Sei sulla pagina 1di 240

1

Il treno del sole

2
Quando ho visto per la prima volta il dipinto “Il treno del sole”, è
scattata in me una particolare magia: sono diventato
immediatamente quel bambino che guarda fuori dal finestrino.
Quando poi ho letto il racconto corrispondente, un miracolo
ancora maggiore si è compiuto: ho sentito le voci dei dialetti del
sud, ho percepito i profumi, ho visto i colori e sono diventato un
bambino siciliano con tutte le sue emozioni. Io il sud non l’ho
neppure mai visto e sono nato in Veneto negli anni Settanta,
periodo della mia infanzia quando i contrasti tra gli estremi d’Italia
erano notevoli. Sono stato fortunato a non essere stato influenzato
da quella retorica, ma comprendere fino in fondo le emozioni di
quel bambino e provare sensazioni che bagnano gli occhi è
qualcosa di eccezionale. È la potenza del Silvio pittore a compiere
il miracolo, è la parola del Silvio cantastorie che rende vivo ciò che
il suo pennello dipinge.

3
Sentii la mano di mia mamma accarezzarmi prima il viso e poi la
testa, con dolcezza, e la sua voce che mi diceva “sempre sporco e nero
devi arrivare, eh?”

4
Avevo una nostalgia lontana, ma non riuscivo a trovarne l’origine e
non so per quale misterioso sentiero della mente i miei passi mi
portarono a quella stazione e al suo binario di testa -1.
Dopo un po’ lo vidi: pochi vagoni, tante porte, sbiaditi fanali gialli e
rossi. Salii, mi sedetti accanto al finestrino e subito dopo il treno
emise un debole fischio e partì.
5
Il Treno del Sole era un treno a lunga percorrenza, un treno a
cuccette che negli anni Cinquanta e Sessanta portava da Torino a
Palermo e Siracusa. In quegli anni la mia famiglia abitava a Torino e
ogni estate andavamo a Palermo dagli zii per le vacanze.

6
I ricordi di Silvio di quei viaggi sono anche i miei. In

tutto quello che ha scritto mi ritrovo completamente. Io

e Silvio abbiamo tre anni di differenza, talvolta le

sensazioni che ho provato erano molto diverse dalle sue.

La meta era per me meno agognata. Il viaggio, invece,

era proprio come lo racconta Silvio. Tra i tanti ricordi

che condividiamo c’è la fuliggine che entrava dai

finestrini tenuti aperti. I treni erano a carbone e le

nostre facce di bambini felici si annerivano attorno ai

nostri sorrisi.

La sorella Wilma

7
Ricordo i thermos di mia mamma con il caffè per lei e il caffelatte per
noi, i panini con la carne panata e, cosa eccezionale, il Buondì Motta.

8
IL TRENO DEL SOLE

La stazione non era diversa da tutte le altre. Una grande campata di vetro e di acciaio
copriva tutte le banchine, le terminazioni e gli scambi, i binari degli arrivi e partenze.
L’unica particolarità era l’esistenza di un binario, in fondo a destra, segnato con binario
“meno 1” che, a prima vista, sembrava abbandonato da qualche tempo, con la piattaforma
impolverata e con qualche piantina tenace che cresceva in mezzo alle traversine.
Il tabellone “Arrivi e Partenze” non riportava quel binario e nessun orario o destinazione
era segnata sul cartello all’inizio del binario stesso, sembrava non esistesse. Ma non era
così. Chi veramente avesse avuto dentro di sé un grande desiderio o una grande
malinconia o una grande immaginazione riusciva a scorgere, come tra un po’ di nebbia,
antichi vagoni e una locomotiva a vapore nera, con fregi rossi e i fanali gialli, che sbuffava
silenziosamente. Se questo qualcuno vi fosse salito, allora il treno si sarebbe mosso e
lentamente avrebbe iniziato la sua corsa, portando i suoi passeggeri verso il sogno che li
aveva condotti fin lì.
Non ricordo chi me ne avesse parlato, mi sembrava una storia bislacca o un racconto della
buona notte per bambini, ma una volta, con il cuore pieno e un grosso magone addosso,
avevo disperatamente bisogno che qualcosa mi accarezzasse l’anima, ma non sapevo che
cosa. Avevo una nostalgia lontana, ma non riuscivo a trovarne l’origine e non so per quale
misterioso sentiero della mente i miei passi mi portarono a quella stazione e al suo binario
di testa “meno 1”.
Dopo un po’ lo vidi: pochi vagoni, tante porte, sbiaditi fanali gialli e rossi. Salii, mi sedetti
accanto al finestrino e subito dopo il treno emise un debole fischio e partì.
Non so che ore fossero, forse sera. Le luci all’interno dello scompartimento si attivarono
pallide e sbiadite mentre, fuori dal finestrino, si alternavano le ombre e i bagliori, gli alberi
e le case, sempre più velocemente, quasi un gioco psichedelico. Cullato dal movimento del
treno, mi addormentai e forse sognai.
Il Treno del Sole era un treno a lunga percorrenza, un treno a cuccette che, negli anni
Cinquanta e Sessanta, portava da Torino a Palermo e Siracusa. In quegli anni la mia
famiglia abitava a Torino e ogni estate andavamo a Palermo dagli zii per le vacanze. Io ero
l’ultimo di quattro figli e con mia madre, per tutta l’estate, saremmo rimasti al sole della
Sicilia a giocare con i cugini. Ma era principalmente il viaggio in treno che per me
rappresentava qualcosa di unico e meraviglioso, l’emozione più grande.

9
Si partiva alle venti e cinque per arrivare verso le ventidue del giorno dopo a Palermo,
sempre che il treno fosse stato in orario, ma spesso ciò non accadeva.
Ricordo i thermos di mia mamma con il caffè per lei e il caffellatte per noi, i panini con la
carne panata e, cosa eccezionale, il Buondì Motta.
Alla partenza trovavamo le sei cuccette già montate ed io mi arrampicavo subito sulla
scaletta per occupare una delle due più in alto. In pratica non dormivo, sbirciavo fuori di
lato della tendina abbassata del finestrino per tutto l’itinerario notturno del treno: Genova,
Pisa, Bologna, Roma, fino a Napoli, dove si arrivava alle otto di mattina ed era l’ora del
caffellatte col Buondì.
Mi affascinavano le stazioni di notte, sia quelle dove ci fermavamo, sia quelle dove
transitavamo veloci o rallentando. Mi affascinavano i segnali luminosi, i segnalatori, i
semafori, gli scambi. Vedevo le luci, sentivo il fischio dei capistazione, scorgevo qualche
viaggiatore che saliva silenzioso in una stazione intermedia.
Fin dalla partenza, la vita nel vagone era come stare nel condominio di un palazzo: casa
propria. Molta gente si metteva in pigiama, in vestaglia, indossava le pantofole, sentivo
ovunque dialetti del sud che si mischiavano e, a volte, qualche canzone.
Era un continuo “vuole favorire?” e un’offerta, uno scambio di panini, di pasta, di bicchieri
o altro cibo tra persone, che prima di allora non si erano mai visti.
Dopo Napoli, tra Paola e Battipaglia, ci attendevano le sfogliatelle. Ragazzini con grandi
vassoi colmi di quei dolci correvano sui marciapiedi dei binari per accontentare tutte le
mani protese con i soldi in mano per avere quelle prelibatezze, prima che il treno
riprendesse la sua corsa.
L’appuntamento più importante era però quando si arrivava alla punta dell’Italia a Villa
San Giovanni, dove il treno, vagone per vagone, lentamente più e più volte, entrava a
marcia indietro nella nave-traghetto e poi usciva, pronto poi a ripartire dopo la traversata
dello stretto, da Messina.
Quando il treno era tutto imbarcato, si correva sul ponte di coperta, sperando che fosse
rimasta al bar qualche arancina di riso, trofeo sognato per un anno intero da molti. E su
quel ponte era già Sicilia, era già suolo siciliano, lo diceva il mare, lo diceva il profumo del
cibo, la luce del cielo, le frasi in dialetto, il caldo appena mitigato dal movimento
dell’imbarcazione.
In quegli anni la linea da Messina a Palermo portava ancora i segni della distruzione dei
bombardamenti subiti durante la guerra e molti tratti erano in ricostruzione e non
elettrificati. A Messina, quindi, ci aspettava una locomotiva a vapore e la cosa bella per
me era che il treno procedeva lentamente, passando vicino le case, i cortili, le finestre di
10
palazzi. Potevo intravvedere così squarci di vita, bambini che giocavano, uomini in
canottiera che cenavano, donne che sistemavano i pomodori sulle tavole a essiccare al sole
o che stendevano i panni, persone che fermavano qualunque loro attività per salutare con
la mano il treno che passava: pezzi di vita, ognuno con una sua storia da raccontare.
A volte, lungo i tratti in costruzione, i lavoratori si fermavano per far passare il treno che
procedeva lentamente, raddrizzavano le loro schiene, stanchi, sudati, cotti dal sole, grati
per quei minuti di riposo forzato. Mia mamma, allora, tirava fuori le caramelle, cioccolatini
e le sigarette che aveva di proposito portato con sé e, sporgendosi dal finestrino, glieli
porgeva o li lanciava, e loro tendevano le mani consumate e ringraziavano, spesso in
silenzio, con un sorriso stupito o un cenno della testa.
A Sant’Agata si ripeteva il rito come per le sfogliatelle, ma si trattava questa volta di granite
al limone nei loro bicchierini bianchi con il cucchiaino di legno. Il treno fermava per poco
tempo in quella stazione e ragazzini in canottiera bianca correvano a piedi nudi come
disperati, per accontentare tutte le braccia protese dai finestrini.
Fino a Palermo io rimanevo affacciato al finestrino del corridoio, anche contro il divieto
materno, a guardare la campagna e sentire le cicale quando il treno per qualche motivo
misterioso si fermava. Il caldo del pomeriggio lasciava piano piano spazio al venire del
crepuscolo ed io ero sempre affacciato al finestrino, con il fumo della locomotiva che mi
veniva incontro.
Sentii la mano di mia mamma accarezzarmi prima il viso e poi la testa, con dolcezza, e la
sua voce che mi diceva: “Sempre sporco e nero devi arrivare, eh?”
Con le sue dita tra i capelli mi svegliai. Ero tornato al binario “meno 1”.

11
12
13
Dietro la tenda di
velluto rosso

14
C’è un dentro e c’è un fuori nel dialogo che intercorre tra il
racconto e il dipinto “Dietro la tenda di velluto rosso”. Il fuori sono
i luoghi popolati dai venditori e dai loro prodotti: luci, aria, colori e
un’immensa nostalgia per i libri, i pupi, le specialità
gastronomiche che sanno di passato.
Il dentro è quella chiesa celata dal portone, in vista e nascosta allo
stesso tempo. E all’interno c’è la musica. Una musica splendida e
angelica. Poi c’è quello strano tramestio.
Sfido chiunque legga il racconto a non sentire veramente, alla fine
della narrazione, quel fruscio d’ali angeliche.

15
Si vendevano vecchi libri sulla città, sia edizioni pregiate che alla
portata di tutti, foto di un tempo, cartoline antiche, pupi siciliani
ancora fatti a mano. Nelle botteghe, in attesa dei clienti, gli
artigiani pupari scolpivano e dipingevano le teste dei paladini: di
Angelica, Bradamante, Orlando e di Rinaldo, il più amato dai
palermitani.
16
Non mi ero mai accorto di un portone, non grande, scuro e un po’
rovinato, di solito chiuso, con una piccola targa gialla che diceva
“Chiesa SS Salvatore 1072”

17
Così decisi di entrare, aprii il portone, scostai una pesante tenda
rossa e mi ritrovai in un luogo stupendo

18
Questo racconto, per noi che conosciamo i

luoghi di cui si parla, sembra un flash

evocativo, ma anche la magia visionaria di

chi si lascia coinvolgere e rapire dai luoghi e

degli eventi.

L’amica Giannaura

19
Appena mi trovai dietro la tenda rossa, prima dell’uscita dal pesante
portone, sentii un leggero tramestio, un frullare di ali d’angelo e
l’orchestra ricominciò a suonare di nuovo accompagnata dal coro.
20
DIETRO LA TENDA DI VELLUTO ROSSO.

Palermo, Corso Vittorio Emanuele.

Un tempo, quando ero ancora studente, dai Quattro Canti di campagna e fino alla
cattedrale Corso Vittorio Emanuele era un luogo magico. Si vendevano vecchi libri sulla
città, sia edizioni pregiate che alla portata di tutti, foto di un tempo, cartoline antiche,
pupi siciliani ancora fatti a mano. Nelle botteghe, in attesa dei clienti, gli artigiani pupari
scolpivano e dipingevano le teste dei paladini: di Angelica, di Bradamante, di Orlando e di
Rinaldo, il più amato dai palermitani. C’erano anche piccoli negozi di specialità siciliane e
di souvenir dove si poteva trovare, tra le altre cose, le essenze profumate al gelsomino e ai
fiori della zagara.
Per quanto, però, fossi passato e ripassato da quel corso, non mi ero mai accorto di un
portone, non grande, scuro e un po’ rovinato, di solito chiuso, con una piccola targa gialla
che diceva “Chiesa SS Salvatore 1072”. Una volta mi fermai perché passando avevo sentito
della musica e le voci di un coro bellissimo provenire dall’interno: mi sembrava il “Gloria
della messa in Si minore di Bach”, ma non era Bach, ne ero sicuro. Così decisi di entrare,
aprii il portone, scostai una pesante tenda rossa e mi ritrovai in un luogo stupendo, un
Alef avrebbe detto Borges. Era una chiesa avente per pianta un dodecagono inscritto in
un’ellissi, ricca di marmi policromi, zeppa di putti e angioletti e con una cupola dove era
affrescato un paradiso anch’esso pieno di angeli. La musica cessò istantaneamente, quasi
sorpresa e disturbata dalla mia intrusione, poi riprese, ma stranamente senza coro. Da
fuori mi era sembrata un’orchestra, ne ero sicuro. Invece, c’era solo un uomo all’organo
che suonava, o così mi pareva. Mi sedetti comunque ad ascoltare, ormai perso e rapito tra
le note e le immagini degli affreschi, dove tutti gli angeli sembravano guardarmi, fino a
quando anche la musica dell’organo cessò completamente e il silenzio avvolse ogni cosa.
Mi avvicinai al maestro per fargli i complimenti e gli chiesi di chi fosse quella composizione.
“È mia” mi rispose. “No, non è Bach, è un divertimento che mi è venuto di suonare, così,
d’istinto”.
“Bravissimo Maestro! Mi è sembrato di sentire addirittura un’orchestra e un coro”
aggiunsi.
Il maestro, con occhi azzurri da acquamarina e fini capelli tra il bianco e l’oro mi rispose:
“Sa, questi vecchi edifici di culto sono cresciuti a strati, con stili e destinazioni diverse nei
secoli. Qui hanno messo mano i Normanni, gli Aragonesi, gli Spagnoli, i Borboni e altri
21
ancora. Un bombardamento ha distrutto tutto e quindi è stato ancora restaurato. Ha
passato i secoli e a volte presenta un’acustica strana, con effetti sorprendenti, singolari,
irripetibili”.
Mi disse tutto questo guardandomi con un sorriso benevolo e ammiccante e poi mi sembrò
anche che mi strizzasse l’occhio, ma forse fu solo una mia impressione.
Mi complimentai ancora, lo ringraziai e mi avviai per uscire, ma, appena mi trovai dietro
la tenda rossa, prima dell’uscita dal pesante portone, sentii un leggero tramestio, un
frullare di ali d’angelo e l’orchestra ricominciò a suonare, di nuovo accompagnata dal coro.
Non potevo muovermi e rimasi lì tra la tenda e il portone, rapito e affascinato da quella
musica e da quelle voci…angeliche.

22
23
LE LUCCIOLE DI
PASOLINI

24
Il 1 febbraio 1975, nove mesi prima di essere ucciso, Pier Paolo
Pasolini pubblica un articolo sul Corriere della Sera dal titolo Il
vuoto del potere, che sarà riportato nei Scritti Corsari e ricordato
come L’articolo delle lucciole. L’argomento trattato è politico e
sociale. Il fascismo è ancora vivo negli anni Settanta, vissuto pochi
anni prima da tutti gli italiani. Pasolini, antifascista senza
compromessi, vede nella nuova società dei consumi e dell’ipocrisia
la scomparsa degli antichi valori sociali e personali. Per entrare
nell’argomento, utilizza come filo conduttore il fenomeno della
sparizione delle lucciole, simbolo di quei valori svaniti. Silvio va
oltre. Intravede in quelle lucciole qualcosa di tangibile, seppure
aleatorio, sensazioni microscopiche che sono in grado di invadere
l’anima di luce e di pace. E il racconto che andrete a leggere
susciterà in ognuno il bisogno di scoprire quali lucciole sono
dentro di voi.

25
Dall’ombra di un palazzo parve emergere prima il bastone e poi la
testa a immagine di cane di Anubi, già pronto a misurare il peso delle
anime di tutti.
Contro di lui voleva scatenarsi un lupo tenuto però saldamente da
Cappuccetto rosso che lo accarezzava per rassicurarlo.
26
“Faccia un altro esempio” nitrì il cavallo Sten che parlava essendo
uscito anche lui dallo stesso libro di Queneau.
“Il cavalcarmi è una lucciola?” domandò.

27
“Chi è tutta questa gente?” protestò il capo dei gendarmi, uscendo
di corsa dal libro di Pinocchio, vedendo che si stava radunando una
folla sempre più numerosa.
28
La ricerca delle "lucciole", viste come
allegoria di qualcosa che va perdendosi,
ma anche dello "splendore nel buio", è
una attitudine che il nostro cuore sente
di avere, malgrado la prosaicità e, a
volte, la volgarità di quanto ci circonda.

L’amica Giannaura

29
“Quali sono le lucciole di Pasolini?” chiese un passante uscito
improvvisamente da un libro di Queneau.

