglia del Mulino Bianco si è passati al «Mulino che vorrei»,
in cui sono le persone a co-immaginare insieme all’azienda il
mondo del Mulino Bianco, proponendo idee nuove da mettere
in produzione o storici prodotti da riportare sul mercato, ma
anche indirizzando l’azienda verso iniziative a beneficio della
comunità. Già lo avevano fatto Starbucks, i signori del caffè in
stile americano con MyStarbucksIdea e la tecnologica Dell con
il progetto Ideastorm.
Il nuovo slancio produttivo e partecipativo degli ex consu-
matori ha addirittura messo in testa alle aziende di poter fare
a meno delle agenzie di pubblicità. Oggi è possibile andare a
chiedere idee direttamente alle persone attraverso piattaforme
come Zooppa e BootB. Si chiama user generate advertising e per
ora non sembra aver prodotto grandi risultati in termini creativi.
Tutt’al più il coinvolgimento delle persone nei processi immagi-
nativi e produttivi è in grado di alimentare il senso di vicinanza
alla marca e di dimostrare la sua attenzione all’ascolto. è anche
utile a stimolare il passaparola, ma l’esperienza dimostra che
risparmiare sulla consulenza strategico-creativa di una buona
agenzia non si rivela quasi mai una buona scelta.
Il cliente da tempo non è più un bambino in un negozio pieno
di caramelle pronto a comprare e consumare voracemente ogni
proposta delle aziende, né l’ultimo tassello di una lunga filiera. Né
si limita, come dice Michel De Certeau,1 a opporsi alle strategie
dominanti del sistema creando spazi di resistenza alternativi. Il
consumatore è oggi creatore. Non è per niente un caso che molte
delle più importanti aziende della digital economy, da Google a
YouTube a Facebook, a Twitter, siano degli enormi contenitori
e organizzatori di contenuti forniti dagli utenti stessi. Milioni di
utenti aiutano ogni giorno le aziende della Silicon Valley a miglio-
rare i propri algoritmi e a riempire le piattaforme di contenuti.
Sono loro a dare valore aggiunto ai prodotti e a permettere di
migliorare costantemente il servizio.
Spesso gli stessi creatori sono anche i più accaniti concorrenti

72
delle aziende. Il sistema operativo open source Linux, Wikipe-
dia, la più grande enciclopedia del mondo, il browser Firefox
che ha soppiantato Explorer di Microsoft, la piattaforma Web
server Apache sono tutti esempi di prodotti e servizi realizzati
da consumatori che fanno concorrenza alle aziende. Ma anche
comunità online come Coachsurfing, un network mondiale di
viaggiatori a costo zero che mette in condivisione il proprio diva-
no, oppure i GAS, gruppi d’acquisto solidale, che si riforniscono
di prodotti alimentari direttamente dai produttori saltando la
grande distribuzione.
Il prossimo passo sarà la diffusione delle stampanti 3D che per-
metteranno a tutti di realizzarsi in casa i propri prodotti. E quando
i ragazzini inizieranno a scaricarsi modelli di scarpe da ginnastica
trovati in Rete e a stamparsele direttamente in camera loro, per
le aziende saranno cavoli amari. A quel punto potrebbero non
esserci più industrie ma molti mercati locali che producono valore
senza essere necessariamente controllati dalle aziende. A livello
imprenditoriale si sta affermando una nuova cultura ben descritta
da Matt Mason in Punk Capitalismo che riassume in tre principali
valori l’etica di questi nuovi imprenditori non-convenzionali:

• Do it yourself (DIY): rimosse le barriere da cui erano tenuti a


freno, i punk capitalisti stanno creando nuove imprese, cam-
biando i mercati e mettendo la creatività al centro di tutto.
• Resistere all’autorità: sfruttando le nuove tecnologie e la forza
degli individui che lavorano in Rete senza gerarchie, creano
nuovi modi di vivere e di lavorare.
• Coniugare altruismo e interesse personale: sovvertendo le
iniziative economiche di facciata cercano di creare imprese e
prodotti carichi di significato introducendo l’altruismo quale
fattore di motivazione per fare impresa.

«Quando è nato, DIY voleva dire formare la propria band


imparando a suonare con gli accordi stampati sulle fanzine;

73
presto potrebbe voler dire usare design trasmessi elettronica-
mente non soltanto per scaricare sneaker, ma per progettare e
fabbricare tutto quello che vogliamo, incluso un mondo miglio-
re».2 Stanno quindi crollando i pilastri che hanno caratterizzato
l’economia fino a oggi: l’azienda produttrice e le persone che
consumano. Tutto questo accade perché Internet e la tecnologia
hanno reso più facile l’accesso a risorse e strumenti una volta
molto costosi. è da quando esistono i campionatori che i ragazzi
di tutto il mondo possono fare musica senza saper suonare
uno strumento musicale. Allo stesso modo, da quando si sono
diffusi i computer che i grafici free lance hanno iniziato a fare
concorrenza alle grandi agenzie creative. Web e computer sono
mezzi di autodeterminazione.
Come già il punk e la musica rap democratizzarono la pro-
duzione musicale, ora microchip e reti telematiche trasformano
ogni persona in un potenziale produttore. Si tratta di strumenti
alla portata di tutti che permettono ad alcuni innovatori di
realizzare progetti che diventeranno startup milionarie. La
creatività viene messa all’opera e produce prodotti, nuovi
brand, valore economico. Così come hanno fatto Steve Chen e
Chad Hurley quando decisero di creare YouTube perché non
sapevano come condividere con gli amici i video registrati a
una festa. Oppure Mark Zuckerberg che in poche settimane ha
programmato da solo Facebook, un’azienda che alcuni valutano
più di 70 miliardi di dollari, poco al di sotto di aziende come
Cisco, Amazon e HP!3
Per la maggior parte degli ex consumatori che non sono in
grado di programmare un nuovo social network, le nuove tec-
nologie sono anche e soprattutto un campo di addestramento
grazie al quale possono imparare a sviluppare una forma nuova di
rapporto con le aziende, finalmente su base paritaria. Utilizzare gli
strumenti a disposizione, le tecnologie, i prodotti o gli elementi di
campagne di comunicazione permette alle persone di affermare
il piacevole diritto a esprimere il proprio potere creativo. E a

74
tutto questo le marche rispondono supportandone il desiderio
di emancipazione: «L’immagine è zero!» sentenzia Sprite, «Just
do It!» è l’invito di Nike, «Go Create!» ci esorta Sony, «Think
Different!» ci stimola Apple. Avere a cuore l’evoluzione e l’auto-
realizzazione delle persone permette alle aziende di sintonizzarsi
sulle giuste vibrazioni, quelle in grado di portarle lontano.

75
Dirottare un brand

Oggi è normale cercare informazioni su un prodotto senza


ricorrere alla fonte aziendale. Chi non lo fa per organizzare una
vacanza? O per decidere che modello di macchina comprare? Non
abbiamo più bisogno di ascoltare le lusinghe della pubblicità. Ma
facciamo di più. Mettendo in condivisione le nostre esperienze
online, creiamo contenuti di contro-informazione che possono
rafforzare o contraddire quelle diffuse dalle aziende e addirittura
arrivare a boicottarle.
E questo avviene sempre più spesso, come quando gruppi di
persone si aggregano su Facebook per protestare contro mes-
saggi pubblicitari ritenuti inaccettabili. è successo a Lactacyd,
il detergente intimo femminile, colpevole di aver utilizzato un
sondaggio poco attendibile per dichiarare che le donne italiane
erano favorevoli alle ronde cittadine. Ma anche a Coca-Cola,
che ha mandato in onda in tempi di crisi una pubblicità consi-
derata troppo ideologica, un invito alla sobrietà e alla rinuncia
alle cose più costose, da cui si salvava – ovviamente – la bibita
zuccherata della felicità. E che dire dell’impressionante bagarre
che si è creata in Rete quando la casa di moda Patrizia Pepe
ha pubblicato sulla propria pagina fan una immagine della sua
campagna (Where is Patrizia?) che ritraeva una modella davvero
un po’ troppo magra? La rivolta scatenata da alcuni internauti

76
che accusavano l’azienda di sostenere l’anoressia – e alimentata
anche da una gestione della crisi che io stesso ho definito «anti-
sociale»– è stata incontenibile, arrivando addirittura a mobilitare
Le Iene ed esponendo il comportamento dell’azienda di fronte
a tutti in prima serata Tv.
Dire la nostra, partecipare alla creazione di contenuti, leggerli
e commentarli, condividerli, ci dà l’impressione di avere un
maggior controllo sui consumi, sulle marche e quindi sulla nostra
esistenza. Grazie a Internet noi ex consumatori siamo finalmente
soggetti auto-diretti che fanno da sé. Riacquistiamo il nostro
status di creatori. Tutto questo provoca un effetto dirompente
sulle modalità di consumo. In un mondo in cui il lavoro è sempre
più precario e incerto, le persone oggi usano il mercato come
strumento per acquisire potere, rafforzare la propria autostima,
definire la propria identità. La professione era infatti un tempo
la fonte primaria dell’identità delle persone.
Il potere dei creatori si esprime nei modi più disparati arrivan-
do addirittura a esercitare il controllo sul marketing dell’azienda,
su variabili che, convenzionalmente, sono in mano agli uomini
di marketing: prodotto, distribuzione, comunicazione. Recenti
esperienze hanno reso evidente come può essere delicato e com-
plicato interagire con questo tipo di «consumatore creativo». Si
tratta di un consumatore più attivo, partecipativo, protagonista,
orientato a comportamenti sociali e comunitari come mai pri-
ma d’ora. L’entusiasmo condiviso di alcuni creatori a favore o
contro una determinata azienda prende corpo ormai in azioni
concrete, che arrivano a sfiorare pratiche di vero e proprio di-
rottamento del brand, ovvero di brand hijack, concetto coniato
da Alex Wipperfürth.1 Ti ricordi cosa accadde a Diet Coke e a
Mentos? All’inizio del 2006 la Rete fu inondata da centinaia di
video amatoriali che mostravano uno stravagante esperimento
nel quale una caramella Mentos veniva lasciata cadere in una
bottiglia di Diet Coke. La combinazione produceva una sorta di
geyser di soda che schizzava fino a tre metri di altezza. Tra i tanti

77
esperimenti spiccava una serie di esilaranti video virali realizzati
da una strana coppia di scienziati pazzi, Fritz Grobe e Stephen
Volt, in arte EepyBird. Prudentemente, Coca-Cola prese subito
le distanze dal fenomeno, temendo una perdita di controllo sul
proprio marchio. L’azienda tentò di contrastare sul nascere il
dilagante passaparola affermando che l’esperimento non aveva
nulla a che fare con la «personalità di marca» di Diet Coke e
che la bevanda andava bevuta e non utilizzata come reagente
chimico. Mentos, al contrario, decise di cavalcare il flusso di
quell’energia creativa scaturita dal basso traendone un enor-
me vantaggio: un’esposizione pubblicitaria gratuita dal valore
stimato di dieci milioni di dollari. Ma la storia non finisce qui.
Dopo l’iniziale tentativo di svincolarsi dal fenomeno virale per
tener fede ai canoni di marketing prestabiliti, alcuni mesi dopo
Coca-Cola cambiò rotta e decise di sposare il progetto. Le due
aziende in seguito iniziarono a collaborare con gli scienziati pazzi
del Web organizzando esperimenti pubblici sempre più spetta-
colari e coinvolgenti. Come già accaduto durante il celebre flop
della New Coke del 1985,2 le persone hanno dunque imposto a
Coca-Cola il loro potere.
In definitiva è quindi il caso di prendere atto di questo cambia-
mento degli equilibri tra aziende e persone. Se vuoi, ti consiglio
di farlo mettendo in sottofondo il brano del gruppo rap-core
americano Rage Against the Machine. Così passiamo al prossimo
capitolo su un suono di chitarre metalliche e al grido di: «We
gotta take the power back!».

78
Greed is (not) good

«L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è


giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura
l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme:
l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato
lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi
bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra
disfunzionante società che ha nome di America». Sono parole
di Gordon Gekko, lo spietato broker di Wall Street, un film di
culto che nel 1987 ben dipingeva lo spirito di una parte della
società americana.
Una volta erano di moda gli yuppie (abbreviazione di young
urban professional), il prototipo dei giovani manager anni Ottan-
ta, quelli che si erano buttati completamente nel lavoro e nella
carriera tralasciando relazioni sociali e tempo libero. Arroganti
e antipatici si muovevano in giacca e cravatta per le strade della
Grande Mela e spesso erano utilizzati dai media per dimostrare
l’inevitabile tendenza sociale verso un crescente Iocentrismo.
Sociologi e giornalisti ci hanno descritto la solitudine delle
persone nelle moderne metropoli, caratterizzate da un esasperato
individualismo e da una generalizzata frammentazione sociale
che porta le persone a trovarsi paradossalmente sole in enormi
megalopoli. Il triste punto d’arrivo del cittadino moderno, ormai

79
liberatosi da ogni identità imposta alla nascita, da ogni legame
famigliare, sociale, politico, religioso.
Le immagini in bianco e nero di don Camillo e Peppone, stere-
otipi degli italiani del dopoguerra divisi fra cattolici e comunisti,
rievocano un mondo lontano, che non c’è più, così come la via
Gluck di Celentano. L’individuo postmoderno, libero da vincoli
territoriali e sganciato dagli ideali collettivi che hanno orientato le
persone in passato è oggi caratterizzato da un’estrema mobilità,
tanto sul piano spaziale quanto su quello sociale. Si sposta da un
posto all’altro e non si riconosce più in una classe ben definita.
è un «nomade del presente»1 senza più agganci sociali o quasi,
senza le limitanti – ma spesso rassicuranti – radici ai luoghi e alle
tradizioni del passato.
Lo sviluppo dell’industria e del commercio e la diffusione
dell’informatica in ogni ambito della vita umana avrebbero
poi esasperato il suo individualismo, provocando una ulteriore
chiusura. A casa propria le persone sarebbero ormai sollevate
da tutte quelle alienanti occupazioni residue della tradizione.
Siamo in grado di ottenere più o meno tutto ciò di cui abbiamo
bisogno senza alcuna necessità di un contatto sociale fisico.
Possiamo addirittura fare la spesa via Internet all’Esselunga,
senza mai uscire di casa! Che brutta fine. Ora però mi viene da
chiederti: «Ma che fine hanno fatto gli yuppie?» A questo punto
dovrebbero aver prevalso loro nella lotta per la sopravvivenza
delle specie urbane. E invece, alla nascita del nuovo millennio,
sembrano emergere nuove figure che fanno della condivisione
e della socialità il loro ethos principale, la loro ragione d’essere
e di stare insieme. è un sentimento diverso che li muove, non
l’avidità beatificata da Gordon Gekko. Mentre il mondo della
finanza e della vecchia industria si sgretolano di fronte ai nostri
occhi, sotto il livellodel radar dei media mainstream si sperimen-
tano nuove forme di socialità e di produzione. I protagonisti
della scena sono oggi i geek, gli smanettoni del computer, una
volta detti nerd, quelli che scrivono continuamente sui blog,

80
che cinguettano su Twitter, che progettano startup e che si
incontrano ai BarCamp.
Questi luoghi di ritrovo per appassionati delle nuove tec-
nologie sociali sono nati dai FooCamp, una sorta di riunioni
annuali di hacker e sostenitori del free software e del movimento
open source organizzate dal guru della Rete Tim O’Reilly. Si
tratta di «non-conferenze» collaborative (così le definiscono) in
cui i contenuti sono proposti dai partecipanti stessi. Nascono
dall’esigenza e con lo spirito di condividere e apprendere in un
ambiente libero e aperto. I temi dei BarCamp sono soprattutto
legati al Web, al software libero, a nuovi modi di fare impresa,
ma non mancano anche quelli dedicati a temi diversi. Lo stile
di incontro e di condivisione libera delle conoscenze tipico dei
BarCamp si sta quindi diffondendo ad altri ambiti: sono nati i
MomCamp, dedicati alle mamme 2.0, momenti di incontro per
discutere sull’immagine e il ruolo delle donne nella network
society, i FashionCamp, luoghi di incontro per diffondere la
cultura di una moda democratica e addirittura i NinjaCamp, i
raduni annuali dei guerrieri Ninja!
In questi strani tempi social sta diventando sempre di più
la nuova parola d’ordine. Facebook è un social network, Last.
fm è social music revolution, Kiva e Zopa fanno social lending
(prestiti diretti fra persone saltando le banche), Miso è social
television, Flipboard è un social magazine, Anobii e Bookliners
sono piattaforme di social reading, Groupon è un sito di social
shopping, eccetera.
Che l’intellighenzia di sinistra si sia infilata nei gangli della
Rete per prenderne possesso e realizzare il suo progetto politico
di stampo socialista? Sta di fatto che la pratica della condivisione
e la forza dei network stanno diventando sempre di più i fattori
propulsivi di nuovi modelli economici e sociali. Su questo sembra
essere d’accordo anche Wired, la Bibbia dei rivoluzionari digitali
in felpa e iPad, che con un articolo del suo cofondatore Kevin
Kelly2 ha annunciato l’avvento di una nuova forma di socialismo.

81
Secondo Kelly l’affannosa corsa all’essere tutti connessi con
tutto, per tutto il tempo, starebbe poco a poco facendo tornare
in auge una versione – seppur riveduta – di collettivismo. «Non
stiamo parlando del socialismo che conoscevano i nostri nonni»
spiega Kelly. «C’è una lunga lista di caratteristiche che questo
nuovo socialismo non include. Non è una lotta di classe. Non è
antiamericano. Anzi, il socialismo digitale potrebbe essere l’ultima
innovazione americana».

vecchio e nuovo socialismo


Vecchio Nuovo
Autorità centralizzata fra i funzionari Potere distribuito fra partecipanti
dell’élite. ad hoc.
Risorse limitate distribuite dallo Uso delle risorse illimitato e gratuito.
Stato.
Lavoro in industrie di Stato. Gruppi di volontari che lavorano a
un progetto comune (Wikipedia).
Proprietà comune. Diffusione protetta dalle Creative
Commons .
Informazione controllata dal Informazione in tempo reale con
Governo. Twitter e RSS feeds.
Pene aspre per chi critica i leader. Opinioni appassionate sull’Huffington
Post

Tara Hunt nel suo libro The Whuffie Factor3 immagina il


passaggio progressivo da un’economia basata sul capitale mo-
netario a una incentrata su quello sociale in cui, al posto della
moneta, si usa il whuffie, una valuta alternativa che esprime la
reputazione di cui gode una persona. I whuffie – il cui concetto
è stato inventato da Cory Doctorow, media guru e coeditor del
celebre blog BoingBoing nel libro Down and Out in the Magic
Kingdom4 – si guadagnano cercando di essere gentili, connessi e
distinguendosi per particolari doti o abilità. La cosa interessante

82
è che questo capitale sociale può essere accumulato sia dalle
persone che dalle aziende. A volte mi chiedo come in futuro ci
pagheremo le bollette. A questo ha cercato di rispondere Chris
Anderson che nel suo saggio di economia Gratis5 quando parla
di free economy non pensa certo a un mondo senza moneta.
Anderson chiama «economie non monetarie» quelle basate sulla
reputazione e sull’attenzione. Si tratta di vere economie, mercati
con quasi-valute, che possono essere misurate con nuove unità
di misura, come per esempio con il numero di pagine viste su un
sito, dal numero di amici su Facebook, così come dai follower di
Twitter. Più ne hai, più sei influente, più vale il capitale sociale di
cui disponi. I social network possono quindi essere considerati
come dei grandi mercati di capitale reputazionale. è questo il
valore alla base delle quotazioni astronomiche delle big companies
della Silicon Valley. Del resto se ogni giorno le aziende spendono
per conquistare attenzione e reputazione, vuol dire che queste
valgono qualcosa. E più la tua idea sarà rilevante, ovvero degna
di attenzione e godrà di buona reputazione, più sarà rispettata
e condivisa, più sarà in grado di generare valore.
Gary Vaynerchuk ha chiamato questa economia emergente
Thank You Economy6 convinto che, utilizzando i social media, le
piccole aziende potranno sfidare quelle più grandi e per questo
più lente, grazie alla loro maggiore propensione a prendersi cura
dei clienti. L’imponenza dei budget pubblicitari non sarà più
la sola determinante del successo aziendale. Quello che conta
sarà l’autenticità e l’onestà con la quale le aziende sapranno ap-
procciare i clienti. La capacità di coinvolgerli emozionalmente
in maniera sincera e autentica sarà alla base della capacità di
contagio delle tue idee.

83
L’economia del dono

Abbiamo detto che per progettare un’idea contagiosa dob-


biamo passare dalla persuasione alla relazione e che èfonda-
mentale focalizzarsi sulle relazioni e sulle emozioni. La viralità
è infatti intrinsecamente legata alle relazioni fra le persone e al
loro mantenimento. Quando segnali qualcosa a qualcuno lo fai
per alimentare un legame, come si fa con i regali. Un legame
sociale, un legame umano. Lo fai per dire alla persona qualcosa
di te, ma soprattutto per ristabilire e continuare ad alimentare
una relazione. Le relazioni sono alla base della creazione di una
una comunità, le emozioni sono quelle che manifestano una
«comunione». E affinché scatti il meccanismo della condivisione
di un contenuto con qualcuno è necessario questo ingrediente
chiave: le emozioni.
Come sostiene Zygmunt Bauman la società di oggi è liquida.
E ciò che è liquido non ha e non può avere la stessa forma per
lungo tempo. è soltanto il passaggio da un recipiente all’altro
che ne ridetermina la forma. Pensa all’acqua. Così come un’onda
viene creata dall’energia cinetica (non sono le particelle d’acqua a
spostarsi), nella diffusione contagiosa di un’idea sono le emozioni
a muoversi fra i social network. Si tratta principalmente di una
condivisione di energia affettiva, una condivisione di emozioni

84
che alimentano relazioni e identità personali e collettive. Possiamo
dire che virale è condivisione sociale delle emozioni. Alimentare
un legame sociale con gli altri e definire una identità comune
attraverso il dono di un’emozione è il motivo profondo per cui
le persone si scambiano contenuti.

Le storie virali si diffondono


perché sono in grado di rinforzare il legame sociale
fra le persone, quasi fossero un dono.

Un dono che il mittente fa al ricevente, che dice qualcosa di


loro, che rinforza i loro legami sulla base di un’emozione condi-
visa. Hai mai fatto caso a quello che ti mandano gli amici? C’è chi
fa girare soprattutto immagini con teneri gattini, chi si è fissato
col tantra yoga della vita eterna, chi ti segnala solo petizioni per
salvare le balene, chi si è fissato con le catene di Sant’Antonio
che ti faranno diventare ricco e chi invece si diletta nel farti
leggere barzellette sporche! Dimmi cosa condividi e ti dirò chi
sei (e che vuoi da me).
Per comprendere l’importanza del dono dobbiamo ancora
una volta rivolgerci a chi si occupa di studiare gli uomini e le
loro relazioni sociali. Nei suoi studi antropologici Marcel Mauss,
autore del celebre Saggio sul dono1 fa un’analisi comparativa di
comunità arcaiche della Polinesia, della Malesia e del nord-ovest
americano scoprendo che è proprio mediante lo scambio di un
dono che si instaurano relazioni. Mauss non si concentra sulla
natura o sull’oggetto del dono, ma sul legame sociale che si co-
struisce mediante la donazione.
Il motivo principale dello scambio non è infatti economico,
bensì sociale. Il dono rappresenta quindi un mezzo per costruire,
affermare, modificare, un legame fra persone. L’importanza degli
oggetti scambiati non risiede tanto nella loro natura materiale,

85
ma nel loro significato simbolico, una sorta di rappresentazione
della natura della relazione. Lo scambio dei doni è quindi un
atto comunicativo che simboleggia tale relazione.
Una caratteristica interessante è l’apparente gratuità del do-
no, che teoricamente non prevede garanzie per il donatore sulla
sua restituzione. Ricambiare un regalo è più un obbligo morale
che generalmente deve essere rispettato, anche se il «come»
e il «quando» non sono stabiliti. In questo modo il donare, il
ricevere e il ricambiare diventano circolari. Tra i Maori esiste
la credenza che gli oggetti posseggano un’anima che li spinge a
scambiare nuovamente la cosa ricevuta. Secondo queste tribù
le cose donate e tutti i beni rigorosamente personali sono dotati
di uno Hau, uno spirito che spinge chi riceve a effettuare poi
un contro-dono. Non solo l’atto del donare diviene una ricor-
renza, ma anche l’accettazione del dono e la sua restituzione, in
un movimento circolare e potenzialmente infinito. Lo scambio,
quindi, non è semplicemente di oggetti: è come se attraverso le
cose gli uomini si scambiassero una parte dell’anima. Rifiutare
di donare, trascurare di invitare, così come rifiutare di accettare,
equivalgono a una dichiarazione di guerra, al rifiuto dell’alleanza
e della comunione.
Ora sei in grado di cogliere la valenza del dono come fon-
damento del legame sociale. è lo stesso motivo per cui sul Web
bisogna andare con l’idea di dare, prima di ricevere! è necessario
dimostrare di contribuire all’evoluzione della Rete e dei suoi
gruppi sociali per poterne ricevere il rispetto.
Una piccola ricerca2 condotta dal blogger americano studioso
di viralità e social media Dan Zarrella, ci spiega i motivi che spin-
gono le persone a condividere un contenuto con una (one to one)
o con più persone (one to many). «Perché condividi contenuti
in Rete?» è stata la domanda che ha fatto Dan agli intervistati.
Il motivo più comune per cui si condivide il contenuto con
una persona è che consideriamo il contenuto rilevante per chi
lo riceve: «Ho visto quella cosa e mi ha fatto pensare a un mio

86
amico» ha risposto il 40% degli intervistati. Lo humor è citato
come motivazione dal 16,4%. L’utilità è al terzo posto: chi con-
divide un contenuto pensa che gli amici lo possano considerare
utile e di valore.

Le ragioni per cui si condivide un contenuto con molte per-


sone (one to many), secondo la ricerca di Dan Zarrella sono
simili. La rilevanza per il pubblico è la prima, per il 18,6% delle
persone. Il 10,7% lo fa in maniera broadcast per raggiungere
più persone e in questo modo incrementare la sua reputazione
(8,8%). L’8,6% lo fa per il desiderio di supportare una causa
o un messaggio politico o sociale, ambientale o per diffondere
una particolare tecnologia (per esempio Linux). Poi c’è il motivo
dell’utilità (7,4%). Un’altra ricerca, questa volta più struttura-
ta, del Customer Insight Group del New York Times intitolata
«The Psychology of Sharing: Why do People Share Online?» ci
offre un’analisi delle motivazioni che ci spingono a condividere
i contenuti in Rete. I risultati ci dicono che condividiamo per:

• Selezionare, memorizzare ed elaborare meglio le informazioni.


• Aiutare gli altri passandogli notizie utili, interessanti o diver-
tenti.
• Dare agli altri un’immagine di sé e dei propri interessi.
• Aumentare e nutrire le relazioni con gli altri.
• Sentirci utili e importanti.
• Sostenere le cause in cui crediamo.

Ancora una volta emergono le finalità relazionali e identitarie


dello scambio di contenuti.
A questo punto, viene naturale chiedersi che ruolo debba avere
il brand e la sua comunicazione all’interno di queste dinamiche.
Il percorso sostenuto fino a qui dovrebbe ormai averti fatto
comprendere chiaramente come un approccio smaccatamente

87
pubblicitario e commerciale sia davvero inopportuno in questo
nuovo scenario, se non controproducente! Dovresti invece cer-
care di entrare nei processi psicologici e nelle dinamiche sociali
delle persone.In un’ottica che possiamo definire tribale potrai
riuscire a divenire parte di una comunità, ottenere il rispetto
dei suoi membri e addirittura metterti alla sua guida. Oppure
potrai muoverti a un livello più ampio, con una strategia che
che faccia leva su narrazioni ed emozioni più universali. Questo
dipenderà dal pubblico che vorrai raggiungere e dal mercato del
tuo prodotto. Insomma dalla tua strategia di marketing in senso
più ampio. Ma come farlo? In ogni caso dovrai contribuire alla
vita emozionale della comunità e delle persone più in generale,
dando voce ai sogni e ai bisogni attorno alla quale cresce e si
sviluppa una comunità, aiutando le persone a riequilibrarsi, a
superare una crisi esistenziale, a rafforzare la sua motivazione e
la sua identità. Supportandone la visione del mondo e i progetti
per concretizzarla, dandogli – anche attraverso la tua comuni-
cazione – i pennelli e i colori per dipingere il quadro del mondo
in cui desiderano vivere.

88
Mossi da un pathos
condiviso

Relazione, condivisione e reputazione diventano il fulcro di


una nuova economia basata sul dono, sull’affettività, su relazioni
umane, conversazioni autentiche, emozioni condivise. Riassu-
mendo quanto abbiamo compreso fino a qui, possiamo dire
che le persone sono mosse da un desiderio di condivisione e di
relazione, sono consapevoli del loro potere e sanno utilizzare le
nuove tecnologie per produrre significato e attribuire senso alle
cose. Tutto si muove secondo le relazioni, rese fluide e globali
dai nuovi device tecnlogici interconessi in Rete. Il sociologo
francese Michel Maffesoli1 aveva ragione: l’individualismo
caratterizzerebbe solo quella breve epoca di transizione che è
la Tarda Era Moderna.
Ormai lontani dal vecchio e rassicurante Paesello, ricerchiamo
– secondo un movimento opposto a quello della modernità – una
ricomposizione sociale basata non più su legami fisici e famigliari
ma su libere scelte emotive e affinità spirituali. Contrariamente
alla società del passato, costituita da un insieme di gruppi sociali
definiti, la società appare oggi come un tessuto di microgruppi
in cui le persone sono unite spesso in maniera transitoria ed ef-
fimera da una emozione condivisa, a volte da una esperienza (un
concerto) o una passione comune (il surf), da un prodotto o da
pratiche di consumo (i ducatisti) fino ad arrivare anche – negli

89
aggregati più stabili – a una sottocultura che comprende una
particolare visione del mondo (per esempio i writer).
Nella nostra epoca, in cui convivono arcaismo e tecnologia,
riemergono quindi i valori del legame sociale, della socialità e sem-
pre più della spiritualità, che si esprimono però in nuove forme.
Parlare di comunità oggi, non significa però un ritorno alla
chiusa comunità tradizionale. Si tratta di comunità più instabili
ed effimere di quelle tradizionali, in cui ognuno mantiene la
propria autonomia e non è soggetto a pressioni di alcun tipo. 
Spesso si tratta di aggregati simili per lo più a «sciami», come
quelli degli uccelli che si posano sui rami di un albero per poi
volare via, focalizzati momentaneamente intorno a una passione
effimera, a un’idea estemporanea, un modo dire, un tormentone
pubblicitario, un gossip, un avvenimento di cronaca. A volte esiste
il collante fisico di un luogo di aggregazione, oppure di un hobby
o di una pratica di consumo, come avviene con il gruppo di Tai
Chi Chuan con cui ogni tanto vado a fare dei seminari di appro-
fondimento sul kung fu o nella libreria esoterica sotto casa, che
organizza incontri sulla new age. Ma molto spesso il tutto avviene
online: pensa ai tuoi amici su Facebook o ai gruppi come «quelli
che gli anni Ottanta» a cui ti sei iscritto per ricordare le emozioni
di quando eri piccolo. In fondo cosa c’è di più emozionante che
cantare insieme agli altri le canzoni dei cartoni animati?
Spesso si parla di «tribù», di «neotribù», o di «Web tribù»,
ma il termine non riesce a esprimere bene l’idea. è ancora trop-
po legato a una lente «oggettiva», che guarda a questi legami
dall’esterno come fossero degli aggregati fisici. Per questo non
riesce a definire bene la fluidità dei rapporti in Rete. è quindi
necessario fare delle distinzioni, trovare nuove definizioni e
probabilmente spostare il livello dell’analisi. Oltre alle vere e
proprie comunità, che si incontrano periodicamente in luoghi
reali o virtuali e per le quali è possibile identificare una stessa
visione del mondo, dei valori e delle pratiche di consumo, esistono
in Rete dei legami ancora più deboli, spesso invisibili. E sono

90
proprio questi legami incredibilmente effimeri a trasportare le
idee contagiose fra una tribù e l’altra, a muoverle attraverso la
porosità dei network. è difficile quindi trovare una parola per
definire questi insiemi, perché non sono fatti di materia ma di
emozioni, o meglio di quella energia che gli antichi chiamavano
eros. Si tratta invece di aggregati emozionali in cui scorrono af-
fettività e comunicazioni che si coagulano attorno a discussioni
relative a pratiche, passioni, determinati marchi e prodotti, che
vengono utilizzati, insieme alle tematiche di discussione, come
supporti affettivi, identitari e comunitari. Si tratta di legami deboli
che spesso durano o si manifestano solo per brevi «momenti di
vita», come quando ci troviamo per un paio di ore in uno stadio
con decine di migliaia di altri fan per condividere le emozioni
di un concerto della nostra rock star preferita. Bernard Cova
nel suo libro Il marketing tribale parla di «tribalismo soft» nei
casi in cui le persone cercano di rompere l’isolamentoma senza
instaurare legami autentici con gli altri. A volte desideriamo
provare emozioni accanto ad altri, condividerle, ma senza alcun
obbligo di rapporto sociale. Al massimo un commento o un «mi
piace», che possono riattivare il legame ma senza un eccessivo
coinvolgimento. Cova si chiede se il concetto di «scambio» possa
essere adatto a definire quell’emozione provata accanto agli altri
in un cinema, in un teatro, in uno stadio, in un social network,
dal momento che non avviene uno scambio che non sia una
semplice parola o un commento, un sorriso o un «mi piace». Si
tratta di interazioni che evitano l’instaurarsi di un rapporto. Per
questo motivo propone di distinguere una condizione di basso
coinvolgimento differenziando quelle che chiama «emozioni
contigue» (l’esempio sono i partecipanti ai rave che restano soli
nel loro delirio, nella loro trance, anche se collettiva) dalle «emo-
zioni condivise», peculiari delle attività maggiormente tribali.
Io credo che il concetto di «pathos condiviso» possa concetto
rendere meglio l’idea. Pathos, che per gli antichi greci rappresen-

91
ta la parte emotiva, è una delle due forze che regolano l’animo
umano. Essa si oppone al logos, che è il principio razionale.
Se il pathos è quello che sentono le persone, ciò che si muo-
ve al di là delle emozioni e che scorre tra persona e persona è
un’altra energia. Una energia che si muove al di là delle paro-
le, al di là dei gesti. è una forza che non fa parte dell’oggetto
d’analisi della sociologia. E quindi ci tocca spostare il livello di
osservazione. Per capire cosa si muova tra le persone dobbiamo
passareda un punto di vista « interoggettivo» – ovvero da un
livello di gruppi di attori concreti come le tribù, oggetto di
analisidella sociologia– a uno «transpersonale»,2 appannaggio
più di un approccio psicologico. Non me ne vogliano i sociologi,
sono uno di voi! In questo modo siamo in grado di vedere e
comprendere questa energia che si muove tra le persone anche
senza evidenti interazioni fisiche.

marketing tribale
e marketing spirituale
Marketing tribale Marketing spirituale
Livello dell’analisi Microsociale Trans personal
Legame Ethos Pahos
Focus Subcultura Emozioni universali
Archetipi
Oggetto Codici culturali Emotoni

Quello che le persone cercano quando si scambiano idee conta-


giose, più che una vera e propria comunità, è una nuova comunione
che si esprime attraverso una rinnovata comunicativa, ovvero la
«facoltà di comunicare e di partecipare agli altri i propri senti-
menti».3 Scorre energia nelle vene dei social network. Rimbalza
tra una bacheca e l’altra. Collega quantisticamente le persone in-

92
terconesse, scrosciando come una cascata fra i re-tweet. è la forza
di Eros, una forma di energia che si esprime soggettivamente nelle
persone attraverso le emozioni e che si muove virtualmente nella
realtà interoggettiva dei network grazie agli atti di condivisione. Se
il concetto di ethos condiviso spiega la ricomposizione in neotribù
che vanno – anche in Rete – ad aggregarsi attorno a pratiche, ri-
tuali, visioni comuni del mondo, non è però in grado di dirci cosa
si muova tra le persone che condividono estemporanemente un
video musicale di Bob Marley, una poesia di García Lorca o una
particolare notizia del Corriere della Sera. Non è un ethos ma un
pathos che li collega. Persone che non sono accomunate da una
visione comune del mondo, anzi che spesso ne hanno di opposte,
ma che semplicemente e in maniera incredibilmente effimera in
quel momento sono in comunione grazie a una emozione che si
esprime attraverso la condivisione di un contenuto o di una idea.

Le idee contagiose
sono in grado di alimentare
un pathos condiviso.

Ciò che si trasmette come impulso da tastiera a tastiera, da


bacheca a bacheca, di messaggio in messaggio, in maniera asin-
crona e ubiqua è l’energia di Eros, un’energia che è già presente
e infinita nell’universo e che gli esseri umani sono in grado di
percepire e di condivideegrazie alle emozioni.
Pensa che non è ancora stata creata una macchina in grado di
provare emozioni. Solo il corpo umano – e probabilmente quello
degli animali più evoluti – è in grado di rilevarle. è l’energia di
Eros, percepita attraverso le emozioni, che si manifesta nella
condivisone di contenuti, di parole, di immagini,di video. è Eros
che muove l’idea contagiosa da una persona all’altra andando ad
alimentare un pathos condiviso.

93
Ecco che penserai di aver sbagliato davvero libro. Lasciami
spiegare, non chiudere la mente e il cuore. Non pensare a Eros
come il Cupido dei Baci Perugina con l’arco e le frecce. Stiamo
parlando di una forza che anche gli scienziati moderni hanno
iniziato a comprendere e che le discipline orientali conoscono da
secoli. Se vuoi farti una cultura su questi temi ti consiglio il Tao
della Fisica di Fritjof Capra,4 un fisico che fa una approfondita
analisi delle analogie tra le teorie relativistiche e quantistiche della
fisica moderna e le filosofie religiose orientali come l’induismo,
il buddismo, il taoismo e lo zen.
La fisica vede questa energia come una forza debole non
percepibile in termini di luce elettromagnetica, ovvero la luce
che ci permette di vedere le cose. Ma si tratta di un’energia già
nota ad artisti e mistici: «l’Amor che move il sole e l’altre stelle»
per Dante Alighieri, «l’unica Forza, l’Amore, che unisce infiniti
mondi e li rende vivi» per Giordano Bruno. Quella magia che
il saggio ha sempre sentito e il poeta ha sempre cantato. Quella
stessa energia che mistici e poeti hanno chiamato Amore, i filosofi
hanno identificato in Eros. Si tratta della forza che è in grado di
legare l’Io individuale al Noi collettivo, una forza che si muove
attraverso di noi e che riusciamo a percepire grazie alle emozioni
che sentiamo nel nostro corpo biologico.
Eros è una divinità primordiale, il principio animatore dell’Uni-
verso. Per i greci era il più giovane degli dei e tradizionalmente è
rappresentato come un fanciullo, spesso alato, armato di frecce
con le quali suscitava la passione amorosa. Platone lo descrisse
come un dèmone sempre inquieto e scontento. La filosofia non
a caso è l’«amore del sapere». Nella mitologia greca Eros era non
solo il dio dell’amore, ma anche il simbolo della coesione interna
dell’universo e della forza attrattiva che spinge gli elementi della
natura a unirsi tra loro. In termini scientifici potrebbe trattarsi
della forza elettrodebole scoperta nel 1983 nel laboratorio del
CERN di Ginevra da un gruppo di scienziati guidati dall’italiano
premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia. In definitiva possiamo

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considerarla la forza della vita, che spinge l’evoluzione verso stadi
sempre maggiori di unità e trascendenza.
Nel suo libro Sex, Ecology and Spirituality il filosofo Ken
Wilber5 getta luce su come l’amore cerchi espressione del nostro
sviluppo spirituale. Ispirandosi alla definizione tracciata dagli
antichi greci, distingue tra Eros, la forza che possono sentire
gli esseri umani attraverso le emozioni, e Agape, l’armonia che
esiste nell’universo e che discende sulla terra dal cielo. Eros è la
trasformazione che ascende o evoluzione, Agape è la trasforma-
zione che discende.
Cosa implica tutto questo per la progettazione del viral-dna?
Le idee, per attecchire in Rete e diventare contagiose, devono
essere progettate non per convincere qualcuno ad acquistare un
prodotto, ma pensate per alimentare le relazioni fra le persone, le
loro identità, il loro desiderio di ricevere e scambiarsi emozioni,
di ricevere e dare amore.
Nel Simposio di Platone, Aristofane racconta un mito molto
conosciuto e significativo, il Mito di Androgino. All’origine del
mondo gli esseri umani erano di tre generi: il maschile, il fem-
minile e l’androgino. Erano anche delle specie di esseri doppi,
che avevano quattro gambe, quattro braccia, due volti, quattro
orecchie e così via. Tuttavia, per la loro arroganza, Zeus decise
di tagliarli a metà per indebolirli ed evitare che attentassero
al potere degli dei. Da questa divisione nacque negli umani il
desiderio di ricreare l’unità primitiva. «Questo è il motivo per il
quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti interi:
e il nome d’amore dunque è dato per il desiderio e l’aspirazione
all’intero».6 Tutti in definitiva ricerchiamo questo ricongiungi-
mento nell’altro e con il mondo.

Comunicazione è Amore, e se non inizieremo a ricordarci


qual è il principale e universale bisogno di tutti gli esseri umani,
non saremo in grado di progettare idee in grado di far vibrare il
cuore delle persone.

