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Il

libro

F
R E D D I E M E R C U R Y È S TATO I L P I Ù G R A N D E F R O N TM A N D I TU T TI I TE M P I .

Ma anche il più misterioso. Il suo genio musicale e la sua incomparabile


creatività gli hanno fatto conquistare l’adorazione di milioni di fan, eppure
pochi fino a oggi hanno potuto penetrare nel suo privato, conoscere le sue origini o
addirittura incontrare l’uomo che lui stesso temeva di essere. In questa eccezionale
biografia la giornalista musicale Lesley-Ann Jones, fin dai primi anni Ottanta a
stretto contatto con i Queen e il loro entourage, scandaglia il mito, sfrondando
chiacchiere e pettegolezzi per portare alla luce la personalità di un individuo timido e
affascinante, deciso a sperimentare ogni eccesso – compresi quelli che gli
abbrevieranno drammaticamente la vita – pur di esprimersi. Il testo ripercorre gli
eventi fondamentali dell’esistenza del cantante, dai giorni in cui era solo Farrokh
Bulsara, un giovane afro-indiano, alla consacrazione della rockstar Freddie Mercury.
La nascita a Zanzibar, la solitudine del collegio in India, la fuga a Londra, il successo
planetario della band e la tragica morte per AIDS: nessun evento viene tralasciato
nella ricerca della verità sulla persona e sull’artista. Un racconto documentato,
avvincente e ricco di aneddoti che rivela la rigida educazione, e i conseguenti sensi di
colpa, da cui nacque la sessualità confusa che portò Freddie a legarsi profondamente
sia a uomini sia a donne; la passione divorante per la musica; il tormento e l’euforia
alla radice di canzoni rimaste nella storia; il periodo cruciale in cui una spettacolare
performance al Live Aid catapultò il gruppo di nuovo al centro della scena.
Nessun’altra biografia può vantare un accesso diretto a così tante figure chiave, tra
cui amanti, famigliari, amici, dirigenti, musicisti, addetti stampa, fotografie
produttori. Un resoconto appassionato non solo di come quel ragazzino
trasformatosi in leggenda vedeva se stesso, ma anche di come il mondo vedeva
Freddie Mercury. Il ritratto definitivo di una delle figure più complesse e amate dei
nostri tempi.
L’autrice

Lesley-Ann Jones è una giornalista e opinionista inglese, da oltre


venticinque anni nel mondo della musica e dell’industria
discografica. Autrice di numerosi libri, documentari e
trasmissioni, vive a Londra.
www.lesleyannjones.com
LESLEY-ANN JONES

I WILL ROCK YOU


FREDDIE MERCURY
LA BIOGRAFIA DEFINITIVA
Traduzione di Dade Fasic
Per mia madre e mio padre
Per Mia, Henry e Bridie
Introduzione
Montreux

ALL’EPOCA non scrivemmo nulla. Prendemmo nota, mentalmente, come si


faceva allora, per poi scarabocchiare appunti alla toilette prima che l’alcol
cominciasse a fare effetto. Certo, avevamo i registratori, ma non potevamo
usarli: erano un mezzo sicuro per uccidere una conversazione sul nascere, in
particolar modo se ti trovavi in una situazione compromettente, in cui non
era una buona idea dichiararsi giornalista.
Noi tre – un paio di scribacchini e un paparazzo – ci eravamo sfilati dalla
festa per la stampa che furoreggiava al centro conferenze perché volevamo
farci una birra in tranquillità nell’unico pub sul corso principale di
Montreux. Un posticino intimo e tranquillo, il White Horse si chiamava,
soprannominato Blanc Gigi. Per caso Freddie era lì quella sera, insieme con
un paio di amici, forse svizzeri o francesi, con i pantaloni attillati. Quel pub
inglese era uno dei suoi locali preferiti, e lo sapevamo. Freddie non aveva
bisogno di guardie del corpo, ma di sigarette sì. Il nuovo giornalista
dell’Express che era con noi era un fumatore incallito e aveva sempre con sé
almeno quattro pacchetti. Le notti erano lunghe per i giovani reporter dello
show business. Eravamo preparati.
Non era la prima volta che incontravo Freddie. Ci eravamo già visti in
diverse occasioni. Ero stata un’appassionata di rock fin dall’infanzia: avevo
incontrato David Bowie a undici anni e Jimi Hendrix era morto il giorno del
mio compleanno, nel 1970 (doveva essere stato un segno; che cosa non lo
era?). Ero stata iniziata alla musica elettrizzante e complicata dei Queen
nell’estate successiva al mio ultimo anno di scuola, grazie alle sorelle Jan e
Maureen Day, due fan, quando mi ero ritrovata a viaggiare con loro su un
pullman ansimante diretto a Barcellona e alle spiagge della Costa Brava.
Erano gli anni in cui tutti avevano una chitarra e un plettro che era
appartenuto a George Harrison.
Ma il mio destino non era diventare una nuova Chrissie Hynde o una
nuova Joan Jett e dai primi anni Ottanta avevo cominciato a scrivere di rock
e pop per il Daily Mail, il Mail on Sunday, il suo supplemento You, e il Sun.
Ero una giornalista in erba dell’Associated Newspapers quando avevo
incontrato i Queen per la prima volta. Un bel giorno del 1984 ero stata
spedita a intervistare Freddie e Brian negli uffici della band a Notting Hill e
da allora era nata una frequentazione asimmetrica: loro ti chiamavano, tu
andavi. A ripensarci ora, gli anni successivi furono surreali. Lo show
business era più semplice allora: artisti e giornalisti viaggiavano spesso
insieme, condividendo aerei e limousine; alloggiavamo negli stessi alberghi,
pranzavamo agli stessi tavoli, insieme facevamo feste infernali nelle città di
mezzo mondo.
Un ristretto numero di quelle amicizie è durato nel tempo. Oggi non è
più così. Troppi manager, agenti, promoter, pubblicitari, dipendenti delle
case discografiche e tirapiedi vari, tutti sulle spine. E se non lo sono, fanno
finta. È nel loro interesse tenere quelli come noi dietro la barriera. All’epoca,
invece, con un po’ di faccia tosta entravamo ovunque, con o senza il pass
laminato che diceva ACCESS ALL AREAS. Anzi talvolta nascondevamo i nostri
lasciapassare, solo per tenerci allenati: intortare le guardie era parte del
divertimento.
L’anno precedente avevo visto i Queen a Wembley per il Live Aid dal
backstage – oggi non mi lascerebbero nemmeno dare una sbirciatina – e nel
1986 ero stata invitata a una serie di date del Magic Tour. A Budapest,
avevo partecipato a un ricevimento esclusivo in onore della band
all’ambasciata britannica e avevo visto il loro storico spettacolo dietro la
Cortina di ferro, in Ungheria, che probabilmente è stato il loro migliore
momento live in assoluto. Mi piace pensare che ero parte integrante di quel
mondo, che non ero altro se non una ventenne magra e lentigginosa come
tante, innamorata del rock’n’roll.
Ciò che mi sorprendeva sempre, ogni volta che lo vedevo, era quanto
Freddie fosse più magro di come lo ricordavo. Forse era la sua dieta a base
di nicotina, vodka, vino, cocaina e adrenalina. Quando si esibiva era così
imponente, che lo immaginavi altrettanto nella vita reale. Non lo era affatto.
Al contrario, era abbastanza minuto, tenero e con l’aria da bambino. Ti
scatenava l’istinto materno e faceva lo stesso effetto a tutte le ragazze,
proprio come l’androgino Boy George dei Culture Club, che era diventato il
cantante preferito dalle casalinghe dopo aver opportunamente «confessato»
di preferire una buona tazza di tè al sesso.
Al White Horse, Freddie si stava guardando intorno mormorando
«siga…» in quel suo accento rapido e asciutto, e vagamente effeminato.
Quella sera al pub pensai che quell’uomo era un groviglio di contraddizioni.
Lontano dai riflettori poteva essere umile e alla buona tanto quanto sul
palco appariva arrogante e pieno di sé. Più avanti, lo udii mormorare «pipì»
con una vocina da bambino e osservai incantata uno dei suoi amici
accompagnarlo alla toilette. Era fatta: ero cotta di lui. Avrei voluto
portarmelo a casa, immergerlo in un bagno caldo, chiedere a mia madre di
cucinargli un bell’arrosto. A ripensarci ora, era ovvio che quella grande stella
del rock sapesse andare al gabinetto da solo, ma sarebbe stato un obiettivo
troppo vulnerabile in un bagno pubblico.
Roger Tavener, il nuovo dell’Express, gli offrì una Marlboro. Freddie
esitò prima di accettare: avrebbe preferito una Silk Cut. Ci osservò dalla sua
postazione con vago interesse mentre scambiammo qualche battuta con gli
habitué. Forse proprio perché non gli prestammo troppe attenzioni, ritornò
da noi per un’altra sigaretta. Allora, dov’era che alloggiavamo? Al Montreux
Palace, risposta esatta. Freddie ci aveva vissuto, in una suite personale. Lui e
i Queen erano proprietari dei Mountain Studios, l’unico studio di
registrazione in quella seriosa località di villeggiatura svizzera. All’epoca i
Mountain erano ritenuti i migliori studi in Europa. Toccava a lui offrire. Un
altro giro di qualsiasi cosa avessimo bevuto prima.
«Ovviamente sapete chi sono», disse, dopo un’oretta, con un barlume di
consapevolezza negli occhi d’ebano. Naturale: era proprio per lui che ci
trovavamo lì. Qualche vodka tonic prima, forse ci avrebbe anche
riconosciuti. Mandati dai nostri direttori a partecipare al Rose d’Or, il
festival internazionale del varietà televisivo, dovevamo occuparci anche del
suo evento collaterale, un gran galà del rock ampiamente seguito da varie
emittenti televisive e che per noi era solo una scusa per spassarcela un po’.
Avevamo pensato che Freddie non volesse essere infastidito, invece era
in vena di chiacchiere. In linea di massima non frequentava noi giornalisti.
Dopo essere stato ridicolizzato e citato erroneamente più volte in passato, si
fidava di pochi nel nostro ambiente. David Wigg, all’epoca responsabile per
lo spettacolo del Daily Express e anche lui presente a Montreux, era un suo
grande amico. Molto spesso era lui a ottenere gli scoop.
Stavamo diventando speciali, buttando all’aria la possibilità di
un’intervista ufficiale (e ne eravamo consapevoli). Prima del mattino,
Freddie ci avrebbe scoperto e, peggio ancora, ci avrebbero scoperti anche il
suo management e i suoi addetti stampa. Avendo superato il limite (così
avrebbero pensato) probabilmente non saremmo mai più riusciti ad
avvicinarlo. Quello era il suo bar, il suo territorio. Nonostante ciò, appariva
vulnerabile e nervoso, molto diverso dalla grande star che pensavamo di
conoscere.
«È per questo che vengo qui», disse. «Siamo solo a due ore da Londra,
ma posso respirare, pensare, scrivere, registrare e andarmene a spasso; e
credo che sia proprio di questo che avrò bisogno nei prossimi anni.»
Condividemmo. Mostrammo solidarietà per il tormento della celebrità,
anche se era un problema suo, non certo nostro. Cercavamo di controllarci,
di apparire tranquilli e rilassati. Aspettando che il nostro istinto omicida si
placasse, quello che voleva farci correre al telefono per comunicare ai nostri
direttori lo scoop dell’anno, cioè che eravamo riusciti a inchiodare la star più
ricercata del rock in una bettola svizzera, ingollammo un paio di bicchierini
extra e attendemmo. Era un’opportunità inestimabile. Io e Tavener eravamo
complici novelli, volevamo far colpo l’una sull’altro e per giunta le testate
per cui lavoravamo erano acerrime rivali. In teoria, avremmo dovuto
guardarci con reciproco sospetto e girarci intorno come due pescecani.
Rassicurammo Freddie e gli dicemmo che eravamo abituati a lavorare
con le celebrità, che sapevamo tutto sulla privacy: la prima cosa che le
persone famose sacrificano e l’ultima che si rendono conto di rivolere.
Questo commento toccò il tasto giusto.
Freddie fissò la vodka nel suo bicchiere, scuotendolo.
«Sapete, è proprio questo che mi tiene sveglio la notte», rifletté. «Ho
creato un mostro. Quel mostro sono io. Non posso incolpare nessun altro. È
ciò che volevo fin da piccolo. Avrei ammazzato per avere tutto questo.
Qualsiasi cosa mi accada è colpa mia. È ciò che volevo. È quello che
cerchiamo tutti: successo, fama, soldi, sesso, droga… tutto quel che vuoi. Io
ce l’ho. Ma ora inizio a capire che anche se l’ho creato io, voglio sfuggirgli.
Comincio a preoccuparmi, penso di non poterlo controllare tanto quanto lui
controlla me.
«Quando salgo sul palco, cambio», ammise. «Mi trasformo totalmente
nel ‘grande showman’, il migliore di tutti. E dico così perché sono costretto a
esserlo. Non potrei mai accontentarmi di essere secondo, piuttosto rinuncio.
Devo pavoneggiarmi, devo afferrare il microfono in un certo modo. E mi
piace farlo. Come mi piaceva guardare Jimi Hendrix che spremeva il suo
pubblico. Anche lui era così, e i suoi fan lo adoravano per questo. Ma
lontano dal palco era abbastanza timido. Forse soffriva perché, non volendo
deludere le aspettative, anche lontano dai riflettori tentava di essere quel
personaggio trasgressivo che in realtà non era. Quando salgo lassù è come
fare un’esperienza extracorporea. È come se mi vedessi dall’alto e pensassi:
Cazzo, che figo. Poi mi rendo conto che sono io: Okay Freddie, adesso
mettiamoci al lavoro...
«Certo che è una droga», proseguì. «Uno stimolante. Ma è difficile
quando la gente mi riconosce per strada e vuole quello che ha visto lassù: il
‘grande Freddie’. Io non sono lui, sono molto più tranquillo. Allora cerchi di
separare la tua vita privata da quella pubblica, altrimenti diventi
schizofrenico. Temo che sia questo il prezzo da pagare... Non
fraintendetemi, non sono un ‘povero ragazzo ricco’. La musica è quello che
mi tira giù dal letto la mattina. Sono davvero fortunato.»
Cosa ci poteva fare?
«Sto facendo un dramma per niente, vero?» Di colpo, uno sprazzo del
grande Freddie. «Soldi a palate, adulazioni, una casa a Montreux e una nel
quartiere più ricco di Londra. Posso comprare a New York, Parigi, ovunque
voglia. Sono viziato. Il tizio sul palco può fare quello che desidera. Il
pubblico le vuole. Io mi preoccupo di come andrà a finire», confessò infine.
«Di cosa significhi far parte di una delle band più famose del mondo. È un
ruolo che comporta certi problemi. Significa che non puoi farti una
passeggiata dove vuoi o andare a prenderti un tè con le paste in un delizioso
locale del Kent. Devo sempre soppesare queste cose. È un viaggio bellissimo,
e mi piace, ve l’assicuro. Ma a volte…»
Uscimmo, nel cuore della notte. Freddie e un paio di amici stavano in
una villa in montagna, che secondo lui nascondeva antichi tesori, alcuni dei
quali trafugati dai nazisti durante la guerra. L’aria frizzante odorava di pino.
Le Alpi illuminate dalla luna gettavano ombre sulle acque sonnacchiose.
Era ovvio che Freddie adorasse quel suo rifugio svizzero: una
bomboniera in riva al lago, famosa per il festival jazz, i vigneti, Nabokov e
Chaplin, e per Smoke on the Water, l’inconfondibile brano dei Deep Purple,
composto in un albergo del posto nel dicembre del 1971. Era ispirato a un
fatto successo durante un concerto di Frank Zappa: un fan aveva incendiato
il casinò per errore, sparando un razzo segnaletico. L’edificio bruciò, e
mentre il fumo volteggiava sul lago Roger Glover contemplò la scena dalla
sua camera, con il basso a portata di mano.
«Gettate le mie spoglie mortali nel lago quando non ci sarò più», disse
Freddie scherzando. Lo ripeté almeno due volte.
La conversazione cadde sull’importanza di godersi le cose semplici della
vita, evitando accuratamente di menzionare il fatto che, grazie al suo
patrimonio, poteva permettersi di realizzare qualsiasi fantasia che le persone
comuni possono solo sognare.
Che cosa ne facemmo di quell’«esclusiva»? Nulla. Non scrivemmo nulla.
Ci servì solo a capire qualcosa in più.
Freddie e i suoi amici erano brave persone. Era stata una serata
piacevole. Lui era stato onesto. Probabilmente non si fidava affatto di noi.
Sapeva chi eravamo, deve avere immaginato che l’avremmo fregato. Forse
voleva che lo facessimo, per confermare la sua convinzione che i giornalisti
erano tutti cattivi. Lui in particolare, fra tutte le rockstar, era abituato a
essere tradito, specialmente da quelli come noi. Anche se forse non lo
capimmo allora, oggi il suo comportamento appare sensato. Può darsi che
sentisse di avere i giorni contati. Di certo viveva come se non vi fosse alcun
domani. Forse aveva oramai deciso di rinunciare a qualsiasi cautela,
imprigionato com’era dalla sua stessa fama. Proprio perché sapevamo che si
aspettava il peggio da noi, io e Tavener concordammo di commettere
un’infrazione punibile con il licenziamento: non avremmo venduto le sue
confidenze in cambio di un misero titolo sui nostri rispettivi giornali.
L’alba cominciava a luccicare sulle punte ammantate di neve. I suoi
colori vivaci punteggiavano l’acqua del lago, mentre rientravamo in albergo.
Nessuno parlò. Non c’era più nulla da dire. Tavener fumò l’ultima sigaretta.

«La musica rock è di importanza capitale», sostiene Cosmo Hallstrom, un


celebre psichiatra che ha trascorso quarant’anni a lavorare con i ricchi e
famosi.
«Rappresenta la cultura al punto in cui è oggi. Vi gira molto denaro, il
che la rende una carriera desiderabile. È un fenomeno che non può essere
ignorato. Unifica, crea un legame comune.
«Il rock’n’roll è immediato. Parla di emozioni grezze, primordiali, non
mediate, e lo fa con concetti semplici e ribaditi a fondo. È irresistibile, non
lo puoi ignorare. Non puoi evitare di esserne scosso. Dovresti essere sordo, e
forse nemmeno in quel caso… Parla a un’intera generazione. Le dona una
conferma, come nessun’altra cosa potrebbe fare.»
«Essere un artista significa gridare ‘aiuto’», mi ribadisce Simon Napier-
Bell, il più famigerato manager del settore. E se c’è qualcuno che può
saperlo, è proprio lui: ha composto alcuni dei grandi successi di Dusty
Springfield, ha trasformato Marc Bolan, gli Yardbirds e i Japan in nomi
familiari a tutti, ha inventato gli Wham! e ha convertito George Michael in
una superstar solista. Napier-Bell non usa mezzi termini, in particolare su
questo argomento.
«Gli artisti sono persone terribilmente insicure. Desiderano
disperatamente essere notati. Sono alla ricerca costante di un pubblico. Sono
costretti a essere commerciali, cosa che odiano, ma che secondo me migliora
la loro ‘arte’. E hanno anche tutti lo stesso passato, il che è fondamentale.
Per esempio Eric Clapton: quando l’ho visto la prima volta ho pensato: Non
è un artista, è solo un musicista. Nella band di John Mayall suonava dando
le spalle al pubblico, tanto era timido. Ma poi si è evoluto e allora ho capito
che era davvero un artista. Era cresciuto senza il padre, con una sorella che
gli faceva da madre, e una nonna che chiamava mamma. Gli artisti hanno
sempre infanzie segnate da abusi, almeno in termini di carenze affettive. Per
questo provano un bisogno disperato di successo, amore e attenzioni. Tutti
gli altri prima o poi rinunciano. Perché, lascia che te lo dica, è orribile essere
una star. È bello ottenere il tavolo migliore al ristorante, ma poi mentre
mangi c’è qualcuno che ti interrompe ogni trenta secondi. È un incubo.
Eppure le star accettano di buon grado queste cose. Fanno parte del
pacchetto.
«Di solito sono persone squisite quando le incontri la prima volta»,
prosegue. «Ma hanno un lato oscuro. Quando hanno preso da te tutto ciò
che possono, non gli servi più e ti sputano via. Io sono stato sputato via
tante volte, ma non me ne frega niente. Le capisco, so che cosa provoca
questa reazione. Non serve a niente offendersi o arrabbiarsi perché una star
ti ha trattato male. Sono quel che sono. Hanno tutti avuto qualche trauma
psicologico da piccoli. Posso garantire che, se si indaga nella loro infanzia, si
scopre cos’è stato. Che cosa può darti quel bisogno così disperato di applausi
e adulazioni? Che cosa può farti vivere una vita schifosa, una vita che non
potrai mai definire davvero tua? Nessuna persona normale vorrebbe mai
essere una star, per tutto il denaro del mondo.»
«Freddie Mercury ha fatto la cosa più importante di tutte», controbatte
Hallstrom. «È morto giovane. Anziché diventare una checca grassa, gonfia e
presuntuosa, è caduto nel fior fiore degli anni e sarà ricordato a quell’età in
eterno. Non è un brutto modo per andarsene.»
Questa è la sua storia.
1
Live Aid

Con questo concerto stiamo facendo qualcosa di concreto che


aiuterà la gente a guardare, ascoltare e, speriamo, a donare. Se
ci sono persone che muoiono di fame, questo è un problema di
tutti. […] Talvolta mi sento impotente e questa è un’occasione
per fare la mia parte.

FREDDIE MERCURY

Era il palcoscenico perfetto per Freddie Mercury:


il mondo intero.

BOB GELDOF

UNA volta i politici erano anche grandi oratori, una capacità che in questo
secolo si è ridotta in maniera drastica. Sorprendentemente, il rock’n’roll è
ancora uno dei pochi ambiti in cui un singolo artista, o un gruppo, può
tenere in pugno un pubblico enorme, catturando migliaia di persone con la
voce. Gli attori non possono farlo. I divi della televisione non si avvicinano
nemmeno. Forse è questo che rende la rockstar l’ultima grande figura
carismatica dei nostri tempi. Il pensiero mi balenò nel backstage del Live
Aid mentre ero dietro il sipario, con il bassista degli Who John Entwistle e la
sua fidanzata Max. Stavamo guardando Freddie esibirsi in una calura
soffocante davanti a quasi ottantamila persone, più chissà quanti spettatori
davanti ai teleschermi (sono state fatte molte stime negli anni successivi, ma
si passa da «quattrocento milioni in quasi cinquanta Paesi via satellite» a
«un miliardo e novecento milioni in tutto il mondo»). Con nonchalance,
arguzia, sfrontatezza e sensualità, Freddie diede tutto se stesso. Restammo
ammaliati. Il ruggito assordante degli spettatori annullava qualsiasi tentativo
di rivolgersi a loro, ma Freddie non ci fece caso. Il magnetismo con il quale
incantò il pubblico fu così potente e tangibile che lo si poteva inspirare.
Dietro il palco, i nomi più leggendari del rock smisero di chiacchierare per
guardare il rivale che rubava loro la scena. Freddie sapeva quel che faceva.
Per diciotto minuti, quell’improbabile re e la sua «regina» dominarono il
mondo.

