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Elementi di Psicologia di Comunità

La Psicologia di Comunità è un’area di ricerca e di intervento sui problemi umani e


sociali, che pone particolare attenzione alla connessione tra la sfera personale e quella
collettiva. La psicologia di comunità fa propria, per un verso, l’ottica della tradizione
clinica che guarda all’essere umano in quanto portatore di un problema e, dall’altro,
considera il soggetto un essere sociale, inserito in un contesto in grado di influire sul
suo stato di benessere. La necessità di considerare congiuntamente i due livelli deriva
dall’osservazione che i problemi umani hanno sia un versante individuale (in quanto
è sostanzialmente l’individuo che li subisce sulla propria pelle e in qualche modo
deve farvi fronte), sia un versante sociale, in due sensi: nascono da situazioni sociali e
spesso proprio nel sociale trovano gli strumenti materiali e psicologici per essere
affrontati.

La psicologia di comunità considera gli individui all’interno del contesto e dei sistemi
sociali di cui fanno parte o che li influenzano: il principio fondamentale è la persona
nel contesto.

I principi guida:

Metafora ecologica
Prevenzione e promozione del benessere
Empowerment

Metafora ecologica

Secondo la metafora ecologica le comunità sono sistemi composti da vari livelli


interconnessi tra loro, e il comportamento delle persone può essere meglio compreso
quando viene studiato in relazione a molteplici livelli d'analisi. I problemi vengono
quindi considerati come il risultato dell'interazione nel tempo fra individui e sistemi,
e possono essere affrontati attuando cambiamenti nei contesti di vita e promuovendo
le capacità delle persone di utilizzarne le risorse.

Lewin parla del rapporto individuo-contesto e ci porta a considerare che la vita del
singolo individuo non possa essere separata dalla società in cui vive: il
comportamento è funzione della Persona, dell’Ambiente e della loro interazione.

Le persone e gli ambienti, a cui appartengono, costituiscono una totalità, un’unità


indivisibile con aspetti che si influenzano reciprocamente.

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Bronfenbrenner (1979) è il principale esponente della teoria ecologica e sostiene che
l’individuo è un’entità dinamica che cresce e si muove seguendo un’interazione
reciproca con l’ambiente.

L’ambiente non è limitato a un’unica situazione ambientale immediata, ma viene


esteso includendo le interconnessioni tra più situazioni ambientali.

Per Bronfenbrenner l’ambiente è concepito come “una serie ordinata di strutture


concentriche incluse l’una nell’altra”.

Il microsistema è formato dai gruppi che hanno un contatto diretto con il bambino,
come la famiglia e la scuola. La relazione tra questo sistema e lo sviluppo del
bambino è evidente, tuttavia si verifica in entrambe le direzioni.

Il mesosistema è un sistema di microsistemi: si riferisce a due o più contesti sociali in


cui il soggetto partecipa direttamente, e in modo attivo.

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L’esosistema riguarda gli elementi che influenzano la vita dell’individuo, pur non
avendo una relazione diretta con essi. L’influenza sullo sviluppo della persona,
quindi, avviene per via indiretta.

Il macrosistema, infine, comprende le istituzioni politiche ed economiche, i valori


della società e la sua cultura. I complessi di credenze e comportamenti che
caratterizzano il macrosistema sono trasmessi da una generazione a quella successiva
attraverso i processi di socializzazione condotti dalle varie istituzioni culturali, come
la famiglia, la scuola, la chiesa, il luogo di lavoro e le strutture politico-
amministrative.

Agendo dunque su strutture scolastiche, lavorative e politico-amministrative a livello


di macrosistema si influenza necessariamente anche il microsistema.

Prevenzione e promozione del benessere

La prevenzione: uno degli elementi fondanti della psicologia di comunità anche se è


evidente che purtroppo gli investimenti per la salute pubblica siano orientati al
trattamento e davvero poco si faccia ancora la prevenzione.

È possibile distinguere differenti livelli di prevenzione:

• prevenzione primaria (volta a ridurre l'incidenza di un disturbo agendo sulla


popolazione sana e quindi prevenendo lo sviluppo di nuovi casi; questo tipo di
interventi è orientato a prevenire l'insorgere di disturbi e patologie)
• prevenzione secondaria (ha lo scopo di individuare precocemente nuovi casi
problematici e di fornire trattamenti ad uno stadio iniziale)
• prevenzione terziaria (l'obbiettivo è quello di ridurre la durata, l'impatto e la
cronicizzazione di un particolare disagio o disturbo).

La promozione del benessere rappresenta l’obiettivo ultimo d’ogni intervento in


ambito comunitario:

valori personali: sono quelli che permettono il raggiungimento del benessere a


livello individuale, nei singoli membri della comunità e sono rappresentati
dall'autodeterminazione, salute, cura e interesse.
valori relazionali: sono quelli che consentono di congiungere la sfera individuale a
quella collettiva e sono rappresentati da collaborazione, condivisione e rispetto per
la diversità.

