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Solitudine e titanismo
dell’eroe classico
La figura dell’eroe sembra essere una costante imprescindibile, quasi necessaria, nella concezione
mitologica e letteraria della cultura classica. Questo perché gli eroi, a differenza delle divinità, si
fanno portavoce ed interpreti del mondo reale e ne incarnano in maniera esemplare le ansie e i
conflitti; si presentano e pongono come modello e sprone per la coscienza individuale e collettiva.
Se la tipologia prevalente di eroe era quella «classica», che vedeva nell’uomo l’incarnazione del
principio greco del kalòs kai agathòs, «bello e buono», inteso come modello di umano ideale,
simbolo di speranza, colui che aderisce volontariamente alle istituzioni e alle leggi del proprio
tempo e lotta per la loro difesa, in antitesi si staglia l’eroe «titanico», in contrasto con la società, che
combatte strenuamente contro i condizionamenti della natura e le contraddizioni del reale e vive in
modo drammatico la consapevolezza di non poter eludere un destino prestabilito e funesto. In
particolare è con la nascita della tragedia che si assiste al progressivo ingresso nella scena letteraria
di questo prototipo di eroe, nato dalla ripresa di personaggi propri della tradizione epica (l’eroe
classico di cui sopra), a cui vengono al contempo attribuite caratteristiche psichiche e
comportamentali influenzate dall’ambito lirico, che rendono l’individuo maggiormente instabile e
sottoposto a colpe e ripensamenti.

Un esempio emblematico sono i personaggi delle opere del tragediografo Sofocle (479 a.C.-406
a.C.). La critica è sostanzialmente concorde, infatti, nel definire l’eroe sofocleo il primo
personaggio moderno nella storia del teatro; una modernità che viene garantita dal profondo
spessore psicologico da cui egli è caratterizzato. È una figura fortemente dinamica, capace di
evolversi, riflettere su di sé e cambiare idea in relazione ai fatti e ai personaggi che gli ruotano
attorno; coloro che ostentano sulla scena il proprio fare eroico, sono gli stessi che nel momento
della scelta rivelano tutte le loro debolezze e insicurezze, sottoposti continuamente a dubbi e
ripensamenti. Si trova ad agire in una condizione di profonda solitudine, una solitudine che deriva
dall’incapacità di adattarsi ad un mondo che cambia, e in cui non riesce a riconoscersi. Le figure
che lo circondano sono poi lontane, ed acuiscono in lui quel senso di straniamento poiché incapaci
di comprenderlo. A questo ritratto è perfettamente riconducibile il personaggio di Antigone,
protagonista dell’omonima tragedia, risalente al 442 a.C. Antigone decide di contravvenire alla
legge emanata dal re di Tebe Creonte e rendere gli onori funebri al fratello Polinice, reo di aver
attaccato la sua città natia per prenderne il comando. Scoperta, catturata e portata al cospetto di
Creonte, ella rivendica il suo diritto e dovere nell’agire secondo la legge divina, accettando la
sentenza di morte a cui è condannata. L’uomo in seguito cambierà idea, ma sarà troppo tardi:
Antigone si è già tolta la vita. L’eroina è consapevole sin dall’inizio che con le sue azioni andrà
incontro alla morte; anche nella scena iniziale, nello struggente dialogo con Ismene, ella si rivolge
così alla sorella:
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ἀλλ᾽ ἴσθ᾽ ὁποῖά σοι δοκεῖ, κεῖνον δ᾽ ἐγὼ Scegli il tuo modo d'essere seguilo. A
θάψω· καλόν μοι τοῦτο ποιούσῃ θανεῖν. lui laggiù darò una fossa. Dopo l'azione
φίλη μετ᾽ αὐτοῦ κείσομαι, φίλου μέτα, morirò. Sarà esaltante. M'allungherò al
ὅσια πανουργήσασ᾽. ἐπεὶ πλείων χρόνος suo fianco sua. Al fianco d'uno mio.
ὃν δεῖ μ᾽ ἀρέσκειν τοῖς κάτω τῶν ἐνθάδε. 75 Devota fuorilegge. È fatale: dovrò
ἐκεῖ γὰρ αἰεὶ κείσομαι· σοὶ δ᾽, εἰ δοκεῖ, farmi accettare dai sepolti più tempo
τὰ τῶν θεῶν ἔντιμ᾽ ἀτιμάσασ᾽ ἔχε. che da questa gente viva.
Sofocle, Antigone, vv 71-77