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96
Parte seconda

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Progettare il viral-dna

«Dal brand-dna al viral-dna. Progetta la natura virale del tuo


brand prima di ogni cosa!» dice il primo principio Ninja del
marketing non-convenzionale. Te l’ho già detto, lo so, ma questo
è il principio più importante e dunque te lo ripeto. Se vuoi far
attecchire la tua idea di comunicazione devi infatti partire dalla
sua stessa natura. Ti devi quindi concentrare sulla progettazione
del suo «codice genetico virale», che ho per l’appunto chiamato
viral-dna.
Dal punto di vista del branding, ovvero della costruzione
di una marca di successo, in una società interconnessa e par-
tecipativa, aziende e agenzie di comunicazione sono chiamate
a fare un passo oltre la semplice definizione della personalità e
dei valori di marca da imporre al target con la forza dei budget
in comunicazione. Senza un DNA virale, contagioso, in grado
di stimolare il passaparola, il brand non entrerà a far parte delle
conversazioni delle persone. E se la tua idea non riuscirà a essere
davvero rilevante, rimarrà per dirla alla Seth Godin – autore del
celebre La mucca viola1 – solo una mucca marrone in un mondo di
mucche marroni. E tu non vuoi essere una mucca marrone vero?
Oggi agli esperti di comunicazione è richiesto di fare molto di
più che piazzare uno spot realizzato per la televisione all’interno
di un banner in auto play che si apre a tutto schermo mentre le

99
persone cercano di vedere un contenuto che gli interessa. Questo
è ancora interruption marketing! Quello che invece puoi riuscire a
fare è proprio massimizzare il ritorno dei tuoi investimenti – anche
e soprattutto quelli in mezzi tradizionali, come la Tv – attraverso
un approccio diverso, che sappia utilizzare al meglio i linguaggi e
le dinamiche della Rete. è proprio qui che si aprono possibilità
davvero entusiasmanti per tutti i creativi che vogliono accettare
la sfida e cimentarsi nella progettazione e nella realizzazione di
un’idea in grado di scatenare il buzz, di ottenere milioni di visioni
su YouTube e sprigionare cascate di condivisioni fra Facebook e
Twitter. Ma come? Ci stiamo arrivando. Iniziamo dalle basi del
marketing virale e dalla sua definizione:

Il marketing virale è finalizzato


alla realizzazione di prodotti,
comunicazioni o brand che abbiano in sé
la propensione a diffondersi spontaneamente
fra le persone come virus.

La progettazione del viral-dna, ovvero di quella chimica vi-


rale che fa parte del brand e della sua comunicazione, è quindi
l’elemento su cui devi concentrare la maggior parte degli sforzi.
Poi, una buona strategia di distribuzione del contenuto, in ter-
mini tecnici di seeding farà il resto. Un buon viral-dna, infatti,
ha comunque bisogno di essere inseminato nei terreni più fertili,
quelli più ricettivi al messaggio. Questo sarà fondamentale per
velocizzare il processo di diffusione del contenuto e renderlo
funzionale alle politiche di marketing dell’azienda.
Possiamo pensare alle persone che veicolano il messaggio come
a dei veri e propri «moltiplicatori», attraverso i quali risuona e
si diffonde l’emozione suscitata dal viral-dna. I moltiplicatori

100
amplificano l’onda di propagazione, ovvero quell’energia emotiva
che ho chiamato «eros» e che alimenta una condizione dinamica
di pathos condiviso.
Del resto, senza un terreno fertile la pianta non attecchisce.
Senza le persone che lo ritengono rilevante il messaggio non verrà
moltiplicato. Semplificando al massimo potremmo dire che viral-
dna e seeding sono le due variabili fondamentali della viralità.

Viralità
=
viral-dna x seeding

Tra queste due variabili sicuramente il viral-dna è quella più


importante, e per non dimenticartelo potrebbe esserti utile ricor-
dare il Paradosso del Prodotto Ideale: il prodotto ideale è quello
che non ha bisogno di comunicazione! Aziende come Facebook,
Google, Skype o Apple, ma anche l’antica pizzeria Da Michele
non hanno basato il loro successo su ingenti investimenti in
pubblicità, ma su prodotti straordinari in partenza, in grado di
entusiasmare le persone e di stimolarne il passaparola spontaneo.
A proposito, se non hai ancora mangiato la vera pizza napoletana,
ti consiglio caldamente di fare un salto da Michele, unica sede
rigorosamente nel centro storico di Napoli!
Possiamo tranquillamente estendere questo paradosso al
brand e alla sua comunicazione dicendo che il brand ideale non
ha bisogno di comunicazione! E questo vale per qualunque tipo
di idea contagiosa. Ovvero, più potente sarà il viral-dna, meno
dovrai investire risorse nella diffusione dell’idea.
La progettazione di una comunicazione contagiosa deve
quindi necessariamente partire dal suo viral-dna, tenendo ben
presente che non sarà possibile utilizzare il bellissimo spot pub-
blicitario realizzato dall’agenzia tradizionale per la Tv, pensando

101
poi di «viralizzarlo» semplicemente caricandolo su YouTube o
su qualche sito di video divertenti.
Sembra pazzesco, ma vi assicuro che molti ci hanno provato!
Da quando è scoppiato il boom dei video fatti dagli utenti e resi
celebri da Internet, la febbre dei video virali ha contagiato an-
che il mondo dei professionisti della comunicazione. Avendone
intravisto la possibilità, alcune case di produzione sono corse
dalle aziende nel tentativo di scavalcare le agenzie creative e,
spacciandosi per esperti del settore, hanno iniziato a proporre
produzioni low budget girate con tecniche fintamente amatoriali.
Come se girare uno spot con il telefonino bastasse a renderlo
virale. Virale non è a basso costo! E non è neppure una semplice
questione di trattamento low fi, della serie faccio un video che
sembra fatto in casa Ci sono molti esempi di successi virali realiz-
zati con produzioni davvero imponenti ed effetti sofisticati, dallo
spettacolare Big Ad della birra Carlton Draught, a Ravenstoke
del deodorante Axe, fino ad arrivare a Write the Future di Nike.
Altri ancora, come abbiamo visto, hanno provato a ricondurre
l’ideazione di un video virale ad alcuni semplici principi. Per fare
un virale basterebbero un po’ di sex, pets and absurd! Molti dei
contenuti virali presenti in Rete sono infatti bizzarri, irriverenti,
spesso cinici e politicamente scorretti. Oppure sono infarciti di
sesso, trattano tabù o argomenti proibiti o censurati dai media,
o ancora affrontano temi di critica politico-sociale. Spesso sono
teneri, romantici e a base di buoni sentimenti. Ma soprattutto
sono pieni di gattini! Ci hai fatto caso?
Secondo alcuni praticoni del virale avvezzi a semplificare e
banalizzare le cose, il segreto risiederebbe in una semplice formula
di buon senso popolare. «Unire l’utile al dilettevole», come dice
il proverbio. Basterebbe quindi rendere un contenuto utile o
divertente per farlo diventare il prossimo tormentone virale. Si è
così diffusa l’opinione che per progettare un’idea contagiosa sia
necessario e sufficiente regalare ricchi premi e cotillon oppure
utilizzare un trattamento divertente, grottesco, da macchietta,

102
spesso palesemente volgare. Come racconta una storia indiana,
nel buio si è toccata la zampa dell’elefante pensando che si trat-
tasse di un grande albero.
Il segreto della viralità di un’idea contagiosa non è da cercarsi
semplicemente nel trattamento estetico-creativo. È necessario
andare oltre, arrivando a cogliere l’essenza e la pregnanza del
messaggio, indagando sulle profonde motivazioni che spingo-
no le persone a quello che una volta si chiamava l’«invio a un
amico» e che oggi è sempre più un «mi piace» su Facebook, un
re-tweet su Twitter, ma anche la ripubblicazione del contenuto
nel proprio spazio personale, che sia una bacheca o un blog. Per
diventare dei guru del marketing virale è necessario addentrarsi
nelle dinamiche psicologiche e sociali della società interconnessa
e partecipativa, quelle che ho cercato di approfondire nella prima
parte del libro. E purtroppo, dal momento che la complessità
della società aumenta invece di diminuire, semplificare non sarà
più possibile.
In particolare, se è vero che il concetto di «utile» permette
di comprendere il successo online di giochi a premi, concorsi,
sconti, offerte speciali e limitate, di servizi utili e gratuiti come
Skype e Hotmail, che si sono diffusi a macchia d’olio tra le per-
sone un po’ come lo shopping compulsivo in periodo di saldi, la
parola «dilettevole» non riesce a rendere conto della diffusione
di idee e messaggi per nulla divertenti, spesso malinconici, dal
taglio politico, sociale o esistenziale. In realtà, il ventaglio delle
emozioni umane è molto ampio e non sempre queste emozioni
coincidono con una risata sguaiata. Possono invece manifestarsi
in sentimenti di malinconica ribellione, di eroismo, di paura come
nel caso di un film horror oppure di enigmatico mistero, come
per esempio nelle storie sulla fine del mondo del 2012.
Alle due caratteristiche (utile e dilettevole) si deve quindi
aggiungere una terza variabile, che chiamo «significativa», vale
a dire pregnante, intensa, ricca di senso, in inglese meaningful
Un’idea contagiosa deve essere soprattutto significativa. Questo

103
concetto ci porta al tema del management del significato, un tema
davvero affascinante nel quale vorrei introdurti. Gli antichi greci
avevano già spiegato tutto con i concetti di logos, pathos e ethos.
Aristotele aveva infatti identificato in questi tre fattori le variabili
che alimentano la forza di una argomentazione: il ragionamento
logico (logos), i valori (ethos) e le emozioni (pathos). Con questi
tre elementi siamo in grado di comprendere quali siano le leve
principali da utilizzare per progettare un’idea contagiosa. In
definitiva, potrai utilizzare scegliere di:

• Orientarti all’utilità economica, dimostrando i benefici fun-


zionali di un prodotto e facendo leva sul logos, ovvero sul
ragionamento logico
• Puntare sull’identità tribale di una comunità, ovvero sul suo
ethos, rafforzando l’identità di gruppo attraverso i valori
condivisi.
• Decidere di lavorare sul pathos facendo leva su narrazioni ed
emozioni universali.

Lasciando perdere la prima leva, che avrai già facilità a com-


prendere e a utilizzare (non vorrai mica che mi soffermi su sconti,
versioni gratis, regali e concorsi vero?), mi soffermerò sulle altre
due, ovvero sulle emozioni universali e sull’etica, intesa come
relativa all’ethos, ovvero alla cultura di un gruppo sociale, alla sua
identità tribale e ai suoi valori. Se è vero che l’utilità, argomentata
con il ragionamento rappresenta uno degli elementi fondamentali
di un’idea di successo, la progettazione di una comunicazione
e di un brand davvero contagioso dovrà fare principalmente
leva su ethos e pathos, ovvero sui valori condivisi dalle persone
nei loro momenti di vita e sulle emozioni universali sprigionate
nella società. L’obiettivo finale della progettazione sarà quello di
andare a costruire un mythos, ovvero una narrazione significativa,
densa di senso e dotata di grande forza, di energia archetipica
in grado quindi di stimolare l’entusiasmo dei creatori all’azio-

104
ne, all’adesione, al supporto, che si tradurrà in condivisione e
passaparola. Il filosofo marxista francese George Sorel descrive
il mito come «un’idea capace di spingere a una futura azione».2
Un complesso di immagini nella coscienza umana capaci di agire
sull’istinto, sprigionando in questo modo l’azione, che nel nostro
caso corrisponde al contagio dell’idea, all’effetto virale.

L’arte del DNA

ETHOS
etica

MYTHOS
senso
PATHOS
LOGOS emozioni
verità

NA
VIRAL D

Un’idea significativa è basata su una rilevanza


psico-culturale, ovvero su emozioni universali
e valori condivisi.

105
Per progettare un’idea significativa devi andare a lavorare su
una rilevanza psico-culturale, vale a dire:

• Relativa a sentimenti ed emozioni universali (psicologica).


• Che fa riferimento a valori condivisi da un particolare gruppo
di persone (culturale).

Si tratta di qualcosa di molto più sottile e profondo del sem-


plice intrattenimento a base di hostess e gonfiabili in spiaggia
o dell’utilità economica su cui si basano la maggior parte delle
promozioni e dei concorsi a premi. Progettare un’idea e un brand
significativi permette di passare da un legame cognitivo a uno
affettivo nel senso più profondo del termine e di ottenere l’ap-
poggio incondizionato e duraturo delle persone. Da una fedeltà
cognitiva, basata sulla ragione, ad una affinità emotiva che ad
un livello più profondo può diventare una vera e propria affinità
spirituale. è questo il motivo per cui alcune idee contagiose non
sono prettamente divertenti. Per esempio quando trattano di
tematiche sociali, come nel caso di molte campagne di Amnesty
International o quando fanno leva sulla paura. Ti ricordi Blair
Witch Project,3 uno dei casi più eclatanti di marketing virale cine-
matografico? Oppure fatti un giro in Rete e cercati il video Noah
takes a photo of himself every day for 6 years4 in cui un ragazzo si
è fotografato tutti i giorni per sei anni. È contagioso anche se è
incredibilmente triste. Perché è significativo. Le categorie dell’utile
e del dilettevole non riescono nemmeno a spiegare l’incredibile
successo di Dove Evolution, un viral malinconico e socialmente
impegnato che svela i retroscena dei ritocchi al computer sulle
foto delle modelle da copertina, trasformate artificialmente in
stereotipi di bellezza ideale e inarrivabile.
modo Così invece si spiegherebbero i flop di tanti grotteschi
pseudo-virali sfornati dalle agenzie all’inseguimento dell’as-
surdo. Spesso ho visto cercare di fare marketing virale sulla
base di creatività carine, o forse simpatiche (spesso solo per il

106
brand manager!), oppure a volte scadute nella volgarità fine a
se stessa. O ancora, mi sono trovato di fronte a inutili tentativi
di contagiare la Rete con banali e insipidi concorsi a premi.
Ricorda, senza emozione non c’è azione! Del resto, lo smalizia-
to frequentatore di Internet è ormai abituato alla filosofia del
«gratis» e ai contenuti senza censura, come ci ha spiegato bene
Chris Anderson. Quindi promettimi che la smetterai di pensare
che un’idea contagiosa debba essere semplicemente condita
di euforia o che l’utilizzo di ammiccanti signorine tettorute ne
possa garantire la diffusione. Non è questo il punto. Cogliere la
pregnanza e la rilevanza di un messaggio per le persone non vuol
dire spogliare maggiorate, decapitare gattini o far rotolare gente
idiota dalle scale! Assoldare i comici di Zelig non ti farà trovare
la pietra filosofale del marketing virale, loro stanno benissimo
in un teatro. Non c’è bisogno di altra banalità in questo mondo,
ma di un marketing più consapevole, più vero, significativo e
culturalmente attuale. Le persone vogliono emozioni e storie
in grado di ispirarle.
Antropologi e psicologi concordano sul fatto che vi sia un
profondo smarrimento una sensazione di frammentazione, iso-
lamento e mancanza di senso nella vita contemporanea. Come
spiega l’antropologo culturale, Grant McCracken, in una società
tradizionale ogni persona nasceva con un bagaglio relativamente
stabile di significati culturali. I miti, le leggende, le storie che
ascoltavamo da bambini ci facevano sentire di vivere in un mondo
coerente. L’individuo è libero e obbligato a scegliere ogni giorno
questi significati. Le persone possono costruirsi il proprio mondo
come vogliono e accompagnarle in questo cammino è oggi davvero
necessario ma è anche stimolante per le aziende che decidono
di farlo. Ed ecco che il «management del senso» è l’opportunità
che si apre di fronte ai creativi e ai comunicatori consapevoli e
desiderosi di migliorare il mondo.

107
Il brand è un «sense provider» che supporta
i progetti di senso delle persone
verso l’evoluzione sociale, culturale e spirituale.

Vivere in una società senza più identità pronte all’uso implica


la ricerca costante di un’identità e di una meta. E in tempi in cui
è difficile trovare risposte in forme già organizzate, ce le andiamo
a cercare nel consumo e nei testi comunicativi che ci forniscono
le aziende. Abbiamo i prodotti Nike da indossare per affermare il
nostro spirito sportivo e l’intenzione di superare i nostri limiti, e
allo stesso tempo ci scambiamo il video virale di Ronaldinho che
colpisce quattro volte la traversa per diffondere il nostro credo
comune nel «Talento» che tutto rende possibile.
Lo spot per il Web che Ronaldinho ha girato con Nike nel 2005
è stato uno dei maggiori fenomeni virali della Rete in cui viene
messa in campo la strategia dell’effetto «wow, non è possibile che
sia vero, / sarà un fake?». Chi guarda il video, infatti, è portato ad
ammirare l’incredibile prodezza del fenomeno brasiliano – allora
in forza al Barcellona – che per quattro volte di seguito riesce a
colpire la traversa senza mai far toccare la palla a terra. Non è
un caso che il prodotto Nike per cui lo spot è costruito siano le
scarpe Tiempo Legend: il talento, quello autentico esiste e crea
la leggenda. Ma sarà davvero tutto vero? Per molti giorni non
si è parlato d’altro. Da più parti si è gridato al falso e più volte
lo stesso Ronaldinho ha dovuto dichiarare personalmente di
essere capace di questa e di ben altre imprese apparentemente
impossibili. Vero o no, la verosimiglianza dell’impresa e il vuoto
informativo sul fatto che il video fosse o meno frutto di accu-
rati effetti speciali ha scatenato il passaparola. Evidentemente il
connubio talento sportivo-impresa impossibile funziona bene,
dal momento che è stato impiegato in un altro viral video5 che
ha suscitato un forte buzz – quello in cui Kaká palleggia con

108
ben due palloni (durante il backstage dello spot Ringo). Che
si tratti di falso o meno, la forza di entrambi i casi risiede nella
loro capacità di alimentare un mito, quello del Dio Talento, che
esiste e si manifesta nei poteri magici dei nuovi eroi dei nostri
giorni, i calciatori.
è un’impostazione in parte simile a quella della campagna
Adidas del 2007 basata sull’evocativo «Impossible is Nothing» e
sulle sfide, a volte molto difficili, che anche i grandi atleti hanno
dovuto superare. Come il pallone d’oro Lionel Andrés Messi6
che a undici anni ha dovuto affrontare un serio problema con
l’ormone della crescita o al già citato Kaká,7 che è riuscito a toc-
care traguardi incredibili dopo aver superato un grave infortunio
che gli aveva fatto rischiare la paralisi per via di una frattura alla
spina dorsale. In questo caso la volontà e la speranza sono la vera
forza motrice che porta a scoprire le proprie infinite capacità.
Quello che accomuna queste idee sono ancora una volta le forti
emozioni che suscitano e che ci ricordano che in tutti gli esseri
umani, dai grandi campioni alle persone comuni, esiste una for-
za che va al di là dei nostri limiti. Una scintilla divina che può
scoccare anche dentro di noi.
La viralità e il passaparola servono – oggi così come in pas-
sato – ad alimentare i miti, i riflessi delle potenzialità spirituali
di ciascuno di noi. Servono a far vibrare e a rassicurare il nostro
cuore sulle possibilità dell’assoluto. Proprio nel consumo e nelle
campagne di comunicazione delle aziende spesso andiamo a
ritrovare la magia e la meraviglia che ci hanno tolto gli eccessi di
razionalità della società moderna. è quello che viene chiamato in
maniera poetica da Michel Maffessoli il «re-incantamento» del
mondo attraverso il consumo. è come se i prodotti, le marche e la
comunicazione delle aziende avessero preso il posto degli antichi
miti. Pensa alla forza narrativa ed evocativa dei poemi omerici.
L’Iliade, l’Odissea: questi sì che sono grandi esempi di viral-dna!
Per questo oggi le marche possono essere considerate come dei
sense provider. E se vuoi che la tua idea contagiosa riesca a di-

109
ventare parte del senso generato autonomamente dalle persone ,
devi iniziare a considerarle anche dei sense supporter, vale a dire
delle autentiche sostenitrici dei mondi possibili elaborati dai
creatori. In questo modo la tua idea potrà essere percepita dalle
persone come un’opportunità per la comunità, come un aiuto
esistenziale reale e sentito al loro progetto di senso.
Nike l’ha fatto alla fine degli anni Novanta schierandosi con-
tro il divieto di praticare lo skateboard in molte città americane
e dimostrando di saper cogliere l’esigenza della comunità degli
skater, spesso discriminati perché ritenuti pericolosi e quindi
perseguitati dalle forze dell’ordine. L’azienda produsse una
serie di spot mettendo in scena situazioni di violenze analoghe
a quelle subite dai roller dalle forze dell’ordine, ma riportate ad
altri sport comunemente accettati come per esempio il tennis.
In uno di questi spot, ambientato in un mondo in cui lo sport
era proibito, i poliziotti facevano incursione sul campo e seque-
stravano racchette e palline. La comunicazione di Nike elevava
gli skater al rango di atleti. Nike ha così sostenuto la comunità
degli skater, dando visibilità e voce a quello che stava accadendo
nella società, mettendo in scena attraverso i suoi spot un modo
diverso di vedere e definire le cose, svelando in questo modo
«l’altra faccia della luna», ovvero la repressione violenta delle
forze dell’ordine. Con questo dono l’azienda ha stretto un legame
sociale con la comunità riuscendo a sancire una relazione, uno
scambio simbolico. Nike ha supportato gli skater e loro hanno
ricambiato il dono con la consegna di un contro-dono questa
volta di valore monetario: l’azienda ha infatti ricevuto i favori
della comunità, confermati in termini di vendite e diventando la
scarpa più utilizzata dalla tribù degli skater. L’obiettivo della marca
deve essere quello di prendere parte attiva nella generazione di
significati condivisi dai membri delle comunità che condividono
stili di vita e di consumo potenzialmente affini al brand e alla
sua offerta, che non sarà quindi solo funzionale ma soprattutto
simbolica. Una adesione ideologica al progetto di senso dei crea-

110
tori. E lo deve fare costruendo una forte e potente narrazione. In
questo modo la marca si guadagnerà il «rispetto» della comunità,
riuscendo a entrare nel paniere delle marche riconosciute affini
dal punto di vista emozionale e culturale. è il concetto di brand
affinity, ossia la capacità del brand di risuonare con il sistema
simbolico-culturale delle proprie comunità e dei propri scenari
di riferimento. Ricordati – come dice il quarto principio del mar-
keting non-convenzionale – che non puoi piacere a tutti, quindi
scegli e alimenta le affinità del tuo brand in maniera autentica!

111
Cosa ci insegnano i miti
e le leggende urbane

Quando Omero compose i suoi poemi non esisteva la lingua


scritta. Le sue storie, tramandate per secoli, furono trascritte
circa 500 anni dopo la loro creazione. I poemi omerici rap-
presentano quindi un grande esempio di tradizione orale e
di trasmissione per passaparola spontaneo. Storie che hanno
lottato per essere conosciute, memorizzate e ripetute. Storie
che hanno vinto una battaglia per la sopravvivenza e il cui
successo deriva da secoli di evoluzione e perfezionamento.
Per questo possono dirci tanto sulle caratteristiche che deve
avere il viral-dna per sopravvivere e diffondersi anche nell’era
dei social media.
La tradizione orale può davvero insegnarci molto sulla
progettazione di un’idea contagiosa. Se pensiamo a quello che
si è tramandato di bocca in bocca nei secoli la prima cosa che
salta all’occhio è la forza della narrazione. La potenza delle
storie, quella che oggi chiamiamo storytelling. In una società
non ancora alfabetizzata le storie potevano sopravvivere solo
se erano trasmesse a voce da persona a persona. E per questo,
oltre a essere storie memorabili, venivano argomentate in uno
schema semplice in modo da poter essere memorizzate facil-
mente. I versi e le strofe erano brevi e la struttura complessiva
era spesso divisa in paragrafi. Uno strumento importante per

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ricordarle era il ritmo. Per esempio, il ritmo dell’esametro vir-
giliano ha fatto sì che l’attacco della prima Ecloga (Tityre, tu
patulae recubans sub tegmine fagi: O Titiro, tu, disteso sotto la
volta di un ampio faggio, rimanesse nei ricordi di tutti i liceali
(o quasi tutti!).
I poemi e le storie che avevano un ritmo orecchiabile erano
facili da ricordare e da tramandare. Gli elementi chiave delle
storie venivano poi ripetuti molte volte, in una sorta di mecca-
nismo automatico di tolleranza dell’errore di trasmissione che
serviva a preservarne i punti chiave. Nei blog e nei media sociali
hanno molto successo le cosiddette liste del tipo «Come creare
un blog di successo», «Come guadagnare con il proprio sito»,
«Le 10 migliori applicazioni», «I 10 peggiori cellulari», «Come
fare per…», i famosi how to. Si tratta di elenchi il cui contenuto
è spesso suddiviso in paragrafi. Quello delle liste, così come la
struttura dei versi dei poemi, è una specie di schema, di modello
utile alla replicazione del contenuto. Per diffondersi più facilmente
le storie devono rientrare in strutture schematiche consolidate.
Ogni cultura per questo possiede un catalogo di cliché, di figure
retoriche e di schemi linguistici che vengono usati come dei mo-
delli, degli schemi che si ripetono e che vengono di volta in volta
riempiti di contenuti. Per esempio nella cultura hip-hop abbiamo
una serie di temi chiave ricorrenti: ci sono i pezzi chiamati party,
allegri e spensierati che servono a far ballare durante una festa,
quelli di «auto-rappresentazione», che elogiano le qualità della
propria cricca e del proprio stile, i pezzi in salsa gangster, che
dipingono la vita difficile nelle metropoli, eccetera. Lo stesso
modello della musica rap è schematico, fatto di estratti di altri
brani chiamati «campioni» (perché appunto presi da altri dischi
per mezzo dei campionatori) che si ripetono in continuazione
(i cosiddetti loop).
Allo stesso modo i rumours di successo, ovvero le voci in-
controllate che si diffondono di bocca in bocca, sono facili da
ricordare e seguono una trama stereotipata. I rumour diventano

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memorabili se oltre a essere semplici, fanno riferimenti a fatti
concreti, usano frasi stereotipate e fanno ricorso all’umorismo.
Si tratta di molte delle caratteristiche tipiche dei poemi omerici
e del resto della tradizione orale. Una trama stereotipata è una
storia che sembra nuova ma che in realtà segue uno schema
narrativo consolidato. Una vecchia struttura che deriva da miti,
storie o leggende, riempita di un nuovo contenuto è la formula
dei rumour migliori.
Un’altra caratteristica fondamentale che determina la so-
pravvivenza delle trame di successo è legata alla carica narrativa
della storia, in cui regnano la sorpresa e l’emozione. Il famoso
colpo di scena.
In tutti i video virali l’effetto sorpresa è alla base della creati-
vità. La sorpresa riesce a rompere lo schema mentale, a scatenare
l’emozione e a sedimentare il ricordo.
Generalmente le storie orali che si sono tramandate si basano
anche su rappresentazioni di personaggi forti. Molti poemi epici
evocano una serie di grandi imprese compiute da una figura
leggendaria. Le storie incentrate su personaggi straordinari e
molto caratterizzati sono infatti molto più facili da raccontare
e sopravvivono meglio di quelle sprovviste di un personaggio
chiave. I personaggi straordinari, così come l’effetto sorpresa
servono a scatenare l’immaginazione, l’emozione e quindi il
ricordo e il passaparola. Allo stesso modo i fenomeni virali più
popolari hanno spesso una grande storia di fondo che li accom-
pagna e dei personaggi fuori dal comune che fanno qualcosa di
inaspettato, di emozionante: dall’incredibile esperimento Mentos
/ Diet Coke, alla rivincita della cenerentola Susan Boyle, che da
brutto anatroccolo si trasforma in una principessa del palco-
scenico, fino alle magiche presentazioni di Steve Jobs, il nuovo
messia sceso in terra a liberare la creatività del mondo grazie ad
Apple. Conosci Susan Boyle e la sua storia strappalacrime? Susan
Margaret Boyle è una signora scozzese sulla cinquantina apparsa
nella terza serie della trasmissione televisiva inglese Britain’s

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Got Talent. Ha raggiunto la fama internazionale cantando «I
Dreamed a Dream», canzone tratta dal musical Les Misérables.
Nell’agosto del 2008, Susan partecipa al programma Britain’s
Got Talent, e dopo aver superato un’audizione preliminare a
Glasgow, si presenta nel 2009 alle audizioni principali. La sua
apparizione, iniziata sotto lo scetticismo generale, stupisce ed
emoziona la giuria e il pubblico, che all’inizio aveva trattenuto
a stento scetticismo e ilarità nei confronti della cantante a cau-
sa della sua età e del suo aspetto trascurato. Il video della sua
esibizione, montato con una sapiente regia ed estremamente
d’impatto, totalizza in poco tempo 200 milioni di visualizzazioni
in tutto il mondo.
Susan Boyle ha avuto tanto successo perché la sua storia
ripete esattamente una trama che ben consociamo: quella del
brutto anatroccolo, che prima non è tenuto in considerazione
da nessuno e alla fine si trasforma in un cigno stupendo. La sua
dimensione fisica crea un forte contrasto. Susan piace perché
ha una voce straordinaria in un corpo piuttosto brutto, ed è
questo a stupire e creare l’effetto sorpresa (per un attimo alla
vista del video sorge il dubbio che si tratti di un falso). Un per-
fetto connubio tra un bel corpo e una voce adamantina sarebbe
forse passato inosservato. La Boyle è quindi per un attimo il
simbolo della rivincita.. La prova vivente che il talento viene
premiato, anche nello show business, indipendentemente dal
corpo in cui si manifesta e che questo può valere per chiunque,
anche per una casalinga grassa e sciatta. Si innescano dunque
forti meccanismi di identificazione. Che poi all’interno dello
show britannico Susan Boyle si sia piazzata solo seconda non
importa. Ancora oggi, il numero di visualizzazioni del video
continua a crescere, così come quello dei tweet e dei like e il suo
successo sembra essersi consolidato. In effetti un trend quasi
mai replicato da molte splendide showgirl televisive. Questo
è l’esempio che un’idea contagiosa si diffonde senza guardare
in faccia nessuno.

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Ma c’è un’altra caratteristica tipica delle storie tramandate
di bocca in bocca. Conosci il gioco del telefono senza fili? Ogni
persona che sente e racconta la storia la rielabora un po’ per
farla rientrare nei propri schemi mentali. Chiamiamo questo
processo «co-creazione», «ricreazione collettiva» o «coope-
razione testuale». Anche la tradizione orale funziona così. Le
storie che si trasmettono con il passaparola spesso accrescono
questa esperienza partecipativa stimolando l’interpretazione delle
persone. è lo stesso principio delle leggende urbane. In questa
catena ri-creativa ciascuno cerca di far rientrare la storia nei
propri schemi mentali e culturali, mettendoci un pezzettino di
sé, dei propri valori e punti di vista, cambiando un po’ la storia
e ripetendo la propria versione. Spesso, quando la storia arriva
in un nuovo gruppo sociale, la prima persona che la racconta
cambia qualcosa per renderla più intuitiva al resto del gruppo.
Ci infila un po’ dei valori condivisi dagli altri. Si tratta di una
vera e propria «costruzione collettiva di senso». è quello che più
avanti chiamerò «riusabilità».
Anche i rumour si diffondono per lo stesso principio. Av-
viene ogni qual volta un gruppo sociale cerca di capire quello
che sta avvenendo laddove l’informazione ufficiale è scarsa
o inesistente. I rumour interpretano o rielaborano un evento
recente, riempiendo questo «vuoto conoscitivo». Se in un Paese
avvenisse un fatto inconsueto, si potrebbe creare facilmente
un rumour per dare una spiegazione nel caso in cui le auto-
rità non l’avessero già fatto. Anche nei social media vediamo
all’opera la forza della creazione collettiva in tempo reale.
Nei commenti sui blog, nelle discussioni su FriendFeed, nei
video su YouTube, le reazioni del pubblico vanno a integrare
il contenuto diventando spesso importanti quanto il messaggio
della storia originaria. Anche i brevi commenti scritti dai mit-
tenti per personalizzare i tipici messaggi di «invia a un amico»
sono un caso di co-creazione. «Ecco come gioco a pallone!»,
scrive il nostro amico inviandoci il video della prodezza di un

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calciatore. Un esempio di come le persone contribuiscono a
costruire il senso e la densità del messaggio aggiungendovi una
parte di contenuto personale.
Nello studio delle leggende metropolitane si dà particola-
re rilievo al loro contesto di trasmissione. Tra le più celebri
vi sono quelle che raccontano di un uomo che si è svegliato
in una vasca da bagno senza un rene, quella che i comunisti
mangiano i bambini e altre cose del genere. I fattori che ne
influenzano la trasmissione comprendono l’età, il genere, la
condizione sociale, il livello d’istruzione e la localizzazione
fisica di chi racconta e di chi ascolta la storia. E soprattutto i
valori del gruppo.
Ma soprattutto sono i dettagli a essere decisamente importanti.
Se una storia è vaga è solo una storia come tante. è bene dunque
che la storia sia ricca di particolari e di riferimenti concreti, come
per esempio il luogo geografico preciso, il nome del protagonista
o altri dettagli del genere.
Un altro aspetto decisamente importante è che alcune persone
all’interno dei gruppi sociali sono note per essere solitamente in
possesso di informazioni riservate. Per questo, le storie raccontate
da loro hanno maggiori probabilità di essere ricevute, memorizzate
e ritrasmesse dagli ascoltatori.
Per Malcom Gladwell, che ne Il punto critico analizza il
potere delle epidemie,1 secondo quella che definisce «la legge
dei pochi» basterebbe una piccola percentuale di persone
contraddistinte da caratteristiche personali e sociali di spiccata
influenza per garantire un’ampia diffusione del contagio. In
particolare Gladwell identifica i connettori, soggetti che co-
noscono numerose altre persone o che sono particolarmente
attenti alla diffusione di nuove informazioni, gli esperti che
fondono sapere e abilità sociale e che diffondono l’idea nel
loro nel contesto grazie al loro ruolo di guida e i venditori che
riescono più di tutti a generare negli altri l’esigenza di posse-
dere qualcosa. Connettori, esperti e venditori consentono alle

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nuove idee e ai nuovi prodotti di non restare confinati a un
gruppo relativamente ristretto di fruitori ma di diffondersi alla
maggioranza delle persone.
Altri due fattori chiave nel successo delle leggende metropo-
litane sono l’autorevolezza della fonte e quella che chiamiamo
la «prova sociale», ovvero il fatto che l’ importanza della storia
venga confermata da molte persone. Anche sul Web la reputazione
del sito o del blogger influisce molto sul fatto che il messaggio
venga accettato dal lettore. Gli utenti si fideranno di siti che non
hanno mai visitato solo se questi sembreranno autorevoli e in linea
con le loro principali motivazioni ed esperienze. Un blog con
tanti commenti ai post e migliaia di iscritti darà l’idea di essere
autentico e autorevole. Se un post ha un sacco di like e re-tweet
le persone saranno incoraggiate a condividerlo, rassicurate dalla
«prova sociale» secondo un effetto cascata.
Nel 2007 il Washington Post ha condotto un esperimento.
Ha portato uno dei migliori musicisti del mondo a suonare uno
Stradivari da 3,5 milioni di dollari) nella metropolitana all’ora di
punta. La maggior parte della gente lo ha semplicemente igno-
rato. Il guadagno totale dei suoi 43 minuti di esibizione è stato
solo di 32,17 dollari. Nessuno ha notato la migliore musica al
mondo senza la prova sociale garantita da un prestigioso teatro
in centro e da un elegante pubblico in smoking. La migliore idea
del mondo, senza i necessario riconoscimento sociale non avrà
nessuna possibilità di fare presa.
Le persone infatti fanno affidamento sulla reazione altrui
per prendere decisioni, fidandosi del fatto che gli altri, spe-
cialmente se sono tanti, ne sappiano più di noi sulla scelta da
fare. Quando i riconoscimenti sociali iniziano ad accumularsi,
come quando un post ottiene tanti like, si ha una cascata infor-
mativa. Anche nelle catene di Sant’Antonio che si diffondono
via mail, il fattore virale più sottile e potente è il riconosci-
mento sociale che le accompagna. Ogni volta che qualcuno
ne inoltra una alla sua rubrica dei contatti solitamente allega

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un’altra lista di mittenti e destinatari, creando in pratica un
lunghissimo elenco di persone che conferiscono maggiore
autorevolezza al messaggio. L’informazione diventa quindi
conoscenza condivisa e il destinatario potrebbe sentirsi come
se fosse l’ultima persona sulla faccia di Internet a non essere
stata avvertita di un potenziale pericolo o di una incredibile
occasione. Ammettilo, spesso ti viene il sospetto che un’e-mail
possa essere una bufala. Ma chi sei tu per pensare di saperne
di più di centinaia di tuoi simili? E nella remota possibilità che
l’e-mail fosse vera e che Bill Gates avesse realmente deciso di
regalare tutti i suoi soldi? Non sia mai che gli altri si arricchi-
scano e tu no! Quindi meglio non pensarci e fare un semplice
inoltro. In fondo che ti costa?
Gli esseri umani basano molte delle loro decisioni sulle scelte
degli altri. Si tratta di un modo per trasmettere insegnamenti ga-
rantendo la sopravvivenza e l’evoluzione della specie. L’aspetto più
conosciuto delle leggende metropolitane è che spesso contengono
avvertimenti di tipo morale, messaggi allarmistici del tipo «non
appartarti col tuo ragazzo in macchina o un pazzo fuggito dal
manicomio vi ammazzerà», «non mangiare nei fast food o finirai
col mangiare un topo». Le leggende metropolitane contengono
in sé un codice comportamentale imposto dal gruppo sociale da
cui è scaturita la leggenda. Vengono spesso usate per imporre
regole a chi le ascolta. Pensa alle parabole religiose, un esempio
straordinariamente efficace di trasmissione di precetti compor-
tamentali di un gruppo tramite delle storie che si diffondono da
persona a persona.
Anche molti dei messaggi più virali della Rete contengono
avvertimenti, spesso basati sulla superstizione. «Se scarichi
contenuti illegali prenderai un virus informatico», «se non
diffondi questo messaggio sarai l’unico a non diventare ricco»,
«se non invii questa mail ad almeno 10 amici ti porterai sfiga
da solo!». Insomma, se infrangi le regole e i ruoli sociali sarai
punito.. Gli esseri umani si sono evoluti per aver sviluppato

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capacità di imitazione e di apprendimento sociale. Dal punto
di vista evolutivo le persone hanno più di una ragione per es-
sere suscettibili agli avvertimenti sociali e trasmetterli alla loro
famiglia e comunità.
Esiste una scuola di pensiero sulle leggende metropolitane
secondo la quale le motivazioni dei vari gruppi sociali in conflitto
fra loro per il controllo di membri, risorse e immagine pubblica
sarebbero all’origine della creazione, della trasmissione e della
conservazione delle leggende. Le leggende metropolitane (spe-
cialmente quelle che contengono avvertimenti o quelle basate
su regole sociali) sarebbero create con la speranza di giovare
agli obiettivi del gruppo o di ridurre il successo dei gruppi con-
correnti. I sostenitori della teoria del conflitto sociale cercano
il significato delle leggende metropolitane nelle motivazioni di
questi gruppi. Online, l’appartenenza a un gruppo sociale, a una
community o a un social network, come abbiamo visto, richiede
minore investimento e impegno da parte degli utenti. Per questo
le persone quando sono in Rete si trovano sotto l’influenza di
molti più gruppi rispetto a quando sono offline. E in base al loro
livello di coinvolgimento o all’autorevolezza di una fonte possono
essere convinte a diffondere messaggi virali se questi sono coerenti
con i propri valori e obiettivi. Un caso è quello della viralissima
serie «Mac contro Pc», quei video esilaranti di cui abbiamo già
parlato che mettono a confronto un goffo signore occhialuto e
incravattato, il signor PC, con un giovane informale e disinvolto
rappresentante del mondo Mac.
Come non ravvisare la lotta ideologica fra due stili di vita e
di pensiero (oltre che di approccio tecnologico). Una battaglia
che fa leva sul conflitto culturale tra gli appassionati dei Mac
e i sostenitori della tecnologia PC. Esempi come questo ci
fanno capire che i video virali possono essere utilizzati come
strumenti per alimentare dei rumour funzionali agli obiettivi
del gruppo («il sistema operativo Vista non funziona bene», «il
Pc si impalla sempre»). Ogni gruppo ha infatti una ragione per

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esistere, un obiettivo e spesso uno o più avversari. I rumour
contro Microsoft si diffondono con facilità fra i fan del Mac.
Servono infatti a dare voce a un’emozione condivisa in un grup-
po, a manifestarne l’avversità, la paura, il desiderio, l’orgoglio o
la gioia. Si tratta della dinamica che ha determinato il successo
del Web movie complottista Zeitgeist,2 che svela gli apocalittici
retroscena delle forme di governo e di controllo mondiali, o
che, alla morte improvvisa di Michael Jackson, ha scatenato
in Rete la teoria dell’assassinio dell’artista da parte della CIA.
è la forza emotiva che si sprigiona, che incanala la necessità
di dare una spiegazione al dramma, di sfogare l’incontenibile
dolore, la rabbia, la frustazione per una situazione o per un
evento drammatico. Questo è anche il segreto del successo
del video virale del sapone Dove e della sua campagna per la
bellezza autentica, che ha dato voce alle donne, continuamente
frustrate dal modello di bellezza dominante imposto dai media
e dalla pubblicità.
Un’altra dinamica in grado di sprigionare il contagio virale
è conosciuta come «l’effetto Golia». Si tratta di un fenomeno
tipico delle leggende metropolitane in base al quale gran-
di aziende, persone ricchissime o enti governativi assumono
metaforicamente il ruolo del mostro Golia contro il piccolo
Davide. La vicenda, tratta dalla Bibbia, narra di come una
persona comune sia riuscita ad avere la meglio su di un essere
gigantesco. Il racconto si diffonde perché le persone stanno
solitamente dalla parte del più debole, dell’uomo della strada
che riesce a compiere un’impresa straordinaria. Sui social me-
dia il cattivo Golia può facilmente diventare una azienda ed
è facile che si scateni una rivolta del Web che si ribella a ciò
che percepisce come una forza grande e minacciosa. L’effetto
Golia può essere utilizzato per sostenere le idee contagiose di
piccole realtà che per la loro condizione di inferiorità possono
ottenere l’appoggio della Rete contro aziende più grandi e per
questo meno simpatiche.