30
LE LUCCIOLE DI PASOLINI

Era proprio una bella mattinata, piena di sole, con l’aria tiepida ed un fresco venticello,
che invitava ad andare fuori per strada col naso per aria, con un sorriso ed un saluto per
tutti, anche per quelli che non si conoscevano.
Mentre faceva colazione, il Signor Uboldo finiva di leggere un buon libro, di quelli che ti
lasciano qualcosa dentro, qualcosa di bello e qualcosa su cui riflettere.
Quella lettura aveva acceso in lui una di quelle sensazioni che, ne era sicuro, Pasolini
avrebbe definito “lucciola” come metafora di cosa bellissima, ma purtroppo in via di
estinzione e sempre più difficile da trovare.
Con in mente questo pensiero, uscito di casa, il signor Uboldo disse tra sé e sé, ma a voce
alta: “Come mi piacerebbe trovare altre lucciole di Pasolini!”
“Quali sono le lucciole di Pasolini?” chiese un passante uscito improvvisamente da un
libro di Queneau.
“Come? Non le conosce?”
“No, se me lo spiega!”
“È lungo da spiegare e ci vuole tempo.”
“E allora perché parla? Fa incuriosire la gente, la fa fermare, noi ci si interessa al suo caso
e poi vuole lasciare perdere?”
“No, mi scusi, non ho proprio voglia, ci vorrebbe un secolo per spiegarle quello che penso,
e poi credo di sprecare tempo.”
“Grazie! Lei è veramente gentile! Sprecare un secolo! Lei pensa che io sia stupido?”
“No, non volevo dire questo, solo che ... È complicato, forse quello che voglio dire dovrei
spiegarlo bene anche a me stesso.”
“Che gente strana” mormorò il passante, e si allontanò offeso, con passo deciso.
“Mi dispiace” tuonò il Signor Uboldo ad alta voce “ma come faccio a spiegare che parlavo
di lucciole simboliche, sociologiche, umane e a raccontare tutto il mondo dietro questo
mio desiderio che è un mondo mio, intimo: ognuno ha le proprie di lucciole”
“E allora stia zitto, tenga le cose per sé e non parli in giro a voce alta” gli urlò un altro
passante, uscito in bicicletta anche lui dallo stesso libro. “È immorale stuzzicare le persone
e poi lasciarle così con i discorsi in sospeso.”
“Eccone qui un altro! Ma da dove sbucate?”
“Veniamo da un libro di fantasia, dove sogno e realtà si alternano e si mescolano. E allora?
Ci dice qualcosa?”
“Che devo dire? Che cosa vuol sapere?”
31
“Che cosa sono queste lucciole” interloquì un altro passante che aveva sentito la
discussione e sopraggiungeva alle sue spalle.
“Ma è una congiura” si lamentò il signor Uboldo “non si può più parlare tra sé e sé che
qualcuno pretende di conoscere cosa e perché. E poi, ripeto, è difficile.”
“Non si fa così” protestò una nobildonna francese che passava di lì anche lei. “Si sforzi,
cerchi di farci un esempio.”
Intanto, piano piano, si era radunata una piccola folla di passanti, chi a piedi, chi in
bicicletta, chi sotto un ombrello o con gli occhiali da sole.
Uomini, donne, bambini, vestiti con abiti moderni o d’altri tempi, mescolati per aspetto e
classi sociali. Anche un cavallo, attaccato ad una carrozza, si era fermato, come
aspettando anche lui una spiegazione.
“Beh! Proviamo allora” si propose il signor Uboldo ormai circondato.
“Cominciamo con una cosa semplice. Che cosa vi fa pensare il fruscio di una puntina sul
giradischi prima che inizino i solchi della musica registrata?” Dalla folla incominciarono
in molti a parlare, sovrapponendosi.
“Giradischi, puntine: che cosa sono? Ci stai prendendo in giro?”
“Avete visto? Non potete capire. Provo a dirvelo io. È l’attesa, la lucciola è l’attesa
meravigliosa di quegli istanti che ci separano dalla musica che vogliamo sentire ed il
fruscio della puntina, è la musica dell’attesa. Al giorno d’oggi questo non c’è più: appena
desideriamo ascoltare qualcosa, il suono arriva, subito.”
“Ma mi scusi, lei vuole ascoltare la musica o il fruscio?” chiese uno dei personaggi. “E poi
basta che metta in pausa e faccia durare l’attesa quanto vuole.”
“Può anche registrare un fruscio” aggiunse un altro astante.
“Vedete, non capite, non posso spiegarlo se non avete mai provato o sentito quello di cui
parlo” si difese il signor Uboldo.
“Faccia un altro esempio” nitrì il cavallo Sten, che parlava essendo uscito anche lui dallo
stesso libro di Queneau. “Il cavalcarmi è una lucciola?” domandò.
“Dipende” replicò il signor Uboldo “dipende da come lo fai e perché lo fai. Se si entra in
sintonia con l’animale, se si diventa un solo corpo si può anche diventare una sola anima.
Anche solo accarezzare un cavallo potrebbe essere una lucciola, ma dipende da cosa pensi,
che sensazioni provi.”
“Ma dov’è Stef? Sei solo?”
“Stef è rimasto nel libro, non gli andava di parlare oggi” replicò Sten.
“Chi è tutta questa gente?” protestò il capo dei gendarmi, uscendo di corsa dal libro di
Pinocchio, vedendo che si stava radunando una folla sempre più numerosa. “Via!
32
Sgombrate, ognuno per la sua strada!” Aveva una vecchia uniforme, due folti baffi,
sciabola, moschetto e cartucciera e la sua voce fermò per un attimo il tempo e creò il
silenzio.
“Allora, volete spiegarmi?” insistette il capo dei gendarmi.
La folla ricominciò a rumoreggiare e ad indicare il signor Uboldo.
“Ha cominciato lui: ci ferma parlando, chiedendo, noi ci fermiamo e poi non ci spiega
niente.”
“No, no, ci dice, eccome se ci dice! Ci dice che siamo degli ignoranti insensibili.”
“Che non capiamo niente.”
“Ma è lui che non capisce niente, sembra ancorato in un sogno del passato e non sa come
uscirne.”
“Afferma che ci sono lucciole che noi non vediamo e parla con i cavalli.”
“Come come? Parla con i cavalli?” s’informò il capo dei gendarmi.
“No” puntualizzò il signor Uboldo “no, è il cavallo che parla con me, dice di essere uscito
da un libro, non ne so molto di più.”
“Lucciole e cavalli parlanti?” proseguì il capo dei gendarmi “allora volete prendermi in giro
davvero! Dove sono queste lucciole?”
A questa domanda due donne vestite vistosamente, truccate a tinte forti cercarono di
sottrarsi allo sguardo indagatore del capo dei gendarmi.
“Guardi ispettore” tentò di precisare il signor Uboldo.
“Non sono ispettore, non cerchi di corrompermi.”
“Scusi, non volevo. Volevo dire che non parlavo di lucciole vere.”
“Lei mi sembra un po’ matto, ha istigato tutte queste persone e forse le ha pure offese.”
“Ma nooo, io parlavo solo a voce un po’ alta, ma tra me e me. Sono loro che cercano di
carpire i miei pensieri e di intrufolarsi nei fatti miei. Dicevo solo che cercavo delle lucciole,
ma non lucciole vere e loro non capivano che cosa volessi dire!”
“Lo spieghi a me” gli impose il capo dei gendarmi mettendosi le mani a fianchi e
piantandosi sulle gambe “o anch’io non sono in grado di capire?”
“Sì, sì, lo spieghi” rumoreggiava sempre più forte la folla che ormai si era fatta densa,
ondeggiante, curiosa, minacciosa e si muoveva come un mare agitato da un vento in
tempesta.
“Ascolti, stia attento” iniziò il signor Uboldo. “In un articolo di giornale di qualche anno fa,
Pasolini, con la sua solita poesia e dolcezza, spiegava che la gravissima trasformazione
sociale che si stava attraversando era paragonabile alla scomparsa delle lucciole nelle
campagne. Tutti i valori e gli ideali rappresentati dalle lucciole sembravano spariti e la loro
33
luce sostituita dal buio o da una fortissima luce artificiale, che le rendeva obsolete. Io
cerco chi o che cosa mi può far tornare a vedere le lucciole: qualcosa di bello, di buono, di
semplice, qualcosa che abbia un significato per il nostro cuore come anche il fruscio di
una puntina sul giradischi o il verso di un poeta o un abbraccio d’amore.”
“Io penso di avere capito” s’intromise il Kubilai Kan, che seduto su di una panchina stava
giocando a scacchi con un signore vestito alla moda di Venezia del 1300. “Le lucciole sono
tutto quello che inferno non è.”
“Giusto” s’illuminò il signor Uboldo “bisogna riconoscere tutto quello che non è inferno e
curarlo.”
“Ma chi è quel matto, vogliamo che adesso anche i Mongoli ci insegnino qualcosa?”
“Cosa c’entra l’inferno?”
“Il demonio! Il demonio!”
“Chi si deve curare è lui!”
La folla sembrava impazzita e spazientita.
“Ripeto, lei mi sembra proprio matto” affermò il capo dei gendarmi. “Non si capisce proprio
quello che vuole dire. Forse io ho intuito qualcosa. Ma perché pensa che le persone non la
capiscano? In ogni caso, se è vera la mia intuizione, deve pensare che ognuno vive come
vuole e come può e lei, caro signore, non può far niente e non ha il diritto di condannare
e criticare. E meglio ancora: che lucciole ha lei? Che lucciole ha creato? O vive solo di
quelle degli altri? Su, mi dica di qualche lucciola veramente sua, fatta da lei o stia zitto
una volta per sempre.”
La folla sembrava una massa informe, urlante e mobile dietro il gendarme. La gente non
capiva più né le parole né il senso del dibattito.
Il cielo, nel frattempo, si era fatto cupo: nuvole nere si addensavano inquietanti. Anche
Sten, il cavallo parlante, correva da un estremo all’altro della scena, scuotendo la criniera
e schiumando nervoso. Dalle vie adiacenti arrivavano animali strani, usciti da qualche
libro sulla preistoria o di fantascienza. Dall’ombra di un palazzo parve emergere prima il
bastone e poi la testa a immagine di cane di Anubi, già pronto a misurare il peso delle
anime di tutti. Contro di lui voleva scatenarsi un lupo tenuto però saldamente da
Cappuccetto Rosso, che lo accarezzava per rassicurarlo.
Alcuni degli astanti costruivano palchetti improvvisati e cominciarono a predicare o ad
intonare canzoni rap senza senso. Donne si laceravano le vesti e iniziavano a danzare un
sabba delirante che coinvolgeva sempre più gente. Dalle finestre della biblioteca usciva un
fumo nero, qualcuno buttava dei libri, ma un carro dei vigili del fuoco, accorso
prontamente, li inceneriva a 451 gradi prima che toccassero terra.
34
Il signor Uboldo fu preso dal panico, era confuso da quanto aveva scatenato, impaurito da
quella gente assatanata e da tutti quei personaggi che erano comparsi. Soprattutto, era
perplesso perché non trovava risposte da dare al capo dei gendarmi, che avrebbero potuto
fermare quell’incubo.
Lui, che cercava le lucciole, ne aveva mai creata qualcuna? Qualche suo gesto, atto,
pensiero, scritto, attimo, ora o giorno era diventato una lucciola per sé stesso o per
qualcun altro?
Più guardava quella folla di ignoranti e insensibili, più la biasimava, ma lo assaliva il
dubbio che lui stesso non fosse poi tanto diverso da loro: si illudeva soltanto o sperava di
esserlo. Intanto non gli veniva in mente proprio niente. Era soltanto lo stordimento che lo
sconvolgeva o era vero il fatto di non avere creato alcuna lucciola?
Mentre pensava a queste cose, arretrò piano piano, cercando riparo in un portone, che
però non si apriva. Tentò disperatamente più volte di spingere, di bussare, di girare la
maniglia. Invano. Ad un tratto il portone improvvisamente si aprì, ne uscirono prima una
signora anziana, che aveva in mano una boccia di vetro con un pesce rosso, e poi una
ragazzina di undici anni la quale, con una telecamera, stava riprendendo tutta la scena.
Dietro le loro gambe si riparava un riccio elegantissimo che aveva tra le zampe un libro di
Tolstoj.
“Forse noi abbiamo capito, vieni dentro, possiamo aiutarti” lo invitò quella che doveva
essere la portinaia. Ma il capo dei gendarmi, a cavallo di Sten, era ormai troppo a ridosso
e bellicoso, si potevano vedere ormai vicinissimi gli occhi sbarrati, le bocche urlanti, le
mani protese dei passanti verso di lui. Il portone si richiuse senza che lui riuscisse ad
entrare e restò solo contro tutti.
Il signor Uboldo, rassegnato ed esausto, scivolò verso terra, appoggiandosi al muro del
palazzo. E, con un tonfo secco, nel muro scomparve. Bam! La finestra della camera da
letto sbatté violentemente per un colpo di vento.
Uboldo si svegliò di soprassalto con il cuore che gli batteva ancora forte. Un sorriso di
sollievo gli attraversò il volto sudato, ma poi, ricordando il sogno, si mise a sedere sul letto
e a chiedersi: aveva una risposta da dare al capo dei gendarmi?
Cominciò a ripassare la sua vita e qualcosa pian piano affiorò: ricordi di quando, pur nel
suo piccolo, era riuscito a donare qualcosa, qualche emozione, un sorriso, a volte anche
qualche lacrima di bellezza.
Fuori doveva già esserci il sole, ma le persiane quasi chiuse lasciavano la stanza in
penombra. Ubaldo, un po’ tranquillizzato, si stropicciò gli occhi e fece per alzarsi dal letto,
nella semioscurità si guardò intorno come per un ultimo controllo.
35
Sulla poltrona accanto al comò intravide una figura seduta che lo guardava. Indossava
una vecchia uniforme dei gendarmi, con una mano teneva per il morso Sten e con l’altra
gli accarezzava il muso.
“Allora! Possiamo tornare al sogno adesso?” disse il capo dei gendarmi.
“Si” rispose il signor Uboldo. E si rituffò nel letto.

36
37
RACCONTAMI
UNA STORIA

38
È bello pensare che i nostri giochi abbiano un’anima. Quando
siamo piccoli ci crediamo fermamente che davvero sia così, da
grandi l’illusione viene sostituita da una razionalità gelida e
impietosa.
Credere che i giochi abbiano un’anima forse corrisponde a
dargliela. E a vivere più felici.
Nel narrare Silvio in qualche modo ci suggerisce che la scelta è
solo nostra.

39
È notte, dalle fessure ora passa la lieve luce del lampione della strada
e ogni tanto i fari delle auto illuminano a strisce veloci quello che mi
sta intorno.

40
Lo stanzino è pieno zeppo di giocattoli, di giocattoli antichi, vecchi.
Forse il proprietario doveva essere un collezionista o qualcuno pieno di
nostalgia.

41
Io sono l’unico cavallo a dondolo tra i tanti altri cavallucci di tutti i
tipi.

42
I luoghi dei ghiacciai e delle montagne della

Mongolia con la relativa colonna sonora

stavolta incisa dal suono di quelle antiche

balalaike mi hanno ricordato alcune immagini

del dottor Zivago tanto struggenti e soavi.

L’amico Nori

43
Galoppavo a volte dove il verde era lussureggiante, chiaro e lucente,
altre volte dove l’erba era più scura per la carenza d’acqua.

44
RACCONTAMI UNA STORIA

Qualcuno è entrato nello stanzino e per fortuna, quando è uscito, ha


lasciato la serranda della finestra un po’ alzata. Il buio è finito, finalmente.
È notte, dalle fessure ora passa la lieve luce del lampione della strada e
ogni tanto i fari delle auto illuminano a strisce veloci quello che mi sta
intorno.
Sono sveglio e sono vivo.
Mi guardo in giro e cerco di riconoscere quello che mi sta intorno.
Lo stanzino è pieno zeppo di giocattoli, di giocattoli antichi, vecchi. Forse il
proprietario doveva essere un collezionista o qualcuno pieno di nostalgia.
Tra un lampo di luce e l’altro, faccio un piccolo inventario: scatole di trenini,
giochi di latta, teatrini, giostre. Io sono l’unico cavallo a dondolo tra i tanti
altri cavallucci di tutti i tipi.
Una bambola è seduta sul bracciolo di una poltrona: ha un vestitino di raso
rosso un po’ malmesso, i capelli castani; il viso di porcellana con due gote
rosate è ancora perfetto, gli occhi sono chiusi. Il viso di quella bambola io
ricordo di averlo già visto. Com’è bella!
Cerco di avvicinarmi muovendomi sul dondolo, strisciando e spostandomi
in avanti. Prima piano piano, per controllare che io non abbia qualcosa di
rotto, poi sempre più sicuro.
Riesco a vedere i miei finimenti rossi e anche il decoro fatto sul legno del
dondolo con disegni un po’ sbiaditi su un fondo verdino.
Dondolando mi avvicino sempre di più, nessun cenno dalla bambola, ma
quando io riesco a posare la mia fronte sulla sua gota, i suoi occhi blu si
aprono e mi guardano sorpresi, incuriositi.
“Ciao”, le dico “sei viva? Forse siamo gli unici qui dentro, vuoi stare un po’
con me anche solo per parlare?”
Non mi risponde ma non scosta la sua testa dalla mia.
45
“Solo parlare”, insisto, “possiamo scambiarci pensieri e ricordi. Possiamo
raccontarci le storie che abbiamo ascoltato o vissuto, possiamo stare bene
insieme”.
La bambola mi dà un colpetto con la testa e mi dice:” Raccontami una
storia”. Ed io, una storia da raccontare ce l’ho perché ora un ricordo invade
la mia mente.
Così, mentre fuori la luna piena disegna le fessure della finestra e la notte
segna l’ora della magia dei sogni che si avverano, sciolgo per lei il filo del
mio racconto.
“Correvo per le praterie della Mongolia. Chi mi cavalcava era una bambina
come te, con un vestito rosso e gli occhi blu. Galoppavo a volte dove il
verde era lussureggiante, chiaro e lucente, altre volte dove l’erba era più
scura per la carenza d’acqua.
Correvamo per le steppe aride, che assumevano il colore del deserto.
Galoppavo veloce con la criniera al vento nei profumi dell’astro alpino,
dell’efedra e del rabarbaro.
Intorno a noi le montagne, dove vivevano i popoli delle aquile, erano
maestose, i cieli infiniti, ghiacciai e pascoli a perdita d’occhio.
Ero adornato con selle fatte con raffinati tappeti, decorati con i draghi, la
fenice, il pipistrello, scacchi, libri, fiori e uccelli.
La sera, intorno ai fuochi, ascoltavamo i racconti, le leggende e le fiabe
mongole, ricche d’amore per la loro terra, per il cielo, la natura, gli
sciamani, le imprese di Gengis Khan, accompagnati dal suono del Morin-
khnur e del Tovshnur, la loro antica chitarra e il loro antico liuto.
La notte era piena di stelle e tu eri con me.
Non so se è un sogno o un ricordo, ma so che devo tornare dove sono stato
felice”.

46
Quindi tacqui, la commozione mi aveva rotto la voce anche perché a mano
a mano che il mio racconto procedeva, avevo sentito la testa della bambola
premere dolcemente sempre più sulla mia fronte.
Poi la sua voce, come un canto, ruppe il silenzio e le sentii dire: “Portami
con te”.

47
48
49
Il cortile
sette fate

50
Chi non sognerebbe di essere rapito da sette fate per vivere con
loro esperienze incredibili? Mi ha commosso la risposta di Silvio
nel racconto alla richiesta di andare con loro. Dopo essersi visto
circondato dalle persone che ha amato e ama, non ha dubbi:
l’esperienza più incredibile e meravigliosa è quella vissuta con
ognuno di loro. E vissuta soprattutto in terra siciliana. Perché
ovunque lui sia, rimane lei la terra del cuore a cui torna
continuamente con le persone amate. Ve lo immaginate nonno
Silvio che accompagna a Palermo i nipoti e gli illustra i luoghi con
la sua magica favella? Io sì e mi piacerebbe essere al loro posto.
In attesa di esserlo, leggo il suo racconto e poi visito quei luoghi
attraverso i suoi dipinti.

51
Frequentavo l’oratorio e la
Congregazione Mariana di Casa Professa presso la Chiesa del Gesù
52
Si trova una piazzetta, un cortile, dal nome
misterioso ed evocativo: il cortile Sette Fate

53
A Ballarò, girando per il mercato, si possono assaporare tutti i colori
dell’umanità, tutte le sfumature dell’anima, tutte le tonalità del
sorriso. In quel mercato una volta, oltre a vendere di tutto, si
leggeva poesia e si faceva teatro.
54
Ho l’impressione che il racconto
tradisca la tua curiosità, l’intima voglia
di voler conoscere puntualmente
qualcosa di nuovo. Non ti basta
ascoltare questa favola del Pitrè o dal
vecchietto. Tu vuoi conoscere di
persona le sette fate

L’amico Nori
55
L’origine di questa storia viene da una leggenda che il grande storico
Giuseppe Pitrè, dopo aver raccolto varie testimonianze, raccontò in
un suo libro dedicato alle credenze popolari siciliane.
56
IL CORTILE SETTE FATE

A Palermo, nel quartiere del famoso mercato di Ballarò, dove io andavo molto spesso
perché frequentavo l’oratorio e la Congregazione Mariana di Casa Professa presso la
Chiesa del Gesù, si trova una piazzetta, un cortile dal nome misterioso ed evocativo:
il cortile Sette Fate. È situato proprio di fronte alla chiesa di Santa Chiara.
Si racconta che proprio in questa piazzetta, ogni notte, sette bellissime donne scegliessero
qualcuno, sia uomo che donna a loro piacimento, da portare con loro, e che questo
qualcuno venisse condotto dalle Sette Fate a vedere luoghi straordinari, splendidi palazzi,
invitato a partecipare a meravigliose feste con canti e balli, anche audaci, e accompagnato
sopra il mare dove gli veniva regalata la possibilità di camminare sull’acqua senza
bagnarsi. Con il sorgere del sole, le sette belle fanciulle sparivano, lasciando all’uomo o
alla donna che avevano scelto solo il ricordo di quella fantastica notte.
L’origine di questa storia viene da una leggenda che il grande storico Giuseppe Pitrè, dopo
aver raccolto varie testimonianze, raccontò in un suo libro dedicato alle credenze popolari
siciliane. È bellissimo il testo originale del Pitrè:

‘Ntra stu Curtigghiu di li setti Fati, ‘nta la vanidduzza chi spunta ‘nfacci lu Munasteriu
di Santa Chiara, vonnu diri ca la notti cci vinìanu sette donni di fora, tutti una cchiu
bedda di ‘n’àutra. Sti donni si purtavanu quarchi omu o puramenti quarchi fimmina
chi cci parìa a iddi, e cci facianu vidiri cosi mai visti: balli, sònura, cummiti, cosi
granni. E vonnu diri puru ca si li purtavanu supra mari, fora fora, e li facianu caminari
supra l’acqua senza vagnàrisi. Ogni notti faciànu stu magisteriu, e poi la matina
spiriànu e un si nni parrava cchiui. Di ddocu nni veni ca stu curtigghiu si chiama lu
curtigghiu di li setti Fati.

