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16b.

La concezione dell’amore

Già Lucrezio, nel IV libro del De rerum natura, aveva descritto gli effetti
devastanti dell’amore. Anche Virgilio ce ne dà un’immagine negativa.
Limitatamente alle Georgiche, l’analisi lessicale ne è la riprova; l’amore vi è
definito: cura, dementia (3 occorrenze), error, exitium, furor (5 occorrenze),
insania; l’amore è affanno, spasimo (cura nell’accezione propria della poesia
d’amore), un uscire di mente (dementia, insania), un andar errando, uno
smarrirsi (error), una furia, una frenesia (furor), e infine rovina, morte (exitium).
Questo ardore incontrollabile appartiene propriamente a tutti gli animali, ad
eccezione delle api (IV, vv. 198-199). Virgilio ne descrive gli effetti nel passo
del libro III delle Georgiche, ai vv. 219-241, in cui è rappresentata la lotta dei
tori per il possesso della femmina. Tuttavia l’amore così inteso non è dei soli
animali, ma anche degli uomini (III, vv. 242-244):

Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque


et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres,
in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem.

A tal punto ogni razza terrestre, di uomini, di fiere,


e la razza acquatica, e gli armenti, e i colorati uccelli
precipitano in un ardore furioso: amore è uguale per tutti.

L’amore è un istinto vitale ed è quindi universale e irresistibile; induce a


polarizzare su di sé ogni attenzione, a soddisfare le pulsioni personali fino alle
estreme conseguenze (Orfeo per riportare alla luce Euridice affronta la più
oscura e minacciosa delle imprese) e, privilegiando l’individuo sulla collettività,
induce a trasgredire le norme condivise (Orfeo viola i patti): è una forza
distruttiva, dell’individuo e della società, che può condurre alla morte. In questa
visione Eros e Thanatos, Amore e Morte, si intrecciano fino a coincidere, come
nella favola di Orfeo, in cui le conseguenze dell’amore sono estreme: la morte
ghermisce Euridice per ben due volte, prima a causa della libidine di Aristeo,
poi per la passione impaziente di Orfeo, e Orfeo stesso è smembrato dalle
donne di Tracia per averne rifiutato l’amore. Ma il racconto di Orfeo ed
Euridice, proponendo una visione estrema e pessimistica dell’amore, vuole
dirci, anche e soprattutto, altro; infatti “assume un significato ben diverso da
quello di una mera digressione ‘romantica’, fondata sul binomio amore-morte. Il
contesto in cui il mito è collocato lascia intendere, piuttosto, che ad esso è
attribuita una funzione di ‘ammaestramento’, in chiave morale e pedagogica,
coerente con l’ispirazione complessiva del poema. Il rispetto delle leggi che
disciplinano l’organizzazione e la vita di una comunità non può né deve in alcun
caso essere violato ... Neppure l’amore, né il potere di fascinazione del canto,
possono infrangere la saldezza di un ordine inflessibile, al quale le divinità
stesse sono assoggettate, e di cui esse devono anzi essere irremovibili
custodi”.1

1
Umberto Curi, La cognizione dell’amore: eros e filosofia, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 110.

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