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a livello collettivo i valori che promuovono il benessere sono quelli che assicurano
un'equa distribuzione delle risorse all'interno della comunità e che ne garantiscono
l'accesso a tutti i membri.

I progetti di prevenzione e promozione del benessere maggiormente efficaci sono


quelli che adottano un’ottica multilivello, ovvero che agiscono sia a livello
individuale (micro-livello), di organizzazioni, di comunità (macrolivello).

Le azioni di prevenzione e promozione del benessere a macrolivello si esplicano


principalmente da un lato, a livello nazionale, attraverso leggi e decisioni politiche
prese dai singoli paesi rispetto alle questioni di salute pubblica, dall’altro lato, a
livello internazionale, attraverso linee guida e leggi elaborate in accordo tra diversi
paesi.

Un altro aspetto di cui bisogna tener conto è la distinzione fra:

fattori di rischio (caratteristiche individuali o condizioni ambientali la cui


presenza si associa ad una maggiore probabilità di sviluppare disagio)
fattori di protezione (caratteristiche individuali o condizioni ambientali che
aumentano la probabilità e le capacità di una persona di adattamento e di
mantenere-aumentare uno stato di benessere).

Appare in tal senso rilevante il concetto di resilienza intesa come la capacità di un


soggetto di resistere all'influenza dei fattori di rischio; l'abilità di lottare ed imparare
dalle avversità e cercare di integrare anche queste esperienze nella propria vita.

Empowerment

Il potere insito nel termine empowerment deve intendersi non solo come “potere su”
ma anche e soprattutto come “potere di”. Il potere deriva dal sentirsi in grado di
gestire la situazione, di riuscire a trovare la soluzione adeguata con la soddisfazione
di aver fatto del proprio meglio.

L’empowerment è l’obiettivo che si auspica di ottenere lo psicologo di comunità per


le persone con cui lavora, siano essi volontari, insegnanti, genitori, partecipanti a
un’attività o intervento, cittadini o professionisti. Empowerment è un termine comune
a tutte le discipline, perciò è difficile trovare una definizione univoca. È un processo
che permette allo psicologo di comunità di individuare e attivare le risorse presenti
nella situazione in cui lavora, di scorgere gli aspetti da potenziare, di gestire le attività
e di intuire la direzione in cui si vuole andare.

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Empowerment è quindi un processo sociale multidimensionale che aiuta le persone a
raggiungere un maggior controllo sulla propria vita (Rappaport) e incrementa il
potere delle persone, per fare in modo che utilizzino tale capacità nella loro vita, nelle
loro comunità, nei loro gruppi, reagiscano e agiscano nel modo più appropriato per
ciò che definiscono importante.

Cos’è la rete sociale?


Il concetto di rete sociale si sviluppa con l’obiettivo di comprendere la natura e le
modalità tipiche dell’interazione umana.

La rete sociale indica l’insieme di relazioni esistenti tra persone, anche se queste non
necessariamente si incontrano nello stesso momento e nello stesso luogo.

È il luogo dove si scambia sostegno sociale, supporto informativo, emotivo,


interpersonale, materiale. Le reti si distinguono in due tipologie: reti primarie e
secondarie.

Le reti primarie: si fa riferimento alla famiglia, ai gruppi amicali e di vicinato.


Si tratta di relazioni “faccia a faccia” in cui la persona conosce tutti i
componenti della rete. Gli scambi tra le persone appartenenti a questa rete
avvengono secondo il principio di reciprocità;
Le reti secondarie informali: queste reti comprendono gruppi di volontariato,
gruppi di auto-mutuo-aiuto, associazioni. Gli scambi che intervengono tra
coloro che vi appartengono si basano sul principio della solidarietà; Le reti
secondarie formali sono invece reti molto strutturate e formalizzate che
comprendono istituzioni che erogano servizi e prestazioni sulla base di norme.

Una ulteriore distinzione importante può essere effettuata tra:

Lavoro di rete; si riferisce ad azioni volte a promuovere connessioni e


collaborazioni tra risorse formali e informali al fine di realizzare un intervento di
aiuto. Nel lavoro di rete l’operatore promuove l’attivazione di nuove reti e agisce
a sostegno di quelle già esistenti.
Lavoro in rete; con questa espressione ci si riferisce al lavoro interprofessionale di
norma svolto in équipe in cui diversi professionisti si integrano e coordinano i loro
interventi al fine di evitare sovrapposizioni e sprechi di risorse

La prima rete che si attiva in una situazione di disagio è di norma la rete primaria
costituita dalla famiglia e dagli amici. Quando i legami tra i membri di questa rete

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sono solidi e funzionali essa è una risorsa fondamentale che offre risposte ai problemi
della persona.

Esistono condizioni più complicate in cui la sola rete primaria non basta ed è
necessario attivare le reti secondarie, sia formali che informali, per gestire e
affrontare in maniera integrata le diverse sfaccettature di problemi più complessi.