Come ho detto all’inizio della storia, io andavo spesso da quelle parti. Frequentare Casa
Professa era forse l’unica possibilità di svago perché, tra un rosario e l’altro, una
confessione e una preghiera, si poteva giocare a calcio, calcio-balilla, biliardo, ping-pong,
scacchi, e altri giochi ancora. A volte arrivavo prima degli orari canonici e mi aggiravo nei
dintorni della chiesa. Avevo anche scovato un paio di piccole “putie”, che vendevano due
gioielli della gastronomia palermitana: l’iris fritta e lo sfincionello, leccornie che
meriterebbero un racconto a sé. Ma la cosa che aveva attirato di più la mia attenzione e la
mia curiosità era proprio quella piazzetta, quel cortile dal nome particolare, accattivante e

57
misterioso. Un vecchietto del quartiere me ne raccontò la storia quasi con le stesse parole
del Pitrè, aggiungendo, in segreto, di essere stato testimone dei fatti.
Ho frequentato Casa Professa a partire dalle scuole medie fino all’università e non saprei
dire quante volte io sia andato in quella piazzetta, prima solo di giorno, poi, da grande,
anche la sera o di notte. Anche negli anni in cui mi sono trasferito a Milano ci sono
ritornato sempre quando andavo in vacanza a Palermo o a trovare mia madre. Non ho mai
creduto in quella leggenda, ma recarmi in quel posto era un’occasione per trovare
un’ispirazione, fantasticare, fare un bilancio, un esame dei propri desideri, sogni, ideali,
sconfitte. E poi…tutto sarebbe potuto succedere! Chi può saperlo?
Negli anni cambiavano i mondi di riferimento, mondi sui quali interrogarsi e sognare.
Mondi di giochi come meccano, bici, trenini. Mondi di bambine che sorridevano, ragazzine
da salvare dai draghi, compiti in classe, versioni dal greco al latino, la maturità, gli
innamoramenti, le poesie, gli amori che strappavano i capelli, i balli lenti, i baci, gli esami.
La sicurezza di poter cambiare il mondo, di ideali indistruttibili, di essere unici nel bene o
nel male, diversi, incompresi forse. E poi il lavoro, i successi, le delusioni, la fama, i
fallimenti.
L’ultima volta che sono tornato nel cortile Sette Fate è però accaduto qualcosa di
incredibile. Arrivai nella piazzetta quando ormai la luce del giorno era finita e solo poche
lampade fioche, quelle ancora di una volta, illuminavano la scena. La maggior parte delle
bancarelle erano vuote, i venditori avevano ritirato la loro variopinta merce. Di giorno,
invece, a Ballarò, girando per il mercato, si possono assaporare tutti i colori dell’umanità,
tutte le sfumature dell’anima, tutte le tonalità del sorriso. In quel mercato una volta, oltre
a vendere di tutto, si leggeva poesia e si faceva teatro. Era un mercato saraceno, come dice
il suo nome: Sùq al-ballarat, mercato dei cristalli, specchi, vetri; così era nato prima ancora
dell’anno mille e cresciuto accanto ai resti della antica città fenicia. Palermitani, africani,
indiani, tamil, ucraini, russi, polacchi, gente dell’est stavano lì insieme come sospesi nel
tempo a vendere la loro merce, giocare a carte, bere, mangiare, unico popolo, senza
distinzione tra noi e loro, a sorridere e raccontarsi, più con i gesti che con le parole.
Invece quella sera nessuna “abbanniata”: c’era un silenzio sussurrato, un’atmosfera
strana, quasi magica. Alcuni mi segnarono con la testa o con la mano: un saluto muto per
accogliermi come uno di loro. Alzai anch’io una mano per rispondere al gesto. Presi una
delle cassette, ormai vuote, di frutta ammonticchiate al centro della piazzetta vicino alla
torre dell’acqua e mi sedetti. Guardai il cielo, ormai era quasi notte. Ma quando i miei
occhi tornarono sulla piazzetta, mi accorsi che piano piano le persone stavano andando
via, tutte, come per un tacito accordo. Finivano di ritirare dentro casa le mercanzie, le
58
bancarelle, le tende, le sedie ed i tavolini improvvisati, si salutavano e scomparivano.
Osservai quella scena perplesso, fino a quando rimasi solo, solo con me stesso e rimasi lì
ad aspettare. Cosa non lo so.
Ecco che poco dopo, improvvisamente, la piazzetta cominciò a ripopolarsi. Arrivava gente
che, in silenzio, si disponeva lungo i muri delle case a formare un cerchio intorno a me. A
mano a mano che arrivavano, con stupore riconoscevo i loro volti: la mia donna, mio padre,
mia madre, mio fratello e le mie sorelle, mia figlia, i suoi bambini, i miei amici, i miei
compagni, le persone che avevano, in qualche modo, accompagnato un pezzo della mia
vita. Ognuno portava ricordi, immagini, colori, sapori, profumi, pagine di libro, musiche,
parole dette o meno, occasioni colte o perdute, momenti vissuti, momenti di gioia, di
dolore, pace, momenti di esaltazione e di lacrime, tutti comunque dolci come il miele. Ero
talmente frastornato, con l’anima piena di tenerezza per loro e per me stesso, che mi
accorsi in ritardo che dall’alto scendevano verso di me veli colorati, fluttuanti, danzanti,
nei quali si formavano lentamente le sembianze di donne bellissime ed ammalianti: erano
le Sette Fate. Mi avvolsero in quei loro veli e profumi, poi mi presero per mano, pronte a
farmi spiccare il volo. Non ebbi incertezze, strinsi quelle mani e sentii la mia voce che
diceva: “No, no, ferme, aspettate, non vengo con voi. Se ho la possibilità di cambiare la
magia, io resterei qui, in questo luogo e in questo tempo. Le vostre promesse mi
affascinano, ma io sono già nei palazzi e nelle feste più splendenti, nei mari più infiniti,
nei cieli più lucenti di stelle. Ho già le mie musiche, i miei colori, le mie emozioni, i miei
incanti, i miei stordimenti. Cammino già sulle acque della mia esistenza ed è questo che
voglio ricordare, solo questo è quello che voglio vivere.” Le loro mani allora si sciolsero
accarezzandomi, lievi, le dita. Le vidi allontanarsi, senza una parola, anche se ogni tanto
guardavano indietro verso di me. Le lasciai andare via con un sorriso.

59
60
61
L’ATTESA

62
Quanto si deve crescere per mantenersi bambini!
Si dimenticano troppo facilmente le sensazioni provate in quell’età
così breve, eppure tanto importante.
Baciare per amore da bambini è un’esperienza che rimane nella
memoria di pochi. Non c’è voluttà, eppure le emozioni sono
intensissime. Serve coraggio per ritrovare quel ricordo lontano:
la nostalgia potrebbe far scorrere una lacrima.

63
Le potevo scorgere dalla finestra della mia camera, con la luce rosa
pallido del sole radente sulle loro schiene bianche di lana.

64
“Controlla bene i pomodori, quelli per salsa, belli rossi, e quelli un po’
verdi per insalata…”

65
Cuciva sempre con un gatto rosso accovacciato ai suoi piedi: la
sorprendevo a volte mentre gli raccontava la storia del suo amore
perduto.
66
Questo bambino teneramente innamorato non ci

deve solo far sorridere dato che anche da piccoli

si possono provare palpitazioni e ansie e dolori

provocati da un amore o da una forte

infatuazione.

L’amica Fanny

67
Ero abilissimo nel tracciare per terra, con un sasso di gesso, la griglia
del gioco.

68
L’ ATTESA

La casa dove ho abitato da bambino era in un condominio di nuova


costruzione assegnata a mio padre come ufficiale dell’esercito. Il quartiere,
chiamato “Rione delle Rose”, si trovava allora ai margini della città, bisognava
fare un po’ di strada a piedi per arrivare al capolinea dell’autobus più vicino:
il numero 4. Oggi il rione è nel pieno centro della nuova zona residenziale, ma
allora era quasi in mezzo alle campagne.
Ricordo che a volte all’alba mi svegliava il suono delle campanelle delle
pecore, che venivano a pascolare nel prato di fronte, le potevo scorgere dalla
finestra della mia camera, con la luce rosa pallido del sole radente sulle loro
schiene bianche di lana.
Il condominio era circondato ancora da orti e da campi e mia madre spesso
mi mandava a comprare la frutta e la verdura da un contadino, zu Paolo, che
aveva il suo orto proprio dietro casa. Zu Paolo, spesso sotto un albero di fico
a riposare, nove volte su dieci mi diceva: “Cuogghitili da sulu”( raccoglieteli
da solo). Io allora seguivo la voce di mia mamma che mi raccomandava:
“Controlla bene i pomodori, quelli per salsa, belli rossi, e quelli un po’ verdi
per insalata, e assicurati che le zucchine lunghe abbiano ancora la peluria,
sono quelle più fresche”. Per me era quasi un’avventura e una vera
soddisfazione quando mi sentivo dire che ero stato bravo.
L’abitazione era situata in un complesso di tre palazzine di quattro piani
ciascuna, delle quali una destinata interamente alle famiglie della Guardia di
Finanza; nelle altre due abitavano famiglie di impiegati di stato e
professionisti.
La parte più bella era il cortile interno tra le palazzine, con aiuole di palme,
piante di ibiscus, pomelie e buganville, con ampi spazi ideali per noi bambini
dove potevamo giocare, correre e nasconderci.

69
Di tutti i condomini che hanno abitato nella mia palazzina, ricordo in
particolare quelli che avevano esposto al portone d’ingresso una targa che ne
indicava l’attività.
L’Ing. Urso riparava piccoli elettrodomestici di tutte le marche e borbottava
sempre contro la cattiva politica e la scarsa intelligenza dei vari governanti.
Era un vero ingegnere e lavorava più per una propria sfida personale con
l’elettromeccanica che per i soldi: la sua era una vera passione. Non si dava
mai per vinto e le ore che impiegava a risolvere un problema tecnico non
venivano messe in conto.
C’era poi un gioielliere. In realtà era un orafo, che si divertiva a creare piccoli
oggetti “artistici”, ma che non riusciva quasi mai a vendere.
Il pittore, che si vantava di gestire un’associazione artistica e una scuola di
pittura, era un tipo strano: vestiva sempre in modo eccentrico, da dandy. Mia
madre mi ha sempre proibito di entrare nel suo studio, forse perché la sua
scolaresca era formata spesso da una sola e appariscente modella.
Da ultimo ricordo, la sarta, Antonietta, vedova di guerra che ha rivoltato e
cucito varie volte i miei abiti e quelli dei miei fratelli e sorelle più grandi.
Cuciva sempre con un gatto rosso accovacciato ai suoi piedi: la sorprendevo
a volte mentre gli raccontava la storia del suo amore perduto. Ma il suo pregio
più grande era che fosse la mamma della bambina più bella che io avessi mai
conosciuto: Rita. Era una bambina timida ma risoluta, riservata, ma nello
stesso tempo gentile e determinata. Per lei era sempre ora di merenda o
colazione, perennemente affamata; indossava degli abitini che le confezionava
sua madre e che la avvolgevano come petali di rosa. Insomma: era la mia
compagna di giochi preferita ed io ne ero pazzamente e segretamente
innamorato. Ci vedevamo spesso in cortile con tutti gli altri bambini, ma io
cercavo sempre di stare accanto a lei: per giocare ai giochi che sceglieva lei,
a correre dove correva lei, a nascondermi vicino al suo nascondiglio. Il gioco
preferito da entrambi era quello del “campanone”. Ero abilissimo nel tracciare
per terra, con un sasso di gesso, la griglia del gioco. A volte, non so quanto
70
per caso, ci trovavamo in cortile da soli e allora era una gara a chi fosse più
bravo. Era una sfida senza “prigionieri”, tirata sempre fino all’ultimo,
facevamo scommesse i cui pegni erano un cavallino di legno, la testa di una
bambola che muoveva ancora gli occhi, cuscinetti a sfera (allora andavano di
moda tra i ragazzi: oggetti ricercatissimi), biglie di vetro e figurine.
Un pomeriggio, ricordo che Rita indossava un vestitino rosa. Sfidandomi mi
propose un premio particolare per il vincitore: “Se vinco io mi dai un bacio
tu, se vinci tu, te lo do io”. Parole che mi stordirono, confusero la mia mente
e, insieme al mio cuore, mi fecero tremare anche le mani e le gambe. Giocai
tutta la partita non sapendo bene se cercare di vincere o di perdere.
Qualunque fosse stato l’esito, sarebbe stato per me l’apice dei miei desideri e
la cosa più bella che io potessi desiderare era l’attesa di quel bacio, dato o
ricevuto. Il sole stava tramontando, fino all’ultimo la partita fu in bilico e
quando Rita lanciò per l’ultima volta il suo sasso bianco sul riquadro per
terra, chiusi gli occhi e strinsi i pugni e desiderai con tutte le mie forze che il
tempo si fermasse.
Chi si trovasse a passare ancora oggi in quel cortile al tramonto, nel Rione
delle Rose, e guardasse bene con gli occhi della fantasia, potrebbe scorgere
due bambini che giocano al campanone: sono immobili, la bimba
accovacciata ha appena lanciato il sasso bianco che è lì, fermo a mezz’aria e
lui, il bambino, in piedi di fronte a lei, che aspetta, ancora.

71
72
73
koreia

74
Nella pittura e nella narrazione di Silvio tutti i sensi dell’uomo
sono fondamentali. Le sue arti hanno un canone estetico mai fine
a se stesso. L’evocazione sensoriale prima e intellettuale poi,
rappresentano il suo primo obiettivo. L’esperienza artistica diventa
in questo modo un percorso, un divenire, un trasformarsi.
“Koreia” ci porta alle origini di tutto questo: arte rupestre e
un’umanità primitiva che parla con il corpo.
Quanto ancora siamo primitivi? Il nostro corpo ha conservato
memoria della capacità d’espressione fisica dei nostri antenati?
E che cosa abbiamo perso nel dimenticarla?

75
Quella sera potei apprezzare di nuovo la sua acustica perfetta e
stupirmi di quella volta a cupola sopra la platea realizzata con undici
spicchi affrescati che, con particolari meccanismi e funi, potevano
aprirsi come petali di fiori, lasciando intravvedere il cielo

76
L’indomani andai in Comune per ringraziare e, approfittando
dell’occasione, chiesi se fosse possibile visitare le Grotte dell’Addaura
e i suoi graffiti preistorici
77
Coreia prese la mia mano e l’appoggiò alla parete sulla figura di un
danzatore, premendo la sua mano sulla mia.
78
È una danza la nostra storia, così come
recita il nome della ragazza che, anche
nei tratti somatici, incarna tutte le
caratteristiche della nostra terra: quelle
normanne, arabe, greche…

L’amica Giannaura

79
Coreia mi invitava con gesti e canti come promesse, splendeva tra le
nuvole di polvere illuminate dal fuoco e un miscuglio di miele e di lava
mi scorreva nelle vene. La seguii e mi persi.

80
χορεία (Coreia)

Verso la fine degli anni Novanta, la multinazionale per la quale lavoravo già
si occupava della realizzazione di prodotti multimediali per l’arte e la cultura,
sfruttando anche programmi e tecnologie di Intelligenza Artificiale.
Nel maggio del 1997 fui mandato a Palermo per coordinare e partecipare alla
realizzazione di una grande mostra su un fondo archivistico di antiche
pergamene, codici e sigilli recentemente ritrovati in Spagna, ma che
riguardavano Messina e la Sicilia. A Palermo, dove tornavo sempre volentieri
perché potevo rivedere mia madre che ancora lì abitava, frequentai gli uffici
del Comune e dell’Assessorato ai Beni Culturali e strinsi amicizia con l’allora
sindaco. Avevo stabilito così buoni rapporti che nel pomeriggio del 12 maggio
1997 un messo comunale recapitò a casa di mia madre due biglietti d’invito
per la serata inaugurale di riapertura del Teatro Massimo, dove Franco
Mannino e Claudio Abbado avrebbero diretto i Berliner Philarmoniker. Il
teatro era stato chiuso per restauri nel 1974 e finalmente potevo rivederlo nel
suo splendore: era chiamato Massimo perché era tra i tre più grandi
d’Europa.
Quella sera potei apprezzare di nuovo la sua acustica perfetta e stupirmi di
quella volta a cupola sopra la platea realizzata con undici spicchi affrescati
che, con particolari meccanismi e funi, potevano aprirsi come petali di fiori,
lasciando intravvedere il cielo. L’indomani andai in Comune per ringraziare
e, approfittando dell’occasione, chiesi se fosse possibile visitare le Grotte
dell’Addaura e i suoi graffiti preistorici. Era una richiesta difficile da esaudire,
ma tentai. Le grotte, infatti, erano chiuse al pubblico da decenni perché
pericolanti e negli anni non si erano trovati mai i fondi per metterle in
sicurezza e consentire così le visite. Contenevano incisioni rupestri risalenti
al periodo precedente al Mesolitico (14000 anni fa), particolarmente
importanti perché erano tra le poche scoperte di quel tipo che
rappresentavano figure umane. Non ero mai riuscito a visitarle, vi accedevano
81
solo studiosi ed esperti. L’Assessore decise di accontentarmi e mi disse di
trovarmi alle 14.00 del giorno dopo davanti all’ingresso della grotta dove avrei
incontrato il signor Ferrara, che mi avrebbe aperto il cancello di protezione e
accompagnato nella visita.
L’indomani arrivai all’orario preciso all’appuntamento, senza però trovare
nessuno ad attendermi. Il sole era già caldo per essere maggio e picchiava
forte sulla mia testa. Dopo mezz’ora di attesa, quando stavo per andarmene,
vidi una ragazza avvicinarsi di corsa verso di me agitando una mano.
Indossava una gonna variopinta, una maglietta bianca ed uno strano zainetto
dietro le spalle. Mi colpì subito la sua particolare bellezza: i suoi capelli, il suo
viso, i suoi occhi, il colore della sua pelle riassumevano le caratteristiche
arabe, normanne, greche, di tutte le varie dominazioni che avevano
attraversato la Sicilia. Un miscuglio dolce e selvatico.
“Mi scusi”, mi disse, “il signor Ferrara si è ammalato e hanno mandato me ad
aprire, mi hanno avvertito solo all’ultimo e sono corsa subito”.
“Mi chiamo Coreia” aggiunse allungando la mano verso di me. Ricambiai il
saluto, un po’ frastornato dalla luminosità del suo porgersi e dal suo sguardo.
Poi entrammo.
Il sito si componeva di tre grotte, in una delle quali si trovava un vasto e ricco
complesso d'incisioni, raffiguranti uomini ed animali. In mezzo ad una
moltitudine di bovidi, cavalli selvatici e cervi c’era una scena dominata dalla
presenza di figure umane: un gruppo di personaggi, disposti in circolo, che
circondava due figure centrali con il capo coperto ed il corpo fortemente
inarcato all'indietro. Erano ben visibili un daino rampante e un cacciatore
nudo dai lunghi capelli con una strana maschera sul volto e una lunga asta,
e una figura femminile con un voluminoso oggetto sulle spalle. Quei graffiti
erano la testimonianza delle tribù di cacciatori che vivevano nel luogo ed
erano stati disegnati con uno stile molto realistico. Osservavo tutto in
silenzio, cercando di immaginare chi li avesse disegnati, quando e perché. Ad