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In definitiva, come abbiamo visto la forza e la semplicità
della narrazione, l’autenticità e la reputazione della fonte,
così come le dinamiche di cooperazione creativa sono davvero
fondamentali affinché un’idea faccia presa. Ma anche riuscire
a creare un vuoto informativo, a raccogliere ed evidenziare la
prova sociale (per esempio grazie ai social button che mostra-
no quante persone hanno condiviso la notizia), a mobilitare
le persone a sostegno di un’idea rivoluzionaria in grado di
rompere lo status quo, sono ottimi modi per soffiare sul fuoco
e agevolarne la propagazione.
Possiamo dire che per sopravvivere e diffondersi le idee
contagiose si basano su:
• Semplicità e utilizzo di modelli schematici che ne permettono
la diffusione e la replicabilità.
• Forte carica narrativa e straordinarietà dei personaggi.
• Sorpresa, creata da situazioni inaspettate che rompono gli
schemi e facilitano il ricordo.
• Liberazione di emozioni intense che vengono condivise.
• Meccanismi di creazione collettiva che permettono l’interazione
con il senso.
• Autenticità della storia, legata a citazioni, a riferimenti culturali,
all’autorevolezza della fonte, alla prova sociale.
• Concretezza del contenuto, intriso di precetti e valori utili alla
sopravvivenza e al raggiungimento di obiettivi di gruppo in
contrasto con altri.

Chip e Dan Heath, autori di Made to Stick: Why Some


Ideas Survive and Others Die,3 dicono che per creare un’idea
di successo bisogna basarsi su una storia, semplice, inaspettata,
concreta, credibile (dotata di credenziali) ed emotiva. Una lista di
caratteristiche utilissime soprattutto in termini di «trattamento»,
ovvero di produzione, realizzazione e design del contenuto. In
questa fase non ti devi dimenticare che l’idea dovrà arrivare
al nocciolo velocemente e mantenere alta l’attenzione, dovrà

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sorprendere il pubblico, avere un legame con il vissuto delle
persone con cui vuoi che risuoni, si dovrà basare su emozioni
forti per entrare nei cuori e dovrà essere in grado di ispirare
le persone all’azione, attraverso delle narrazioni fortemente
evocative.

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Tutti vogliono essere il DJ

Sai perché Red Bull è uno straordinario caso di successo? Oppure


perché lo spoof di uno spot (vale a dire la sua parodia) è una delle
tecniche più utilizzate per creare un contenuto virale? O ancora
perché Pay for a Tweet, un sistema che permette di pagare un
contenuto in cambio della condivisione con il proprio network
è un’idea geniale? Il motivo è che le persone vogliono parteci-
pare alla costruzione del senso, vogliono riutilizzare i materiali,
i video, le informazioni, i loghi delle aziende per creare qualcosa
di originale. Un po’ come facevamo da bambini con il Lego.
Le persone vogliono partecipare, condividere, ma soprattutto
vogliono creare. è per questo che la tua idea contagiosa deve
essere progettata affinché sia «riusabile».
Gli americani Tapscott e Williams parlano di Wikinomics, ov-
vero di economie partecipative. Queste si baserebbero su quattro
principi cardine: l’apertura, la collaborazione, la condivisione e
l’azione globale. In questo contesto l’innovazioneverrebbe dun-
que dal basso, cioè dagli utenti stessi. Non è più semplicemente
una questione di centralità del consumatore, ma si tratta di un
vero e proprio spostamento di potere sull’utente inteso ormai
come prosumer (producer + consumer), ovvero come produttore
e consumatore. Quelli che io chiamo i creatori.
L’utente di oggi sa produrre i media e li sa anche trasformare.

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è capace di piegarli ai propri fini, di selezionarne i contenuti e
remixarli con altri. Non a caso termini come remix e mashup (lette-
ralmente poltiglia) sono entrati a far parte del nostro vocabolario.
Ciò è tanto più vero per i prodotti audiovisivi: l’abbassamento
dei costi dell’hardware ( foto e videocamere), la diffusione dei
software di montaggio e la possibilità di scaricare online qua-
lunque tipo di video o di modificarne di esistenti sono divenute
possibilità concrete e sempre più diffuse.
RiP! A Remix Manifesto1 ha voluto essere testimonianza e
bandiera di questo cambiamento. Si tratta di un documentario
canadese del 2008 diretto da Brett Gaylor, che affronta il tema
copyright e realizzato in forma di film open source, il primo della
storia. Gaylor, fondatore del progetto Open Source Cinema, ha
raccolto attraverso il sito i contributi di centinaia di utenti. La
versione ultimata del documentario non ha carattere definitivo.
Gli utenti sono anzi esortati a scaricare il film e remixarlo ulte-
riormente, oppure a contribuire alle discussioni sul progetto via
social network.
Protagonista principale del film è Girl Talk, un musicista
che ha scalato le classifiche con i suoi brani realizzati attraverso
mashup di altri brani. Una pratica illegale? Entro che limiti? Ma
soprattutto, ha senso criminalizzare un’intera generazione che
fa del remix una pratica espressiva? Lawrence Lessig2 – autore,
tra gli altri di Cultura Libera e Remix e fondatore di Creative
Commons – è tra gli intervistati del film, insieme Cory Doctorow,
media guru e coeditore di Boing Boing e a Gilberto Gil, musici-
sta ed ex ministro della Cultura in Brasile, tutti difensori di una
cultura aperta e partecipativa incentrata sull’open sourcing, una
delle modalità produttive più efficienti e creative. Riciclo, riuso e
remix sono pratiche che mettono in atto le potenzialità e attività
degli utenti online: l’originalità non risiede più nell’invenzione
ex novo, ma nel riutilizzo creativo di materiali preesistenti. Gli
utenti apprendono ogni giorno competenze che assottigliano
sempre più la linea tra professionalità e amatorialità e l’intelli-

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genza collettiva riesce ad arrivare dove il singolo non giungerà
mai. L’unione fa la forza e fornisce un valore aggiunto che supera
la semplice somma tra le parti.
Insomma, l’utente acquisisce un potere crescente e coinvolger-
lo non può che rivelarsi la migliore strategia possibile. Ignorarlo
non solo sarebbe un grave errore, ma evidenzierebbe una completa
incapacità di cogliere le trasformazioni in atto. Il mashup tra utenti
può fare la differenza e da tanta continua innovazione in fondo
non c’è che da guadagnarci. Devi dare alle persone la possibilità
di poter partecipare alla costruzione del senso dei tuoi messaggi,
delle tue idee e di riutilizzare i contenuti declinandoli secondo i
loro mondi di riferimento e i loro obiettivi esistenziali. La cosa
migliore è lasciare il messaggio il più possibile aperto, ovvero
permettere alle persone di interpretarlo, di renderlo significativo
per loro. Red Bull può essere un fantastico rimedio contro il mal
di testa, una bevanda energetica e anche un ottimo cocktail a
base di vodka. Le persone si sono fatte un’idea diversa di cosa
sia Red Bull e lo utilizzano secondo le loro personali esigenze. Io
per esempio lo uso come rimedio per il mal di testa!
è quindi necessario puntare a creare piattaforme che permet-
tano alle persone di riempirle di senso secondo il principio di
riusabilità, di riciclabilità. Devi permettere alle persone di fare dei
remix. Hai presente quello che fanno i DJ con i brani? Prendono
due canzoni e le mixano insieme, e da qui nasce un nuovo brano.
Ecco, le persone vogliono essere i DJ della loro vita!
Un esempio tutto italiano di questa pratica è stato il fenomeno
Frangetta: Milano is burning che, anche grazie al supporto di
Radio Deejay, si è diffuso a macchia d’olio in Rete. «Il Debo-
scio», gruppo di creativi milanesi, ha creato un brano musicale
electro-disco accompagnandolo con un videoclip pubblicato
prontamente su YouTube.3 Il video è incentrato sullo stereotipo
della ragazza milanese artistoide-alternativa-snob-radical-chic. La
sua voce, creata artificialmente con un programma che permette
di generare una speaker robotica, snocciola in forma monotòna

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tutta una serie di luoghi comuni sulla vita, sui gusti e sullo stile di
consumo di una giovane meneghina («Vado allo Spazio Oberdan,
vivo sui Navigli, facevo Brera, faccio la DJ, faccio la grafica, ho
il Macintosh» eccetera). La forza virale di questo contenuto non
consiste tanto nelle visualizzazioni del video originale, ma nella
profusione di entusiastiche parodie e di reinterpretazioni che
ne sono seguite. Utilizzando lo stesso canovaccio, vale a dire la
base musicale elettronica e la voce sintetica sovrapposta creata
con un programma reperibile in Rete, sono nati brani e video di
tantissime altre città (Roma, Padova, Palermo, Cagliari, Jesolo),
addirittura di singoli quartieri (Barona, Testaccio), ma anche
video legati a temi e contesti variegati (Chuck Norris is burning,
Comunismo is burning, eccetera). Si tratta di un ottimo esempio di
un mashup culturale: i contenuti audio e video creati dagli utenti
mantengono la traccia musicale, ma veicolano luoghi comuni
appartenenti ad altre città italiane, ad altri contesti, luoghi, ad
altre tribù. Uno scontro tra tribù a colpi di stereotipi. è avve-
nuto quindi un processo di risemantizzazione. Una generazione
collettiva e creativa del sens. Le persone hanno elaborato il con-
tenuto iniziale, aggiungendo i propri significati ed esperienze,
dando vita a contenuti nuovi e altamente creativi ed allo stesso
tempo aumentando notorietà e il valore del contenuto originale.
La riusabilità di una idea contagiosa le garantisce di continuare
ad alimentare il flusso emotivo, il pathos, grazie ai nuovi testi
creati dalle persone, permettendo anche l’espressione dei diversi
ethos e identità dei gruppi, tribù, sciami che decidono di fornire
energia all’emozione condivisa, partecipando creativamente alla
conversazione. Fornire un messaggio aperto e riusabile, spreadable
come direbbe Henry Jenkins,4 che permetta e agevoli la collabo-
razione delle persone, la cooperazione testuale, la ri-creazione è
davvero fondamentale nell’attuale contesto socio-culturale per
progettare un’idea contagiosa.
Come analizza Jenkins un esempio che mostra la voglia di
creare nuovi significati utilizzando uno schema fisso è il meme

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«LOLcat». Lo conosci? Hai sicuramente ricevuto almeno una
volta nella vita immagini di animali, solitamente simpatici gattini
che si azzuffano, saltano, dormono. Le foto spesso si accompagna-
no a del testo sovrapposto digitalmente che ne aumenta l’effetto
simpatia. Gli inglesi li chiamano LOLcat, dove LOL è l’acro-
nimo di laugh out loud, l’abbreviazione da tastiera per dire che
stai ridendo a crepapelle. Le immagini con i gattini contengono
spesso il LOLspeak, una sorta di inglese maccheronico. Esistono
siti come Icanhascheezburger.com pieni di queste immagini.
Seguendo il format originale, detto image macro – vale a dire
un’immagine con un testo giustapposto per ottenere un effetto
umoristico – col tempo, sono nati interi filoni con addirittura
trichechi e secchi come protagonisti, i LOLbible con testi religiosi
o complesse discussioni teoriche, quelli sulla cultura emo, sulla
filosofia (LOLtheorist) e sui cani (LOLdog). Qual è il viral-dna
di questa idea contagiosa? Per comprenderne la forza dobbiamo
concentrarci sulla struttura dell’idea più che sul suo contenuto.
L’utilizzo dei cuccioli, come vedremo più avanti, rappresenta un
indubbio vantaggio ma c’è di più. I LOLcat dimostrano che uno
degli elementi che va a costituire la forza del viral-dna è rappre-
sentato dalla capacità dell’idea di adattarsi in vari modi, di essere
riusabile. Il riutilizzo, il rimescolamento e l’adattamento dell’idea
di Frangetta e dei LOLcat ci suggeriscono che la diffusione e
la replica di queste idee si devono al fatto che possono essere
usati dalle persone per creare nuovo significato. Un nuovo senso
autogenerato. Le persone utilizzano gli strumenti che hanno a
disposizione per interagire con il senso delle cose e del mondo
che hanno intorno. In definitiva possiamo dire che un elemento
fondamentale del viral-dna è la riusabilità del contenuto: la sua
struttura, il canovaccio, la forma, ma anche il significato devono
essere il più possibile aperti a nuove interpretazioni, codifiche,
facilmente remixabili e riempibili di contenuti personali.

128
Identificare una tensione

Per progettare un’idea contagiosa è necessario andare a identi-


ficare una tensione psico-culturale sulla quale fare leva. Sai cosa
è successo quando Burger King ha d’un tratto comunicato che
il Whopper, il panino più amato della catena, era stato tolto dal
menù? La gente è andata fuori di testa, non poteva credere che
l’azienda avesse deciso di non vendere più il loro hamburger
preferito. L’improvvisa e immotivata rottura di una routine basata
sul consumo del proprio prodotto preferito è stata la «tensione»
alla base della campagna Whopper Freakout di Burger King. Un
modo decisamente non convenzionale per dimostrare l’amore dei
superfan per i suoi panini, lo stesso metodo folle utilizzato quando
aveva creato l’applicazione Facebook Whopper Sacrifice di cui ti
ho già parlato, quella che permetteva di ricevere un hamburger
in omaggio in cambio del sacrificio virtuale di dieci amici.
Per identificare le giuste tensioni puoi studiare le tue tri-
bù di riferimento , per scandagliarne la visione del mondo e
identificarne i conflitti psicologici, sociali, culturali, manifesti o
latenti, sui quali fare leva per progettare la tua idea contagiosa.
Ti darò qualche consiglio utile per andare a scovare questi ac-
cumuli di energia pronti a liberarsi. Spesso si tratta di conflitti
cui non viene dato abbastanza risalto nei media tradizionali,
come per esempio quelli dei ghetti americani da cui è nata la

129
musica rap. L’altra faccia della luna che la tua idea potrebbe
essere in grado di illuminare. Può trattarsi di una tensione
relativa ai tuoi brand fan, ai loro sogni alle loro aspirazioni, in
qualche modo supportate dalla tua idea, oppure di un conflitto
relativo a un’intera subcultura, come per esempio quella che
contrappone i writer (comunemente chiamati graffitari) alle
istituzioni. I writer, che realizzano opere murali o semplici scritte
con il proprio nome per le strade e sui vagoni dei treni, fanno
del gesto artistico realizzato illegalmente su proprietà pubbliche
o private un valore vero e proprio. Si tratta del loro modo di
esprimere un’identità individuale e collettiva in un contesto
urbano svuotato di senso, riappropriandosi simbolicamente
degli spazi degradati delle metropoli. Ovviamente questa loro
pratica li porta a scontrarsi con le istituzioni, in particolare con
i vigilanti e le forze dell’ordine. Una tensione culturale perfetta
per comunicare un prodotto street weardestinato ai teenager
metropolitani, non trovi? Come? Prendi l’Air Force One, due
writer in una notte piuttosto buia e dagli una missione eroica,
ovvero quella disuperare i sistemi di sicurezza che proteggono
il velivolo e di «taggare» l’aereo presidenziale americano con
la scritta still free (ancora liberi). Il tutto ovviamente per
confezionare un video5 che rimanda a un sito Web (StillFree.
com) in cui prometti di dare maggiori informazioni su quanto
appena visto.
Tutto ciò è accaduto davvero e si è trattato di un’idea che
serviva a promuovere la linea di abbigliamento di Marc Ecko,
imprenditore che prima di diventare stilista era stato già designer
e graffiti artist. Il sito così come il video – che apparentemente
esortavano a interrogarsi sulla libertà di espressione – non erano
nient’altro che un hoax, ovvero una bufala. L’Air Force One era
solo un vecchio 747 affittato in California (non certo a poco prez-
zo) e risistemato per assomigliare all’originale. Il video, un falso
girato come se fosse una ripresa amatoriale, riproduce fedelmente
il tipico format delle azioni clandestine effettuate dai writer, che

130
sono soliti fotografarsi e riprendersi nelle loro incursioni illegali
notturne. Il tutto condito con qualcosa di decisamente straordi-
nario. L’eccezionalità dell’impresa e l’impressionante realismo
– forze alla base della diffusione del video stesso – sono tali che
il Pentagono ha dovuto smentire ben tre volte che si trattasse di
un evento realmente accaduto. Ovviamente il clamore generato
sui media tradizionali, sui quali non è stato speso nemmeno un
dollaro, è stato tremendo e l’audience totale dell’operazione ha
superato i 115 milioni di contatti.
Still Free fa leva su un conflitto culturale tipico fra una con-
trocultura, quella dei writer e le istituzioni – in quel periodo
storico particolarmente odiose dalla presidenza Bush. Il filmato è
super virale perché immortala un gruppo di ragazzi che riescono
a compiere il gesto più eroico per quella cultura di riferimento:
taggare il massimo simbolo del potere, ovvero l’aereo del pre-
sidente degli Stati Uniti d’America con una scritta emotiva e
catartica che afferma i valori di libertà di espressione dei writer.
Il video interpreta perfettamente i codici della cultura della
tribù e ne supporta il progetto di senso mostrando i writer co-
me eroi che difendono la libertà. Sicuramente Droga5, agenzia
newyorkese di Dave Droga che ha progettato l’azione, non è
stata la prima a utilizzare questo format, ma indubbiamente Still
Free ha segnato la storia dei video virali vincendo ex aequo il
Cyber Lions Gran Prix. E nonostante si tratti di un’operazione
commerciale firmata da un brand, l’idea ha scatenato il buzz e
l’appoggio della comunità diventando un caso mondiale. Ethos
e pathos all’ennesima potenza che vanno a rafforzare il mythos
del brand Ecko.
Quando sono stato a Parigi a presentare un’anteprima del
mio nuovo modello di progettazione di un’idea contagiosa ho
parlato a lungo con Steven Erich, direttore clienti e partner
dell’agenzia Crispin Porter + Bogusky, quella che ha realizzato
Subservient Chicken e Whopper Sacrifice per intenderci. Steven è
una persona dolce e di poche parole, ma quando prende la scena

131
esprime i concetti più profondi, rivoluzionari e illuminanti che
abbia mai sentito. Mi ha spiegato che anche loro lavorano sul
concetto di «tensione». Lo fanno sempre quando creano una
nuova campagna per Burger King. L’idea è di individuare delle
aree critiche in quelli che definiscono i loro superfan, vale a dire
quel 20% di persone che totalizzano più della metà delle visite
nei ristoranti della catena.
Ma sono molte le grandi creatività del passato che hanno
lavorato sul concetto di tensione. Fu durante la guerra del Vie-
tnam che Coca-Cola realizzò uno degli spot più memorabili della
storia. Sicuramente ti ricorderai di tutti quei ragazzi sulla collina
che andavano a formare un grande albero di Natale. Dei giovani
hippy tenevano in mano delle candele accese e cantavano insieme
inneggiando alla pace e all’armonia universale. Si trattava di una
presa di posizione di Coca-Cola che cavalcava l’energia culturale
pacifista di quegli anni rappresentando la marca come strumento
di pacificazione e quindi di gioia interiore. In questo caso l’idea
si poneva come risolutrice del conflitto.
Come ci insegna Grant McCracken, le tensioni attraversano
la società continuamente, per questo le chiamiamo tensioni
culturali. Si tratta di fratture che avvengono tra l’ortodossia
culturale di un dato periodo storico (la guerra del Vietnam) e le
opportunità ideologiche latenti (il pacifismo). E tra questi due
elementi in conflitto che secondo Douglas Holt è possibile fare
«innovazione culturale».6 Le idee contagiose cavalcano queste
tensioni liberando energia e diventando espressioni culturali che
risuonano perfettamente con le necessità ideologiche ed esisten-
ziali delle persone. Ma le tensioni possono anche essere relative
alle persone e avvenire durante particolari stadi o cambiamenti
in relazione alle diverse fasi dell’esistenza degli individui.
Secondo lo psicologo Erik Erikson lo sviluppo della persona-
lità non si completa con l’adolescenza, ma segue otto stadi che si
prolungano per l’intero ciclo della vita e che hanno in comune
la ricerca dell’identità. Erikson mette lo sviluppo della persona

132
in relazione a esperienze sociali tipiche di un certo periodo
dell’esistenza, come l’adolescenza, la maturità, la vecchiaia. Lo
sviluppo della personalità passa quindi attraverso una serie di
«crisi» psicologiche attraverso le quali l’individuo apprende
l’accettazione del sé e della società di cui fa parte. Per tutta la
vita ci chiediamo «Chi sono io?» e in ogni stadio diamo una
risposta diversa a questa domanda. Ecco gli stadi psico-sociali
che dobbiamo attraversare durante la nostra vita.7 Si tratta di otto
crisi/conflitti che la persona deve risolvere che corrispondono a
otto età. Ogni crisi permette di sviluppare una virtù risolutrice
che aiuta la modulazione tra le tendenze opposte in conflitto.
Troviamo qui sotto gli stadi della vita, i conflitti fra forze opposte
e la virtù sviluppata alla risoluzione del conflitto.

• Dalla nascita al primo anno: fiducia/sfiducia negli altri =


speranza
• Da uno a tre anni: autonomia/vergogna = volontà
• Da tre a cinque anni: spirito di iniziativa/senso di colpa=
risolutezza
• Da cinque a dieci anni: industriosità/senso di inferiorità =
competenza
• Adolescenza: identità/confusione = fedeltà
• Età giovanile: intimità/isolamento = amore
• Maturità: generatività/stagnazione = cura
• Vecchiaia: senso di compiutezza/disperazione = saggezza

Lo sviluppo psico-sociale delle persone avviene in base all’am-


biente socio-culturale. Non esiste quindi uno schema evolutivo
fisso e determinato e le fasi precedenti non vengono mai abban-
donate, ma gradualmente si integrano nelle altre.
Nella nostra società in continuo mutamento abbiamo visto
come l’uomo sia costretto continuamente «a farsi e rifarsi da
sé» e in questa costante ricerca i prodotti, le marche e la loro

133
comunicazione possono alleviare la tensione e i conflitti che le
persone devono affrontare nel corso della loro esistenza.
La prospettiva psico-sociale ci permette di capire che nel
corso della nostra vita ci troviamo ad affrontare continuamente
particolari «momenti di vita», sia nelle varie fasi della crescita e
di maturazione della nostra personalità, sia in particolari momenti
di transizione in cui predominano particolari «stati vitali», vale
a dire determinate condizioni e livelli dell’animo umano. Questi
momenti di passaggio, di crisi interiore e tensione esterna, come
il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, la ricerca di un lavoro,
gli sforzi che implica la scelta di farsi una famiglia, una difficoltà
economica, una malattia, possono essere superati grazie all’aiuto
dell’ambiente esterno. Le narrazioni di marca possono quindi
diventare strumenti di senso, farmaci in grado di sostenerci e di
incoraggiarci verso il nostro cammino esistenziale e di crescita
spirituale. Per individuare questo tipo di tensioni psico-sociali
possiamo porci le seguenti domande:

• Qual è il «momento di vita» attraversato dal nostro pubblico?


Che tipo di crisi sta vivendo? Come possiamo alleviare le sue
tensioni rafforzando il suo percorso evolutivo?
• Cos’è cambiato recentemente nella cultura dei consumi e
quali sono le implicazioni di questo cambiamento?
• Quali conflitti sociali, culturali e socioeconomici esistono
nelle vite delle persone nel mercato di riferimento?
• Come queste tensioni e conflitti si esprimono nella cultura
delle persone, nel linguaggio, nella musica, nella moda, nei
comportamenti, eccetera?
• Qual è il ruolo dei media nel creare, perpetuare o contrapporsi
a tali rappresentazioni culturali?
• In che modo la risposta a queste domande si riflette sul brand
e si relaziona al suo business?

Sono le stesse domande a cui cerca di rispondere l’agenzia

134
americana Ogilvy che si rifà a un nuovo modello di progettazione
che ispira le loro migliori campagne chiamato «The big ideaL»
e che sviluppa il concetto di Big Idea, ovvero la «grande idea»
pubblicitaria, quella in grado di fare la differenza, di distinguersi
per creatività e stile. Ora questo non è più sufficiente, bisogna
legarsi a valori forti, a grandi ideali. Anche Ogilvy pensa quindi
che la marca debba essere mossa da grandi valori in grado di
sostenere i progetti di senso delle persone e di alleviare le loro
tensioni psico-culturali. Per questo la marca deve trovare il
proprio modo di rendere il mondo migliore. «Il mondo sarebbe
migliore se... le donne si sentissero bene con se stesse.» (Dove),
«Se crescessimo meno e giocassimo di più.» (Fanta), «Se le
persone andassero oltre i loro normali confini.» (Adidas), «Se
vedessimo il bicchiere mezzo pieno invece che mezzo vuoto.»
(Coca-Cola). Le marche riposizionano il loro modo di stare sul
mercato partendo dalle istanze dei cittadini. The big ideaL, spiega
Guerino Delfino, CEO del Gruppo Ogilvy Italia, incorpora il
sistema di valori e di credenze del brand e guida non solo i clienti
e i consumatori, ma anche tutte le persone – impiegati, fornitori,
partner – che lavorano per l’agenzia ed entrano in contatto con
il brand stesso. Il big ideaL recluta e nutre i brand evangelist,
è la sorgente della talkability, ovvero del passaparola positivo.
E grazie al confronto con la blogosfera, ovvero con il pubblico
attento e critico della Rete, il brand viene messo costantemente
di fronte alla fedeltà al proprio ideale.
E, per la tua idea, il mondo sarebbe migliore se…?

135
La catarsi come finalità

Cos’è la catarsi? Perché comprenderne la dinamica ci è utile alla


progettazione del viral-dna? La catarsi è il sollievo che soprav-
viene dopo uno stato di estrema tensione. Dopo aver provato
un’intensa emozione ci sentiamo liberati, purificati. Anticamente
la catarsi veniva riconosciuta come una vera e propria «purifica-
zione dalle passioni».
La tragedia greca, rito collettivo cui assistevano i cittadini
della polis, permetteva agli spettatori di liberarsi e distaccarsi
dalle passioni attraverso le vicende drammatiche rappresentate
sulla scena. Madri che uccidono figli, fantasmi che preannunciano
catastrofi, suicidi, incesti, cannibalismo.
La rappresentazione di quelle passioni estreme, che portavano i
protagonisti a un finale tragico appunto, allontanava lo spettatore
dalla loro riproduzione nella vita reale.
Se nella polis greca la rappresentazione della tragedia aveva
come finalità la stabilità sociale, nella società di Internet i video
virali hanno una funzione comunicativa, di liberazione delle
emozioni e di costruzione autonoma del senso. Nella condivisio-
ne di un contenuto in Rete la catarsi permettere la «liberazione
delle emozioni». è un modo per dargli voce, per esprimerle, per
liberarle.
Una volta identificata una tensione culturale o psicologica,

136
la progettazione di un’idea contagiosa dovrà puntare a realiz-
zare un vero e proprio effetto catartico. Che sia video, gioco o
applicazione, dovrà essere in grado di liberare le persone dal
peso della tensione individuata, facendo emergere quegli scenari
sommersi – che spesso si contrappongono alle rappresentazioni
frustranti imposte dall’alto – e dando voce a quelle identità che
cercano uno spazio per esprimersi.

Considera la catarsi come il fine a cui l’idea deve tendere.


Una volta riconosciuto il valore del messaggio e la potenza dello
strumento, le persone lo adotteranno come arma progettuale e
contribuiranno alla sua diffusione virale. Questo effetto catartico
lo troviamo in moltissimi successi della Rete.
Per esempio in un irriverente video – da alcuni considerato
blasfemo – dal titolo Jesus Christ (The Musical)1 in cui un Cristo
sguaiatamente effemminato si dinoccola per le strade di una
grande metropoli ballando e cantando I Will Survive, canzone
portata al successo da Gloria Gaynor nel 1978 e oggi celebre e
liberatorio brano di culto della comunità gay.
Fra gli sguardi attoniti dei passanti, Gesù rimane prima in
mutande e poi finisce sotto un autobus a un incrocio attraversato
con troppa disinvoltura. La catarsi del video è relativa al tabù
religioso, considerato spesso troppo opprimente e che tende a
imporre determinate identità e modelli di comportamento in
ambito sessuale.
Ti ho già parlato di Still Free, l’attacco dei writer all’aereo
presidenziale che rivendica la libertà di espressione oppure posso
ancora una volta fare riferimento a Dove Evolution, che libera le
donne dalla tensione accumulata da modelli di bellezza imposti
dalla pubblicità.

137
ANALISI NETNOGRAFICA

Tensione socio-culturale

Emozione

Catarsi

Viral-DNA

Liberazione Relazione Evoluzione

Fonte: © Mirko Pallera

Un altro video che permette di comprendere bene il concetto


di catarsi vede come protagonista il manager belloccio e incra-
vattato di una grande compagnia telefonica che, durante una
convention aziendale, cercando di galvanizzare i venditori, porta
come esempio epico di vittoria la battaglia di Waterloo: «Tutti
davano Napoleone per fatto, per cotto. E invece lì ha realizzato
il suo capolavoro» – dichiara il manager di fronte alla platea
con piglio motivatore. Ed effettivamente forse facevano bene a
darlo per morto, dal momento che a Waterloo si è consumata la
disfatta totale di Napoleone. Ma purtroppo lui non se ne rende
conto: «Le facce scettiche non servono a un cazzo. Andate e
segnate, come fece Napoletone a Waterloo!». Ti lascio immagi-
nare l’effetto catartico generato da questo video, che ha avuto in
Rete un successo devastante, facendo arrivare la clamorosa gaffe

138
sui media tradizionali. Una piccola ma goduriosa rivincita degli
impiegati italiani sul manager sono-figo-vincente-e-so-tutto-io.
Il termine catarsi veniva anche utilizzato in ambito medico.
Ricorre frequentemente nelle opere di Aristotele dedicate alla
medicina. Per molte dottrine antiche la salute è intesa come
mescolanza e proporzione di opposti e la malattia si presenta
quindi in caso di eccesso o difetto di uno dei componenti. Fine
ultimo della catarsi è raggiungere la krasis, termine che può essere
interpretato come «equilibrio, armonia», fusione e presenza di
elementi diversi.
L’autocontrollo e la perdita totale dell’equilibrio sono i due
poli sempre presenti tra le forze Apollinee e quelle Dionisiache.
Entrambe sono in grado di portare l’uomo alla follia. Ed è questo
il motivo per cui si beveva vino come rito liberatorio al fine di
bilanciare e regolare le emozioni.

La catarsi non è quindi considerata solo come una liberazione/


separazione (krisis), ma anche il ristabilimento di un ordine, di
un equilibrio necessario (krasis) alla salute fisica e psicologica.
Questo è oggi il ruolo di molte idee e contenuti virali – e anche
dei brand – che nella loro fruizione e condivisione ci permettono
di ristabilire un equilibrio dell’anima.
Nello psicodramma di Jacob Levi Moreno ed in quella che
viene chiamata psicoterapia espressiva (che utilizza l’arte, il teatro,
la danza) la persona comprende gli aspetti più profondi della
sua realtà psicologica ed esistenziale attraverso la rappresenta-
zione e la creativitàAnche qui la catarsi viene vista come un atto
espressivo e liberatorio finalizzato a riprendere il contatto con
se stessi. In definitiva puoi considerare la catarsi sia come uno
sfogo, una scarica emozionale, ma anche come un processo di
ristabilimento di un equilibrio interiore che permette il recupero
di preziose energie vitali. La catarsi eleva lo stato vitale delle per-
sone, liberando l’anima dal peso dell’esistenza. Nella narrativa la

139
storia viene portata ad un climax: durante una battaglia finale o
una resa dei conti l’eroe ed il pubblico raggiungono il massimo
stadio di consapevolezza, comprendono qualcosa di loro che li
cambierà per sempre. La catarsi emozionale, raggiunta spesso con
la risata o con il pianto, è come dice Chris Vogler2 un momento
di massima consapevolezza.
Grazie alla catarsi riusciamo a dare senso alle nostre esperienze
di vita e a riappropriarci delle energie impegnate in meccanismi
di difesa tesi a mantenerci in equilibrio . Le emozioni catartiche
alimentate dalle idee più contagiose aiutano a farci sentire meglio.

140
Dalle tribù agli emotoni

Il tango argentino è un ballo caratterizzato da estrema eleganza


e passionalità. Basato sull’improvvisazione, non esiste l’idea di
sequenze e passi predefiniti. è la fantasia dei ballerini a costruire
come in un dialogo il proprio ballo. Il tango può anche essere
considerato come uno stile di vita, sotto forma di musica, danza,
canzone e non solo. Nel tango l’incontro tra uomo e donna dura
pochi minuti, il tempo di un tango. Durante quegli attimi così
intensi, sulle note di una musica struggente, tra i ballerini si crea
una relazione magnetica. Attraverso l’essenziale ma sofisticato
sistema dell’abbraccio, i tangueros si scambiano forti sensazioni.
Emozioni effimere ma condivise intensamente. Il tango è un
fenomeno che oggi coinvolge tutti i ceti sociali nei tre continenti
d’Asia, d’America e d’Europa. Ma perché ha tanto successo?
Perché la gente di tutto il mondo si riversa nelle milonghe?
Nel suo libro Nostalgia, tradimento amore: viaggio all’interno
del tango1 Rosa Ucci si è chiesta il perché di questo recupero del
tango, soprattutto ballato. Secondo l’autrice il tango sembra espri-
mere i moti dell’«anima universale», che parlano di improvvise
lacerazioni, di strisciante malinconia, di perdite, di mancanza.
Ma il tango contiene anche un’intima capacità di rigenerazione.
Si tratta di un processo emozionale che, sviluppandosi in uno
stato intimo e profondo, riporta al contatto fisico, all’abbraccio,

141
alla sacralità dell’incontro. Nel frenetico quotidiano, attraverso il
tango riscopriamo qualcosa di autentico, d’interiore, di profondo.
In un mondo in crisi, la scelta del tango da parte di una umanità
sradicata e senza punti di riferimento sembra rappresenta una
rivalsa dello spirito, la lotta dell’anima che reclama ciò che le è
stato strappato.
«Il tango è soprattutto una ricerca, è tutto ciò che non si può
raggiungere, è l’esasperazione del desiderio», scrive un’appas-
sionata di tango su un sito dedicato all’argomento. «Se fosse una
figura retorica, sarebbe un ossimoro. è acqua di mare che lascia
insaziata la sete, linea sottile che separa il desiderio dal piacere,
voce di tutte le assenze, preghiera che non conosce la sordità di
Dio». Il tango è in definitiva un’emozione condivisa,che risve-
gliamo dentro di noi grazie a una pratica.. Che sia una milonga,
un dojo o un punto macrobiotico, oppure un gruppo su Face-
book, ci muoviamo costantemente fra molti punti di incontro, o
meeting point come direbbe Egeria Di Nallo.2 Punti di contatto
reali o virtuali, flussi comunicativi in cui scorre energia sociale
condensata in emozioni. E sono proprio quelle stesse emozioni
a essere condivise con gli altri grazie agli infiniti materiali che
troviamo, produciamo e assembliamo in Rete. Postando video
sulle nostre bacheche, regalando parole sotto forma di citazioni
letterarie, condividendo le nostre canzoni, mostrando le nostre
passioni. Dicono agli altri qualcosa di noi. Emozioni che si muo-
vono da cuore a cuore attraverso le molecole di bit.
Possiamo momentaneamente far parte di una tribù, con i suoi
rituali,i suoi valori condivisi, i suoi luoghi di ritrovo, oppure sem-
plicemente veicolare un’emozione ai nostri contatti attraverso un
contenuto che ci piace e che decidiamo di condividere. In ogni
caso, in quei «momenti di vita» – così li chiamo per contrapporli
agli «stili di vita» del vecchio marketing – ci sintonizziamo su
un’emozione condivisa. Le emozioni sono il trait d’union fra le
persone. Vanno a delineare degli insiemi nuovi, mai visualizzati
fino a oggi, che in quel particolare momento ci rendono in qual-

142
che modo simili gli uni agli altri. Aggregati emozionali effimeri
ma intensi.
Un «aggregato emozionale» è il campo d’azione in cui si muove
un’idea contagiosa. Si tratta di uno spazio difficile da descrivere
con i concetti tipici del marketing e impossibile da delimitare con
strumenti e metodologie classiche. Tuttavia possiamo provare a
fotografarlo, rilevando il passaggio di quella energia che abbia-
mo chiamato Eros e che si rende visibile attraverso le emozioni
condivise. Anche se non riusciamo a vedere l’energia che crea
le onde del mare con gli occhi, ne riusciamo a vedere gli effetti.
Onde alte, belle, lineari, armoniche. E possiamo anche cavalcarle
se abbiamo una tavola da surf. Bene, immagina la tua idea come
il surfista che fa un bel «tubo» e le emozioni come la forza che
muove l’acqua, che va a formare e spinge l’onda in avanti!
Non sono più gli stili di vita a caratterizzarci e a definirci
una volta per tutte, ma brevi ed effimeri momenti di vita, in cui
per quell’istante particolare, ci raccontiamo agli altri per quello
che vorremmo essere, esprimiamo le nostre passioni, mostriamo
elementi del nostro animo, condividiamo una emozione.
Momenti effimeri, parcellizzati, quantistici. Il mio direttore
di banca la mattina è in giacca e cravatta, la sera frequenta locali
di scambisti sadomasochisti e il sabato se ne va in giro vestito di
pelle ai raduni di Harleyisti. Come posso definirlo, delimitarlo,
etichettarlo? è un organizzatore, un outsider o una casalinga di
Voghera? Non ha più senso parlare di stili di vita, i momenti di
vita mi sembrano più adeguati. Nella difficoltà estrema di catturare
un target sempre più difficile da individuare possiamo decidere di
risuonare con lui invece che tentare di colpirlo. Possiamo provare
a emettere un segnale a una particolare vibrazione, lavorare su
una emozione, su una passione per attrarlo e coinvolgerlo nelle
nostre attività di marketing. Possiamo scegliere di lavorare sui
valori e sulle emozioni. Perché in questi momenti di vita, effimeri
ma spesso intensi, quello che ci caratterizza può essere un ethos
nel caso di una tribù, con i suoi rituali, le sue parole d’ordine, una

143
comune visione del mondo che decidiamo di fare nostra anche
in un breve week end, come nel caso di un raduno in moto o di
un weekend macrobiotico.
Oppure, ciò che ci rende simili e che abbiamo in comune con
gli altri nel caso della condivisione estemporanea di un contenu-
to, di un’idea, di un video, di un re-tweet può essere un pathos,
ovvero un comune sentire che in un dato momento ci mette in
connessione gli uni agli altri. In questo caso non si tratta di una
tribù vera e propria ma di un aggregato emozionale che unisce
le persone senza dare vita a codici comuni e rituali strutturati.
Per riuscire a identificare questo tipo di aggregato emozionale
vorrei qui iniziare a chiamarlo «emotone». Bernard Cova definisce
una neotribù come «un insieme di individui non necessariamente
omogeneo (in termini di caratteristiche sociali obiettive), ma
interrelato da un’unica soggettività, una pulsione affettiva o un
ethos in comune».3 Una neotribù è quindi un gruppo di persone
diverse fra loro – in termini di caratteristiche obiettive e di appar-
tenenza primaria (età, sesso, razza, origine, tratti fisici, posizione
professionale, eccetera) – ma unite da una passione comune e
condivisa, in nome della quale «possono svolgere azioni collettive
intensamente vissute, benché effimere». Al contrario di una tribù
un emotone è un flusso di emozioni che accomuna un insieme
di persone diverse fra loro e che si muove in modo asincrono e
ubiquo attraverso di loro. Gli emotoni, attivati e alimentati dalle
emozioni, sono come delle onde emotive che permettono ai con-
tenuti in Rete di diffondersi grazie alla condivisione spontanea
delle persone.

L’«emotone» è il campo di forze emozionali


che unisce momentaneamente le persone
che condividono un contenuto.

144
Gli emotoni non sono fatti semplicemente di emozioni, ma
di flussi comunicativi, di esperienza immaginata, di desiderio.
Come dice il sociologo tedesco Georg Simmel nel suo saggio
Frammento postumo sull’amore4 non sono gli amanti ad accendere
l’eros ma l’«esperienza erotica», vale a dire le emozioni suscitate
dall’immaginazione e dal desiderio sono l’impulso che ci muove
a vivere una passione amorosa . Le emozioni sono il meccanismo
attraverso il quale le persone percepiscono l’energia di Eros che
le spinge a farsi moltiplicatori di quella energia attraverso parole,
immagini, video, suoni, idee contagiose.

Gruppo trad. Tribù Emotone


Spazio Circoscritto Esteso Ubiquo
Interazione Durevole Effimera Cinetica Per
Confini Definiti Fluidi Quantistici autore
Comple-
Interessi Strumentali, Culturali, Emozionali, tare
appetitivi o ??? spirituali
morali politici
Struttura Ordine Caos Risonanza
??? Sociale Socialità Connessione
Fattori ??? ???, consumo, Narrazione
aggregati apparire identitaria

Fonte: elaborazione dell’autore da Michel Maffesoli: fenomenologia dell’immaginario, A


cura di Silvia Leonzi, Armando, Roma 2009.