Reti primarie: la FAMIGLIA


In psicologia con il termine "famiglia” si intende il primo ambiente in cui il singolo
individuo è inserito, ambiente che continua nella maggior parte dei casi per tutta la
vita. Il rapporto con i familiari contribuisce a fornire molti degli strumenti
fondamentali per l’inserimento nella società. “La famiglia è sistema di relazioni
interpersonali fondato sui legami tra i suoi membri, incluso a sua volta nei sistemi più
estesi della società allargata e, nello specifico della malattia, posto in contatto con le
istituzioni deputate alla cura” (Reiss, Kaplan De-Nour, 1989).

Quanti e quali tipi di famiglia?

Nonostante le differenti tipologie della famiglia, i sociologi hanno comunque tentato


di definire le strutture fondamentali comuni a tale istituzione.

A parte la distinzione operativa di base tra famiglie di orientamento e di procreazione


(le prime sono quelle in cui si nasce; le seconde sono quelle in cui si entra da adulti e
dove viene allevata una nuova generazione di bambini), la classificazione delle
famiglie più utilizzata è quella proposta da Peter Laslett e dal Gruppo di Cambridge:

◆ famiglia “nucleare”, formata solo da due coniugi ed eventuali figli.


◆ famiglia “estesa”, dove ai coniugi e agli eventuali figli si aggiunge almeno un
altro convivente (ad esempio un fratello o un genitore di uno dei due coniugi)
◆ famiglia “multipla”, caratterizzata dalla compresenza di almeno due nuclei;
◆ famiglie “senza struttura”, alla cui base non c’è un rapporto matrimoniale;
◆ “solitari”, quelli che oggi definiamo single.

Famiglia e malattia

Ogni famiglia attraversa una successione di fasi diverse tra loro che scandiscono il
suo percorso, definendo il suo ciclo di vita. Lo sviluppo si realizza nel tempo ed è

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scandito da eventi critici che innescano processi di trasformazione, necessari al
passaggio da una fase all’altra del ciclo di vita.

Gli eventi critici inducono la famiglia ad affrontare specifici compiti di sviluppo, che
comportano una continua rielaborazione dei rapporti a livello di coppia, delle
relazioni genitori-figli e di quelle con la famiglia d’origine.

L’ingresso nella storia familiare della malattia o dell’invalidità di un familiare mette


decisamente alla prova la famiglia. Nel momento in cui uno dei membri si trova
costretto a vivere l’esperienza della malattia, tutta la famiglia ne rimane
inevitabilmente coinvolta.

La diagnosi di un cancro, di una demenza o comunque di una patologia grave,


prevedibilmente lunga e dagli esiti incerti, rappresenta un evento drammatico non
solo per la persona colpita, ma per l’intera sua famiglia che spesso attraversa
psicologicamente le medesime fasi vissute dalla persona ammalata (shock, negazione,
disperazione, rabbia, rielaborazione, accettazione).

La malattia è una vera e propria crisi familiare. Essa segnala un cambiamento di stato
a cui la famiglia deve rispondere ristabilendo i ruoli e le relazioni interne, cambiando
i ritmi della giornata, modificando la propria vita lavorativa; inoltre, possono
subentrare difficoltà di ordine economico, nascere nuove e difficili relazioni con le
istituzioni sanitarie, ecc. La dinamica e l’equilibrio familiare necessariamente viene
modificato.

Mentre la richiesta di aiuto per come gestire il malato è esplicita e quasi immediata,
non lo è altrettanto quella di aiuto nel rielaborare il processo di
adattamento/conservazione del sistema familiare stesso.

Chi si occupa della malattia e del malato: il caregiver

Caregiver è un termine inglese che significa “colui che si prende cura”. Cura intesa
come aiuto nello svolgimento delle attività quotidiane e nella gestione della malattia
(esami, visite mediche, terapie, ecc.), offrendo anche un importante sostegno
emotivo.

Convenzionalmente, esistono due tipologie di caregiver:

il ‘caregiver informale’: nella maggior parte dei casi un familiare (di solito
coniuge o figlio) o amico;
il ‘caregiver formale’: qualunque persona che presta assistenza dietro il
pagamento di un compenso.

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Caratteristica principale del caregiver informale è il legame con i destinatari di aiuto
che è appunto di parentela, vicinato ecc., basato unicamente sul rapporto personale e
non in funzione di un ruolo professionale. Il "caregiving" è un'attività difficile e
spesso destabilizzante.

I principali fattori critici:

▪ stress prolungato dovuto alle cure fisiche e alle modificazioni nei ruoli
precedenti alla malattia;
▪ continuo supporto emotivo fornito al familiare malato;
▪ osservazione dell’eventuale peggioramento delle condizioni del paziente e la
percezione della sua sofferenza;
▪ diminuzione nella qualità della vita;
▪ vissuto emotivo dell’essere in trappola, come se ogni spazio personale fosse
invaso e il prendersi cura del malato fosse percepito come un obbligo;
▪ sentimento di isolamento sociale;
▪ gestione dei trasporti, commissioni, compiti domestici supplementari,
monitoraggio dei sintomi.