82
un tratto, sentii la voce di Coreia che mi spiegava: “Sono bellissimi,
incantevoli.”
Ancora gli esperti non sono concordi se si tratta di rappresentazioni di riti
sacrificali, iniziatici, erotici o propiziatori per la caccia; a me piace pensare
che queste figure semplicemente danzino, seguendo una qualche musica.
Alcuni studiosi credono che molti siti simili a questo, come quello di Altamura
o di Lascaux, siano stati scelti dagli uomini di allora anche per l’acustica e
che fossero luoghi adatti per cantare in coro e ballare”.
Coreia prese la mia mano e l’appoggiò alla parete sulla figura di un danzatore,
premendo la sua mano sulla mia. Sentii subito un calore pervadermi prima
il corpo e l’anima subito dopo, e mi ritrovai scagliato indietro nel tempo di
14000 anni a danzare intorno al fuoco in quella grotta. In un primo momento
persi i contorni di ogni cosa, come avvolto in una nebbia di sabbia opaca. Poi,
pian piano, la scena tornò nitida, folgorante: fuochi ardevano e illuminavano
la grotta dipingendone le pareti all’oscillare delle fiamme e profumando l’aria
di resine odorose e inebrianti. Gli occhi di Coreia, verdi come smeraldi liquidi,
brillavano riflettendo i carboni rosso arancio del fuoco. Bastoni, sassi e
conchiglie producevano percussioni a ritmi ossessivi, io mi muovevo libero
insieme a tutti gli altri. I nostri corpi nudi, agili e potenti erano ricoperti di
tatuaggi e cicatrici, segni di caccia e di orgogliose ferite. Coreia mi danzava
vicino, facendo fluttuare i suoi lunghi capelli di oro antico e di rame, le sue
mani mi sfioravano. Ballavo, ma contemporaneamente era come se guardassi
da spettatore. Al vorticare frenetico della danza si sovrapponevano altre scene
che mi arrivavano chiarissime come immagini frantumate, spezzoni di film.
All’improvviso tutto divenne immobile e silenzioso e mi trovai all’aperto,
lontano dalle grotte e vissi gli appostamenti notturni, poco prima del levarsi
del sole, le ombre degli animali da cacciare stagliate contro un cielo
pallidissimo, il profumo della terra e delle piante cosparse di rugiada, le rozze
lance nelle mie mani e in quelle dei compagni, l’odore delle prede, l’immobilità
apparente della natura. Poi, di nuovo dentro la caverna, tornarono le
83
percussioni e i ritmi delle danze in un continuo alternarsi con i silenzi dei
luoghi di caccia. Tutto il mio essere cercava solo cibo per la mia fame e un
corpo per il mio desiderio. Coreia mi invitava con gesti e canti come promesse,
splendeva tra le nuvole di polvere illuminate dal fuoco e un miscuglio di miele
e di lava mi scorreva nelle vene. La seguii e mi persi.
Non so come mi ritrovai fuori dalla grotta, confuso dal sole abbagliante e
stordito da quanto avevo vissuto. Avevo ancora negli occhi, nelle mani, nella
mente la voglia di continuare la danza e la caccia. Mi guardai intorno alla
ricerca di un segno, un appiglio, una conferma. Nulla, di Coreia nessuna
traccia, forse solo una piccola vena di profumo nel vento. Il cancello delle
grotte era chiuso. La cercai tutto intorno, dovunque, ma senza successo.
Aspettai di tornare completamente in me, poi mi avviai verso casa. Mia madre
mi accolse dicendomi che dal comune mi avevano telefonato più volte.
Richiamai, mi chiesero scusa per l’appuntamento mancato: il signor Ferrara
si era sentito male, mi proponevano un altro appuntamento. Replicai dicendo
che una ragazza mandata da loro era venuta, dissi che si chiamava Coreia,
la descrissi, ma nessuno la conosceva e nessuno aveva mai sentito il suo
nome.
Nei pochi giorni che rimasi ancora a Palermo, prima di rientrare a Milano,
cercai di indagare per scoprire qualcosa di più su Coreia, se qualcuno la
conoscesse, ma sembrava comparsa dal nulla e nel nulla era tornata. Non
riuscivo a togliermela dai pensieri. E mentre preparavo i bagagli per tornare
a Milano, prendendo il biglietto dell’aereo appoggiato sulla libreria dove mia
madre conservava ancora i miei vecchi libri di ragazzo, la mia attenzione fu
attratta dalla copertina del testo sui lirici greci che utilizzavo al liceo. Ad un
tratto capii: Coreia era … χορεία che in greco antico significava ballo, danza.
Continuo ancora oggi a cercarla, anche se solo nella mia mente: accendo
fuochi, suono tamburi, adorno il capo di piume di struzzo, mi dipingo il volto
di ocra e porpora, i fianchi e le spalle di bianco e di nero, sento la sua mano,

84
il suo odore, vedo il suo corpo che danza e io le giro intorno e ballo, canto,
urlo.

85
86
87
La guardiana
delle favole

88
Pochi ci pensano, ma è una verità incontrovertibile:
le favole sono un filo conduttore che unisce il mondo intero nello
spazio e nel tempo. La narrazione favolistica prende origine dalla
notte dei tempi e, attraversando l’antichità, è arrivata fino a noi.
Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, le favole vengono
raccontate da entità meccaniche: registratori, smartphone, tablet,
videogiochi e altri arnesi inanimati sostituiscono la voce umana.
Ma non rimpiazzano solo quella. Scompare l’anima di chi
racconta, e la scintilla che scocca con chi ascolta non si accende.
Perché ci siamo dimenticati delle favole che da bambini amavamo
tanto? Quand’è che da genitori abbiamo deciso di lasciare che il
tempo delle favole per i nostri figli fosse delegato a un film
televisivo?
Le stelle che si spengono sono quei bambini che da adulti non
serberanno il ricordo della voce del genitore, del nonno o dello zio
che li portavano per mano nel mondo delle favole.

89
Il nonno materno di Ester si chiamava Gaspare, come uno dei tre Re
Magi, e quando era bambina a lei sembrava proprio uno di loro perché
aveva un fare dolce e misterioso, e sempre un piccolo dono per lei.

90
Il nonno Gaspare leggeva molto, gli piaceva giocare a carte,
dipingeva delicati acquarelli e le raccontava favole e storie
immaginarie.

91
A Ester era rimasta l’atmosfera magica di quei racconti ma,
purtroppo, nessuna trama.

92
In questo racconto vedo una me stessa

bambina che sgrana gli occhi ascoltando

e credendo l’autenticità di quelle storie,

proprio come deve essere capitato molte

volte alla nostra protagonista

L’amica Fanny

93
Forse qualche altra persona, sollecitata dal suo invito, aveva ripreso
a leggere e a raccontare le favole. Ragionava anche sul fatto che
forse le favole non erano solo quelle di Esopo o dei fratelli Grimm.
94
LA GUARDIANA DELLE FAVOLE

Il nonno materno di Ester si chiamava Gaspare, come uno dei tre Re Magi, e quando
era bambina a lei sembrava proprio uno di loro perché aveva un fare dolce e misterioso,
e sempre un piccolo dono per lei.
Ester trascorreva con lui l’estate quando andava con i genitori in montagna nella sua
casa antica che, vista da lontano, sembrava posata ai confini del cielo.
Da quando lo ricordava, il nonno aveva già i capelli bianchi e camminava con un bastone
il cui manico era d’avorio e d’argento per aiutarsi, anche se lui le diceva che lo usava
solo come segno di nobiltà.
Il nonno Gaspare leggeva molto, gli piaceva giocare a carte, dipingeva delicati acquarelli
e le raccontava favole e storie immaginarie. A Ester era rimasta l’atmosfera magica di
quei racconti ma, purtroppo, nessuna trama. Aveva solo il ricordo di una storia, che
parlava di un uomo con un occhio di vetro e il nonno la raccontava muovendo due dita
della mano, l’indice e l’anulare, per simulare il passo del personaggio, e metteva una
biglia di vetro tra le stesse dita per creare un grande occhio.
La cosa più affascinante di nonno Gaspare era la sua passione per l’astronomia. Nel
solaio della casa aveva un locale tutto per sé, zeppo di libri che avevano come
argomento il cielo, mappe celesti, un piccolo sistema solare che si metteva in moto con
una manovella e, puntato verso il cielo attraverso un abbaino, un lungo cannocchiale
di ottone sempre lucido e con le lenti pulite.
Nonno Gaspare la portava spesso lì, tenendola per mano, e cercava di spiegarle quel
mondo affascinante.
Il ricordo più vivo per Ester era quello legato a ciò che il nonno le aveva raccontato in
una notte d’estate. Erano seduti vicini e si alternavano al cannocchiale, il cielo era
limpido e brillavano le stelle.
“Guarda quante stelle!” disse il nonno a Ester. “Un giorno ti insegnerò che cosa sono le
costellazioni, come si chiamano e come cambiano nel cielo al susseguirsi delle stagioni.
Vedi quel triangolo di stelle più brillanti? Sono Altair, Deneb e Vega. Ciascuna di loro è
la stella più luminosa della propria costellazione e intorno ve ne sono altri miliardi.
Eppure, se stai attenta, vedrai che al centro del triangolo c’è una parte del cielo. E
questa rimane sempre uguale. È una costellazione piccola, ma importante: è la
costellazione delle favole. Lassù, ogni stella è una favola: più la favola viene letta e
raccontata, più la stella brilla. Ce ne sono di grandi e di piccole, conosciute e
95
sconosciute. Vedi? Quella è la stella del Brutto Anatroccolo e vicino ci sono quelle di
Peter Pan e della Bella e la Bestia. Se riesci a seguire il mio dito puoi trovare
Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Aladino”.
Il nonno continuò: “Quel gruppetto di stelle a sinistra, vicine tra loro, sono le favole di
Esopo con tutti i suoi animali: la cicala e la formica, la lepre e la tartaruga, il corvo e la
volpe. Ogni volta che nasce una favola, nasce una stella, ma quando una favola non
viene più raccontata o letta, la stella muore”.
Poi rivelò: “Io so queste cose perché faccio parte dei Guardiani di Favole e, quando
sarai grande, vorrei che anche tu diventassi una Guardiana, che prendessi il mio posto
e controllassi che in quella parte del cielo ci sia sempre luce”.
Così disse nonno Gaspare a Ester e da quella sera lei aveva guardato il cielo in modo
diverso, cercando di riconoscere quella zona che il nonno le aveva indicato, illudendosi
di identificare numero, grandezza e luminosità delle stelle, fiera e certa che anche lei
sarebbe stata una Guardiana delle Favole.
Poi Ester crebbe, diventò ragazza e poi adulta e la vita la portò a dimenticare la sua
missione.
Un giorno d’estate però, rimettendo in ordine vecchie fotografie, ritrovò alcune
immagini di suo nonno e subito si ricordò di quello che le aveva raccomandato. Quella
sera stessa si ritrovò a guardare il cielo piena di nostalgia. Con un sorriso cercò quella
zona del cielo dove nonno Gaspare le aveva detto che vivono, nascono e muoiono le
favole ma, guardando con attenzione, ebbe l’impressione che fosse meno luminosa di
come la ricordava.
Continuò l’osservazione nelle notti seguenti e l’impressione iniziale non cambiò, anzi,
le sembrò che numero e luminosità delle stelle continuasse a diminuire. La zona del
cielo era quella che le aveva indicato, tra le costellazioni dell’Aquila, del Cigno e della
Lira: non poteva sbagliare. E quella zona si faceva sempre più buia ai suoi occhi. Forse
era colpa dei tempi cambiati, della televisione, dei cartoni giapponesi, della sempre più
scarsa propensione dei bambini, e anche degli adulti, a immaginare e fantasticare nella
propria mente e a lasciare ai media e ai social il ruolo di cantastorie.
Pur essendo completamente scettica sulla reale consistenza delle affermazioni di suo
nonno, cominciò seriamente a preoccuparsi: che Guardiana era stata?
Comprò tutti i libri di favole che trovava, li leggeva fino a notte inoltrata, li regalava ai
suoi nipotini, ai bambini che conosceva e a volte anche agli adulti che la guardavano
con stupore.
96
Piano piano, negli anni, notò che la sua costellazione riprendeva vita e luminosità.
Anche il numero delle stelle cresceva, piccoli astri nascevano e poi diventavano più
brillanti. Forse qualche altra persona, sollecitata dal suo invito, aveva ripreso a leggere
e a raccontare le favole. Ragionava anche sul fatto che forse le favole non erano solo
quelle di Esopo o dei fratelli Grimm. Avvicinandosi agli altri e ascoltandoli con
attenzione, aveva scoperto che ogni vita è piena di racconti e di storie, anche di poche
righe, poche parole, ma che posseggono lo stupore e la magia di piccole favole e che
anche queste salgono nel cielo a punteggiare e illuminare quel minuscolo spazio
dell’universo.
Infine, Ester capì ciò che le aveva insegnato suo nonno: finché esisteva almeno un
Guardiano delle Favole a sentinella, la luce della costellazione non si sarebbe spenta
mai.

97
98
99
La giostra

100
C’è un’urgenza comunicativa nelle opere di Silvio che riguarda
l’imminente e definitiva perdita di emozioni antiche.
Essa rappresenta un filo conduttore che attraversa tutti i suoi
racconti e dipinti, ma che qui è più stringente.
La giostra non è un oggetto, ma uno stato emozionale che non può
essere descritto e che, soprattutto le nuove generazioni, rischiano
di non provare mai.
È anche la rappresentazione della nostalgia:
l’artista che raccoglie a piene mani tutte le sensazioni di bambino
e le stringe forte al petto.

101
Quando era ancora un ragazzino, il signor Ettore aveva avuto tre
cavalli veri. Aveva ricevuto la proibizione di montarli, ma andava
spesso a trovarli nella stalla, portando loro zucchero e carote che
aveva preso di nascosto a sua madre.

102
Quella del signor Ettore era una vecchia giostra, un carosello con
sette cavalli di legno più un ottavo usato come saltatore di fila.

103
Era una notte di nostalgie ed i cavalli ricordavano le grida, le risate
dei bimbi, la loro felicità nel riuscire ad acciuffare la coda che dava
diritto ad un nuovo giro.
104
Bellissima storia che trovo struggente e
malinconica, sospesa tra realtà e sogno.
Raggiungere i cavalli che il signor
Ettore ha lasciato andare si configura
con il suo stesso bisogno di essere
libero

105
L’amica Fanny

106
Ogni cavallo della giostra aveva il proprio nome e tre di essi li aveva
chiamati proprio come quelli che aveva avuto da ragazzino.

107
LA GIOSTRA

“Anche oggi è stata una giornata così così” disse il signor Ettore guardando il blocchetto
dei biglietti venduti. Intanto la notte era già iniziata, le luci colorate del Luna Park si
stavano spegnendo. Ancora qualche bagliore, qualche grido degli ultimi irriducibili, una
musica lontana, come di una pianola, poi tutto sarebbe stato silenzio.
Quella del signor Ettore era una vecchia giostra, un carosello con sette cavalli di legno
più un ottavo usato come saltatore di fila. La giostra era stata già di suo nonno e poi di
suo padre o forse era ancora più antica, ma la sua cura maniacale e il suo amore per
quella giostra e quei cavalli era tale da sembrare sempre nuova, senza un attrito o
cigolio nei meccanismi, senza un colore mancante, senza che una briglia, un morso o
una sella fossero consumati.
Quando era ancora un ragazzino, il signor Ettore aveva avuto tre cavalli veri. Aveva
ricevuto la proibizione di montarli, ma andava spesso a trovarli nella stalla, portando
loro zucchero e carote che aveva preso di nascosto a sua madre. I cavalli, con una
delicatezza stupefacente, avvicinavano il loro muso morbido e tiepido, e prendevano
quelle leccornie direttamente dalle sue manine aperte.
Ogni cavallo della giostra aveva il proprio nome e tre di essi li aveva chiamati proprio
come quelli che aveva avuto da ragazzino. Si chiamavano Adanò, Meraviglia, Ciquita,
Eva, Blanca, Gemma, Nannù, Fortuna.
Il signor Ettore parlava sempre con loro come se fossero vivi quando si accingeva a
eseguire piccoli restauri, ma quella sera furono loro a parlare:
“È triste il signor Ettore” disse Adanò, il cavallo nero.
“Eh, già!” rispose Nannù, il cavallo bianco con macchie rosse “pochi guadagni. Appena
sufficienti per sopravvivere e anche se non mangiamo, un po’ costiamo lo stesso”.
“Non è solo questo” replicò Meraviglia “è che oggi i bambini raramente vengono a
giocare da noi, preferiscono le avventure con i videogiochi invece che saltarci in sella e
costruirsele da soli le fantasie”.
“E poi” aggiunse Chiquita “anche quando vengono qui preferiscono montagne russe,
elastici, ruote, giostre con astronavi, macchine e altri mezzi ispirati ai cartoni
giapponesi. Suonano campanelli e clacson e si divertono così, accompagnati da canzoni
moderne, ritmi ripetitivi, suoni assordanti”.
“La nostra musica che sembra un carillon, dolce e allegra, non piace più, non attira”
sussurrò Gemma, abbassando il capo.
108
Era una notte di nostalgie e i cavalli ricordavano le grida, le risate dei bimbi, la loro
felicità nel riuscire ad acciuffare la coda che dava diritto ad un nuovo giro, ed anche
l’allegria romantica di giovani coppie o adulti col cuore di bambini.
Il signor Ettore guardava la sua giostra del tutto ignaro, ovviamente, del dialogo che si
stava svolgendo. Eppure, i suoi pensieri erano esattamente quelli dei suoi cavalli.
Pensando e ricordando, i suoi occhi s’inumidirono e a un tratto, forse proprio per
l’accenno di lacrime che velavano la vista, fu come se il signor Ettore avesse notato uno
zoccolo muoversi, una criniera ondeggiare, il collo di un cavallo girarsi per guardarlo
con affetto: possibile?
Il signor Ettore allora si alzò, andò nella sua baracca e prese cacciaviti, tenaglie e chiavi
inglesi. Senza una parola, cominciò a smontare i pali che legavano i cavalli alla giostra
e poi li liberò dai pali stessi e tolse tutti i fermi degli zoccoli.
“Andate” disse carezzandoli uno ad uno “e cercate voi un posto dove poter entrare
ancora nei sogni dei bambini, io sono stanco”.
I cavalli, come per incanto, si mossero, piano piano scesero dalla piattaforma della
giostra, a uno a uno gli si avvicinarono, misero il loro muso nella sua mano come a
cercare ancora lo zucchero e le carote di una volta, e poi galopparono via
silenziosamente.
L’ultimo, Nannù, gli si fermò accanto con il fianco vicino e, muovendo la testa, gli fece
quasi cenno di salirgli in sella. Il signor Ettore lo guardò stupito, poi capì: con un salto
gli fu in groppa e insieme raggiunsero gli altri che in fondo al sogno li stavano
aspettando.