Il dissidio ideologico tra le due è profondo e incolmabile. Si inizia qui a manifestare, con forza
irruente, il carattere eroico di Antigone: risoluta, a tratti aggressiva, determinata nel perseguire a
ogni costo l’intento prefissato, statuaria di fronte alle obiezioni della sorella. La reticenza di Ismene
deriva proprio dalla consapevolezza di una morte certa, destino che per Antigone diviene invece
«esaltante», perché sa che morirà per la propria devozione alla famiglia. Straziante e drammatico è
il lamento lirico di Antigone nel quarto episodio: la donna si prepara ad abbandonare la vita, e
profondamente turbata, sente su di sé il peso di una vita che non vivrà, l’incompletezza della sua
esistenza brutalmente interrotta, e finisce per interrogarsi sulla validità delle sue azioni.

ἐλθοῦσα μέντοι κάρτ᾽ ἐν ἐλπίσιν τρέφω Cammino, e ho dentro una speranza viva, di
φίλη μὲν ἥξειν πατρί, προσφιλὴς δὲ σοί, arrivare gradita al padre, gradita a te, madre,
μῆτερ, φίλη δὲ σοί, κασίγνητον κάρα· gradita a te, fratello. Perché, una volta morti, io
ἐπεὶ θανόντας αὐτόχειρ ὑμᾶς ἐγὼ 900 con le mie mani ho rialzato i corpi, li ho lavati e
ho versato libagioni sulle fosse; ora, Polinice,
ἔλουσα κἀκόσμησα κἀπιτυμβίους
poiché ho ricoperto il tuo cadavere, ricevo questo
χοὰς ἔδωκα. νῦν δέ Πολύνεικες, τὸ σὸν
trattamento. Eppure io ti onorai giustamente per
δέμας περιστέλλουσα τοιάδ᾽ ἄρνυμαι. coloro che hanno senno. […]
καίτοι σ᾽ ἐγὼ ᾽τίμησα τοῖς φρονοῦσιν εὖ. […] In ragione di quale principio affermo dunque
τίνος νόμου δὴ ταῦτα πρὸς χάριν λέγω; queste cose? Potrei avere un altro marito, se me ne
πόσις μὲν ἄν μοι κατθανόντος ἄλλος ἦν, fosse morto uno, e figlio da un altro uomo se
καὶ παῖς ἀπ᾽ ἄλλου φωτός, εἰ τοῦδ᾽ ἤμπλακον, avessi perso questo; ma poiché padre e madre
μητρὸς δ᾽ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν giacciono nell’Ade, non c’è un fratello che
οὐκ ἔστ᾽ ἀδελφὸς ὅστις ἂν βλάστοι ποτέ. […] potrebbe mai nascere. […]
ποίαν παρεξελθοῦσα δαιμόνων δίκην; Quale norma divina ho trasgredito? Perché mai
τί χρή με τὴν δύστηνον ἐς θεοὺς ἔτι bisogna che io, infelice, mi rivolga ancora agli
dei? Chiedere che uno sia mio alleato, quale? dal
βλέπειν; τίν᾽ αὐδᾶν ξυμμάχων; ἐπεί γε δὴ
momento che compiendo un gesto devoto sono
τὴν δυσσέβειαν εὐσεβοῦσ᾽, ἐκτησάμην.
stata accusata di empietà. Ma se questo è giusto
ἀλλ᾽ εἰ μὲν οὖν τάδ᾽ ἐστὶν ἐν θεοῖς καλά, 925 tra gli dei, dopo aver vissuto il mio dolore potrò
παθόντες ἂν ξυγγνοῖμεν ἡμαρτηκότες· riconoscere di aver sbagliato; ma se sono questi a
 εἰ δ᾽ οἵδ᾽ ἁμαρτάνουσι, μὴ πλείω κακὰ sbagliare, soffrano gli stessi mali che fanno
πάθοιεν ἢ καὶ δρῶσιν ἐκδίκως ἐμέ. ingiustamente a me.