Bisogni dei caregiver:

tempo per sé stessi


svolgere i propri ruoli familiari, una vita coniugale nella normalità, ricercare e
trovare una vicinanza con i figli giovani o giovani adulti, svolgere il ruolo di
nonni
trovare sollievo da stati di ansia dovuti da troppa responsabilità
essere capiti nelle proprie reazioni emotive
trovare riconoscimento un po’ da tutti coloro che si avvicendano intorno alla
persona di cui ci si prende cura

Come emerge dalla maggior parte degli studi al riguardo, il caregiver può provare
rabbia, stanchezza, senso di colpa (per il timore di non essere adeguato al compito,
per i familiari che trascura), o percepisce una propria supposta "inutilità".

Dal punto di vista psicologico è possibile che sintomi depressivi e i problemi d'ansia
si inneschino nel vissuto del caregiving (stress cronico).

E dalle famiglie, anche quelle dove la rete familiare è ben articolata, emerge la
necessità e la richiesta di spezzare questa catena di bisogni per ritrovare spazi vitali.

In alcune situazioni è possibile supportare i familiari con l’inserimento di personale


specializzato come OSS o ADB; il servizio di assistenza domiciliare è finalizzato a

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superare situazioni di difficoltà, per migliorare stati di disagio prolungato e/o cronico
e, soprattutto, per evitare o ritardare ricoveri. Le principali prestazioni del servizio:

• cura della persona e della sua abitazione;


• accompagnamento a visite mediche;
• disbrigo di pratiche burocratiche;
• sostegno alla vita di relazione

È un lavoro che non è in competizione con i caregiver familiari, anzi l’operatore, in


un intervento di tipo domiciliare, può diminuire lo stress del familiare migliorandone
l’autostima nel gestire i problemi quotidiani e acquisire, a lungo andare, la capacità di
affrontare l’aggravarsi della malattia (supporto sociale). Tuttavia, l’inserimento di
personale di assistenza può essere fonte di stress perché il caregiver familiare,
soprattutto se è un coniuge, può manifestare forti resistenze e la difficoltà di delega è
associata a:

✓ sfiducia (“ad un estraneo non importa nulla di lui”)


✓ ad un pericoloso senso di onnipotenza (“come lo curo io nessuno può farlo”,
“senza di me è perduto”)
✓ a sentimenti di inadeguatezza e di colpa (“lo abbandono, soffrirà, sono un
incapace)
✓ alla convinzione di venir meno ad un compito doveroso

Famiglia e RSA

Può arrivare un momento nel quale l’assistenza domiciliare diventa impossibile,


dunque la decisione dell’istituzionalizzazione diventa l’unica soluzione e quasi
sempre è un evento vissuto con sensi di colpa e sensazione di avere messo in atto una
modalità abbandonica.

Per il familiare dell’assistito che giunge in RSA è forte il bisogno di riconoscimento


di quanto svolto in termini di assistenza; è dunque fondamentale effettuare un
costante ascolto attivo:

◆ aspetti emotivi e pratici delle scelte


◆ dubbi vissuti
◆ fatiche compiute
◆ successi e delusioni nell’assistenza fornita
◆ riconoscimenti e mancati riconoscimenti
◆ conflitti intrafamiliari
◆ conflitti con il familiare assistito

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La famiglia può essere un valido aiuto anche per comprendere la storia di vita
dell’ospite, al di là della cartella clinica. Nella fase di presentazione del servizio ai
familiari, la capacità di fornire informazioni sui bisogni dell'interlocutore è in grado
di aumentare il grado di fiducia e di collaborazione. In alcuni casi fra le famiglie e le
RSA si possono innescare meccanismi che portano o alla conflittualità (fallimento
della cura) o alla rigida scomposizione delle competenze (spesso rende il servizio
l’unico titolare dell’esercizio della cura).

In altri casi, invece, la famiglia e le RSA si incontrano attorno alla malattia


dell’anziano secondo una logica di scambio e cooperazione, che è essenzialmente
caratterizzata dalla capacità dei servizi di consentire ai familiari di stabilire un giusto
equilibrio tra vicinanza e lontananza rispetto all’anziano e permettere alla rete
familiare di continuare ad esercitare il proprio compito di cura nei confronti del
proprio congiunto.