Per riuscire a visualizzare il concetto di emotone prova a


pensare agli hashtag, quelle parole chiave (etichette) precedute
dal simbolo # che servono a raggruppare i tweet relativi a un
dato argomento per poterli cercare facilmente su Twitter. Ce-
leberrimo è stato l’hashtag #morattiquotes comparso durante
le elezioni amministrative del 2011, un confronto elettorale a

145
dir poco incandescente che ha visto contrapposti per l’elezione
a sindaco di Milano i candidati della destra, Letizia Moratti, e
della sinistra, Giuliano Pisapia. Contrassegnando i propri tweet
con il codice #morattiquotes gli utenti della Rete – sull’onda
dell’emozione suscitata da un duro attacco politico (per non dire
un colpo basso) al candidato della sinistra, descritto come una
specie di terrorista – hanno dato sfogo a tutto il loro potenziale
espressivo e partecipativo. Sull’onda di un incontenibile effetto
Golia sono infatti nate le fantomatiche accuse a Pisapia sotto
forma di dichiarazioni della Moratti, le #morattiquotes appunto,
a metà tra i famigerati Chuck Norris Facts5 e le battute del blog
satirico Spinoza.6
Tra i tweet più riusciti: «L’arbitro Moreno era Pisapia trave-
stito, Pisapia è il vero padre di Luke Skywalker, Pisapia ha fatto
chiudere il Festivalbar». Trasformatasi in un nuovo soggetto
politico grazie alla diffusione di massa dei social network, la
Rete ha ribaltato il senso delle accuse mosse al candidato della
sinistra attraverso una massiccia e virale dose di ironia collettiva
co-generata. Il plateale «colpo basso» è stato così sbeffeggiato,
rivelandone la carica violenta e manipolatoria.
La Rete ha inconsapevolmente utilizzato una tecnica mutuata
dalla communication guerrilla chiamata «sovraidentificazione».
Questa prevede lo smascheramento degli intenti manipolatori
del potere attraverso un’eccessiva e grottesca adesione ai discorsi
e ai valori che sostiene. La sovraidentificazione smaschera e
irride la logica di un discorso manipolatorio evidenziandone le
conseguenze in maniera paradossale. Da qui deriva l’ironia e la
forza delle #morattiquotes, che ribalta il senso delle accuse di
estremismo a Pisapia generando un effetto di contagio virale in
grado di sostenere il candidato della sinistra e di influire sulla
sua vittoria elettorale. Possiamo quindi vedere gli hashtag come
dei rilevatori di aggregati emozionali, degli emotoni appunto,
che rendono visibile l’energia emotiva che muove le persone alla
condivisione sui social network di un’idea contagiosa.

146
«I mercati sono emozioni»

Verso la fine degli anni Sessanta lo psicologo americano Paul


Ekman si recò presso i Fore, una popolazione sperduta della
Nuova Guinea completamente isolata dai mezzi di comunicazione,
per fare un esperimento. Radunò alcuni membri della tribù e gli
raccontò delle storie. Poi gli mostrò delle foto che riproducevano
dei volti di occidentali che esprimevano le emozioni fondamentali
(gioia, rabbia, disgusto, eccetera) e chiese ai membri della tribù
di associare le diverse immagini alle storie. Tornato negli Stati
Uniti ripropose lo stesso esperimento a un gruppo di americani
ai quali mostrò le immagini dei volti dei Fore. Indovina cosa
successe? Le storie furono associate alle stesse emozioni, sia dai
membri della tribù che dagli americani civilizzati. In questo modo
Ekman appurò che le emozioni di base, quelle fondamentali,
sono legate a espressioni facciali universali indipendenti dalla
cultura, vale a dire innate o così antiche da discendere dai nostri
progenitori comuni. D’altronde, anche i neonati o i bambini non
vedenti dalla nascita mostrano espressioni tipiche riconducibili
a queste emozioni.
Un altro studioso americano, Robert Plutchik, ha contributo in
modo rilevante allo studio delle emozioni.1 Secondo lo psicologo
vi sono otto emozioni primarie definite a coppie:

147
1. gioia – tristezza
2. fiducia – disgusto
3. rabbia – paura
4. sorpresa – aspettativa

Da queste emozioni primarie scaturiscono altre emozioni «più


sfumate», o «più intense»: dalla gioia può derivare la serenità
oppure l’estasi. La paura può divenire apprensione o trasfor-
marsi in terrore. Ma la cosa più interessante è che sommando le
emozioni si ottengono altre emozioni, così come si mischiano i
colori di una tavolozza! Per esempio, fiducia e paura danno la
sottomissione, gioia e fiducia generano l’amore. E se mischiano
gioia e sorpresa? Un’emozione che potremmo definire delizia.
Aspettativa e paura? Ci danno l’ansia! Interessante vero?
Le emozioni fondamentali svolgono un ruolo strategico
nell’evoluzione dell’uomo, aumentano infatti la probabilità di
sopravvivere. Ognuna delle emozioni primarie agisce come un
interruttore che attiva un comportamento con un alto valore di
sopravvivenza. Pensa alla funzione della paura di fronte a un
predatore. La paura stimola la risposta del combattimento o
della fuga, e ci salva la vita.
L’essere umano è in grado non solo di provare emozioni, ma
anche di riconoscerle e di mettersi in connessione con gli altri gra-
zie all’empatia, parola che deriva dal greco empatheia, a sua volta
composta da en-, «dentro», e pathos, «sofferenza o emozione».
Anticamente la parola indicava il rapporto emozionale di parte-
cipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico. Nel tempo
il termine ha rappresentato l’immedesimazione dell’artista con la
natura, come nel Romanticismo e lo ritroviamo in tutti gli studi
condotti nei secoli sull’uomo (da Darwin, agli studi psicoanalitici
fino a quelli recenti di Giacomo Rizzolati sui neuroni specchio).
Geoffrey Miller nel suo libro The Mating Mind sostiene che
«l’empatia si sarebbe sviluppata perché mettersi nei panni dell’al-
tro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un

148
importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l’uomo
è in continua competizione con gli altri uomini».
Che si sia sviluppata o meno per selezione naturale, oggi
l’empatia sembra essere sempre più importante. Jeremy Rifkin
arriva addirittura a parlare di civiltà dell’empatia.2 Se nel mondo
agricolo la coscienza era governata dalla fede e in quello indu-
striale dalla ragione, con la globalizzazione e la transizione all’era
dell’informazione, la società si fonderà sempre più sull’empatia,
ovvero sulla capacità di immedesimarsi nello stato d’animo o nella
situazione di un’altra persona. Secondo Rifkin si sta formando
una nuova «coscienza della biosfera» che si basa sulle emozioni
e che sta ridefinendo i nostri stili di vita nella direzione di una
maggiore sostenibilità ambientale. . Una nuova generazione di
scienziati sta elaborando un approccio «corporeo» alla compren-
sione della natura umana, basato sulle emozioni e sulla relazione
fra le persone e non unicamente sulla razionalità cartesiana. La
comprensione della realtà in questo senso avviene attraverso la
partecipazione ai processi di costruzione della realtà e la comu-
nione empatica fra le persone.
Un esempio di empatia ai tempi della società dei network
è la capacità sviluppata dai nativi digitali di connettersi con le
emozioni degli altri per instaurare, alimentare e gestire le proprie
relazioni sui social network. I nuovi idoli dei teen ager sono le
star di YouTube, ragazzi come loro in grado di esporre pubblica-
mente le proprie emozioni e di interpretare con estro e creatività
le ansie, le paure, i problemi, i desideri della comunità attraverso
i propri video. Il programma per ragazzi Social King premia le
competenze in fatto di viralità dei concorrenti, che si cimentano
nell’indovinare quali video abbiano avuto più visualizzazioni su
Internet. Queste capacità relazionali ed empatiche stanno assu-
mendo sempre maggiore importanza anche nel management e
nelle organizzazioni all’interno delle quali iniziano a farsi largo i
concetti di «intelligenza emotiva» e «comunicazione empatica».
Daniel Goleman in Lavorare con intelligenza emotiva cita le

149
parole di Kevin Murray, al tempo direttore delle comunicazioni
alla British Airways:«Le organizzazioni che stanno attraversando
i maggiori cambiamenti sono quelle che hanno più bisogno di
intelligenza emotiva».3
Le emozioni governano la società dell’informazione. Del
resto più ci emozioniamo, più ricordiamo, più reagiamo. è
così anche quando mandiamo istintivamente un contenuto a
un amico. Quando si toccano le corde emotive più profonde
avviene qualcosa di potente che ci spinge all’azione. Negli ulti-
mi vent’anni il cervello della popolazione si è modificato. Ogni
cosa, l’avrai notato, è sempre più provocatoria, più stimolante
e più emozionale. Secondo alcuni studi il nostro cervello pensa
più rapidamente di prima, ma è al contempo meno ricettivo e
ha bisogno di stimoli sempre più forti per essere percepiti e far
provare piacere ed emozioni. Lo si vede dalla violenza dei nostri
media, dalla sessualità trasgressiva delle nuove generazioni. Per
questo diviene realtà percepita solo ciò che fa la differenza. In
particolare, i cosiddetti video kids4 stanno crescendo con un
sistema di valutazione delle informazioni ottiche e cognitive
completamente diverse dalle nostra, che necessita di sollecitazioni
sempre più forti. Tutto ciò che è rivolto al conservatorismo e alla
mediocrità è destinato a percepito passare inosservato.
Le emozioni sono tutto. Anche le aziende hanno iniziato a
pensare sempre più in termini di categorie emozionali e sempre
meno secondo categorie di prodotti. Lo hanno capito gli inven-
tori delle Smartbox, confezioni di idee regalo che contengono
esperienze emozionanti, come un’avventura in kayak tra le rapide
o un raffinato soggiorno in una dimora di charme. Le Smartbox
sono delle vere e proprie emozioni in regalo. Che si tratti di cibo,
benessere, sport, soggiorni o beni materiali, i destinatari del dono
ricevono dei cofanetti regalo con un ampio ventaglio di scelte
legate a luoghi, tipologie di offerte e fasce di prezzo. Non vi è lo
scambio di un bene preciso, ma di una potenzialità di esperienze
ed emozioni da scegliere e vivere negli esercizi convenzionati.

150
Non una ricezione passiva, quindi, ma una partecipazione attiva
alla definizione del regalo da parte del fruitore che decide quan-
do, come e dove spendere la propria emozione. Le Smartbox
rispondono bene da un lato al proliferare di possibili scelte di
consumo, dall’altro all’esigenza di poter provare esperienze nuove,
personalizzabili, esplorative che conducano alla «scoperta» di
oggetti, luoghi e attività che altrimenti non sarebbero stati presi
in considerazione. Un regalo «riusabile» quindi, caratteristica
come abbiamo visto fondamentale delle idee contagiose.

Le emozioni sono facoltà uniche che ci rendono umani e sono


il fulcro centrale delle nostre relazioni. Ci servono per creare,
monitorare e conservare i legami sociali. è interessante notare
come nella nostra vita reale stiamo molto attenti a tenere a bada
le nostre emozioni durante i rapporti sociali. Come gestiamo ogni
giorno il nostro abbigliamento, la capigliatura, la gestualità, gli
spazi sociali, in modo da presentarci agli altri in un particolare
modo, allo stesso modo gestiamo le nostre emozioni. La socio-
loga Arlie Russell Hochschild5 ha dimostrato come ogni giorno
lavoriamo sulle nostre emozioni e come siamo in grado di auto-
invocarle in molti modi diversi. Pensa a quando diciamo «respira
profondamente!» a una persona in uno stato di ansia, di rabbia
o di paura. è quello che facciamo a Natale quando riceviamo un
regalo che non ci piace e rispondiamo frasi di cortesia del tipo
«Ma che bel pensiero, grazie». Cerchiamo di gestire le emozioni
anche con le espressioni facciali, proviamo a ridere per sentirci
più felici, corrucciamo il viso per entrare in uno stato di tristez-
za a un funerale. Oppure utilizziamo l’ambiente per regolare
le emozioni, scegliendo per esempio i colori delle varie stanze
della casa dedicate a diverse attività, lo studio, il riposo, il gioco.
Per gestire le emozioni possiamo anche lavorare di immagi-
nazione. Di fatto, sappiamo modificare autonomamente il nostro
atteggiamento agendo sui ricordi che attivano delle emozioni. In

151
questo modo riusciamo a calarci meglio in una situazione e a sen-
tirci più a nostro agio. Riportiamo alla nostra mente degli odori,
dei colori, delle sensazioni che ci hanno emozionato, come per
esempio il primo amore, i giorni di settembre quando si tornava
a scuola, il piacevole calore dell’estate. A volte lo facciamo utiliz-
zando le cose che ci circondano e certi prodotti, che ci riportano
a uno stato emotivo che ben conosciamo. Indossare le All Star
ci farà ritornare ai tempi del liceo, delle suonate in garage con
gli amici o nelle piazze durante le manifestazioni studentesche.
Indossare un prodotto Hello Kitty ci riporterà all’infanzia, in un
mondo incantato dove tutto era giocoso e possibile.

I prodotti e le marche sono in grado


di trasformare le nostre emozioni
e di portarci in mondi in cui siamo stati
solo nella nostra immaginazione.

Esiste un chiaro legame fra come ci sentiamo e come agiamo,


ma soprattutto esistono delle regole imposte dalle convenzioni
sociali su come dovremmo sentirci in una data situazione. Tutte
le volte che ticapita di chiederti Come mi sento?, Come dovrei
sentirmi? o Perché mi sento così? ti trovi in presenza di una regola
emotiva (o emozionale). è molto interessante andare a fondo nelle
dinamiche di queste regole e scoprire come variano a seconda
delle culture, dei generi, delle classi sociali.
Quello che però a noi interessa di più è comprendere che le
emozioni fanno parte della presentazione di sé, di come noi ci mo-
striamo agli altri. Le emozioni non sono semplicemente reazioni
private vissute dai singoli. Sono «espressioni sociali» dello stato
emotivo dell’individuo e come tali, sono segnali che trasmettiamo
agli altri e sono, spesso, il risultato delle aspettative sociali. A una
festa le persone si aspettano di vederci felici, tristi a un funerale,

152
curiosi a una lezione universitaria, dolci con i bambini in un
asilo. Per questo siamo abituati a gestire le emozioni attraverso
le parole, i pensieri e le azioni per auto-indurci delle emozioni.
Se è vero che le regole emotive sono presenti in un contesto
sociale, è anche vero che nello spazio dei social network si atti-
vano delle dinamiche più libere e spontanee. Forme di condi-
visione delle emozioni che, non essendo legate intrinsecamente
a un ambiente fisico e a un contesto definito (e quindi a strette
regole), possono esprimersi nella massima libertà, senza alcun
attrito determinato dalle convenzioni. Su Internet si abbassa il
livello del giudizio morale e sociale. è quindi l’emozione a viag-
giare, a muoversi autonomamente tra le bacheche di Facebook,
tra i tweet negli smartphone. Virale è la condivisione sociale di
queste emozioni, finalmente libere dalle regole sociali imposte
dalle relazioni face-to-face. Palco, ribalta e retroscena, concetti
di Erving Goffman sociologo autore de La vita quotidiana come
autorappresentazione, si confondono nella comunicazione sui
social media.6 Forse è proprio questo il motivo per cui spesso
preferiamo le relazioni virtuali a quelle reali, dal momento che
il contesto sociale e culturale del mondo fisico, con le sue regole
e le sue convenzioni, limita l’espressione delle nostre emozioni
più spontanee. Quelle che solitamente siamo soliti reprimere
ma che trovano uno sfogo sulle nostre bacheche di Facebook.
Nessuno in Rete ci chiede di dare conto delle nostre espressioni
emotive. Di rado qualcuno indaga sul perché di alcune reazioni,
di alcune emozioni espresse, dal momento che gli è sconosciuto
il contesto in cui tali emozioni avvengono. Sono poche le perso-
ne che possono chiedere conto dei nostri sentimenti, mettendo
in discussione le nostre emozioni. Anzi, la maggior parte delle
volte accade proprio che a quegli sfoghi emotivi venga dato un
appoggio incondizionato, un segno di affetto e comprensione che
si esprime con un like. Su Internet viaggiano emozioni in purezza.
Slegati dai contesti e dai contenitori sociali che ci costringono, in

153
Rete siamo liberi di condividere questo flusso emotivo, come le
gocce dell’acqua non fermano le onde che si diffondono nel mare.
Prodotti, marche e contenuti che troviamo nel Web sono
utilizzati per comunicare le nostre emozioni ma anche per atti-
varle e per ricalibrare il nostro stato emotivo. Sono in grado di
trasformare il nostro «stato vitale» e di portarci in luoghi e mondi
in cui siamo stati solo nella nostra immaginazione, o addirittura,
in luoghi archetipici che fanno parte di un inconscio collettivo che
precede le nostre esperienze reali. Prodotti e marche sono una
porta su un mondo possibile in grado di trasportarci sulla scia di
forze primordiali. In questo senso la «quantità» di passaparola,
divenuta il fulcro di molte strategie di marketing e delle rilevazioni
sul ritorno sugli investimenti (il Roi), può essere solo uno degli
indici che rileva la presenza e la consistenza di un emotone. Ma
non deve diventare l’unico metro di misura di una campagna ben
congeniata. Ci sono infatti emozioni «silenziose», che esistono pur
senza essere gridate, difficili da rilevare, ma in grado di creare una
connessione fortissima con le marche. Per questo è importante
stare attenti alla «qualità» delle emozioni e non solo al numero
delle conversazioni. E se il Clutrain Manifesto ha reso celebre il
motto «i mercati sono conversazioni», preferisco immaginare ai
mercati come fatti di emozioni.
Uno dei capitoli più interessanti di Idee forti di Chip e Dan
Heath spiega l’importanza delle emozioni nella propagazione di
un’idea. Nel libro citano uno studio che ha monitorato la quantità
di denaro devoluta in favore di una causa sociale a seconda dello
stile di comunicazione (razionale o emotivo) utilizzato. Il messag-
gio era veicolato tramite una lettera. Il primo tipo di approccio si
concentrava su un ampio spettro di dati e statistiche relative alla
fame in Africa, mentre il secondo raccontava la storia di una sola
bambina del Mali, Rokia, una bimba di sette anni, motivando il
fatto che una piccola donazione avrebbe influito sulla sua vita. I
risultati sono stati sorprendenti: le persone che hanno ricevuto
la seconda lettera hanno donato più del doppio di coloro che

154
hanno ricevuto la prima. La storia di Rokia ha avuto un effetto
emotivo molto più forte rispetto a una lista di statistiche!
Come ho già detto in precedenza, non basta riempire un
contenuto di bambini, gattini o di belle ragazze. Devi invece
chiederti cosa preoccupa veramente le persone e cosa ne possa
scatenare l’entusiasmo. Per esempio le neomamme si preoccu-
pano della sicurezza e del comfort dei loro piccoli, gli anziani
della loro autosufficienza negli anni a venire, i teenager di come
integrarsi nella loro comitiva, gli imprenditori di come realizzare
i loro progetti d’impresa, gli ambientalisti della sostenibilità dei
prodotti e delle risorse. Gli uomini, generalmente, si entusiasmano
per il calcio e le donne per il gossip. Le emozioni saranno quindi
un veicolo, ma nel profondo ci dovrà essere un progetto di senso
significativo, una tensione sociale o psicologica a cui darai sfogo
attraverso il tuo contenuto catartico. è importante stabilire una
connessione attraverso le emozioni, ma questa si deve basare
sull’autenticità delle intenzioni e sulla coerenza di chi le attiva,
ovvero su un sentito e reale supporto al progetto esistenziale delle
persone che si dimostra comprendendone i bisogni più profondi.
Uno studio della Kelley School of Business dell’Università
dell’Indiana7 ha analizzato quali emozioni spingano gli utenti a
generare il passaparola e quale sia l’impatto prodotto sui destina-
tari finali. La ricerca ha analizzato nove campagne virali mondiali
di successo. I parametri per selezionarle sono stati l’aumento del
fatturato, delle vendite, della notorietà della marca e la velocità
di diffusione della campagna. Lo studio ha considerato l’im-
patto delle sei emozioni primarie in nove campagne virali per
comprendere in che modo le emozioni agiscono sulla decisione
delle persone di trasmettere a loro volta il messaggio. Secondo la
ricerca, le emozioni più contagiose sono: gioia, rabbia, tristezza,
paura, sorpresa.
La sorpresa è risultata essere l’emozione più utilizzata. è
infatti presente in ognuna delle campagne visionate, ma sempre
combinata con qualche altra emozione. Per stimolare la trasmis-

155
sione del messaggio è fondamentale che la sorpresa sia combinata
con un’altra emozione primaria. La sorpresa è quindi una delle
emozioni fondamentali per far scattare il contagio sociale. Non
è un caso che tutti i grandi virali, così come tutte le creatività
eccellenti, si basino sull’«effetto sorpresa». Alcunehanno un
crescendo di effetti sorpresa, come nel finto video documen-
tario Ravenstoke8 realizzato da The Viral Factory per Axe, il
deodorante maschile di Unilever. Per ripopolare di donne un
paese della provincia americana un comitato di abitanti inizia a
spruzzare ovunque ettolitri di profumo: nelle strade, nei canali,
dal cielo, utilizzando addirittura aerei e autobotti. L’effetto non
si fa attendere e iniziano ad arrivare decine e decine di bellissi-
me modelle accolte – ovviamente – con immenso piacere dalla
rappresentanza maschile. Il sex appeal della cittadina aumenta
in modo esponenziale fino a quando non accade l’imprevisto:
anche gli animali cominciano a lasciarsi andare a effusioni amo-
rose incontrollate. Il video, così come tutte le campagne di Axe,
danno voce ai desideri profondi del genere maschile, liberando
forti emozioni insieme agli ormoni!
Lo studio dell’università dell’Indiana ha quindi messo in
evidenza quanto sia fondamentale la connessione emotiva tra
il contenuto virale e il suo destinatario. Potremmo dire che,
affinché un contenuto sia percepito in maniera rilevante, deve
essere in grado di emozionare le persone. Devi trovare il modo di
rendere l’idea drammaticamente, romanticamente, eroicamente,
ironicamente emozionante. Se i contenuti vengono condivisi per
stabilire relazioni basate su un’affinità emotiva, per poter avvia-
re la condivisione l’impatto emotivo di quel contenuto sarà un
aspetto fondamentale. L’emozione è l’energia che muove l’idea.
Su che emozione vuoi che faccia surf cavalcando le onde di un
emotone? Gioia? Sorpresa? Disgusto? Paura?
Generalmente per comunicare un brand sarà opportuno
concentrarsi su emozioni positive. è anche vero che per alcune
tematiche più sociali può essere appropriato utilizzare anche

156
emozioni come la rabbia, la paura, la tristezza. Ne fanno uso le
campagne di Amnesty ma anche quelle che promuovo i film, che
si possono permettere di sfruttare al meglio tutto il ventaglio di
emozioni. Ti ricordi del film The Blair Witch Project? Fu una
delle idee più terrificanti e contagiose mai realizzate. Non è
detto però che un brand debba per forza utilizzare le emozioni
più euforiche, quelle tipiche della comunicazione pubblicitaria
che tende a dipingere un mondo sempre bello e divertente. Dove
Evolution è un esempio di video commerciale profondamente
malinconico ma non per questo poco efficace o negativo. Il
risultato sullo spettatore è comunque positivo. Hai un mondo
di emozioni da utilizzare e cavalcare per progettare la tua idea
contagiosa e uno schema di narrazioni universali attraverso le
quali raccontarle. Nel prossimo paragrafo entreremo nel mondo
degli archetipi. Sei pronto?

157
Gli archetipi
come attivatori di emozioni

Un giorno mia madre mi fece leggere una lettera che aveva scritto
quando io ero appena nato a sua madre, mia nonna, ai tempi del
Sessantotto. Erano gli anni della contestazione, anni difficili in cui
i figli lottavano contro i genitori, considerati borghesi e nemici del
popolo. In quella lettera – in una frase che mi è rimasta impressa
nella mente – mi definiva «il figlio della rivoluzione». Io, nato da
una studentessa di medicina e da un operaio di origini contadine,
metà borghese e metà proletario, ho probabilmente ereditato il
destino inscritto in quelle parole. Un carattere, una vocazione.
I miei genitori scelsero di darmi il nome del compagno Mirko
Cavazzuti, a quei tempi militante con loro nel gruppo giovanile
marxista leninista Servire il Popolo. Chissà che sia questo il mo-
tivo che mi spinge, fin da bambino, ad interrogarmi sui sistemi
sociali. Una specie di demone che muove la mia indole critica,
quella che nel tempo mi ha portato a cercare di contribuire al
cambiamento delle teorie e delle pratiche della mia professione.
Per spiegare come comprendere il carattere, la vocazione
e quindi il destino di una persona, James Hillman ne Il codice
dell’anima1 si ispira al mito di Er raccontato da Platone nell’ul-
timo libro della Repubblica. L’anima di ciascuno di noi, prima
di iniziare a vivere sulla terra, sceglie un «modello di vita» e un
«compagno segreto»: quello che i greci chiamavano daimon (il

158
duende per gitani, l’angelo custode cristiano, il genius per i latini).
Sarà lui a guidarci nel corso del nostro cammino. Secondo Ploti-
no, il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci saremmo scelti il
corpo, i genitori, il luogo e la vita più adatta all’anima e alle sue
necessità. È il daimon che ogni giorno ci ricorda il contenuto
della vita che ci siamo scelti, è lui che ci indica il nostro destino.
Anche le idee contagiose posseggono un daimon che ne orienta
il carattere, la vocazione, il destino. C’è il suo influsso alla base degli
effetti di risonanza psicologica e culturale che le idee riescono ad
attivare nelle persone. Immagina che sia proprio il daimon dell’idea
quello che attiva le corde necessarie a entrare in risonanza con
l’anima delle persone e a stimolarne l’entusiasmo, la condivisione
e il passaparola. Come ti ho detto, la marca non è solo custode
di caratteristiche funzionali, ma anche di senso e di valori. Con
l’evoluzione del marketing, che ha seguito l’evoluzione della società
dei consumi, si è passati dal semplice «valore d’uso» contenuto
nel prodotto e incentrato sulle sue caratteristiche funzionali, al
«valore simbolico» del brand, costruito attraverso la comunica-
zione sulla base di un posizionamento scelto. Poi il marketing ha
messo l’accento sul «valore di legame» della marca, ovvero sulla
sua capacità di aggregare e alimentare una comunità. E oggi gra-
zie ai lavori di studiosi come Grant McCracken e Douglas Holt
è sempre più in voga parlare di un «valore culturale» del brand,
identificato con la sua capacità di cavalcare l’energia sociale e di
essere culturalmente attuale. È tempo di arrivare a considerare un
nuovo tipo di valore che potremmo chiamare «valore spirituale»
il cui livello è l’anima. È su queste vibrazioni che si muovono i
brand più rilevanti per le persone e che hanno maggiore impatto
nella società. Se vuoi essere in grado di progettare idee, brand e
comunicazioni in grado di parlare all’anima delle persone, devi
necessariamente imparare a usare nuove parole, a padroneggiare
tecniche più avanzate. Devi iniziare a comprendere e utilizzare la
«tecnologia dell’anima» e il «management del senso».
Facciamo un esempio. Per capirci, Nike fa ottime scarpe da corsa

159
(valore d’uso) e il suo brand è considerato cool e alla moda (valore
simbolico). In più grazie a Nike Plus – la «sneaker aumentata»
che accresce l’esperienza della corsa,- realizzata in collaborazione
con iPod di Apple, l’azienda mette i suoi consumatori in relazione
con altri atleti di tutto il mondo (valore di legame). Il brand negli
anni è riuscito a incanalare l’impulso competitivo della società,
sublimandolo in un superamento dei propri limiti attraverso l’at-
tività sportiva (valore culturale). Ma il brand si muove anche su un
livello spirituale. Non ci credi? E allora forse non sai che la Nike
primordiale (leggi questa volta «nike» e non «naik», ), quella che
ha dato il nome alla multinazionale americana, è soprattutto un
personaggio della mitologia greca. è la dea alata, la personificazione
della vittoria, raffigurata nella celeberrima Nike di Samotracia,
scultura greca del secondo secolo a.C.. Le ali stilizzate nel celeber-
rimo «baffo» di Nike, altrimenti detto swoosh, sono un richiamo
potentissimo a quella forza psichica in grado di risvegliare la Dea
dentro di noi e di condurci alla vittoria.
Con «valore spirituale» intendo quindi la capacità della marca
di evocare l’energia dell’anima, quella forza archetipica che una
volta attivata entra in risonanza con la nostra psiche. Con anima
non intendo fare riferimento a qualcosa di poetico o di religioso
in senso spicciolo. L’anima è qualcosa di immensamente profondo
che ha a che fare con il mito, con gli dei, con le forme e le forze
più ancestrali che da sempre ci governano. Usando ancora un
concetto di James Hillman potremmo dire che il valore spirituale
del brand è dato dalla sua capacità di «fare anima», ovvero di risve-
gliare l’energia profonda delle persone grazie alla forza trainante
del suo mito. In un mondo in cui gli stabili contenitori di senso
hanno perso di forza, in cui le persone rischiano costantemente di
perdere se stessi, un brand in grado di «fare anima» è un vero e
proprio soul maker che sa prendersi cura delle persone attraverso
un lavoro alchemico di raffinazione, estrazione e distillazione di
parole, suoni e immagini che fanno riemergere la ricchezza del
senso da ogni esperienza della vita.

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Spirituale

Culturale

Legame

Simbolico

Valore d’uso

Per apprendere le basi della «tecnologia dell’anima» devi


imparare a conoscere gli archetipi e le principali narrazioni
archetipiche: è un percorso molto affascinante e trasformativo
per chi decide di intraprenderlo seriamente. Io ho conosciuto gli
archetipi nel corso del mio viaggio alla ricerca del segreto delle
idee contagiose. In quel periodo, avevo preparato una serie di
immagini che iniziai a presentare in occasione di alcune confe-
renze a cui ero stato invitato come relatore. A una di queste, a
Firenze, tra il pubblico c’era Gianluca Lisi, direttore strategico di
una piccola agenzia toscana e studioso di branding archetipico.
In platea assisteva con interesse al mio intervento sulle dinami-
che di Internet , fino a quando, posi al pubblico una semplice
domanda: «Quali sono le idee più contagiose della storia?» Le
diapositive che avevo preparato illustravano i concetti che rite-

161
nevo più virali di tutti i tempi: Dio, il mistero, il sesso, l’amore,
i cuccioli, la guerra. Gianluca sobbalzò sulla sedia, colpito da
quelle immagini che evocavano forze che lui ben conosceva: non
erano altro che archetipi!
I cuccioli per esempio ci trasmettono una sensazione d’in-
nocenza, di candore e purezza. La stessa che proviamo quando
vediamo un neonato. Alcuni protagonisti di film e cartoni ani-
mati, come Forrest Gump o Topolino, sono in grado di attivare
in noi lo stesso tipo di tenera vibrazione. Si tratta della stessa
emozione associata ad alcune categorie merceologiche come il
cotone, il latte, il sapone. Ed è ovviamente simile alla sensazione
rievocata da marche come Nivea, Dove, Coca-Cola e tante altre.
Prova a pensare al Maggiolone Volkswagen. Non è un cuccio-
lo di automobile? Tondo, dai colori pastello, con i fari come
occhioni teneri, sembra un grande giocattolo per bambini. Gli
episodi degli spot del caffè Lavazza sono da anni ambientati
in paradiso. Si tratta solitamente di momenti di tentazione dei
due protagonisti innocenti Bonolis e Laurentis, che hanno già
il loro Eden rappresentato ovviamente dal mondo della marca.
La tentazione è una metafora della concorrenza che vuole fargli
cambiare caffè. Ma la chiamata non viene ascoltata e l’azione
indotta è quella di «non cambiare» prodotto restando fedeli a
Lavazza. Una strategia di fidelizzazione perfetta per chi è già un
leader di mercato.
La corda emotiva dell’«innocenza» è stata utilizzata per creare
uno dei brand italiani più di successo degli ultimi venti anni: il
Mulino Bianco. Innocent drink, l’azienda inglese che produce
succhi di frutta «fatti di vera frutta», ha lo stesso nome dell’ar-
chetipo.Anche la scelta dei caratteri tipografici, dei colori, della
musica che vengono utilizzati in una comunicazione hanno una
vibrazione archetipica: la font Helvetica è innocente, così come
l’azzurro e le filastrocche per bambini.
L’Innocente è solo uno degli innumerevoli archetipi esistenti.
Altri sono il Sovrano, l’Esploratore, il Ribelle, e così via. Ce ne

162
sono davvero molti e sono indefinibili, ma possiamo cercare di
raccontarli – o meglio di «costellarli» con diceva Carl Jung –
evocandoli attraverso simboli, personaggi, colori, parole, azioni,
categorie merceologiche, e cercando di suscitare le emozioni a
cui sono intrinsecamente legati.

L’archetipo è un attivatore di emozioni.


È come un plettro in grado
di suonare le corde dell’anima.

Archetipo deriva dal greco antico archetypon, composto da


arché, ovvero «principio» e topos «modello». La particolarità
degli archetipi è che attraverso un’emozione universale riescono
a metterci in contatto con una narrazione personale, legata alle
nostre esperienze di vita. L’archetipo riesce a portare quell’emo-
zione su un piano individuale e a chiamarci a compiere un viaggio
interiore, il cosiddetto «viaggio dell’eroe». Proprio perché sono
in grado di emozionarci e di spingerci all’azione, gli archetipi
da sempre fanno parte del bagaglio degli strumenti di lavoro
di Hollywood e di Madison Avenue, le due principali industrie
dell’immaginario collettivo. Se inizi a farci caso, scoprirai che
i personaggi e le narrazioni delle campagne pubblicitarie – e
soprattutto dei film – tendono a impersonare aspetti archetipici
della psiche. Nel caso di una marca o di un prodotto la chiamata
dell’archetipo a compiere il viaggio dell’eroe può infatti diventare
prima un’idea di acquisto, poi un percorso d’acquisto e infine
un acquisto vero e proprio. Oppure, se parliamo di idee conta-
giose, un archetipo è in grado di stimolare il nostro entusiasmo,
la condivisione dell’idea con gli altri e il passaparola.
Creativi, sceneggiatori, designer e pubblicitari intuiscono gli
archetipi e loro storie per lo più in maniera istintiva. George Lucas
ha invece ammesso di aver seguito pedissequamente in Guerre

163
Stellari lo schema narrativo individuato da Joseph Campbell ne
L'eroe dai mille volti,2 un’opera fondamentale che spiega i percorsi
e le trasformazioni degli eroi, dei miti e delle fiabe, che lui ha poi
codificato appunto nel famoso «viaggio dell’eroe». Sulla base di
quest’opera straordinaria Chris Vogler ha scritto un manuale di
sceneggiatura molto in voga a Hollywood. Anche la struttura
dei grandi colossal si rifà a questo potentissimo e universale
schema narrativo. Non ci credi? Prova a riguardarti Matrix, un
esempio perfetto del viaggio dell’eroe! Neo, il protagonista del
film, all’inizio si trova nel «mondo ordinario», fino a quando il
richiamo all’avventura diventa irresistibile. Un equilibrio si rom-
pe, ma il nostro eroe non vuole partire. Poi, grazie all’incontro
con il maestro Morpheus – il mentore che lo convince a iniziare
l’avventura – Neo attraversa la prima soglia. L’eroe entra così
nel «mondo straordinario», dove incontrerà alleati, nemici e
l’amore. Il viaggio poi prosegue fino alla prova finale, la vittoria
e il ritorno nel mondo ordinario, che nel caso di Matrix significa
il proseguimento della battaglia nel mondo reale (vedi figura alla
pagina seguente).
Sia gli archetipi e sia il viaggio dell’eroe ci dicono qualcosa
di importante per chi si occupa di marketing: esistono aspetti
comuni della psiche che ci rendono simili gli uni agli altri e che
sono in grado di attivare e di orientare dei percorsi di azione.
L’approccio archetipico alla psicologia – da cui deriva l’archet-
ypal branding – è molto diverso da quello psicologico di stampo
freudiano, che vede il nostro inconscio come una specie di antro
buio in cui si trova tutto quello che abbiamo rimosso da piccoli.
Invece la visione di Carl Jung, inventore della psicologia arche-
tipica, è perfetta per i marketer. Postula infatti l’esistenza di un
inconscio collettivo, ovvero di un immaginario comune che ci
rende tutti molto simili nelle nostre forme primordiali. In noi
ci sono gli stessi contenuti archetipici, più o meno forti, più o
meno attivi o latenti. Ovviamente questo ci interessa molto, dal
momento che postula l’esistenza di quelle corde interiori che è

164
Neo
Richiamo
dell’avventura Proseguimento
della battaglia
Rifiuto
del richiamo
Mondo
ordinario Ritorno
Incontro nel mondo ordinario
col maestro

Neo attraversa Mondo


la prima soglia straordinario Vittoria

Incontro
con alleati
nemici Amore
Prova

165
Fonte: elaborazione dell’autore da Andrea Fontana, Joseph Sassoon, Ramon Soranzo, Marketing narrativo, Franco Angeli, Milano 2011.
possibile toccare e far vibrare per suscitare le emozioni, ovvero
l’energia in grado di muovere la nostra idea!
Carl Jung ha preso in prestito il concetto di archetipo da
classici come Cicerone, Plinio e Agostino, ma sono in molti ad
averli studiati tra cui Joseph Campbell, James Hillman, Carol
Pearson, per citarne alcuni. Analizzando i sogni e le fantasie dei
pazienti, Jung vi ha ritrovato dei miti comuni. I simboli attraverso
cui gli archetipi si esprimono cambiano a seconda del periodo
storico e della cultura di riferimento, ma gli schemi archetipici,
i modelli base, sono estremamente costanti. Mentre l’archetipo
dell’Ascensione resta immutabile, il simbolo che lo contrassegna
si trasforma da scala in freccia volante, in aereo supersonico o in
campione di salto in alto. Oppure in caffè Lavazza. L’ambivalen-
za di ogni cosa è spesso rappresentata dal Serpente, chesotto le
apparenze di Tifone o Pitone si rivela malefico. Ma il serpente
è anche il simbolo della saggezza come indica il suo nome in
greco ophis anagramma della parola sophia. Per un antico greco
il simbolo della Bellezza era il Doriforo di Policleto. Ai nostri
giorni l’archetipo della bellezza assume le sembianze di dive del
cinema come Sophia Loren e Monica Bellucci. Il mondo dei
simboli è affascinante e misterioso, così come è complessa la
psiche umana e l’inconscio collettivo ma fortunatamente Jung è
riuscito a individuare alcune delle fondamentali aree archetipiche
della psiche e a dargli un nome. La Grande Madre rappresenta
il desiderio di fondersi con il tutto. Il Puer gli corrisponde agli
aspetti infantili presenti nella vita adulta. L’Anima e l’Animus sono
rispettivamente il femminile inconscio nell’uomo e il maschile
inconscio nella donna. Il Senex rappresenta invece le caratteri-
stiche psicologiche di stabilità, maturità, saggezza, ma anche di
dispotismo, cinismo e mancanza di fantasia. La Persona, dal latino
maschera, indica la parte della psiche che si relaziona agli altri in
termini di immagine e di ruoli sociali. L’Ombra costituisce invece la
componente più segreta, oscura, contraddittoria e meno accettata
della personalità. Come ti dicevo gli archetipi sono molti e non

166
sono facili da definire, per questo ti invito a considerare questo
libro come uno stimolo a proseguire e ad approfondire da solo
un argomento così complesso. Tra gli obiettivi del testo non c’è
la pretesa di risolvere la complessità della psicologia archetipica!
Ho stilato una lista non esaustiva dei principali archetipi che si
ritrovano nelle riviste, nei film, nei libri, nelle pubblicità, nelle
marche – e ovviamente nelle idee contagiose – in modo che tu
possa iniziare a riconoscerli e a utilizzarli nei tuoi progetti:

• Sovrano (re, governante, leader, padre).


• Creatore (artista, artefice, artigiano).
• Innocente (santo, angelo, ingenuo).
• Saggio (filosofo, intellettuale, scienziato, esperto, guru).
• Esploratore (cercatore, viaggiatore, lupo solitario).
• Eroe (cavaliere, supereroe, guerriero, atleta).
• Mago (stregone, alchimista, sognatore).
• Ribelle (anticonformista, fuorilegge, canaglia).
• Uomo Comune (bravo ragazzo, ragazza della porta accanto).
• Burlone (clown, comico, performer).
• Amante (edonista, playboy, femme fatale).
• Premuroso (madre, madre terra, guaritore).
• Santo (missionario, salvatore, martire).
• Cattivo (bad guy, mostro, orco).
• Servitore (martire, schiavo, monaco).
• Conservatore (tradizionalista, cinico, moralista).
• Connettore (networker, blogger, influencer).
• Mentore (motivatore, predicatore, maestro).