La fortuna è casuale. Bob Geldof che scarabocchia sul suo diario in un


taxi, un giorno come tanti: fortuna. Era il novembre del 1984. Dalle
profondità del suo cervello, un «campo di battaglia di pensieri conflittuali»,
come lo descrisse lui stesso, emersero poche strofe che ben presto avrebbero
scosso il mondo. Poco prima, Geldof aveva visto un servizio di Michael
Buerk sulla terribile carestia in Etiopia, trasmesso dal notiziario della BBC.
Scioccato dalle immagini che mostravano una sofferenza di proporzioni
bibliche, si era sentito insieme raccapricciato e impotente, mentre l’istinto gli
diceva che doveva impegnarsi, anche se ancora non sapeva come. Poteva
fare quello che gli riusciva meglio: mettersi a tavolino e scrivere un
tormentone, per poi devolvere i proventi a Oxfam, l’organizzazione che da
anni si batte contro la povertà e l’ingiustizia. Ma all’epoca il suo gruppo
punk irlandese, i Boomtown Rats, era oramai in declino; non aveva un
brano nella Top Ten dal 1980. L’apice era stato raggiunto con I Don’t Like
Mondays, che era stata numero uno nel 1979. Geldolf sapeva che un
singolo di beneficenza avrebbe venduto molto se fosse uscito sotto Natale,
ma solo a patto che fosse realizzato da un artista famoso. Quindi si trattava
di trovare un collega ben disposto e convincerlo a registrarne uno, o ancora
meglio di convincere un’intera galassia di cantanti a collaborare a un unico
brano.
Parlò con Midge Ure degli Ultravox, quella settimana sarebbe stato
ospite su The Tube, un programma musicale di Channel 4 presentato dalla
fidanzata (e in seguito moglie) di Geldof, Paula Yates, oggi scomparsa.
Midge accettò di musicare il brano e di orchestrare qualche arrangiamento.
Poi Geldof contattò Sting, il cantante dei Duran Duran Simon Le Bon e
Gary e Martin Kemp degli Spandau Ballet.
Più i giorni passavano, più il fantastico elenco di star si allungava e finì
per comprendere, fra gli altri: Boy George, Frankie Goes To Hollywood,
Paul Weller degli Style Council, George Michael e Andrew Ridgeley degli
Wham! e Paul Young. Anche Francis Rossi e Rick Parfitt degli Status Quo
accettarono prontamente. Phil Collins e le Bananarama seguirono a ruota.
David Bowie e Paul McCartney, che avevano altri impegni, assicurarono il
loro contributo a distanza, da mixare sul brano in seguito. Sir Peter Blake,
artista di fama internazionale e noto per la leggendaria copertina di «Sgt
Pepper’s Lonely Hearts Club Band», fu reclutato per creare la grafica del
disco. Nacque Band Aid. Il nome era volutamente allusivo: come
l’omonimo cerotto, anche questa band era un aiuto. Stavolta, per il mondo
intero.
Do They Know It’s Christmas? fu registrato gratuitamente ai Sarm West
Studios di Trevor Horn a Notting Hill, a Londra, il 25 novembre 1984 e uscì
dopo soli quattro giorni.
Quella settimana il primo posto in classifica era occupato da Jim
Diamond, lo straordinario cantante scozzese, con una stupenda ballad, I
Should Have Known Better. Sebbene il gruppo di Diamond, i PhD, avessero
avuto una hit nel 1982 con I Won’t Let You Down, il cantante non era mai
andato al numero uno come solista. Anche per questo la sua casa
discografica restò di stucco quando lui, con un gesto di estrema generosità,
dichiarò in un’intervista: «Sono felicissimo di essere numero uno, ma la
settimana prossima non voglio che la gente compri il mio disco. Voglio che
compri quello del Band Aid».
«Non potevo crederci», raccontò Geldof. «Anch’io non andavo al top da
cinque anni, dunque sapevo quanto gli costasse dire quelle cose. Aveva
appena buttato via il suo primo successo per aiutare gli altri. Era un gesto
davvero generoso.»
La settimana successiva, Do They Know It’s Christmas? schizzò al vertice
nel Regno Unito, vendendo più di tutti gli altri brani in classifica messi
insieme e diventando il singolo più venduto in minor tempo nel Paese fin
dall’istituzione della classifica nel 1952. Un milione di copie sparì dagli
scaffali nella prima settimana, e il brano restò al primo posto per cinque
settimane. Divenne il singolo più venduto del Regno Unito di tutti i tempi
(più di tre milioni e mezzo di copie), interrompendo i nove anni di
supremazia di Bohemian Rhapsody, il capolavoro dei Queen. Sarebbe stato
superato solo nel 1997 da Candle In the Wind / Something About the Way
You Look Tonight, il singolo che Elton John reincise come tributo per la
scomparsa della principessa Diana.
«I Queen erano chiaramente delusi per non essere stati invitati»,
ammette Spike Edney, session man che aveva seguito la band in diversi tour
in qualità di «quinto membro», collaborando a tastiere, voci e chitarra
ritmica, e si era fatto un nome suonando per i Boomtown Rats nonché per
una sfilza di altri gruppi famosi.
«All’epoca ero in tour proprio con i Rats, e lo dissi a Bob. Fu allora che
mi svelò di voler organizzare un grande concerto e aggiunse che in quel caso
avrebbe sicuramente chiesto ai Queen di partecipare. Ricordo che pensai:
Balle. È pazzo. Non ce la farà mai.»
Ma la reazione dell’industria discografica al successo di Geldof suggeriva
altrimenti. Sull’immediata scia di Band Aid arrivò il contributo americano
alla campagna di aiuti: il supergruppo USA for Africa con il 45 giri We Are
the World, scritto da Michael Jackson e Lionel Richie, e prodotto da Quincy
Jones e Michael Omartian. La session di registrazione riunì alcuni dei
musicisti più leggendari del mondo: si tenne agli A&M Studios di
Hollywood nel gennaio del 1985 e con un cast stellare che comprendeva
Diana Ross, Bruce Springsteen, Smokey Robinson, Cyndi Lauper, Billy Joel,
Dionne Warwick, Willie Nelson e Huey Lewis. In totale vi presero parte
oltre quarantacinque tra i più rinomati artisti americani. Ad altri cinquanta
si dovette dire di no. Quando i prescelti arrivarono allo studio, trovarono un
cartello che li invitava a lasciare il proprio ego all’ingresso. Furono poi accolti
da Stevie Wonder: con fare sbarazzino li informò che se la canzone non
fosse risultata perfetta al primo colpo, lui e Ray Charles – due ciechi – li
avrebbero personalmente riaccompagnati a casa in macchina. Il disco
vendette oltre venti milioni di copie, diventando il singolo pop più diffuso in
minor tempo in America.
I Queen erano da poco riemersi dalle disastrose polemiche seguite alla
pubblicazione di «The Works» in America, quando Geldof alzò la posta
nella sua campagna di beneficenza annunciando il più ambizioso progetto
nella storia del rock. Siccome erano stati ignorati per il singolo, i Queen non
pensavano di essere messi in cartellone. Con il senno di poi, sembra
paradossale. Eppure, nonostante i quindici anni di carriera, un catalogo
impareggiabile di album, singoli e video, diritti d’autore per miliardi, una
collezione dei più prestigiosi riconoscimenti musicali, e grazie a una tecnica
in grado di spaziare tra rock, pop, opera, rockabilly, disco, funk e folk, la
stella dei Queen pareva oramai al tramonto. La band era stata lontana dalla
patria per un periodo considerevole (dall’agosto 1984 al maggio 1985) per
promuovere «The Works»; il giro di concerti aveva fatto tappa anche al
festival Rock in Rio (gennaio 1985), dove i Queen avevano suonato dal vivo
davanti a trecentoventicinquemila fan. Ma il tour era stato afflitto da diversi
problemi. Correva voce che i membri del gruppo avrebbero preso strade
diverse.
«Erano alla deriva, e si vedeva», conferma Edney. «I tempi erano
cambiati, si era affermato un genere musicale del tutto nuovo. Imperversava
il new romantic: Spandau Ballet e Duran Duran. Successo e fallimento non
conoscono spiegazioni... e tantomeno garanzie. Le cose andavano male da
un po’ per i Queen, specialmente in America. C’erano problemi con
l’etichetta statunitense. Erano sfiduciati. Forse si rinfacciavano un po’ a
vicenda queste difficoltà. E chi non farebbe altrettanto?»
«Ehi, la gente litiga», incalza il loro amico Rick Wakeman, gran maestro
delle tastiere, ex membro degli Strawbs e degli Yes.
«In un gruppo è normale avere contrasti. È comprensibile. In quale altro
mestiere sei costretto a stare sempre insieme? In tour si fa colazione insieme,
si va a lavorare insieme, si pranza e si cena insieme. L’unico momento in cui
sei solo è a letto... e neanche sempre. Per quanto forte sia l’amicizia, arriva il
giorno in cui ti dici: Se quello si gratta la testa una volta ancora, gli pianto
un coltello in pancia. Devi imparare a dare agli altri il loro spazio e
viceversa. Se fai la musica giusta, non importa se uno si incazza, uno si
infogna con la droga, uno sta sul palco a fare le prove e un altro va a vedersi
una partita di calcio. Metti insieme una band di quattro o cinque persone
estremamente creative, che fanno cose magnifiche con la loro mente, le loro
mani e le loro voci, e rischi i fuochi d’artificio. Sotto questo aspetto, i Queen
non erano diversi da tutti gli altri.»
Nel 1982, dopo un tour per promuovere «Hot Space», il loro
sconcertante album «dance» privo di chitarre, Freddie Mercury, Brian May,
Roger Taylor e John Deacon si erano praticamente sciolti per concentrarsi
su progetti individuali, in particolar modo Brian con Eddie Van Halen sullo
Star Fleet Project e Freddie sul suo album solista. Nell’agosto del 1983, si
erano di nuovo riuniti a Los Angeles per collaborare a «The Works», il loro
decimo album in studio e il primo a uscire su CD. Radio Ga Ga era stato il
primo singolo estratto dall’LP. «The Works» conteneva anche un pezzo hard
rock, Hammer to Fall, una ballad malinconica, Is This the World We
Created...? e I Want to Break Free. Quest’ultima era stata promossa da un
video controverso in cui i Queen si erano travestiti da donne parodiando
una scenetta domestica tratta dalla soap opera inglese Coronation Street.
Anche se il singolo aveva riscosso un enorme successo nel Regno Unito e in
altri Paesi, il video aveva offeso l’America più conservatrice e la band si era
alienata molti fan.
Peggio ancora, nell’ottobre del 1984 i Queen avevano infranto il
boicottaggio culturale promosso dalle Nazioni Unite nei confronti del Sud
Africa (lo stesso fecero Rod Stewart, Rick Wakeman, gli Status Quo e altri)
esibendosi in pieno regime di apartheid a Sun City (il grande resort, con
tanto di casinò e golf club annessi, del magnate Sol Kerzner) nel
Bophuthatswana. La decisione aveva attirato aspre critiche da più fronti e gli
era costata una multa e l’espulsione dalla Musicians’ Union, l’organizzazione
di settore dei musicisti britannici. Per un artista nato in Africa come Freddie
l’intera faccenda era ridicola, ma le polemiche sarebbero cessate solo con la
fine della segregazione razziale nel 1993, un anno prima dell’elezione di
Nelson Mandela alla presidenza del Sud Africa, quando i Queen erano
oramai diventati grandi sostenitori del leader dell’ANC.
«Ero dalla parte dei Queen quando decisero di suonare in Sud Africa»,
afferma Wakeman. «Anch’io avevo fatto un concerto nel bel mezzo
dell’apartheid, con un’orchestra composta da zulù, indiani e bianchi.
«Suonai Journey to the Centre of the Earth laggiù e la stampa inglese mi
mise in croce. Cercai di spiegare le mie ragioni, ma non vollero ascoltarmi.
La musica non è ‘bianca’ o ‘nera’, è solo un’orchestra, un coro. Suonare lì
non significava sostenere il regime. Anche George Benson c’era andato. E
Diana Ross. Com’è che gli artisti di colore potevano esibirsi e i bianchi no?
Era un’idea razzista in sé. Shirley Bassey aveva liquidato la cosa con: ‘Che
cazzo, sono mezza nera e mezza gallese, che male c’è?’ Così quando i Queen
andarono in Sud Africa, li applaudii in tutto e per tutto. Puntarono un
riflettore sulla stupidità di quella faccenda e attirarono l’attenzione sul fatto
che la musica non ha confini di sesso, cultura o razza. È per tutti.»
Il «jukebox globale» di Live Aid sarebbe andato in scena su due enormi
palcoscenici il 13 luglio 1985. Furono prenotati lo stadio di Wembley e lo
stadio John F. Kennedy di Filadelfia. L’organizzazione dell’evento si rivelò
un autentico incubo logistico.
«Quando Bob venne nel mio ufficio per la prima volta a parlarmi di
quest’evento, pensai che stesse scherzando», ricorda il promoter Harvey
Goldsmith. «Nel 1985 non c’erano nemmeno i fax, figuriamoci computer,
cellulari o altri aggeggi. Lavoravamo con telex e linee fisse. Passammo un
pomeriggio intero con una grande mappa dei satelliti e un paio di vecchi
compassi, cercando di capire dove il satellite si sarebbe trovato in un dato
momento. E poi, quando andammo alla BBC, Bob batté i pugni sul tavolo
dicendo: ‘Voglio diciassette ore di diretta’; era una cosa rivoluzionaria.
Quando la BBC accettò, usammo il suo avallo per persuadere le reti
televisive di tutto il mondo a fare altrettanto. Era la prima volta che
succedeva una cosa del genere. Il mio compito era mettere insieme i vari
pezzi e far sì che tutto funzionasse.»
Poi ci fu la sfida di convincere i più grandi nomi del rock, alcuni dei quali
avevano già contribuito alla registrazione dei singoli di beneficenza, a
esibirsi per raccogliere altri fondi destinati ai bisognosi. L’evento voleva
essere una plateale rappresentazione della fratellanza musicale ai governanti
di tutto il mondo che non avevano alzato un dito per la carestia africana.
Come afferma Francis Rossi degli Status Quo: «Eravamo le teste di cazzo
del rock’n’roll che si davano una mossa. Se ci ripenso mi arrabbio. Credo
che se tutti avessero partecipato, se avessimo compreso la portata di quel che
stavamo per fare, avremmo potuto convincere le compagnie petrolifere, le
varie BP e Shell e le altre, a fare la loro parte. Avremmo potuto raccogliere
venti volte tanto. Non ditemi che i governi non avrebbero potuto fare una
legge per aggirare i problemi della pubblicità e così via. Tutte le grandi
imprese avrebbero potuto partecipare e il risultato sarebbe stato mega.
All’epoca, però, esploravamo un territorio vergine. Oggi vediamo il Live Aid
con occhi diversi. Comunque sia, tutto il merito è di Bob. È riuscito a fare
qualcosa che pochi altri avrebbero saputo fare».
E come fece Geldof a convincere i Queen?
«Bob mi pregò di chiedergli se ci stavano, ed ebbi l’opportunità di farlo
mentre eravamo in tournée in Nuova Zelanda», racconta Edney. «Mi
risposero: ‘Perché non ce lo domanda lui direttamente?’ Spiegai che temeva
un rifiuto. Non erano molto convinti, ma dissero che avrebbero preso in
considerazione l’idea. Riferii a Bob, che a propria volta contattò Jim Beach
[il manager dei Queen] in via ufficiale.»
In seguito Geldof spiegò come li aveva persuasi.
«Stanai Jim, che era in qualche posto in riva al mare, e gli dissi: ‘Senti,
Cristo santo, cosa c’è che non va?’ Jim disse: ‘Oh, sai, Freddie è molto
suscettibile’. Allora risposi: ‘Di’ a quella vecchia checca che questo sarà il più
grande evento di tutti i tempi, una cosa grandiosa’. Alla fine mi risposero di
sì, che avrebbero senz’altro partecipato. E quando salirono sul palco del Live
Aid, furono i migliori in assoluto, a prescindere dai gusti personali. Quel
giorno, suonarono meglio di tutti, avevano il suono migliore e sfruttarono
fino in fondo il tempo a loro disposizione. Avevano capito alla perfezione la
mia idea: fare un jukebox globale, come l’avevo chiamato io. Salirono sul
palco e sfoderarono una hit dopo l’altra. Fu incredibile. Ero su, proprio
nell’area degli organizzatori, quando all’improvviso udii quel suono e
pensai: Dio, ma chi è?»
Geldof non poteva sapere, così come nessun altro alle 18.40 di quel
pomeriggio, che poco prima della performance dei Queen, il loro tecnico del
suono, James Khalaf detto «Trip», era andato a «dare una controllatina
all’impianto» e aveva manipolato furtivamente i limiter.
«Abbiamo suonato con il volume più alto di tutti al Live Aid», confessò
Roger Taylor. «D’altronde, se suoni in uno stadio, il pubblico devi
sovrastarlo!»
«Andai fuori», disse Geldof, «e vidi che erano i Queen. Guardai giù la
folla impazzita. Furono strepitosi. Erano contentissimi dopo, Freddie in
particolare. Era il palcoscenico perfetto per lui: il mondo intero. E aveva
potuto fare la checca sul palco cantando We Are the Champions e tutto il
resto. Era il massimo per lui.»
«Non conoscevamo affatto Bob», osservò John Deacon in una rara
intervista. «Per Do They Know It’s Christmas? aveva scelto artisti emergenti.
Per il concerto voleva parecchi pezzi grossi. La nostra prima reazione fu
incerta: venti minuti, senza sound check! Quando fu chiaro che la cosa si
sarebbe fatta, discutemmo se partecipare o no. Avevamo appena finito il
tour in Giappone e durante una cena in albergo decidemmo di accettare.
Quel giorno mi sentii orgoglioso di lavorare nel mondo della musica. Di
certo non ti capita sempre di sentirti così! Ma quel giorno fu davvero
fantastico, tutti accantonarono la rivalità. Fu ottimo anche per il nostro
morale, perché ci dimostrò quanto seguito avessimo in Inghilterra e che cosa
potessimo ancora offrire come band.»
«Non ci fu nulla di magico nell’organizzazione del nostro intervento»,
ammette Edney.
«Ci riunimmo tutti per decidere quali brani suonare e alla fine
arrivammo all’idea di fare un medley di successi. Non è una novità: se hai
un mucchio di canzoni e non sai scegliere è l’unica cosa sensata da fare.
Tutto qui... a parte il tempismo perfetto, ovviamente. Ogni membro della
band è un perfezionista pazzesco... e meno male. Si rivelò la carta vincente,
quel giorno.»
«I Queen provarono e riprovarono nello Shaw Theatre di Euston Road
per un’intera settimana, mentre altri salirono sul palco e improvvisarono»,
racconta Peter «Phoebe» Freestone, l’assistente personale di Freddie.
«Ecco perché furono i migliori quel giorno. Ricordo lo stupore di Freddie
quando attaccò Radio Ga Ga e vide migliaia di mani alzarsi e battere
all’unisono. Restò sbalordito, non aveva mai visto nulla di simile. Avevano
sempre fatto quel pezzo al buio.»
Tuttavia Edney ha un ricordo un po’ diverso e sostiene che Freddie era
«in modalità avanti tutta», e che lui e la band avevano affrontato l’evento
senza agitarsi. Da quel che vidi, devo concordare. Fu l’apice dei Queen,
quello per cui avevano costruito tutta la loro carriera.
«Nel backstage regnava una sorta di caos organizzato», ricorda Edney.
«Tutti erano fin troppo simpatici e aperti. Nessuno diceva cattiverie, né
cercava di emergere sugli altri. Finché i Queen salirono sul palco, pareva di
stare a un bel picnic estivo. Il che significa che i Queen abbiano fatto i
furbetti o premeditato chissà che. Si comportarono come erano abituati a
fare, aspettandosi la medesima cosa. Rimasi esterrefatto quando sentii certi
artisti suonare il loro ultimo singolo: quello non era il loro pubblico! I
Queen non lo fecero, si limitarono a seguire le direttive di Bob, ossia creare
‘il più grande concerto rock di tutti i tempi’, come spesso viene chiamato
oggi Live Aid. In realtà cosa significa? Che una band all’apice della carriera
ha dato il meglio di sé e ha spaccato il culo a tutti gli altri.»
«Nessuno era pronto... tranne i Queen», ricorda Pete Smith,
coordinatore mondiale dell’evento e autore del documentario Live Aid.
«Seguii la performance sui monitor nel backstage. La BBC aveva installato
dei televisori in tutta l’area degli artisti. Insieme con gli orologi ordinati da
Harvey, quei monitor ci tenevano aggiornati sul procedere dell’evento. I
Queen stracciarono il manuale e lo riscrissero in venti minuti. Ci fu un
effetto tangibile. Dopo di loro, Live Aid entrò in ebollizione.»
Il gruppo era all’apice dal punto di vista musicale e tecnico (non c’era più
nessuna grande rock band professionista in giro in quegli anni), eppure la
sua reputazione sulla scena mondiale era ormai in declino. La popolarità era
diminuita a causa di una serie di errori, di contrattempi e di un generale
mutamento nei gusti musicali del pubblico. I Queen sentivano che i loro
giorni migliori erano alle spalle. Lo scioglimento definitivo era una
possibilità concreta: l’eventualità era lì sul piatto, ne avevano già parlato.
Grazie a Live Aid, tutto ciò sarebbe cambiato.
Allora perché gli osservatori rimasero così sorpresi dalla loro
galvanizzante performance? Nemmeno Edney sa spiegarselo.
«I Queen erano così!» esclamò ridendo. «Erano famosi in tutto il pianeta
per i loro spettacoli eccezionali, perché davano il massimo. Erano dei
veterani degli stadi, non certo dei novellini. Quello era il loro habitat
naturale e più pubblico c’era, meglio era. Avrebbero potuto fare un concerto
a occhi chiusi. Francamente furono colpiti da tutto quello stupore! Per loro
il Live Aid fu solo una normale ‘giornata di lavoro’ come tante altre. Detto
questo, quando siamo scesi dal palco sapevamo che ce l’avevamo fatta.
Dopo quel concerto, i Queen scoprirono che il loro mondo era
completamente cambiato.»
Il PR Bernard Doherty si occupò di tutta la promozione dell’evento
tenendo i contatti con i media.
«Sapevamo che dovevamo tenerci buona la stampa, per assicurarci la
massima copertura possibile. Avevo solo otto pass per accedere a tutte le
aree e centinaia di giornalisti che li volevano. Dovevamo giostrarceli. Dissi
loro, uno per uno: ‘Bene, hai quarantacinque minuti di tempo: entra
dentro, acchiappa quel che puoi e poi esci. Ci vediamo all’Hard Rock Café ’,
che aveva aperto una ‘succursale’ nel backstage. Pareva un raduno di
carovane, con gli alloggi-container degli artisti rivolti all’interno ed Elton che
faceva una grigliata lì in mezzo, perché non gli piaceva il menù del Café.
David Bailey allestì il suo studio fotografico in un angolino puzzolente; non
ne era molto orgoglioso. Nessuno era in condizioni ideali, tutto era stato
allestito in quattro e quattr’otto, ma in un modo o nell’altro funzionò. Tutti
entrarono nello spirito della manifestazione e quasi tutti lasciarono a casa il
proprio ego. Sì, funzionò.»
All’epoca Doherty aveva anche David Bowie tra i suoi clienti, perciò era
costretto a occuparsi anche dei bisogni del cantante.
«È sempre un po’ snervante quando devi seguire il tuo artista e fare altro
al tempo stesso; due lavori contemporaneamente. Anzi nel mio caso, quel
giorno, circa diciotto lavori contemporaneamente. Non scorreva più tanto
amore fra David ed Elton; era evidente che avevano litigato. David uscì
bene dalla sua performance. E così Elton. L’unico musicista che David fu
davvero contento di rivedere fu Freddie. Erano felicissimi di ritrovarsi di
nuovo insieme. Si misero a chiacchierare come se si fossero lasciati il giorno
prima. L’affetto fra di loro era tangibile. David indossava un meraviglioso
completo azzurro: era brillante e in forma. Poco prima che toccasse a lui,
Freddie gli strizzò l’occhio e disse: ‘Se non ti conoscessi meglio, caro mio, ti
mangerei’. Non c’è da meravigliarsi che quello salì sul palco con un sorriso
enorme in volto.»
Per tutto il giorno, Freddie rimase rilassato.
«Restò seduto a tenere banco, in quel suo modo perfettamente kitsch e
insieme affabile», raccontò Doherty. «Sapeva di avere un certo potere sulle
persone, ma non per questo si montava la testa. Se fosse stato seduto
davanti a una cabina su una spiaggia di Southend-on-Sea, per esempio,
avrebbe incantato la gente allo stesso modo. Era una vera star, possedeva
quel certo non so che. John Deacon non sapevi nemmeno se c’era; dov’era?
E non ho visto Brian May o Roger Taylor parlarsi tra loro per tutto il giorno.
Parevano una coppia divorziata costretta a stare alla stessa festa.»
Francis Rossi non era d’accordo.
«Non credo alla teoria secondo la quale i Queen stavano per sciogliersi in
quel periodo. A me sembrava che andassero d’accordo, e li conoscevo
abbastanza bene. In tutti i gruppi c’è diversità di vedute. Di certo erano
uniti nel loro impegno per la causa del Live Aid.»
Nonostante ciò, nel backstage, le voci di un imminente scioglimento si
sprecavano.
«Si vedeva», insistette Doherty. «Non quando salirono sul palco, però. Se
avevano delle divergenze, furono abbastanza intelligenti da accantonarle e
fare il loro dovere. Andarono là fuori e vinsero. I Queen avevano il wow
factor. Cos’altro ci ricordiamo del Live Aid? L’audio che sparisce durante il
pezzo degli Who, Bono che va in bambola, perde il filo e confonde i
compagni; quando sono scesi dal palco gli altri U2 non gli hanno più rivolto
la parola.»
Anche se il Live Aid fu il concerto che affermò gli U2 come un grande
gruppo da stadio con un avvenire da superstar, per poco la loro performance
non fu un fiasco. Non solo suonarono una versione autocelebrativa di
quattordici minuti del loro brano sull’eroina, Bad (tratto dall’album del
1984 «The Unforgettable Fire»), ma Bono lo intervallò imprudentemente
con frammenti di Satellite of Love e Walk on the Wild Side di Lou Reed,
oltre che di Ruby Tuesday e Sympathy for the Devil dei Rolling Stones. Restò
solo il tempo per un’altra canzone e così dovettero buttare alle ortiche Pride
(In the Name of Love), il loro megasuccesso globale con cui dovevano
chiudere l’esibizione. Durante la performance, Bono vide una ragazza che
veniva schiacciata dagli spettatori accalcatisi sotto il palco, attratti dal suo
stesso carisma. Segnalò freneticamente la situazione agli assistenti, ma questi
non lo capirono. Allora si buttò giù dal palco alla disperata (un salto di nove
metri) per salvarla lui stesso: andò a finire che ballarono insieme per un po’.
L’episodio evidenziò il legame impareggiabile che il cantante sapeva
instaurare con il pubblico. Quella breve danza, sigillata da un bacio, divenne
un’immagine indelebile del Live Aid, e di conseguenza tutti gli album degli
U2 rientrarono nelle classifiche inglesi.
Secondo Doherty, «quel giorno, però, pensavano di avere combinato un
disastro». Anche Simon Le Bon prese la più grande stecca di tutti i tempi.
«Poi c’erano i critici che sbavavano per Bowie. E poi Phil Collins, che si
esibì sia a Wembley sia al JFK grazie al Concorde, anche se penso che molti
avrebbero preferito che evitasse, non ultimi i Led Zeppelin, riformatisi in
fretta e furia, per i quali suonò la batteria al JFK. Quanto ai Queen, fecero
esattamente quel che Bob aveva chiesto loro. Li guardai dalle quinte e
rimasi meravigliato. Ero dietro Freddie, vicino al pianoforte, a neanche un
metro da lui. Osservai il pubblico con una certa trepidazione: anche il più
grande cantante del mondo può fallire, senza sapere perché.»
Una preoccupazione inutile. I Queen diedero il massimo. Guardandoli,
mi vennero in mente molti altri celebri performer: Alex Harvey, il grande
cantante glam rock della Sensational Alex Harvey Band; Ian Dury and the
Blockheads; Mick Jagger; Ziggy Stardust e gli Spiders. Forse ciò che Freddie
dimostrò meglio a Wembley rispetto ad altre occasioni fu di possedere il
talento naturale della star e di sapere come rendere imperdibile uno
spettacolo. Mise in campo tutto il genio del vaudeville. Era come se avesse
studiato e assimilato i più reconditi segreti di ogni grande artista che lo
aveva preceduto e avesse distillato un po’ dei rispettivi carismi nella propria
performance; un’autentica magia. Eterno pavone, Freddie sedusse tutti.
Non che fosse consapevole di scrivere un pezzo di storia quel giorno,
ammise Doherty. «Non quel giorno, no. Avevo le cuffie e un walkie-talkie;
niente cellulari all’epoca. Ero preoccupato per Dave Hogan e Richard
Young, in agitazione per Bob e Harvey. Succedeva di tutto, avevo un sacco
di cose cui pensare. Ma compresi che i Queen andavano alla grande, certo:
la folla era impazzita e tutti quelli del backstage avevano smesso di parlare
per guardarli. Quella sì che è una cosa strana: non succede mai. Chi c’era
prima o dopo di loro? Quasi nessuno lo sa. Cosa mi ricordo di quel giorno?
Che Freddie Mercury è stato il miglior cantante di tutto il concerto. Forse di
tutti i tempi.»
David Wigg, storico giornalista che allora scriveva per il Daily Express,
era da tempo amico personale di Freddie.
«Sono stato l’unico della stampa autorizzato a rimanere in camerino con
lui mentre si preparava per il più grande spettacolo del mondo. Era molto
rilassato e non vedeva l’ora di uscire a fare la sua parte.»
«Suoneremo dei pezzi con cui le persone possono identificarsi, vogliamo
trasformare questo evento in una festa», spiegò Freddie.
Poi parlarono degli intenti del Live Aid e dell’infanzia di Freddie.
«Disse che la prima volta che si era reso conto di essere più fortunato di
molti altri bambini era stato nel collegio inglese in India, dove le terribili
condizioni di vita dei poveri erano proprio sotto i suoi occhi di ragazzino.»
«Ma di certo non faccio questo per un senso di colpa», aveva
puntualizzato Freddie. «Non mi sento in colpa perché sono ricco. Se fosse
così, il problema resterebbe comunque. Purtroppo è una cosa che esisterà
sempre. L’idea alla base di quest’evento è costringere il mondo ad accorgersi
che queste cose continuano a succedere. Con questo concerto stiamo
facendo qualcosa di concreto che aiuterà la gente a guardare, ascoltare e,
speriamo, a donare. Se ci sono persone che muoiono di fame, è un
problema di tutti.»
Freddie confessò all’amico che quando aveva visto un servizio sui milioni
di africani che perdevano la vita per l’inedia aveva dovuto spegnere la
televisione.
«È troppo sconvolgente, non riesco a guardare quelle cose. Talvolta mi
sento impotente e questa è un’occasione per fare la mia parte. Bob è stato
magnifico, perché ha dato il via a tutto. Sono sicuro che ciascuno di noi
aveva le potenzialità per tirar fuori una cosa del genere, ma c’è voluto uno
come lui per mettere in moto la macchina e riunirci tutti qui.»
Per uno spettatore in particolare quel giorno fu davvero memorabile,
perché era il suo primo concerto rock. Jim Hutton, il modesto parrucchiere
che era diventato il nuovo compagno di Freddie poco prima del Live Aid e
che sarebbe stato con lui fino alla fine, non avrebbe certo potuto
immaginare che solo sei anni dopo avrebbe assistito al funerale del suo
amato. Portato allo stadio in pompa magna sulla limousine personale del
cantante, era la prima volta in assoluto che andava a un concerto, non solo
dei Queen.
«Quando si dice essere mandati allo sbaraglio», scherzava. «Ero un po’
sconvolto da tutte le superstar, a dire il vero. Ogni membro del gruppo
aveva la sua roulotte personale. C’erano tutte le mogli, oltre ai figli di Roger
e Brian. Freddie conosceva tutti. Mi presentò a David Bowie, che in realtà
avevo già incontrato una volta prima, perché gli avevo tagliato i capelli, e
persino a Elton John, chiamandomi ‘il mio nuovo uomo’. Freddie non
dovette prepararsi, ma salì sul palco con quel che indossava quando
eravamo usciti di casa: una canottiera bianca con un paio di jeans sbiaditi.
Portava anche le sue scarpe da ginnastica preferite, una cintura e un
bracciale borchiato. Quando toccò a loro, scolò una grande vodka tonic
tutta d’un fiato e disse: ‘Andiamo!’
«Lo accompagnai fino al palco e gli diedi un bacio, augurandogli buona
fortuna. Non che ne avesse bisogno. Sentir suonare quelle canzoni dal vivo
– un pezzo di Bohemian Rhapsody con Freddie al pianoforte, Radio Ga Ga
con la folla che applaudiva all’unisono, Hammer to Fall, poi Freddie alla
chitarra per Crazy Little Thing Called Love, We Will Rock You e We Are the
Champions che rimbombarono come il tuono – per una persona normale
come me fu semplicemente sbalorditivo. Poi più avanti, quand’era già buio,
Freddie e Brian di nuovo sul palco insieme, solo loro due, a suonare quella
bellissima ballad, Is This the World We Created...? L’avevano registrata
molto tempo prima del Live Aid, vero? ma era come se l’avessero scritta
apposta per l’occasione. Le parole erano perfette e il modo in cui Freddie la
cantò fu magico. Mi commosse fino alle lacrime, cosa che peraltro faceva
spesso.»
Jim, scomparso nel 2010, aveva potuto finalmente vedere il suo
compagno nei panni della rockstar.
«Diede tutto se stesso lassù. Mi incantò. Poi quando scese, pareva
contento che fosse finita. ‘Grazie a Dio è fatta’, disse ridendo. Un’altra
vodka gigante ed era di nuovo calmo. Restammo fino alla fine per salutare
tutti, ma Freddie non aveva voglia di andare alla festa del dopo spettacolo al
Legends. Tornammo a casa, a Garden Lodge, come una vecchia coppia
sposata, per guardare il resto dell’evento americano in televisione.»
Notevole fu l’assenza dei genitori di Freddie i quali, sebbene
partecipassero spesso ai concerti inglesi dei Queen, quella volta scelsero di
seguire lo spettacolo da casa.
«Era una cosa così enorme che sarebbe stato troppo complicato andarci»,
ricordò la mamma di Freddie, Jer. Lei e Bomi, il padre, restarono a casa per
timore della folla e degli intasamenti previsti intorno allo stadio. «Così lo
guardammo in tv. Ero orgogliosissima. Mio marito si girò verso di me e
disse: ‘Il nostro ragazzo ce l’ha fatta’.»
Secondo i tecnici incaricati di trasmettere e registrare l’evento, l’esibizione
di Freddie fu a dir poco sensazionale. Mike Appleton, ex produttore
esecutivo di The Old Grey Whistle Test (l’importante serie televisiva della
BBC dedicata al rock) ricorda la performance di Mercury come
«appassionante».
«All’inizio non doveva nemmeno partecipare. I dottori gli avevano detto
che non era in forma. Aveva un terribile mal di gola, a causa di un
raffreddore o qualcosa del genere. Non stava abbastanza bene per cantare,
ma lui insistette. E invece alla fine, lui e Bono risultarono i migliori.
«Fu molto interessante osservare Freddie sui monitor. Restai chiuso in
uno studio mobile per tutto il giorno; si soffocava. Stavamo letteralmente
creando un programma dal vivo mentre si svolgeva. Alle cinque ci
trasferimmo in diretta dal JFK alternando venti minuti là, venti minuti
qua… e ora mettiamoci un’intervista, poi un pezzo live registrato in
precedenza, una carrellata della prima ora in quest’altro segmento… Era un
modo entusiasmante di fare televisione, l’unico che mi piace. Freddie
semplicemente salì sul palco e si impossessò all’istante della scena, con
calma e sangue freddo, poi passò a impadronirsi del pubblico intero.
«In quel momento i Queen non erano in auge e da tempo non avevano
prodotto un album significativo. L’esperienza del Live Aid li rimise in pista,
anzi ebbe lo stesso effetto sull’industria discografica in generale. Nel
complesso, le vendite di dischi aumentarono. Il Live Aid ebbe un effetto
corroborante per tutto il settore. E siccome Freddie fu la vera stella di quella
giornata, senza dubbio fu lui l’ingrediente principale di quel ricostituente.
Può darsi che a livello emotivo l’evento appartenesse a Bob, ma a livello
musicale era sicuramente di Freddie.»
In seguito Appleton ricevette due premi BAFTA per il Live Aid, come
produttore e come migliore trasmissione in esterni.
Dave Hogan, che fotografò l’evento, condivide l’opinione di Appleton.
«Furono scelti solo sei fotografi ufficiali per il Live Aid», rivela il leggendario
fotografo del Sun conosciuto anche come «Hogie» (e che, come la sua
testata, non è estraneo a titoloni a effetto: «Maimed By Madonna»,
«Mutilato da Madonna», fu il suo momento di gloria).
«Fotografavamo per il libro-souvenir Live Aid, perciò potevamo andare
ovunque. Quel giorno tutti capirono che era Freddie la star principale, ma
non fino a quando non fu fisicamente sul palco. Fuori scena, Freddie non si
comportava da primadonna, era riservato e signorile nei modi, rispetto a
molti altri... Nessuno si rese conto del suo potere finché lo vedemmo lassù.
A quel punto, capimmo. Ricordo quando attaccò Radio Ga Ga. Non era
nemmeno buio, incantò il pubblico con la sua magia alla luce del sole.
Quell’oceano di fan che battevano le mani e i piedi insieme ti dava i brividi.
Per noi era il paradiso: sono quelli i momenti che aspetti. Freddie colse
l’attimo e lo fece suo. Ma quel giorno fu pieno di episodi fantastici: Bono
che salta giù dal palco tra la folla, la prima esibizione live di Paul McCartney
dalla morte di John Lennon. Ciò che vidi fare a Freddie, però, mi lasciò
senza fiato. Coinvolse tutti, ogni singola persona presente nello stadio.
All’unisono. Nessun altro ci riuscì, prima o dopo di lui.»
E fu così che il fior fiore del rock cantò e ballò per dare da mangiare al
mondo. È stato ripetuto fino alla nausea che la performance dei Queen è
stata la più entusiasmante, la più commovente, la più memorabile di tutte,
superiore a quella dei loro più grandi rivali.
«Di gran lunga la più straordinaria», concluse il presentatore radiofonico
Paul Gambaccini. «Sentii un fremito nel backstage quando le teste dei
presenti si girarono verso i monitor come cani che hanno udito un fischio. [I
Queen] rubarono la scena e riconquistarono la loro posizione in vetta; non
l’avrebbero persa mai più.»
Gli altri membri del gruppo furono i primi a congratularsi con il cantante.
«Noi suonammo bene, ma Freddie diede il massimo e portò l’esibizione a
un altro livello», disse Brian, con tipica modestia. «Lì sotto non c’erano solo
fan dei Queen, ma Freddie riuscì a stabilire un contatto con tutti.»
Riflettendo sull’episodio in una toccante intervista nel quartier generale
dei Queen, Brian ribadì il concetto: «Il Live Aid è stato Freddie. Era unico
al mondo. Sembrò di vedere la nostra musica scorrere attraverso di lui.
Nessuno poteva ignorarlo: Freddie era originale, speciale. Non suonammo
solo per i nostri fan, ma per quelli di tutti. Freddie diede tutto se stesso».
Delle settecentoquattro esibizioni dal vivo dei Queen con Freddie, quella
del Live Aid resta la più rappresentativa, il loro vero momento di gloria.
L’evento diede alla band l’opportunità di dimostrare che, senza arredi e
trucchi di scena, senza luci e attrezzature proprie, fumo o altri effetti
speciali, senza nemmeno la magia naturale della luce al crepuscolo e con
meno di venti minuti a disposizione per mettersi in gioco, erano i sovrani
incontrastati del rock e avevano le doti necessarie per scuotere il mondo. Da
quel momento in poi avrebbero accettato la verità incontrovertibile che i
Queen erano maggiori della somma delle loro parti. Non potevano sapere
che il loro momento migliore era già alle spalle. Esultanti e di nuovo uniti
per la causa, ogni tentazione di carriera solista archiviata, almeno per il
momento, avrebbero presto scoperto che la loro seconda possibilità di un
futuro con Freddie avrebbe avuto vita tragicamente breve.
2
Zanzibar