Condizioni che rendono maggiormente sereno l’accesso alla RSA:

rapporti affettivi senza “conti in sospeso”


assunzione consapevole del carico assistenziale
condivisione della scelta con la famiglia d’origine
riconoscimento dell’impegno di chi cura da parte dell’anziano e della famiglia
capacità di richiedere aiuto

Condizioni che rendono difficoltoso l’accesso alla RSA:

bisogno di controllo sull’anziano


forme di esclusione anche inconsapevoli degli altri familiari dal lavoro di cura
assunzione del carico assistenziale come competizione con un altro membro
della famiglia
solitudine nella presa delle decisioni
difficoltà nel chiedere aiuto
insofferenza e conflitto verso altre figure di cura
scarsa volontà di collaborare con i servizi

Fra i possibili errori da parte di Operatori e familiari che possono attivare le


dinamiche conflittuali si identificano:

Da parte degli Operatori:

• ‟Oblio” della famiglia (collocazione sullo sfondo della relazione di cura)


• Il mito dell’abbandono (ricovero in RSA = abbandono e trascuratezza da parte
dei familiari)
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• Progressiva “sanitarizzazione” (indispensabile, ma scarso spazio per le
relazioni familiari)

Da parte dei Familiari:

• Richieste dei familiari poco congruenti con i bisogni dell’anziano


• Richiesta di interventi eccedenti le disponibilità organizzative
• Controllo invadente e ossessivo

Reti secondarie informali: I GRUPPI DI AUTO/MUTUO AIUTO


Una prima definizione dei gruppi di auto mutuo aiuto può essere: “sono piccoli
gruppi di persone che si costituiscono volontariamente per l’aiuto reciproco e che
decidono in autonomia quali saranno i membri del gruppo e quali obiettivi questo si
potrà prefiggere”.

La funzione principale dei gruppi di auto-aiuto (comune a tutti) è quella di fornire


supporto a persone che condividono lo stesso problema” (L. Maguire, 1989).

L’Auto Mutuo Aiuto ‐ A.M.A. ‐ è definito anche dall’ Organizzazione Mondiale della
Sanità come “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per
promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico,
psicologico e sociale di una determinata comunità”.

Il valore dell’auto mutuo aiuto si basa sull’assunto che “chi è parte del problema, è
parte della soluzione”. Il gruppo A.M.A. (Auto Mutuo Aiuto) è un insieme di persone
che hanno scelto volontariamente e in autonomia di trovarsi alla pari, intorno ad un
tema o problema comune, nel desiderio di affrontarlo con altri. Nel gruppo A.M.A. si
condividono esperienze, vissuti, risorse, informazioni e strategie di soluzioni,
scoprendosi risorsa per sé, per i compagni di gruppo e per l’intera comunità.

Non esiste un gruppo A.M.A. uguale ad un altro, è possibile classificarli in base


all’obiettivo finale (Levy,1979):

• Gruppi orientati al controllo dei comportamenti e alla riorganizzazione delle


condotte. Esempi di questi gruppi sono gli Alcolisti Anonimi e tutti i gruppi
"anonimi".
• Gruppi orientati al sostegno e alla difesa dallo stress, in cui lo scopo primario non
è quello di cambiare il comportamento, ma di ricevere un sostegno emotivo

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nell'affrontare eventi dolorosi o stressanti. Un esempio è costituito dai gruppi di
genitori di persone con disturbi psichiatrici.
• Gruppi di crescita personale e di autorealizzazione, si tratta di persone che
intendono migliorare la loro qualità di vita, incrementando le capacità relative alla
sfera emotiva, sessuale, relazionale.

Caratteristiche di gruppi di auto-mutuo-aiuto:

→ Prevedere contatti interpersonali faccia a faccia o almeno telefonici


→ Essere autonomi per il supporto finanziario o amministrativo
→ Avere in comune un preciso problema o interesse
→ Essere movimenti costituiti da gente comune o in modo spontaneo
→ Manifestare una fiducia quasi esclusiva nei confronti del gruppo

Come funzionano e perché funzionano questi gruppi?

Ci sono tre specifiche proprietà che permetterebbero ai gruppi di auto-mutuo-aiuto di


ottenere un cambiamento nel comportamento delle persone che ne fanno parte
(Lieberman,1979):

✓ Il sentimento di appartenenza al gruppo: l’appartenenza al gruppo con


l’adeguamento alle sue regole produce fiducia nella possibilità di ottenere un
cambiamento comportamentale, il rischio è quello di conformarsi rigidamente alle
regole del gruppo stesso.
✓ La condivisione delle emozioni: il fatto di dire in pubblico i propri problemi
determina una catarsi, popolarmente si direbbe “mal comune, mezzo gaudio”.
✓ Il confronto sociale con gli altri membri del gruppo che funzionano da modello di
comportamento: il fatto che un membro del gruppo riferisca il suo problema o la
sua storia al gruppo stimola gli altri a confrontare le proprie esperienze simili e a
raccontarle e a trovare la soluzione anche grazie al confronto con le soluzioni
sperimentate dagli altri.

Lavoro di Équipe

Il lavoro d’équipe oggi è il metodo più efficace per favorire il conseguimento degli
obiettivi professionali e per tutelare ogni professionista da eventuali rischi di
isolamento e di burnout, soprattutto all’interno di contesti socio-assistenziali.

Il lavoro d’équipe rappresenta, quindi, una vera e propria risorsa, prevedendo la


collaborazione di più figure professionali con conoscenze e competenze diverse

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(medici, infermieri, psichiatri, psicologi, operatori socio-assistenziali, educatori,
fisioterapisti e altri specialisti secondo la struttura di riferimento), che operano in
modo integrato in ciascuna fase dell’intervento, al fine di attivare una risposta
complessa e su più fronti.