167
L’Archetypal Branding

La popolarità di attori, cantanti, sportivi, nonché quella delle marche


più famose, non deriva solamente dal talento, dalla visibilità che
riescono a ottenere sui media o dalle prestazioni dei loro prodot-
ti. Nasce soprattutto dalla capacità di interpretare e nutrire nel
tempo una particolare identità archetipica ricca di un particolare
significato. Si tratta di identità coerenti e avvincenti in grado di
risuonare con le persone. Per quanti look Madonna possa cambiare
sarà sempre la Ribelle e offrirà a generazioni di adolescenti la forza
di rifuggire il conformismo familiare e sociale. La tragica morte di
Michael Jackson è stata così sofferta perché associata alla perdita
simbolica dell’Innocente. Il Re del Pop è un personaggio archetipico
che evoca una parte di noi, ed è per questo che la notizia della sua
morte, associata alla perdita dell’innocenza, ha creato tanto dolore
(anche se poi quello che rappresenta a livello universale non può
mai veramente morire). Michael Jackson parla alla parte innocente
di noi, al ragazzino immortale alla ricerca di quel mondo ideale,
puro, che vorremmo poter manifestare nelle nostre vite. Jovanotti,
artista da sempre sulla cresta dell’onda, si muove invece tra la fi-
gura dell’Esploratore e quella dell’Innocente. Uno spirito libero e
curioso che fa dell’ottimismo la sua forza e che segue il suo cuore
puro e il suo istinto creativo. Gandhi è l’archetipo del Santo che si
sacrifica per amore degli altri, così come Nelson Mandela e Maria

168
Teresa di Calcutta. Marilyn Monroe è la quintessenza dell’Amante,
sensuale con un tocco di innocenza. Un archetipo può quindi es-
sere incarnato ed evocato da un personaggio universalmente noto,
che trascende il tempo, lo spazio, la cultura, il genere, l’età e che
rappresenta una «verità eterna». Un archetipo contiene una human
truth, una verità umana ed è in grado di attivare una particolare
funzione primaria nelle vite delle persone.

i 12 archetipi e le loro funzioni


primarie nella vita delle persone
Archetipo Funzione Marca
INNOCENTE Conservare Mulino Bianco
o rinnovare la fede
e l’ottimismo
ESPLORATORE Trovare e mantenere Marlboro
l’indipendenza
SAGGIO Capire il tuo mondo Super Quark
EROE Agire con coraggio Nike
RIBELLE Rompere le regole Harley-Davidson
MAGO Trasformare Calgon
magicamente
UOMO COMUNE Sentirsi OK così come Moretti
sei
AMANTE Trovare e dare amore Victoria Secret’s
BURLONE Divertirsi Diesel
PREMUROSO Preoccuparsi per gli Croce rossa
altri
CREATORE Costruire cose nuove Lego
SOVRANO Esercitare il controllo American Express

(sovrano= esercitare il controllo).


Fonte: elaborazione dell’autore da Margaret Mark & Carol S. Pearson, The Hero and the
Outlaw. Building Extraordinary Brends Through the Power of Archetypes, McGraw-Hill,
New York 2001.

169
Per esempio, l’Esploratore permette di trovare e mantenere la
propria indipendenza, l’Eroe ci dà la forza di agire con coraggio,
il Ribelle ci stimola a rompere le regole, mentre l’Uomo Comune
ci rassicura facendoci sentire bene così come siamo.
Gli archetipi possono quindi essere considerati come forme
antiche della personalità condivise da tutti i popoli e da tutte le
culture. Ogni archetipo ha una sua funzione psicologica e una
sua specifica energia. Padroneggiarla è essenziale per progettare
idee contagiose. Gli archetipi sono infatti attivatori di energia
psichica. La forza di Nike risiede nella dea greca della vittoria.
Il culto per la soddisfazione del cliente di Amazon vive del mito
delle amazzoni, donne guerriere veloci e combattive. Twitter vola
rapido come Ermes, eroico messaggero alato che incarna lo spirito
del passaggio e dell’attraversamento. Facebook e il suo fondatore
Mark Zuckenberg incarnano l’archetipo dell’Uomo Comune,
in grado di stare bene e di essere sempre in connessione con gli
altri. Anche le storie di cronaca riescono a catturare l’attenzione
dell’opinione pubblica quando possiedono una forza archetipica,
ovvero quando riescono a rievocare le storie immortali sedimen-
tate nella nostra coscienza. Storie che toccano le corde della
nostra psiche come quella del «martirio del santo» (la morte di
Lady Diana) o «la storia di Cenerentola», che mette in scena la
rivincita della ragazza comune che realizza il sogno di diventare
principessa (il matrimonio di William e Kate). O che incarnano
il personaggio dell’«orco cattivo», evocato dalle tragiche vicende
di Sarah Scazzi e Yara Gambirasio. Come abbiamo detto i film
rappresentano ottimi esempi di archetipi: Forrest Gump, Into
the Wild, Titanic, American Beauty, Harry Potter, sono perfetti
esempi dell’Innocente, dell’Esploratore, dell’Amante, dell’Uomo
Comune e del Mago.
Anche i video virali che si diffondono online contengono
questa forza archetipica: Susan Boyle racconta la storia del «brut-
to anatroccolo», evocando la rivincita della Donna Comune,
Still Free rappresenta la vittoria del Ribelle, Nike Ronaldinho

170
è l’incarnazione del talento magico e immortale, e potremmo
continuare.
I creatori dei grandi brand globali e delle loro strategie di
marketing da sempre conoscono e utilizzano il potere degli
archetipi. Harley Davidson per esempio è il Ribelle vagabondo.
Il brand americano è sapientemente costruito intorno a questo
archetipo che personifica la volontà di sfidare le convenzioni
sociali e di deviare dal comportamento «normale». Il brand è
stato associato a uno stile di vita borderline grazie all’inserimento
in film come Easy Rider e in articoli sulle gang di motociclisti
ribelli. Il viaggio in moto è arrivato a simboleggiare il lasciarsi
tutto dietro e trovare una nuova strada. L’immaginario evocato
dalle motociclette Harley Davidson permette così alle persone di
fuggire dalla routine della vita. E anche se la maggior parte degli
harleyisti non cambia veramente stile di vita, né inizia a vestirsi
come un vagabondo con bandana e cinture borchiate, grazie al
brand riesce però a trovare un salutare equilibrio tra il desiderio
di ribellione e le responsabilità di tutti i giorni.
Come abbiamo già visto Nike è invece l’archetipo dell’Eroe
vittorioso. Il brand spinge le persone oltre i limiti della prestazione
umana. Pare che il cofondatore dell’azienda e allenatore di atletica
leggera Bill Bowerman una volta abbia detto: «Se hai un corpo,
sei un atleta», alludendo al fatto che esiste un infinito potenziale
che gli uomini possono esprimere attraverso lo sport. Nike crede
nella vittoria con un fervore e una riverenza quasi religiosi. Nike
non parla quasi mai della qualità dei suoi prodotti, ma concentra
la sua comunicazione sulla tensione e sulle emozioni legate alla
performance e ai momenti decisivi per raggiungere la vittoria.
Gli oltre 19 miliardi di dollari di fatturato annuale dell’azienda
sembrerebbero confermare che il suo focus sull’archetipo di
marca e sulle esperienze emozionali piuttosto che sugli argomenti
di vendita sia la strada giusta.
Innocent Drink è una marca di succhi di frutta entrata nel
mercato inglese degli smoothies dopo i grandi distributori come

171
Mark & Spencer, Sainsbury’s e Tesco. La marca ha avuto un
successo incredibile tanto che Coca Cola nel 2009 ha sborsato
55 milioni di dollari per acquisire il 15% della società, valutata
333 milioni. Innocent Drink azienda globale, naturale ed etica
che produce bevande a base di frutta fresca senza conservanti
contenuta in imballaggi ecologici e riciclabili è riuscita a incarnare
perfettamente l’archetipo dell’Innocente, impersonando una mar-
ca ideologicamente anti-industriale, l’antitesi dell’alimentazione
scientifica e tecnologica delle grandi multinazionali. Innocent ha
puntato su packaging dai tratti infantili con ingredienti descritti
in modo semplice e autentico (3 mele + 1 banana + 16 lamponi
+ 43 mirtilli). La sua non è stata un’innovazione di prodotto –
nel senso di fare dei succhi di frutta con gusti innovativi del tipo
tabasco e marijuana o cose del genere. Si è trattato di un’innova-
zione culturale. Innocent si è proposta infatti come un’azienda
«naturale», paladina di una innocenza preindustriale contro le
bevande piene di coloranti e conservanti. Una marca che ha
portato sul mercato dei succhi di frutta fatti «semplicemente
di frutta» e che, anche grazie a intelligenti attività di guerrilla
marketing, ha dimostrato di essere al servizio della sostenibilità
e della sua missione di cambiare il suo mercato di riferimento.
E le persone l’hanno premiata.
Victoria’s Secret è invece l’Amante. Il brand famoso per la
lingerie sexy e romantica, fondato nel 1963 nell’Ohio e cresciuto
negli anni Ottanta a San Francisco, evoca le passioni segrete
della regina Vittoria, ammantata di un immaginario severo e
bacchettone e in grado quindi, per contrasto, di stuzzicare sogni
e fantasia di trasgressione. Molte donne, trovandosi ogni gior-
no ad affrontare responsabilità e obblighi noiosi, desiderano
segretamente bearsi nei piaceri fisici che spesso gli sono negati.
L’archetipo dell’Amante di Victoria’s Secret è in grado di risco-
prire, vivificare e massimizzare il piacere dei sensi. La scelta di
interpretare al meglio l’archetipo dell’Amante ha consentito al

172
brand di ottenere un forte posizionamento e di differenziarsi
dai competitor.
Coca-Cola evoca al contrario il concetto di Pace e quindi
di Felicità. Per questo è associata all’archetipo dell’Innocente.
L’azienda ha spesso utilizzato l’antichissima metafora del ramo-
scello d’ulivo, simbolo di pace in Grecia a partire dal quinto
secolo avanti Cristo, dove era associato alla dea Irene. Il simbolo
è stato poi adottato nel primo Cristianesimo: la colomba e il ramo
d’olivo simboleggiano lo Spirito Santo, la speranza di salvezza
e in tempi più moderni la pace. In molte campagne nel corso
degli anni Coca Cola ha usato la metafora dell’ulivo, anche senza
mostrarne direttamente il simbolo ma associando la bevanda al
potere quasi magico di riportare la pace in un conflitto. È quello
che ha fatto con l’intramontabile spot I’d Like to Buy the World
a Coke ai tempi della guerra in Vietnam. Ideato dall’agenzia
McCann-Erickson e trasmesso in Italia in versione natalizia negli
anni Ottanta, mostrava giovani hippie che inneggiavano alla pace
e a bere Coca-Cola.
Apple è invece in grado di ispirare in noi il desiderio di liber-
tà. Lo spot 1984 creato dalla Chiat/Day con la regia di Ridley
Scott per lanciare il computer Macintosh ritrae un’eroina senza
nome che salva l’umanità dal conformismo, pescando citazioni
dal famoso romanzo di George Orwell. La storia di Orwell de-
scrive un futuro di autoritarismo, in cui i cittadini sono costretti
all’obbedienza e indottrinati con la propaganda dal Big Brother
televisivo. Prima dell’anteprima dello spot, in uno storico Apple
Keynote del 1983, Steve Jobs dichiarò: «Il 1984 è adesso. Sembra
che IBM voglia tutto il mercato. Le aziende che all’inizio avevano
accolto IBM a braccia aperte ora hanno paura che in futuro possa
controllare e dominare tutto. Stanno gradualmente rivolgendosi
ad Apple come unica forza in grado di assicurare loro la liber-
tà». Pare un discorso di Winston Churchill più che quello di un
amministratore delegato. Apple è il Ribelle che lotta contro il
conformismo con le armi della creatività. Sono molti aspetti di

173
Apple evocano l’archetipo del Ribelle costruttivo e indipendente:
il motto «Think Different», il logo con una mela morsicata che
suggerisce la disobbedienza di Adamo ed Eva, ma soprattutto la
reputazione che è riuscita a farsi l’azienda, considerata il simbolo
dell’innovazione nella tecnologia e nel design.

La psicologia archetipica e l’archetypal branding consentono


di comprendere e valorizzare gli aspetti di «creazione del mito»
da parte della comunicazione e di proporre narrazioni in grado
di continuare ad alimentare la forza mitica del brand. Gli innu-
merevoli Dei, cacciati da una visione monoteistica della realtà,
sono prima tornati nella nostra psiche – a volte sotto forma di
disagio psicologico – e poi si sono reincarnati nei prodotti e nelle
marche della società consumista.
I brand sono i miti del nostro tempo che contengono una
forza inconscia fortissima in grado di prevalere su quella ra-
zionale. Per questo, oltre allo studio delle motivazioni indivi-
duali, è sempre più importante per il marketing il supporto di
disipline come l’antropologia culturale, la storia delle religioni,
la mitologia, l’etnologia e il folklore. L’immenso patrimonio di
conoscenze, di visioni del mondo, di rappresentazioni psico-
culturali dell’umanità è oggi di grande interesse per chi fa
comunicazione.È infatti in questi ambiti disciplinari che si
possono andare a trovare i fondamenti archetipici delle culture
per poi iniziare ad applicarli nella progettazione di idee e di
brand contagiosi.
Siamo quindi arrivati a definire un modello concettuale, il
branding archetipico, che ci permette di identificare e di attivare
l’energia alla base della diffusione contagiosa di un’idea. Indi-
viduare l’archetipo più appropriato ti permetterà di definire gli
elementi di comunicazione, di scegliere i personaggi, le narrazioni,
i colori, i caratteri, caricandoli di emozioni in grado di toccare le
corde più profonde dell’anima. Il pubblico riuscirà a compren-

174
dere istintivamente la narrazione, dal momento che l’archetipo
richiamerà in lui qualcosa che già esiste nella sua anima e che
attiverà particolari energie psichiche. Ma il significato si muo-
verà all’interno di un percorso e di una narrazione strettamente
personale, profonda e interiore, che riguarda un preciso bisogno,
legato a una particolare condizione psicologica ed esistenziale in
un dato «momento di vita».
Il valore dei brand diventa miliardario quando riesce a
raggiungere un significato universale, «iconico» come direbbe
Douglas Holt. Un valore immenso, che deve essere gestito con
la cura con cui si gestiscono gli asset finanziari di un’impresa.
Purtroppo molte aziende non sono preparate a farlo. È quel-
lo che è successo alla marca di jeans Levi’s che, dopo essersi
affermata in tutto il mondo con l’archetipo dell’Esploratore,
ha iniziato a perdere di rilevanza culturale mettendosi a inse-
guire i competitor emergenti. La storia del brand risale alla
metà del 1800 quando Levi Strauss, un tedesco nato in Baviera
ed emigrato negli USA, si inventa un pantalone a prova di
miniera. Per dimostrare tutta la robustezza scende in piazza
e lega il pantalone che ha inventato tra due cavalli che tirano
in senso opposto e che non riescono a strapparlo. È proprio
questa l’immagine che viene ancor oggi stampata sulla «Red
Tab» cucita sui jeans. Purtroppo, a partire dagli anni Novan-
ta e con l’aumento dei jeans griffati, il mercato ha cambiato
pelle virando verso immagini e stili più fashion. Levi’s si è così
allontanato dal rude mondo dei lavoratori, ma soprattutto dal
suo suo mito fondativo. La comunicazione del brand ha virato
prima sul Ribelle, poi ancora sull’Esploratore, fino ad arrivare
all’Uomo Comune, per poi cercare di rianimarsi con l’energia
del Burlone. A volte ha addirittura mischiato tutte queste iden-
tità ed è per questo che l’azienda ha iniziato ad andare male.
Negli ultimi tempi con la campagna Go Forth, Levi’s sembra
ritrovare la sua forza narrativa, attraverso la celebrazione dei
pionieri di tutto il mondo. In un’era difficile come quella che

175
stiamo che stiamo vivendo, la marca ci invita a innescare stoi-
camente il cambiamento attraverso azioni positive libere da
pregiudizi e barriere geografiche. Un’altra marca a dir poco
schizofrenica è Tim. Inizialmente caratterizzata dall’archetipo
dell’Uomo Comune, un modello conciliante e rassicurante –
tipicamente mosso dal bisogno di restare in connessione con
gli altri e quindi perfetto per una marca «famigliare» come
Tim –, col tempo è passata a toccare le corde dell’Amante,
sovrapponendosi pericolosamente con il concorrente Tre e
attirandosi l’antipatia del pubblico, poco incline a una perso-
nalità di marca così pruriginosa. Più recentemente, dopo aver
annunciato pubblicamente il flop degli spot con la starlette
Belén Rodriguez e aver indetto una nuova gara fra agenzie
vinta dall’agenzia argentina Santo, ha virato sull’Esploratore
con una campagna incentrata su personaggi storici rivisti in
chiave comica come Leonardo Da Vinci, Giulio Cesare, Cri-
stoforo Colombo. Alcune marche hanno i migliori marketer
al mondo eppure perdono la bussola. È come se un’azienda
gestisse i suoi affari senza alcuna forma di controllo dei costi
e della contabilità. In azienda dovrebbero esserci invece figure
di responsabilità preparate e competenti, deputate a tutelare
il brand, la sua identità, il suo senso e che siano in grado di
farlo evolvere senza sconnettersi dall’energia sociale. Grant
McCraken chiama questa figura il «Chief Culture Officer»,1
un manager che ha lo scopo di leggere costantemente la cul-
tura nella quale l’azienda è immersa in modo da individuarne
opportunità e segnali importanti per la sopravvivenza. Esempi
di persone dotati di questa sensibilità e che sono riusciti a fare
la differenza nelle aziende per cui lavoravano sono stati Alex
Bogusky dell’agenzia Crispin Porter + Bogusky nel nuovo
corso di Microsoft, Steve Jobs per Apple, Dan Wieden della
Wieden + Kennedy per Nike (il creativo che nel 1988 ha co-
niato lo slogan «Just Do It»), e anche personaggi meno noti

176
ma determinanti come Milton Glase per la città di New York,
ideatore del celeberrimo «I ♥ New York».
È oggi possibile iniziare a pensare al marketing e alla comu-
nicazione in termini di management del senso. Il brand è infatti
l’asset di maggior valore per una azienda. È il brand che fa scat-
tare nelle persone il desiderio e la sensazione che quel prodotto
faccia per lui. È il brand che crea una affinità emozionale con le
persone, che parla all’intuizione e ai sentimenti e che permette
alle argomentazioni più razionali di essere udite. Fare marketing
senza un sistema di gestione del significato è come cercare di
orientarsi in mare in una notte buia senza le stelle. Fortunatamente
grazie alla «teoria degli archetipi» e alla «tecnologia dell’anima»
abbiamo finalmente una mappa che può aiutarci a trovare la giu-
sta strada. Non si tratta però di prendere a prestito il significato
dagli archetipi e di incollarli sul prodotto, non stiamo parlando
di «fare comunicazione» ma di «essere comunicazione». Solo in
questo modo il brand sarà in grado di diventare un’icona, ovvero
una rilevante e durevole espressione di significato. Significato
significante, vivida vita. È questa la strada che abbiamo davanti
per imparare a risuonare con il pubblico. Ed è possibile farlo
in maniera responsabile e contribuendo ai progetti esistenziali
delle persone.
Carol Pearson per trent’anni ha studiato un modello che
integra la psicologia archetipica junghiana con il brand mana-
gement. Insieme a Margaret Mark, pubblicitaria di lungo corso
con alle spalle una carriera in Young & Rubicam, ha dato il via
all’archetypal branding. In The Hero and the Outlaw2 spiegano
come la loro teoria si basi sullo studio comparato di tutto il
database di Young & Rubicam e in particolare del Brand Asset
Valuator che comprende 75 ricerche condotte in 33 Paesi per
un totale di13.000 marche analizzate, coprendo 100 categorie
di prodotto attraverso 55 variabili per ogni brand. Sono state
fatte più di 120.000 interviste a consumatori e in questo modo
è stato possibile valutare le corrispondenze fra i diversi brand

177
e i principali archetipi. È questa ricerca che ha scoperto, per
esempio, che Coca Cola è associata all’archetipo dell’Innocente.
Questo spiegherebbe il successo di pubblicità come I’d Like to
Teach the World to Sing, quella con i ragazzi con le candele che
ti ho già raccontato e di Polar Bear, che negli anni Novanta del
secolo scorso ha identificato la marca con la tenerezza di un
branco di orsi polari realizzati in 3D, ma soprattutto darebbe
conto del flop colossale della New Coke, che voleva sostituire
l’archetipo di base della marca nel tentativo di ricorrere il
Burlone Pepsi. Gli analisti di Young & Rubicam sono riusciti a
verificare che la forte associazione di un brand con un archetipo
è in grado di fare davvero la differenza nella sua valorizzazione
in termini di asset aziendale. Questo significa che la potenza
dell’archetipo influenza il successo economico di una marca e
quindi di una idea contagiosa. La ricerca effettuata sui risultati
aziendali di 50 brand tra il 1993 e il 1999 tra cui American
Express, Disney, Kodak, Harley Davidson, Fruit of the Loom
e altri, ha dimostrato che i brand con una identità allineata con
un singolo archetipo sono cresciuti enormemente, più di quelli
con un brand confuso. Questo vuol dire che idee in grado di
toccare una corda della psiche umana, grazie alla loro aderenza
coerente a un determinato archetipo, riescono ad avere successo
più di altre. La ricerca dimostra in modo inequivocabile quan-
to sia importante per il marketing comprendere, identificare
e mantenere l’identità archetipica del brand come un asset
aziendale di primaria importanza.
Come abbiamo visto tutti gli archetipi hanno infatti una
funzione primaria che li collega alla vita delle persone, alle loro
motivazioni e ai loro bisogni, e sono quindi in grado – una volta
identificata la tensione psico-culturale alla base dell’idea – di
indirizzarti nella scelta della storia, dei personaggi chiave e della
risoluzione catartica in grado di trasportare l’idea stessa.

178
L’archetipo riattiva l’energia,
allevia la tensione
e ristabilisce l’equilibrio.

Le motivazioni umane possono essere riassunte e schema-


tizzate attraverso due assi principali che sono: Appartenenza/
Indipendenza e Stabilità/Cambiamento. Tutti gli esseri umani
hanno bisogno di sentirsi accettati dagli altri, di appartenere
a un gruppo e allo stesso tempo tendono a sviluppare un’in-
dividualità indipendente che mira all’autorealizzazione. Allo
stesso modo desiderano sicurezza e stabilità – quella che ci può
dare un lavoro sicuro o una famiglia – e contemporaneamente
necessitano di cambiamenti, di trasformazione, di novità, di
rischio. La vita è una continua rinegoziazione fra questi poli
contrapposti. La psiche infatti, una volta conquistato un aspetto,
tende a cercare di ritrovare l’equilibrio andando verso l’altro
polo. Questo spiega la crisi di mezza età, con il fatto che ci si
trova ad aver represso per troppo tempo degli aspetti essenziali
della vita, oppure le inquietudini degli adolescenti, che, ancora
dipendenti dalla famiglia, si ribilanciano psichicamente attra-
verso atteggiamenti anticonformisti. I due poli ci permettono
anche di identificare la tensione alla base della nostra idea. Cosa
manca alle persone in quel particolare momento e condizione
della loro vita? Hanno bisogno di più sicurezza o di libertà? Di
sentirsi parte di un gruppo oppure di esplorare nuovi orizzon-
ti? Qual è la crisi che stanno attraversando e come ristabilire
l’ordine, l’equilibrio psichico scombussolato da una particolare
tensione psico-culturale?

179
Stabilità

Sovrano
Premuroso Creatore
Amante
Innocente
Appartenenza

Indipendenza
Burlone
Saggio

Uomo
comune Esploratore

Ribelle Eroe
Mago

Cambiamento © Jon Howard-Spink

L’archetipo presenta due tendenze contrapposte: luce e ombra.

Archetipo Luce/ombra
Andando
SOVRANOa identificare la tensione, potremo scegliere la forza
Responsaiblità/dittatura
in gradoCREATORE
di alleviarla. Gli archetipi Rinnovamento/follia
forniscono emozioni, percorsi
psicologici riequilibratori che possono
INNOCENTE attivare nelle persone
Fede/rifiuto
l’energia necessaria a intraprendere
SAGGIO il percorso di soddisfazione
Saggezza/dogmatismo
dei loroESPLORATORE
desideri. Come abbiamo visto gli archetipi sono attivatori
Completezza/alienazione
di emozioni
EROE in grado di commuoverci, di farci piangere, ridere,
Coraggio/arroganza
esaltare. Riescono
MAGO a raccontarci una storia che riempie la nostra
Trasformazione/manipolazione
anima RIBELLE
e che restituisce senso alleRivoluzione/distruzione
nostre esperienze.Vanno a
placareUOMO
l’anima attraverso
COMUNE la catarsi. Ci riportano in uno stato
Uguaglianza/qualunquismo
di equilibrio
BURLONEo ci proiettano in unaDivertimento/crudeltà
dimensione di cambiamento
necessaria alla nostra evoluzione. LaAmore/promiscuità
AMANTE vittoria della Donna Comune
Susan Boyle, la
PREMUROSO rivincita dell’eroe ribelle metropolitano di Still
Compassione/martirio
Free, il ritorno dell’Innocenza di Dove Evolution, la carica cre-

180
ativa di Apple. Le idee contagiose, così come i migliori prodotti
e brand servono da mediatori simbolici tra il bisogno umano e
la sua realizzazione. Come dicevano Joseph Campell e gli altri
studiosi di mitologia, miti e archetipi che si ritrovano in varie
forme nel mondo e sono basicamente espressioni del dramma
interiore dell’uomo. Si possono spiegare come diverse manifesta-
zioni di un eterno impulso a ritrovare un significato umano nel
mistero della creazione. Sono in grado di far emergere il senso
e la ricchezza in ogni esperienza della nostra vita e di attivare
nella marca il suo ruolo di soul maker. Ci servono per ricordarci
che siamo dei Creator! C’è un’epica nella quotidianità che noi
vogliamo ignorare ma che esiste anche nella vita di tutti i giorni.
E spesso è proprio la mancanza di epica che ci rende depressi.
È la mancanza degli archetipi nelle nostre vite – o la prevalenza
dei loro aspetti più bassi e negativi – che ci porta alla deriva,
rendendoci in perenne conflitto e svuotando le nostre vite di
senso fino a renderci infelici. Il «management del senso» non
riguarda quindi solo la vendita di prodotti, ma anche la gestione
dell’integrità del significato, così importante per il benessere
psicologico delle persone.
Quando gli archetipi sono attivi evocano sentimenti profondi
che hanno una risonanza spirituale. Comprendere il potenziale
archetipico di un’idea, di un prodotto o di un brand permette
di fare del marketing migliore, in grado di dare soddisfazione
a chi lo fa e di meritare il rispetto delle persone a cui è rivolto.
Riempire un prodotto di senso mette le persone in condizione di
sperimentarlo nella propria vita. È questo che porta alla fedeltà
di marca e alla diffusione di un’idea. Gli archetipi nobilitano
la vita gettando nuova luce sul suo significato. Le persone
sono sempre di più alla ricerca di esperienze dal significato
profondo, tanto nella vita personale quanto nell’acquisto di
nuovi prodotti.
Una storia d’amore deve essere in grado di attivare l’archeti-
po dell’Amante, un viaggio quello dell’Esploratore. È questo il

181
Brand Dove (Dove Old Spice Nike (Write The Diesel (Diesel
Evolution) Future) XXX)
Crisi / La donna L’uomo da Incertezza sul Il sesso è
Paura da si sente per scontato futuro. Ansia un tabù e la
affrontare inadeguata il rapporto da prestazione pornografia
a causa che rischia di per i mondiali è un atto
dei modelli logorarsi di calcio solitario
di bellezza
imposti
Bisogno Appartenenza Cambiamento Indipendenza Appartenenza
umano
Tensione Autostima/ Desiderio di Desiderio di Vergogna
Modelli fantasia/Noia vittoria/Paura disagio,
inarrivabili delle sconfitta esclusione
Catarsi «In fondo lei «Il mio uomo «Anche l’eroe «È divertente
è come me» ideale è così» vive la paura» e non c’è
nulla di male»
Archetipo Donna Il magico L’Eroe come L’Amante
Comune Seduttore Uomo Comune Burlone
mutaforme
Emozione Malinconia, Eccitamento, Aspettativa Eccitamento,
tristezza sorpresa, della sfida, trasgressione
che spinge gioia sorpresa per
alla re- i possibili
integrazione risultati,
Viral-dna Svelare il Sedurre Riaffermare Rendere
trucco dietro attraverso la possibilità fruibile e
i modelli un amante di scrivere il sociale
di bellezza magico in proprio futuro un tabù
inarrivabili grado di far attraverso la attraverso un
proposti dalla sognare un determinazione trattamento
pubblicità nuovo «uomo personale tecnicamente
possibile» innocente

motivo per cui il semplice viaggio organizzato non riesce più a


soddisfarci completamente. Ne cerchiamo uno che sia in grado
di rivelarci l’anima delle persone e dei luoghi che visitiamo e
spesso una esperienza preconfezionata non è in grado di farlo.
Gli archetipi sono il battito del cuore delle marche. Più il senso
è profondo più le persone si sentono legate al brand ed emoti-
vamente coinvolte. I brand non sono semplicemente il prodotto

182
di una società consumista, sono parte della nostra anima ed è
questo il motivo per cui reclamiamo il diritto a partecipare alla
definizione del loro senso. Mulino Bianco è per me la colazione la
domenica mattina con i miei genitori. Alzarsi tardi in un giorno di
festa e trovare quella confezione gialla di biscotti è uno dei ricordi
più belli e carichi d’emozione della mia infanzia. E al centro di
questa preziosa memoria c’è Mulino Bianco. Le marche sono
parte di noi, della nostra storia, dei nostri ricordi, della nostra
vita. Le sentiamo nella nostra carne. Per questo non vogliamo
essere traditi da loro con un cambiamento di logo, di stile, o con
un prodotto incoerente che non ne rispecchia l’essenza, oppure
con un gesto che ne stravolge l’identità e che rischia di deluderci.
Gli archetipi riescono a evocare in noi quelle forze psichiche
necessarie a riequilibrarci nei momenti di crisi. Comprare un
vestito nuovo fa sentire una donna bella come una Dea, pagare
il conto con una carta di credito ci fa sentire come un re o come
una regina. I prodotti e i brand sono dei «mediatori simbolici»,
in grado di connettere le persone con i concetti di purezza, di
forza, di rinnovamento, di libertà, di ribellione. I prodotti e le
marche sono in grado di re-incantare il mondo, di ridargli il senso
perduto. Abbiamo tanto bisogno di incanto e meraviglia nelle
nostre vite e i brand ci aiutano in questo.
Tuttavia, dobbiamo stare attenti a non cercare di «attaccare»
il senso a un prodotto in maniera posticcia. I migliori brand,
quelli più archetipici, si esprimono attraverso prodotti creati per
soddisfare e personificare i fondamentali bisogni umani inseriti
in un dato contesto storico, economico, sociale e culturale. Il
Maggiolone Volkswagen è nato sulla scia della controcultura
degli anni Sessanta. Rappresentava infatti tutto il contario di
ciò che era tipico dei genitori conservatori, che privilegiavano
il comfort, lo status e il consumo esasperato di carburante. Il
Maggiolino, con le sue linee così infantili, l’assenza di accessori e
i bassi consumi ne fecero «l’anti car» per antonomasia. La pub-
blicità lo rappresentava come il Davide contro il Golia. Oggi i

183
colori pastello dei nuovi modelli, ci ricordano i giochi di quando
eravamo all’asilo, risvegliando la nostra passione per l’Innocente.
La gestione archetipica del senso deve andare di pari passo con
l’analisi e la comprensione del contesto sociale e culturale in
cui è inserito il prodotto e il suo pubblico. Gli archetipi come
abbiamo visto si esprimono con simboli diversi a seconda della
cultura e del contesto storico. Per progettare la tua idea conta-
giosa dovrai andare a scandagliare le tensioni in modo da poterle
alleviare attraverso i giusti archetipi che dovranno però esprimersi
utilizzando i «codici culturali» più appropriati.

184
Alla scoperta
del codice culturale

Con Gianluca Lisi poi ci siamo finalmente incontrati in un Per autore:


completare
ristorante di Firenze. Mi ha accolto un po’ tetro, con un libro nota con au-
aperto sul tavolo, sottolineato in un punto ben preciso. Il libro1 tore, titolo,
casa editrice,
parlava di un peccato molto grave, quello che commette chi data
si impadronisce di ciò che è archetipico, di quello che c’è di
più sacro al mondo, ovvero la profondità dell’anima, per farci
qualcosa di utilitaristico. In questa caso chi lo fa è colpevole di
«egoismo satanico». Proprio così. Gianluca ci teneva a dirmelo
e a raccontarmi le sue paure. Addirittura mi disse di aver fatto
un incubo che l’aveva profondamente colpito. In una palude
lanciava simboli per poi rendersi conto di aver fatto qualcosa di
terribile. Per questo, in preda ai dubbi, aveva deciso di chiudere
il suo blog che parlava proprio di branding archetipico. Non vo-
leva più diffondere le sue sacre conoscenze per un fine così poco
nobile come quello di chi deve vendere prodotti! Nel corso del
tempo, pur mantenendo un rispetto reverenziale nei confronti
della materia, siamo entrambi giunti alla conclusione che tutto
dipende dalle reali intenzioni di chi si appresta a utilizzare gli
archetipi a fini commerciali.
L’«intenzione» è un concetto chiave, anche se poco conosciuto
(e applicato) in Occidente. Ho praticato per molti anni Tai Chi
Chuan, un’arte marziale cinese. Il mio maestro mi ripeteva che

185
per realizzare una forma perfetta sono necessarie prima di tutto
l’intenzione (I), solo dopo l’energia (Chi) e infine l’azione (Li).
Nel praticante avanzato di Tai Chi Chuan ogni gesto diventa
essenziale, efficace, pura manifestazione della sua intenzione.
Per riuscire a farlo si devono mettere a tacere i condizionamenti
dell’Io, spesso irruente e arrogante, eliminando tutto ciò che è
superfluo e arrivando ad ascoltarsi profondamente. Provaci! Nel
silenzio potrai sentire e capire qual è l’essenza del tuo progetto,
qual è la tua reale intenzione. In questo modo riuscirai a tornare
alla sensibilità originaria, a percepire te stesso e gli altri, lascian-
do sorgere spontanea l’azione giusta e adeguata alla situazione.
Arriverai a quello che nella tradizione taoista è chiamato il Wu
Wei, ovvero il «non agire» bensì cedere e seguire la corrente di-
venendone parte. Prima di iniziare a fare un passo devi chiederti
cosa muove i tuoi pensieri, le tue parole, le tue azioni. Qual è la
tua reale intenzione. Se sarà quella di contribuire con la tua idea
a rendere il mondo migliore, non ti macchierai del peccato più
grave, quello di egoismo satanico. In caso contrario, assumiti
tutte le tue responsabilità.
Purtroppo non credo che sia esattamente questo l’atteg-
giamento che ha mosso l’opera di Clotaire Rapaille, psicologo
francese naturalizzato americano, che, dopo aver iniziato a lavo-
rare con i bambini autistici, è diventato consulente delle grandi
corporation americane. Il suo successo – tra i tanti si deve a lui
il lancio della PT Cruiser sul mercato statunitense – è dovuto a
un particolare metodo da lui ideato per identificare il «codice
nascosto» all’interno di una particolare cultura. Sto parlando del
codice culturale che in un dato contesto socio-economico è in
grado di orientare i consumi delle persone. La chiave in grado
di aprire le porte dei bisogni. Bingo.
Lo scopo di Rapaille è stato quindi quello di studiare e sco-
prire quei codici culturali specifici alla base del marketing di
successo permettendo ad aziende come Chrysler, Nestlé e l’Oreal
di posizionare sul mercato i loro prodotti in maniera efficace e

186
persuasiva. Perché abbiamo bisogno di un fuoristrada per andare
a fare la spesa? Perché gli americani si comportano come eterni
adolescenti? Qual è il codice culturale associato a un oggetto
di lusso? Rapaille è stato in grado di comprenderlo e di mette-
re questa conoscenza al servizio delle grandi multinazionali e
delle agenzie di pubblicità. Purtroppo non sempre con buone
intenzioni.
Se cerci su Internet «Legacy Tobacco California San Franci-
sco» troverai i documenti riservati delle maggiore industrie del
tabacco americane, grazie al fatto che sono stati resi disponibili
attraverso una disputa legale. Le multinazionali del fumo sono
state costrette a pubblicare tutto il loro materiale di marketing
e comunicazione e per questo puoi trovare cose interessanti,
tra i quali gli appunti e gli scambi di mail tra un manager della
Philip Morris e lo stesso Rapaille, ingaggiato come consulente
per trovare il modo di indurre le nuove generazioni a fumare. E
ovviamente l’ha trovato. Come?
Fumare è un «rituale sociale» che ci mette in condizione di
esprimere e di riaffermare la nostra auto-immagine attraverso la
riattivazione dell’iniziazione. Fumare è quindi un rituale d’inizia-
zione. Tutte le volte che ti riaccendi una sigaretta stai riattivando
una particolare condizione in grado di ridarti energia psichica.
Non ti manca solo fumare, quanto quel gesto di attivazione ini-
ziatica. Il motivo per cui si tratta di una ritualità d’iniziazione è
legato al fatto che ci sono alcune cose che si fanno solo da grandi.
Fumare è uno di quei gesti, che nella nostra società i bambini non
possono fare. Ogni qual volta ti accendi una sigaretta ridiventi
simbolicamente grande. Questa è la dinamica psicologica che
porta a fumare.
Rapaille ne descrive nel dettaglio la dinamica psicologica. C’è
una mancanza di energia all’inizio e quando cala l’energia c’è il
dolore. Attraverso il gesto di fumare risale l’energia e si acquisisce
una nuova identità, in questo caso adulta. Infine, con una bella
sintesi degna dei migliori copywriter, il nostro «genio del male»

187
conclude la sua consulenza con questa frase: «Fumare è il diritto
di essere me stesso».
Nel libro che spiega il suo metodo, The Culture Code,2 Rapaille
parte dalla constatazione che sia inutile chiedere alla gente cosa
vuole. Questo li porta a razionalizzare i motivi che stanno alla
base dei loro desideri, che sono invece frutto delle loro emozioni.
Ma come decodificarle? Secondo Rapaille il dilemma si risolve
identificando i «codici», ampiamente determinati dal contesto
culturale in cui si è inseriti e che rappresentano l’essenza stessa dei
nostri processi decisionali. Il codice culturale è quindi in grado di
risvegliare l’archetipo corrispondente e di sbloccare l’emozione
che attiva il processo decisionale. Per esempio il codice della strada
di Easy Rider è in grado di attivare nella generazione dei Baby
Boomers l’archetipo del Ribelle, che nella Generazione Y sarà
invece attivato dal codice dello «skateboarder» o del «writer».
Chiaro? Il processo decisionale è quindi inconscio e opera sulla
base delle emozioni e dei codici culturali a essa legate. È proprio
su di essi che ci si deve focalizzare nella progettazione di un’idea
contagiosa. Comprendere i codici culturali del tuo pubblico ti
permetterà di costruire la giusta narrazione archetipica in grado
di attivare le emozioni che fanno risuonare le corde dell’anima.
Il concetto di base di Clotaire Rapaille è quello di imprin-
ting. La parola indica l’apprendimento di un comportamento
conseguente a una particolare esperienza vissuta. L’ipotesi è che
ciascuno di noi abbia un bagaglio di «impronte» ereditate dalle
nostre esperienze che, inconsciamente, organizza e influenza i
nostri comportamenti. Affinché ciò avvenga, tuttavia, le espe-
rienze necessitano di essere reiterate rinforzando in tal modo
l’imprinting stesso. Ognuno di noi, in base alle proprie esperienze
di vita, ha avuto imprinting che riguardano l’amore, la famiglia,
l’automobile, l’amicizia, la casa, l’abbigliamento, gli alimenti,
gli occhiali, il parrucchiere, insomma tutto quello che abbiamo
conosciuto nel mondo ci ha dato un suo imprinting. È come
quel detto che recita «Non si ha mai una seconda possibilità di

188
conoscere una persona per la prima volta». La prima impressio-
ne sarebbe davvero quella che conta. Questo è l’imprinting. E
sebbene abbia ovviamente anche una dimensione prettamente
individuale e personale, l’imprinting è fortemente influenzato
dal contesto culturale in cui cresciamo, dai riti di passaggio che
attraversiamo, da eventi importanti del nostro contesto storico,
dai media che hanno plasmato il nostro sistema informativo e dai
network sociali (reali e virtuali) a cui apparteniamo.
Per distinguerlo dall’«inconscio collettivo» junghiano, Rapaille
introduce il concetto di inconscio culturale, ovvero un tipo di in-
conscio che accomuna le persone ma che è tipico di ogni cultura.
Ne esiste uno per gli americani, uno per gli inglesi, i francesi,
gli italiani e così via, ma anche uno per i writer, i motociclisti,
gli amanti del tango, i geek, eccetera. In questo senso possiamo
parlare di imprinting culturali. Per ogni cultura (o subcultura)
secondo Rapaille esisterebbero quindi una serratura e una chia-
ve in grado di aprire la porta di accesso. Per capire il codice è
necessario studiare il rapporto tra le persone e i sentimenti e le
emozioni evocati da alcuni prodotti e situazioni. Cosa ti evoca
l’esperienza della guida? Cosa rappresenta per te un’auto? E
una casa? Che emozioni, che ricordi ti suscita? E quella marca
di biscotti? E quella particolare bibita? E Skype? E Google? E
Facebook? Immagina che il codice sia la combinazione con cui
apri la serratura di una cassaforte. Capire il codice culturale alla
base di un prodotto o di una categoria merceologica ti permette
di comunicarlo nel modo giusto. Chi conosce il codice culturale
di riferimento è in grado di parlare alle persone con le giuste pa-
role usando le narrazioni e le immagini che toccano le corde più
profonde e di sbloccare le emozioni che attivano l’azione. Certi
codici sono comunque intuitivi e li capiamo spontaneamente
così come comprendiamo gli archetipi. Per esempio, secondo gli
studi di Rapaille, gli italiani pensano che la vita sia una commedia
e che si debba prendere con allegria. Si aspettano che l’amore
porti piacere, bellezza e divertimento e per questo non amano

189
un rapporto troppo drammatico o complesso. La cultura italiana
è fortemente incentrata sulla famiglia e la mamma è considerata
la sua colonna portante. L’amore è quindi associato a quello ma-
terno: gli uomini cercano il vero amore in relazione al rapporto
che hanno avuto con la madre e le donne pensano che il modo
migliore per sperimentare l’amore sia diventare madri. Per questo
molto spesso l’uomo giusto è quello che riesce a dare loro un
figlio. Ecco un esempio di «inconscio culturale».