Mi svegliavano i domestici. Afferravo una spremuta, mettevo


un piede fuori di casa ed ero in spiaggia.

FREDDIE MERCURY

Era molto riservato sul suo passato. Non mi ha mai detto


nemmeno il suo vero nome. Aveva la carnagione leggermente
scura, un incrocio fra mediorientale e indiano, perciò non
poteva nascondere le sue origini esotiche, o di avere almeno un
genitore straniero. Forse voleva nasconderlo. Non per chissà
quale oscuro motivo, né perché fosse razzista. Non se pensi a
quanto venerasse Jimi Hendrix.

TONY BRAINSBY , primo addetto stampa dei Queen

FORSE Freddie pensava che negli anni Settanta i fan non fossero pronti per
una rockstar di origini africane e indiane. Oggi non sarebbe un problema,
anzi molti lo vedrebbero come un vantaggio: più un artista ha un retaggio
culturale e musicale oscuro e mischiato, meglio è. In quegli anni però, le
cose erano diverse. Non è difficile immaginare che Freddie ritenesse che il
suo passato fosse in contrasto con l’immagine che voleva dare. All’epoca la
rockstar per definizione era preferibilmente americana e veniva da posti
come la California (i Beach Boys), New York (Lou Reed), la Florida (Jim
Morrison), il Mississippi (Elvis Presley) o lo Stato di Washington (Jimi
Hendrix). Anche Liverpool andava bene, grazie ai Beatles, così come
Londra, per via di Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones. Bianco e
anglosassone era il pedigree preferito, oppure nero e americano. Per i
musicisti, inoltre, era normale sfumare i dettagli del proprio passato, dato
che questo creava un’aura di mistero e interesse.
Le informazioni sull’infanzia di Freddie erano così contraddittorie che
decisi di condurre una nuova ricerca.
Presi un volo per Dar es Salaam via Nairobi e trovai un passaggio su una
barca diretta a Zanzibar in un porto pieno di sambuchi e semplici canoe da
pesca. Era un luogo esotico sotto ogni aspetto. A me, nata in un posto
anonimo e banale, il rifiuto di Freddie nei confronti di Zanzibar sembrò
enigmatico. Me lo immaginavo intrattenere gli ospiti con racconti
orientaleggianti, storie di Alì Babà, Sinbad e avventurosi principi arabi.
Perché non l’aveva mai fatto? Doveva esserci una ragione. Un «passato da
favola» sarebbe stato la quintessenza di Freddie.

Zanzibar, poco più di una macchiolina sul mappamondo, si trova appena


a sud dell’equatore, al largo delle coste orientali dell’Africa. Se si osserva da
vicino, ci si accorge che in realtà le macchioline sono due: una è l’isola
principale, Unguja, e l’altra è la più remota Pemba, oggi meta popolare per
gli europei in luna di miele. Con il Tanganica, ex colonia prima tedesca e
poi inglese, oggi Zanzibar forma la Repubblica Unita di Tanzania. Pur
essendo un territorio molto piccolo, le isole hanno patito distruzioni,
massacri e corruzione in quantità. Invase nel corso dei secoli da assiri,
sumeri, egizi, fenici, persiani e arabi, oltre che malesi, cinesi, portoghesi,
olandesi e inglesi, la loro storia pare tratta dalle Mille e una notte. Alcuni di
questi conquistatori, soprattutto i persiani shirazi, provenienti dall’odierno
Iran meridionale, gli arabi omani e molti anni dopo gli inglesi, decisero di
insediarsi e governarle. La civiltà swahili del posto risale alle prime
conquiste musulmane. Con l’introduzione dei chiodi di garofano nel 1818,
cominciò il commercio delle spezie: zenzero, noce moscata, vaniglia e
cardamomo prodotti sulle isole furono esportati in tutto il mondo. I racconti
dei missionari e degli esploratori di passaggio nei loro viaggi verso il
continente nero, i quali narravano di favolosi harem, di intrighi di corte e di
epiche fughe d’amore, contribuirono a creare intorno a Zanzibar
un’atmosfera romanzesca. In quanto fiorente centro del commercio di
avorio e di schiavi, però, il posto acquisì anche una reputazione più sinistra.
Prima dell’abolizione della schiavitù nel 1897, circa cinquantamila schiavi
l’anno, provenienti dai posti più remoti, fin dai laghi centrali del continente,
passarono in catene attraverso i suoi barbari mercati.
Sulle spiagge di Unguja sorgono gli imponenti palazzi dei sultani, un
antico forte arabo con i cannoni arrugginiti, diversi edifici coloniali e le
dimore dei ricchi mercanti, alcuni in lento restauro, altri in rovina oltre ogni
possibilità di recupero. Dietro questi, si sviluppa un labirinto di bazar e
stradine piene di case. Per i primi diciotto anni di vita, un appartamento
fronte mare di Stone Town fu il luogo che Freddie chiamò casa.
La madre era poco più che una fanciulla quando partorì nell’ospedale
pubblico di Zanzibar giovedì 5 settembre 1946, che per caso era anche il
giorno del capodanno parsi. Che il minuscolo primogenito di quella
diciottenne fosse un maschio fu considerata una benedizione. Quando il
padre, Bomi, ricevette la notizia al lavoro, esultò: il suo cognome aveva un
futuro. Almeno così pensava, ignorando le scelte di vita che il figlio avrebbe
compiuto in un futuro ancora lontano. La coppia pensò a un nome per il
neonato. Tutti e due erano parsi, ovvero seguaci dello zoroastrismo (una
fede monoteistica nata in Persia nel sesto secolo avanti Cristo) e quindi le
loro opzioni erano limitate. Scelsero «Farrokh», e con quel nome Bomi
registrò il figlio all’anagrafe cittadina.
«Ricordo chiaramente quando nacque Freddie», mi disse Perviz Bulsara,
sposata Darunkhanawala, quando la intervistai a casa sua nel quartiere di
Shangani. Perviz è la nipote di Bomi. Il padre di Perviz e il padre di Freddie,
Bomi, erano due di otto fratelli.
«Sono nati e cresciuti a Bulsar, un paese a nord di Bombay nello Stato
indiano del Gujarat», spiegò. (Bombay è diventata ufficialmente Mumbai
solo nel 1995, quando il vecchio nome è stato dichiarato un’eredità
indesiderabile del passato coloniale.)
«Per questo portavano il cognome ‘Bulsara’. Tutti i fratelli vennero qui a
Zanzibar l’uno dopo l’altro in cerca di lavoro. Mio padre trovò un posto alla
Cable and Wireless, Bomi andò a lavorare al tribunale come cassiere per il
governo britannico. Quando arrivò a Zanzibar, Bomi non era sposato. Solo
dopo tornò in India e sposò la madre di Freddie, Jer, a Bombay. Poi la portò
qui e nacque Freddie.
«Era così piccolo, come un cucciolino. Anche quando era appena nato, lo
portavano qui da noi, lo lasciavano a mia madre e uscivano. Quando
diventò un po’ più grande giocava per casa. Era un vero monello. Io ero più
grande e mi piaceva prendermi cura di lui. Era un bravo bambino. Ogni
volta che veniva qui, non volevo mai che se ne andasse.»
Perviz spiegò come i Bulsara conducessero una vita sociale relativamente
attiva, entro i limiti rigorosi della loro religione e cultura. Con il salario di
un modesto impiegato statale in Gran Bretagna, Bomi poteva permettersi
una casa comoda con domestici, compresa una ayah (bambinaia) per
Freddie, Sabine. La famiglia non mancava di nulla e in casa regnava
un’atmosfera di pace e tranquillità. Nel 1952, quando Freddie aveva sei
anni, nacque la sorella Kashmira.
Bomi lavorava nel Beit-el Ajaib, la «casa delle meraviglie» edificata a fine
Ottocento dal sultano Sayyid Barghash come palazzo per le cerimonie.
Sopravvissuto al cannoneggiamento della flotta britannica, all’epoca era
l’edificio più alto di tutta l’Africa orientale e vantava un rigoglioso giardino
botanico. Anni dopo è stato ristrutturato e convertito nel principale museo
di Zanzibar. Il lavoro di Bomi prevedeva lunghi viaggi nella colonia e in
India, un fatto che quasi certamente influenzò la sua decisione di mandare
il suo unico figlio in un lontano collegio. Tuttavia c’era anche un’altra
questione in ballo: a casa la sua educazione sarebbe stata limitata. Sebbene i
genitori continuassero a praticare lo zoroastrismo, a cinque anni Farrokh fu
mandato alla scuola missionaria di Zanzibar, gestita dalle suore anglicane.
Più intelligente della media, dimostrò una propensione per la pittura e il
disegno.
«Si trasformò in fretta in un bambino cortese, serio e preciso», raccontò
Perviz.
«A volte era un po’ dispettoso, ma perlopiù lo ricordo riservato e timido.
Molto timido. Non parlava molto, anche quando veniva a trovarci con i
genitori. Era il suo carattere. Crescendo, non lo vidi più tanto spesso, dato
che era sempre a giocare in strada o in spiaggia con gli altri ragazzi.»
«Da piccolo era felice e amava la musica», ricordava la madre. «Folk,
lirica, classica, gli piaceva di tutto. Credo che abbia sempre voluto diventare
un uomo di spettacolo.»
Perviz si disse sorpresa quando le spiegai i miei tentativi infruttuosi di
ottenere una copia del certificato di nascita del cugino. Nemmeno un
appuntamento con il direttore del dipartimento aveva avuto esito positivo.
«Dunque lei è qui per il certificato di nascita di Freddie Mercury?» mi
aveva detto sorridendo. «Non c’è più. Qualche anno fa un’argentina è
venuta a cercarlo e le abbiamo dato una copia. Da allora l’originale è
scomparso, anche se è stato richiesto più volte, presumo dai suoi fan. Il
problema principale è che nel 1946 o nel 1947 non c’era un archivio vero e
proprio. Solo alcuni foglietti che ora sono sparsi in giro. Le faccio vedere.»
Dietro il bancone dell’ufficio principale, il direttore rovistò in alcuni
schedari e tornò con una manciata di certificati di nascita. Una decina
caddero a terra e lì rimasero.
«C’è una persona, un certo dottor Mehta, che al momento si trova in
Oman, ma che dovrebbe tornare la settimana prossima. So che lui ha una
copia del certificato di nascita di Freddie.» Per quanto abbia tentato,
tuttavia, non sono riuscita a rintracciare il dottor Mehta.
Non tutte le persone che incontrai a Zanzibar condividevano il mio
interesse sulle origini di Freddie Mercury. La bellissima figlia di Perviz,
Diana, si mostrò indifferente, insistendo che non le interessava affatto
«Freddie Mercouri». Perché?
«Se n’è andato da Zanzibar quando ero piccola», rispose alzando le spalle
e arrossendo. «Ha cambiato cognome. Non viveva come noi. Non aveva
nulla a che spartire con noi. Non è mai tornato. Non era orgoglioso di essere
cresciuto a Zanzibar. Era uno straniero. Viveva un’altra vita.»
La mia richiesta di ulteriori spiegazioni fu accolta da un rifiuto. Quindi
c’era dell’altro.
L’atteggiamento di Diana era comune. Sebbene diversi zanzibari oggi
sostengano di abitare nella casa dei Bulsara, nessuno è in grado di produrre
prove tangibili e nessuno pare davvero interessato a farlo. Come mi spiegò
un negoziante indiano: «Non so niente, e nessuno sa niente. Chiunque dica
il contrario tira a indovinare. Specialmente quelle guide che ti portano in
giro per l’isola a farti vedere tutti i posti in cui Freddie sarebbe stato. Sono
interessati solo ai soldi. Non c’è più nessuno qui che sappia qualcosa. Molta
gente se n’è andata all’improvviso e nello stesso periodo, tanto tempo fa. Ma
se scopre qualcosa, per favore torni qui e me lo riferisca. Perché sono
davvero stufo di tutta questa gente che mi chiede informazioni: americani,
sudamericani, inglesi, tedeschi, giapponesi. La gente di qui non capisce;
insomma, chi era questo Freddie Mercury?»
Chi era il figlio più famoso di Zanzibar? Per i fan dei Queen, l’isola è la
meta definitiva dei loro pellegrinaggi. Alcuni tour operator offrono costose
vacanze tematiche a Zanzibar, dove una manciata di ristoranti con una
bellissima vista e un paio di negozi di souvenir approfittano della situazione.
In vita, però, Freddie Mercury non fu mai una star in patria. Niente chiavi
della città. Nessun documento ufficiale. Nessun riconoscimento nel museo
locale (almeno fino all’epoca della mia visita). Nessuna casa convertita in
santuario. Niente statue, ritratti, portacenere o magneti da frigo con la sua
effigie. Nemmeno una cartolina, anche se ci sono cartoline di quasi ogni
altra attrattiva dell’isola. Forse a Zanzibar pure i termometri sono privi di
mercurio! Se mai si volesse trovare l’antitesi della Graceland di Elvis Presley,
questa è la Zanzibar di Freddie Mercury.
Il mistero del certificato di nascita mancante riaffiorò al mio ritorno a
casa. Un giorno, fui contattata inaspettatamente dalla famosa argentina
Marcela Delorenzi. Era una giornalista di Buenos Aires e stava venendo a
Londra con un regalo per me. Mi portò una copia del certificato di nascita
di Freddie. Non gliel’avevo chiesta, non ci eravamo mai parlate. Non avevo
cercato di rintracciarla e lei non mi domandò nulla in cambio. Non so se agì
per un senso di colpa, non ne discutemmo. Mi disse che quando aveva
ottenuto la sua copia, il documento originale era ancora nell’archivio.
L’aveva visto. Forse è stato venduto e, chissà, magari oggi si trova in qualche
collezione privata.
Nel 2006, l’Associazione per la mobilitazione e la propagazione dell’Islam
(UAMSHO) protestò a gran voce contro l’idea di festeggiare il sessantesimo
compleanno di Freddie sull’isola, sostenendo che il cantante aveva violato i
dettami dell’Islam con il suo comportamento apertamente omosessuale e
trasgressivo. L’associazione radicale chiese che la prevista festa in spiaggia
per turisti gay fosse annullata e che migliaia di fan provenienti da tutto il
mondo per le celebrazioni fossero rispediti a casa.
Non fu certo una sorpresa. Zanzibar aveva messo fuori legge le relazioni
gay nel 2004, attirandosi le critiche delle organizzazioni per i diritti degli
omosessuali di tutto il mondo. Il capo della UAMSHO, Abdallah Said Alì,
sostenne provocatoriamente che l’evento avrebbe «mandato un messaggio
sbagliato» al mondo.
«Non vogliamo lasciar credere alle nostre giovani generazioni che
l’omosessualità sia tollerata a Zanzibar», disse. «La nostra religione ci
impone il dovere di proteggere la morale della società, e chiunque corrompa
la morale islamica dev’essere fermato.»
Morale islamica a parte, c’era la fede della famiglia di Freddie da
prendere in considerazione. Il cantante amava e rispettava i genitori e la
sorella, e sapeva anche che gli zoroastriani ortodossi sono favorevoli alla
totale soppressione dell’omosessualità. Forse era per questo che aveva
tentato a lungo di reprimere le sue tendenze omosessuali. Nel testo sacro
dello zoroastrismo, il Vendidad, si afferma: «L’uomo che giace con il
maschio come l’uomo giace con la femmina, o come la femmina giace con
l’uomo, è un daeva (demone): quest’uomo è un adoratore dei daeva, un
concubino dei daeva».
Per i parsi, quindi, l’omosessualità non è solo un peccato, ma una forma
di adorazione del diavolo.
Mettiamo le cose nel giusto contesto. I rapporti omosessuali consenzienti
fra adulti sono tuttora illegali in circa settanta Paesi (su un totale di
centonovantacinque nazioni nel mondo). In quaranta di questi è vietato
solo il sesso fra maschi. I rapporti sessuali fra due maschi adulti sono
diventati legali in Inghilterra e in Galles nel 1967, mentre in Scozia solo nel
1980 e in Irlanda del Nord nel 1982. Durante gli anni Ottanta e Novanta, le
organizzazioni per i diritti degli omosessuali si sono battute per
l’equiparazione dell’età del consenso fra eterosessuali e omosessuali. Oggi
l’età del consenso in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord è fissata a
sedici anni.
«Freddie non viveva come noi», aveva detto sua cugina Diana. «Viveva
un’altra vita.»
La verità nuda e cruda, meglio di qualsiasi bugia attentamente
confezionata. A quanto pare Freddie aveva abbandonato la sua patria
africana per il più basilare dei motivi.
Forse nel profondo del cuore si sentiva hiraeth, un antico termine gallese
che non ha un corrispettivo preciso. Evoca melanconia, nostalgia, una
tristezza profonda e radicata per una cosa perduta. Forse Freddie, come
molti di noi, in segreto piangeva la sua innocenza perduta e sentiva la
mancanza di una parte del suo passato che non poteva più raggiungere.
Talvolta torniamo, rivisitiamo, consoliamo il nostro sé adulto con i
ricordi. Freddie non ha mai potuto farlo. Era costretto a riempire il vuoto
con qualcos’altro. Secondo alcuni Seven Seas of Rhye («I sette mari di
Rhye»), primo successo dei Queen nel 1974, era il suo tentativo di
rappacificarsi con il passato. È l’unico brano hard rock in un album
progressive, con un testo basato su un regno di fantasia che da piccolo
Freddie immaginava con la sorellina Kashmira. Può darsi che siano stati i
misteri delle loro radici persiane, in particolare l’epico viaggio del profeta
Zarathustra, ad alimentare la loro fantasia e a ispirare le loro favole su Rhye.
Secondo Phil Swern, produttore della britannica Radio 2 e rinomato
collezionista di musica, questa è una possibilità concreta. «Ho sempre avuto
l’impressione, dai commenti [di Freddie] in diverse interviste negli anni, che
Seven Seas of Rhye parlasse della sua vita a Zanzibar. Era il suo rifugio,
almeno a livello mentale. Era il luogo in cui fuggire quando la realtà
diventava troppo opprimente.»
In un’intervista radiofonica, Freddie descrisse il testo del brano come
«puro frutto della mia immaginazione».
«I testi delle mie canzoni sono soprattutto di fantasia», disse. «Li invento,
non sono concreti, sono campati in aria, in un certo senso. Non sono uno di
quei compositori che va in giro per strada e di colpo è ispirato da una
visione, e nemmeno uno di quelli che va a farsi un safari per prendere
ispirazione dagli animali selvatici, o che scala una montagna o cose del
genere. No, no, per ispirarmi basta che stia sdraiato nella vasca da bagno.»
Comunque sia, Rhye era un tema ricorrente. Altri brani dei Queen degli
inizi trattavano argomenti di fantasia, come Lily of the Valley («Mughetto»),
The March of the Black Queen («La marcia della regina nera») e My Fairy
King («Il mio re fatato»). Rhye avrebbe esercitato un fascino duraturo sul
gruppo. Nel musical-jukebox della band, il futuristico We Will Rock You,
che debuttò a Londra nel 2002, il «Seven Seas of Rhye» è il luogo in cui i
ribelli «Bohemians» vengono trasportati dopo essere stati lobotomizzati dal
perfido Khashoggi, il comandante della polizia della Globalsoft Corporation
che controlla il mondo.
Alla fine di Seven Seas of Rhye, mentre svaniscono le ultime battute, si
sente un coro sguaiato che intona una vecchia canzone inglese da spiaggia:
«Oh, I do like to be beside the seaside» («Oh, come mi piace star in riva al
mar»). Un’ulteriore allusione alla spensierata vita da spiaggia di Freddie, fra
le intatte barriere coralline e le sabbie adorne di palme della sua giovinezza?
Non potremo mai saperlo con certezza. Quel che sappiamo è che non
avrebbe mai potuto esserci un «bentornato a casa» per l’uomo che aveva
infranto i dettami della fede di famiglia.
3
Panchgani