vv. 897- 904; 908-912; 921-928


Cerca una conferma alle sue scelte, che sia sufficiente a rendere quella morte, se non sopportabile,
almeno degna di essere affrontata. Alla fine ella riesce a raggiungere una consapevolezza superiore:
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se il suo destino è gradito agli dei, così sia; in caso contrario, coloro che l’hanno condannata a
quella sofferenza riceveranno una punizione altrettanto dolorosa. È in questo ultimo, disperato canto
di morte, che la solitudine del personaggio diviene viva e quasi tangibile: l’appello che rivolge alle
divinità è vano ed inutile, perché anch’esse l’hanno abbandonata, come Ismene prima, e il popolo di
Tebe poi; Antigone è sola di fronte all’atto finale della sua esistenza, con l’unica compagnia dei
morti che si appresta a raggiungere, e la strenua consapevolezza che il suo è un gesto di ribellione in
onore della libertà.

«Potessero esporre il mio capo condannato per espiare le pene di tutti». Così enuncia Catone
Uticense nel secondo libro del Bellum civile (o Pharsalia) di Lucano (39 d.C-65 d.C.), in un lungo
discorso rivolto a Bruto, suo nipote, dubbioso riguardo il partito da prendere nell’imminente
prospettiva di una guerra civile tra Cesare e Pompeo. L’uomo, riconosciuto come guida morale e
politica di tutti coloro che nutrivano sentimenti libertari, sostiene che il bene supremo per Roma sia
la pace; tuttavia, in una situazione come quella, in cui la guerra è inevitabile, Catone decide di
schierarsi, per non abbandonare la patria al proprio destino di rovina. Il personaggio di Catone è
l’unico, nell’opera lucanea, a rivestire il ruolo di un vero e proprio eroe, incarnando un nuovo ideale
di sapiens stoico e al contempo la figura ideale del politico repubblicano. Il suo personaggio è
funzionale all’autore, che lo innalza a simbolo della libertà individuale e della repubblica, e
dell’antica saggezza stoica, da contrapporre sia alla condizione di decadenza e crisi dello stoicismo
contemporanea a Lucano, sia alla caduta della repubblica e all’avvento dell’impero, che il poeta
associa ad una più generale fine di Roma in sé come patria della libertà e del diritto. La figura di
Catone viene introdotta nel poema attraverso il celebre verso del primo libro victrix causa deis
placuit, sed victa Catoni, «la causa dei vincitori piacque agli dei, ma quella dei vinti a Catone»,
emblematica per comprendere e interpretare il personaggio nel ruolo di ultimo tutore della res
publica. Nell’agire, Catone è spinto dalla sua totale ed innegabile devozione alla patria: egli non
può rimanere immobile e indifferente di fronte allo scempio che si abbatte su Roma, di fronte al
crollo della sua città e degli ideali che l’hanno sostenuta, pur consapevole che la sua causa non è
destinata a prevalere, perché ha su di sé l’avversione degli dei. Nonostante questo, è pronto a
combattere fino alla fine, accompagnando fedelmente Roma attraverso il suo cammino di morte,
come un padre fa con la salma del proprio figlio, nel tentativo ultimo e disperato di tenerlo in vita
più a lungo. Catone ama talmente tanto la libertà e ha un così profondo senso del dovere, che pur
essendo sicuro della sconfitta decide di partecipare alla guerra. Di fronte all’ingiustizia degli dei,
nell’estremo tentativo di salvare la patria, Catone si abbandona alla prospettiva di un martirio,
offrendo la propria vita in cambio di quella della Repubblica. Sono, quelle pronunciate, le parole di

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un eroe che si avvia, solo e consapevole, verso la sconfitta e la morte certe, non tanto come esito di
un’ipotesi utopica di vittoria, quanto come il compimento di un sacrificio dovuto ai propri ideali.