La piramide dell’inconscio

CONSCIO

Narrazioni PERSONA
individuali Inconscio individuale Motivazioni
INCONSCIO
Archetipi CULTURA Codici
Inconscio culturale culturali

Schemi SPECIE Bisogni


universali Inconscio collettivo biologici

Fonte: Elaborazione dell’autore dello schema creato da Clotaire Rapaille, http://www.


archetypediscoveriesworldwide.com/learn.html

In definitiva possiamo dire che gli archetipi originari che fan-


no parte della nostra psiche – e che sono, come abbiamo visto,
universali – si àncorano ai prodotti in base alle esperienze che
facciamo da bambini e al nostro particolare contesto culturale. È
l’emozione ancora una volta il meccanismo che fornisce l’«energia
necessaria a creare l’imprinting». Lo studio del codice culturale

190
permette quindi di identificare quella «logica delle emozioni»
all’origine dell’imprinting stesso. Grazie agli archetipi evocati
per mezzo dei giusti codici culturali è possibile riattivare questo
collegamento fra un prodotto e un particolare concetto avvenuto
nei primi anni di vita. Ti faccio un esempio ancora una volta
derivato dagli studi di Rapaille.
Il codice che un americano assegna a un’automobile è «iden-
tità», mentre per un tedesco è invece «ingegneria». Per uno
statunitense il cibo è un «carburante» che dà energia, mentre per
i francesi deve essere un piacere. L’esperienza che gli americani
hanno delle Jeep è diversa da quella dei francesi e dei tedeschi
poiché le rispettive culture hanno avuto storie diverse: negli USA
è vivido il ricordo della «frontiera» verso il west, mentre in Fran-
cia e Germania ci sono ancora i ricordi relativi all’occupazione
durante la guerra. Il codice culturale è quindi il significato che
attribuiamo inconsciamente a una data cosa in base alla cultura
in cui siamo cresciuti (o alla quale siamo stati risocializzati).
Douglas Holt3 spiega che le diverse espressioni culturali, sia
tradizionali sia moderne, si manifestano attraverso «ideologie, miti
e codici culturali». Un’ideologia è un punto di vista condiviso da
una parte della società che diventa una specie di «verità», come
per esempio una particolare visione dell’uomo o della donna,
della mascolinità o della femminilità. Solitamente i brand si le-
gano a particolari ideologie funzionali al loro mercato e al loro
posizionamento. Alcolici e sigarette sono espressioni culturali
tipiche dell’identità maschile e per questo brand come Jack
Daniel’s e Marlboro hanno avuto successo perché sono riusciti
negli USA a rappresentare al meglio il ritorno a una mascolinità
vigorosa, tipica della classe lavoratrice, un tipo di mascolinità
un po’ rude ma autentica che esisteva prima dell’avvento della
vita sedentaria moderna. L’uomo vero beve Jack Daniel’s e fuma
Marlboro. Le ideologie di marca si imprimono nei codici culturali
attraverso i miti, ovvero narrazioni archetipiche come quello del
«Marlboro Country» e della piccola distilleria del Tennesse, in

191
grado di drammatizzare l’immagine di una solitaria e romantica
mascolinità tradizionale devota ai suoi compiti lavorativi con
determinazione e competenza in una natura incontaminata.
Gli archetipi dell’Esploratore e del Guerriero vivono in queste
narrazioni di marca.

Il codice culturale è il linguaggio


attraverso il quale si esprimono
gli archetipi nei diversi contesti socio-culturali.

Gli archetipi sono universali mentre i codici culturali sono


relativi. Tuttavia, nella società altamente complessa in cui viviamo,
che si evolve a una velocità impressionante, le cose si complica-
no di molto. È la prima volta nella storia che coesistono cinque
generazioni differenti: Tradizionalisti (che comprende i nati dal
1925 al 1945), Baby Boomers (1946-1964), Generazione X (1965-
1979), Generazione Y (1980-1995) e Nativi Digitali (dal 1996 in
avanti). E in questo periodo di costante rivoluzione economica,
tecnologica, sociale e culturale è probabile che molto presto
finiremo le lettere dell’alfabeto per identificare le generazioni
che hanno vissuto particolari cesure socio-economiche! Non
ci troviamo più ad avere a che fare con generazioni uniformi,
socializzate in una cultura relativamente stabile, ma di fronte a
codici culturali in continuo mutamento, estremamente tribali e
differenziati, alimentati da una proliferazione di media, di prodotti
culturali e di network sociali. Per esempio, i codici culturali dei
Nativi Digitali sono estremamente diversi rispetto a quelli della
generazione precedente, socializzata prima dell’avvento di massa
dei computer e di Internet. La natura digitale e le dinamiche
della Rete sono assai diverse da quelle che hanno influenzato le
generazioni della cultura televisiva.
Tim Stock, CEO della società di ricerca Scenario DNA e

192
docente di analisi dei trend alla Parsons School of Design di
New York, ha studiato per molti anni il rapporto tra gioventù e
cultura. In una presentazione su Slideshare dal titolo «Culture
Networks»4 spiega come i network sociali (di qualunque tipo,
non solo i social media) modellano le culture e influenzano i
trend. Per Tim Stock «la natura del network determina il modo
in cui formiamo la nostra identità». Secondo la sua visione la
cultura vince sui dati demografici, perché è questa e non le ca-
ratteristiche demografiche a definire e a segmentare le diverse
generazioni. Non importano quindi l’età, lo status sociale o la
latitudine geografica, quello che fa la differenza sono i network
di riferimento (la strada per i Baby Boomers, Internet per le
nuove generazioni), i riti di passaggio (come per esempio i
concerti, l’InterRail, l’Erasmus) e gli eventi chiave che danno
forma poi alla cultura (come per esempio il Vietnam, l’11 set-
tembre, la crisi del 2011, Smell Like Teen Spirit dei Nirvana).
Questi aspetti sono determinanti nella creazione di un «codice
generazionale» che è possibile tracciare attraverso le esperien-
ze comuni fatte grazie a film, libri, cartoni animati, dischi,
eventi, viaggi, videogiochi, eccetera. Come abbiamo detto, la
cultura definisce quindi il «codice» – o set di significati e di
valori condivisi – che si sono formati durante il processo della
crescita. Tale codice è importante per i marketer perché sono
questi imprinting e set di valori condivisi che influenzano la
percezione dei prodotti.
E qui arriviamo al punto: il significato dei brand e dei prodotti
non resta costante ma si evolve grazie ai network di appartenenza,
che nella società interconnessa sono sempre più fluidi e dinamici.
Per questo è importante studiare i network, per comprenderne la
cultura, le ideologie, i miti e i codici culturali. Tim Stock fornisce
numerosi esempi concreti di imprinting per ciascuna generazione
mostrando5 come la cultura possa essere usata per comprenderne
la «narrativa». Il codice della Generazione Y (1980-1995) per
esempio include fattori come la fama, la privacy, la sorveglianza

193
e il consumo come parte dell’identità. Tra le icone abbiamo le
super-shopper di Sex and the City, i Metrosexual, le star di Ame-
rican Idol ed eBay. Il tema ricorrente è quello dell’empowerment
e dell’espressione di sé. Questo codice generazionale è piuttosto
diverso da quello della generazione del Baby Boom (1946-1964)
maggiormente incentrata su un’individualità intesa come libertà
e che si rifaceva a icone come Easy Rider, la cultura dell’auto-
mobile, la paura e la disillusione per la guerra in Vietnam e la
lotta per i diritti civili.
Le ricerche sui network culturali di tutto il mondo confer-
mano che vi è una grande permeabilità tra le culture, che le
persone presentano caratteristiche di una e dell’altra e che si
muovono sperimentandone diverse nel corso della loro vita.
Una ricerca sempre di Scenario DNA sulla «gioventù globale»
ha identificato quattro principali gruppi culturali6 tra i gio-
vani della Rete che ha chiamato Conformisti, Intellighenzia
Connessa, Oppositori del brivido, Anticonformisti Pop. Ogni
gruppo identificato ha mostrato una particolare predilezione
per determinati brand. Per esempio i giovani più legati a una
cultura di massa amano Nike e Abercrombie e Fitch, gli anti-
conformisti pop preferiscono Diesel e Adidas, mentre quelli più
underground prediligono Vespa, Vans e Timberland. Per tutti,
connettersi istantaneamente ad amici con gusti affini attraverso
i social network è una priorità. Le connessioni li aiutano infatti
a sentirsi vicini e a trovare la loro identità. È però interessante
notare che i giovani possono presentare qualità di ciascun
gruppo e spostarsi nel tempo man mano che si misurano con
diverse identità e personalità.
Solitamente i marketer hanno la tendenza a focalizzarsi sui
giovani più conformisti, dal momento che questi attribuiscono
maggiore valore allo status che conferisce un brand. Ma l’innova-
zione sembra arrivare più dai gruppi più anticonformisti e rivolu-
zionari, quelli ad alto tasso di passione, individualità e influenza
in Rete. È infatti nelle zone più di confine delle culture che spesso

194
si trovano le tensioni psico-culturali più interessanti, quelle che
ti permetteranno di fareinnovazione culturale e sociale. È lì che
troverai l’energia in grado di dare linfa alla tua idea contagiosa,
alimentando un movimento culturale o addirittura trasformando
la tua marca in un vero e proprio «movimento sociale».

195
Il brand come soul maker

Finalmente abbiamo un modello in grado di orientare il


«management del senso», e per chi si occupa di marketing
e vuole fare branding a livello professionale, tutto questo è
decisamente interessante. Anch’io mi sono spesso chiesto se
sia giusto o meno usare la psicologia archetipica per vendere
dei prodotti. L’uso degli archetipi, senza che ve ne sia una
profonda comprensione e una reale padronanza, potrebbe
diventare meccanico in chi fa comunicazione per professione.
Per questo, nel momento in cui decidi di toccare realmente
le corde dell’anima, ricorda che stai facendo un discorso
spirituale, che andrai a parlare all’anima, non più alla mente
né al cuore delle persone. Ricorda che ti stai rivolgendo a
una parte ancora più profonda, che merita cura e rispetto. In
realtà credo che tutti dovrebbero studiare gli archetipi, per
diventarne almeno coscienti. Già solo il fatto di acquisire una
certa sensibilità verso qualcosa che riguarda l’anima, i com-
portamenti inconsci e certe strutture ancestrali, ci permette
in qualche modo di evitare subdole manipolazioni.
Il mio invito è comunque quello di non dimenticarsi di man-
tenere una forte tensione etica, lavorando sull’intenzione, così da
evitare di trasformarsi in malvagi pubblicitari senza scrupoli che
usano gli archetipi solo per fini egoistici, senza aspirare invece a

196
utilizzarne la forza per nobili fini. Come sempre, dipende tutto
da noi. Possiamo decidere di essere la prima generazione di mar-
keter in grado non solo di risolvere i problemi delle aziende, ma
anche di essere mossi dal desiderio di soddisfare bisogni umani
universali e senza tempo. Marketer che progettano brand univer-
sali e immortali, commercialmente vincenti e psicologicamente
e socialmente costruttivi. Sarebbe stupendo.
Gli archetipi sono infatti in grado di fornirci il supporto
esistenziale necessario ad affrontare il nostro personale «viaggio
dell’eroe».Gli archetipi sono espressioni del dramma interiore
presente in ogni persona. Riflettono le nostre profonde realtà
e conflitti. Prova a immaginarti come un eroe nel tuo mondo
ordinario. Improvvisamente compare un richiamo all’avven-
tura, un equilibrio che si rompe, ma tu non vuoi partire. Poi
incontri un maestro, un mentore, una persona che ti convince
ad accettare la sfida. Il maestro Miaghi di Karate Kid, ma an-
che Fonzie se vuoi. Per me, che ai tempi sognavo di diventare
una rockstar, poteva essere Rick Rubin, uno dei più grandi
produttori di musica rock, che ha lavorato ai dischi dei Red
Hot Chili Peppers, dei Beastie Boys e dei Chemical Brothers.
Per un periodo della mia vita ho avuto Charles Baudelaire
e gli altri poeti maledetti come mentori, poi l’immancabile
Che Guevara. Dopo aver attraversato la prima soglia entri nel
mondo straordinario e inizia l’avventura. È così che ritornerai
a casa con la ricompensa, magari con una bella fanciulla (o
un principe azzurro) dopo aver ucciso il drago! Il mostro è
la paura che è dentro il tuo cuore di ognuno di noi. È quella
che devi affrontare in tutte le sfide della vita. E per quanto ti
riguarda, quali sono i personaggi che ti hanno ispirato, che ti
hanno spinto oltre quella soglia, che sono riusciti a portarti
dall’ordinario allo straordinario? Prova a rifletterci e troverai
gli archetipi che si muovono dentro di te. Il viaggio dell’eroe
è come un rituale che si ripete da millenni e che ritroviamo
anche nei riti di iniziazione delle tribù primitive. L’adolescente

197
che per diventare uomo viene lasciato solo nel bosco e deve
affrontare la paura, il buio, le belve feroci. Se in giro ci sono
così tanti analisti è perché abbiamo perso il leone da affrontare
e per questo ritorna dentro di noi. Oppure i leoni simbolici ci
sono, ma siamo noi che rifiutiamo la chiamata.
Questa visione epica che deriva dalle strutture narrative della
mitologia si può applicare in realtà anche alle vite delle persone
comuni fatte di acquisti al centro commerciale, di litigate con il
capufficio, di relazioni con i partner, di problemi con i figli, di
gioie e difficoltà quotidiane. In realtà la vita, le cose in generale,
possono essere ricche di significato ed è qui che intervengono
le marche con le loro offerte di senso. In fondo è quello che la
pubblicità ci ha sempre proposto. Non c’è forse il viaggio dell’eroe
nella battaglia della casalinga contro i batteri cattivi che si anni-
dano nel water e che riesce stoicamente ad annientare grazie alla
sua arma segreta per la pulizia della casa? La pubblicità evoca gli
archetipi che sono software della psiche, programmi più o meno
attivi ma tutti presenti nella nostra mente.

archetipi, tensioni e catarsi


Bisogno Stabilità Appartenenza Trasformazione Indipendenza
Archetipo Creatore Burlone Uomo Eroe Ribelle Innocente
Nutrice comune Mago Esploratore
Sovrano Amante Saggio
Tensione Tracollo Esilio Inefficienza Sentirsi in
finanziario Abbandono Impotenza trappola
Malattia Noia Mancanza di Vuoti
Caos forza Repressi
Catarsi Sicurezza Amore Vittoria Felicità
Comunità

Fonte: Elaborazione dell’autore da: Margaret Mark, Carol Pearson, The Hero and the
Outlaw. Building Extraordinary Brands Through the Power of Archetypes, McGraw-Hill,
New York 2001

198
L’idea è quindi che un viaggio epico possa essere anche quello
di una persona che acquista un prodotto, che ne parla con gli altri,
che ne diventa fan su Facebook o condivide il proprio entusiasmo
sui social network. Capire il percorso personale, il momento di
vita, le tensioni psicologiche e culturali che un consumatore,
un cliente, un imprenditore, una donna, un adolescente deve
affrontare per soddisfare i bisogni di appartenenza, indipendenza,
stabilità e cambiamento ti permetterà di dare spessore alla tua
idea, di progettarla in modo che sia in grado di fornire risposte
non banali ma che sia in grado invece di sostenere attivamente
le persone.

Il brand è un soul maker,


in grado di incoraggiare le persone
e di sostenere il loro percorso esistenziale.

Per esempio, improvvisamente un bambino diventa un ado-


lescente e necessita dell’Esploratore per sperimentare il senso di
indipendenza e separarsi dai genitori. Il suo potenziale potrebbe
non esprimersi fino a che non accade un evento che lo risveglia
e gli permette di iniziare il suo viaggio. L’archetipo incontrato
attraverso un video su YouTube o le immagini di un film o di
un evento di cronaca, possono essere il grilletto in grado di
far scattare il desiderio di avventura e di manifestare l’energia
dell’Esploratore nella vita di quel giovane muovendo l’archetipo
da uno stato di latenza a uno di azione. Potrebbe decidere di
partire da solo per un viaggio in InterRail, oppure fare richiesta
per andare un anno a studiare all’estero.
La cosa più interessante è che la risoluzione di una tensione, il
superamento di una crisi, permette di farci fare un salto in avanti,
anzi potremmo dire un salto verso l’ alto. Un salto evolutivo. Le
persone tendono infatti a evolversi – come abbiamo già visto con

199
la teoria di Erickson sugli stadi della personalità – per arrivare
a una ricomposizione psicologica a un livello superiore. La riso-
luzione di una crisi permette quindi alle persone di sviluppare
nuove virtù e di continuare a progredire.
Ken Wilber ha identificato vari stadi dello sviluppo della
coscienza che da egoriferita si evolve verso forme più spirituali
che si «aprono al mondo». Jung quando parla di Anima, la parte
femminile dell’uomo, e di Animus, la parte maschile della donna,
spiega che entrambi presentano quattro fasi di sviluppo, che li
porta da una fase di immaturità a una di maturità.
Attraverso il modello chiamato KWML (King, Warrior,
Magician, Lover) Robert Moore e Douglas Gillette1 hanno evi-
denziato la linea di separazione netta tra gli archetipi immaturi
(psicologia del ragazzo) e quelli maturi (psicologia dell’uomo).
Il loro modello, non solo prevede per ogni archetipo i due
livelli di maturità/immaturità, ma una struttura a piramide
nella quale troviamo l’archetipo vero e proprio all’apice, e gli
aspetti attivi e passivi dell’«Ombra» posti negli angoli alla base.
Secondo i due ricercatori, quando non siamo pienamente in
contatto con un archetipo, automaticamente siamo in preda
della sua Ombra bipolare e tendiamo a fare la spola tra i poli
attivo e passivo. Quello che si impara da questo sistema, così
come dagli stadi dell’Anima di Jung, è che esiste una archetipo-
logia dinamica che prevede la possibilità di lavorare su diversi
livelli degli stessi archetipi e di utilizzarli in modo adeguato
per riequilibrare le forze sprigionate dall’eccessiva presenza di
uno in particolare. L’equilibrio si trova quando, riconoscendo
di avere un archetipo eccessivamente dominante nella nostra
psiche, riusciamo a bilanciarlo con un altro. Oppure quando
ci accorgiamo che gli archetipi, invece di restare aderenti al
loro aspetto maturo e completo, si muovono fra poli ombra
attivi e passivi.
Facciamo un esempio. Come spiega Eivind Figenschau
Skjellum, fondatore del sito Masculinity Movies,2 un sito che

200
recensisce i film dal punto di vista degli archetipi maschili, la
differenza tra i due archetipi Ragazzo e Uomo dovrebbe essere
evidente a tutti, ma nel clima culturale prevalente sembra che
si sia persa la capacità di distinguerli. L’«essere giovane» do-
mina il modello maschile della cultura occidentale e l’«essere
uomo» viene spesso associato a figure oscure e distruttive. Il
Ragazzo, con le sue virtù di giovinezza, vitalità fisica e bellez-
za, è stato spinto a occupare lo spazio lasciato dall’uomo fino
a diventare una immagine dominante. È celebrato dai media
attraverso l’esaltazione di fenomeni dell’industria culturale
come le boyband, i giovani calciatori belli e ribelli, la filosofia
irresponsabile delle rockstar, gli spot pubblicitari della serie
«sono me stesso e faccio quello che voglio», i tronisti imma-
turi che diventano degli idoli e compagnia bella. Il problema
è che la celebrazione del Ragazzo alimenta una visione molto
limitata e stereotipata dell’essere maschio, che si radica in
una falsa sicurezza, nel desiderio di sesso facile, fama, denaro,
potere. Ma il Ragazzo adulato dalla società della spettacolo
è anche schiavo del suo ego,spesso ha poco controllo di sé e
spreca energia vitale in drammi esistenziali e percorsi mentali
autodistruttivi. È quello che non riesce a stare da solo con sé
stesso e che non sopporta il silenzio, che impazzisce a guardare
gli altri negli occhi e che vuole farsi sempre vedere (o non farsi
notare) in ogni modo. Che cerca l’amore a caso e che si fa ferire
facilmente. Il Ragazzo ha poca organizzazione e integrità nella
vita ed è decisamente poco affidabile. Non è che non voglia
fare la cosa giusta, è che proprio non ci riesce, dal momento
che è completamente soggiogato dalla parte femminile. È felice
solo quando c’è mammina, la madre inconscia, archetipale, la
parte femminile in quanto tale (non necessariamente la madre
biologica).

201
202
Re Mago Amante Guerriero
completo completo completo completo

Uomo
-
- + - + - +
+

Figlio precoce Figlio Edipale Eroe


Figlio di Dio

Ragazzo

+ + - + - + -
-

Fonte: Manca
Come puoi vedere dalla figura riportata alla pagina preceden-
te, i primi tre archetipi della psicologia del Ragazzo nel modello
KWLM sono Il Figlio di Dio, il Figlio Precoce e il Figlio Edipale.
E in cima alla vetta, ci sono gli archetipi dell’Uomo maturo, gli
aspetti completi del Re, del Mago, dell’Amante e del Guerriero.
L’obiettivo del nostro eroe, ovvero del giovane che aspira a di-
venire adulto, è di liberarsi dal legame con la parte femminile.
L’ultima fase dell’evoluzione della psicologia del Ragazzo che ha
percorso il suo viaggio dell’eroe, lo porta finalmente nel regno
degli Uomini.
Questo stadio si ottiene spesso a un costo elevato, a volte
preceduto da una crisi esistenziale. Nelle leggende la storia si
conclude sempre con l’eroe che torna dopo aver sconfitto il
drago, salva la principessa e riceve il regno come ricompensa.
Ma oltre alla vittoria, ci sono le enormi difficoltà che l’eroe si
trova ad affrontare nell’adattarsi alle sue responsabilità da adulto
come Re. Deve apprendere l’abilità di restare fedele alla regina e
superare la sua inclinazione a dimenticarsi delle sue responsabilità
per tornare di nuovo a vagare per il mondo sul suo fidato stallone
rispondendo al richiamo dell’Esploratore che vuole libertà e
avventura. Mentre la caratteristica distintiva del Ragazzo è essere
schiavo del proprio ego, quella dell’Uomo è la padronanza di
esso. L’Uomo l’ha soggiogato superando la paura di non farcela
e lo ha trasformato in un alleato e questo è possibile solo quando
la crisi è stata affrontata e risolta. In questo modo sarà in grado
di rendere il proprio servizio al mondo.
Ecco, a questo punto della nostra «avventura» nel mondo
degli archetipi, avrai capito che ci sono vari livelli dello stesso
archetipo che possono essere utilizzati con l’obiettivo di aiutare
le persone a sviluppare le virtù e le competenze necessarie al loro
sviluppo psicologico. Mark e Pearson spiegano, per esempio,
come nell’archetipo dell’Amante si possano trovare livelli via
via più elevati:

203
• Il semplice risveglio del desiderio.
• Il disperato desiderio di attrarre l’amore.
• La ricerca di un legame profondo e durevole.
• La capacità di intimità con la famiglia, gli amici e i colleghi.
• L’amore spirituale per tutta l’umanità e per tutti gli esseri
viventi.

Solitamente la pubblicità utilizza il livello più basso dell’ar-


chetipo, ovvero la forma in cui esso si esprime negli «stati vitali»
più bassi (ovvero, prendendo l’esempio qui sopra: il semplice
risveglio del desiderio). Tuttavia, in una società in continua evo-
luzione sociale e spirituale le aziende rischiano di essere criticate
proprio per questo approccio eccessivamente materialistico. La
gente chiede alle marche di essere promotrici di un senso più
profondo e di contribuire all’elevazione sociale e spirituale della
società. Basarsi sugli aspetti più bassi degli archetipi è il contrario
del brand come soul maker.

204
Verso un marketing
spirituale

Una teoria che può aiutarti a comprendere meglio una visione


evolutiva della comunicazione commerciale è la dottrina buddista
dei «dieci mondi». Il buddismo divide il mondo interiore degli
essere umani in dieci stati vitali. La teoria dei dieci mondi ci dice
che esistono diversi stati esistenziali che possiamo sperimentare
nel corso del tempo. I dieci mondi sono: Inferno, Avidità, Anima-
lità, Collera, Umanità, Estasi, Apprendimento, Consapevolezza,
Bodhisattva e Buddità.
L’idea dei dieci mondi ha origine da una teoria cosmologica
propria del Brahmanesimo che sosteneva che vi fossero dieci regni
distinti e separati nei quali le persone rinascevano in base alla
natura del karma accumulato. Il mondo di Umanità era quello
degli esseri umani, il mondo di Animalità quello degli animali,
il mondo dell’Estasi quello degli dèi, il mondo di Inferno quello
dei demoni.
Il buddismo, in particolare nella tradizione che si ispira al Sutra
del Loto, rivoluziona questo punto di vista: i dieci mondi non sono
luoghi fisici ma stati interiori dell’essere. Nessuno di questi stati
interiori è fisso e immutabile: ogni persona li sperimenta tutti e
dieci a livello potenziale e, istante per istante, ne manifesta uno
principale. L’Inferno è uno stato di sofferenza, nell’Avidità si è
preda di desideri che non si riescono a soddisfare, l’Animalità è

205
una condizione in cui ci si comporta istintivamente come fossimo
senza ragione, mentre la Collera è uno stato di costante compe-
tizione e conflitto in cui si cerca di avere la meglio sugli altri. I
primi quattro mondi sono chiamati anche i cattivi sentieri e sono
condizioni tipiche dell’infelicità. L’Umanità è invece uno stato
neutro di pace e calma, mentre l’Estasi è quando ci sentiamo
temporaneamente sopraffatti dalla gioia per una gratificazione
momentanea, per un desiderio che si è realizzato. Questi sei
stati vitali sorgono spontaneamente nelle nostre vite risvegliati
da fattori esterni, mentre i quattro che rimangono si possono
manifestare solo con uno sforzo consapevole. Abbiamo quindi
il mondo di Apprendimento, lo stato vitale in cui impariamo
grazie alle scoperte che facciamo, fino ad arrivare al mondo di
Consapevolezza, durante il quale sentiamo di avere comprensione
della vita tramite i nostri sforzi personali e le nostre osservazioni.
Gli ultimi due mondi per il buddismo sono molto importanti: si
tratta del mondo di Bodhisattva, una condizione contrassegna-
ta dall’altruismo, dal provare gioia nell’aiutare gli altri e infine
abbiamo lo stato di Buddità, ovvero la felicità assoluta che non
dipende dalle condizioni esterne, chiamata anche Illuminazione.
Per comprendere meglio cosa sono questi mondi vitali ci è
utile descriverli con le sensazioni che si provano. Per esempio,
solitamente ci troviamo in uno stato vitale di Umanità,fino a
quando una brutta notizia ci fa piombare nello stato d’Inferno. Per
visualizzare questo mondo pensa a quando hai mal di denti:tutto
il tuo stato vitale si trova in quel piccolo dente dolorante. La
parola giapponese che descrive il concetto di Inferno è jigoku,
formata da due caratteri che significano «il più basso» e «essere
legato e imprigionato». Lo stato vitale d’Inferno è molto varia-
bile e soggettivo: anche la preoccupazione e la depressione sono
sintomi di questo stato vitale.
Nel mondo dell’Avidità dominano invece i desideri, da quelli
più istintivi di cibo, calore, sonno e sesso, a quelli più elevati, come
il desiderio di amore, di giustizia, di miglioramento personale.

206
Pur essendo indispensabili alla vita, i desideri possono diventare
morbosi «attaccamenti» se non sono messi sotto controllo. È
quello che avviene nelle persone perennemente insoddisfatte,
che hanno necessità di cambiare sempre lavoro, partner, auto-
mobile, telefonino. Uno stato vitale perfetto per il mondo dei
consumi! Con l’illusione che la felicità si possa trovare nelle cose,
lo stato di Avidità ci porta a una estrema irrequietezza, a volte a
ossessioni compulsive.
Ogni stato vitale ha anche un aspetto positivo perché l’insod-
disfazione può portare a un miglioramento delle proprie condi-
zioni, trasformandosi in energia creativa per realizzare qualcosa
di importante. Se nei mondi più bassi siamo in preda ai desideri
e agli istinti, come la paura, il sonno, la fame, l’istinto sessuale, è
anche vero che questi esistono perché servono per farci vivere. Il
sonno ci permette di concederci il riposo, la paura ci avvisa del
pericolo e il desiderio sessuale assicura la riproduzione della spe-
cie. Ma se mangiamo quando non siamo affamati, siamo in realtà
preda dei nostri desideri insoddisfatti e ci troviamo nel mondo di
Animalità. Anche l’esercizio del potere per fini egoistici è un’altra
manifestazione del mondo di Animalità, uno stato vitale che si
manifesta anche nelle aziende quando deliberatamente portano
valore solo a loro stesse e non alla comunità più ampia. Tipica
dell’Animalità è la stupidità, ovvero l’incapacità di comprendere
il potenziale effetto delle nostre azioni.
Come ho già scritto, fino a oggi questi stati più bassi sono
quelli su cui ha fatto leva la pubblicità. Messaggi ammiccanti,
persuasivi, seducenti, hanno fatto vibrare le corde meno nobili
dell’animo umano. Se ci pensi l’intero sistema dell’informazione
giornalistica sembra creato apposta per generare ansia da realtà
e alimentare le paure delle persone con messaggi del tipo «arriva
l’emergenza caldo-freddo-debito-epidemie». L’obiettivo è quello
di generare un diffuso clima di insicurezza.
Il sistema predominante del marketing e del branding in ge-
nerale è basato sul meccanismo «desidera-compra» in cui si offre

207
una soluzione fittizia al vuoto interiore generale. Per non parlare
dello scadimento tipico della pubblicità nella sollecitazione del
solo cervello rettiliano, quello che più ci accomuna agli animali
e che facendo leva sull’animalità ci promette sesso, territorio,
potere, cibo. Su questo si basano tutta l’industria del porno,
l’ideologia competitiva nel mondo del lavoro e di un certo tipo
di management – che spinge alla conquista di più territorio e di
più potere – l’industria alimentare «ricreativa» che compensa
altri bisogni tramite cibo inutile e dannoso, ma anche il mondo
delle griffe e dei prodotti di lusso – che alimenta un desiderio di
differenziazione basato sullo status e sulle apparenze.
Un altro stato vitale ampiamente utilizzato dal marketing
tradizionale è la Collera, che non deve essere confusa con l’es-
sere arrabbiati. È invece uno stato di egocentrismo esasperato
in cui crediamo di essere migliori degli altri e mostriamo piacere
nel dimostrare questa superiorità. È lo stato vitale che induce
molte persone ad acquistare veicoli di dimensioni e consumi
spropositati, come per esempio i SUV. Che tipo di stato vitale
può indurre a desiderare e a comprare un Hummer, un veicolo
militare terrificante e antiecologico trasformato in un mezzo
urbano per muoversi in città? Non mi sembra molto adeguato a
un monaco zen, ma nemmeno a una società civile ed evoluta! La
Collera è anche lo stato vitale sul quale insiste lo sport quando
diventa sublimazione della violenza (a volte neanche tanto) e che
ritroviamo anche nei programmi politici dove si urla sempre e
in personaggi televisivi arroganti e prepotenti.
Generalmente la pubblicità è psicologicamente «regressivan-
te».1 Invece di puntare a elevare l’anima, si rivolge prevalente-
mente alla componente archetipica più infantile e immatura del
consumatore. È infatti tipico dei bambini privilegiare il piacere
e il gioco a discapito di altre attività più formativeLa psicologia
infantile è caratterizzata da un naturale narcisismo. Per questo i
bambini sono facilmente malleabili: basta dirgli quanto sono belli
e bravi per portarli dalla nostra parte. Narciso era un fanciullo

208
che, affascinato dalla propria immagine, annegò in uno stagno
a furia di ammirarsi nello specchio d’acqua. Questa dimensione
narcisistica che permane nella vita adulta, e che a piccole dosi è
indispensabile per il raggiungimento di un buon livello di autosti-
ma, è quella più utilizzata dai messaggi commerciali delle aziende.
Oltre ad alimentare le vibrazioni più basse dell’animo umano
la pubblicità ha la tendenza a ridurre gli archetipi a stereotipi.
Secondo Jung i simboli, le immagini, le parole, le narrazioni,
sono vivi – e quindi efficaci – quando esprimono una energia
archetipica. Il contrario dell’archetipo è lo «stereotipo» che ne è
il simulacro, ovvero la sua immagine irrigidita, morta, svuotata di
energia. Le immagini della pubblicità perdono di senso quando si
scollegano dall’energia archetipica, e invece di cercare la profon-
dità e la complessità del senso ricorrono a banali semplificazioni
dell’animo e delle relazioni umane. È così che a un certo punto
ci ritroviamo a provare un certo fastidio di fronte alla famiglia
perfetta del Mulino Bianco e a certe campagne nazional-popolari
con ammiccanti bellone e vegliardi marpioni. È questo più in
generale uno dei motivi per cui le persone provano un diffuso
sentimento anti-marketing. Il rischio di una comunicazione basata
prevalentemente sugli stereotipi è che si trasformi in una «società
anarchetipica», ovvero priva di elementi simbolici in grado di
riequilibrarci emotivamente e psicologicamente.

Il rischio di una comunicazione basata


prevalentemente sugli stereotipi
è che ci trasformi
in una «società anarchetipica»

Come abbiamo visto la forza dell’archetipo si esprime all’inter-


no di un preciso contesto socio-culturale in costante mutazione ed
evoluzione. Il brand per continuare ad alimentare il suo archetipo

209
dominante ha un estremo bisogno di restare in connessione con
l’energia culturale più vivida e potente, attingendo all’insieme di
emozioni, di idee, di immagini che alimentano la vita delle persone
senza mai perdere la natura luminosa del divino che lo alimenta.
Perdere la connessione con l’energia culturale e spirituale fa,
come abbiamo visto, diventare l’archetipo uno stereotipo,un
simulacro senza alcuna forza vitale.
Un altro errore comune ai marketer, che ragionano in termini
di stili di vita e segmenti demografici, è quello di utilizzare l’arche-
tipo più scontato. Per esempio, per comunicare con una donna
manager si potrebbe decidere di usare il Sovrano con l’obiettivo
di rafforzare il suo senso di status e potere. E questo senza consi-
derare che la donna in questione potrebbe sentirsi intrappolata da
questo suo ruolo ed essere invece attratta da archetipi più inclini
a controbilanciare la sua tensione psico-culturale. Il Burlone o
l’Esploratore potrebbero essere quelli in grado di manifestare i
suoi desideri più che riflettere la sua attuale condizione di vita.
Potrebbe anche essere attratta dalla semplicità dell’Innocente – e
qui si spiegherebbe il successo di un brand infantile come Hello
Kitty a tutti i livelli di età – o dall’intensità erotica dell’Aman-
te. Molte donne si sentono frustrate vedendosi perennemente
rappresentate come supermamme-mogli-lavoratrici efficienti
e impeccabili. Per questo il cuscino per allattamento Boppy ha
creato un advergame (un gioco con finalità commerciali) ad alta
viralità chiamato Mom’s Revenge, la vendetta della mamma. Il
gioco nei suoi vari livelli presentava delle scene di forte stress
tipiche delle neomamme, dal confronto con le amiche che vo-
gliono dispensare consigli, alla suocera invadente fino ad arrivare
al marito nullafacente. La catarsi dell’idea contagiosa consisteva
nel permettere alla mamma di vendicarsi simpaticamente di tutti
questi «soprusi». Per cui attenzione! Per usare gli archetipi al
meglio devi entrare in contatto con il loro significato più profondo
e allo stesso tempo comprendere come la loro valenza cambi in
relazione a una specifica base socio-culturale.

210
Gli archetipi sono contenitori di senso
coerenti e avvincenti, gli stereotipi sono poveri
e vuoti di significato.

Se come dice Marco Roveda di Lifegate il futuro della seg-


mentazione sarà fra «persone civili» e «persone incivili», allora
possiamo dire che il marketing in futuro dovrà necessariamente
muoversi sui livelli più nobili e alti dell’animo umano, quelli che
ora ti vado a descrivere. Lo pensa anche Paul Polman, CEO di
Unilever, una delle più grandi multinazionali del mondo che
possiede molti dei prodotti di consumo che conosciamo, il cui
obiettivo dichiarato è quello di far diventare l’azienda più soste-
nibile pur raddoppiando le dimensioni del suo business. Secondo
Polman, nel 2050: «Ci saranno 2,7 miliardi di persone in più su
un ramo che è già molto in tensione, come se una nuova Pechino
stesse nascendo ogni due mesi».2 Un cambiamento ampio verso
una maggiore sostenibilità richiede anche un cambiamento nel
comportamento delle aziende e dei consumatori. La sfida di fronte
alla quale si trova il settore pubblicitario al servizio di questi nuovi
obiettivi di marketing è quindi quella di motivare le persone a
modificare il proprio stile di vita. Per esempio il detersivo per
lavatrice One Rinse richiede solo un risciacquo invece di una
serie per rimuovere il sapone dagli indumenti.
Zappos è un’azienda fondata da Nick Swinmurn nel 1999 per
la vendita di scarpe online, un settore non particolarmente inno-
vativo. Oggi però conta su un ingente fatturato ed è in costante
crescita. Quando Amazon l’ha acquistata, nel luglio 2009, ha
pagato circa 1 miliardo di dollari per averla. Qual è il segreto di
questo successo? Il merito è di quella che in Zappos chiamano la
wow philosophy, un approccio che va oltre la soddisfazione del
cliente arrivando a considerarlo come un essere umano da coc-
colare e incoraggiare attraverso gesti di autentica e straordinaria

211
gentilezza. E funziona, visto che il 75% dei suoi clienti ripete
l’acquisto. Ciò che importa per Zappos è prima di tutto la felicità
del cliente e il suo appagamento anche in termini di servizio. Per
questo il call center (che è negli USA e non in India, perché chi
chiama vuole sentirsi davvero ascoltato dall’azienda) è attivo 24
ore su 24, le consegne sono gratuite e non si vende nulla che
non sia realmente disponibile in magazzino. Come per i libri di
Amazon, i commenti dei clienti sono parte integrante delle schede
dei prodotti. I dipendenti sono annualmente invitati a contribuire
al «Culture book» che raccoglie le loro esperienze e idee su cosa
la cultura di Zappos rappresenti per loro. Ma soprattutto, prima
di esser assunti, fanno un training di quattro settimane (di cui
due nel call center a diretto contatto con i clienti) e poi ricevono
un’offerta di 2.000 dollari per rinunciare al lavoro. Ciò di cui
Zappos ha bisogno sono persone fedeli, soddisfatte e fortemente
motivate. Persone in grado di amare l’azienda e i propri clienti
e di dimostrarlo con la massima sincerità. Zappos è diventato
un mito grazie al passaparola scatenato da incredibili storie che
riguardano il suo customer care, arrivato a segnalare la pizzeria
più vicina a un cliente affamato e a inviare una corona di fiori a
una signora che aveva restituito le scarpe acquistate dopo aver
perso il marito in un incidente d’auto.
E il rapporto con i competitor? Perfino in questo Zappos si
dimostra innovativo. Ciò che interessa loro è essere parte di un
insieme economico, di un più vasto gruppo sociale in cui non
conta solo il profitto. I rivali per Zappos sono solo dei compagni
di viaggio. A questo punto non stupisce che gli slogan dell’azien-
da siano Powered by service e Powered by culture. Zappos oltre
ad essere la concretizzazione del consumer empowerment e un
esempio di un marketing indirizzato all’anima.
In Marketing 3.0 Philip Kotler e i due indonesiani Hermawan
Kartajaya e Iwan Setiawan concordano con la necessità per il
marketing di cambiare approccio. Il marketing praticato dalla
maggior parte delle aziende dei Paesi sviluppati fino a oggi, si è

212
basato sulla persuasione, sulla conquista e sulla manipolazione dei
consumatori, al punto che il termine ha purtroppo acquisito una
accezione negativa ed è diventato non solo sinonimo di vendita
e di pubblicità ma, per molte persone, anche di manipolazione
e bugia. Tuttavia il sistema imprenditoriale continua ad avere
un ruolo importante per la società e il suo ruolo è quello di dare
risposte efficaci ed efficienti ai bisogni dell’umanità.
Il marketing 1.0 si è sviluppato ai tempi della produzione
industriale di massa, la fase in cui si produceva la mitica Ford
Modello T, quella «disponibile in qualsiasi colore purché fosse il
nero», come diceva Henry Ford. La funzione del marketing era
quella di facilitare l’assorbimento di grandi volumi di prodotti
standardizzati.
Nella fase del marketing 2.0, nata con la società dell’informa-
zione, il marketing deve consentire all’impresa di comprendere
e soddisfare il consumatore, sempre più esigente e dotato di
potere crescente.
La terza fase, quella di cui tu puoi essere pioniere, è quella
in cui le aziende si trovano di fronte a persone creative, ricche
di emozioni, valori, visioni del mondo, voglia e potere di espri-
merle. Questa è l’era del marketing creativo e spirituale. Sono
tre le grandi forze che caratterizzano questa era: lo sviluppo delle
tecnologie e della connettività e interattività, la globalizzazione e
soprattutto l’affermarsi di una società creativa. Puoi chiamarlo
marketing 3.0, green marketing, societing, marketing spirituale ma
la sostanza non cambia: le imprese stanno spostando la propria
focalizzazione dal consumatore all’umanità nel suo complesso e la
ricerca del profitto verrà sempre più bilanciata dalla responsabilità
sociale, dall’innovazione culturale e dall’evoluzione spirituale.
Per questo chi si occupa di comunicazione deve avere
una mappa dell’anima, in modo da agire consapevolmente e
positivamente su di essa. Puntando all’ evoluzione sociale e
all’elevazione spirituale, cercando di valorizzare la luce e di
integrare l’ombra, le marche possono in questo modo diventare

213
dei trasformatori di emozioni, dei depuratori in grado di elevare
lo stato vitale delle persone, svolgendo un fondamentale com-
pito, quello di sostenere i progetti esistenziali degli individui
e di favorire il benessere. Le imprese in grado di capire e fare
propri questi concetti saranno in grado di mettere davvero in
pratica la propria missione, visione e i propri valori, dando
un reale contributo al mondo. Saranno in grado di elevare il
concetto del marketing alla sfera delle aspirazioni, dei valori
e dello spirito dell’umanità e sapranno parlare all’anima delle
persone. Le imprese capaci di farlo saranno quelle che forni-
ranno incoraggiamento, daranno risposte e ragioni di speranza
alle persone e alla società che dovrà affrontare difficili e dra-
stici cambiamenti sociali, economici e ambientali. Nella nuova
definizione di marketing elaborata dall’American Marketing
Association «il marketing è l’attività, il complesso di istituzioni
e i processi volti a creare, comunicare, presentare e scambiare
offerte che contengano valore per i consumatori, i clienti, i
partner e la società in generale».
La globalizzazione ci ha messo di fronte ai problemi dramma-
tici che ha causato: povertà, ingiustizia, devastazioni ambientali,
crisi finanziarie. Le imprese oggi competono per apparire punti
di riferimento. Come ci ha spiegato Douglas Holt diventano
«marche culturali» che si propongono di risolvere paradossi
sociali. Io propongo di fare un ulteriore passo in avanti e di
iniziare a parlare di «marche spirituali» in grado di fornire un
incoraggiamento esistenziale alle persone. Brand come soul
maker.
Le marche spirituali dovranno essere dinamiche e le aziende
dovranno essere in grado interpretare le tensioni culturali per
poterle manifestare e alleviare con la propria comunicazione ma
anche affrontarle e risolverle concretamente attraverso pratiche di
business. Il senso di smarrimento di fronte al mondo che cambia
crea movimenti anticonsumisti, ma le marche culturali e spirituali
che riusciranno a diventare interpreti e sostenitrici dei movimenti

214
creati dalle persone otterranno consenso, reputazione, fedeltà e
sostegno economico. Devi dare alla gente una ragione per parlare
della tua azienda e per acquistare i tuoi prodotti. Devi renderli
felici. Romanticismo, attenzioni, cura, rispetto, un idillio. Non
basta più essere soddisfatti. Ci vuole l’amore.