Ero […] un bimbo precoce e i miei genitori pensarono che il


collegio mi avrebbe fatto bene. Per questo, quando avevo circa
sette anni, me ne scelsero uno in India e mi ci mandarono per
un po’. Fu uno sconvolgimento radicale dal punto di vista
educativo, che sembra avere funzionato, direi.

FREDDIE MERCURY

I suoi genitori lo mandarono a scuola in India. Fui molto triste


quando lo vidi partire, ma qui a Zanzibar, all’epoca, le scuole
non erano molto buone. Inoltre mi sembra che più o meno
nello stesso periodo i genitori dovettero trasferirsi sull’isola di
Pemba per lavoro, e di sicuro lì non c’erano scuole di un certo
livello. Perciò pensarono che la soluzione migliore fosse
mandarlo dalla sorella di Bomi, che si chiama anche lei Jer – è
mia zia, abita a Bombay – dove avrebbe potuto studiare come
si deve.

PERVIZ DARUNKHANAWALA,
cugina di primo grado di Freddie

NEL novembre del 1996 fui invitata alla Royal Albert Hall per
l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata a Freddie Mercury: si
commemorava il quinto anniversario della sua morte. Tutti i presenti quella
sera avevano avuto un legame diretto con Freddie e i Queen, da Marje, la
domestica del cantante, a Ken Testi, il primo manager del gruppo, a Denis
O’Regan, il fotografo della band. C’erano anche i genitori di Freddie, gracili
e anziani, e quando mi presentai mi salutarono con affetto.
«È bellissimo vedere tutte queste fotografie e queste persone riunite in
onore del nostro caro figliolo. Siamo molto orgogliosi», disse il padre dopo
avermi stretto la mano.
La mostra avrebbe girato il mondo e sarebbe stata ripresentata in diverse
città, fra cui Parigi, Montreux e Mumbai. Dopo l’inaugurazione londinese,
alcuni giornalisti decisero di smascherare The Great Pretender («Il grande
simulatore») per avere celato le sue origini indiane. Con titoli come
«Bombay Rhapsody» e «Star of India», Freddie fu messo a nudo come la
prima rockstar indiana dell’Inghilterra. Benché gli articoli contenessero
poche verità, la bufala fu ripresa da diversi giornali, che la sormontarono di
titoloni scandalistici. Le origini persiane di Freddie furono messe in
discussione, la comunità parsi di Londra si indignò e ne nacque un’accesa
polemica. Non che ai giornali inglesi importi qualcosa di offendere
qualcuno.
«Il nostro popolo non vive in Persia dal nono secolo, ma non per questo
siamo meno persiani», dichiarò il portavoce dei parsi.
«Anche se siamo spesso definiti ‘zoroastriani indiani’, discendiamo dagli
zoroastriani persiani che si rifugiarono in India durante il settimo e l’ottavo
secolo per sfuggire alle persecuzioni musulmane. Quella migrazione non ci
ha reso indiani. Se sei di fede ebraica, ma la tua famiglia non vive in
Palestina da duemila anni, forse questo ti rende meno ebreo? C’è parecchia
differenza fra razza e nazionalità, fra radici e cittadinanza. Può darsi che i
parsi persiani non abbiano una patria [la loro antica terra d’origine oggi è
parte dell’Iran], nonostante ciò, rimangono parsi nel cuore.»
Tornando a Freddie, basta guardare una sua foto qualsiasi per rendersi
conto delle sue origini iraniche piuttosto che indiane. Ogni sua immagine,
nonostante quella dentatura pronunciata, tradisce la sua discendenza.
Nati nell’India coloniale, i genitori di Freddie erano tutti e due sudditi
britannici, di nazionalità indo-britannica. Era questa la dicitura sui
documenti ufficiali, presente sul loro certificato di nascita e su quello del
figlio. È significativo che come razza si fossero dichiarati entrambi parsi.
Freddie era nato a Zanzibar, perciò era considerato uno zanzibari. Si può
sostenere che fosse più africano che indiano. Definirlo «la prima popstar
indiana d’Inghilterra» era un’esagerazione: l’ennesimo titolo per riproporre
una storia vecchia. Perché la famiglia non ha mai protestato per questo
travisamento del proprio retaggio culturale, per questa negazione delle loro
origini etniche? Spesso il loro comportamento è parso incomprensibile.
Persone calme, semplici e diligenti, per niente materialiste e contente di
ciò che hanno, i Bulsara vivono in modo tranquillo, osservando i rituali, le
regole e le limitazioni della loro religione e cultura. Sono tutti e due minuti,
con una costituzione quasi delicata. Freddie aveva preso più dalla madre,
ereditando in particolare le labbra carnose, l’ampio sorriso e l’insolita
dentatura. Riservati in pubblico, Bomi e Jer sono sempre gentili e gioviali in
privato, seppure un po’ troppo controllati. Anche se era un autentico
capofamiglia con un forte senso della tradizione, Bomi non era mai stato
una figura autoritaria né tanto meno un modello virile per il figlio. Freddie
si era sempre sentito più a suo agio fra le donne della famiglia e non aveva
mai mostrato il desiderio di voler seguire le orme del padre in termini
professionali. La madre avrebbe voluto che studiasse legge, ma l’idea di
lavorare in un ufficio non lo aveva mai entusiasmato.
Essendo così riservati e così poco espansivi, i Bulsara non hanno mai
avuto un rapporto molto fisico con i figli, come Freddie avrebbe rivelato in
seguito ai suoi amanti Barbara Valentin e Jim Hutton. Quando abitavano a
Zanzibar, i bimbi erano seguiti dalla tata, Sabine. Sebbene né Freddie né
Kashmira ricevessero mai punizioni corporali dai genitori, non ebbero mai
nemmeno molte coccole. Secondo Jim, di tanto in tanto Freddie si
domandava se la carenza di affetto provata durante l’infanzia fosse ciò che
l’aveva portato a nutrire «un’ossessione sproporzionata per il contatto fisico
in età adulta […] Un desiderio che troppo spesso si manifestava in sesso
insignificante, perché in genere non era in grado di trovare l’uno senza
l’altro. Il sesso non era mai riuscito a sostituire ciò che desiderava di più,
cioè l’affetto, la prova di essere amato. Era abbastanza infantile in questo
senso. Tutte le carezze e le coccole che riservava ai gatti, per esempio,
rappresentavano ciò che lui avrebbe voluto ricevere.»
Il 14 febbraio 1955, secondo i registri della scuola, Freddie (all’epoca
ancora Farrokh) fu iscritto come «Farookh Bomi Bulsara» (si noti la diversa
ortografia del nome rispetto al certificato di nascita) alla St Peter’s School di
Panchgani, un collegio retto dalla Chiesa anglicana, dove fu ammesso alla
«classe terza». Aveva otto anni. Vi sarebbe restato per quasi un decennio,
rivedendo i genitori solo una volta l’anno, per un mese estivo. Non
sorprenderà, quindi, se la sua relazione con la madre e il padre divenne
sempre più distaccata, come dimostrano le lettere rispettose ma fredde che
scriveva loro. Nonostante gli insegnanti lo esortassero a non lasciar
trasparire le sue emozioni, è impossibile pensare che Freddie non si sia
sentito vulnerabile e solo così lontano da casa, senza nemmeno il lusso di un
telefono per chiamare i genitori quando sentiva la loro mancanza, il che
accadeva spesso.
«Aveva sei anni quando sono nata, per cui ho passato solo un anno con
lui, ma sono sempre stata molto orgogliosa di mio fratello maggiore, che mi
proteggeva», ricordò la sorella in un’intervista per il Mail on Sunday nel
novembre del 2000.
«Non sempre tornava a casa per le vacanze, talvolta restava dalla sorella
di papà a Bombay, oppure con quella della mamma, anzi è stata proprio lei
a fargli muovere i primi passi con il pianoforte e il disegno. Era bravo in
tutte le materie. Ero invidiosa, chiaramente. Mamma e papà hanno tenuto
tutte le sue pagelle.»
Per il piccolo Freddie, il viaggio da Zanzibar alla nuova scuola fu molto
difficile. «Andò via nave con il padre e poi prese il treno fino a Poona [oggi
Pune]», ricorda la cugina Perviz. «Era un viaggio lungo e stancante, anche
se c’erano collegamenti regolari fra Zanzibar e Bombay», che già allora era la
città più caotica, industrializzata e moderna dell’India. «Anche noi ci
andavamo spesso, a trovare i parenti. Durante le vacanze scolastiche,
Freddie stava dalla zia Jer, la sorella di Bomi. Era una signora molto buona
e generosa, che si occupava anche dei bambini di un altro fratello di mio
padre in India.»
Panchgani («Cinque colli») era una tipica località turistica del Raj
Britannico nell’India occidentale, a circa trecento chilometri da Mumbai.
Famosa per i suoi edifici pubblici, le villette pittoresche, le antiche dimore
parsi e i lussureggianti campi di fragole, quella tranquilla cittadina coloniale
fu fondata durante il dominio inglese come sanatorio e luogo di
villeggiatura estiva. Affacciata sulle pianure costiere, su fitte foreste e sul
fiume Krishna, la cittadina è tuttora una destinazione popolare per i turisti,
attratti dalle sue acque sorgive ricche di ferro e i densi fanghi rossi di origine
vulcanica. Molti abitanti di Mumbai si rifugiano lì per scappare dai monsoni
(la capitale dista quattro o cinque ore di macchina). Alcuni ci mandano in
collegio i figli, in istituti impostati sul modello inglese.
La St Peter’s School esiste tutt’oggi. Fondata nel 1904, continua a
promuovere la cultura e i valori tradizionali dell’India e a sostenere la
tolleranza religiosa nei confronti di tutte le fedi, dal cattolicesimo allo
zoroastrismo. Il motto dell’istituto è «Ut Prosim» («che io possa giovare»). Il
suo stemma, «simbolo di speranza di rinascita», rappresenta la fenice che
risorge dalle ceneri, con un ramoscello di ulivo nel becco. Ai tempi di
Freddie era diretta da Oswal D. Bason, entrato in carica nel 1947, l’anno
dell’indipendenza dell’India. Bason sarebbe rimasto al suo posto fino al
1974, proprio mentre i Queen gustavano il loro primo assaggio di notorietà.
Sebbene la scuola non ostenti quel suo allievo famoso, non è nemmeno
riluttante ad aprire le porte ai curiosi. I suoi dipendenti hanno persino
collaborato alle riprese di alcuni documentari su Freddie Mercury. Insieme
con l’amico Victory Rana (in seguito generale dell’esercito nepalese) e Ravi
Punjabi, filantropo e imprenditore, Freddie Mercury è fra gli ex allievi più
famosi dell’istituto.
Quando arrivò nell’ampio e gradevole campus della scuola, Freddie era
stato indottrinato nella fede della famiglia ed era uno zoroastriano
praticante. A otto anni aveva fatto il Navjote, una cerimonia che riguarda sia
i maschi sia le femmine (come la cresima) e che somiglia al bar mitzvah dei
maschi ebrei. Comincia con un bagno rituale, che simboleggia la
purificazione della mente e dell’anima. Poi l’iniziato indossa una tunica
bianca e una cintura di lana, e recita antiche preghiere su una fiamma che
gli zoroastriani ritengono sacra ed eterna. Fuochi come questo sono un
elemento centrale della fede e si dice che in alcuni templi brucino senza
interruzione da migliaia di anni. L’Avesta, la raccolta di sacre scritture dello
zoroastrismo, non prevede alcun comandamento formale, ma solo «tre
buone cose» che i parsi si impegnano a osservare da generazioni: humata,
hukhta, huvarshta, ovvero «buoni pensieri, buone parole, buone opere».
All’epoca di Freddie, il St Peter’s era ritenuto uno dei migliori collegi
privati maschili di Panchgani. Offriva un programma di studi in inglese e
vantava un’ottima percentuale di successo. Attirava allievi dagli Stati Uniti,
dal Canada, dal Golfo Persico, oltre che da tutta l’India. Le lezioni
iniziavano a metà giugno e finivano a metà aprile, per via del clima indiano.
La pausa principale era quindi di otto settimane. A questa si aggiungevano
due settimane di vacanza a Natale. La disciplina era rigida e le condizioni di
vita abbastanza austere. C’era acqua calda solo di mercoledì e di sabato
all’ora di pranzo. I bagni venivano fatti sotto la supervisione della capo
infermiera, la quale gestiva anche l’ospedale dell’istituto con l’aiuto di una
collaboratrice interna e un dottore esterno. Il collegio aveva una sua
cappella e gli allievi dovevano adeguarsi alle abitudini religiose dell’istituto a
prescindere dal loro credo. Sebbene la scuola rispettasse tutte le fedi, la
messa domenicale era obbligatoria per tutti. Nessun allievo poteva uscire dal
perimetro dell’istituto senza essere accompagnato da un membro del
personale. Nonostante ciò, il St Peter’s era rinomato per la premura dei
docenti nei confronti degli allievi e per la sua atmosfera rilassata e cordiale:
aiutava a coltivare le virtù dei ragazzi e a far emergere il loro lato migliore.
In seguito Freddie avrebbe dichiarato di essersi sentito privilegiato per
essere stato mandato in quel collegio: sapeva quanti sacrifici fosse costato ai
genitori.
I Bulsara non solo avevano dovuto lavorare molto per coprire la retta, ma
anche separarsi dal loro primogenito e costringere la figlia a crescere lontana
dall’unico fratello.
Ma il pensiero di essere un privilegiato non era sufficiente a debellare
l’inquietudine legata alla separazione dalla famiglia. Dopo esser vissuto a
stretto contatto con la madre e la sorella, ritrovarsi in un collegio a migliaia
di chilometri di distanza, a soli otto anni, dev’essere stato dolorosissimo per
lui. È impossibile pensare che non si sia sentito solo e impaurito, che non
abbia desiderato un abbraccio o una favola della buonanotte prima di
addormentarsi. Chi gli è stato vicino negli anni, ha dichiarato che Freddie
era risentito nei confronti dei genitori per essere stato «mandato via» da
piccolo, anche se con loro si comportò sempre in modo assolutamente
rispettoso e premuroso. È evidente che faceva del suo meglio per superare il
senso di rifiuto provato allora.
All’epoca Jer e Bomi presero la decisione che ritennero migliore e non c’è
dubbio che sia costata loro moltissimo. Tuttavia mandare un bambino
timido come Freddie così lontano da casa fu probabilmente un grandissimo
errore, forse il più grande della loro vita. Alcuni bambini sopportano meglio
di altri la separazione dalle famiglie, ma per Freddie, un ragazzino sensibile
e per sua stessa ammissione un po’ troppo appiccicoso, lo strappo fu
insopportabile, almeno all’inizio. La notte piangeva fino ad addormentarsi
nella camerata che condivideva con altri diciannove bambini altrettanto soli.
Privato di attenzioni quotidiane e affetto in un momento cruciale della
crescita e in un’età estremamente delicata, inevitabilmente Freddie cambiò,
sviluppando un nuovo carattere e iniziando a vedere la vita in modo
diverso.
Cercò conforto nei compagni. Oltre a Victory Rana, diventò amico di
Derrick Branche, che in seguito si trasferì in Australia e divenne un attore
di successo. Nel 1985, infatti, proprio mentre Freddie si esibiva al Live Aid,
Branche recitava nel film My Beautiful Laundrette, una commedia
drammatica con Daniel Day-Lewis che esplora le relazioni fra la comunità
bianca e quella indiana, e che affronta temi difficili come l’omosessualità e il
razzismo.
Nella cerchia di Freddie c’era anche Farang Irani, che in seguito aprì un
ristorante a Bombay, e Bruce Murray: di lui si sa solo che di recente
lavorava come facchino alla stazione Victoria a Londra. Negli anni successivi
i cinque divennero inseparabili, dormendo in letti vicini e organizzando
scherzi. Ospitato dalla zia paterna Jer o da quella materna Sheroo durante le
pause fra i quadrimestri, di rado Freddie rivide i genitori durante la
permanenza al St Peter’s, persino nel corso delle vacanze scolastiche.
«Dovevi fare quel che ti dicevano, per cui la cosa più ragionevole era
sfruttare la situazione al meglio», disse anni dopo. «Imparai a badare a me
stesso e crebbi molto in fretta.»
Così cominciò a formarsi il carattere del «vero» Freddie, quello che
l’avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Dovendo guardarsi le
spalle da solo e difendersi dai bulli, Freddie imparò in fretta a stare al
mondo. Si rese anche conto di dover cambiare nome: «Farrokh» era difficile
da pronunciare, specialmente alla maniera persiana, «Farroh», piuttosto che
all’africana «Faruk». Fu per lui un sollievo quando insegnanti e amici gli
affibbiarono un nome inglese di tutto rispetto: «Freddie». Per sua fortuna,
tutti lo adottarono. Anche famigliari e genitori non sollevarono obiezioni, e
ancora oggi si riferiscono al figlio chiamandolo «Freddie». Il cambio di
cognome, invece, sarebbe avvenuto solo molto più tardi e per ragioni
diverse.
Verso i dieci anni, Freddie cominciò a mostrare un nuovo tratto
caratteriale: il riserbo, per alcuni versi condiscendente, una caratteristica che
avrebbe mantenuto per il resto della vita. Sebbene in certe occasioni potesse
diventare astioso, non era mai scortese o cattivo.
Non era portato per i giochi di squadra. Eccelleva negli sport individuali
o di coppia, come gli scacchi, la corsa, la boxe e il ping-pong. Divenne
campione di tennis da tavolo dell’istituto prima ancora di avere compiuto
undici anni. Sebbene rugby e calcio non facessero per lui, si dice che amasse
il cricket, anche se in seguitò lo negò. Chissà, magari pensava che una
dichiarazione d’amore per quello sport avrebbe danneggiato la sua
immagine hard rock, ma chi può dirlo? Nel 1958, a quasi dodici anni, vinse
il premio come miglior allievo dell’istituto e l’anno successivo quello per il
miglior rendimento scolastico. Interpretò il ruolo principale in diverse pièce
teatrali e cantò un pezzo solista nella produzione del Canto d’amore
indiano. La sua materia preferita era l’arte e dedicava la maggior parte del
tempo libero a disegnare e a dipingere, in particolare per la zia Sheroo e i
nonni di Bombay. Cominciò anche a dedicarsi con entusiasmo alla musica
come attività extracurricolare.
Già a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, Bombay vantava una
cultura cosmopolita e internazionale, aperta anche all’influenza della musica
leggera occidentale. Freddie amava studiare musica classica, in particolare
l’opera, ma adorava addirittura di più il rock e il pop contemporanei. Prese
lezioni di pianoforte superando gli esami sia di teoria musicale sia di pratica
ed entrò a far parte di un coro. Con gli amici del collegio formò il suo primo
gruppo: gli Hectics, che si affermarono grazie al suo stile pianistico boogie-
woogie. Iniziarono a esibirsi in concerti all’interno dell’istituto e alla festa
annuale del collegio. Le ragazze delle altre scuole si mettevano davanti al
palco e gridavano come matte, perché avevano sentito dire che così ci si
comportava ai concerti rock. Gli idoli dell’epoca erano Elvis Presley, Cliff
Richard, Fats Domino e Little Richard, ed era a questi artisti che Freddie si
ispirava. Studiò molto per imitare il loro stile, ma non era ancora pronto per
diventare il leader di un gruppo, ed era felice di restare in seconda fila e
lasciare il posto principale all’amico Bruce Murray, che cantava e suonava la
chitarra.
«Poi c’era il coro del collegio, con tutto il repertorio tradizionale di opere
corali e inni, che provava regolarmente per guidare i canti durante la
messa», ricordò Branche. «Il coro aveva circa venticinque elementi e spesso
partecipavano anche le ragazze di un altro istituto della città. Non solo
Freddie amava cantare nel coro, ma credo che amasse anche una delle
ragazze: Gita Bharucha, che aveva quindici anni.»
Alcuni sostengono che Freddie ebbe i primi rapporti sessuali in collegio,
all’età di circa quattordici anni, soprattutto con altri ragazzi e persino con un
paio di dipendenti dell’istituto. La sua prima «fidanzatina», però, dubita
parecchio di queste ipotesi.
«Non ho mai pensato che ‘Bucky’ fosse gay», disse Gita. «Assolutamente
no. Mai visto alcun segno che lo indicasse. Forse i suoi insegnanti lo
sapevano ma erano discreti. Noi, i suoi amici, di certo non lo sapevamo. Sul
palco era il più sgargiante, si vedeva che era nel suo elemento, e
puntualmente interpretava parti femminili.»
Dopo Panchgani Gita si sposò, cambiò cognome in Choksi e si trasferì a
Francoforte, dove lavorò per un tour operator indiano. Per questo non fu
facile rintracciarla. Quando ci riuscii, all’inizio fu riluttante a parlare di
Freddie. Alla fine, tuttavia, accettò e ci incontrammo a Londra.
«La prima volta che vidi Freddie fu nel 1955, quando andai alla
Kimmins School di Panchgani», raccontò.
«Era una scuola gestita da missionari protestanti inglesi. Ci rimasi fino al
1963 e per quasi tutti i dieci anni che Freddie trascorse a ‘Panchi’
rimanemmo amici. Io venivo da Bombay, ma vivevo con la mamma e i
nonni a Panchi. Ero un’allieva esterna. Funzionava così: i ragazzi
frequentavano l’asilo della Kimmins, poi proseguivano alla St Peter’s. Con
alcuni sono stata nella stessa classe per anni: con Victory Rana e anche con
Bucky; è così che chiamavo Freddie: leprotto, per via dei denti. C’era anche
Derrick Branche.
«Io e Bucky eravamo molto vicini, ma solo amici. Nient’altro. Ci
tenevamo per mano e basta. Affittavamo biciclette per tre rupie al giorno e
andavamo a farci dei giri. A volte andavamo in barca sul lago
Mahableshwar. La mamma mi lasciava fare delle feste, o invitare amici a
pranzo, dopodiché facevamo una passeggiata o giocavamo. Spesso Bucky
restava da noi durante le vacanze. Era estremamente educato e gentile. A
mia madre e ai miei nonni piaceva tantissimo.»
Janet Smith, un’insegnante di Panchgani che risiedeva al St Peter’s dove
la madre teneva corsi di arte alla classe di Freddie, invece sostiene di non
avere avuto alcun dubbio sull’omosessualità del giovane Freddie.
«Aveva l’abitudine di chiamarti ‘tesoro’, il che mi sembrava un po’
lezioso. Sapevo che era gay, lo sapevo e basta. Era una cosa senza dubbio
insolita in quei tempi, ma quasi accettabile per un ragazzo come Freddie.
Normalmente sarebbe stato orribile, ma nel suo caso non lo era. Era giusto.
E non era una fase, ma un tratto fondamentale del suo essere. Non potevo
fare a meno di provare pena per lui, perché gli altri lo prendevano in giro.
Stranamente, però, non sembrava che questo gli desse fastidio.»
Nonostante Gita e Freddie fossero stati compagni inseparabili durante la
scuola, in seguito lei non ebbe più sue notizie.
«È triste, lo so, ma è andata così. Come se volesse divorziare dall’India e
passare allo stadio successivo della vita.»
Quando Freddie arrivò alla decima classe, il suo rendimento scolastico
peggiorò. Non passò l’esame di fine anno e lasciò la scuola prima
dell’undicesimo anno. Non superò mai il primo livello nell’educazione
superiore britannica. Forse confuso per il suo orientamento sessuale e
distratto da passioni più creative – musica e arte – perse interesse negli studi
e iniziò a seguire obiettivi e attività più stimolanti. Sebbene altri biografi
abbiano scritto che uscì dal St Peter’s con una sfilza di attestati in varie
materie, e ottimi voti in inglese, storia e arte, questo non corrisponde al
vero. Il motivo per cui i primi addetti stampa dei Queen falsarono la realtà
diventa chiaro quando si confrontano i risultati accademici degli altri
membri del gruppo. Brian May studiò fisica e matematica all’Imperial
College di Londra conseguendo una laurea in fisica. Cominciò poi un
dottorato in astrofisica che completò trent’anni dopo. John Deacon si laureò
con i massimi voti in elettronica al Chelsea College (oggi parte del King’s
College) di Londra, mentre Roger Taylor ottenne un posto per studiare
odontoiatria al London Hospital Medical College, ma in seguito abbandonò
gli studi per concentrarsi sulla musica.
«Freddie non voleva passare per un... ignorante, rispetto agli altri
membri dei Queen», commentò Jim Jenkins, amico del gruppo e coautore
di Queen: la biografia ufficiale. «Forse è per questo che raccontava in giro di
avere superato gli esami superiori quando in realtà non era vero. È
comprensibile, date le circostanze.»
La zia materna di Freddie, Sheroo Khory, mi parlò dell’amato nipote in
casa sua, nella colonia parsi di Dadar a Bombay.
«Anche quando Freddie stava da Jer, veniva sempre a trovarmi dopo
colazione e a volte passavamo tutto il giorno insieme. Era molto bravo a
disegnare e io lo incoraggiavo. Quando avevo otto anni fece un bellissimo
disegno di due cavalli in una tempesta, che firmò ‘Farrokh’. Ce l’aveva la
madre appeso in casa. Non so se sia ancora lì.»
Ma quando andò in Inghilterra, «era finita», disse. «Non volle più
tornare in India. Diceva di essere inglese, gli piaceva quella società più
civile, specialmente il sistema legale, rispetto all’enorme corruzione che c’è
qui in India. Ma ha sempre mantenuto i contatti e mi ha persino spedito del
denaro per un’operazione agli occhi di cui avevo molto bisogno. Voleva
anche portarmi a visitare l’Europa. Non si è mai dimenticato della sua
vecchia zia.»
Anni dopo, Sheroo iniziò a corrispondere regolarmente con la ex
fidanzata di Freddie, Mary Austin, scambiando fotografie del nipote da
piccolo con quelle di lui nei panni della famosa rockstar. La nostra
conversazione toccò anche l’argomento dei «nemici» che Freddie aveva in
Inghilterra e lei disse di avere temuto per la sua incolumità. Era dispiaciuta
per le polemiche religiose che c’erano state, specialmente per le voci che
parlavano di una conversione di Freddie Mercury al cristianesimo poco
prima della scomparsa.
«Tutta la famiglia è rimasta turbata da quelle notizie», disse. «È stato un
colpo terribile e crudele. Tutte bugie, in particolare quella che era diventato
cristiano. Sono sicura che non è vero. Di certo non che io sappia, e sono
sicura che me l’avrebbe detto.»
Nonostante a volte sia stato riportato il contrario, Freddie tornò a
Zanzibar nel 1963 e completò gli ultimi due anni di scuola presso la St
Joseph’s Convent School, un istituto cattolico. Bonzo Fernandez, un ex
poliziotto di Zanzibar, poi tassista, conobbe Freddie in quell’occasione.
«Ricordo che aveva un ottimo rapporto con la famiglia e che aveva una
sorella molto brava. Era molto educato. Tutti i Bulsara erano buoni e gentili.
Giocavamo a hockey e a cricket insieme. Lui era particolarmente bravo a
cricket», disse.
«Sapevo che era stato via per studiare in India, ma non parlava mai di
quel periodo. Talvolta dopo la scuola andavamo al mare a farci una nuotata,
cosa che lui adorava. Frequentavamo anche lo Starhe Club in Shangani
Street, che aveva una spiaggia pulitissima. Altre volte andavamo in bici fino
a Fumba, al Sud, a Mungapwani nel Nordovest, dove ci sono le vecchie
caverne degli schiavi o a Chwaka, nella penisola all’estremo Sudest. A volte
in gruppo. Nuotavamo, facevamo uno spuntino, scalavamo le palme da
cocco. Eravamo solo un po’ vivaci, ma non dei ragazzacci. Niente alcol,
droga o sigarette; non ai nostri tempi.
«Se chiudo gli occhi vedo ancora quel ragazzino magro e felice con i
pantaloncini corti blu e la camicia bianca. Era sempre ben vestito,
specialmente per giocare a cricket, quando la sua divisa sembrava la più
immacolata di tutte.
«Dopo la rivoluzione ce ne andammo via tutti dall’isola. Non ho mai
saputo dove fosse Freddie, né che cosa gli fosse capitato. Solo molto più
tardi scoprii che avevamo abitato tutti e due a Londra nello stesso periodo, e
solo dopo la sua scomparsa mi sono reso conto che quel mio vecchio
compagno di classe era diventato famosissimo.»
Gita Choksi riferisce un’esperienza simile: «Anni dopo, quando scoprii
chi era diventato, comprai qualche suo disco. Mi piacquero tantissimo.
«Non l’ho mai visto esibirsi dal vivo, però, e mi è sempre dispiaciuto. Una
volta, un altro dei nostri vecchi compagni di scuola andò a un concerto dei
Queen e provò a parlargli nel backstage, ma quando riuscì ad averlo di
fronte, lui guardò quel poveraccio e gli disse: ‘Mi spiace, ma temo di non
conoscerla affatto’.
«Fu in quel momento che capimmo per certo che Bucky non voleva più
avere nulla a che fare con noi, che era determinato a lasciarsi alle spalle il
passato.»
4
Londra