L’avere più professionisti che operano sullo stesso caso, confrontandosi e discutendo
delle possibili soluzioni, prendendo in carico il singolo e spesso il gruppo familiare,
migliora inevitabilmente la qualità della risposta.

Questo anche grazie al fatto che avere un obiettivo comune, non solo migliora
l’efficienza lavorativa del gruppo e dei singoli operatori, ma incrementa la
cooperazione, la condivisione e la coesione del gruppo e di conseguenza l’azione
risulta maggiormente integrata.

I vantaggi del lavoro d’equipe sono evidenti anche per i professionisti, in quanto la
condivisione e il confronto permettono di fare chiarezza anche sui casi maggiormente
complessi e di difficile soluzione, offrendo al professionista un senso di sicurezza
maggiore e la possibilità di contare su altri maggiormente esperti per determinati
aspetti.

Inoltre, il sostegno reciproco nei momenti di difficoltà può risultare fondamentale; si


è osservato che un buon team riduce il rischio di burnout, favorisce la gestione dello
stress e delle difficoltà nonché la crescita professionale, personale e di relazioni
durevoli e positive.

Il lavoro d’équipe implica:

• elevata condivisione degli obiettivi


• valorizzazione delle differenze individuali
• gestione del conflitto con il metodo del confronto
• decisione primariamente per consenso
• cultura espressiva

In ogni équipe vanno organizzate riunioni periodiche nelle quali è necessario


confrontarsi, parlare, esprimere le proprie opinioni, discutere dei casi, fare una
verifica del lavoro svolto, apportare eventuali modifiche al lavoro.

Un team funzionale è spesso trainato da un coordinatore capace di delegare, favorire


un confronto attivo e produttivo, valorizzare e “sfruttare” al meglio le abilità del
singolo ma anche del gruppo intero o piccoli sottogruppi, favorire la risoluzione
efficace e costruttiva dei conflitti e garantire la condivisione di proposte, decisioni e
azioni.
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La Relazione d’Aiuto
Ciascun individuo è inserito all’interno di una complessa rete di relazioni durante
l’intero arco della sua vita. Nell’età evolutiva, la presenza di una relazione stabile
rappresenta un presupposto indispensabile per lo sviluppo psichico. Nell’età adulta si
sperimenta anche il bisogno di essere in relazione con gli altri e i sentimenti di
benessere di un individuo dipendono in gran parte dalla qualità dei suoi rapporti
interpersonali. Ognuno di noi intrattiene relazioni di tipo diverso (relazioni amicali,
parentali, sociali) e di diversa importanza sul versante soggettivo.

La relazione d’aiuto, che è lo strumento principale delle professioni d’aiuto, è un tipo


particolare di relazione umana che presenta proprie caratteristiche:

► Si sviluppa a partire da una domanda d’aiuto alla base della quale c’è una
condizione di disagio, sofferenza, malattia, carenza o limitazione.
► È caratterizzata da asimmetria di ruolo (da una parte c’è una persona che ha
bisogno di aiuto, dall’altra una persona che sa e può dare una risposta), diverso
grado di responsabilità e reciprocità.
► Impatto nella vita della persona variabile, a seconda della condizione personale
degli individui coinvolti.
► Finalità: fornire aiuto all’utente
► Durata: variabile

Non basta però il corretto impiego delle pratiche tecniche per l’instaurarsi della
relazione d’aiuto. Quest’ultima si basa sull’interesse reale per la persona e si struttura
se le persone hanno capacità e volontà di relazionarsi per dare e ricevere, cioè se
nasce un rapporto di comunicazione che consenta l’utilizzo della relazione come
aiuto reale alla persona.

La relazione d’aiuto funziona nel momento in cui tra chi offre l’aiuto e chi lo riceve
si instaura un legame di fiducia, perché è proprio questo legame che permette alla
persona di aprirsi e di condividere con l’operatore i personali vissuti.

Carl Rogers individua tre condizioni fondamentali perché la relazione d’aiuto abbia
successo e si crei il clima di fiducia indispensabile alla persona per procedere verso
una chiarificazione e accettazione dei suoi vissuti emotivi e della sua esperienza, a
qualsiasi livello. Queste condizioni sono:

Empatia
Autenticità
Accettazione incondizionata

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L’empatia è la capacità di sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi
della persona. L’empatia può essere più semplicemente definita come la capacità di
mettersi nei panni di un altro, nel senso di comprendere il suo mondo interno, i suoi
stati d’animo, i suoi pensieri, le sue difficoltà, i suoi bisogni. Questa capacità richiede
una buona dose di attenzione e sensibilità nell’accogliere i vissuti dell’Altro, anche
quando questi possono discostarsi profondamente per esperienza, valori o idee dai
nostri. La capacità di sentire il mondo dell’altro e accettarlo come unico e irripetibile.
L’empatia è strettamente connessa alla sospensione del giudizio e di ogni forma di
interpretazione. Comunicare l’empatia è molto importante per Rogers, perché genera
quel particolare senso di riconoscimento della propria esperienza, che fa sentire
l’altro alleviato dalla solitudine esistenziale. L’altro può cogliere la dimensione della
condivisione dell’esperienza, ciò è di per sé una esperienza nutriente sia sul livello
cognitivo che emotivo. L’empatia produce dei cambiamenti e porta ad una maggiore
auto-accettazione.