215
Innescare
un movimento sociale

Per lanciare il computer Macintosh, il 22 gennaio 1984, Apple


mandò in onda uno spot1 che fece storia. Invece di martellare con
messaggi promozionali su tutte le reti televisive come facevano
i concorrenti (a quei tempi IBM stava spendendo quasi quanto
l’intero budget per le spese militari di un Paese), l’azienda di
Cupertino acquistò un unico spot da sessanta secondi durante
il Super Bowl, il programma più visto d’America. Diretto dal
regista di Blade Runner Ridley Scott e curato dall’agenzia Chiat/
Day, lo spot mostra un’eroina che irrompe in una scena orwellia-
na e scaglia un martello contro lo schermo del Grande Fratello
(quello del libro) intento a condizionare le menti di una platea
di spettatori semi zombie. Il gesto, eclatante e altamente simbo-
lico, rappresenta la liberazione dell’umanità dal conformismo
del pensiero unico.
Apple con questo spot, in un colpo solo e con un budget
ridotto, riuscì a dare vita a un movimento culturale in favore
dell’azienda e dei suoi prodotti. Un movimento che dura ancora
oggi e che è alla base del suo incredibile successo di mercato. Ma
cosa ha reso diverso Mac da IBM? Come ha fatto un solo spot a
provocare tanto clamore mentre centinaia di altri avevano fallito?
IBM era lo status quo, Mac la rivoluzione. Apple riuscì in questo
modo a mettersi alla testa di un movimento di liberazione dal

216
pericoloso e uniformante dominio di IBM. Poi nel 1997 arrivò la
grandiosa campagna Think Different a ribadire con uno slogan
altrettanto rivoluzionario la diversità culturale del movimento, a
rimarcarne l’identità. La campagna ridefinì ancora una volta in
chiave emotiva la grande missione di Apple, il ruolo dato al suo
prodotto di punta (il computer Macintosh) e l’obiettivo dei suoi
adepti:on si trattava solo di un’azienda, di prodotti straordinari e
di clienti da soddisfare, ma di un movimento in grado di cambiare
il mondo. Sessanta secondi2 meravigliosi di immagini in bianco
e nero, che dipingono con grande intensità poetica ed narrativa
la storia delle figure più straordinarie dell’umanità: Einstein,
John Lennon, Gandhi, Richard Branson, Martin Luther King,
Picasso. «Ecco i pazzi. Gli anticonformisti. I ribelli. I piantagrane.
Quelli sempre al posto sbagliato. Quelli che vedono le cose in
modo diverso. Che non amano le regole. Che non rispettano lo
status quo. Puoi citarli, disapprovarli, glorificarli o denigrarli.
Ma ciò che non potrai mai fare è ignorarli. Perché loro sono
quelli che cambiano le cose. Che fanno progredire l’umanità. E
mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio.
Perché solo coloro che sono abbastanza folli da credere di poter
cambiare il mondo, lo fanno davvero. Think different.» Brividi.
Si tratta di uno spot o è il manifesto di un movimento poli-
tico? Forse è solo una delle più belle pubblicità mai realizzate.
Apple ha fatto storia, così come l’ha fatta Barack Hussein Oba-
ma, primo presidente afroamericano degli Stati Uniti e uno dei
brand più innovativi ed evocativi di questi ultimi tempi. Oltre
a essere uno degli innovatori più radicali della politica del terzo
millennio, Obama è una marca che è stata in grado di innescare
un movimento sociale. Dei 700 milioni di dollari raccolti per la
campagna elettorale, 500 sono stati raccolti online. I numeri sono
impressionanti: il più grande data base di email mai realizzato (13
milioni di indirizzi), 200.000 eventi organizzati dai partecipanti
alla campagna, 1 miliardo di minuti di video realizzati, 15 milioni
di amici su Facebook. Questi sono alcuni numeri che danno l’idea

217
della marea di energia umana raccolta e indirizzata dal movimento
Obama. Barack Obama è stato durante il suo periodo fortunato
un’idea altamente contagiosa, in grado di entusiasmare le persone.
Ha capito l’importanza di un raccogliere attorno a se un team
giovane e dinamico, composto da giovani talenti e senatori di
esperienza (valore d’uso), ma ha anche costruito un’immagine
degna dei migliori designer (valore simbolico). Ma soprattutto,
per vincere nella campagna elettorale più incredibile della storia
americana, Obama ha incarnato un’epopea senza tempo (valore
spirituale) che ha riportato in vita la leggenda di Davide contro
Golia, una storia che racconta di un improbabile outsider che
combatte e vince contro l’establishment delle potenti lobby di
potere americane sulla spinta di un movimento popolare senza
precedenti. E tutto questo grazie a un nuovo mezzo di comuni-
cazione in grado di canalizzare potenti energie di cambiamento
che vengono dal basso: Internet, la Rete delle persone. È così che
Obama e il suo staff hanno realizzato l’impossibile, riuscendo
prima a superare le primarie del partito democratico contro la
favorita Hillary Clinton e poi a vincere le elezioni, permettendo
per la prima volta nella storia a un afroamericano di diventare
presidente degli Stati Uniti d’America.
Internet è uno strumento perfetto per chi sta all’opposizione.
Raccoglie le frustrazioni e permette di dargli sfogo. È un mezzo
catartico che amplifica e incanala il desiderio di cambiamento. Per
questo è più adatto a chi vuole modificare lo status quo che a chi
vuole difenderlo. Da quando Obama è arrivato alla Casa Bianca
è stato identificato lui stesso come lo status quo, permettendo
all’opposizione di sfruttare Internet a proprio vantaggio, come
hanno fatto Sarah Palin e il movimento del Tea Party. Ma è stato
Obama il primo a scegliere di percorrere la via dell’empowerment,
mettendo il potere in mano alle persone. È stato lui a incarnare
la narrazione del cambiamento che viene dal basso, dalla gente.
Ha dato vita a My.BarakObama.com, una «piattaforma relazio-
nale» che ha permesso al movimento di autorganizzarsi grazie

218
a meccanismi virtuosi di crowdsourcing, vale a dire di creazione
collaborativa della massa.
Prima di Internet, per partecipare a una campagna eletto-
rale bisognava fare chilometri, prendere la macchina e unirsi
fisicamente ad altre persone. Non che queste cose non siano
più importanti, ma Internet ha finalmente permesso di unire in
Rete tutte le forze a disposizione, mettendo a regime le energie
di chi voleva dedicare anche pochi minuti del proprio tempo
in favore della causa politica. Una specie di «attivismo snack»
reso possibile dalle nuove tecnologie. Alla fermata del tram,
con il proprio cellulare, gli attivisti hanno potuto collegarsi a un
database che assegnava i numeri di telefono da chiamare (con
un conto Skype prepagato) per parlare ad altre persone del
progetto politico del candidato Obama. Lo staff del presidente
ha utilizzato al meglio le piattaforme di self broadcasting come
YouTube, saltando il filtro dei media.
Prima venivano i sostenitori, è con loro che bisognava in-
staurare un dialogo diretto e autentico. Anche se i giornalisti si
irritavano, le notizie erano prima pubblicatesui social network
e sul sito della campagna, veri e propri luoghi di incontro e di
comunicazione degli attivisti. I video realizzati da David Plouffe, il
capo della campagna di Obama, fornivano indicazioni strategiche
senza aver paura di veicolare informazioni utili agli avversari. Il
tutto con la massima tempestività e spontaneità.
Immagina che un attivista sull’autobus possa mostrare al suo
vicino l’ultimo video del candidato che spiega la sua posizione
rispetto al problema dei trasporti pubblici nella regione! Un’idea
«riusabile», che permette alle persone di partecipare e di condi-
viderla nei propri momenti di vita.
Se vogliamo pensare a Obama come una marca il posiziona-
mento del brand è stato chiaro: Obama è il candidato dell’em-
powerment, di chi ha voluto trasmettere agli elettori un senso
di protagonismo e di forza. «Sarete voi a cambiare il mondo»,
tutto doveva comunicare questo messaggio. Addirittura in molti

219
suoi video Obama non si vedeva. Se ne sentiva la voce, potente,
autorevole, rassicurante. Lui era presente ma non era il prota-
gonista della scena. I protagonisti erano le persone, la forza del
movimento. «Abbiamo realizzato l’impossibile non idealizzando
un nuovo salvatore, bensì mettendo al centro di tutto il potere
della gente», ha detto il poco più che ventenne blogger di Obama,
Sam Graham-Felsen «Siete voi che potete cambiare l’America!».
È questo il grande messaggio che si oppone a ogni visione per-
sonalistica e autoritaria della politica. Sono le persone ad avere
il potere di cambiare le cose.
E poi c’è l’immagine coordinata, il design potente, pulito, e
asciutto della campagna, caratterizzata dal blu, colore della spe-
ranza, del futuro, della modernità e dalla scelta di un carattere
tipografico «eroico» come il gotham. L’art direction ha contato
molto nella costruzione del mito Obama, così come il supporto
di personaggi influenti della cultura giovanile come Shepard
Fairey, lo street artist che ha creato (spontaneamente) l’icona di
Obama diventata poi leggenda.
Per la portata delle sue innovazioni Obama è stato votato
Marketer of the Year, dalla rivista Advertising Age stracciando i
direttori marketing di giganti come Apple e Nike. La sua campa-
gna per le presidenziali ha vinto a Cannes il premio della categoria
Titanium & Integrated, il più ambito del festival. La politica,
come ci insegna il presente, è sempre più anche una questione
di marketing. E così Obama è riuscito a contagiare le persone
con la sua idea di cambiamento e di speranza, trasformando ogni
salotto d’America in amplificatore del suo messaggio grazie a
slogan catartici come Yes We Can, Hope e Change We Need. La
marca che supporta un progetto di senso.
Certamente il successo di Obama non è solo una questione di
marketing e comunicazione. È strettamente correlato anche alla
congiuntura economica, politica e sociale, al cambiamento delle
istituzioni e dei cittadini e al nuovo approccio partecipativo alla
vita politica. Il suo messaggio ha fatto leva su una forte tensione

220
psico-culturale, alimentata anche dall’insofferenza per la presi-
denza Bush, a cui è riuscito a dare voce. Quando si è candidato,
Barack Obama ha deciso che il suo progetto non doveva essere
semplicemente quello di vincere le elezioni, raccogliere voti o
gestire una grande campagna. Era più grande e più urgente.
Obama avrebbe cambiato il mondo, dando vita a una nuova era.
E per farlo, era necessario che ciascun cittadino, nel suo piccolo,
fosse il protagonista del cambiamento. Alla base della strategia
di Obama c’è una grande causa, emozionante, evolutiva e con-
divisa. Un’idea contagiosa in grado di emozionare e di aggregare
consenso ed energia verso un fine di elevazione ed evoluzione
sociale e spirituale.
E come il neopresidente ha innescato un movimento con il
proprio brand, così ciascuno di noi può promuovere se stesso, il
proprio prodotto, la propria marca, la propria azienda. Come?
Decidendo di passare da obiettivi «di misura» a obiettivi «smisu-
rati», dimenticandosi di insignificanti e poco duraturi «vantaggi
competitivi» e puntando a idee che per essere realizzate richiedono
di essere condivise e amplificate dalle persone. Devi decidere di
innescare un movimento sociale.

Niente è più rivoluzionario


del «vantaggio collaborativo»
che permette di cambiare il mondo.

Oggi tutto è possibile davvero. La guida di un grande mo-


vimento spirituale, Daisaku Ikeda, ha detto che «la rivoluzione
umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel
destino di una Nazione e condurrà infine al cambiamento del
destino di tutta l’umanità». E perché non applicare questo con-
cetto anche alla tua idea? Nell’era di Internet è quello che sta già
accadendo. Persone e marche che stanno cambiando il mondo.

221
Siamo nell’era della comunicazione mobile e del potere delle
persone. È l’era di Facebook, Twitter, YouTube, delle consolle
Xbox Live, degli iPhone. Oggi la tecnologia rende davvero tutto
possibile. Tremila mondi in un singolo istante, tremila possibilità
che in un attimo possono diventare realtà. Una marca può creare
un movimento, oppure mettersi alla guida di uno che sta nascen-
do. Può crearlo, alimentarlo, oppure sostenerlo. Può essere lo
strumento attraverso cui si esprime e crea (i computer Apple),
una nuova tecnologia con cui comunica (Skype, il software per
chiamare gratis via Internet), i vestiti che indossa (le scarpe
comode ed amiche dell’ambiente Camper), il veicolo con cui si
sposta (la macchina ibrida Toyota), la bevanda di cui si alimenta
(i succhi di vera frutta Innocent Drink).
Possiamo considerare le marche come dei movimenti sociali?
Io penso di sì. Le marche in passato avevano un unico obiettivo:
generare profitti. E per farlo vendevano alle persone emozioni
e prodotti. Le marche moderne invece non si concentrano sulla
vendita immediata, ma si focalizzano su una passione, su una
causa più grande. Dove, Patagonia, Lush, The Body Shop, Ame-
rican Apparel sono più che marche, sono movimenti sociali che
agiscono per cambiare il mondo.
I movimenti sociali di oggi infatti non sono più legati come in
passato esclusivamente a richieste politiche, come per esempio
maggiore lavoro, una casa o particolari diritti. I movimenti di
oggi cambiano il mondo in modo diverso. Lo fanno proponen-
do e difendendo determinati modelli di comportamento e di
codici morali, determinati modi di consumare e di relazionarsi,
determinati modi di essere. Non cercano la conquista del potere
politico o la tutela di interessi economici, si tratta di movimenti
che rivendicano soprattutto nuove identità, più che diritti.
L’hip hop ha rivalutato la figura dell’afroamericano del ghetto,
mettendone in luce le capacità artistiche e imprenditoriali. Il
consumo critico, i movimenti anti-marketing e il cultural jam-
ming (l’interferenza culturale degli Adbusters3) hanno svelato

222
l’altra faccia del sistema di produzione e di consumo dei brand
globali. I movimenti open source e free software hanno messo
in luce i meccanismi di potere e di disuguaglianza alla base del
diritto d’autore. Gli esponenti del riciclaggio creativo stanno
evidenziando la follia degli sprechi di risorse e la distruzione
dell’ambiente. Il movimento transgender ci sta dicendo che
esistono identità che non si possono ricondurre alla dicotomia
uomo e donna, e così via.
Le forme di azione di questi movimenti sfidano la logica
dominante su un terreno soprattutto simbolico, proponendo
nuovi stili di vita e di consumo, mettendo in campo nuove
identità e nuovi stili di vita. I movimenti sociali di oggi metto-
no in discussione la realtà, lo status quo, offrendo alternative
a quelle imposte dai gruppi dominanti, dalle istituzioni e dai
media. Sono movimenti che non chiedono, offrono. Offrono
con la propria esistenza altri modi di definire le cose, di dare
senso all’azione individuale e collettiva. Si tratta di una lotta
soprattutto simbolica, che avviene sempre di più attraverso il
consumo e le marche, che dopo essere state spesso bersaglio
di critiche e attacchi anche forti, hanno oggi la possibilità di
scendere in campo dalla parte delle persone. Anzi credo sia
l’unica possibilità che hanno se vogliono sopravvivere!
Nella storia dei movimenti popolari siamo approdati a una
nuova un’era in cui quasi tutti hanno la possibilità di dare vita a
un cambiamento. Persone e aziende. Tutti oggi possono innescare
un movimento. Anche tu oggi puoi decidere di realizzare un’idea
in grado di cambiare il mondo. Ci sono riusciti Sergey Brin e
Larry Page quando hanno inventato Google, Mark Zuckerberg
con Facebook, Linus Torvalds, autore della prima versione del
sistema operativo open source Linux. Lo hanno fatto i fondatori
della Tesla Motors, un’azienda automobilistica che crea veicoli
elettrici ad alte prestazioni e il gruppo di amici che ha deciso di
fondare Innocent Drinks. Per non citare i soliti Steve Jobs e Bill
Gates, oppure Michael O’Leary che con Ryanair ha rivoluzionato

223
il settore dei viaggi aerei con la filosofia low cost. C’è riuscito il
nostro Carlo Petrini con Slow Food, oggi un movimento mon-
diale che ha fatto del godimento gastronomico un atto politico.
Si tratta di movimenti creati da persone e da grandi marche che
stanno cambiato il mondo.
Questi movimenti hanno identificato una tensione psico-
culturale e hanno incanalato energie sociali che c’erano prima
che qualcuno decidesse di creare un’azienda, di dargli un nome,
di inventare un prodotto e di soffiare sul fuoco del movimento
con gli strumenti della comunicazione. L’energia era già lì, serviva
solo qualcuno che la trasformasse in movimento. Quanti erano i
viaggiatori low cost, i buongustai slowfood, gli imprenditori del
Web, gli automobilisti ecologici? Ryanair, Slow Food, Skype,
Toyota, hanno manifestato e reso possibile un’immagine nuova,
diversa del consumatore, del viaggiatore, del ristoratore. Hanno
offerto nuove identità, rivendicato nuovi modi di vivere e di
consumare. Hanno voluto fortemente rompere le logiche del
potere e del controllo, permettendo agli individui di esprimere
la loro identità individuale o collettiva, il diritto di realizzarsi, di
definire il senso delle cose. Oltre a offrire nuovi e straordinari
prodotti, tutte queste persone hanno sfidato le rappresentazioni
culturali dominanti e hanno aperto nuove strade a una visione del
mondo diversa. Hanno dato alle persone i mezzi per esprimere
se stessi e realizzare i propri progetti di vita. Diversamente dai
grandi movimenti del passato, come quello operaio, i «nuovi
movimenti sociali» non puntano a rivendicazioni materiali ma
sfidano le rappresentazioni culturali dominanti imposte dall’alto.
E in questo le marche possono essere di grande supporto, con i
loro prodotti e con la loro comunicazione. Le marche possono
essere a fianco dei movimenti sociali.
L’agenzia StrawberryFrog non crea campagne ma movimenti
culturali. Le small ideas di Crispin Porter + Bogusky sono in realtà
idee molto creative con budget non enormi ma in grado di creare
brand momentum, ovvero di incidere culturalmente nella società.

224
È successo quando hanno riesumato l’icona del Re di Burger
King, trasformandolo in un personaggio comico surreale. Il Re
da felice, dimostrativo e rassicurante è diventato un personaggio
enigmatico, una specie di buffo Fantasma dell’Opera in grado di
emozionare e far sorridere per la sua invadenza. Davvero folle!
L’agenzia e l’azienda hanno rilevato il feedback delle persone,
vale a dire l’entusiasmo e il coinvolgimento generato da questa
nuova versione del «re degli hamburger» e a quel punto hanno
deciso di continuare a investire sull’idea. È questa la nuova stra-
tegia vincente. Piccole idee su cui investire energia in maniera
progressiva, come un surfista che decide di dare tutte le sue forze
per quell’onda che non può assolutamente perdere, perché sente
che da quel moto d’acqua che lo sta per sopraffare nascerà la
più bella surfata della sua vita! Se tutto è fluido e non ci sono
più certezze assolute, devi lavorare sulla semina e sulla germi-
nazione. Piccoli semi da annaffiare dotati di grande potenziale,
idee contagiose in grado di crescere e di diventare sempre più
visibili. Semi di cambiamento che attecchiranno, impulsi che
diverranno onde cavalcabili, relazioni che si trasformeranno in
progetti monetizzabili.
Russ Klein, l’ormai leggendario direttore marketing di Burger
King lo spiega così: «Non siamo un ristorante, siamo un social
brand!». Devi partecipare alla cultura popolare. Puoi farlo at-
traverso i videogiochi, i film o anche la sagra del paese. Tutto
questo deve fare parte dei tuoi piani marketing. Come dice Klein,
citando Winston Churchill: «Gioca per più di quello che puoi
permetterti di perdere e imparerai il gioco». Questo non è il mo-
mento di stare alla finestra ma di fare quello che altri non hanno
il coraggio di fare. Per questo Burger King dal 2003 ha deciso di
lanciarsi in media nuovi ed emergenti come i micrositi, il mobile,
i video online, gli sms e i videogame, senza aspettare conferme
dai classici sistemi di misurazione o di avere certezze sul ROI
(ritorno sull’investimento). Burger King e Crispin Porter + Bogu-
sky pensano che oggi le persone apprezzino una comunicazione

225
intelligente e provocatoria. Secondo loro è possibile rinforzare
i legami emozionali con i consumatori andando a identificare le
aree di tensione. La loro filosofia è che la pubblicità efficace si
basa su una tensione e quanto più riesce a essere provocatoria
tanto più è radicata nella cultura.

226
Il Chief Meaning Officer

La conseguenza per le aziende è che il management deve im-


parare a rivolgersi alle energie e alle emozioni, piuttosto che ai
gruppi di riferimento. Deve pensare in termini di «emotoni» più
che per segmenti socio-demografici. Si prospetta un lavoro da
sciamano per il vecchio marketing manager in giacca e cravatta.
Dovrà imparare a guidare le emozioni collettive, come un leader
politico. Gran parte delle energie culturali e sociali proviene dai
movimenti, da quelle aree più d’avanguardia che si protendono
verso il superamento di se stesse. La marca dovrà immergersi
nell’energia delle culture più innovative e dei fermenti sociali e
lavorare alla creazione di una emozionalità condivisa. L’energia
si trova sul limite, sulla cresta dell’onda dei movimenti sociali.
È per questo che la marca deve porsi come leader dell’evoluzio-
ne. Porsi oltre l’ignoto, continuare ad alzare il livello, diventare
traino. Essere leader, condurre. Evoluzione permanente dello
stile, della cultura, della scienza, della tecnica, dei rapporti so-
ciali. Evoluzione sociale, culturale, spirituale. Questa è la nuova
creatività. Il divenire diventa il punto di orientamento. Questo è
marketing non-convenzionale! Sono i tempi in cui si deve essere
costantemente avanti (cosa che sempre più spesso coincide con
il ritorno al passato). Per fare questo la marca deve superare
la metafora della manipolazione, della persuasione, rinunciare

227
all’unilateralità. Deve scendere nel movimento e conquistarne il
rispetto, attraverso l’ascolto, la partecipazione, la realizzazione di
azioni significative, evolutive, eroiche. La credibilità non deriva
più dalle asserzioni e da creatività sempre più sorprendenti, ma
dallo sviluppo comune di nuove prospettive, di nuovi stili di vita,
di nuove emozioni ed energie condivise.
Gerd Gerken, autore di Addio al marketing,1 insegna che le
relazioni sociali e spirituali sono più stabili della domanda e del
consumo e, come abbiamo visto, le energie archetipiche sono
universali. Non si tratta di mode destinate a passare. È a queste
relazioni ed energie sociali e spirituali che dovrebbe rivolgersi
il nuovo marketing, cosciente di essere immerso in dinamiche
sociali e culturali non solo di mercato. Se il marketing è volto a
orientare tutto secondo la domanda, il societing, ovvero l’evo-
luzione del marketing, si vuole orientare secondo le relazioni
sociali. Per questo le marche devono prendere posizione, fornire
elementi di senso, diventare produttori di valore che genera iden-
tità, costruire esperienze comuni. Diventare baluardi dei nuovi
mondi possibili immaginati dalle persone. Solo in questo modo
le persone supporteranno il progetto dell’azienda, prendendovi
parte o utilizzandolo come strumento per realizzare i propri
obiettivi vitali. In questo modo la marca sarà in grado di con-fluire
con i progetti di vita delle persone e l’azienda di co-evolvere con
la società. D’ora in avanti dovrai essere in grado di scovare quei
sentimenti nuovi, quei desideri, quei modi di comportamento,
quelle energie ed emozioni latenti che più tardi verranno adottati
dalle frange più avanzate della società.
Come fare? Se tutto diviene più rapido e discontinuo, devi
staccarti dalla domanda e operare in anticipo. Essere sul mercato
prima della domanda significa mettersi al passo con le tendenze
e con i desideri. Lavorare sulla causa più che sull’effetto. Pensare
alla semina, più che al raccolto. Produttori e consumatori creativi
svilupperanno insieme (mediante co-evoluzione) quelle richieste
che poi saranno soddisfatte con marche e prodotti. Questo è

228
surfare, contrapposto a mirare un obiettivo. Muoversi nel flusso.
Questo è investimento sociale contrapposto a strumentalizzazione,
ad appropriazione. Liberazione di energie, evoluzione.
Per fare questo hai bisogno di una cultura aziendale basata
sulla libertà, sull’innovazione, ma anche sull’accettazione dell’in-
successo. Come dice il sociologo e altro mio mentore Francesco
Schianchi devi muoverti come gli uomini blu, i tuareg, respi-
rando l’aria del deserto. È necessario usare le antenne, captare
i segnali deboli. Quando identifichi una corrente devi salire
sulla tavola da surf e unirti a lei strutturalmente, diventare parte
di quel movimento culturale, costruire un «pensare comune»,
un’emozione condivisa.

Dal vantaggio competitivo


al vantaggio collaborativo, dal Chief Marketing
Manager al Chief Meaning Officer.

È arrivato il momento di inventare il marketing manager del


futuro, strappandolo alle facoltà economiche e alimentandolo
a pane e sociologia, psicologia, filosofia. È il Chief Meaning
Officer, la nuova figura centrale del marketing management che
studia, stimola e produce il nuovo tessuto culturale delle impre-
se attraverso narrazioni, affettività, empatia e immaginazione.
Il nuovo marketing deve nascere da un profondo desiderio di
creare legami con le persone, di alimentare vicinanza affettiva,
di generare esperienza e significato condiviso. In questo senso
siamo tutti in grado di fare del buon marketing sviluppando la
giusta sensibilità. Siamo tutti dei Creator! E la capacità di saper
canalizzare questo grande desiderio collettivo di partecipazione
e cambiamento e di convertirlo in azione positiva per il mondo è
il nuovo potere e la più grande responsabilità del nuovo profes-
sionista del marketing, il nuovo leader, il Chief Meaning Officer.

229
«Esci dal tuo ufficio ed entra nelle tribù e nei loro momenti
di vita!» raccomando in uno dei dieci principi del marketing
non-convenzionale.2 Appartenere ai movimenti sociali e culturali,
esserne membro attivo e cooperare con le persone che ne fanno
parte per supportare i progetti di senso che incarnano, richiede
al marketing manager l’identificazione mentale (e spirituale)
con i movimenti. L’azienda dovrebbe sostenere autenticamente
il progetto di senso che dimostra di supportare con la propria
comunicazione. Come diceva mio nonno Michele parlando del
suo amico prete: «Quello è uno di quelli che ci crede veramen-
te!». Ci devi credere anche tu. Così nell’azienda (e nell’agenzia)
dovrebbero svilupparsi funzioni in grado di interpretare corret-
tamente il senso che le persone danno all’azione, i progetti che i
movimenti sociali e culturali incarnano, la missione che si sono
scelti. Potrai farti aiutare dai gatekeepes, ovvero dai guardiani di
soglia, quelli che noi Ninja chiamiamo i «mediatori simbolici»
e che saranno in grado di introdurti di volta in volta all’interno
delle diverse comunità di riferimento. Oppure potrai farti aiutare
da un Chief Meaning Officer, la figura in grado di mantenere
la rotta del senso, di non perdere il contatto propulsivo con
l’energia sociale necessaria a spingere l’azienda nel flusso della
cambiamento, il manager in grado di orientare l’azienda nel con-
testo socio-culturale annusando il vento come fanno gli uomini
blu del deserto.
Le armi dell’antropologia (e oggi della netnografia) gli saranno
utili, ma l’istinto e la sensibilità saranno le sue doti principali. Se
vuoi parlare ai writer, devi essere uno di loro, se vuoi comunicare
alle mamme della rete, devi capirne i reali bisogni. Togliti la cra-
vatta, esci dalla sala riunioni con l’aria condizionata e torna fra
la gente. Ma soprattutto ricordati di una cosa: ci si può fondere
solo con ciò che si conosce veramente e che profondamente si
ama. Il segreto? È l’amore, come dice l’esperto di marketing del
passaparola Andy Sernovitz. Devi amare il tuo pubblico, è l’unica
strada che hai. Amarlo e rispettarlo. Incoraggiarlo a esprimere

230
tutto il suo potenziale. Questo è quello che devi fare! Le attività
di marca dovranno incoraggiare le persone a realizzare se stesse
e il proprio potenziale vitale. Pensa che fortuna: da oggi in avanti
potrai lavorare per far evolvere l’umanità invece di pensare solo
a fottergli soldi! Rispetto a prima dovrai metterti in relazione
molto più intensamente e a più livelli con le persone, cessando
di cercare di replicarne i linguaggi, ma invece capendone il senso
profondo. Puntando quindi su un’autentica cooperazione con
gruppi sociali reali. Non è più sufficiente comunicare, bisogna
interagire con loro. Devi davvero mettere in comune, devi essere
loro. È così che ha fatto Tim Tribù con Street Academy, il labora-
torio creativo a supporto della street culture e in particolare con
«Come suona il caos», il pluripremiato progetto sul riciclaggio
creativo che ha insegnato ai ragazzi a costruire strumenti musicali
dai materiali di recupero attraverso un videocorso disponibile su
YouTube.3 «Dicono che il mondo finirà coperto di spazzatura,
ma hai mai pensato che dalla monnezza può nascere musica?».
La marca ha preso posizione, ha organizzato eventi e concorsi,
ha scovato nuovi talenti, documentato la storia del movimento
degli street artist, messo in network musicisti, associazioni, co-
munità extracomunitarie, mass media, sviluppando una grande
energia creativa e contribuendo a rendere il mondo più bello e
pulito. In questo modo la marca ha sostenuto la comunità e ne
ha guadagnato il rispetto. È così che si può sopravvivere alla fine
del vecchio modo di fare marketing. Dovrai essere parte di un
movimento, contribuire a far evolvere e a migliorare il mondo.
È finita con l’atteggiamento: «Hey, abbiamo fatto qualcosa di
creativo per manipolarvi». D’ora in poi dovrai favorire le ini-
ziative e i progetti dei suoi membri, a volte dare denaro per le
loro ambizioni, per i loro scopi, per i loro processi comunicativi,
utilizzare archetipi costruttivi in grado di elevare lo stato vitale
e incoraggiarli nel loro percorso di crescita personale. Redistri-
buire, insomma, il valore nelle mani dei tuoi migliori amici: i
tuoi clienti. Per diventarne amico e partner, per far parte del

231
movimento, dovrai supportarne autenticamente il progetto di
senso, gli obiettivi esistenziali.

Tutto questo ha uno svantaggio: una volta iniziato non si può


più smettere. La «relazione» e l’«evoluzione» divengono il pilastro
del nuovo marketing e la collaborazione con i movimenti sociali
la sua operatività costante. Se riesci a fare di clienti anonimi dei
movimenti autentici e vivaci con un’identità comune e grazie a
una proposta di progetti di senso di valore, migliori il legame con
i tuoi pubblici e accresci anche l’efficacia dei tuoi investimenti
in comunicazione tradizionale. È questo il modo per smettere di
buttare i tuoi budget in pubblicità dalla finestra! La co-evoluzione
costante con i movimenti diviene il fattore principale del suc-
cesso e tutti gli strumenti che ti permettono di essere sempre in
connessione con i movimenti – come i sistemi di intelligence del
Web, il monitoraggio delle conversazioni online e della brand re-
putation, le tecniche di cool hunting e trend research – divengono
i muscoli e i nervi della tua azienda che ti permettono di seguire
in tempo reale il flusso delle onde sociali con la tua tavola da surf.
Come dice Gerd Gerken la marca dovrà puntare alla «leadership
emozionale». Per farlo dovrai imparare a sintonizzarti sui flussi
emotivi, a visualizzare e a prevedere e a saperti muovere in quelli
che ho chiamato «aggregazioni emozionali» o «emotoni» in cui
un’emozione condivisa riesce ad aggregare anche solo per un
istante le persone. Non dovrai rincorrere emozioni e trend ma
costruirli insieme a coloro che li creano. Per fonderti nel flusso
e co-dirigerlo dovrai essere tu a trovare quei bacini emozionali
latenti e sarà la tua comunicazione a renderli manifesti. Saranno
le tue idee contagiose a scoprire quelle aree di tensione, quei
bacini di energia e a liberarla. Stimolare provocazioni creative
e consapevoli, letture alternative della realtà, in grado di rom-
pere gli schemi e di ristabilire un nuovo un equilibrio psichico,
evidenziando conflitti e attriti sociali in modo costruttivo. Non

232
puntare sull’adesione, punta sulla rivoluzione. È quello che da
sempre ha fatto la buona creatività. Destabilizzare per portare
le persone su un nuovo livello mentale, emozionale e spirituale.
Questa è l’evoluzione, questa è la creatività che crea valore umano.
Devi essere rivoluzionario! La marca dovrà diventare una guida
emozionale, mentale e spirituale. La marca da sense provider
diverrà un evolution provider o un soul maker come l’abbiamo
definita, in grado di riempire lo spazio dell’anima di senso. La
marca come portavoce di un’evoluzione sociale e culturale attra-
verso uno squilibrio positivo e costruttivo finalizzato a ricollocare
l’equilibrio su un nuovo livello. Elevazione, un salto quantico,
questo è il fine a cui tendere per il marketing del futuro.

233
Che fine ha fatto
Alex Bogusky?

«Non cercare un posizionamento sul mercato, ma il tuo senso


nella società» è il decimo principio del marketing non-con-
venzionale. Cosa vuol dire? Che un brand è principalmente
un fornitore di senso, un sense provider, come abbiamo visto.
Attraverso i suoi prodotti, offre simboli, crea mondi, sparge
pezzetti di senso qua e là che vanno ad alimentare l’energia
sociale. La chiave del successo delle marche si trova quindi
nella capacità di offrire pezzi di puzzle funzionali ai progetti
esistenziali degli individui, di generare mondi possibili evolu-
tivi che possano incanalare l’energia dei movimenti nati dalle
persone. Ogni brand deve scegliere consapevolmente quali
significati immettere nel sistema simbolico, quali mondi possibili
sostenere. Per questo le marche assumono nella contempora-
neità un ruolo politico: creano gli immaginari che incanalano e
orientano l’azione. Le marche costruiscono i mondi possibili che
cambiano il mondo. Diventare consapevoli del proprio ruolo di
sense provider puntando all’evoluzione, all’elevazione e al soul
making, significa per la marca imparare a mettersi in relazione
con le persone in maniera autentica, paritaria, continuativa e
disponibile all’ascolto e all’apprendimento. Entrambe le parti
avranno qualcosa da imparare e costruiranno in questo modo
un’esperienza e una prospettiva comune, condivideranno una

234
visione del mondo e un progetto su come renderlo migliore.
Faranno parte dello stesso movimento sociale che esiste per
chiedere un cambiamento.
Questo deve essere il tuo approccio alla progettazione di
un’idea contagiosa. è puntando al sostegno, all’incoraggiamen-
to, al supporto, alla ricerca del senso che riuscirai ad ottenere
il massimo. Non rimanendo alla superficie delle cose. Non per-
petuando la costruzione di un immaginario artefatto e dannoso
per le persone, ma immergendoti nella corrente, nell’energia del
mondo che sta cambiando. è così che riuscirai a far attecchire
le tue idee, che riuscirai ad ottenere il riconoscimento della co-
munità, a diventare parte del flusso sociale e culturale, ad essere
sempre di moda, interprete e protagonista riconosciuto dello
Zeitgeist, ovvero dello spirito del tempo.
«C’è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo, e
questa è un’idea il cui momento è ormai giunto» diceva Victor
Hugo. Come le idee più rivoluzionarie, allo stesso modo i tuoi
prodotti, la tua marca riuscirà a far scattare quei riflessi in grado
di trasformare le persone in moltiplicatori del messaggio. Tu sarai
loro e loro saranno te, parte dello stesso movimento orientato
all’evoluzione culturale, sociale e spirituale.
Quindi per favore basta con la ricerca del posizionamento.
Basta con strategie di conquista di porzioni della mente del
consumatore. Basta con l’idea che attraverso il bombardamento
e la ripetizione le persone apprendano a memoria la tua sto-
riella! Non puoi pensare che ti basti appendere la tua marca a
un quadrante semiotico e tanti soldi per essere vincente. Fino
a oggi le aziende hanno pensato che fosse sufficiente una po-
sizione di forza e la capacità di penetrazione nel mercato per
insegnare ai consumatori cosa comprare. Persuadere tramite
bombardamento e ripetizione, controllare le menti per con-
quistare fette di mercato. Ma Internet sta dimostrando che i
consumatori sono autonomi, hanno dinamiche proprie, compor-
tamenti auto-generati. Sono creatori. Puoi quindi solo cercare

235
di incanalare quella energia che già esiste. Il tuo marketing
può generare impulsi che funzionano solo se i consumatori lo
consentono. Sono le dinamiche della gente e dei movimenti a
prevalere, non quelle delle aziende. Sono loro a pianificare, non
i più i dipartimenti marketing! Al massimo potrai scegliere di
prendere parte e di sostenere i processi evolutivi delle persone,
liberi, creativi e dotati di dinamiche proprie. Per questo devi
puntare ad essere leader del movimento, ad essere riconosciuto
dalle persone come tale.
Devi inoltre sviluppare una maggiore sensibilità e l’intel-
ligenza emotiva tua e della tua azienda! Saranno le emozioni
a guidare le scelte di consumo. Il fattore emotivo e spirituale
orienterà sempre di più la società. La tendenza mostra una cre-
scente trasformazione a carattere spirituale. Una pressione dal
basso sta costringendo le grandi aziende a cambiare: crescono
i movimenti per la responsabilità sociale e la spiritualità negli
ambienti di lavoro, si afferma una maggiore sensibilità rispetto
agli effetti esterni dell’economia sulla società e alla dimensione
interiore e individuale. Le discipline olistiche, l’attenzione
all’ambiente, la sensibilità verso la giustizia sociale, lo svilup-
po personale e i modelli di vita sostenibili sono in fortissima
crescita. Come ti ho mostrato i «creativi culturali», persone
che acquistano in base a valori culturali e sociali, aumentano
in ogni parte del mondo. Questi rappresentano il futuro del
progressivo cambiamento sociale, ambientale ed economico e
molto presto si renderanno conto della loro forza e del ruolo
della «classe creativa» nella società e assumeranno presto una
«coscienza di classe». Anche all’interno delle aziende le persone
stanno iniziando a chiedere maggiore attenzione agli aspetti
immateriali e spirituali, più senso e significato nell’ambiente di
lavoro e nelle attività lavorative. Si cerca un lavoro che possa
riflettere la propria personale missione di vita. Anche per questo
molte aziende stanno chiarendo la propria visione e missione
allineandola a scopi più elevati e a un impegno più profondo

236
nell’interesse dei consumatori e dell’intera comunità. Sessioni
di meditazione vengono tenute in grandi realtà aziendali come
Apple, Google, Yahoo!, IBM e Cisco.
Un altro fattore che amplifica il cambiamento è la cosiddetta
«wikicrazia», termine coniato da Alberto Cottica4 per identifica-
re le dinamiche di democrazia diretta e partecipativa potenziate
dalla Rete che mettono a regime l’intelligenza collettiva e che
stanno cambiano la scena politica. Siti Web e social network
permettono lo scambio di idee fra milioni di partecipanti ren-
dendo possibili fenomeni di mobilitazione e azione mai visti
prima. La Rete in futuro avrà sempre più peso politico. Il
progetto Wikitalia, ispirato a modelli come MySociety in Gran
Bretagna e Code for America negli Stati Uniti, è l’iniziativa di
un gruppo di appassionati di Web e democrazia, che hanno
voluto mettere gratuitamente a disposizione delle città italiane
una piattaforma attraverso la quale sviluppare applicazioni che
garantiscano la trasparenza della politica, consentano il riutilizzo
dei dati pubblici e favoriscano la partecipazione dei cittadini.
MySociety è una società no profit che realizza progetti digitali
che migliorano la vita di una comunità come per esempio Fi-
xMyStreet e TheyWorkForYou, il primo – come ho già scritto
– utile per segnalare al comune le strade da sistemare, mentre il
secondo finalizzato a monitorare le attività degli amministratori
pubblici. Code for America è invece una fondazione che aiuta le
città americane a diventare più trasparenti e a utilizzare la forza
del Web per migliorare i servizi ai cittadini. Invia alle città che
aderiscono al progetto dei team di programmatori che insieme
ai city manager sviluppano soluzioni innovative come Dov’è il
mio scuola bus? che permette di vedere in tempo reale dove
si trova l’autobus che porta i bambini a casa e Mural App, un
database geolocalizzato della street art urbana, o ancora Scegli
la scuola che aiuta le famiglie nella scelta dell’istituto scolastico
più idoneo nel quale iscrivere i figli.
Questi progetti stanno realmente iniziando a influenzare