Sono un tipo da città. Non mi attira l’aria di campagna e


l’odore del letame.

FREDDIE MERCURY

Molti sono attratti da Londra per la relativa anonimità che


offre. Puoi perderti fra la folla e incontrare molte persone che la
pensano come te. C’è una massa critica. Londra era molto
vivace in quegli anni, mentre Zanzibar era limitante per uno
come Freddie, per uno spirito irrequieto come lui.

COSMO HALLSTROM , psichiatra

GLI anni Cinquanta videro una netta impennata del sentimento nazionalista
contro il dominio britannico in tutto il mondo. L’indipendenza di India e
Pakistan nel 1947, della Birmania e di Ceylon (poi Sri Lanka) nel 1948 e la
rivoluzione cinese del 1949 ebbero un impatto notevole sulle lotte
indipendentiste nelle colonie africane dell’impero. Zanzibar non restò
immune da questi sconvolgimenti. I sindacati dell’isola iniziarono a
trasformarsi in partiti per incentivare il cambiamento. Il Partito Nazionalista
di Zanzibar, fondato nel 1956 dalla minoranza araba e shirazi si fuse nel
Partito Afro-Shirazi, con una leadership di origini soprattutto africane. Le
lotte operaie divennero più intense e gli scioperi azzopparono diversi settori
dell’economia. Nonostante l’indipendenza raggiunta nel dicembre 1963, il
perdurare degli squilibri nella rappresentanza parlamentare (a favore della
minoranza araba) e un’annata fallimentare nelle coltivazioni di chiodi di
garofano e cocco fecero infuriare la maggioranza africana e sfociarono in
una rivolta di stampo socialista. Nel 1964 la violenta insurrezione portò alla
caduta del nuovo sultano Jamshid bin Abdulla e il leader del Partito Afro-
Shirazi, Sheikh Abeid Amani Karume, divenne il primo presidente di
Zanzibar. Migliaia di persone persero la vita negli scontri. La famiglia
Bulsara, come molte altre, fuggì dall’isola per mettersi in salvo. Partirono
con poche valigie e andarono in Inghilterra, dove avevano alcuni parenti
che si erano offerti di aiutarli.
«E così finirono i nostri rapporti con gli zii e i cugini», ricordò Perviz, la
cugina di Freddie, con una certa amarezza.
«Quando venni a sapere, molto tempo dopo, che Freddie era diventato
un musicista famoso, ero contentissima di avere avuto un genio in famiglia.
Eravamo molto orgogliosi di lui, ma non ci contattò mai, non ci spedì mai
nemmeno una cassetta.»
Dopo la rivoluzione, Zanzibar si unì spontaneamente al Tanganica
nell’aprile del 1964, diventando un territorio semiautonomo della neonata
Tanzania. Oggi gli zanzibari sono persone tranquille, pacifiche e tolleranti,
tranne per la loro quasi universale avversione nei confronti
dell’omosessualità.

I Bulsara non erano preparati per lo shock culturale che li attendeva al


loro arrivo a Feltham, nella municipalità londinese di Hounslow,
un’anonima cittadina a circa venti chilometri a sud-ovest della capitale e a
pochi chilometri dall’aeroporto di Heathrow.
«Papà aveva un passaporto inglese», spiegò Kashmira, «perciò
l’Inghilterra era la meta più ovvia per noi.»
«Freddie era entusiasta», ricordò la madre. «‘È in Inghilterra che
dobbiamo andare, mamma’, diceva. Ma fu molto difficile per noi.»
La grigia, monotona regolarità di quella periferia aeroportuale, per non
dire del clima freddo, era molto diversa da ciò cui erano abituati a Zanzibar
e Bombay. A Londra i Bulsara si ritrovarono senza posizione, senza reddito;
niente domestici o casa in riva al mare. Nonostante i suoi contatti
nell’amministrazione pubblica e il suo curriculum, il padre di Freddie faticò
a trovare un impiego da semplice contabile. Alla fine, ottenne un posto
come tesoriere per il gruppo Forte, mentre la moglie andò a lavorare come
commessa da Marks & Spencer, un impiego che avrebbe conservato per un
certo periodo anche quando il figlio sarebbe diventato famoso.
«Eravamo palesemente diversi [dai ragazzi inglesi]», ricordò Kashmira,
che all’epoca aveva circa dieci anni.
«Freddie era molto pignolo sul suo aspetto. Era sempre lindo e curato,
con i capelli tirati indietro, mentre i nostri coetanei portavano i capelli
lunghi e avevano un aspetto disordinato. Quando camminavamo in strada
restavo sempre qualche passo indietro, perché non volevo far pensare alla
gente che ci conoscessimo.
«Ma cambiò look in fretta», proseguì. «Passava ore allo specchio a
pettinarsi i riccioli.»
A diciott’anni Freddie si trovò di fronte a un dilemma. Sebbene non
vedesse l’ora di spiegare le ali e spiccare il volo, non aveva nessuna fonte di
reddito, quindi dipendeva dai genitori ed era costretto a vivere con loro.
Sapeva benissimo che la metropoli aveva molto da offrirgli, per cui si sentiva
intrappolato e obbligato a contenersi.
«Nelle piccole città la gente ha difficoltà ad accettare chiunque si discosti
dalla norma», osservò James Saez, produttore, autore, musicista ed ex fonico
alla Record Plant di Los Angeles, che ha lavorato con Madonna, i Led
Zeppelin, i Radiohead e i Red Hot Chili Peppers, fra gli altri.
«Freddie era cresciuto a Zanzibar e in India, dunque sapeva benissimo
tutto questo. Se sei nato in un posto del genere e dentro ti senti diverso, e
sai che non saresti accettato, devi per forza trasferirti in città. Fu una fortuna
per lui andare a Londra proprio a quell’età.»
Sebbene molti suoi coetanei lavorassero e fossero già indipendenti, i
genitori di Freddie vollero che il figlio proseguisse gli studi. Nessuna carriera
in legge o economia, però: per sua stessa ammissione, Freddie non era
«abbastanza intelligente» per l’università. Decise invece di sviluppare il suo
talento artistico e nel 1966 si iscrisse all’Isleworth College per ottenere un
esame di livello Advanced (quello che permette l’accesso all’università) in
arte. Quello stesso autunno, passò all’Ealing College of Art, l’accademia
d’arte di Ealing, per seguire un corso di grafica e illustrazione. L’avrebbe
terminato nell’estate del 1969, a ventitré anni, conseguendo un diploma in
arti grafiche. Lungi dall’essere «l’equivalente di una laurea», il risultato non
era paragonabile a quelli dei suoi futuri compagni di gruppo.
«Sono andato a scuola con l’intenzione di prendermi un diploma, cosa
che ho fatto», disse Freddie. «Poi volevo lavorare come illustratore,
sperando di mantenermi come freelance.»
«Usciva molto», ricordò Kashmira, «e stava via tutta la notte. Con la
mamma era un litigio costante. Lei lo assillava perché voleva essere sicura
che studiasse fino alla laurea, ma lui era determinato a fare di testa sua. Ci
sono state molte porte sbattute, ma quando Freddie ha poi avuto successo,
la mamma fu molto orgogliosa.»
«È solo allora che ho cominciato a conoscerlo per davvero», aggiunse.
«Mi aiutava fare i compiti e io gli facevo da modella per i disegni.»
Durante le vacanze scolastiche, Freddie si guadagnava qualche soldo
lavorando nel servizio di catering dell’aeroporto di Heathrow e anche in un
deposito di container nella zona industriale di Feltham. Alle battute dei
colleghi, che lo sfottevano per i suoi modi effeminati, rispondeva di essere in
realtà un musicista, solo momentaneamente in pausa in attesa di sviluppi.
Londra, la mecca della cultura giovanile, in quegli anni era in pieno
fermento. Il boom del pop era a un punto di svolta e il mercato dei singoli
cominciava a cedere il passo a quello degli album. I proprietari delle sale da
ballo, visto che le serate rock’n’roll e beat non attiravano più il pubblico di
prima, cominciavano a proporre musica da ballare. I Beatles erano ancora il
gruppo più popolare del mondo e nelle classifiche rivaleggiavano con i
Rolling Stones, gli Animals, Manfred Mann e Georgie Fame. Tom Jones, un
corpulento cantante gallese, era l’ultima novità del pop. Sandie Shaw e
Petula Clark erano le voci femminili più famose in Inghilterra e il boom del
folk, esploso l’anno precedente, non accennava a diminuire. Joan Baez e
Bob Dylan usavano la propria influenza per parlare del Vietnam. Nel Regno
Unito, Donovan seguiva le orme di Dylan mentre Elvis Presley, Peter, Paul
and Mary, i Byrds, i Righteous Brothers, Sonny & Cher e altri artisti
americani occupavano le classifiche del Paese. Cominciavano a guadagnare
terreno i programmi televisivi dedicati alla musica, primo fra tutti Ready,
Steady, Go! presentato da Cathy McGowan.
Anche la moda era in pieno boom. Mary Quant e Angela Cash
dominavano la scena, mentre John Stephen divenne il «re di Carnaby
Street», all’epoca epicentro mondiale dei mod. La moda giovanile aveva i
suoi esponenti. Gli Who resero popolari i design basati sulla op art,
indossando magliette che sfoggiavano cerchi concentrici o bandiere inglesi.
John Lennon fece la stessa cosa per il berretto di tweed, mentre Dave Clark
(dei Dave Clark Five e in seguito amico personale di Freddie) trasformò i
Levi’s bianchi in un capo d’abbigliamento obbligatorio per i giovani.
Freddie, magro e sinuoso, preferiva pantaloni di velluto attillati, giacche di
pelle o scamosciate, camice di raso con temi floreali e stivaletti di cuoio.
Vivere ai margini della città più elettrizzante al mondo lo rendeva
irrequieto e ribelle. Desiderava più che mai andarsene di casa e presto
cominciò a dormire in giro dagli amici, accampandosi sul sofà o a terra.
«Viveva come uno zingaro», avrebbe ricordato Brian May.
Voleva tutto e lo voleva adesso (come avrebbe cantato in seguito), e
«tutto» era proprio lì, sulla porta di casa sua: i negozi di abbigliamento, di
dischi e di libri, i locali, i pub e le discoteche più in voga; Kensington Market
e il famoso emporio di Biba divennero i suoi ritrovi abituali.
L’Ealing College of Art vantava diversi personaggi famosi fra i suoi ex
allievi, compresi Pete Townshend degli Who e Ronnie Wood, chitarrista dei
Faces e in seguito dei Rolling Stones. Jerry Hibbert, anche lui ex allievo
dell’Ealing, lo ricorda come un istituto innovativo e pratico, il genere di
college che sforna diplomati pronti per il mondo del lavoro. Arrivando da
Oxford nel 1968, Jerry era due classi indietro rispetto a Freddie, ma finì per
conoscerlo bene grazie ai loro comuni interessi musicali. «L’Ealing College
attraversava un periodo di cambiamenti in quegli anni», ricorda.
«Madison Avenue a New York, con le sue agenzie pubblicitarie, era il
nostro punto di riferimento, e influenzava tutti i nostri atteggiamenti, fino al
modo di vestirci. Volevamo somigliare ai dirigenti delle agenzie
newyorchesi. Portavamo i capelli corti e andavamo a scuola in giacca e
cravatta, perché all’epoca dominava la moda hippy e agli studenti d’arte è
sempre piaciuto distinguersi. Tutto era codificato da uno stile preciso:
avevamo persino un modo di camminare particolare. Non somigliavamo
certo a dei tipici studenti che pensano solo a giocare a rugby e a ubriacarsi.
Il nostro punto di ritrovo era il ristorante interno del college. Freddie, che
all’epoca era ancora Freddie Bulsara, era sempre con noi. Lui sì che stava
attento allo stile e a come vesti.»
«L’accademia d’arte ti insegna a essere consapevole del tuo aspetto»,
osservò in seguito Freddie. «A essere sempre all’avanguardia.»
Le lezioni, però, lo annoiavano e gli mancava sia la disciplina sia la
diligenza per seguirle, per cui ben presto perse ogni interesse nello studio.
Gli piacevano invece i lati più edonistici della vita studentesca. In classe
passava il tempo a disegnare i compagni oppure il suo nuovo idolo Jimi
Hendrix, la cui influenza gli avrebbe cambiato la vita. Il chitarrista
afroamericano di Seattle, che aveva solo quattro anni in più di Freddie, era
stato scoperto a New York da Chas Chandler, il bassista degli Animals:
aveva persuaso i Beatles, Pete Townshend ed Eric Clapton a vederlo
suonare. In poco tempo, Chandler aveva costruito un seguito di tutto
rispetto per il suo talentuoso pupillo e per la sua band, la Jimi Hendrix
Experience, che comprendeva anche il batterista Mitch Mitchell e il bassista
Noel Redding. Hendrix lasciò i rivali a bocca aperta per la sua incredibile
abilità tecnica, che comprendeva svariate prodezze copiate da una sfilza di
anonimi musicisti: suonava la sua Fender Stratocaster al contrario, dietro il
collo e con i denti. Sebbene molti altri chitarristi abbiano poi portato lo
strumento verso nuove mete, pochi sono riusciti a uguagliare la genialità di
Hendrix.
«Jimi Hendrix era semplicemente un uomo bellissimo, un grande artista
sul palco e un ottimo musicista», osservò in seguito Freddie.
«Andavo ovunque per vederlo suonare, perché aveva ciò che qualsiasi
rockstar dovrebbe avere: stile e presenza sul palco. E non doveva sforzarsi,
ma gli bastava entrare in scena per dar via al delirio. Era l’esempio vivente di
tutto quello che volevo anch’io.»
L’ambizione di Freddie si cristallizzò. Continuò comunque ad ascoltare i
musicisti amati fino ad allora – Cliff Richard, Elvis Presley, Little Richard e
Fats Domino – ma Hendrix lo mandò in estasi. Cominciò a modellarsi a sua
immagine e somiglianza. Proprio come la musica del chitarrista nero
sovvertiva qualsiasi aspettativa, in futuro Freddie avrebbe fatto altrettanto
con le sue composizioni, i suoi arrangiamenti e la sua tecnica vocale. Grazie
alla sua presenza scenica e al suo stile trasgressivo Hendrix lasciava il
pubblico senza fiato. Era originale, innovativo e talmente energico che
riusciva a stremare gli spettatori. Freddie voleva fare altrettanto: era più che
mai determinato a sortire lo stesso effetto sui suoi fan un giorno o l’altro.
Hendrix era in grado di suonare qualsiasi brano, anche il più banale, e farlo
sembrare una sua composizione originale. Nel 1986 avrei visto Freddie fare
la stessa cosa a Budapest: a un concerto fece piangere migliaia di spettatori
con la sua interpretazione di una ballata popolare ungherese. Si era
scarabocchiato il testo in lingua originale sul palmo della mano e la melodia
era tutt’altro che rock, ma Freddie lo interpretò con un trasporto e una
dedizione tale che incantò il pubblico.
A Kensington, dove viveva in un minuscolo appartamento con le pareti
ricoperte dalle immagini del suo idolo, Freddie si dedicò a perfezionare lo
stile di Hendrix. Prese a indossare giacche sgargianti con motivi floreali su
camicie nere o colorate, pantaloni aderenti, stivaletti, foulard annodati al
pomo d’Adamo e grossi anelli d’argento. Secondo il compagno di scuola
Graham Rose: «Non era diverso da tutti gli altri ragazzi dell’epoca. Nel
complesso, era un ragazzo tranquillo, anche se spesso gli veniva la ridarella.
Quando gli capitava, portava subito la mano alla bocca per nascondere i
dentoni. Me lo ricordo come un tipo eccezionale, molto dolce e rispettoso.
Non c’era traccia di cattiveria in lui. Molti di noi sono stati sinceramente
felici per lui quando ha avuto successo».
Jerry Hibbert conferma che Freddie non spiccava particolarmente al
college. «Tranne per la sua passione per il canto. Stava seduto al banco a
cantare. Era nella classe di fianco alla mia, un anno o due avanti a me. Si
sedeva di fronte al suo amico Tim Staffell e cantava insieme con lui, in
armonia. Era molto strano, dato che all’epoca eravamo tutti appassionati di
blues, di John Mayall ed Eric Clapton pre-Cream. Ci appassionammo
parecchio della musica che li aveva influenzati. Per esempio, non ci
interessava più sentire Clapton che suonava Hideaway, ma volevamo
vederla fatta da Freddie King. Anche Freddie Bulsara era interessato al
blues, come tutti. Per cui era un po’ ridicolo vederlo cantare armonie vocali
con Tim, era una cosa che stonava rispetto a quel che facevano gli altri, ma a
lui questo non importava, e nemmeno a Tim. Se ne stavano lì, a disegnare e
cantare insieme.»
«Per me la musica è sempre stata un’attività parallela, che nel tempo ha
cominciato a crescere», osservò Freddie in seguito. «Quando finii il corso di
illustrazione, ero stufo, ne avevo fin sopra ai capelli. Non potevo far carriera
in quel campo, perché avevo altri interessi per la testa. Allora decisi di
provare con la musica. Tutti vogliono diventare una star, quindi pensai che
avrei potuto tentare anch’io… perché no?»
Per quel che riguarda il carattere di Freddie, Jerry non concorda con
l’ipotesi che il cantante avesse bisogno di attenzioni.
«No, non era fatto così. Era la persona più simpatica del mondo. Né
avevo la minima idea che fosse gay, non lo dimostrava affatto. Era
tranquillo, cordiale, sempre gentile, il genere di ragazzo che tua mamma
avrebbe descritto come ‘beneducato’. Scherzava e cantava, usando il righello
come microfono, ma solo per ridere.»
Terminato il college, Freddie, contrariamente a quanto aveva fatto fino
ad allora, non ruppe i contatti con l’amico. Lui e Jerry continuarono a
frequentarsi per un bel po’.
«Per la musica», spiega Jerry. «Io suonavo blues; a scuola, alle feste, a
casa degli amici. Freddie veniva con me e suonavamo insieme. A quei tempi
non si mettevano ancora i dischi alle feste: se volevi musica, chiamavi un
gruppo.»
Freddie infine confessò a Jerry il suo sogno di diventare una star.
«Quando lui aveva già finito il college, io ho suonato in un gruppo per
circa due anni. Un giorno Freddie mi disse di volersi concentrare sulla
musica e di voler formare una band. Gli risposi: Non farlo, continua con la
grafica. Non ci sono soldi nella musica. Continua con quel che sai fare
meglio.»
Ma Freddie aveva già deciso.
«Lo vidi ancora dopo quella volta, comprai della strumentazione da lui, o
gliela vendetti, non ricordo. Una volta tornò al college con un gruppo
chiamato Wreckage. Non mi fecero un’ottima impressione, a dire il vero.
Poi ci perdemmo di vista.»
Jerry finì per lavorare nel campo dell’animazione, in una delle tante ditte
che collaborarono al lungometraggio animato dei Beatles Yellow Submarine.
«Persi qualsiasi interesse per la musica», ammette. «Finii per odiare tutto.
Non comprai più un album, non andai più a un solo concerto. Circa quattro
anni dopo, sentii un DJ alla radio che parlava di una band chiamata Queen.
Seven Seas of Rhye era il loro primo successo. Non male. Ma non associai il
nome Freddie Mercury al mio vecchio amico Freddie Bulsara. Poi
all’improvviso uscirono un sacco di articoli. Anche volendo, non potevi fare
a meno di vederlo. E infatti, un giorno per caso vidi in edicola una copia di
Melody Maker con la sua immagine in copertina. Una foto enorme,
sormontata da un titolone. La fissai e pensai: Cavoli, ma quello è Freddie
Bulsara!»
Per caso, Jerry avrebbe collaborato a un progetto per i Queen verso la
fine della vita di Freddie, ma non avrebbe mai più rincontrato il suo vecchio
amico a faccia a faccia.
5
Queen