Lucano, Pharsalia, II, vv. 284- 319

Sic fatur; at illi exanimem quam te conplectar, Roma; tuumque


arcano sacras reddit Cato pectore voces. 285 nomen, Libertas, et inanem, persequar umbram.
«Summum, Brute, nefas civilia bella fatemur, Sic eat: inmites Romana piacula divi
sed quo fata trahunt virtus secura sequetur. Plena ferant, nullo fraudemus sanguine bellum.
Crimen erit superis et me fecisse nocentem. O ultimìnam caelique deis Erebique liceret
Sidera quis mundumque velit spectare cadentem Hoc caput in cunctas damnatum exponere
expers ipse metus? Quis, cum ruat arduus aether, poenas!
terra labet mixto coeuntis pondere mundi, Devotum hostiles Decium pressere catervae:
complossas tenuisse manus? Gentesne furorem Me geminae figant acies, me Barbara telis
Hesperium ignotae Romanaque bella sequentur Rheni turba petat, cunctis ego pervius hastis 310
Diductique fretis alio sub sidere reges, Excipiam medius totius volnera belli.
otia solus agam? Procul hunc arcete furorem, Hic redimat sanguis populous, hac caede luatur
295 Quidquid Romani meruerunt pendere mores.
o superi, motura Dahas ut clade Getasque Ad iuga cur faciles populi, cur saeva volentes
securo me Roma cadat. Ceu morte parentem Regna pati pereunt? Me solum invadite ferro, 315
natorum orbtum longum producere funus me frustra leges et inania iura tuentem.
ad tumulos iubet ipse dolor, iuvat ignibus atris Hic dabit hic pacem iugulus finemque malorum
inseruisse manus constructoque aggere busti 300 Gentibus Hesperiis: post me regnare volenti
ipsum atras tenuisse faces, non ante revellar Non opus est bello.

Così parla; Catone gli risponde venerande parole esanime, o Roma, il tuo nome, o Libertà, e di aver
dal segreto del cuore: “O Bruto, definiamo le seguito un’ombra vana. Vada così; gli dei
guerre civili un supremo abominio, ma un deciso impietosi sacrifichino con dovizia i Romani; non
valore seguirà la strada dei fati; diventi colpevole defraudino di alcun sangue la guerra. Gli dei del
anche io; sarà delitto agli dei! Chi vorrà vedere le cielo e dell’Erebo potessero esporre il mio capo
stelle del mondo crollare restando immune da condannato per espiare le pene di tutti! Le schiere
orrore? Chi mai allo schiantarsi dell’alto etere e al nemiche abbatterono Decio votato ai Mani: me
vacillare della terra per il peso e l’urto del mondo trafiggano entrambi gli eserciti, l’orda selvaggia
terrà le braccia incrociate? Popoli sconosciuti, e re del Reno mi assalga coi dardi; bersaglio, nel
separati dal mare sotto un cielo diverso mezzo, riceverò tutte le aste, le ferite di tutta la
seguiranno il furore d’Esperia e le guerre romane, guerra. Il mio sangue redima i popoli, la mia
e io solo resterò in ozio? Allontanate da me, o morte espii quanto i costumi romani avranno
Celesti, una tale follia, che Roma cada meritato di pagare. Perché lasciar perire i popoli
commovendo con il disastro i Dahi e i Geti, docili al giogo, disposti a subire crudeli
lasciandomi indifferente, come il dolore induce un dominazioni? Aggredite col ferro me solo, che
padre orbato dei figli a prolungare le esequie inutilmente proteggo le leggi e il diritto. La mia
davanti alle tombe, e gli è di conforto protendere gola concederà la pace e la fine delle sventure ai
le mani tra il fumo dei fuochi, ed eretta la catasta popoli esperii; dopo di me chi desideri regnare
tenere lui stesse le funebri fiaccole, non mi lascerò non avrà bisogno di guerra.
strappare prima di aver abbracciato il tuo corpo