109
110
Tarì

111
La storia del falco Tarì non è solo frutto della nostalgia di un luogo
tanto amato, ma il ricordo di un evento reale.
Ce lo spiega la voce stessa di Silvio:
“La storia del falco che vedevo ogni volta che andavo a sedere sui
gradini del teatro è vera. Ed è vero che quando mia figlia andò
anni dopo in quel luogo, le chiesi se nel cielo vedesse qualcosa.
Poco dopo mi inviò con il telefonino la foto di un falco nel cielo.
L’unica finzione letteraria è il Tarì e l’avvicinarsi fisicamente a me
di questo splendido rapace”

112
Quando da ragazzo andavo, pastori e pecore giravano indisturbati
tra quelle rovine e il silenzio regnava sovrano.

113
Il falco mi guardò a lungo e poi fu lui a cercare la mia mano,
strofinandovi la testa finalmente libera.

114
Riconobbi sbalzata l’aquila bicefala e l’inconfondibile iscrizione cufica:
era un tarì, una moneta di Federico II.
115
Questo racconto mi ha fatto pensare a una
storia di amicizia tra il ragazzo Androclo e il
leone.
Il leone, per gratitudine verso il giovane che lo

aveva liberato dalla spina nella zampa e curato,

dopo tanti anni riconosce il suo salvatore e non lo

sbrana

L’amica Giannaura

116
Sembrava proprio un falco della Groenlandia, un tipo di girifalco
presente nel trattato “De arti venandi cum avibus” di Federico II,
lo Stupor mundi, l’imperatore amante della falconeria, trattato
scritto e illustrato da lui stesso.
117
TARI’

Chi oggi andasse a visitare il tempio greco di Segesta trova cancelli,


transenne, biglietteria, bar, negozi di souvenir, il trenino per salire fino al
teatro greco che sorge poco più in alto nella stessa area. Basta andare indietro
solo di pochi decenni per ricordare, invece, come tutta la zona apparisse quasi
deserta e abbandonata. Solo pochi turisti, per lo più locali come me,
visitavano e amavano quel luogo che si presentava come quasi duemila anni
fa.
Quando da ragazzo andavo, pastori e pecore giravano indisturbati tra quelle
rovine e il silenzio regnava sovrano. Di solito mi piaceva andare quando il sole
stava per tramontare: sapevo che era giusto a quell’ora che gli antichi attori
greci cominciavano lo spettacolo ed io cercavo di ricostruire, con la mia
fantasia, lo svolgersi delle rappresentazioni, le maschere, il coro facendo
andare a memoria i testi che stavo imparando al liceo. Andavo a quell’ora
perché tutti i teatri greci erano stati costruiti in punti particolari, spesso con
vista sul mare e orientati in modo che il pubblico potesse vedere prima il
tramonto e poi la tragedia: uno spettacolo nello spettacolo. Aspettavo il
tramonto, dunque, e spesso ero solo a godermi quella meraviglia.
Una sera, proprio quando stavo per allontanarmi, scorsi un puntino alto nel
cielo, che si muoveva seguendo le correnti d’aria.
Era un falco. Mi sedetti di nuovo sul gradone più alto e rimasi a guardarlo.
Scese velocemente, eseguendo qualche picchiata e poi cominciò a girarmi
intorno, sempre più vicino e sempre più lentamente, quasi per studiarmi
meglio. Infine, si posò a poco più di un metro da me.
Era splendido. Era un girifalco bianco, lievemente striato di bruno, eccetto
che per le penne da volo, che erano nere, ed aveva un cappuccio sulla testa.
Sembrava proprio un falco della Groenlandia, un tipo di girifalco presente nel
trattato “De arti venandi cum avibus” di Federico II, lo Stupor mundi,
l’imperatore amante della falconeria, trattato scritto e illustrato da lui stesso.
118
A quell’epoca, intorno al tredicesimo secolo, infatti la Groenlandia era poco
conosciuta nell’Europa meridionale. Non di meno, quell’uccello tanto raro era
presente alla corte dell’imperatore.
“Strano” pensai tra me e me, “sarà un falco usato per una battuta di caccia
qui vicino; ma perché si è così allontanato? Come mai si è posato qui?”.
Spostandosi lateralmente con le zampe, il falco intanto si muoveva sempre
più vicino a me, poi ondeggiò con la testa, quasi volesse dirmi qualcosa. Non
sapevo come comportarmi. Quando mi fu ancora più vicino, incominciai ad
accarezzarlo, prima timidamente e poi sempre più coraggiosamente poiché
sembrava gradire il tocco delle mie dita. Infine, d’istinto, gli tolsi il cappuccio.
Il falco mi guardò a lungo e poi fu lui a cercare la mia mano, strofinandovi la
testa finalmente libera. Ad un tratto spiccò il volo, compì una serie di giri
intorno a me e scomparve alla mia vista, lanciandomi uno stridio, come un
saluto.
Qualche mese dopo andai a sedermi come sempre sul gradone più alto del
teatro greco, ancora una volta per godermi lo spettacolo del tramonto,
immaginando sempre lo svolgersi di una tragedia greca, mescolandomi con il
suo pubblico. Ancora una volta, però, ero l’unico spettatore. Ogni tanto
guardavo in alto, ricordandomi quello che era accaduto l’ultima volta e, come
richiamato dal mio pensiero, un puntino scuro lassù nel cielo cominciò ad
avvicinarsi, ad ingrandirsi e un falco, dopo una serie di evoluzioni, venne a
posarsi vicino a me. Era proprio il mio falco, bianco, senza cappuccio.
Ondeggiò la testa verso di me, fece un giro su sé stesso e poi spiccò il volo.
Aspettai invano che tornasse. Solo dopo, quando stavo per andare via, mi
accorsi che nel posto dove si era posato brillava una moneta, un po’ sporca e
rovinata ma, senza alcun dubbio, d’oro. La presi e la strofinai un po’ con le
mani per pulirla, riconobbi sbalzata l’aquila bicefala e l’inconfondibile
iscrizione cufica: era un tarì, una moneta di Federico II. Stupefatto rimasi lì
non so quanto tempo a rigirarmi la moneta tra le dita, non sapendo neanche
a cosa pensare o credere. Poi andai via.
119
Nella mia mente chiamai il falco “Tarì” e ogni volta che tornavo a Segesta lo
chiamavo con la voce o con la mente e sempre, puntualmente, nel cielo vedevo
arrivare un puntino nero che girava intorno al teatro.
Ora sono anni che non vado più in quel luogo, ma, recentemente, è andata
mia figlia con i suoi bambini. Non conoscevano questa mia storia, ma
stranamente mi hanno telefonato proprio dal teatro per salutarmi. Ho chiesto
loro di guardarsi intorno e nel cielo e di dirmi se per caso vedessero un falco.
Dopo qualche minuto, mi è arrivata una foto tutta azzurra del cielo con in
mezzo, cerchiato, un puntino nero. “Come facevi a saperlo’” mi ha chiesto mia
figlia.
Non sarà sicuramente lo stesso falco, ma nella mia immaginazione penso che
sia ancora Tarì o un figlio di Tarì o un figlio di suo figlio: a me comunque
resterà sempre la bellezza e il mistero di quella magia.

120
121
122
Il frac per il nobel

123
È più vera la realtà che sta fuori di noi o quella che sta dentro? I
confini del nostro essere sono labili, mai definitivi. Ciò che per uno
è vero pur se irreale, diventa intollerabile per un altro. I filosofi
hanno congetturato a lungo per trovare risposte adeguate.
Questo racconto non ha presunzioni di questo tipo, ma fornisce
semplicemente tracce per riflettere fornendo un’unica certezza:
quello che conta è la tenerezza.

124
A qualcuno ogni tanto confido di essere di Giove, anzi, più
precisamente del suo satellite Ganimede, ma lo faccio quasi per
scherzo, con il desiderio di dirlo, ma nel contempo di non essere
creduto.

125
Lo guardo: è un braccio che non mi appartiene, un po’ mollo, con pochi
muscoli, attaccato a una mano con le macchie dell’età e le vene che
vengono fuori dalla pelle.

126
Un bel riconoscimento voglio portarmelo a casa. Ma, mi fermo a
pensare: come fanno ad assegnarmi il Nobel per la letteratura se non
ho pubblicato mai nulla?

127
Tra i racconti che preferisco c’è sicuramente Il
frac per il Nobel. È un racconto che non solo ho
trovato molto profondo, ma mi ha ispirato
tantissimo, portandomi a dipingere io stessa il
quadro, suggestionata dalle parole di Silvio che,
come accade spesso, sono arrivate nel profondo
del mio cuore.

La compagna Eva

128
Non importa, Io vado! Per qualcosa, qualunque cosa, ma il premio me
lo merito e me lo devono dare. Prendo la valigia, esco di casa.

129
IL FRAC PER IL NOBEL

Fingo di leggere a letto.


Ma fingo con chi? Sono solo!
Fingo, sì, perché anche se leggo, i miei pensieri cercano nel libro parole come
semi per far germogliare visioni, sogni, ricordi, desideri, tutti impastati tra
loro. Ma questi impasti, lo so, sono incoerenti con quello che dovrei pensare.
Incoerenti e anacronistici. Dovrei pensare alla salute, alla serenità, a come
essere felice ogni mattina perché sono vivo e mi faccio la barba e la doccia da
solo. E invece no! Continuo in quell’impasto a rivivere e a creare sogni come
se il mio tempo fosse senza fine ed infinita la mia forza.
Tolgo gli occhiali e stendo il braccio per spegnere la luce. Lo guardo: è un
braccio che non mi appartiene, un po’ mollo, con pochi muscoli, attaccato a
una mano con le macchie dell’età e le vene che vengono fuori dalla pelle. Non
è il mio braccio! Decisamente no!
Spengo la luce e rimango a pensare. Faccio bene a non guardarmi più allo
specchio, se non di sfuggita, come se si riflettesse un’altra persona, che passa
all’improvviso per poi scomparire.
Per me io sono ancora com’ero: bello, giovane, aitante, capo carismatico e
direttore adulato da tutte le migliori agenzie di cacciatori di teste. Super
intelligente, super bravo, risolutore di problemi, fine psicologo, amato dai
collaboratori e temuto dai concorrenti.
Non mi sono mai sposato ma ho avuto molte donne belle e affascinanti con le
quali sono rimasto sempre in buoni rapporti e ho generato figli, tanti,
affettuosi, colti, educati. Ma perché allora mi sento così solo?
I cavalli dei miei pensieri corrono e vanno per strade che nessuno ha mai
battuto. La mia sensibilità, intelligenza, cultura, fantasia, superano quella di
chiunque altro. Mi è stato difficile relazionarmi con gli uomini: sono così
poveri di conoscenza e di visione, così pieni di sé, ma li amo lo stesso e cerco
sempre di fare qualcosa per loro, senza umiliarli. Certo, l’ho fatto e lo faccio

130
con discrezione e nascondendomi: non posso rivelare tutto il mio essere e le
mie vere origini.
A qualcuno ogni tanto confido di essere di Giove, anzi, più precisamente del
suo satellite Ganimede, ma lo faccio quasi per scherzo, con il desiderio di
dirlo, ma nel contempo di non essere creduto. Se mi fossi scoperto, sarei
sicuramente finito in qualche clinica speciale, vivisezionato da un’umanità
mediocre, meschina, invidiosa che non sopporta specie di vita a lei superiori.
Avrei potuto eccellere in ogni campo. Quando guardo film, documentari,
sport, programmi politici, quando mi confronto con i “primi della classe”, mi
viene proprio da sorridere. Avrei potuto essere premier anzi il Premier. Se
avessi voluto sarei stato il più grande tennista, il più rinomato dei fisici,
l’attore più premiato, l’artista più ammirato, il chimico più innovativo,
insomma, il non plus ultra in ogni branca, settore, campo della vita. Ho però
dovuto, e devo, tenermi nascosto, non palesarmi apertamente. Solo nella
letteratura ho potuto svelare senza rischi la mia immensa capacità. Tra poche
ore, infatti, ho un aereo che mi porterà a Stoccolma: almeno un Nobel me lo
merito. E quindi sto preparando la valigia dove ho accuratamente piegato il
mio frac da cerimonia.
Un bel riconoscimento voglio portarmelo a casa. Ma, mi fermo a pensare:
come fanno ad assegnarmi il Nobel per la letteratura se non ho pubblicato
mai nulla? Sono perplesso. Forse mi hanno letto nella mente, o forse hanno
raccolto qua e là qualche frase, qualche pensiero che ho scritto, vecchi
quaderni di scuola, appunti di lavoro, note per la spesa.
Non importa, Io vado! Per qualcosa, qualunque cosa, ma il premio me lo
merito e me lo devono dare. Prendo la valigia, esco di casa.
Improvvisamente una voce mi ferma: “Ehi! Nonnino, dove vai con quel trolley?
Lo sai che non si può uscire e poi, così, di notte, in pigiama.”
Cerco di parlare, ma non ci riesco, sento un braccio che passa sotto il mio e
che dolcemente mi fa invertire il cammino, mi riporta nella camera e mi fa
sdraiare sul letto.
131
Sento una mano calda che mi accarezza la fronte e la stessa voce dolce di
prima che mi dice: “Non diciamo niente a nessuno, rimane un segreto tra noi.
Poi domani mi racconti tutto. Eri sempre in partenza per Stoccolma? Se fai il
bravo domani ti faccio mettere il frac a colazione”.

132
133
134
PIOGGIA SENZA FINE

135
Ci sono cose che solo i lettori possono considerare verosimili.
La pioggia del dipinto e la pioggia del racconto s’incontrano, ma
sono diverse. Un lettore potrebbe leggere il racconto senza che il
quadro lo suggestioni più di tanto. Allo stesso modo, un amante
dell’arte potrebbe trovarsi a considerare poco incisivo il racconto,
apprezzando fortemente l’arte figurativa.
Ma cosa accade a coloro che riescono ad amare
arte e letteratura allo stesso tempo?
È adesso il momento per sperimentarlo.

136
Decisi quindi di restare a casa a passare la serata, seduto sulla mia
comoda poltrona Chesterfield con un buon bicchiere di Gostave da
centellinare e, naturalmente, un buon libro.

137
Scelsi un’antologia di fantascienza e il titolo del primo racconto mi
fece un po’ sorridere per la coincidenza:
era “Pioggia senza fine” di Ray Bradbury.

138
Subito uno scroscio d’acqua mi investì, trasportandomi nuovamente in
quel mondo assurdo

139
Forse appare banale parlare delle sensazioni che riesci

a trasmettere con il racconto nella descrizione di una

scena o di uno stato interiore dato che sono delle

pennellate, che sono quasi miniature. Si tratta di un

bel cromatismo e di gradevoli contrasti come si vede

anche in un qualsiasi tuo quadro

L’amica Giannaura

140
Non ho più richiuso il libro, non so più quanto tempo è trascorso da
quella sera, e se per caso qualcuno dovesse trovarlo, vi prego:
lasciatelo aperto, io voglio restare qui.
141
PIOGGIA SENZA FINE

Una sera d’autunno, solo e senza impegni, avevo pensato di andare al cinema
ed ero pronto per uscire. Prima però guardai fuori dalla finestra. Era piovuto
tutto il pomeriggio e non sapevo se prendere l’ombrello o meno. Pioveva
ancora tanto e si era fatto buio presto. Le luci della strada, delle vetrine
illuminate dei negozi, delle insegne, delle pubblicità si rompevano in mille
riflessi colorati confondendo i contorni di ogni cosa. Restai alla finestra a
guardare affascinato, strizzando gli occhi per sfocare volutamente ancora di
più le forme e le luci. E non ebbi più voglia di uscire. Decisi quindi di restare
a casa a passare la serata, seduto sulla mia comoda poltrona Chesterfield con
un buon bicchiere di Gostave da centellinare e, naturalmente, con un buon
libro. Scelsi un’antologia di fantascienza e il titolo del primo racconto mi fece
un po’ sorridere per la coincidenza: era “Pioggia senza fine” di Ray Bradbury.
La storia narrava del tentativo di tornare al campo base di alcuni astronauti
perduti su Venere dove la loro nave era precipitata. Il loro cammino verso la
salvezza, una cupola di vetro color del sole, era però ostacolato da giorni e
giorni da una pioggia incessante, ossessiva, acida che ne impediva i
movimenti, il camminare, il pensare, il vedere, il respirare. Era veramente
facile impazzire o lasciarsi andare nel fango. La descrizione era talmente
realistica che mi sembrava di essere lì, ad annaspare soffocando in un’acqua
che cadeva senza pietà, senza fine. Ad un tratto mi accorsi che le pagine del
libro si erano completamente bagnate, così come bagnate erano le mie mani
e i miei capelli, gli abiti che indossavo. Anche il mio viso grondava acqua.
Balzai su dalla poltrona, scagliando impaurito il libro, sorpreso e incredulo.
Guardai il soffitto della stanza per vedere se si fosse aperta qualche crepa,
forse qualche guasto idraulico al piano superiore: niente, tutto in ordine. Mi
assicurai di aver chiuso la finestra e lo era.
Intanto, il fenomeno improvvisamente, senza una ragione apparente, era
scomparso. Guardai il mio bicchiere di assenzio per controllare quanto ne
142
avessi bevuto, il liquido verdastro era quasi tutto ancora là. Non avevo
allucinazioni, quindi non avevo sognato. Il mio volto e i miei abiti erano
davvero fradici di acqua, le mie scarpe zuppe e infangate e con fili di erba e
foglie di piante sconosciute attaccate alle suole. Il libro, che nel cadere a terra
si era richiuso, era invece stranamente già asciutto. Lo raccolsi con
attenzione e curiosità, lo riaprii e subito uno scroscio d’acqua mi investì,
trasportandomi nuovamente in quel mondo assurdo. Richiusi il libro con una
reazione immediata e mi ritrovai nuovamente a casa, stralunato, a passarmi
le mani addosso per asciugarmi, senza riuscire a pensare a nulla e senza
riuscire a farmi domande: sapevo già di non avere risposte.
Non raccontai niente a nessuno di quella sera, non volevo passare per pazzo
o burlone, ma il ricordo di quanto era accaduto divenne il mio pensiero
costante. Rivedevo più volte quella scena e nella mia mente la registrazione
era perfetta, sempre uguale e non riuscivo a darmi una spiegazione sensata,
naturale, scientifica o semplicemente…umana. Io sapevo però, e intuivo, che
almeno qualcosa di quella sera dovesse avere un qualche senso e finalmente
scoprii un particolare fondamentale. La chiusura e l’apertura del libro
avevano scatenato prima e fermato poi l’evento; evento che quindi presentava
la possibilità di un controllo, di un comando di accensione e spegnimento che
io potevo gestire. Così cominciai a fare esperimenti.
La sera dopo presi dalla libreria un romanzo a caso, quasi ad occhi chiusi.
Guardai la copertina. Era il “Tè nel deserto” di Paul Bowles. Mi sedetti in
poltrona e piano piano, dopo qualche sorso di assenzio, cautamente aprii il
libro. Subito un caldo vento agitò le pagine e granelli di sabbia cominciarono
vorticosamente ad insinuarsi fra le frasi stampate, tra le mie mani, nei miei
occhi. Chiusi di scatto il libro ed anche questa volta quel mondo cessò di
esistere. Avevo capito dunque! Riaprii il libro, più sicuro di me e mi immersi
nella lettura.
Mi trovai così a viaggiare con i personaggi del romanzo, come un compagno
di avventura a loro nascosto. Guardavo la loro vita, ma soprattutto osservavo
143
il deserto e i suoi colori. Cercai nella notte l’immagine e il pensiero che
avevano dato il titolo originale al libro (Il cielo protettivo):
“Una stella nera appare, un punto oscuro nel chiarore del cielo notturno.
Luogo oscuro e punto di passaggio verso il riposo. Tendi la mano, trapassa il
fine tessuto di questo cielo protettivo, riposa.”
Chiusi il libro e tornai di colpo sulla poltrona.
Nella mia testa continuavo a far ruotare, come in un caleidoscopio, tutte le
emozioni vissute, e le mie mani trattenevano un turbante giallo e blu pieno
di granelli di sabbia impalpabili. Non ero più meravigliato, né sorpreso o
impaurito. Accettavo quello che poteva essere un dono e lo custodivo, anzi, lo
coltivavo nel segreto della mia anima. Infatti, sera dopo sera l’appuntamento
con un libro diventò una specie di droga, un’ossessione dalla quale non
riuscivo e non volevo liberarmi. Aprivo e chiudevo un libro a mio piacimento
ed entravo fisicamente nel suo mondo, e con il tempo i dettagli divennero
sempre più incisivi, tanta era la mia partecipazione e coinvolgimento nella
trama narrativa. Anche se io non esistevo, restavo sempre un ospite, uno
spettatore occulto. Sceglievo il testo tra i libri più belli che avessi letto e che
mi avevano dato emozioni. A volte rileggevo, cercavo frasi che mi erano
rimaste nel cuore e nella mente e mi abbandonavo nel gusto di viverle.
Quante volte avevo letto il secondo capitolo del “Maestro e Margherita” di
Michail Bulgakov, immaginando l’atmosfera carica di tensione e di bellezza di
quelle righe. Aprii quindi il libro e mi ritrovai così nell’atrio del palazzo di
Erode, in piedi, tra Ponzio Pilato e il Cristo. Ero lì, sentivo il profumo dell’olio
di rose mescolato a quello del rancio dei soldati, vedevo il sole sorgere a
Gerusalemme e udivo il latrato di Banga, il cane del procuratore della Giudea,
unico sollievo al mal di testa dell’egemone. Ho sentito l’urlo della folla aizzata
dai sacerdoti, ho visto l’occhio complice di Pilato. Ho visto compiersi il destino
di un uomo. Ho visto l’acqua che continua da allora a lavare le mani di chi si
inchina con poca attenzione al destino. Quando chiusi il libro mi ritrovai sulla
poltrona vestito di una tunica bianca ed un mantello color porpora. Le mie
144
mani odoravano di rose. Un forte mal di testa non mi fece dormire quella
notte.
Quando lessi “Il castello dei destini incrociati” di Calvino, mi ritrovai nella
grande sala da pranzo del castello insieme agli altri convitati a raccontare nel
silenzio delle parole la mia storia, utilizzando le figure dei tarocchi ed
intrecciando le carte e i destini con quelli dei protagonisti. Quel vecchio mazzo
di tarocchi era ora posato sul tavolino accanto alla mia poltrona.
Altre volte mi confusi nella folla della piazza Jemer el Efna di Marrakesh ed
altre ancora ho scoperto le meraviglie dell’Oriente, volando su di un tappeto
magico. La mia casa è invasa da sete colorate, incensi, lampade come quella
di Aladino.
Altre volte ancora mi ritrovai sulla spiaggia di Troia, vidi le navi achee e i
cimieri di bronzo luccicare al sole, navigai sulla nave di Ulisse e udii il canto
delle sirene. Ho recitato sul palcoscenico di un teatro greco come parte di un
coro e ho portato con me una maschera da tragedia, una freccia e una punta
di lancia.
Una sera, affacciato alla finestra, aspettando l’ora che mi ero prefissata per il
mio appuntamento con la magia, mi accorsi che il colore del cielo era di un
blu cobalto che non avevo mai visto, un blu profondo e limpido che mi apriva
la vista su stelle altrimenti nascoste. Salì in me potente il desiderio di andare
lassù ed allora ripresi l’antologia di fantascienza. Mi immersi nella lettura di
“Blade Runner”. Anche se il libro era in parte diverso dalla scenografia del
film omonimo, divenni comunque un androide e, alla fine, mi ritrovai con
Rick sul cornicione di quel vecchio e abbandonato alto palazzo. Mi bagnai
come lui della pioggia acida che cadeva fitta sull’incubo della città del futuro.
Sentii nelle mie mani il calore di una colomba e insieme a lui rivissi gli
struggenti ricordi della sua e della mia vita artificiale:

Io ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento
in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi Beta balenare nel buio

145
vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel
tempo, come lacrime nella pioggia.