I Queen furono una mia idea mentre ero ancora al college.


Anche Brian studiava ancora. L’idea gli piacque e unimmo le
forze. Le prime tracce della band risalgono a un gruppo
chiamato «Smile». Li seguivo assiduamente ed eravamo
diventati amici. Andavo ai loro concerti e loro venivano ai
miei.

FREDDIE MERCURY

All’inizio era un nerd, dalla testa ai piedi. Un nerd con i


dentoni, che poi si è trasformato nella sua stessa fantasia. Il
classico anatroccolo che diventa un cigno. Qualsiasi band
rinuncerebbe a tutto pur di avere un cantante come Freddie.
Nessuno lo eguagliava. Bowie è stato l’unico ad arrivargli
vicino.

DAVID STARK , editore di Songlink International,


appassionato di rock e batterista

LE armonie vocali a due voci presto divennero un trio quando Freddie e


Tim iniziarono a frequentare un altro studente del college, Nigel Foster. I
tre dedicavano quasi tutto il tempo libero a perfezionare le loro versioni di
Hey Joe, Purple Haze e The Wind Cries Mary, tutti brani di Jimi Hendrix
entrati nella Top Ten inglese. Quelle jam session private, fatte per puro
divertimento (almeno secondo i diretti interessati) presto avrebbero portato
i tre all’attenzione dei futuri Queen. Gli amici sapevano pochissimo sul suo
passato e sui motivi che avevano costretto i Bulsara a emigrare in
Inghilterra. Dato che lui non li invitava mai a casa, pensavano che i suoi
genitori fossero persone chiuse e che non volessero né integrarsi né adattarsi
alla società inglese. Circolava una voce (fasulla) che i genitori di Freddie
quasi non parlassero inglese e che volessero conservare caparbiamente la
loro cultura, religione e lingua, per non farle contaminare da quelle inglesi.
In realtà, Freddie aveva parlato inglese fin dalla prima infanzia.
All’epoca Tim suonava regolarmente con una band semiprofessionista
chiamata «Smile» e Freddie cominciò ad accompagnarlo alle prove. Il
chitarrista degli Smile era Brian May, un allampanato studente di fisica,
matematica e astronomia del prestigioso Imperial College di Londra. Senza
saperlo, lui e Freddie erano stati vicini di casa a Feltham. Brian infatti era
cresciuto in una modesta casetta simile a quella dei genitori di Freddie in
Gladstone Avenue, solo qualche strada più in là. Diligente figlio unico,
suonava la chitarra da quando aveva sei anni e si era costruito lo strumento
da sé con l’aiuto del padre Harold a partire da un vecchio caminetto di
mogano e alcuni scarti di rovere. Al posto del plettro usava una vecchia
monetina da sei penny. Negli anni a venire, Brian avrebbe suonato la sua
chitarra fai da te, ribattezzata «Red Special», in tutto il mondo.
Brian, come Freddie, a tempo perso aveva militato in alcuni gruppi
dilettantistici con i compagni di scuola.
«Nessuna di quelle band andò da nessuna parte, perché non facemmo
mai dei concerti veri e propri né ci prendemmo mai sul serio», disse in
seguito.
A un ballo, una sera Brian e compagni notarono Tim Staffell che
canticchiava e suonava l’armonica in fondo alla sala. Gli chiesero di entrare
nel loro gruppo, i 1984, e così Tim suonò nel primo concerto ufficiale della
band, nella sala pubblica della chiesa di St Mary a Twickenham. I 1984
erano abbastanza promettenti e nel maggio del 1967 furono ingaggiati come
spalla per un concerto di Jimi Hendrix all’Imperial College. Qualche mese
dopo, vinsero un concorso al Top Rank Club di Croydon. Pareva l’inizio di
un’incoraggiante carriera professionista.
«I 1984 erano una band amatoriale, che si era formata a scuola, anche se
alla fine riuscimmo a guadagnare ‘qualcosa’: una decina di sterline o poco
più…» Così ricordò Brian il gruppo anni dopo. «Non suonammo mai
qualcosa di interessante in termini di pezzi originali: facevamo un miscuglio
di cover, tutto ciò che la gente voleva ascoltare all’epoca. Erano gli anni in
cui si stavano affermando gli Stones, e più avanti suonammo dei loro pezzi,
e altri degli Yardbirds... A me non stava bene. Lasciai il gruppo perché
volevo comporre e suonare materiale originale.»
Brian disse ai compagni che doveva dedicarsi agli studi e uscì dai 1984,
che finirono per sciogliersi. Mantenne però i contatti con Tim. Dopo un po’,
entrambi in astinenza di musica, iniziarono a parlare di formare un nuovo
gruppo. Decisero di riprovarci con Chris Smith, un altro studente dell’Ealing
College, come Freddie Mercury, e un ottimo tastierista. Con Tim alla voce e
al basso, e Brian alla chitarra, ai tre mancava solo il batterista.
Con la sua chioma bionda e gli occhi azzurri Roger Meddows Taylor era
quasi troppo bello per essere un maschio. Nato nel Norfolk ma cresciuto a
Truro in Cornovaglia, nella regione si era già costruito una certa reputazione
come batterista. Suonava con un gruppo chiamato «Johnny Quale and The
Reaction», che godeva di un discreto seguito e che si era classificato quarto a
un concorso musicale locale, la Rock and Rhythm Championship. Quando
Johnny Quale lasciò il gruppo, Roger lo sostituì alla voce. Con il nome
accorciato, la popolarità dei Reaction continuò a crescere. Il loro stile era
imperniato soprattutto sulla musica soul, finché non scoprirono la Jimi
Hendrix Experience nel 1967. Nell’autunno di quello stesso anno, Roger si
trasferì a Londra per cominciare l’università. Andò a vivere in affitto a
Shepherd’s Bush con altri tre ragazzi, fra cui un suo amico di Truro, Les
Brown, che aveva un anno più di lui e che studiava all’Imperial College,
come Brian May. Già determinato a diventare una rockstar, ma oramai
lontano dai suoi vecchi compagni dei Reaction (con i quali si ritrovò solo per
qualche concerto sporadico durante la pausa estiva del 1968), Roger aveva
bisogno di una nuova band. All’inizio del quadrimestre autunnale si
presentò un’opportunità, grazie a Les Brown. Scorrendo la bacheca degli
annunci all’Imperial College in cerca di un gruppo adatto all’amico, infatti,
un giorno Brown lesse un biglietto in cui si cercava un «batterista stile
Ginger Baker o Mitch Mitchell». Era un segno che chi l’aveva messo faceva
sul serio: Baker si era conquistato un seguito di nicchia con la Graham Bond
Organisation, una band di musicisti «autentici», e aveva anche inciso con gli
Who, prima di passare ai Cream di Eric Clapton; Mitchell suonava con la
Jimi Hendrix Experience.
L’annuncio diceva di contattare un certo Brian May. Roger lo chiamò
subito e Brian gli spiegò a grandi linee ciò che lui e Tim cercavano. In men
che non si dica, i due raggiunsero Roger nel suo appartamento per una jam
session con chitarre acustiche e bonghi, perché il batterista aveva lasciato la
sua batteria a casa in Cornovaglia a prendere polvere. Poco dopo, i tre
iniziarono a provare seriamente in una sala dell’Imperial College. Non solo
riuscirono a produrre cover credibili, ma Brian e Tim cominciarono a
comporre brani originali. Più metal che acustici, quei primi brani
echeggiavano di sottofondi classici e attingevano a un’impressionante
gamma di influenze diverse. Gli Smile erano in parte trovatori elisabettiani e
in parte mostri del rock: il loro suono era composto da batterie
drammatiche, chitarre insistenti, armonie intelligenti e voci energiche,
mentre i loro testi erano carichi di riferimenti ai brani più svariati. L’effetto
complessivo era una musica stratificata, colorita e mozzafiato: nient’altro se
non un primo assaggio di cose a venire; la vera genesi dei Queen.
«Posso farti sentire dei pezzi degli Smile che hanno la medesima struttura
generale di quel che facciamo oggi», disse Brian in un’intervista nel 1977.
L’alchimia dei futuri Queen stava prendendo forma, costruita da musicisti
molto diversi che si completavano a vicenda. Brian, tranquillo e garbato
lontano dal palco, era magro, spigoloso, snello e sinuoso nei suoi pantaloni
di velluto, con i riccioli scuri che gli cadevano sensuali e ribelli davanti agli
occhi mentre suonava. Tim era più grezzo e sbrigativo e, con i suoi jeans
strappati, non proprio alla moda. Così come l’allegro Chris, l’unico del
gruppo che studiava musica a livello accademico. Roger, descritto come «un
batterista in tutto e per tutto» e come «sesso che cammina», era così bello
che questo quasi gli si ritorceva contro. Ma nonostante la sua reputazione di
dongiovanni, era un ragazzo timido, simpatico e molto apprezzato dagli
amici. La sua forza, il suo entusiasmo, il suo immancabile buonumore e il
suo carattere spiritoso e intelligente erano la forza che alimentava il gruppo.
Erano giorni felici, spensierati e promettenti.

Nell’ottobre del 1968, Brian si laureò e partecipò alla relativa cerimonia


alla Royal Albert Hall presieduta dalla regina madre in persona. Aveva già
deciso di restare all’Imperial College come docente e per lavorare alla sua
tesi di dottorato sul movimento del pulviscolo interplanetario: il suo
obiettivo a lungo termine era diventare un astronomo. Ma aveva anche altri
due motivi per restare in seno all’università: sala prove e concerti. Nel
frattempo, mentre Tim e Chris continuavano a studiare all’Ealing College,
Roger aveva abbandonato l’università dopo avere completato solo metà del
suo percorso di studi. Due giorni dopo la cerimonia di Brian, gli Smile
suonarono come spalla dei Pink Floyd all’Imperial College. Sebbene non
tutti concordino su questo fatto, l’esibizione è ricordata come il debutto
della band, che in seguito avrebbe aperto anche i concerti di T. Rex, Yes e
Family. Nel febbraio del 1969, Brian, Tim e Roger chiesero a Chris Smith di
uscire dal gruppo. Smith ha negato questo fatto, sostenendo che la decisione
di lasciare la band è stata sua, causata da divergenze musicali. Un paio di
sere dopo, i restanti membri degli Smile erano in cartellone a una serata di
beneficenza alla Royal Albert Hall per raccogliere fondi a favore del
National Council for the Unmarried Mother and Her Child
(un’organizzazione che aiuta le ragazze madri), presentata dal compianto DJ
John Peel. Quella sera suonarono anche Joe Cocker e i Free. Né Brian né
Roger però potevano sapere che trentacinque anni dopo avrebbero
collaborato con il cantante dei Free, Paul Rodgers (che nel frattempo
avrebbe militato nei Bad Company, nei Firm e nei Law) producendo due
grandi tour mondiali, un album in studio («The Cosmos Rocks», il primo
dei Queen dopo quasi quindici anni di assenza), uno dal vivo e due DVD.
All’inizio del 1969, Tim si presentò alle prove degli Smile portandosi
dietro un amico: Freddie Bulsara. Appena lo presentò agli altri membri del
gruppo, andarono subito tutti d’accordo. L’attrazione fu immediata e
reciproca. Freddie si sentiva a suo agio fra musicisti abili ed esperti; era più
convinto che mai di voler seguire quella strada nella vita. Brian e Roger
rimasero altrettanto incantati, innamorandosi all’istante dello stile,
dell’umorismo asciutto e arguto del giovane Bulsara.
Come avrebbe ricordato in seguito Les Brown: «Non penso di avere mai
incontrato una persona altrettanto esuberante. Era entusiasta per tutto. Una
volta, mi ha trascinato a forza in una stanza per farmi sentire un disco soul
che gli piaceva da morire. Nessuno ammetteva di ascoltare soul all’epoca: il
rock regnava supremo. Credo che volesse dimostrarmi di avere gusti
universali».
Presto Freddie divenne una presenza regolare ai concerti degli Smile e
prese a esprimere apertamente le proprie opinioni. Commentava le
performance degli amici, diceva loro come pettinarsi e vestirsi, suggeriva
persino atteggiamenti, pose ed espressioni da adottare.
«Aveva un modo di darti dei consigli che li rendeva impossibili da
rifiutare», ricordò Brian. «Non l’avevamo mai visto cantare, né sapevamo
che sapesse farlo. Pensavamo che si atteggiasse solo da musicista.»
Quando si diplomò, nell’estate del 1969, Freddie non aveva un impiego
a tempo pieno, né alcuna intenzione di cercarne uno. Lui e Roger (che
aveva oramai abbandonato il secondo nome «Meddows») iniziarono ad
allestire un piccolo banchetto in stile «casbah» nel mercato coperto di
Kensington, nel vicoletto dell’antiquariato conosciuto come «braccio della
morte». Kensington Market era distribuito su tre piani ed era occupato
soprattutto da artisti eccentrici e scrittori disoccupati. Era frequentato anche
da personaggi famosi, come Michael Caine, Julie Christie e Norman
Wisdom. Per cominciare, i due vendettero i lavori di Freddie, soprattutto
disegni di moda o ritratti di Jimi Hendrix, e quelli di altri studenti
dell’Ealing College; riuscirono persino a rifilare a qualcuno la tesi di Freddie
su Hendrix. Non c’è dubbio che oggi quegli articoli varrebbero moltissimo,
ma all’epoca erano tutti oggetti senza valore. Freddie e Roger avevano
bisogno di soldi. Impenitenti maniaci della moda, decisero di tentare con
l’abbigliamento e gli accessori del perfetto damerino divennero il loro pane
quotidiano. Vendevano qualsiasi cosa, dai foulard e i teli esotici alle giacche
e alle sciarpe di pelliccia, tutto ciarpame a prezzi svergognatamente gonfiati.
Cominciarono anche a confezionare i propri capi, riciclando scampoli, e
divennero esperti nell’acquistare interi lotti di abiti usati; per cinquanta
sterline compravano un intero scatolone di pellicce tarmate da un mercante
di stracci di Battersea per rivenderle a otto sterline l’una.
«Io e Roger ce ne andiamo in giro a posare e a spararle grosse e di
recente ci hanno definito ‘un paio di checche’ [a couple of queens]», scrisse
Freddie all’amica Celine Daley in quel periodo.
Tim Staffell ricorda che Roger e Freddie si divertivano ad atteggiarsi da
«banchettari» narcisistici e sbruffoni. «Gli piaceva trasgredire», dice.
«Freddie sviluppò il suo lato effeminato, che riteneva divertente. Ma non
pensammo mai che fosse davvero gay. Non aveva un comportamento
sessualmente esplicito.»
Freddie, oramai parte dell’entourage degli Smile, cominciò a seguire il
gruppo nei suoi spostamenti.
Nell’aprile del 1969, la band si esibì al Revolution Club di Londra, dove
conobbe Lou Reizner, direttore della divisione europea della Mercury
Records, conosciuto per avere negoziato il contratto americano di David
Bowie e in seguito per avere prodotto i primi due album solisti di Rod
Stewart. Reizner, oggi scomparso, produsse anche la versione orchestrale di
«Tommy», l’opera rock degli Who e «Journey to the Centre of the Earth» di
Rick Wakeman. Originario di Chicago ed ex cantante, il dirigente offrì agli
Smile un contratto per un unico singolo esclusivamente per il mercato
americano, che i tre firmarono all’istante. Poi non accadde granché fino a
giugno, quando l’etichetta prenotò i Trident Studios a nome della band.
Era un inizio promettente. I Trident Studios, al 17 di St Anne’s Court, un
vicolo di Soho nel cuore del West End londinese, erano nati da un’idea di
Norman Sheffield, ex batterista degli Hunters (una band attiva negli anni
Sessanta), e del fratello Barry. «Un approccio rilassato all’ingegneria del
suono» e la tecnologia all’avanguardia degli studi avevano attratto diversi
artisti famosi. All’epoca, negli altri studi di registrazione, come per esempio
in quelli della EMI in Abbey Road, i fonici lavoravano ancora indossando il
camice bianco. Un altro importante richiamo dei Trident era il leggendario
pianoforte Bechstein (suonato per ore da Rick Wakeman) che nei tasti
portava ancora le tracce sonore di Paul McCartney in Hey Jude.
Il primo successo dello studio era stata My Name Is Jack di Manfred
Mann, uscita nel marzo dell’anno precedente. Fra gli album storici registrati
negli anni ai Trident Studios c’è anche «Transformer» di Lou Reed,
prodotto da David Bowie, che registrò i propri capolavori nelle stesse sale,
non ultimo «The Rise and Fall of Ziggy Stardust». In quei giorni il session
man alle tastiere era Rick Wakeman, che suonò in diversi brani di Bowie,
come Changes e Life On Mars. Fra gli altri artisti rinomati che incisero lì
ricordiamo James Taylor e Harry Nilsson. Ma gli studi, che esistono ancora
oggi, erano già diventati leggendari nel luglio del 1968: ai Trident era stata
registrata Hey Jude, che con la sua durata eccezionale (oltre sette minuti)
era diventato il singolo più lungo ad arrivare in cima alla classifica inglese.
Anche alcune tracce del «White Album» e di «Abbey Road» furono
registrate in quegli studi.
Gli Smile produssero alcuni pezzi e poi attesero la data per l’uscita del
loro primo singolo americano. Un contratto con l’agenzia discografica
Rondo li tenne impegnati in una serie di concerti durante l’estate. Ad
agosto, la Mercury Records lanciò il singolo Earth / Step on Me negli USA,
dove, in assenza di qualsiasi attività promozionale, affondò nel nulla senza
lasciar traccia. L’etichetta però non intendeva sprecare una band tanto
promettente e sapeva che Brian e Tim avevano composto altri brani, per cui
si iniziò a discutere di un possibile album o EP. Gli Smile furono mandati ai
De Lane Lea Studios in Engineers Way, a Wembley (e non nella succursale
al 129 della Kingsway, come è stato sostenuto altrove). In quegli studi,
fondati nel 1947 e famosi per aver messo il loro nome su diverse
composizioni dei Beatles, dei Rolling Stones, degli Who, dei Pink Floyd,
della ELO e della Jimi Hendrix Experience negli anni Sessanta, gli Smile
lavorarono con il produttore Fritz Freyer (oggi scomparso) su due pezzi
originali e una cover. Ma il previsto EP non vide mai la luce e le incisioni
finirono nel dimenticatoio, solo per riemergere quindici anni dopo, quando
i Queen erano oramai diventati delle superstar. Anche allora, però, il disco
sarebbe uscito solo in Giappone, dove i fan avevano un appetito insaziabile
per le rarità.
Gli Smile erano demoralizzati e sull’orlo della separazione. Cosa che Tim
Staffell fece davvero, stufo della monotonia e della miseria collegate alla vita
in tour. Lasciò la band dicendo che non era quella giusta per lui.
«Cominciavo ad avere una visione negativa della nostra musica, poi
ascoltai James Brown e pensai: Dio! In parole povere, avevo cambiato
binario, musicalmente parlando», avrebbe spiegato più avanti.
Tim si unì a Colin Petersen, ex batterista dei Bee Gees, in un gruppo
denominato «Humpy Bong». Un singolo, un’apparizione televisiva e la band
era già dimenticata. Tim avrebbe finito per dedicarsi agli effetti speciali,
acquisendo una relativa notorietà come creatore dei modellini della serie tv
per bambini Il trenino Thomas.
La Mercury concluse che senza un cantante gli Smile non erano più una
band e sollevò Roger e Brian da ogni obbligo contrattuale. Seppur avviliti, i
due non si diedero per vinti e riuscirono a ottenere una nuova seduta di
registrazione grazie a Terry Yeardon, un ex DJ di Blackburn incontrato
tramite una conoscenza in comune (forse Christine Mullen, la futura prima
moglie di Brian). Yeardon lavorava come tecnico di manutenzione ai Pye
Studios di Londra, famosi per avere lanciato Petula Clark e per le
produzioni del duo compositivo Tony Hatch e Jackie Trent (una coppia
nella vita come sul lavoro, che creò i temi musicali di alcune famose serie
televisive come Crossroads e Neighbours). Nel 1966 i Pye avevano anche
prodotto Hey Joe di Hendrix e Wild Thing dei Troggs, e avevano già aperto i
battenti a Kinks, Richard Harris e Trini Lopez. Gli studi poterono vantare
Jimmy Page e John Paul Jones fra i loro session man, prima che questi si
unissero con Robert Plant e John Bonham per dar vita ai Led Zeppelin.
Yeardon, aspirante produttore, organizzò una session a tarda notte per
gli Smile. Furono incisi gli acetati di due brani: Polar Bear e Step on Me,
dando agli Smile un disco professionale da presentare alle audizioni con
altre etichette. Non che Yeardon si aspettasse di rivedere quei ragazzi pieni
di speranze.
In quei tempi Brian, Roger, Tim e un paio di musicisti di una band di
Liverpool chiamata «Ibex» dividevano un appartamento con una sola
camera da letto in Ferry Road, nel sobborgo londinese di Barnes, all’interno
di una bifamigliare chiamata «Carmel». Due sorelle, Helen e Pat
McConnell, si erano unite alla combriccola dopo avere visto gli Smile
suonare nel pub sotto casa. Quell’alloggio sovraffollato e ammuffito in
seguito sarebbe stato definito «bohémien», un termine prodotto da una
visione distorta del passato. In realtà, i ragazzi vivevano in condizioni di
assoluto squallore, dormendo su materassi sudici messi a terra. Come se
non bastasse, poco dopo si aggiunse un nuovo inquilino: Freddie Bulsara.
Che cosa dovevano fare secondo lui?
6
Frontman

Dicevo a Brian e a Roger: «Perché sprecate tempo con questa


roba? Dovreste suonare pezzi più originali, dovreste essere più
estroversi. Se fossi il vostro cantante, io farei così!»