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C’è un sentore amaro nelle parole di Catone, che scaturisce direttamente dal senso di impotenza di
fronte alla certezza di ciò che attende Roma. Egli sa che ogni azione che compirà per la difesa della
sua patria sarà inutile; l’unico gesto di effettiva portata morale che può compiere è offrire la propria
vita come capro espiatorio per le colpe di tutti i romani. Solo con la morte egli può battersi
veramente per la libertà, propria e di Roma.
Per quanto diverse, per età, sesso, regione e cultura, le due figure di Antigone e Catone sono
incredibilmente simili e riconducibili l’una all’altra: entrambi si sono distinti come simbolo di
libertà morale, di fermezza di carattere e di senso della giustizia, incarnando alla perfezione
quell’ideale di eroe solitario e titanico. Entrambi infatti si ritrovano a combattere da soli per i propri
ideali: Antigone è abbandonata da tutti, anche dalla sorella, sola di fronte all’intera città che, pur
essendo d’accordo con lei, non ha il coraggio di ribellarsi al potere di Creonte, e nonostante ciò ella
combatte fino alla fine, senza mai cedere; Catone, al contrario, sceglie consapevolmente di
immolarsi come unico capro espiatorio e tributo agli dei, facendosi simbolicamente carico di tutta la
violenza, il dolore e la morte destinati al popolo romano. E non solo: essi sanno già in partenza che
le loro azioni li condurranno alla morte. È questo l’atteggiamento tipico titanico, che spinge alla
ribellione pur nella consapevolezza del suo inevitabile fallimento, contro tutte quelle forze, terrene
o superiori, che dominano l’uomo e ne opprimono l’esistenza e la volontà. Nonostante la
consapevolezza a priori della sconfitta, essi combattono tenacemente per i valori in cui credono: per
Antigone il ghenos e il rispetto delle divinità valgono più della sua stessa vita, proprio come per
Catone i propri ideali di libertà e la patria valgono il suo sacrificio. Analogamente all’eroina
sofoclea, che vede nella famiglia il nucleo della propria esistenza, anche nell’episodio di Catone vi
è un riferimento, metaforico, all’ambito famigliare, che riesce però a suscitare una fortissima
tensione emotiva. Si immedesima nella figura di un padre: come questo, avendo appena perso il
proprio figlio, ne prolunga le esequie ed il compianto, non volendolo lasciar andare, e cercando di
tenerlo in vita il più possibile, così Catone mai abbandonerà la propria patria, pur nel momento della
sua definitiva disfatta. Ma il vero, profondo motore d’azione, ciò che spinge i due eroi a sfidare le
leggi umane e divine e arrivare a morire per le proprie convinzioni, è la libertà. Ricerca indefessa
della libertà da parte di Catone, che preferirà togliersi la vita piuttosto che inchinarsi e chiedere
pietà ad un despota e tiranno quale Cesare; rivendicazione e lotta per la propria libertà di coscienza
in Antigone, libertà di seguire le proprie convinzioni religiose e morali, sciolta dai vincoli di leggi
terrene e disumane emanate da un tiranno.

Un inno alla libertà, alla fedeltà rispetto alle proprie convinzioni ed ideali, è quindi quello celebrato
da Antigone e Catone, un esempio potente che arriva ancora oggi a comunicare valori inalienabili e

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fondamentali, che insegna a lottare strenuamente per ciò in cui si crede e ad essere sempre coerenti,
integri e «padroni di sé stessi».

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