237
la politica e la società civile. La Rete rende più trasparente e
partecipativa la politica e i cittadini si stanno riprendendo il
loro ruolo creativo. E in questo periodo di rapidi cambiamenti
le aziende devono decidere da che parte stare: se fare scelte in
direzione del nuovo mondo che sta emergendo (compassione,
interconnessione, rispetto delle diversità, partecipazione) oppure
restare ancora legate alla paura, alla frustrazione, all’avidità,
alla rabbia, difendendo vecchie forme di dominio e di potere.
Un mondo del passato che l’umanità sta cercando con tutte le
forze di superare.
Anche tu fai parte di quella classe creativa così potenzial-
mente rivoluzionaria. Tu che ti occupi di comunicazione, che
sei un art director, un direttore creativo, uno strategic planner,
un designer, un account di una agenzia, un product manager,
un direttore marketing, un responsabile della comunicazione,
un social media manager, uno studente, un programmatore,
un libero professionista o un imprenditore con la sua piccola
o grande azienda che sia. Tu fai parte di quella classe creativa
e sei in grado di essere il propulsore del cambiamento. Non ci
avevi mai pensato?
In questa battaglia noi comunicatori abbiamo un ruolo fonda-
mentale: siamo infatti i soldati di uno degli eserciti più armati e
determinanti in questo scontro simbolico. Siamo noi ad operare
le scelte relative a una grossa parte degli investimenti militari di
questa guerra. Non ci credi? Non siamo forse noi a decidere
come utilizzare i budget in comunicazione che le aziende spen-
dono ogni giorno per far conoscere, amare e comprare i propri
prodotti? Noi siamo nelle aziende, nelle agenzie, nelle società
di consulenza, nelle amministrazioni pubbliche, nelle università,
nelle business school. Ovunque ci sia un’impresa, anche picco-
la, noi siamo le persone che determinano le scelte su «cosa» e
«come» comunicare.
Noi siamo la classe creativa e dobbiamo assumerci le nostre
responsabilità, iniziando a prendere seriamente coscienza della

238
sacralità della comunicazione. Abbiamo noi la responsabilità di
tutelare i simboli e l’immaginario collettivo. Da professionisti e
studiosi di marketing ci sembra fondamentale riflettere sul ruolo
della comunicazione in tutto questo. Creare significa essere con-
sapevoli del senso responsabilità che il nostro potere ci impone
e del delicato ruolo sociale di costruzione del mondo che a noi
comunicatori è stato affidato. Se è vero che la chiave del successo
delle marche si trova nella capacità di generare mondi possibili
che abbiano un senso per gli individui, chiedersi quali scenari
sponsorizzare, quali significati immettere nel sistema simbolico,
quale mondo possibile sostenere, deve essere il problema prin-
cipale del marketing manager. La ricerca di un posizionamento,
determinata solo da scelte strategiche di differenziazione e di
presidio di segmenti di consumatori – senza che vi sia una rifles-
sione sulle conseguenze sociali dei modelli di vita e di consumo
proposti – si rivelerà cieca e fallimentare in una società di con-
sumatori sempre più critici e consapevoli.
Così come un sistema di produzione sconsiderato inquina
l’ambiente, allo stesso modo i nostri progetti di comunicazione
sono in grado di alimentare frustrazioni e nei casi peggiori gravi
disagi psicologici e sociali. Hai mai sentito parlare di thinspira-
tion? Si tratta di modelli aspirazionali di magrezza estrema che
le ragazze affette da anoressia utilizzano per tenere duro nel loro
percorso di annichilamento della propria corporeità. Kate Moss
è uno di questi modelli ed è sostenuto da innumerevoli marche
della moda e prodotti di bellezza.
Se sei un comunicatore, non puoi non chiederti quale sia
stato il ruolo della comunicazione pubblicitaria in questa dege-
nerazione simbolica che ha permesso l’affermazione di modelli
così negativi. Leggere i blog pro-ana e pro-mia (come, in gergo,
le ragazze chiamano l’anoressia e la bulimia, quasi fossero entità
soprannaturali e divinizzate) dovrebbe farci riflettere profon-
damente sull’effetto degli stili di vita e di consumo proposti
dalla moda, dai media e dalla pubblicità. Modelli che, invece

239
di fornire incoraggiamento e supporto esistenziale alle perso-
ne – contribuendo in questo modo ad alimentare il benessere
sociale – stimolano invece le dinamiche più negative dell’animo
umano, contribuendo ad accrescere il livello di frustrazione, di
insoddisfazione, spesso di rabbia. Non dobbiamo poi stupirci,
se una volta tolta la luce dall’animo umano e spinte le persone
verso l’ombra, queste sprofondano nell’abisso.
Per questo è importante per te che sei un comunicatore
padroneggiare la tecnologia dell’animo umano. O vuoi trovar-
ti a fare la fine dell’apprendista stregone nel film Fantasia di
Walt Disney? Nel corso del viaggio che abbiamo fatto fino a
qui abbiamo evocato forze molto potenti, che dovrai essere in
grado di controllare, indirizzandole verso il bene della società.
è questa la strada scelta da uno dei video commerciali più virali
della storia, il celeberrimo Dove Evolution, uno dei video più
visti in assoluto su YouTube con oltre 150 milioni di visualizza-
zioni. Il video, premiato anche a Cannes con due Grand Prix,
il massimo riconoscimento per una pubblicità, mostra come la
classica «ragazza della porta accanto» si possa trasformare in una
supermodella grazie alla manipolazione congiunta di truccatori,
acconciatori, ma soprattutto di ritoccatori al computer. Il risultato
finale è sorprendente: dopo aver allungato il collo, ingrandito
gli occhi ed eliminato qualunque difetto, l’immagine originale
è trasformata in una bellezza stereotipata da impalcare su un
cartellone pubblicitario.
La campagna Dove Evolution, lanciata in tutto il mondo
nel 2006 all’interno della Campagna per la bellezza autentica,
è nata dalla volontà della marca di cambiare gli stereotipi
di bellezza dominanti nella realtà contemporanea. Per farlo,
l’azienda ha creato un fondo, il Fondo Dove per l’Autostima,
che finanzia una serie di attività educative e di comunicazione
allo scopo di aiutare le donne a sentirsi bene nel proprio corpo,
indipendentemente dalla taglia, dall’età e dal colore della pelle.
Un modo per lottare contro gli attacchi continui dei media che

240
insistono nel proporre ideali spesso irraggiungibili mettendo a
dura prova l’autostima femminile. Per questo nessun prodotto
Dove pubblicizza risultati irraggiungibili. Oltre a utilizzare
donne vere per le sue campagne, non modelle, senza ricorrere
a ritocchi fotografici che ne vadano a manipolare la bellezza,
Dove è arrivata a chiamare un linea di prodotti antinvecchia-
mento Pro.Age. «L’idea alla base della nuova linea Dove, per
le donne over 50», si legge sul sito, «sta proprio nel nome:
Pro.Age. Non un anti invecchiamento, bensì un prodotto per
vedersi belle alla propria età, ed esserne orgogliose. Contro la
mentalità anti invecchiamento, Pro.Age si propone di creare le
migliori condizioni per la pelle ed i capelli nel lungo periodo,
senza creare false illusioni nel breve periodo».

«Il modo migliore per predirre il futuro è inventarlo.


Per noi professionisti della comunicazione
il modo migliore è crearlo.»

Lo ha detto l’informatico statunitense Alan Kay. Ed è quello


che facciamo ogni giorno con le nostre campagne pubblicitarie
e di marketing, attraverso le immagini che veicoliamo, le storie
che raccontiamo, i valori che propugniamo, i simboli che adot-
tiamo. È così che giorno dopo giorno, brief dopo brief, marca
dopo marca, contribuiamo a plasmare l’immaginario del mondo
in cui viviamo. Creare per noi creativi significa immettere nel
sistema simbolico nuove idee. Nuove idee in grado di cambiare
il mondo e di renderlo potenzialmente migliore.
Se ne è sicuramente accorto Alex Bogusky, una delle grandi
menti creative dei giorni nostri, acclamato genio dell’agenzia
Crispin Porter + Bogusky. Alex ha lavorato alla costruzione
di brand per tutta la vita. Una vita di successi ai vertici delle
agenzie creative più importanti al mondo. È lui il Chief Culture

241
Officer, come lo chiamerebbe Grant McCracken alla base di
molte campagne di successo come quelle di Mini Cooper, Burger
King e Microsoft. A un tratto, ha capito che il mondo del mar-
keting non era più lo stesso e che non si trattava di un semplice
cambiamento, ma di una rivoluzione. La condivisione delle idee
aveva cominciato a plasmare una nuova concezione della comu-
nicazione e del mercato: il valore delle community, gli ideali di
apertura e trasparenza, l’attenzione per le tematiche ambientali
stavano diventando fattori centrali della conversazione globale.
Bogusky capisce che sono innanzitutto le aziende a dover recepire
questi segnali, che bisogna applicare quegli identici valori alla
gestione stessa dei brand: democrazia, fiducia, condivisione. E
che l’unico modo per creare reale valore nei marchi è aprirne la
gestione direttamente ai consumatori, puntando su un business
collaborativo piuttosto che sul classico modello competitivo.
Che cosa? I consumatori che si fanno il marketing da soli? Te
l’ho detto che è una rivoluzione.
Bogusky la chiama proprio «FearLess Revolution», come
a dire «state tranquilli e lasciate che gli altri vengano a voi».
Dopodiché riunisce un paio di amici (Rob Schuham della
Action Marketing Group e John Bielenberg della Project M)
e con sua moglie Anna comincia lavorare a un’idea diversa
di agenzia, a un accordo speciale tra business e utenti, a una
visione rivoluzionaria che colleghi in un unico brand, media,
innovazione e community. È così che nasce Common, il primo
brand interamente open source. «Community designed, commu-
nity owned e community directed», recita il manifesto ufficiale.
Praticamente un network vivente, fatto di persone creative,
senza gerarchie né organigrammi, in cui vengono proposti
non solo modelli commerciali innovativi, ma anche creatività
e competenze per la risoluzione di problemi sociali complessi.
Alcune delle intuizioni nate all’interno del gruppo, sono già
state approvate, sperimentate e finanziate stanno contribuendo
ad alimentare nuovi business e a ispirare ulteriori proposte per

242
migliorare il mondo. Un brand di tutti, aperto a tutti, che vive
delle idee di tutti.

Ora è arrivato il tuo momento. Per questo ti auguro di agire


con intenzione pura, con gioia e con amore. Se la tua idea non
sarà solo frutto di un calcolo economico, allora sarà veramente
creativa e sarà in grado di rendere il mondo migliore. Ricordi la
storia della Luce e del Vaso e del puzzle del mondo andato in
frantumi all’inizio di questo libro?
Come il Vaso ha ereditato dalla Luce la natura del suo
Creatore, vale a dire il potere di dare gioia, di condividerla e
di essere parte attiva nel processo della creazione, allo stesso
modo tu hai ereditato il potere di creare. Puoi essere causa
della tua felicità e di quella del mondo. Puoi contribuire con
le tue idee a rendere il mondo migliore. Ogni tuo atto creati-
vo progettato con le giuste intenzioni e realizzato con gioia e
amore ti avvicinerà alla natura del Creatore. Più sarai creativo,
più manifesterai la tua natura divina. È questo il segreto della
creatività: se la tua intenzione sarà mossa dall’amore, la tua
azione sarà senza ombra di dubbio creativa. Come ha detto
un guru indiano «Un’azione creativa accentua la bellezza del
mondo: dà qualcosa al mondo, non gli sottrae nulla. Una per-
sona creativa si presenta al mondo per amplificarne la bellezza
con un canto o un dipinto. Fa in modo che il mondo danzi di
più, goda di più, ami di più, mediti di più. E quando lo lascerà,
lascerà dietro di sé un mondo migliore».5 Ricorda sempre, a te
stesso e agli altri, che sei un Creator sempre e non dimenticarlo
mai. E allora, Create!

243
244
Appendice

245
246
Viral tips & tricks

Gli step di progettazione

In base al tipo di pubblico, prodotto e mercato di riferimento


potrai scegliere se basare la rilevanza psico-culturale su «valori ed
emozioni universali», come l’amore, la gioia, la speranza, oppure
se fare leva su «identità tribali condivise da un gruppo». Puoi
suddividere le fasi di progettazione in questo modo:

A. Progetta il viral-dna dell’idea (prodotto/brand/comunica-


zione)

1. Scegli una strategia e un gruppo sociale di riferimento e un


obiettivo
a) Universale basata su «valori universali» (pubblico più ampio).
Obiettivo: elevare lo stato vitale delle persone, fare inno-
vazione sociale e spirituale.
b) Tribale basata su «identità tribali» (pubblico più ristretto).
Obiettivo: rinnovare e vivificare la fede nei valori comuni,
agire sull’integrazione dei membri nel gruppo.
2. Identifica una «tensione psico-culturale» alla quale l’idea può
dare sfogo
3. Progetta l’idea con la formula Create!

247
B. Inserisci l’idea nei network sociali di riferimento

1. Identifica i potenziali moltiplicatori dell’idea (connector,


influencer, eccetera).
2. Elabora una seeding strategy (strategia di diffusione).
3. Distribuisci l’idea il più possibile.

C. Ottimizza il «viral loop»

1. Agevola la conversazione e la condivisione dell’idea


2. Monitora i risultati di diffusione e le reazioni del pubblico
3. Migliora l’idea in base ai feedback

La formula Create!

CATARSI
Dai voce a desideri, paure, frustrazioni, tabù, liberan-
doli
RIUSABILITÀ
Agevola il remix e la cooperazione creativa
EMOZIONI
Scatena emozioni forti in grado di far vibrare il cuore
ARCHETIPI
Utilizza forme e narrazioni archetipiche ed universali
TENSIONE
Identifica una tensione psico-culturale su cui fare
leva
ELEVAZIONE
Eleva la stato vitale, sociale e spirituale delle persone

248
Studiare una tribù

Qualche indicazione per capire come fare ad analizzare una


tribù ti sarà utile.1 Quello dell’etnografia è un metodo di ricerca
nato dall’antropologia e significa «descrizione di una cultura».
L’attività viene svolta grazie all’osservazione diretta degli indi-
vidui. Tramite:

• Ricerca di tipo documentaristico su giornali e riviste, libri, blog,


forum social network dedicati alla tribù
• Interviste in profondità semiguidate o non guidate a membri
della tribù, soli o in gruppo, nei luoghi tribali
• Osservazione partecipante o non partecipante di alcuni spazi
in cui la tribù si raduna, con particolare attenzione ai suoi
riti.

Puoi inserirti nel loro ambiente, partecipare della tribù per


studiarne gli abiti (costumi rituali), gli spazi (i luoghi di culto e
della memoria), le parole (slogan, formule magiche), le immagini
(idoli e icone)
Oppure puoi mapparne e analizzarne le conversazioni online
(netnografia) per rispondere a queste domande:

• Quali sono l’ethos della tribù e i suoi codici culturali (valori,


carattere, consuetudini, usi e costumi, norme, nemici, modi
di fare, parlare, agire, eccetera)?
• Intorno a quali pratiche avviene il loro agire comunitario?
• Quali emozioni spingono tali pratiche?
• Come si autorappresentano?
• Qual è il conflitto culturale e sociale che esprimono?
• Qual è il loro progetto di senso?

249
Individuare la tensione

Per individuare le tensioni psico-sociali puoi porti le seguenti


domande.

• Qual è il particolare «momento di vita» attraversato dal tuo


pubblico? Che tipo di crisi sta vivendo? Come puoi alleviare
le sue tensioni rafforzando il suo percorso evolutivo?
• Cos’è cambiato recentemente nella cultura dei consumi e
quali sono le implicazioni di questo cambiamento?
• Quali conflitti sociali, culturali e socioeconomici esistono
nelle vite delle persone nel mercato di riferimento?
• Come queste tensioni e conflitti si esprimono nella cultura
delle persone, nel linguaggio, nella musica, nella moda, nei
comportamenti, eccetera?
• Qual è il ruolo dei media nel creare, perpetuare o contrapporsi
a tali rappresentazioni culturali?
• In che modo la risposta a queste domande si riflette sul brand
e si relaziona al suo business?

Le funzioni emotive
e
zion
Gi
oia

etta
Acc

Antic
ipazio ra
ne Pau

Sor
pres
bia a
Rab
Tri
to

ste
gus

zz
Dis

250
funzioni emotive
Emozione Funzione Comportamento
Accettazione Incorporare Curare
Paura Protezione da Fuga
Sorpresa Orientare Fermarsi
Tristezza Re-integrare Piangere
Disgusto Rifiuto Vomitare
Rabbia Distruzione Attaccare
Anticipazione Esplorazione Mappare
Gioia Riproduzione Stare insieme

Fonte: www.maraimondo.it, elaborazione del modello di Plutchik

Il viral loop

Il viral loop è il processo positivo circolare per cui chi entra


in contatto con un’idea porta nuovi contatti all’idea stessa. È
importante ottimizzare questi quattro passaggi del processo:

• See: l’utente entra in contatto con l’idea e deve essere coinvolto.


L’idea cattura subito l’attenzione? È emozionante? È basata
su narrazioni universali?
• Click: l’utente deve decidere di farsi coinvolgere dall’idea.
Riduci le barriere alla fruizione, il contenuto e la call to action2
devono essere chiari e immediati
• Desire to share: all’utente deve venire il desiderio di condividere
l’idea. L’idea è irresistibile? Permette all’utente di dire agli
altri qualcosa di se (i suoi gusti, cosa pensa, quanto è unico,
eccetera)? Supporta un progetto di senso? È di stimolo alla
conversazione e alle relazioni sociali?
• Share: l’utente decide di condividerla quindi rendigli semplice

251
la vita. Mostra chiaramente le opzioni di condivisione (per
esempio facendogli trovare subito dei pratici social buttons),
oppure dopo che l’ha vista suggeriscigli di condividere l’idea.

Il Viral Loop

See

Share The Click


Viral Loop
SR CR
(share rate) (click rate)

N° condivisioni Desire N° click


to Share
N° contatti N° impression

Fonte: elaborazione dell’autore da http://momentusmedia.com/blog.3

Viral check list4

• L’idea è semplice? Vale a dire va al nocciolo della questione in


maniera concisa? L’esempio migliore sono i proverbi, semplici
ma non banali.
• È inaspettata? Rompe gli schemi, è sorprendente, in grado di
interessare e mantenere l’attenzione.
• È concreta? Fa riferimento ad esperienze reali, vissute, utili,
sensoriali.
• È credibile? Proviene da una fonte autorevole o si serve di
dettagli convincenti, oppure è in qualche modo verosimile,
usa credenziali o si basa su luoghi comuni.

252
• È emotiva? Senza emozione non c’è azione. Entra in pro-
fondità nel cuore delle persone, dei loro sentimenti, delle
loro motivazioni, dei loro interessi. Fa appello a valori e
identità.
• È una storia? Racconta una storia, un mito come quello di
Davide contro Golia, in grado di esprimere il potenziale
dell’essere umano, di restare dentro e di ispirare le persone
ad agire.

Non dimenticarti di…

• Conoscere il tuo pubblico ma soprattutto di rispettalo


• Pensare in maniera editoriale cercando di inserire il prodotto
nella narrazione
• Arrivare presto al dunque (o li agganci o li perdi)
• Fare riferimenti all’attualità tempestivi
• Non fare spottoni! (l’associazione al brand deve essere
sottile)
• Non confondere virale con low cost e low fi
• Fare seeding strategico (scegliendo bene i diffusori e inve-
stendo in distribuzione)

Il processo creativo5�

Esplorazione

• Studia bene il prodotto e il brand


• Analizza le conversazioni online sul prodotto, sul brand e sul
suo mercato
• Fai una ricerca etnografica sui moltiplicatori dell’idea
• Crea il tuo brief creativo (scritto con linguaggio umano non
in stile markettaro).

253
Ideas generation

• Parti dal pubblico e butta giù idee che rispondano a queste


domande:
• Cosa vuole vedere?
• Di cosa parla?
• Cosa odia? Cosa ama?

Sviluppo delle idee

Cerca di capire come includere il messaggio di marketing


senza che questo rovini l’idea:

• Può l’idea presentare il prodotto/ brand in un modo che sia


funzionale alla narrazione dell’idea stessa?
• Può il prodotto / brand essere integrato nell’idea senza dan-
neggiarla?
• Se non è possibile, allora cerca di essere umile e umano

Trattamento ed esecuzione

• Resta fedele all’idea


• Per le agenzie: combatti con il cliente se necessario, ne varrà
la pena
• Sii reale il più possibile
• Usa il linguaggio di Internet
• Non utilizzare attori, ma gente vera e luoghi reali

254
Viral-dna brief model

Data: ....... Account: .......

Cliente: .............. Prodotto/Campagna: ..............

Data dell’incarico: ....... Data presentazione: .......

Descrizione del progetto: una chiara e concisa descrizione


del progetto

Obiettivi: quali obiettivi di marketing e di comunicazione vuoi


realizzare?

Pubblico: descrivi il pubblico (cosa ama, cosa odia? di cosa parla


in rete? cosa ama vedere?)

Prodotto: descrivi il mercato, i competitor, il brand e il prodotto.

255
Strategic Insight: descrivi il ruolo della campagna nella strategia
di marketing generale.

Crisi/Paura da affrontare: qual è la crisi che sta attraversando


il pubblico? quali sono le paure con le quali si deve confrontare?

Bisogno umano: qual è il bisogno umano del pubblico (stabilità e


controllo/cambiamento e trasformazione, appartenenza e piacere/
indipendenza e realizzazione).

Tensione/Emozione/Catarsi: qual è la tensione su cui lavorare,


il contrasto da sanare? come l’idea aiuta il pubblico a sentirsi? che
emozioni suscitiamo per spingere alla condivisione?

Archetipo: quali modelli di significato e schemi narrativi vuoi


utilizzare?

256
Media/formati: indicare i formati o i media da utilizzare o da
evitare (video, advergame, application, eccetera).

Tempistiche: indica le principali tappe del progetto.

Fare attenzione: aggiungi tutto quello che non è compreso prima.

Next Step: i prossimi passi per arrivare al risultato.

257
258
I 10 principi fondamentali
della «sacra scuola
del marketing
non-convenzionale»

1. Dal Brand-dna al Viral-dna


Progetta la natura virale del tuo brand, prima di ogni cosa.

2. Dai Target alle Persone


Non ci sono target da colpire, ma persone con cui risuonare.

3. Dagli Stili di Vita ai Momenti di Vita


Esci dall’ufficio ed entra nelle tribù e nei loro momenti di
vita.

4. Dalla Brand Awareness alla Brand Affinity


Non puoi piacere a tutti. Scegli e alimenta le tue affinità.

5. Dalla Brand Image alla Brand Reputation


Non costruirti un’immagine, conquistati una buona reputa-
zione.

6. Dall’Advertising all’Advertainment
Non cercare di persuadere, ma diverti e stimola la conversa-
zione.

259
7. Dal Media Planning al Media Hunting
Cambia il tuo media planner con un «cool hunter» della
comunicazione.

8 Dal Broadcasting al Narrowcasting


Non ci sono solo i mezzi di massa, pensa a quanto è lunga
la coda.

9. Dal Market Position al Sense Providing


Non cercare un posizionamento sul mercato, ma il tuo senso
nella società.

10. Dal Fare Comunicazione all’ Essere la Comunicazione!


Quello a cui devi sempre aspirare è la coerenza dall’inizio
alla fine.

260
Note

Parte prima

Sei un Creator, non dimenticarlo

1. Yehuda Berg, Il potere della Kabbalah, Tea, Milano 2005.


2. Bernard Cova, Alex Giordano, Mirko Pallera, Marketing non-
convenzionale, Il Sole 24 Ore, Milano 2008.
3. http://www.nesta.org.uk/publications/assets/features/the_open_
book_of_social_innovation
4. http://www.fixmystreet.com/
5. Peccato che poi Vodafone non sia riuscita a mantenere la coerenza
con la propria comunicazione e sia stata accusata di collaborazionismo
avendo sospeso i collegamenti Internet e mobile su pressione del regime
nel disperato tentativo di sedare le rivolte.

Idee contagiose

1. Un meme, al contrario di un gene, che è qualcosa di organico,


è «un elemento di cultura che si trasmette per mezzi non genetici, in
particolare per l’imitazione» (tratto da Richard Dawkins, Il gene egoista,
Mondadori - De Agostini, Milano 1995).
2. Si trattava della Fiat Punto. http://www.youtube.com/watch?v
=b8JkzYFFYPs

261
3. Issai Chozanshi, Tengu Geijutsu ron (trad it. Reinhard Kammer,
Lo zen nell’arte di tirare con la spada, Feltrinelli, Milano 2009).
4. Jacques Séguéla, Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario...
Lei mi crede pianista in un bordello, Lupetti, Milano 1986.
5. http://www.youtube.com/watch?v=Kav0FEhtLug
6. http://www.youtube.com/watch?v=4-94JhLEiN0
7. Secondo Carlo Formenti Internet non avrebbe «ammorbidito»
il capitalismo bensì ne avrebbe esaltato la capacità di cavalcare l’inno-
vazione sfruttando la creatività e il lavoro prodotti gratuitamente dagli
utenti della Rete.
8. http://www.youtube.com/watch?v=fD1WqPGn5Ag
9. http://www.youtube.com/watch?v=dBZtHAVvslQ
10. http://www.youtube.com/watch?v=iYhCn0jf46U
11. Gli hashtag sono delle etichette precedute dal simbolo # che ser-
vono a identificare i temi di discussione su Twitter. I trending topic sono
i temi caldi del momento catalogati in base agli hashtag corrispondenti.
12. http://www.youtube.com/watch?v=rdyISvJOtFo

Viral history

1. http://www.youtube.com/watch?v=i_JS1YG8H2c
2. http://www.youtube.com/watch?v=-prfAENSh2k
3. http://www.youtube.com/watch?v=hKoB0MHVBvM
4. http://youtu.be/lAl28d6tbko
5. http://youtu.be/OjnNfo5Spa8
6. Paolo Iabichino, Invertising. Ovvero, se la pubblicità cambia il
suo senso di marcia, Guerini e Associati, Milano 2009.
7. http://youtu.be/Z9ajC2E4XYI
8. http://youtu.be/nelYIQUfR4E
9. http://youtu.be/fD1WqPGn5Ag
10. http://youtu.be/XP5yySEZub8

Sesso, gattini e cose assurde?

1. Marco Lombardi, Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie. Il


senso e il valore della pubblicità Franco Angeli, Milano 2008.
2. http://youtu.be/iuYiJXw51hM

262
3. http://youtu.be/OYecfV3ubP8
4. Luca De Biase, Economia della felicità: dalla blogosfera al valore
del dono e oltre, Feltrinelli, Milano 2007.
5. Il modello di brief è lo strumento che si usa in agenzia per ela-
borare una strategia di comunicazione e che riporta tutti gli elementi
necessari a progettare l’idea creativa.
6. Bernard Cova, Il marketing tribale, Il Sole 24 ORE, Milano 2010.
7. La brand equity è il valore della marca considerato come un
patrimonio aziendale con un proprio valore monetario.

Dio è virale

1. I più celebri pubblicitari al mondo che, storicamente, hanno le


loro sedi di lavoro nell’ampio viale newyorchese.
2. Alberto Melucci, Creatività: miti, discorsi, processi, Milano, Fel-
trinelli, 1994, p. 11.
3. Richard L. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa: stile di
vita, valori e professioni, Mondadori, Milano 2003.
4. Daniel H. Pink, A Whole New Mind: Moving from Information
Age to the Conceptual Age, Riverhead Books, New York 2005.
5. Philip Kotler, Hermawan Kartajaya, Iwan Setiawan, Marketing
3.0, Il Sole 24 ORE, Milano 2010. Philip Kotler è considerato il padre
del marketing. In Marketing 3.0 postula il passaggio a una nuova era del
marketing guidato dai valori e da proposte di valore emotive e spirituali.
6. Bernd H. Schmitt, Experiential Marketing. How to get Customers
to Sense, Feel, Think, Act and Relate to your Company and Brands, The
Free Press, New York 1999.
7. Emotional Branding. The new Paradigm for Connecting Brands
to People, Allworth Press, New York 2001.
8. Kevin Roberts, Effetto lovemarks. Vincere nella rivoluzione dei
consumi, Franco Angeli, Milano 2007.
9. James H. Gilmore, B. Joseph Pine II, Authenticity: What Consum-
ers really want, Harvard Business School Press, Boston 2007.
10. Martin Lindstrom, Brandwashed: Tricks Companies Use to
Manipulate Our Minds and Persuade Us to Buy, Crown Business, New
York 2011.
11. Marketing 3.0, op.cit., pp. 54-55.

263
Il Fronte di Liberazione dei Simboli

1. Danah Zohar e Ian Marshall Spiritual Capital: Wealth We Can


Live By, Berrett-Koehler Publishers, San Francisco 2004.
2. Richard Lloyd, Neo-Bohemia. Art and Commerce in the Postin-
dustrial City, Routledge, New York 2006.
3. I valori postmaterialisti in contrapposizione a quelli materialisti
danno la priorità all’auto-espressione, al senso di stima e di apparte-
nenza, all’estetica e alla difesa dell’ambiente.
4. Ronald Inglehart, La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano 1983.
5. Seth Godin, La chiave di svolta. Scegli di essere indispensabile,
Sperling & Kupfer, Milano 2010.
6. Charlene Li, Josh Bernoff, L’onda anomala: interagire e collaborare
con i consumatori ribelli, ETAS, Milano 2008.
7. Paul H. Ray e Sherry Ruth Anderson, The Cultural Creatives:
How 50 Million People are Changing the World, Harmony Books, New
York 2000.
8. Idem. I dati delle ricerche di Hay e Anderson sono stati aggiornati
nel volume di Enrico Cheli, Nitamo Montecucco, (con la partecipazio-
ne di Ervin Laszlo e Paul H. Ray) I creativi culturali, Xenia Edizioni,
Milano 2009.
9. «Illuminare l’altra faccia della luna» è una metafora presa in
prestito dal sociologo e mio mentore Alberto Melucci.
10. Fonte: Prima Comunicazione, dicembre 2010.http://www.prima
online.it/wp-content/plugins/Flutter/files_flutter/ 1302622979pag095
patuano.pdf
11. Jim Channon, tenente colonnello dell’esercito americano, aveva
ideato un corpo militare organizzato secondo una impostazione new
age. Il nome proposto per questo reparto era «Primo Battaglione
Terra».

Life’s for Sharing

1. Movimento politico-artistico nato attorno agli anni Sessanta. Uno


degli esponenti più noti del movimento fu Guy Debord che scagliandosi
contro la società delle immagini e della merce, elaborò la teoria della
«società dello spettacolo».

264
Il Web è il mio ’68!

1. Il concetto di copyright è stato messo in discussione dai movimenti


della Rete. È nato così quello di copyleft, che prevede che un conte-
nuto possa essere riutilizzato dagli utenti per scopi non commerciali
e citando la fonte.

Produco (senso), quindi sono

1. http://youtu.be/6gmP4nk0EOE

Do it yourself (DIY)!

1. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro,


Roma 2010.
2. Matt Mason, Punk capitalismo: come e perché la pirateria crea
innovazione, Feltrinelli, Milano 2009.
3. Fonte: http://www.reuters.com/article/2011/06/27/us-facebook-
gsvcapital-idUSTRE75Q2QO20110627

Dirottare un brand

1. Alex Wipperfürth, Brand Hijack. Marketing Without Marketing,


Portfolio, New York, 2005.
2. Nel 1985 la New Coke, una nuova formula di Coca-Cola realiz-
zata per contrastare Pepsi, fu fortemente criticata dai consumatori che
costrinsero l’azienda a tornare sui propri passi.

Greed is (not) good

1. Alberto Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti, identità,


bisogni individuali, Il Mulino, Bologna 1982.
2. Kevin Kelly, «The New Socialism: Global Collectivist Society is
Coming on Line», Wired US, giugno 2009, p.116.

265
3. Tara Hunt, The whuffie factor: using the power of social networks
to build your business, Crown Business, New York 2009.
4. Cory Doctorow, Down and Out in the Magic Kingdom, Tor Books,
New York 2003.
5. Chris Anderson , Gratis, Rizzoli, Milano 2009.
6. Gary Vaynerchuk, The Thank You Economy, HarperBusiness,
Londra 2011.

L’economia del dono

1. Mauss, Marcel, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio


nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002.
2. Per il report completo si veda: http://danzarrella.com/viral-
content-sharing-report-motivations

Parte seconda

Mossi da un pathos condiviso

1. Michel Maffesoli, Il tempo delle tribù, Guerini e Associati, Mi-


lano, 2004
2. La psicologia transpersonale è una branca della psicologia il cui
studio si estende alle esperienze e agli stadi di coscienza che trascen-
dono i limiti dell’io personale e della razionalità convenzionale. Una
definizione del Journal of Transpersonal Psychology suggerisce che la
psicologia transpersonale «riguarda lo studio della più alta potenzialità
dell’umanità e il riconoscimento, comprensione e realizzazione degli
stati di coscienza unitivi, spirituali e trascendenti».
3. Vocabolario degli accademici della Crusca. 4° edizione (1729-
1738).
4. Fritjof Capra, Tao della Fisica, Adelphi, Milano 1989.
5. Ken Wilber, Sex, Ecology and Spirituality. The Spirit of Evolution,
Shambhala, Boston 2000.
6. Platone, Simposio, 192e.

266
Progettare il viral-dna

1. Seth Godin, La mucca viola, Sperling & Kufer, Milano 2004.


2. http://youtu.be/eH3GH7Pn_eA
3. http://youtu.be/z92HZpSps60
4. http://youtu.be/dBZtHAVvslQ
5. Georges Sorel, Scritti politici: Riflessioni sulla violenza; Le illu-
sioni del progresso; La decomposizione del Marxismo, a cura di Roberto
Vivarelli UTET, Torino 1963. In Riflessioni sulla violenza, scritto nel
1906, George Sorel approfondisce il mito dello sciopero generale, una
forza motrice che fa appello all’emozione e che è in grado di infiammare
il proletariato.
6. Il film diretto da Eduardo Sánchez e Daniel Myrick nel 1999.
7. http://www.youtube.com/watch?v=6B26asyGKDo
8. http://youtu.be/7Jj32zCDurc
9. http://www.youtube.com/watch?v=FkHmV0s3PjE
10. http://www.youtube.com/watch?v=SXoHoKPsmR0

Cosa ci insegnano i miti e le leggende urbane

1. Malcolm Gladwell, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli


cambiamenti, Rizzoli, Milano 2000.
2. Zeitgeist: The Movie, diretto da Peter Joseph nel 2007. http://
www.zeitgeistmovie.com
3. Chip e Dan Heath, Idee forti. Dalle leggende metropolitane ai
prodotti: perché alcuni concetti durano e altri no, ETAS, Milano 2007.

Tutti vogliono essere il DJ

1. http://www.nfb.ca/film/rip_a_remix_manifesto/
2. Lawrence Lessig, Cultura libera. Un equilibrio fra anarchia e
controllo, contro l’estremismo della proprietà intellettuale, Apogeo,
Milano 2005. Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni),
ETAS, Milano 2009.
3. http://www.youtube.com/watch?v=EzF-78n60II.
4. Henry Jenkins, Cultura Convergente, Milano, Apogeo, 2007.

267
Si veda anche «Confessions of an Aca-Fan», il blog di Jenkins: www.
henryjenkins.org
5. http://www.youtube.com/watch?v=HwU2t3BJtiM
6. Douglas Holt, Douglas Cameron, Cultural Strategy: Using In-
novative Ideologies to Build Breakthrough Brands, Oxford University
Press, New York 2010.
7. Erik Hamburger Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1982.

La catarsi come finalità

1. http://youtu.be/w42ycMkAhVs di Javier Prato.


2. Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di
scrittori di narrativa e cinema, D. Audino, Roma 1992.

Dalle tribù agli emotoni

1. Rosa Ucci, Nostalgia, tradimento, amore: viaggio all’interno del


tango, Gruppo Editoriale Tabula Fati, Chieti 2011.
2. Egeria Di Nallo, Quale marketing per la società complessa?, Franco
Angeli, Milano 1998.
3. Bernard Cova, Il marketing tribale, Il Sole 24 Ore, Milano 2010.
4. Georg Simmel, Frammento postumo sull’amore, Mimesis Edizioni,
Gemona del Friuli 2011.
5. http://www.chucknorrisfacts.com/
6. http://www.spinoza.it/

«I mercati sono emozioni»

1. Robert Plutchik, Emotion. A Psychoevolutionary Synthesis, Harper


& Row, New York 1980.
2. Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010.
3. Daniel Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva, Rizzoli,
Milano 1998.
4. Eugene Provenzo, Video Kids: Making Sense of Nintendo, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1991.

268
5. Arlie Russell Hochschild, The Managed Heart. Commercializa-
tion of Human Feeling, University of California Press, Berkeley 2003.
6. Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il
Mulino, Bologna1969. Secondo Goffman la vita è un teatro dove il
comportamento individuale è determinato dalle relazioni sociali e dalla
rappresentazione che le persone vogliono dare di se agli altri.
7. Angela Dobele, Adam Lindgreen, Michael Beverland, Why Pass
on Viral Messages? Because They Connect Emotionally (Research Memo-
randum, University of Hull, Business School, Hull 2007.
8. http://www.youtube.com/watch?v=z92HZpSps60

Gli archetipi come attivatori di emozioni

1. James Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino,


Adelphi, Milano 1998.
2. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Guanda, Parma 2000.

L’Archetypal Branding

1. Grant McCraken, Chief Culture Officer. How to Create a Living,


Breathing Corporation, Basic Books, New York 2009.
2. Margaret Mark, Carol S. Pearson, The Hero and the Outlaw. Build-
ing Extraordinary Brands Through the Power of Archetypes, McGraw-
Hill, New York 2001.

Alla scoperta del codice culturale

1. MANCANO RIFERIMENTI
2. Clotaire Rapaille, The Culture Code. An Ingenious Way to Un-
derstand Why People Around the World Live and Buy as They Do,
Broadway, New York 2006.
3. Douglas Holt, Douglas Cameron, Cultural Strategy. Using In-
novative Ideologies to Build Breakthrough Brends, Oxford University
Press, New York 2010.
4. http://www.slideshare.net/scenariodna/culture-networks-lecture

269
5. «The Transformer Generation»: http://www.slideshare.net/
scenariodna/transformer-generation-presentation
6. «What Unites Global Youth»: http://www.scenariodna.com/
subpage/work/culturemap2.html

Il brand come soul maker

1. Robert Moore e Douglas Gillette, The Warrior Within. Accessing


the Knight in the Male Psyche, Avon Books, New York 1993. Moore è
uno psicologo junghiano, Gillette è attivista del movimento maschile
americano che supporta il cambiamento dello stereotipo di genere.
2. http://www.masculinity-movies.com/articles/king-warrior-ma-
gician-lover

Verso un marketing spirituale

1. Pier Pietro Brunelli, «Psicologia della Pubblicità», http://


www.albedoimagination.com/archivio/copysauvage/Psi%20
Pubblicit%C3%A0_2.htm
2. Paul Polman, discorso al Cannes Advertising Festival 2011.

Innescare un movimento sociale

1. http://www.youtube.com/watch?v=OYecfV3ubP8
2. http://www.youtube.com/watch?v=USn5t5nQWU8
3. Gli Adbusters sono un movimento che propone gesti di sovver-
sione simbolica attraverso una contro-pubblicità incentrata su temi
sociali e ambientali.

Il Chief Meaning Officer

1. Gerd Gerken, Addio al marketing, ISEDI, Torino 1994.


2. Si veda nella sezione in Appendice: «I dieci principi del marketing
non-convenzionale».
3. www.comesuonailcaos.it

270
4. Alberto Cottica, Wikicrazia: l’azione di governo al tempo della
rete. Capirla, progettarla, viverla da protagonista, Navarra Editore,
Marsala- Palermo 2010.
5. Osho, La creatività, Edizioni Riza, Milano 2005.

Appendice

Viral tips & tricks

1. Bernard Cova, Il marketing tribale, Il Sole 24 ORE, Milano 2010.


2 La call to action è un messaggio chiaro e semplice con cui si chie-
de all’utente: «Guarda questo video», «Iscriviti al sito», «Partecipa al
concorso», eccetera
3. Per i più matematici: è possibile calcolare un Viral Index = (Click
rate x Share rate)/100. Se il Viral Index supera 1 l’idea avrà un buon
livello di contagioso, se è inferiore riceverà comunque un effetto di
moltiplicazione che ottimizzerà gli investimenti.
4. Cfr. Chip Heath, Idee forti. Dalle leggende metropolitane ai
prodotti: perché alcuni concetti durano e altri no, ETAS, Milano 2007.
5. Si ringrazia Matt Smith di The Viral Factory per gli spunti di
questo paragrafo.

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