FREDDIE MERCURY

Quando esageri un po’ suoni meglio. Nella vita non sei il


performer che si esibisce sul palco. Il trucco è non comportarti
così anche quando lo spettacolo è finito. Bowie ha raffinato
questa pratica, ne ha fatta un’arte. Ogni settimana era una
persona diversa. Freddie ha raccolto il testimone ed è schizzato
via. Scommetto che non ha mai preparato nemmeno una posa
di quelle che assumeva sul palco. La sua tecnica era istintiva e
questa è una forma d’arte in sé. Non ho idea di che cosa
avrebbe potuto fare se non fosse diventato un cantante.

RICK WAKEMAN

SEMPRE ossessionato da Jimi Hendrix e ispirato dalla musica di Brian,


Freddie si procurò una chitarra di seconda mano che Tim riparò e modificò
per lui. Poi acquistò un manuale per imparare a suonare e cominciò. Sapeva
che non sarebbe mai diventato un asso della chitarra, ma non era quello il
suo obiettivo. Assalito dal bisogno improvviso di comporre brani originali,
doveva imparare a suonare lo strumento solo per trovare gli accordi giusti.
Quei suoi primi tentativi di composizione non furono diversi da quelli di
chiunque altro: rozzi, maldestri, strazianti e troppo personali. In poco
tempo, però, Freddie acquisì un approccio più astratto, imparò a scavare
sotto la superficie delle proprie emozioni e a guardare più in là delle sue
esperienze personali, affrontando temi universali.
Poco dopo, il resto degli Ibex raggiunse i due membri in Ferry Road. Il
chitarrista Mike Bersin, il bassista John «Tupp» Taylor e il batterista Mick
«Miffer» Smith, gestiti dal giovane Ken Testi, scesero a Londra da Liverpool
a caccia di un contratto discografico. Talvolta nei concerti si univa al gruppo
anche Geoff Higgins al basso: così Tupp poteva suonare il flauto. Gli Ibex
suonavano cover di Rod Stewart, dei Beatles e degli Yes e di solito aprivano
i concerti con Jailhouse Rock, il grande successo di Elvis Presley di dodici
anni prima. Per quanto bravi, Freddie non poté fare a meno di rilevare che
al gruppo mancava un cantante degno di questo nome. Proprio come faceva
con gli Smile, iniziò ad accompagnarli in sala prove e a seguirne i concerti,
talvolta salendo sul palco per cantare con Mike Bersin.
«Le sue performance erano già identiche a quelle successive, quando era
all’apice della carriera», ricorda Testi. «Era una star prima ancora di esserlo,
capisci cosa voglio dire? Andava su e giù per il palco tutto impettito come un
pavone.»
Nonostante quella parentesi londinese, gli Ibex erano ancora di base a
Liverpool, dove Freddie li raggiunse per un breve periodo. Fu ospitato dai
genitori di Higgins, che abitavano sopra un pub chiamato Dovetale Towers
in Penny Lane, proprio la strada immortalata dall’omonima canzone dei
Beatles. Freddie dormiva a terra in camera dell’amico, ma non si lamentava
mai di nulla. Comportarsi da ospite perfetto era anche un modo per rendere
onore ai propri genitori. La madre di Geoff, Ruth, lo adorava.
«A mia madre piaceva perché parlava bene, con un perfetto accento del
sud», spiegò Geoff a Mark Hodkinson, autore di Queen: The Early Years.
«Freddie era gentilissimo con lei.»
Nel 1969 la band si esibì il più possibile in tutto il Regno Unito: nessun
contratto in vista, però. Si finì per parlare di scioglimento. Miffer aveva
alcuni problemi famigliari e doveva assolutamente trovare un reddito fisso.
Un amico della band, Richard Thompson, lo sostituì alla batteria. La nuova
formazione, però, fece un solo concerto, disastroso. Tutto quel che poteva
andare storto – luci, suono, strumentazione – andò storto. Persino le aste
dei microfoni non si comportarono a dovere. Freddie, infatti, era solito
roteare l’asta come una majorette, ma quella aveva un sostegno
particolarmente pesante e quando lui la sollevò, la metà inferiore si staccò e
cadde a terra. Per nulla turbato, continuò a cantare stringendo solo la metà
superiore: nacque così quello che sarebbe diventato un segno distintivo
delle sue esibizioni.
Il bizzarro contrasto tra «Freddie il performer» e «Freddie Bulsara» era
così evidente che nemmeno lui poteva più ignorarla. Persino su un palco
improvvisato e senza nemmeno esser stato nominato cantante ufficiale del
gruppo, Freddie sprizzava sicurezza e fiducia, con gesti e movimenti
melodrammatici e spettacolari. Dopo il concerto, si rifugiava subito nelle
cucine e nei ripostigli (i camerini improvvisati dei pub e dei club dove la
band suonava), dove si infilava in abiti così attillati che quasi gli impedivano
di respirare o sedersi. Relativamente piccolo, smilzo e non tanto bello –
almeno secondo i canoni estetici convenzionali – sapeva di spiccare grazie
alla carnagione scura. La sua fisionomia, però, talvolta gli causava imbarazzo
e Freddie iniziò a nascondere gli occhi dietro una frangetta floscia e i
dentoni dietro la mano ogni volta che rideva. Appena finiva di cantare, la
sua timidezza congenita prendeva il sopravvento e gli impediva di
chiacchierare con scioltezza con gli spettatori. Non gli veniva in mente
granché da dire. Ad aggravare le cose, sebbene si esprimesse in un inglese
perfetto, parlava a voce bassa, quasi con un sussurro, e le sue frasi erano
piene di pause ed esitazioni. Aveva anche una lieve pronuncia blesa, forse
per via della dentatura eccessiva. Di tutto questo era dolorosamente
consapevole. Solo quando era rilassato, in compagnia di amici, lasciava
sprigionare la sua «vera» personalità e il suo umorismo più autentico, e si
permetteva di ridere senza inibizioni. Sennò, se non era su un palco, faceva
del suo meglio per passare inosservato. Non ancora abituato a ubriacarsi o a
drogarsi (non poteva permetterselo, per cui si faceva bastare un «porto e
limonata», un drink da femminucce), era sempre un po’ a disagio fra gli
sconosciuti. E non avrebbe mai davvero imparato a esserlo: per quanto si
divertisse alle sue feste, era sempre un pesce fuor d’acqua in quelle degli
altri.
Freddie si stancò di correre avanti e indietro da Liverpool, di essere
sempre senza soldi, di dormire per terra in casa d’altri, in qualunque città la
band si ritrovasse a esibirsi, e poco dopo il suo ventitreesimo compleanno
lasciò gli Ibex. Tornò a Londra una volta per tutte con Mike Bersin e
cominciò a scandagliare gli annunci delle band.
Raccontò in seguito Testi: «Credo che gli Ibex siano stati un tappabuchi
per Freddie. Lui voleva un gruppo e loro approfittarono moltissimo dalla
sua presenza, ma fu un matrimonio di convenienza per entrambe le parti.
Eravamo tutti molto ingenui… Per Freddie, [la band] era come la prima
automobile, quella che ti compri di seconda mano appena racimoli un po’ di
soldi: dopo un po’, ne vuoi una migliore».
Nessuno diede la colpa a Freddie per lo scioglimento della band. Tutti gli
volevano bene a prescindere, trovavano commovente la sua ambizione ed
erano mossi dalla sua dedizione e dalla sua inebriante gioia di vivere. Testi
parlò per tutti quando commentò: «Fu molto educativo conoscere Freddie.
Si impegnava tantissimo, in tutto. Era tenace, era determinato a eccellere a
tutti i costi».
Bersin e Taylor tornarono a Liverpool; Thompson evaporò nella scena
musicale londinese. Gli altri continuarono a strizzarsi nel minuscolo alloggio
sovraffollato di Barnes, Freddie senza una band e Roger e Brian senza un
cantante. Perché non lo prendevano a bordo?
«Gli Smile pensavano che Freddie non facesse sul serio», avrebbe
ammesso in seguito Chris Dummett, un amico comune. «Lo prendevano un
po’ per il culo... in modo affettuoso, credo.» Spesso la soluzione migliore a
un problema è proprio quella che abbiamo sotto il naso anche se non la
vediamo.

Come se non avesse già abbastanza problemi, Freddie aveva cominciato a


preoccuparsi per il suo orientamento sessuale. Nonostante avesse già avuto
alcune fidanzate, in particolare una compagna di classe di nome Rosemary
Pearson, alcuni ricordano che era attratto dai gay, ma che gli mancava il
coraggio per lasciarsi andare.
«Pensava di amare le donne e gli ci volle un bel po’ prima di capire che
era gay. Secondo me non era in grado di affrontare i suoi veri sentimenti.
Era evidentemente attratto dall’omosessualità, ma ne aveva anche paura.
Credo che fosse un po’ puritano e che temesse di confessare a se stesso di
essere gay», sostiene un compagno di college.
Un altro amico ricorda che Freddie frequentava regolarmente un gruppo
di omosessuali che condividevano un appartamento a Barnes, ma che
nascondeva quelle visite ai propri coinquilini, forse perché gli mancavano le
parole per spiegare un’attrazione che lui stesso ancora non capiva. Sempre
preoccupato dell’opinione altrui, di tanto in tanto si ritirava nel suo guscio e
diveniva abbastanza schivo e solitario. Più o meno nello stesso periodo,
cominciarono a emergere alcuni tratti meno positivi del suo carattere. A
volte Freddie si dimostrava egocentrico ed egoista, per non dire capriccioso
e scontroso, come se fosse tormentato da uno snervante conflitto interiore.
Tutti hanno un lato oscuro. Di fondo Freddie era generoso, gentile e
premuroso. Avverso a usare il prossimo per ottenere ciò che desiderava,
pareva invece contento di lasciare che gli altri lo usassero senza aspettarsi
nulla in cambio. Forse la sua caratteristica peggiore era la vanità. Passava ore
e ore ad acconciarsi e a provarsi i vestiti davanti allo specchio, ed era
ossessionato dalla propria immagine. Le sue incessanti declamazioni sul
fatto che un giorno sarebbe diventato «una leggenda», finivano per irritare
chi gli stava intorno.
Quell’ossessione per le apparenze peggiorava la sua situazione già
precaria. Sebbene vivesse alla giornata come quasi tutti i suoi amici, infatti,
Freddie si rifiutava di usare i trasporti pubblici, per esempio, preferendo
spendere gli ultimi centesimi che aveva in tasca per un taxi, piuttosto che
per comprarsi da mangiare. Gli amici avevano cominciato a perdere ogni
speranza per lui: cosa ne sarebbe stato del caro Freddie, si domandavano, se
non fosse diventato famoso? Nonostante il diploma di grafico pubblicitario,
infatti, il giovane Bulsara non avrebbe mai mantenuto un lavoro regolare.
Mancando di stabilità come anche di progettualità in ogni aspetto della
vita, è ovvio che si sentisse insicuro. Sapeva di non essere come la
maggioranza delle persone, ma sapeva altrettanto bene di doversi
mantenere in qualche modo. Anche se c’era ancora una camera che lo
aspettava in casa dei genitori, dove era sempre il benvenuto, era riluttante a
risprofondarci e ammettere così la sconfitta. Sapeva che i genitori non
avrebbero accettato facilmente il suo nuovo stile di vita, tanto che, come
abbiamo già ricordato, non aveva mai portato nessun amico in casa.
«Come mamma ti preoccupi, ma devi lasciare che tuo figlio viva la sua
vita», disse Jer in seguito.
Freddie andava a cena dai genitori più o meno una volta la settimana, e
in quelle occasioni la madre gli cucinava il suo piatto preferito, il dhansak,
una portata deliziosa ancorché laboriosa assai diffusa fra i parsi: una specie
di matrimonio tra i gusti della cucina persiana e di quella gujarati. Gli
ingredienti sono verdure e lenticchie, aglio, zenzero e altre spezie, che
accompagnano la carne, di solito montone, e la zucca. Date le poco floride
finanze, è probabile che quello fosse l’unico pasto completo di Freddie in
tutta la settimana.
I primi, gelidi giorni del 1970 lo videro trascinarsi per le agenzie
pubblicitarie di Londra con il suo portfolio. La Austin Knight in Chancery
Lane accettò di rappresentarlo e di presentare il suo lavoro a possibili clienti.
Ma Freddie non aveva la pazienza per restare fermo in attesa che il telefono
squillasse. Decise quindi di diventare freelance e cominciò a distribuire
annunci. Nel frattempo, però, continuò a occupare il tempo con gli Smile,
seguendoli in prove e concerti, senza concentrarsi sulla ricerca di un
impiego regolare, che in fondo non desiderava davvero. Alla fine capì di
non avere scelta: doveva formare una band tutta sua. Raggruppò Richard
Thompson, il batterista occasionale degli Ibex, Mike Bersin e Tupp Taylor, e
reinventò la disciolta band di Liverpool ribattezzandola «Wreckage». Il
primo concerto fu tenuto all’Ealing College of Art, al quale parteciparono
anche Brian, Roger, i vari coinquilini di Freddie più un contingente di amici
di Kensington Market rumoroso e incoraggiante. Brian e Roger, che non
avevano ancora colto le potenzialità di quel loro amico tanto effeminato
quanto ostinato, rimasero del tutto sconcertati. Se musicalmente la band
non era granché, Freddie era un magnete per gli occhi. Il concerto fu un
successo e i Wreckage furono ingaggiati per suonare all’Imperial College,
oltre che a una serie di date successive.
Nonostante ciò, Freddie rimaneva frustrato: sapeva di avere tutte le doti
necessarie per sfondare, ma sentiva che qualcosa ancora non andava. Forse
si aspettava subito un contratto per tre album con una grande etichetta o
forse non era in sintonia con lo stile musicale dei Wreckage. Comunque sia,
poco dopo lasciò il gruppo e, in attesa che Brian e Roger finalmente
capissero, fece un’audizione per una band chiamata «Sour Milk Sea».

Sour Milk Sea era una canzone scritta da George Harrison durante le
session di registrazione del cosiddetto «White Album» dei Beatles.
Registrata poi da Jackie Lomax, un artista della Apple Records e uscita come
singolo nel 1968, era uno dei pochi brani non dei Beatles incisi con la
partecipazione di tre membri del gruppo. Ci suonarono George Harrison ed
Eric Clapton alla chitarra, Paul McCartney al basso, Ringo Starr alla batteria
e Nicky Hopkins al pianoforte: il pezzo aveva colpito Chris Dummet (che in
seguito avrebbe cambiato il cognome in Chesney) e Jeremy Gallop, un paio
di amici e allievi dell’esclusivo college privato di St Edward a Oxford, al
punto che i due avevano cambiato il nome della loro band liceale, i Tomato
City, nel titolo della canzone. La formazione dei Sour Milk Sea
comprendeva anche il batterista Robert Tyrrell, che con Mike Rutherford e
Anthony Phillips aveva suonato negli Anon, il gruppo pre-Genesis, anche
questo formatosi in un collegio privato, la prestigiosa Charterhouse. La band
aveva debuttato nella sala del municipio di Guildford, dove aveva aperto il
concerto per diversi gruppi emergenti, fra cui Deep Purple, Taste, Blodwyn
Pig e Junior’s Eyes, che si erano guadagnati imperitura fama per aver fatto
da spalla a David Bowie nel 1969. Il fondatore e chitarrista dei Junior’s
Eyes, Mick Wayne, aveva partecipato con Rick Wakeman alla produzione
del rivoluzionario album di Bowie «Space Oddity». Nel giugno del 1969, i
Sour Milk Sea erano diventati una band professionista, ma sapevano che
mancava loro un non so che. Arrivò sotto forma di Freddie Bulsara, che si
catapultò nella cripta di una chiesa di Dorking dove si tenevano le audizioni
per il nuovo cantante della band. Con la sua chioma corvina e
l’abbigliamento da dandy, Freddie trasudava stile e nonchalance. Aveva
diversi anni in più degli altri membri dei Sour Milk Sea, e si vedeva. Si
presentò come «Fred Bull».
«Era molto carismatico ed è per questo che lo scegliemmo», ricordò
Jeremy «Rubber» Gallop, divenuto poi insegnante di chitarra e morto nel
gennaio del 2006 per un cancro al pancreas, «sebbene avessimo l’imbarazzo
della scelta. Nelle audizioni di solito ti capitano quattro o cinque candidati
scadenti, ma quel giorno c’erano altri due cantanti molto bravi. Uno era un
nero con una voce divina, ma senza il carisma di Freddie e l’altro, o meglio
l’altra, era la cantante folk Bridget St John, in seguito definita ‘la John
Martyn femmina’».
Freddie entrò nel gruppo e si diede subito da fare. Poco dopo i Sour Milk
Sea furono ingaggiati per un concerto di alto profilo nella sala da ballo del
Randolph Hotel di Oxford, una serata per i rampolli della bella società.
«Il nostro suono non era granché», ammise Gallop. «Ma Freddie riuscì a
tenere in pugno il pubblico, grazie a un’attitudine aggressiva e al suo
bell’aspetto. Si dava un sacco di arie ed era molto effeminato, e anche
abbastanza vanitoso. Ricordo che una volta era a casa mia che si guardava
allo specchio passando le mani tra i capelli e disse: ‘Sono bello oggi, non
credi, Rubber?’ All’epoca avevo solo diciott’anni e non lo trovai molto
divertente.»
L’unico altro concerto rilevante dei Sour Milk Sea con Freddie fu uno
spettacolo di beneficenza per Shelter, un ente che si occupa dei senzatetto,
presso la sala parrocchiale Highfield di Headington (Oxford), nel marzo del
1970. La band rilasciò un’intervista all’Oxford Mail, che pubblicò anche il
testo della canzone di Freddie, Lover: si apriva con l’indimenticabile distico
«You never had it so good / the yoghurt-pushers are here» («Non t’è mai
andata così bene / gli spacciatori di yogurt sono qui»). Dopo quell’inizio
promettente, però, Chesney e Gallop litigarono.
«Freddie voleva cambiarci», spiegò Gallop. «Sul palco si trasformava,
diventava elettrico, proprio come quando sarebbe stato famoso. Altrimenti
era abbastanza calmo. Lo ricorderò sempre come una persona tranquilla ed
educata. A mia mamma piaceva. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma fui io a
sciogliere il gruppo.»
Gallop era parente di Jonathan Morrish, futuro dirigente della CBS
Records e della Sony, nonché addetto stampa e confidente di Michael
Jackson per ventotto anni, che ricorda di avere visto quel concerto da
giovane.
«In quel momento, Freddie era per me un Martin Peters», sostenne,
riferendosi al leggendario calciatore che portò l’Inghilterra a vincere il
campionato del mondo nel 1966 e che era «dieci anni avanti rispetto al suo
tempo», secondo il suo manager Sir Alf Ramsey. (Peters era talmente
versatile da poter ricoprire qualsiasi ruolo nella sua squadra, il West Ham
United, incluso quello di portiere.)
«Freddie era appariscente ed estroverso come cantante, in un’epoca in
cui i musicisti salivano sul palco indossando i vestiti di tutti i giorni», spiega
Morrish.
«Persino allora era chiaro che Freddie padroneggiava già l’arte dello
spettacolo. Oggi è difficile capire, per chi non c’era, cosa significasse allora
sviluppare il rock. Le persone volevano essere musicisti: si comportavano
musicisticamente. Facevano quella vita là. A livello intuivo, Freddie seguiva
già la regola d’oro dello spettacolo: fare spettacolo. ‘Mach Schau!’ come
gridavano i promoter tedeschi ai Beatles nello Star Club di Amburgo.
Freddie faceva ciò che Epstein aveva fatto con i Beatles. In altre parole, non
bastava suonare e cantare bene, ma ci volevano anche le giacche senza
bavero, i capelli a caschetto e i sorrisetti timidi. I Beatles passarono gli otto
anni successivi a ribellarsi contro quel look, come se volessero provare che
per loro contava solo la musica. Ma Freddie, persino agli albori, sapeva già
che non era così.»
Morrish fu vicino a Michael Jackson fino alla fine. Le ragioni del legame
fra Freddie e Michael, sostiene, erano ovvie per chi li conosceva entrambi.
«Nessuno dei due era solo un musicista, o solo un cantante. Quel che
Freddie fece con Bohemian Rhapsody, Michael lo ripeté con Thriller. I
grandi artisti vanno dritti al punto. Sanno per istinto come essere
‘multimediali’. Il genio di Freddie era di capire che non conta solo la
canzone – parole, melodia e musica – ma come la trasmetti, perché il
pubblico la comprenda e la assimili; come la registri, come la presenti sul
palco, come confezioni il video, come ti vesti. Posso immaginarmelo durante
le riprese: ‘Ragazzi! Trucco, costumi, azione!’ Chi cazzo si truccava allora?
Gli uomini no. Nel 1970, se ti mettevi la crema idratante venivi bollato
come frocio. Eppure, ad anni di distanza, il mercato dei cosmetici per
uomini ha un giro di miliardi. Come ho detto, Freddie era molto più avanti
dei suoi tempi. Già nel 1970, diceva: ‘Guardate, ragazzi, è così che si fa
spettacolo!’»