Eccesso di empatia: Quando l’empatia non trova limiti e il coinvolgimento è tale da


non consentire un distanziamento dall’utente, non si può osservarlo con obiettività in
modo tale da ricercare una risposta adeguata ai suoi bisogni.

Si rende quindi necessario per l’operatore, un allenamento alla ricerca di quella


distanza che gli consente di essere allo stesso tempo osservatore e partecipe,
oggettivo e soggettivo.

Il concetto di autenticità riguarda la capacità di essere spontanei e trasparenti nelle


relazioni. Mostrare ciò che realmente c’è, senza, ad esempio, nascondersi dietro il
ruolo che in quel momento stiamo ricoprendo. Essere autentici vuol dire esprimere
solo ciò che realmente corrisponde al proprio sentire, evitando frasi stereotipate e
restando in contatto empatico con il nostro interlocutore.

Accettazione incondizionata si riferisce all’accettazione dei vissuti e delle esperienze,


astenendosi da ogni forma di interpretazione e /o giudizio, accettare la realtà
esistenziale dell’altro e valorizzare l’altro per ciò che è.

Accettazione non vuol dire condivisione o approvazione incondizionata di idee,


opinioni e sentimenti diversi dai nostri, bensì il riconoscere all’altro la libertà di
provarli; è una forma di rispetto profondo dell’altro da sé, un modo di essere
dell’agevolatore che contribuisce a dare alla relazione la qualità imprescindibile della
comprensione profonda.

“E’ un affettuoso rispetto per la persona che chiede aiuto e per i suoi valori,
indipendentemente dalle sue condizioni, dal suo comportamento o dai suoi

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sentimenti; significa rispetto e attenzione per l’altro come individuo, disponibilità ad
accettare il suo personale modo di sentire, accettazione e rispetto per i suoi
atteggiamenti del momento, non importa se positivi o negativi, non importa se in
contraddizione con atteggiamenti del passato”. (C. Rogers, 1961).

Relazione d’aiuto, dunque, come capacità di comunicare ed ascoltare efficacemente


l’altro (relazione) e quindi condividere la ricerca di una soluzione ad un problema
(aiuto).

La qualità della relazione dipenderà anche dalla qualità del nostro ASCOLTO.

Siamo tutti estremamente bravi a sentire, ma cosa significa ascoltare?

SAPER ASCOLTARE

“L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua capacità di ascoltare


davvero ciò che viene detto” Rogers

Il saper ascoltare è un rilevante fattore di comunicazione, purtroppo molto spesso


trascurato. Il saper ascoltare è un’attività come il parlare: troppe persone ritengono
che la responsabilità principale di ogni buona comunicazione spetti a colui che parla.
Cerchiamo invece di pensare a come le comunicazioni migliorerebbero se tale
responsabilità venisse suddivisa almeno al 50% tra chi parla e chi ascolta!

ASCOLTO ATTIVO

È opinione comune che ascoltare significhi solo restare in silenzio a sentire ciò che
una persona ha da dire, e che quindi sia un processo passivo (non parlare) anziché
attivo (saper ascoltare).

L'ascolto è strumento attivo! Diviene saper ascoltare.

L’ascolto attivo è un’abilità comunicativa che si basa sull’empatia e


sull’’accettazione, sulla creazione di un rapporto positivo e di un clima non
giudicante.

Nell’Ascolto Attivo possiamo distinguere degli aspetti che devono essere considerati
all’interno della tecnica:

Ascoltare il contenuto, cioè cosa viene detto in termini di fatti e idee, se non fosse
comprensibile fare domande per chiedere chiarimenti.
Capire le finalità, il significato emotivo di ciò di cui sta parlando il nostro
interlocutore. Capire perché sta dicendo qualcosa. Possiamo aiutarci con alcune

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domande: Qual è l’esperienza di chi parla, qual è la sua posizione? Non deve
esserci interpretazione.
Valutare la comunicazione non verbale, come qualcosa viene detto: il linguaggio
del corpo, il tono di voce.
Controllare la propria comunicazione non verbale e i propri filtri, avere
consapevolezza dei messaggi che si sta inviando con la propria comunicazione
non verbale e delle reazioni a parole o atteggiamenti che comunica l’interlocutore.
Ascoltare con partecipazione e senza giudicare, cercare di mettersi nei suoi panni
(mantenendo la consapevolezza di chi è il problema) e di capire che cosa influenza
i suoi sentimenti, dimostrare di essere interessati a ciò che viene detto
sospendendo il giudizio sulle parole e sulla persona.