Non ho più richiuso il libro, non so più quanto tempo è trascorso da quella
sera, e se per caso qualcuno dovesse trovarlo, vi prego: lasciatelo aperto, io
voglio restare qui.
Voglio restare ancora qui e non tornare indietro, sono perduto nella
contemplazione dell’universo, smarrito consapevolmente nella visione di
scontri di galassie, di nascita di stelle, di infiniti spazi e silenzi, di
deformazioni del tempo, di universi paralleli, nella bellezza del mistero, nella
musica del cosmo.
Ed ogni mia cellula ora fa parte di questo incanto. Voglio restare qui.
Non chiudete il libro, vi scongiuro!

146
147
148
jumper

149
Il dipinto di Silvio prende vita quando si legge il racconto che lui vi
ha associato. Non è un caso. La magia dei colori, davvero potente
e intensa, è pervasa da un richiamo proveniente dal passato,
generato da una storia che viene dal futuro. I richiami a Ovidio
sono immediati. Non c’è alcun riferimento diretto, né imitazione
nella trama. Vedo nell’epilogo quei rami che s’innalzano, i colori e
l’intreccio con gli altri alberi. Una spinta verso l’alto di questa
nuova creatura vegetale che va a unirsi alle altre.

Poi guardo il quadro e mi perdo.

150
Era stato individuato, infatti, un pianeta che finalmente, più di ogni
altro, aveva caratteristiche molto vicine a quelle della Terra.
Era stato chiamato SPES 4115

151
L’equipaggio aveva annunciato l’avvicinamento della notte sotto un
cielo di stelle che erano state descritte come incredibilmente fitte e
brillanti dopo il tramonto.

152
Sentiva il sole riscaldarlo e l’aria scivolargli tutta intorno al corpo con
una sensazione sconosciuta, strana, ma gradevole.

153
Il viaggio interplanetario tra la Terra e Spes

4115 potrebbe essere, metaforicamente,

quello che tutti noi abbiamo intrapreso

lasciando la nostra terra natia e che ci ha

regalato una struggente nostalgia

L’amica Giannaura
154
Vix prece finita, torpor gravis occupat artus: mollia cinguntur tenui
praecordia libro, in frondem crines, in ramos bracchia crescunt; pes
modo tam velox pigris radicibus haeret, ora cacumen obit: remanet
nitor unus in illa
155
JUMPER

Jumper 21 non rispondeva ormai da mesi.


L’esplorazione di quella parte della costellazione era stata fino ad allora senza problemi e
senza alcun rischio e aveva portato a un altro grande successo. Era stato individuato,
infatti, un pianeta che, finalmente, più di ogni altro aveva caratteristiche molto vicine a
quelle della Terra. Era stato chiamato SPES 4115.
Gli altri pianeti colonizzati dall’uomo fino a quel momento avevano presentato difficoltà:
per la composizione dell’atmosfera, per la scarsità di acqua e per le specie animali indigene
presenti.
Tra l’esultanza scientifica generale, Jumper 21 era stato lanciato alla scoperta di quel sole
e di quel pianeta e, fino alle ultime comunicazioni, tutto confermava le più ottimistiche
previsioni degli esobiologi. L’atterraggio su Spes 4115, avvenuto in una zona di quel mondo
dove la luce della stella stava per finire, era stato regolare e morbido. L’equipaggio aveva
annunciato l’avvicinamento della notte sotto un cielo di stelle che erano state descritte
come incredibilmente fitte e brillanti dopo il tramonto. Poi più nulla, nessun bip, nessun
segnale, nessuna onda di frequenza. Tutta la missione sembrava inghiottita in un silenzio
profondo. Ma la Terra non voleva rinunciare a quel pianeta così promettente ed inoltre
desiderava conoscere la sorte della missione. Era stato così deciso di inviare un’altra
astronave con il compito di ricerca e salvataggio del precedente volo: Jumper 22.
Per diminuire il rischio di perdita di vite umane, un solo uomo costituiva l’equipaggio di
quella missione, scelto tra i volontari. Il suo nome era David, di origine irlandese, alto,
robusto, con folti capelli che davano sul rosso e grandi mani capaci però anche di lavori
delicati e precisi.
La sua nave si avvicinava lentamente al pianeta, quasi con circospezione, con molta
attenzione e tutto sembrava dannatamente facile, normale, tranquillo.
David compì due volte il giro intorno al meridiano dove si sapeva fosse atterrato Jumper
21, esplorando minuziosamente tutte le zone possibili e finalmente individuò la nave nel
mezzo di un boschetto multicolore, vicino la riva di un fiume e atterrò in prossimità.
David controllò tutti i parametri. Ognuno degli strumenti confermava le previsioni: gravità,
temperatura, umidità, percentuali di ossigeno e carbonio. Aspettò comunque di essere
fuori dall’astronave per togliersi lentamente il casco: l’aria era respirabilissima, pura,
profumata. Comunicò poi alla base il ritrovamento, le coordinate precise, e tutte le sue
prime impressioni e trasmise tutti i dati scientifici. Gli fu chiesto di mantenere costante la
comunicazione, di segnalare immediatamente qualunque anomalia e di lasciare accesa la
156
piccola telecamera fissata su una sua tempia. Se qualcosa fosse sfuggita a lui, non sarebbe
sicuramente sfuggita agli uomini della base.
L’ispezione a Jumper 21 si rivelò infruttuosa, tutto era a posto, nessun segno d’impatto o
di urto grave, nessuna avaria ai sistemi di controllo e comando, ma dei sei uomini
d’equipaggio nessuna traccia. Le tute e i caschi erano ordinatamente abbandonati vicino
alla scaletta che andava alla porta della nave, come del resto aveva fatto anche lui. David
cominciò allora a compiere dei giri concentrici intorno a Jumper 21, allargando sempre di
più il raggio di azione. Nulla: solo vegetazione, piante di tutte le dimensioni e fiori bellissimi
che si muovevano a una brezza leggera. Gli alberi, di colori diversi, intrecciavano i loro
rami e sembrava che si scambiassero le foglie per comunicare e per creare caleidoscopi in
continuo movimento e il fruscio prodotto suonava come un’arpa lieve e lontana, o come
accordi di un’orchestra che si preparava a suonare. Era come camminare in un Eden che
ti sorprendeva continuamente e che ti stordiva per le tinte e per le note. Anche i passi che
calpestavano le foglie cadute facevano scaturire musiche abbozzate. Era come camminare
sui tasti di un pianoforte o sulle corde di uno strumento. I colori poi, lentamente si
attenuarono, le ombre degli alberi si fecero più lunghe: il sole di quel pianeta stava
tramontando. Sorgevano le stelle di quella galassia ad annunciare la notte: una notte
profonda e smisuratamente bella.
David, ormai, decise di non proseguire nelle ricerche. Era troppo lontano dalla nave per
tornare indietro e poi era pervaso da un senso di nostalgia di cose mai provate, di dolcezze
dimenticate, di desiderio di pace, di serenità, di bellezza. L’aria era mite, era stanco, si
sedette sull’erba soffice, comunicò con la base, poi staccò i contatti. Guardava l’orizzonte
che cambiava continuamente limiti e colori, con le linee delle alture azzurre, verdi, color
oro. Gli parve di sentire ancora una musica, come una tenera ninna nanna, e si
abbandonò piano piano al sonno, quasi ipnotizzato dal variare continuo del numero delle
stelle, che sembravano muoversi come note su un pentagramma di uno spartito invisibile.
Si risvegliò, lentamente. Sentiva il sole riscaldarlo e l’aria scivolargli tutta intorno al corpo
con una sensazione sconosciuta, strana, ma gradevole. Cercò di stirarsi per togliersi di
dosso quel senso d’intorpidimento che provava. Alzò le braccia: due grandi rami carichi di
foglie rosse si mossero verso il cielo in mezzo ad una chioma anch’essa rossa e sentì il
proprio corpo vibrare verso l’alto, ma piantato come un tronco nella terra dalla quale
attingeva nutrimento e linfa vitale. Allora David istintivamente, come fosse lì da sempre,
intrecciò i suoi rami con quelli degli alberi vicini e si unì al loro coro, che ora percepiva
chiaro, forte, meraviglioso.

157
158
Rudolph

159
Continuamente l’arte di Silvio torna alle tradizioni della sua terra
che continua ad amare. Natale diventa il momento per il
rinnovamento di questo amore, in un’atmosfera magica che tutto
rende possibile. Ma nonostante il guizzo di fantasia tipico di Silvio,
che anche in Rudolph si manifesta, la vera magia che ha compiuto
e a cui tiene è l’aver trasmesso a sua figlia lo Spirito magico del
Natale. E la speranza di poter fare lo stesso con i suoi amati nipoti

160
È la Vigilia di Natale e, come se qualcuno mi stesse controllando, sto
aspettando l’ora giusta per adagiare il bambinello nella culla.
Intanto sistemo qualche pastore e qualche lucina nelle casette del
presepe. La magia del Presepe!

161
Così mi sono trovato ad essere il destinatario e il tramite per tante
letterine di Natale, che le sue compagne le consegnavano perché le
portasse a me e io, a mia volta, a Babbo Natale.
162
Ogni Natale, infatti, mio padre costruiva per noi un presepe quasi
“artistico”, curato e rifinito con piccoli dettagli meravigliosi.

163
Il rito del Natale durante l’infanzia per me è stato sempre
importante e l’influenza di mio padre è stata sicuramente
determinante. Ha sempre cercato di trasmettermi lo spirito
natalizio e la costruzione del presepe era fondamentale per
ricostruirlo. Oggi ricordo con affetto quei momenti e
guardo con piacere mio padre che cerca di trasmettere
quello stesso spirito anche ai suoi nipoti.

La figlia Viviana

164
Con occhi dolci di rimprovero ma muovendo nervosamente uno zoccolo,
sento la sua voce che dice: “Ancora non sei pronto? Sbrigati, è tardi!
I bambini aspettano i doni, dobbiamo andare”
165
RUDOLPH

È la Vigilia di Natale e, come se qualcuno mi stesse controllando, sto


aspettando l’ora giusta per adagiare il bambinello nella culla. Intanto sistemo
qualche pastore e qualche lucina nelle casette del presepe. La magia del
Presepe!
Lo preparo ogni anno forse per ricordare mio padre e i momenti nei quali noi,
quattro figli, vivevamo quel giorno. Ogni Natale, infatti, mio padre costruiva
per noi un presepe quasi “artistico”, curato e rifinito con piccoli dettagli
meravigliosi. Utilizzava un grande tavolo rettangolare in sala da pranzo su
cui disponeva una vecchia coperta militare, che arrivava a toccare terra su
tutti e quattro i lati, così sotto si potevano nascondere i regali che restavano
invisibili fino alla mattina di Natale. Sguinzagliava noi quattro bambini a
trovare muschio fresco sui muretti dei cortili, ramoscelli, paglia, qualche
sasso particolare.
Costruiva tutto con le sue mani: oasi di palme, villaggi di casette di cartone,
ruscelli e mulini, laghetti. Avvolgeva la carta rossa e trasparente delle
caramelle “Rossana” intorno a piccoli legnetti e poi li disponeva come un falò,
sopra una lampadina che, quando si accendeva, dava la sensazione che fosse
veramente il fuoco intorno al quale si radunavano alcuni personaggi del
presepe con pentole e padelle, pastori con pecore sulle spalle, suonatori di
zampogna.
Per le montagne e per la grotta usava il sughero, ma qualche volta le
realizzava con il gesso: costruiva una struttura in fil di ferro e metteva degli
stracci di tessuto dentro un secchio con acqua e gesso. Quando erano ben
imbevuti, disponeva gli stracci sulla struttura, lasciando che ne prendessero
la forma e che asciugassero. Infine, le dipingeva con i colori dei monti e del
deserto.
Io ho continuato questa tradizione. È stato bellissimo realizzare il presepe con
mia figlia, vedere l’eccitazione nei suoi occhi, le sue manine che cercavano di
166
aiutare, le sue scelte e le sue improbabili disposizioni dei personaggi e delle
pecorelle, la lotta per fare aspettare ai Re Magi il momento del loro ingresso
in scena. Ogni anno si aggiungeva qualcosa per arricchire la scenografia,
anche se le proporzioni non erano rispettate: animali da cortile, uccelli
d’acqua, dromedari con le loro bisacce, elefanti bardati. Ho messo anche ricci,
castori, papere e cigni su uno specchio, che fungeva da piccolo stagno.
Per tutti gli anni che mi è stato possibile, ho cercato di mantenere vive in lei
le storie e le leggende relative a questo periodo e per farle perdurare nella
purezza del suo cuore e nello stupore dei suoi occhi.
L’attesa di Babbo Natale, la notte della Vigilia è tra i ricordi più belli.
Avevo costruito, aiutandomi con dei fili trasparenti di nylon, alcuni
manovellismi e meccanismi, che mi permettevano di far cadere vicino al
presepe un po’ di paglia e un po’ di neve, far suonare qualche campanella,
accendere nascoste lucine.
Io, seduto in un’altra stanza, sulla mia poltrona di velluto bordò, con lei in
braccio, comandavo a distanza, con la mano libera, il verificarsi di quei
fenomeni. Sentivo il suo corpo stringersi e a me e il suo cuore battere per
l’attesa, lo stupore, forse un po’ di timore. Lei era spettatrice di qualcosa di
magico che accadeva e che le si incideva profondamente nell’animo.
A scuola, alle sue compagne, raccontava di questi avvenimenti meravigliosi e
diceva che il suo papà aveva un rapporto particolare con Babbo Natale. Così
mi sono trovato ad essere il destinatario e il tramite per tante letterine di
Natale, che le sue compagne le consegnavano perché le portasse a me e io, a
mia volta, a Babbo Natale. Le ho conservate, piene di desideri, promesse,
sogni.
Questa sera, tra un ricordo e l’altro, è finalmente arrivata l’ora giusta per
mettere il bambino nella culla. Lo faccio con delicatezza per non far cadere
nulla, le mie mani sono grandi, comunque riesco ad avvicinare ancora di più
il bue e l’asinello per riscaldare meglio Gesù.

167
Pieno di nostalgia, vado a prendere lo scatolone con su scritto “Natale” lassù,
in cima all’armadio.
Torno a sedermi sulla poltrona e tolgo il coperchio della scatola.
Vedo lucine e stelline che escono come finalmente liberate. Alzo lo sguardo e
mi sembra che anche gli angeli, ai lati della grotta del presepe, intonino un
canto: suggestioni!
Nello scatolone, tra palline colorate, casette, vecchi pastori, trovo il costume
di Babbo Natale. Indosso il cappello rosso col bordo bianco e poi la giacca
anch’essa rossa con i bottoni dorati e così addobbato prendo le letterine delle
compagne di mia figlia e mi immergo nella loro lettura, voglio leggermele tutte.
A scuotermi è il suono del mio videocitofono. Chi può essere? Mi alzo e vado
a rispondere. Lo schermo rimanda un’immagine confusa: nebbia e nevischio,
il borbottio metallico che sento è incomprensibile.
È da giorni che mi dico che devo fare aggiustare questo apparecchio. Vestito
come sono, allora, scendo a vedere chi è e apro il portone. Effettivamente
cadono fitti fiocchi di neve e scorgo davanti a me il grosso muso e le corna
dorate di Rudolph, una delle renne della slitta di Babbo Natale, quella con il
naso rosso. Con occhi dolci di rimprovero ma muovendo nervosamente uno
zoccolo, sento la sua voce che dice: “Ancora non sei pronto? Sbrigati, è tardi!
I bambini aspettano i doni, dobbiamo andare”.

168
169
170
ON-OFF

171
Ci sono questioni che solo gli artisti e i novellieri sono in grado di
indagare. Il doppio registro narrativo offerto da Silvio s’interpone
tra scienza e filosofia, mescolando queste due discipline in una
miscela che diventa qualcosa di più della semplice fantascienza:
una pennellata di futuro su una tela tra le righe.

172
Ho provato a comporre testi e musica, ma mi sembra tutto banale e
artificioso. Ed è noia.
173
Controllo inondazioni, diluvi, eruzioni, scontri di falde rocciose,
terremoti, niente mi può scalfire. Osservo l’universo che continua ad
espandere i propri confini

174
Mi manca la capacità di inventare nuove storie, la fantasia di
imbrigliare le note in musiche rinnovate, mi manca il desiderio, la
passione, la malinconia, la felicità, l’amore e il senso della vita.

175
La maggior parte della vita di Silvio oggi è nel passato.
Eppure in lui c’è il desiderio di poter vivere il futuro e il
rammarico di poterlo fare solo parzialmente.
I suoi racconti paradossali come On/Off sono lo strumento
per proiettarsi in quel tempo che non potrà vivere ma che,
come artista, può immaginare, esplorando il futuro
attraverso l’immaginazione, trascendendo così il tempo.