Quando ascoltiamo attentamente una persona, questa riceve il messaggio che stiamo
prendendo seriamente in considerazione sia lei che il suo problema e questo
contribuisce ad aiutarla a fare chiarezza e a rendersi conto pienamente della sua
esperienza.

T. Gordon ha proposto una tecnica che enfatizza il ruolo attivo e propositivo di un


particolare tipo di ascolto che ha lo scopo di “riflettere” il messaggio dell’altro a cui
arriva un feedback (ritorno) confermandogli di essere stato ascoltato (accettato,
compreso, capito, accudito, considerato.).

Il rispecchiamento empatico è la tecnica, comprende alcune competenze


comunicative essenziali:

La riformulazione o parafrasi è una tecnica comunicativa che consiste nel ridire ciò
che l’altro ha appena detto utilizzando parole simili o in maniera più concisa, non
aggiungendo nulla di proprio al contenuto, evitando in tal modo l’interpretazione.
Attraverso la riformulazione l’operatore può ottenere la conferma (che ha compreso
bene) da parte della persona e, a sua volta, l'interlocutore ha la conferma di essere
stato ascoltato. Si può approfittare del momento in cui la persona è alla fine di un
periodo per intervenire e riprendere ciò che è stato appena comunicato: “Mi sta
dicendo che …”, “Lei vuol dire che…”, “In altre parole…”, “A suo avviso, se ho
compreso bene…”.

La persona se si riconosce nella riformulazione avverte di essere stata ascoltata e


compresa e così è portata ad esprimersi ulteriormente e a collaborare. È anche
facilitata a rimanere concentrata sul problema, su come lo vive e lo esplora
allargando la conoscenza delle cose.

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Rispecchiamento cerca di rimandare lo stato d’animo, il vissuto emotivo che la
persona mostra nel suo raccontarsi: “La vedo arrabbiata mentre mi racconta del
problema che ha con i suoi familiari”. È importante cogliere l’emozione della
persona nel “qui e ora”, questo aiuta l’interlocutore a fermarsi e a riconoscere quanto
sta vivendo, questo rispecchiamento favorisce l’intesa, alleanza tra l’operatore e
l’utente. Verificare dalla reazione della persona l’effetto del rispecchiamento: se
nega, è probabile che il rispecchiamento non è stato preciso, oppure è precoce e
l’utente non è pronto a coglierlo.

Riassumere: significa allargare il processo della parafrasi riformulando il contenuto


in modo da evidenziarlo bene e legando insieme le diverse informazioni fornite.

Alcuni suggerimenti per praticare l’ascolto attivo1:

◆ Stabilisci un contatto visivo mentre l’altra persona parla. Accostati all’altra


persona e annuisci di tanto in tanto. Sappi che se incroci le braccia,
inconsapevolmente stai trasmettendo che non sei aperto all’altro.
◆ Piuttosto che offrire opinioni e consigli non richiesti, semplicemente fai la
parafrasi di quanto viene detto. Per esempio, puoi dire “In altre parole, mi stai
dicendo che…”.
◆ Non interrompere l’altra persona mentre sta parlando. E non preparare già la
tua risposta mentre l’altro ancora racconta; a volte l’ultima parola può far
comprendere e cambiare completamente il significato di tutta una storia.

1
Le ''Sette Regole dell'Arte di Ascoltare'' (Sclavi, 2000)

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare
punto di vista.

3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a
vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti
informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si
presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché
incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione interpersonale.
Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei
conflitti.

7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai
imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sé.

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◆ Oltre ad ascoltare ciò che viene detto, osserva il comportamento non verbale
per cogliere i significati inespressi. Le espressioni facciali, il tono della voce,
gli occhi che s’inumidiscono e altri comportamenti che puoi notare solo se sei
attento, possono dirti molto di più delle parole e possono essere punti di forza
per prenderti cura dell’altro in modo più sollecito.
◆ Mentre ascolti, interrompi il tuo dialogo interno. Evita di sognare ad occhi
aperti. È impossibile ascoltare attentamente qualcun altro e la propria voce
interna allo stesso tempo.
◆ Mostra interesse facendo domande per chiedere chiarimenti su quello che viene
detto. Preferisci domande aperte per incoraggiare chi parla. Evita domande
chiuse, a risposta sì/no, che tendono invece a interrompere la conversazione.
◆ Non cambiare improvvisamente discorso; darà l’impressione che non stavi
davvero ascoltando.
◆ Mentre ascolti, sii aperto, neutrale evitando il giudizio e gli stereotipi. Se ti
succede di giudicare e te ne accorgi, prova a notare se il bisogno di giudicare è
nato da qualcosa di ciò che è stato detto che ti ha toccato, e sii comprensivo
con te stesso: siamo umani
◆ Impara a riconoscere quando gli altri praticano l’ascolto attivo e fatti aiutare in
questo dai colleghi. Fatelo insieme, reciprocamente, e datevi dei feedback.
◆ Impara dagli errori degli altri senza giudicarli, ma solo per consolidare la tua
capacità.

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