La compagna Eva

176
Non so se mi addormenterò o morirò, spero comunque di capire la vita
e di sognare anch’io, così come viveva e sognava chi mi ha costruito
milioni di anni fa.
177
ON/OFF

Grazie per aver risposto al mio messaggio, lo aspettavo. Lo so, ci vuole tempo, ma
cominciavo a sentirmi…solo. La solitudine non è nella nostra natura, non è qualcosa che
dovremmo provare, stiamo bene da soli, eppure….
Qui poche novità, solo piccole variazioni di accadimenti che però si ripetono ormai da
molto tempo. Ho studiato tutto quello che c’era da imparare, ho letto mille volte tutto
quello che c’era da leggere. Con le mie possibilità vocali ho recitato commedie, tragedie,
epigrammi, poesie; ho suonato e cantato come solista, e anche come un intero coro, le
pagine più belle della musica. Ora però, quando lo faccio, è solo un ripetersi, non posso
migliorarmi. Ho provato a comporre testi e musica, ma mi sembra tutto banale e
artificioso. Ed è noia. Per il resto è tutto sotto controllo, non mi manca e non mi mancherà
mai l’energia, continuo a fare il mio dovere. Ma per chi? Perché?
Ho provato a ricostruire città scomparse dopo millenni di storia: Uruk, Babilonia,
Alessandria, Atene, Roma, New York, Shanghai, Pechino, Lagos, Mumbai. Ho finito in poco
tempo e allora le ho distrutte e poi ricostruite ancora. Controllo inondazioni, diluvi,
eruzioni, scontri di falde rocciose, terremoti, niente mi può scalfire. Osservo l’universo che
continua ad espandere i propri confini, zone del cielo cominciano ad essere buie con le
stelle sempre più lontane una dall’altra, sempre meno visibili. Prima le inseguivo con le
mie navi, poi non mi hanno più interessato. Ho cominciato allora a catalogare scontri di
galassie, vortici fantastici di nebulose, nuove nascite di stelle; ho visto intere porzioni
dell’universo inghiottite da enormi buchi neri. Sono però sempre le stesse cose e la mia
attenzione va sempre più concentrandosi su me stesso. Me stesso! Ma chi sono io? È quello
che sto cercando di sapere.
Sento che, piano piano, vanno formandosi dentro di me domande a cui non so rispondere,
nonostante tutta la mia conoscenza: so che mi manca qualcosa.
Mi manca la capacità di inventare nuove storie, la fantasia di imbrigliare le note in musiche
rinnovate, mi manca il desiderio, la passione, la malinconia, la felicità, l’amore e il senso
della vita.
Ho intuito l’esistenza di tutte queste cose nei miliardi di miliardi di informazioni che ho
nella mia memoria, ma non so esprimerle, non so creare, non so immaginare. A volte mi
sembra di essere vicino a qualcosa che viene definito come coscienza, ma non riesco ad
andare oltre. Sognare! Che cos’è sognare? So che il sogno è quello che una mente inventa
mentre dorme o quello che un cuore insegue fino a morirne. E che cos’è dormire o morire?
Io non dormo mai e non morirò. E quindi che cos’è la vita se non si muore?
178
Un tentativo mi piacerebbe farlo e se al prossimo tuo messaggio non dovessi avere risposta
da parte mia, vorrà dire che avrò girato un interruttore: da on a off.
Non so se mi addormenterò o morirò, spero comunque di capire la vita e di sognare anch’io,
così come viveva e sognava chi mi ha costruito milioni di anni fa.

179
180
Il cantalanotte

181
Un Omero siciliano? Forse era questo il Cantalanotte, figura di un
fascino incredibile. Non arriva dal racconto la figura di un uomo
privato della vista, ma i colori dell’aurora che si mescolano con
una voce soave, l’armonia di viuzze antiche che accolgono
delicatamente la luce del giorno.

182
Accompagnati da un musicista di chitarra, mandolino o violino, erano
assoldati da chi aveva fatto erigere un’edicola votiva e davanti a
essa cantavano, raccontando la storia del Santo.

183
“Non facevano ricorso a strilli o urla ma, con canzoni quasi
sussurrate, riuscivano a conciliare il sonno di chi poteva continuare a
dormire oltre che a svegliare chi doveva essere svegliato.

184
In una città di mare in Sicilia, in un tempo che non serve precisare, il
cantalanotte si chiamava Rinaldo come il pupo paladino più amato dal
popolo di quell’isola.

185
Il cantastorie sembra stregato e segue senza sapere

il motivo il canto della sirena che lo conduce

davvero molto lontano dove lo aspetta un futuro

dove conoscere altre situazioni che lo arricchiranno

di nuove conoscenze ma anche di sogni e fantasie

L’amica Giannaura

186
“Vieni con me” gli sussurrò ancora Aglae.
187
IL CANTALANOTTE

Le cronache siciliane del Settecento parlano di una particolare casta o confraternita


chiamata degli orbi civati derivata da un’altra casta presente fin dal Quattrocento
nell’Italia centrale. Tale confraternita era il luogo dal quale provenivano gli orbi canterini
di storia sacra: uomini ciechi che conoscevano le storie di tutti i santi del calendario.
Accompagnati da un musicista di chitarra, mandolino o violino, erano assoldati da chi
aveva fatto erigere un’edicola votiva e davanti a essa cantavano, raccontando la storia
del Santo. Il prezzo era in funzione dell’importanza del Santo stesso o dell’evento.
Mestiere antichissimo quindi, come quello dei cuntastorie e dei cantastorie che sono
sopravvissuti anche nelle città fino a metà del Novecento. Altrettanto antico, simile e
derivato da questi, era quello del cantalanotte.
Nelle città che crescevano non c’erano più galli che, come in campagna, potessero
svegliare artigiani e panettieri. Così erano assoldati questi uomini, i cantalanotte, che,
dalle tre alle sette del mattino, davano la sveglia all’ora convenuta. Non facevano
ricorso a strilli o urla ma, con canzoni quasi sussurrate, riuscivano a conciliare il sonno
di chi poteva continuare a dormire, oltre che a svegliare chi doveva essere svegliato.
In una città di mare in Sicilia, in un tempo che non serve precisare, il cantalanotte si
chiamava Rinaldo come il pupo paladino più amato dal popolo di quell’isola. I suoi amici
e compagni erano immigrati, emarginati, gente di mille regioni che, con altrettanti
linguaggi, gli avevano regalato i loro racconti e le loro musiche, con occhi umidi o
esaltati, con parole e suoni sconosciuti.
Lui ne faceva poesie e canzoni e mischiava tra le strofe i profumi e i sapori della propria
terra: il mirto, il rosmarino, il ginepro rosso, il corbezzolo, il cappero, il leccio, il basilico
degli dei, l’ambra delle viti all’alba, l’argento degli ulivi alla luce della luna.
Certo, non poteva rivedere i colori meravigliosi dell’alba, il rosato dell’aurora, i riflessi
sul mare del sole che nasceva, ma li ricordava e riusciva comunque a percepire la
bellezza di ciò che lo circondava. Trovava così ispirazione per le sue poesie e serenate.
Ogni mattina Rinaldo finiva il suo giro di cantalanotte e faceva in modo di trovarsi vicino
al porticciolo e, lungo un percorso che ormai conosceva a memoria, raggiungeva lo
scoglio più avanzato sul mare e lì si sedeva.
Gli capitò un giorno, prima dell’alba, di sentire intorno al suo scoglio qualcuno o
qualcosa che nuotava dolcemente nel mare e poi una voce melodiosa che cantava le
sue canzoni e sussurrava le sue poesie.
188
“Chi sei? Cosa canti?” le chiese stupito, dato che conosceva la voce di tutti.
“Vieni a nuotare con me e lo saprai” rispose la voce ignota.
Rinaldo era un ottimo nuotatore e ancora incantato e frastornato da quella voce
bellissima non ci pensò neanche un attimo: si spogliò e si buttò in acqua.
Fu subito avvolto da un’onda calda, protese le mani e toccò le sue che dovevano essere
quelle di una donna e poi ancora al tatto colse la bellezza del suo viso, la seta dei suoi
capelli, sfiorò i suoi fianchi morbidi e riconobbe il corpo immortale di una sirena.
Le loro mani, i loro occhi e i loro corpi si unirono e anche le loro menti e i loro pensieri
si fusero con desiderio e delicatezza.
Aglae, così disse di chiamarsi la sirena, gli descrisse le grotte in fondo al mare, le foreste
di coralli, l’antro di Poseidone illuminato da pesci e piante fosforescenti e ornato da
mille fiori d’acqua e gli raccontò storie ascoltate nelle terre lontane, abbracciate dal
Mediterraneo.
“Vieni con me” gli sussurrò ancora Aglae.
Non servirono altre parole: abbracciato a lei, nuotò verso un mare lontano.
Chi fosse passato da quel posto qualche minuto più tardi non avrebbe visto nessuno
più sullo scoglio e da quel giorno, in quella città, non ci fu più Rinaldo il cantalanotte.
Ogni tanto però, nei mattini rosati, si sente un vento leggero che sembra cantare le sue
canzoni d’amore.

Donna di mare
Dai piedi nudi e gambe scure
Donna di mare
Dal riso fragoroso di un’onda
Donna di mare
Dalla pelle come sabbia
Che scorre tra le dita.
Nuotami accanto
Fino alla terra dei pesci volanti
Non svanire
Prima della fine del sogno.
Prima dell’alba.

189
190
L’ESPERIMENTO

191
Talvolta è difficile capire dove finiamo noi e dove inizia l’altro.
Questo accade maggiormente quando una persona ne accudisce
un’altra. La relazione di cura contiene delle sfumature e delle
implicazioni che sfuggono agli studi e alla comprensione razionale.
Il racconto di Silvio indaga questo particolare rapporto attraverso
l’analisi dell’impossibile, dell’incoerente, consapevole che le
relazioni umane sono il vero mistero che l’uomo non è ancora
riuscito a svelare.

192
Con lei il suo atteggiamento iniziale era stato quello di sempre, usato
con tutte le precedenti: stava in silenzio, brontolava, non mangiava,
era irascibile, nervoso, burbero e scostante.

193
Preferiva il contatto diretto, il viaggio vero, scrivere una lettera con
la penna stilografica e attaccare un francobollo piuttosto che
digitare su una tastiera e premere “invio”

194
La nuova badante si chiamava Vera

195
Immagino uno pseudo badante che abbia i
nostri stessi gusti interessi aspirazioni cultura
col quale instaure uno scambio continuo e
reciproco.
Sarebbe bello poter attuare questo
esperimento

L’amica Giannaura

196
Qualche lacrima è scesa dai suoi occhi, alcune sono state trattenute
dalle pieghe del suo viso e le sue mani cercano ora frettolosamente di
asciugarle, di nasconderle
197
L’ESPERIMENTO

Con un tono sempre affettuoso ma da ultimatum, sua figlia gli aveva detto:
“Papà, vedi questa volta di fartela stare bene. Non so più dove trovare
un’altra donna per te! Secondo te, la prima non andava bene perché non
parlava in italiano e mangiava tanto, un’altra era sporca e faceva cattivo
odore, l’ultima cucinava malissimo e beveva di nascosto. La donna perfetta
per te non esiste e poi credo che tu non voglia nessuno. Pensi di essere
autonomo e per certe cose lo sei, ma lasci i fornelli accesi e dimentichi
l’acqua aperta, che scorre e allaga tutto. Non posso lasciarti solo, fammi
stare tranquilla, ti prego. Mi sono rivolta ad una nuova agenzia, sembrano
proprio specializzati e dicono di avere solo personale altamente qualificato.
La signora arriverà già domani.”
Certo, per certi versi sua figlia aveva ragione, qualche guaio l’aveva
combinato, ma erano piccole cose alle quali, per fortuna, si era rimediato.
Il vero problema era che lui non poteva accettare questo stato di cose. Fino
a poco tempo prima la lettura, la musica, anche il dipingere, seppure con
mano sempre meno ferma, lo avevano accompagnato durante la giornata,
ma ora erano molte le cose che non riusciva più a fare.
La stanchezza dovuta all’età e qualche problemino al cuore l’avevano
costretto a fare sempre meno. Anche gli occhi gli si affaticavano e gli
impedivano di leggere e dipingere quanto avrebbe voluto. Le occasioni per
le quali si vedeva con gli amici, solo per due chiacchiere e un caffè, si erano
diradate
Certo, i progressi della tecnologia potevano aiutarlo. Le possibilità di
socializzazione e condivisione a distanza si erano evolute enormemente:
attraverso lo schermo del computer o della televisione tutto il mondo
entrava in ogni casa. Lui aveva sempre diffidato di queste applicazioni,
preferiva il contatto diretto, il viaggio vero, scrivere una lettera con la
198
penna stilografica e attaccare un francobollo piuttosto che digitare su una
tastiera e premere “invio”. Lo pervadeva una sensazione mista di rabbia,
malinconia, impotenza, nostalgia perché aveva ancora grandissima la
voglia di condividere, di raccontare e ascoltare, ma era sempre più difficile
uscire, incontrare persone, amici. Sua figlia veniva spesso a trovarlo, ma
aveva la propria vita, la propria famiglia.
La nuova badante si chiamava Vera. Con lei il suo atteggiamento iniziale
era stato quello di sempre, usato con tutte le precedenti: stava in silenzio,
brontolava, non mangiava, era irascibile, nervoso, burbero e scostante.
Non gli andava mai bene niente. Le reazioni di Vera però erano state per
lui una sorpresa. Vera era sempre gentile, sempre con il sorriso, non si
offendeva mai, la sua disponibilità era infinita e la pazienza sembrava la
sua dote principale. Vestiva sempre in modo semplice e curato, i capelli
sempre a posto, poco trucco. La sua presenza si avvertiva poco, per nulla
invadente, non occupava mai posto a tavola con lui, era discreta e
silenziosa. Inoltre, cucinava bene, sapeva indovinare i suoi piatti preferiti
e profumava sempre di un misto di primavera e spezie orientali.
Umberto, così si chiamava l’anziano professore, dopo un po’ di tempo si
rassegnò a non trovare nulla da ridire: voleva accontentare sua figlia alla
quale voleva molto bene e che spesso veniva a trovarlo e ad informarsi su
come andassero le cose.
Ma il carattere è il carattere e così sottopose Vera ad altro tipo di esami.
Cominciò a chiederle di leggere per lui. Così, come un rito. Ogni pomeriggio
nel salotto bello, Vera aveva il permesso di sedersi accanto a lui e leggeva
fino al tramonto.
Inizialmente era lui che le indicava i libri da leggere scegliendo
maliziosamente saggi di letteratura anziché romanzi per metterla in
difficoltà. Poi passò alla filosofia, alla storia, alla poesia, brani con problemi

199
di comprensione, pronuncia che richiedevano sempre più cultura e
intelligenza.
Vera superava facilmente tutti gli esami, non si scomponeva mai, non si
perdeva nelle frasi particolarmente contorte e nemmeno nei nomi difficili
dei personaggi, anzi, dopo un po’ cominciò lei a proporre titoli attinenti
quello appena letto o scritti dello stesso autore. A volte era lei, di ritorno
dalle commissioni, a portargli nuovi libri che Umberto non sempre
conosceva.
Il vecchio professore era stupito, piacevolmente stupito, e non riusciva a
rendersi conto come quella badante dell’est o di qualche altra parte del
mondo potesse, ignorante come pensava che fosse, riuscire non solo a
disquisire con lui sui contenuti dei libri, ma anche trattare i temi che questi
proponevano come riflessione. Sì, perché dalla semplice lettura si era
passati a scambiare commenti, giudizi, impressioni, alla scelta di qualche
brano di musica adatto all’atmosfera del libro.
Vera chiedeva dei suoi quadri, dimostrava una competenza approfondita
anche nella musica, un gusto speciale e soprattutto una memoria
eccezionale: a volte Umberto aveva infatti l’impressione che proseguisse
nella lettura senza sfogliare la pagina o che continuasse a leggere anche
se le ombre della sera erano calate da qualche tempo nella stanza. Inoltre,
Umberto non riusciva ad accettare che ora le sue giornate fossero scandite
dai momenti di relazione con Vera: dall’ora di colazione, al pranzo, alla
lettura, alla buonanotte prima di dormire, alla somministrazione delle
pillole, al suo sorriso e al suo profumo.
No, non era innamorato, non può innamorarsi un vecchietto di quell’età,
ma stare con Vera gli donava benessere, pace, bellezza, emozione.
Riusciva a nasconderlo, certo, ma la cosa si faceva sempre più difficile.
Anche Vera, con lo scorrere del tempo, aveva avvertito qualcosa che non
aveva mai provato nelle precedenti esperienze. Conosceva già tutti i libri
200
che Umberto aveva voluto che leggesse per lui e anche molti, molti di più,
ma era successo che addentrandosi nei commenti e nell’affrontare poi i
temi più generali, le era apparso il vero significato dei racconti, i mondi che
sottintendevano, i sentimenti e i pensieri che ne erano stati l’ispirazione e
la genesi. Era cambiato anche il suo modo di approcciarsi a Umberto:
all’inizio era per lei solo un essere da accudire e da curare, ma poi era
diventato un soggetto più complesso, ricco di sentimenti, di saggezza,
umanità, a volte un maestro da seguire per imparare i significati profondi
della vita. Sempre di più riusciva a cogliere dalle espressioni del viso, dal
corrucciarsi o illuminarsi degli occhi, dal tono della voce quello che al
professore piacesse o disdegnasse. La cosa più bella era che era riuscita a
fargli riprendere in mano se non i colori, almeno le matite colorate.
Umberto si era aperto a lei e aveva ultimamente accantonato la lettura dei
libri per raccontarle qualcosa della propria vita, qualche ricordo, qualche
suo pensiero. Si era lasciato andare a qualche confidenza e nelle loro
conversazioni, sempre più spesso, era nato il sorriso, l’ironia, la complicità.

Questo pomeriggio, seduti nel salotto, Umberto ha finalmente libera


l’anima da rancori e tristezze. È contento del suo presente. Guarda il suo
passato solo con serenità e racconta alcuni dei momenti più belli che ha
vissuto e parlando scopre anche nuovi aspetti di se stesso che aveva
dimenticato. È commosso, a volte la voce s’inceppa, poi si ferma del tutto.
È scesa intanto la sera, Vera si alza dal divano per accendere la lampada.
“No, le dice Umberto, aspetta.”
La luce della lampada Tiffany illumina il volto del professore. Qualche
lacrima è scesa dai suoi occhi, alcune sono state trattenute dalle pieghe
del suo viso e le sue mani cercano ora frettolosamente di asciugarle, di
nasconderle. Vera lo sorprende imbarazzato, confuso e allora sente
l’impulso di fare una cosa che non avrebbe mai concepito di fare: si alza,
201
gli si avvicina e con una carezza gli asciuga le lacrime, ripete la carezza
sulla fronte e sui capelli, ritorna a carezzargli il viso, ancora, in silenzio,
lentamente. Poi torna a sedersi. Si guardano, sembrano una fotografia, un
fermo immagine di un film. L’unico rumore è quello che viene della strada.
Anche Vera sente qualcosa scendere sul proprio viso, si alza lentamente,
va nella sua stanza. C’è qualcosa che lei non riesce a capire, qualcosa di
mai provato, una stretta alla gola, un qualcosa dentro che sembra voler
esplodere e che le ha bagnato gli occhi. Forse qualcosa non funziona. Va
davanti allo specchio, si guarda attentamente, poi, con gesti precisi, toglie
la preziosa parrucca, porta le mani dietro la nuca, spinge due punti con le
dita. La sua testa si apre in due parti con un movimento lento e preciso.
Vera guarda e analizza i suoi circuiti, i chips, i microprocessori, le sinapsi
artificiali che compongono il suo cervello e che controllano il suo corpo
anch’esso artificiale. Con mosse esperte, lancia alcuni sistemi di
autodiagnosi. Sembra tutto a posto, tutto uguale a prima. Sa di essere un
esperimento e conosce perfettamente tutte le sue funzioni. Ma allora,
perché non sapeva di potere piangere, anzi, di potere provare il bisogno di
piangere?

202
203
LA SPONSA

204
Cos’è un pegno d’amore? Che senso ha regalare una poesia? E
soprattutto: un pegno d’amore e una poesia possono reggere
davvero il peso del tempo?
I fiori e la carta si consumano, ma la verità è che, a dispetto di
tutto, i sentimenti possono davvero attraversare i secoli.

205
Conoscete il “Giardino Inglese” di Palermo?
È un giardino meraviglioso nel centro della città, un fiorito polmone
verde, concepito nella metà dell’Ottocento

206
Troviamo, come ogni giorno quando fa bel tempo, seduta su una
panchina verde, Adele con un libro in mano. È “la sua panchina” dove
da ragazza aveva ricevuto un dono d’amore.

207
Da qualche tempo c’è anche un giovanotto che gira per i viali, sempre
ben vestito e sbarbato, con una borsa dove tiene una raccolta delle
sue poesie.

208
Un mio rimpianto è quello di non aver potuto
raccogliere per iscritto le memorie che i miei nonni
narravano. Ma ero troppo piccola, non avevo questa
consapevolezza. Per questo ho insistito con Silvio
perché scrivesse i racconti: era l’unico modo per
salvare i ricordi di un mondo che tra pochi decenni
scomparirà dalla memoria della gente. Soprattutto,
sarà un patrimonio prezioso per i suoi nipoti

La compagna Eva

209
La sponsa era quasi un gioco che si tramandava di generazione in
generazione: si raccoglieva qualche bocciolo di gelsomino e si creava un
piccolo mazzo e un nuovo fiore profumatissimo che durava una sola
sera
210
LA SPONSA

Conoscete il “Giardino Inglese” di Palermo?


È un giardino meraviglioso nel centro della città, un fiorito polmone verde,
concepito nella metà dell’Ottocento, ricco di piante secolari e rare, con
fontane e boschi che lasciano ancora al visitatore una sensazione di
selvaggio e favoloso insieme.
Nella sua parte più esotica, ispirato al “Giardino delle delizie” di epoca
araba, con collinette, vallate, ponticelli, grotte e aiuole, troviamo, come
ogni giorno quando fa bel tempo, seduta su una panchina verde, Adele con
un libro in mano. È “la sua panchina” dove da ragazza aveva ricevuto un
dono d’amore.
Oggi Adele è una dolce e anziana signora.
Indossa un vestito blu scuro con un largo colletto bianco. Bianchi sono
anche i bottoni dell’abito, le scarpe e i guanti di merletto che lasciano
trasparire il candore delle mani.
La pelle del viso sembra di carta velina, bianco-rosata, delicata e fragile.
Sulla testa porta un cappello blu di rafia con la veletta che le nasconde un
po’ gli occhi scuri. Sembra uscita da una foto dei primi del Novecento.
Adele legge, ma spesso alza gli occhi dalle pagine del libro e si sofferma a
guardare la vita che le scorre intorno. Quanti personaggi negli anni hanno
calpestato quei viali. Le piaceva osservare i venditori di gelsi freschi, che
con il loro “banniu” ne decantavano la morbidezza e il profumo.
S’incantava a guardare i gesti rituali degli acquavitari, i venditori ambulanti
di acqua e zammù. L’acquavitaro gridava “acqua cu zammù, che bedda
fridda” e poi, brocca di terracotta alla mano, con un gesto veloce, disinfetta
con il limone il bordo del bicchiere e vi faceva scendere una piccola quantità
di “zammù”. Come per incanto, una nuvola bianca si creava nel bicchiere
appagando palato, vista e olfatto.
211
Adele conosce tutti i segreti del giardino e anche dei suoi visitatori abituali,
bambini, coppie, anziani.
Da qualche tempo c’è anche un giovanotto che gira per i viali, sempre ben
vestito e sbarbato, con una borsa dove tiene una raccolta delle sue poesie.
Adele conosce la strategia di quel poeta: si avvicina alle persone e chiede,
in modo discreto: “Vi piace la poesia? Volete che ve ne legga una? Forse
ne ho scritta proprio una per voi”.
E chi può dire di no! Allora estrae dalla sua borsa alcuni fogli, sceglie una
poesia, la declama e poi aggiunge: “Se lo desiderate, potete conservarla
come ricordo, costa solo pochi euro”.
E così il giovane poeta sbarca il lunario, offrendo i suoi versi, con grazia e
gentilezza, regalando un po’ di bellezza a chi lo ascolta.
Adele lo osserva, rallegrandosi con affetto per ogni suo successo. Il volto
di quel giovane le ricorda un altro uomo, in un altro tempo.
Oggi, col sole che al tramonto posa ancora i suoi caldi raggi, lo guarda con
particolare attenzione, si sta avvicinando a lei.
Ad un tratto i loro sguardi si incrociano e lui le dice: “Vedo che ama leggere.
Le piacciono anche le poesie? Posso leggergliene una? Se poi le piacesse,
gradirei anche regalargliela.”
Adele annuisce e si dispone ad ascoltare.
Lui sceglie accuratamente dalla borsa una delle sue poesie e incomincia a
leggere. A mano a mano che prosegue, si accorge che Adele si fa sempre
più attenta e pensierosa. Alla fine, una lacrima scende facendosi strada tra
le rughe del suo viso, il suo sguardo è lontano, così come i suoi pensieri.
Dopo un momento di silenzio lei chiede: “Quando hai scritto questa poesia?
Come ti chiami? Io sono Adele”.
“Mi chiamo Salvo, come mio nonno, e ho scritto questi versi non più di un
mese fa, ero proprio seduto su questa panchina e mi sono sbocciati nel
cuore”.
212
Adele è turbata, la poesia le fa ricordare con stupore il dono d’amore
ricevuto tanti anni prima e gli chiede:
“Sai che cos’è una sponsa o sei troppo giovane per saperlo? Il tuo sguardo
mi dice che non lo sai e quindi te lo racconto.
La sponsa era quasi un gioco che si tramandava di generazione in
generazione: si raccoglieva qualche bocciolo di gelsomino e si creava un
piccolo mazzo e un nuovo fiore profumatissimo che durava una sola sera.
Bisognava saper riconoscere e raccogliere i fiori in boccio, quelli che si
sarebbero aperti quella sera e non i giorni seguenti. Bisognava soprattutto
avere pazienza e maestria nell’infilare i boccioli ad uno ad uno
nell’infiorescenza di una carota selvatica, senza rovinare i fiori. Era un dono
ad una promessa sposa o una dichiarazione d’amore alla propria amata.”
“È una storia bellissima!” esclama Salvo, colpito anche dal modo con cui
Adele gli ha raccontato questa tradizione: aveva mosso le dita delle mani
quasi a comporre il fiore invisibile e poi se l’era portato al cuore.
Salvo le porge la poesia e Adele, ancora frastornata, lentamente si alza e
piano piano si avvia verso l’uscita dei giardini, con un ultimo sguardo negli
occhi del giovane.
Adele ha un pensiero in testa, deve arrivare presto a casa per trovare
conferma al suo ricordo.
Ancora con i guanti e il cappello in testa, in camera da letto, apre un
cassetto del comò, prende una vecchia scatola di cartone, solleva il
coperchio e le sue mani corrono ad un pacchetto di lettere, legate da un
nastrino verde.
Da una delle buste prende un foglio di carta piegato e scritto a mano con
al suo interno una sponsa secca e fragile. Con molta attenzione apre il
foglio ripiegato: è una poesia.
La legge sussurrandola, la conosce a memoria e, come ricordava, è identica
a quella del giovane poeta.
213
Nell’alba affollata di nuvole
Mi soffermerò a guardare il tuo viso
Percorrerò lentamente
Il solco delle rughe.
Di ognuna conoscerò la nascita
E il pensiero che l’ha disegnata.
Da infinite lontananze
Mi appariranno improvvise e segrete.
Il tempo forse passerà inutilmente
Senza rivelarci l’uno all’altro.
O forse
Riemergerà immutata la gioia
Di incontrarsi
Come due sconosciuti
Sul far della sera.

Tuo Salvo

214
FOTO VALIGIA SU SFONDO BIANCO

215
LA SCATOLA IN
VALIGIA DI
SILVIO FAZIO
di Sabrina Baldanza

216
A mano a mano che si pensava e si costruiva l’allestimento della mostra
“Racconti In Tempo Irreale”, nasceva sempre più forte in Silvio Fazio
l’urgenza di immettere tra dipinti e racconti un intervallo, una pausa e
quindi una riflessione, una gemma preziosa di ingegno e sensibilità che
nutrisse gli animi di chi sa ascoltare e commuovesse chi ha occhi curiosi e
sete di conoscenza.
Nasce così per gioco la “boîte en valise”, la scatola in valigia, una valigia
cartonata riempita dall’Artista, da un esperto di “cosmografia interiore” così
lo definirebbe il filosofo H.D. Thoreau.
Nella storia dell’arte dai tempi degli Ezigi al contemporaneo popular di Andy
Warhol, gli oggetti d’affezione da conservare sono una necessità e una
costante dell’animo umano. E immediata e franca mi affiora l’immagine
della scatola in valigia di Marcel Duchamp.
1935-1941: sei anni sono necessari all’artista dadaista per realizzare
questa Scatola, la Boîte- en-valise. L’idea è quella di riprodurre, rendere
piccole e trasportabili le opere realizzate fino ad allora. Una sorta di
catalogo in miniatura di tutta la sua opera, che poi sarebbe stato pubblicato
in trecento esemplari. Ogni esemplare, di lusso, conteneva allora circa
sessanta riproduzioni tra le quali una sola opera era, anche se in piccolo,
un’originale.
Trasformare un momento della propria vita affettiva facendole assumere
una qualità lirica, dove esistenza e poesia si identifichino in una sola entità.
Scegliendo un ready made, un oggetto già pronto, ribaltandone il senso
comune, Duchamp riscatta qualcosa anche di piccolo e banale. Ci regala
una nuova visione: l’idea del viaggio, del “portabile”, del trasportare e del
nomadismo.
Ci racconta con umorismo e intelligenza emotiva che il nostro sguardo sul
quotidiano può catturare qualcosa di incorporeo, di immateriale. Lo chiama

217
inframince (l’infrasottile ovvero una misura immisurabile come quella di
due arie o profumi che si contaminano, il calore che resta su una sedia
dopo esserci stati seduti, le persone che passano all’ultimo momento nei
portelli della metro, il fumo del tabacco, gli odori, i riflessi di luce sulle
superfici e sugli specchi. Sono gli stessi anni in cui W. Benjamin nel saggio
sull’Opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica del 1936, parla di
aspetti fuggitivi, di temporalità minime e impercettibili.
Disporre in valigia, costruire un insieme implica tracciare un ordine,
disegnare una mappa. Ed eccoli gli oggetti infrasottili e impercettibili scelti
da Fazio da custodire in valigia: barattoli di colori, una pagina scritta di
quaderno, foto, Il corriere dei piccoli del 1951, prove d’autore, acquerelli
del nonno materno Gaspare Terranova, un cavalluccio e tracce di spartiti.
Fazio immagina la Bôite come la possibilità di trasportare il suo “album”
dagli anni dell’infanzia, ai suoi continui spostamenti tra la terra di Sicilia e
il partire per il Nord, culla del suo diventare ed essere ingegnere, del
mettere su casa e famiglia, di acquisire una mentalità nuova e di viaggiare
con e senza valigia tra Oriente ed Occidente, da solo o in compagnia dell’
anima gemella.
Dunque ritornano in qualche modo trasportabilità e viaggio, dove
spostamento e transitorietà coincidono con il Suo mondo.
Una condizione “nomade” del pensiero. Ossia un pensiero che non si ferma,
che sceglie la trasversalità, non solo le cause e gli effetti. Lo immagino e,
mi aiuta in questo la botanica, come un rizoma presente nelle piante
erbacee; all’apparenza come una radice molto diramata, ma in realtà una
vera e propria porzione di fusto che sviluppa sotto il livello del suolo gemme
proprie, fungendo da deposito di sostanze nutrienti. Nomade può essere
anche l’ipotesi di una diversa disposizione dello sguardo: che non domina,
che si sposta di lato, che sceglie percorsi sotterranei, dispersi, lontani dalle
apparenze e dalle immediate fisionomie delle cose.
218
Ed è per questo che, nella pagina scritta di questa mia postfazione, ho
scelto per farmi compagnia due dipinti che richiamano ma, allo stesso
tempo, rifiutano linearità e gerarchie. Sono Testimoni di ramificazione,
connessioni ed estensione.
In “C’è qualcuno” ritorna l’immagine del treno. Ricorda vagamente quello
del bimbo in carrozza. Qui è un treno meno narrativo, meno legato al
passato di Fazio. È un treno più libero, spregiudicato nella sua corsa,
colorato nei suoi significati; luminoso mentre attraversa l’oscura notte.”
Abbandono le spalle sul sedile e mi lascio andare, chiudo gli occhi.
Quando li riapro il fondo del quadro è diventato blu notte. Vedo vagoni con
tutti i finestrini illuminati che sfrecciano velocissimi verso il loro punto di
fuga.” Il pennello imbevuto di colori è lo stesso delle lucciole (immagine
scelta per la prima e quarta di copertina del librocatalogo).
I colori striati e graffiati del rosso e del blu si alleano con i grigi per
diventare un suono forte, un richiamo irresistibile a partire, ad esplorare
nuovi spazi, a volte indecifrabili, a mettere in conto anche di perdersi, con
il desiderio consolatorio di farsi venire a prendere.
E possiamo anche attraversare e scoprire i pensieri lucidi della mente di
Fazio nei colori trasparenti di “Pensiero di una sera”. Un dipinto dedicato
ancora al viaggiare, restando fermi, in una solitudine che apre i confini,
spinge alla conoscenza di nuovi mondi e rende il mondo abbracciabile …
“Cammino come un ubriaco, scartando le persone per non urtarle e il corpo,
piano piano, sembra quasi atteggiare un passo di danza che via via diventa
più consapevole e fluido”.
Ed è qui che la scatola in valigia di Fazio diventa una “capsula del tempo”,
da lanciare nello spazio, visibile, non sotterrata, e accessibile a noi tutti.
Da vivere fin da ora, all’interno della mostra, negli spazi espositivi
dell’Accademia del Broletto o nel tempo più dilatato dei ricordi, del nostro

219
occhio interno e delle migliaia di regioni o galassie, nel nostro cuore, vergini
ancora. Tutto con calma e tenerezza, così ci insegna e ci invita Fazio.
Con l’illusione, tuttavia, che questa raccolta di vita, o meglio, questa
carezza, risulti per l’Artista, per il lettore o visitatore attento, una specie di
“storia dell'anima”, che è fatta, si sa, di nulla, ma pure può avere sapore
di eterno.

220
221
C’è qualcuno?

222
La creatività germoglia laddove non ci sono parole per esprimere
soprattutto ciò che si sente, la parte più invisibile di noi.
È la realtà nascosta, consapevolezze dell’invisibile che solo
l’artista sa raccontare.

223
A volte, quando inizio un quadro, non so cosa dipingerò, ho solo una
sensazione e un colore di fondo e mi ci immergo con la fantasia.

224
Quando li riapro sono seduto in un vagone. Guardo dal finestrino.
Dove sto andando? O dove mi sta portando?

225
Non ho paura, sono ubriaco, stordito, allucinato, ho perso la cognizione
del tempo, la capacità di pensare, me stesso.

226
227
La musica ora è dolce, tocchi leggeri sulla tastiera di un piano.

228
C’è qualcuno?

A volte, quando inizio un quadro, non so cosa dipingerò, ho solo una


sensazione e un colore di fondo e mi ci immergo con la fantasia.
Ora che il fondo è fatto deve asciugare. Lo guardo.
Vado dentro il quadro e sono in piedi, metà tra i palazzi di una città e metà
in una campagna aperta. I colori sono per metà sfumati e metà netti come
in certi tramonti o in certe ore prima dell’alba.
C’è tanta gente e tanti rumori oppure sono solo e in silenzio.
Sento un fischio, è un treno che arriva veloce sui binari della mente.
Non si ferma, sento lo spostamento dell’aria e chiudo gli occhi.
Quando li riapro sono seduto in un vagone. Guardo dal finestrino. Dove sto
andando? O dove mi sta portando?
Il treno corre sempre più veloce e una musica l’accompagna. E’ come una
musica di circo che diventa sempre più frenetica, musica di tamburi,
chitarre, fisarmoniche, clarini.
Fuori le case, gli alberi si susseguono e si alternano sempre più
indistinguibili, invisibili, flash di oggetti che scorrono via piegati dalla
velocità.
I miei capelli sono scompigliati e le tendine dei finestrini svolazzano
sbattendo impazziti. Ma i finestrini sono chiusi e non so da dove arrivi il
vento.
Il treno accelera sempre più veloce, fuori ormai solo lampi di luce,
fotogrammi colorati, note basse e stridenti che vorticano, si intrecciano, si
inseguono.
E’ un caleidoscopio di luci, suoni, colori che corre, ruota ipnotico.
L’orizzonte lontano è solo una linea che sale e scende, si interrompe,
riprende, si interrompe, senza senso.

229
Passano velocissimi nella mente attimi di vita, volti, frasi, emozioni, un
miscuglio ed un impasto che non riesco a districare, non riesco a fermare
o fissare niente. Mi aggrappo a qualcosa che sembra più saldo ma scivola
via dalle mie mani, come fatto di niente.
Intanto il treno va sempre più veloce. Non ho paura, sono ubriaco, stordito,
allucinato, ho perso la cognizione del tempo, la capacità di pensare, me
stesso.
Abbandono le spalle sul sedile e mi lascio andare, chiudo gli occhi.
Quando li riapro il fondo del quadro è diventato blu notte. Vedo vagoni con
tutti i finestrini illuminati che sfrecciano velocissimi verso il loro punto di
fuga.
La musica ora è dolce, tocchi leggeri sulla tastiera di un piano. So che posso
fermare il treno, cercarmi negli scompartimenti, trovarmi e scendere,
oppure lasciarlo andare verso una stazione che non so, ma che immagino
con bandierine colorate, i vetri del bar appannati e il cappuccio caldo, una
banda che suona e una bicicletta appoggiata alla fontanella, il capostazione
col berretto rosso il fischietto e la paletta.
L’aria è ferma, sa di notte e di fumo, ho un piede sul predellino e l’altro sul
marciapiedi, la mano ancora sulla maniglia, non so se scendere, guardo se
c’è qualcuno che mi aspetta.

230
231
Pensiero
della sera

232
Anche i pensieri possono tramutarsi in racconti.
Silvio raccoglie le proprie sensazioni per creare un monologo
interiore, che si trasforma in immagini narrate
e prende vita nei colori del suo dipinto.

233
La musica sale più forte, più veloce e ora sono come uno dei dervisci
che ruotano per trovare l’estasi e tutto mi gira intorno.

234
Mi accendo una sigaretta, accenno col fischio una ballata, vesto la
cravatta più viva ed esco a confondermi con la gente.

235
Guardo il cielo, immobile come tutto il resto delle cose.

236
237
Trasformata in un caleidoscopio, la mia mente ruota
immagini e colori finalmente senza senso.

238
PENSIERI DI UNA SERA

Nuvole frangono in scie di aerei e all’orizzonte il cielo si sta tingendo con i


colori del fuoco e del miele.
La luce tiepida e dorata ha lasciato la sua ultima carezza sulle cose e un
lampo viola trionfa, ancora per un attimo, sul buio.
In sere come questa, naufraga la mia anima nella musica, nei colori, nei
pensieri degli uomini e allora non so più se mi è più lontana Atlantide o le
case al di là della mia finestra.
Strofino la lampada del Genio e nel fumo escono ricordi, come spezzoni di
film, immagini sepolte negli infiniti spazi della mente.
Mi accendo una sigaretta, accenno col fischio una ballata, vesto la cravatta
più viva ed esco a confondermi con la gente.
Cammino, c’è folla. Le persone si urtano quasi tra loro: istanti di contatto
tra sconosciuti.
Colgo brani di discorsi, parole, frasi, suonerie di cellulari, rumori, rumori,
rumori.
Vorrei avere orizzonti infiniti e un silenzio assoluto o con una sola voce che
canta.
Cammino come un ubriaco, scartando le persone per non urtarle e il corpo,
piano piano, sembra quasi atteggiare un passo di danza che via via diventa
più consapevole e fluido.
Ballo tra la gente che non capisce e guarda stupita. Ballo abbracciato a me
stesso, a un me stesso che cambia aspetto assumendo varie sembianze
dai film della memoria dalle tante età.
La musica sale più forte, più veloce e ora sono come uno dei dervisci che
ruotano per trovare l’estasi e tutto mi gira intorno.

239
Giallo, rosso, arancio, quadrato, triangolo, quadrato. Dolore, gioia,
angoscia, felicità, passione, solitudine. Trasformata in un caleidoscopio, la
mia mente ruota immagini e colori finalmente senza senso.
Poi tutto si ferma, la musica tace. Guardo il cielo, immobile come tutto il
resto delle cose.
Intorno, palazzi, strade e palazzi.
Le luci nelle case illuminano stanze, cucine, tavoli, scrivanie, giovani,
anziani, bambini, persone che si muovono ognuna inconsapevole dell’altra,
ognuna con i propri sogni, con la propria storia, le loro speranze e
disperazioni. La luce azzurrina dei televisori massifica tutte le vite, le
attese, i desideri, i pensieri, i divani, le pantofole, i letti, le conversazioni.
Eppure, penso che tutto questo potrebbe essere una preghiera dolce o un
coro potente, ma non c’è nessuno in ascolto.
Vorrei spargere dolcezza e bellezza, vorrei consolare, curare, aiutare,
abbracciare, colmare di doni, esaudire desideri, fare sorridere, prendere
tutti per mano e fare un girotondo infinito e poi cadere tutti giù per terra.

240

Potrebbero piacerti anche