Per tutta l’esistenza dei Queen è circolato un errore circa i vari nomi presi
in considerazione dalla band prima di scegliere quello definitivo.
«Brian e Roger da piccoli avevano entrambi letto la trilogia di C.S. Lewis,
Lontano dal pianeta silenzioso, dalla quale proveniva la frase ‘the Grand
Dance’», spiegano Jacky Gunn e Jim Jenkins nella biografia ufficiale dei
Queen (1992). Questa spiegazione è stata ripetuta in numerosi libri dedicati
ai Queen e a Freddie Mercury tanto che è diventata un «dato assodato»,
fino a comparire addirittura sul sito ufficiale della band, dove l’esperto Rhys
Thomas, in A Review (7 marzo 2011), cita «The Grand Dance», «The Rich
Kids» (in seguito adottato dall’ex Sex Pistol Glen Matlock come nome per il
suo nuovo gruppo) e «Build Your Own Boat» come i diversi nomi valutati
dai Queen prima di scegliere quello definitivo. Nel marzo 2011, in
un’intervista per la rivista Q, Brian disse: «Avevamo una rosa di nomi
possibili. ‘Queen’ era stato proposto da Freddie. Un altro era ‘Grand Dance’,
che secondo me non sarebbe stato molto buono…» In realtà, questa
dichiarazione è non è completamente giusta. Lontano dal pianeta silenzioso
è il primo libro della trilogia fantascientifica di Lewis, detta anche «trilogia
spaziale», «trilogia cosmica» o «trilogia di Ransom». Gli altri due volumi
della saga, a sua volta ispirata a A Voyage to Arcturus (1920) di David
Lindsay, sono Perelandra e Quell’orribile forza. Nel secondo romanzo,
Perelandra, Lewis crea un nuovo giardino dell’Eden sul pianeta Venere, con
un Adamo e un’Eva alternativi e un nuovo serpente tentatore. L’autore
esplora la possibilità che in quel tempo Eva resista alla tentazione evitando
così la caduta dell’uomo. È proprio in Perelandra che troviamo il nostro
riferimento a uno dei possibili nomi dei Queen: una descrizione
dell’esperienza mistica legata alla visione diretta della «Great Dance», (e
non «Grand Dance»), ossia la «grande danza» della coscienza
spaziotemporale e multidimensionale che costituisce il cosmo temporale:
«Così è con la Grande Danza: posate gli occhi su un movimento ed esso vi
condurrà attraverso tutti gli schemi, tanto da sembrarvi il movimento
principale. Ma l’apparenza corrisponde al vero. […] Sembra non vi sia alcun
disegno perché tutto è disegno; sembra non vi sia alcun centro perché tutto
è centro; che Egli sia benedetto!»
I nomi singoli funzionano meglio, però, sostenne Freddie: sono più facili
da memorizzare, fanno colpo. La sua proposta, provocatoria, era di
chiamarsi «Queen». Gli altri si opposero con sdegno, infastiditi per i
connotati omosessuali del termine. All’epoca «gay» era una parola che si
udiva di rado e che probabilmente si impose in seguito proprio come
reazione alla diffusione di queer («diverso»), il suo predecessore
denigratorio. Sebbene Freddie non avesse ancora fatto outing (né l’avrebbe
mai fatto ufficialmente), era abituato a essere chiamato «vecchia checca»
(old queen) e non gli dispiaceva. Adorava il riferimento androgino e il
rimando regale del termine. Ancor meglio, il nome era una perfetta scusa
per atteggiarsi da checca a più non posso sul palco. Ben presto Brian e Roger
cedettero: avevano colto l’ironia del nome, dato che nessuno era più macho,
più eterosessuale e più infatuato del genere femminile di loro due. Il nome
«Queen» funzionava.
Chiarita l’identità della band, Freddie decise di cambiare anche il proprio
cognome e abbandonò Bulsara a favore di Mercury, «Mercurio», il
messaggero degli dei secondo gli antichi romani. Come Hermes, la sua
controparte greca, Mercurio è rappresentato con i sandali alati e un bastone
con due serpenti avvinghiati. Mercurio è anche il nome del metallo liquido
già conosciuto in Cina e in India fin dall’antichità, e ritrovato persino nelle
tombe egizie, nonché quello del pianeta senza lune più vicino al Sole.
Negli anni sono state avanzate molte teorie sulla scelta di quel nome
d’arte. Secondo Jenkins: «Me lo disse Freddie in persona nel 1975, che
aveva scelto il nome del messaggero degli dei. Lo ricordo come fosse oggi. Si
è detto che l’avesse preso da Mike Mercury, della serie tv Fireball XL5, ma ti
assicuro che non c’entrava nulla».
Questo è il ricordo di Brian May: «Freddie aveva scritto una canzone
intitolata My Fairy King, dove c’è un verso che dice: ‘Oh Mother Mercury
what have you done to me?’ [‘Oh madre Mercurio, che mi hai fatto?’ Ma in
realtà il testo recita: ‘Mother mercury / look what they’ve done to me / I
cannot run, I cannot hide’ (‘Madre Mercurio, guarda che mi hanno fatto /
non posso fuggire, non posso nascondermi’)].
«Dopodiché disse: ‘Voglio chiamarmi Mercury, perché la “madre” di
quella canzone è mia madre’. E noi: ‘Ma sei matto?’
«Il cambio di nome rispecchiava il suo cambio di pelle. Il giovane Bulsara
era ancora lì, ma per il pubblico voleva diventare una divinità.»
Sebbene molti credano che Freddie cambiò cognome con un atto
ufficiale intorno al 1970, non esiste alcuna prova ad avallare questa teoria.
Non esiste nessun documento in tal senso al Public Records Office (oggi
National Archives), l’archivio nazionale con sede a Kew (Londra), sebbene
ce ne sia uno per Elton John. Un funzionario dell’ente ha dichiarato: «Solo
il dieci percento dei cambi di cognome vengono registrati tramite la Corte
suprema e quindi compaiono nei nostri registri. Anzi, in quegli anni la
percentuale si aggirava intorno al cinque percento. Non esistono obblighi
giuridici: in Inghilterra uno può chiamarsi come meglio crede. È probabile
che il signor Mercury abbia cambiato cognome tramite un legale, con un
atto che dovrebbe avere conservato lui e l’avvocato stesso».
Freddie rivelò il suo interesse per la mitologia e l’astrologia disegnando il
leggendario logo del gruppo, che raffigura una fenice con le ali spiegate, un
simbolo di immortalità ripreso dallo stemma del suo vecchio collegio
indiano, e i segni zodiacali dei quattro membri della band: due leoni per
Roger Taylor e John Deacon, un granchio per Brian May (cancro) e un paio
di fate per Freddie Mercury (vergine), il tutto sistemato intorno a una «Q»
sormontata da un’elaborata corona.
A dispetto di impegni precedenti, la band si accinse a debuttare come
«Queen» in un concerto di beneficenza per la Croce Rossa nella sala
comunale di Truro in Cornovaglia. Lo spettacolo, che ebbe luogo il 27
giugno 1970, era stato congiuntamente organizzato dalla madre di Roger,
Win Hitchens, e la formazione comprendeva anche Mike Grose al basso
(sarebbe rimasto con la band per appena tre concerti). Aprirono con Stone
Cold Crazy, un pezzo energico composto dal gruppo nel suo insieme e
basato su un brano precedente dei Wreckage, che però non fu accolto con
molto calore dalla sala semivuota. I presenti ricordano che la band non era
tanto affiatata e che il cantante in particolare non era ancora molto
coordinato.
«Freddie non era quello che sarebbe poi diventato», afferma la madre di
Roger. «Non aveva ancora perfezionato i suoi movimenti.»
«Freddie aveva grandi ambizioni per quella band», sostiene invece la
sorella Kashmira. «Era assolutamente determinato a sfondare.»
«Io e la mamma di Brian ci chiedevamo: Ce la faranno?» ricordò la
madre di Freddie in seguito.
Seguì un concerto all’Imperial College il 18 luglio, in cui i quattro
suonarono quasi solo cover, da James Brown a Little Richard, da Buddy
Holly a Shirley Bassey, con un paio di brani originali: Stone Cold Crazy, alla
cui stesura aveva partecipato l’intero gruppo, e Liar.
«Facevamo molto rock’n’roll con i Queen per dare alla gente qualcosa cui
aggrapparsi: Sali su, dagli quel che vogliono e vattene», spiegò Brian.
Poi Grose fu sostituito al basso da Barry Mitchell, che suonò con i Queen
fino a Natale, per undici concerti che si tennero in diversi college londinesi,
al famoso Cavern Club di Liverpool e in un paio di sale parrocchiali. I
Queen non avevano ancora trovato il bassista giusto.
Roger nel frattempo si iscrisse al North London Polytechnic per studiare
biologia e vinse anche una borsa di studio con cui integrare il suo scarso
reddito. Freddie rimase quindi l’unico membro dei Queen non impegnato
in studi universitari; non che questo importasse a nessuno. I quattro
continuarono a esibirsi con vigore e quello stesso settembre, Brian organizzò
un concerto-vetrina all’Imperial College cui invitò diversi importanti agenti
londinesi. Si presentarono in molti, ma nessuno rimase così colpito dal
gruppo da offrire loro un tour. Ambiziosi e impazienti, i Queen ci restarono
male.
Il 18 settembre 1970 fu un giorno tragico per Freddie, come per
moltissimi altri fan: Jimi Hendrix morì. Il musicista per eccellenza, che solo
l’anno precedente aveva suonato la sua elettrica versione dell’inno
americano a Woodstock e che aveva appena inaugurato il suo studio di
registrazione personale (il modernissimo Electric Lady, nel Greenwich
Village di New York), e che solo il mese precedente aveva raggiunto il suo
record di pubblico (seicentomila persone al festival sull’isola di Wight), fu
trovato morto in una pozza di vomito rosso nell’appartamento della
fidanzata Monika Dannemann, al Samarkland Hotel di Notting Hill.
Sebbene per anni si siano susseguite voci di un omicidio, la causa più
probabile del decesso è un’overdose di Vesparax, un sedativo, abbinato a un
abuso di alcolici. In seguito la fidanzata si è suicidata.
Freddie era inconsolabile. Troppo sconvolto per lavorare, chiuse il
banchetto di Kensington per lutto. Più tardi quello stesso giorno, mentre i
Queen provavano all’Imperial College, praticamente a due passi dall’albergo
in cui era appena morto Hendrix, Brian, Roger e Freddie offrirono il loro
tributo improvvisando Voodoo Chile, Purple Haze, Foxy Lady e altri brani
immortali del loro idolo.
Il bassista giusto continuò a eluderli finché, nel febbraio del 1971,
incontrarono per caso John Deacon in una discoteca di Londra. Nato a
Leicester, John aveva suonato in diversi gruppi fin da quando aveva
quattordici anni e studiava elettronica al Chelsea College. Taciturno di
carattere, compensava con un forte senso del ritmo e una mente irrequieta.
Era anche esperto di amplificatori e altre apparecchiature elettroniche, e
stava cercando un gruppo.
«Era perfetto. Noi tre eravamo già affiatati e su di giri», aggiunse Roger,
«e siccome lui era un tipo tranquillo pensammo che si sarebbe integrato
senza troppe difficoltà. Era un ottimo bassista – oltretutto – e anche un
mago dell’elettronica, il che fu un fattore decisivo.»
Da quel momento in poi, fino all’ultimo concerto dei Queen il 9 agosto
1986, la formazione della band non sarebbe mai più cambiata.
Seguirono sei mesi di prove intense in cui Brian, Roger e Freddie
insegnarono a John il repertorio. Intanto Brian scriveva la sua tesi, dato che
per lui, come per il nuovo bassista, i Queen erano pur sempre un hobby
extracurriculare. Solo Roger e Freddie potevano dedicare tutto il loro tempo
alla band, ed erano determinati a diventare professionisti e ad avere
successo. L’11 luglio 1971, i Queen iniziarono un piccolo tour di undici date
in Cornovaglia, terminando il 21 agosto al Festival di musica
contemporanea di Tregye. Seguirono altri appuntamenti in autunno, incluso
uno all’Imperial College il 6 ottobre, uno alle Swimming Baths di Epsom il 9
dicembre e un concerto di capodanno al London Rugby Club di
Twickenham.
Roger, nel frattempo, aveva perso ogni interesse nel banchetto. Il fattore
novità si era oramai esaurito, ma, oltretutto, il batterista aveva iniziato a
sentirsi «svilito» da quell’impiego. Abbandonò la «casbah», lasciando
Freddie con un collega, Alan Mair. Freddie invece era più legato che mai al
mercato di Kensington e non solo perché era un protagonista assoluto di
quella scena, si era anche innamorato.
7
Mary

Tutti i miei partner mi hanno chiesto perché non possono


sostituire Mary, ma è semplicemente impossibile. Per me era
come una moglie. Per me eravamo sposati. Credevamo l’uno
nell’altro, e questo per me è abbastanza. Non potrei mai
innamorarmi di un uomo come mi sono innamorato di Mary.

FREDDIE MERCURY

La presa di coscienza dev’essere stato un processo molto


importante per lui […]Freddie proveniva da una cultura in cui
l’amore tra uomini non è contemplato. Quindi provi ad
adeguarti, anche se è una tortura interiore. Succede spesso.
Elton l’ha fatto due volte. Nel loro viaggio alla scoperta di se
stessi, spesso i gay che provengono da un ambiente represso
vivono una parentesi di amore eterosessuale. A volte è una
questione di necessità, altre un tentativo di conformarsi al
volere della società.

PAUL GAMBACCINI

CON i suoi capelli color albicocca, gli occhi verdi e le ciglia lunghe come
Bambi, Mary Austin era l’incarnazione di un poster di Biba. Quando fondò
il suo emporio di tendenza, la stilista Barbara Hulanicki avrebbe potuto
benissimo sceglierla come musa ispiratrice. Esile e minuta, ciò che Mary non
aveva in termini di altezza e sicurezza lo compensava con un look e uno stile
anni Settanta quasi da manuale.
Mick Rock, nato a Londra, laureato in lingue moderne a Cambridge ed
ex allievo della London Film School, iniziò la carriera di fotografo
professionista quando Syd Barrett (il primo leader dei Pink Floyd, oggi
scomparso) gli chiese un servizio per la copertina del suo album solista «The
Madcap Laughs». Rock (è il suo vero cognome) entrò così nella cultura
psichedelica degli anni Settanta dalla porta principale, diventando poi amico
e fotografo ufficiale di David Bowie. Gli si attribuisce il merito non solo di
avere documentato la scena musicale di quell’epoca («L’uomo che fotografò
gli anni Settanta», è stato detto), ma di avere contribuito a crearla. Scattò le
prime immagini promozionali di Freddie Mercury e dei Queen, e in seguito
creò la grafica per le innovative copertine di «Queen II» e «Sheer Heart
Attack». Dal 1977 abita a New York, dove ha frequentato tutti gli esponenti
di spicco della scena underground della città, fra cui i Ramones e i Talking
Heads.
«Freddie viveva già con Mary quando l’ho conosciuto. Sì, li ho conosciuti
insieme e ho voluto bene a entrambi», racconta Rock. «Andavo sempre a
trovarli nel loro appartamentino per fare quattro chiacchiere verso l’ora del
tè. Freddie adorava il tè. Era l’epoca d’oro del glam rock e Mary era
bellissima: avrebbe conquistato chiunque, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa.
Ma non pensava di essere speciale, non le piaceva mettersi in mostra. Era
schiva, dolce e affascinante. A vederla ti veniva voglia di coccolarla.»
Pallida, timida e con il volto incorniciato da lucenti ciocche ramate, Mary
Austin aveva un contegno che ricordava Mary Hopkin, il prodigio dal volto
angelico lanciato da Paul McCartney e che riscosse un grande successo con
Those Were the Days. Le due Mary condividevano un’apparenza eterea,
intoccabile, casta, che perfezionava lo stile bohémien di quegli anni. Tempo
dopo sarebbe stato chiamato «il look alla Stevie Nicks» (dal nome del
cantante dei Fleetwood Mac) ed era già diffuso per le strade di Kensington:
abiti midi, giacconi, zeppe, foulard, collarini di velluto, rossetti viola e occhi
bordati di nero.
«Proveniva da una situazione difficile», ricorda il giornalista David Wigg.
«I suoi genitori erano entrambi sordomuti e comunicavano a gesti e
leggendo le labbra; ed erano poveri. Il padre faceva l’operaio in una ditta di
carta da parati e la madre le pulizie in una piccola azienda. Ma questo non
era certo un problema per Freddie, perché a lui non interessavano le
riccone, preferiva le persone che erano un gradino sotto il suo nella scala
sociale. Una questione di insicurezza, secondo me. Gli piacevano gli artisti, o
quelli che erano venuti su dal nulla. Artista e simpatico erano le
caratteristiche fondamentali per piacere a Freddie. E poi amava ridere. Mary
era timida, ma sapeva farlo ridere.»
Mary aveva lavorato come apprendista segretaria finché non era entrata
da Biba a diciannove anni, con un impiego che negli anni è stato definito
nei modi più disparati: «pubbliche relazioni», «segretaria», «commessa»,
«responsabile di reparto» e «manager». Qualunque sia stata la sua posizione,
o le sue posizioni, nel famoso emporio, il mondo del commercio pare una
strana scelta professionale per una ragazza timida e che aveva difficoltà
persino a impostare una normale conversazione, essendo cresciuta in una
casa silenziosa. Il grande negozio, profumato d’incenso e adornato di felci,
era una specie di caverna di Aladino affollata e rumorosa, piena di abiti,
scarpe, trucchi, gioielli, borse e bellissime commesse. Era frequentato da
numerose stelle della musica e del cinema che si mescolavano liberamente
con i giovani alla moda, molti dei quali andavano lì proprio per riuscire a
scorgere un Mick Jagger o un Paul McCartney.
Nonostante la sua riservatezza, Mary si ritrovò immersa nella scena rock
della città. Brian May fu il primo a notarla nel 1970 durante un concerto
all’Imperial College e andò a presentarsi.
Mary era la sua ragazza ideale sotto molti aspetti. Brian, alto, bruno e
sexy, non perse tempo e le chiese di uscire. Andarono d’accordo, ma non
scattò la scintilla. Il chitarrista vide che tra loro due ci sarebbe stata solo
amicizia e nient’altro. Freddie, invece, ci vide dell’altro. Dopo avere
tormentato Brian perché gliela presentasse, finalmente conobbe la ragazza
dei suoi (parziali) sogni.
L’attrazione fu immediata e reciproca e non sarebbe mai cessata. È strano
quindi che Mary abbia passato i successivi sei mesi a evitare Freddie, al
punto di uscire con altri, seppur senza iniziare nessuna storia seria. Anni
dopo avrebbe spiegato il motivo di quel suo comportamento: credeva che
Freddie fosse interessato alla sua amica, non a lei. Una sera, dopo un
concerto della band, Mary disse che doveva andare in bagno e invece sparì,
lasciandolo solo con l’amica. Freddie ci rimase di sasso, ma non per questo
rinunciò a corteggiarla. Le chiese di uscire per il suo ventiquattresimo
compleanno, il 5 settembre 1970, ma lei finse di avere già un impegno.
«Cercavo di fare la difficile», spiegò poi a Wigg. «Non avevo davvero un
altro impegno. Ma Freddie non ha lasciato perdere e siamo usciti insieme la
sera dopo. Siamo andati a vedere i Mott the Hoople al Marquee, a Soho.
Non aveva molti soldi allora, per cui quando uscivamo facevamo le cose che
fanno tutti i ragazzi. Niente cene costose: quelle sarebbero venute solo dopo
il successo.»
Presto i due divennero inseparabili e iniziarono una relazione che negli
anni avrebbe sempre avuto la precedenza su qualsiasi altro legame,
eterosessuale o omosessuale, instaurato da Freddie.
Freddie e Mary avevano molte cose in comune. Entrambi si erano
allontanati dai genitori e avevano provato un forte bisogno di indipendenza.
Tutti e due tendevano a mostrare solo la punta dell’iceberg della propria
personalità e a celare il loro sé più autentico; potevano apparire superficiali,
frivoli e materialisti; tendevano a vivere alla giornata, almeno quand’erano
più giovani, anche se spesso questa era solo un’immagine, un modo per
nascondere la loro innata timidezza; erano molto sensibili e riservati, e più
profondi di quel che sembravano. Si videro l’uno riflesso nell’altra e questo
divenne il fondamento di un legame fascinoso ed eterno. Con il passare
degli anni, gli aspetti più contraddittori del loro carattere finirono per
consolidare il loro rapporto. Mary poteva apparire dolce e gentile, il genere
di ragazza che non farebbe male a una mosca, ma quella fragilità esteriore
nascondeva una notevole serenità e una forza interiore, due qualità che
Freddie ammirava molto, forse perché temeva che The Great Pretender in
lui non le avesse. Mary sapeva che Freddie aveva una famiglia a Feltham,
ma sarebbe passato parecchio tempo prima che lui gliela presentasse. Non è
difficile capire il perché: Mary era la nuora ideale per i coniugi Bulsara. Se
l’avessero conosciuta, è probabile che avrebbero iniziato a fare pressioni su
di lui perché la sposasse, e poi desse loro il nipotino che tanto desideravano.
Ma Freddie non era pronto per il matrimonio. D’altronde – anche se
nessuno poteva saperlo allora – non lo sarebbe mai stato.
Negli anni, Mary divenne la roccia su cui Freddie poggiava e da cui
traeva la forza necessaria per vivere. Ogni volta che i suoi eccessi gli
sfuggivano di mano e che non era in grado di sostenere le pressioni legate al
lavoro, Freddie correva a rifugiarsi da lei. Solida e affidabile, clemente e
comprensiva, Mary era per lui una figura materna a cui aggrapparsi nei
momenti difficili.
«In un certo senso Mary Austin era davvero sua madre», riflette
Doherty.
«Per Freddie, lei c’era sempre, in qualsiasi momento; pronta a
sospendere la propria vita per aiutarlo. Lo seguiva ovunque, era sempre al
suo fianco. Colmava il vuoto lasciato dai genitori quando era piccolo.
L’avevano ficcato su una nave e spedito in collegio a migliaia di chilometri
di distanza, un viaggio che allora durava sessanta giorni. Aveva otto anni...
ma ti immagini? Era stato un trauma, che Freddie non avrebbe mai risolto.
Poi però era arrivata Mary. ‘Mother Mary comes to me’ [‘Mamma Mary
viene da me’], cantava McCartney in Let It Be, proprio nel 1970, vero? Che
coincidenza: l’anno in cui Mary e Freddie si sono incontrati.
«Avrebbe potuto benissimo essere la ‘loro’ canzone, con tutti quei
riferimenti matriarcali alla Vergine Maria. Mary era quella della canzone.
Era pura. Alla fine Freddie non ci andava nemmeno più a letto insieme…»
Forse perché aveva oramai scelto di essere gay, trasformando la
compagna in una vergine immacolata?
«Il mito fu preservato», concorda Doherty. «Nella sua testa lei era
perfetta ed esisteva solo per lui.»
«Senza dubbio Mary era una figura materna [per Freddie]», concorda lo
psichiatra Cosmo Hallstrom.
«Più precisamente, una figura materna idealizzata, rappresentava quello
che secondo lui una donna doveva essere. Freddie aveva un appetito
sessuale molto sviluppato e non era selettivo nella scelta dei partner. Era
capace di fare l’amore con lei e poi scappar via e avere una serie di sbrigativi
rapporti clandestini con altre persone. Tutte relazioni fragili ed effimere,
però. Alla fine, infatti, tornava sempre da lei. E lei, chiaramente, era lì ad
aspettarlo: pronta per il suo uomo.»
«Si prendeva cura di lui, lo accudiva, coltivava il suo lato positivo. Era il
suo fondamento, la sua forza. Era proprio quella relazione che gli
permetteva di avere altri flirt. [Mary] divenne quindi la moglie sofferente
oltre che la matriarca, accettando ogni sorta di assurdità. Il suo ruolo era
fondamentale: Freddie soffriva per via dei sensi di colpa e questa era la
chiave della sua creatività. Una persona felice non sente il bisogno di creare.
Chi è felice si accontenta di quel che ha, ama le cose così come sono.
Freddie invece era perennemente tormentato proprio a causa dei suoi
sentimenti per Mary. Ma questo tormento era anche la sua fonte di
ispirazione.»
Alcuni hanno descritto il sentimento di Mary per Freddie come «amore
materno» (mother love). Non c’è da sorprendersi quindi che questo sia
diventato il titolo di un brano malinconico di «Made in Heaven», l’album
uscito quattro anni dopo la morte del cantante nel 1991.
«Passo da un estremo all’altro», disse Freddie una volta. «Ho un lato
tenero e uno duro, senza vie di mezzo. Se la persona giusta riesce a toccarmi
il cuore, divento molto vulnerabile, come un bambino, e puntualmente ci
vado di mezzo. Talvolta però sono forte e quando sono così nessuno riesce a
toccarmi.»
Mary fu una delle poche persone a cui Freddie confessò di soffrire di
mania di persecuzione. In particolare aveva paura che la gente lo sfottesse
alle spalle e di essere effettivamente ridicolo. Erano paure che lo
perseguitavano fin da piccolo e che Freddie non avrebbe mai vinto del tutto.
Forse non erano del tutto infondate. Peter «Ratty» Hince, per molti anni
roadie dei Queen e oggi fotografo, sostiene: «A essere sincero, tutti
pensavano che Freddie fosse un po’ scemotto. Era esagerato anche per un
gruppo glam rock: tutti quei costumi… Secondo me agli inizi non era
nemmeno l’elemento più forte del gruppo. All’epoca erano parecchio
compatti».
Forse la mania di persecuzione era anche la causa dei suoi occasionali
scoppi di rabbia: lo spingevano a comportarsi in modo iniquo e persino
crudele con amici e collaboratori, pronunciando commenti sprezzanti e
denigratori, tanto gratuiti quanto astiosi. Alcuni commentatori hanno
ipotizzato che Mary sviluppò un meccanismo difensivo per proteggere
Freddie e se stessa da media e curiosi. È possibile, però, che in realtà la
donna volesse proteggere loro due dal lato oscuro di Freddie stesso.
La loro unione era un incontro di cuori, menti e anime, non si poteva
tuttavia ignorare l’aspetto carnale. La loro relazione sessuale durò sei anni,
un periodo che per un ventenne è come una vita intera e che testimonia il
loro reciproco impegno. Presto andarono a convivere in un monolocale
piccolo e squallido in Victoria Road, vicino a Kensington High Street: in
quel quartiere Freddie avrebbe poi sempre fatto ritorno. All’epoca pagavano
solo dieci sterline la settimana in quella che oggi è una delle zone più
costose in tutta l’Inghilterra.
Due anni dopo, si trasferirono in un appartamento più grande e
autonomo, ma umidissimo, su Holland Road: costava diciannove sterline la
settimana.
«Siamo cresciuti insieme. Freddie mi piaceva e la nostra relazione è
partita da lì», ricordò una volta Mary. «Mi ci sono voluti circa tre anni per
innamorarmi davvero. Non ho mai provato la stessa cosa per nessun altro,
né prima né dopo… Lo amavo tantissimo.»
«Mi sentivo sicura con lui», confessò a Wigg. «Più lo conoscevo, più lo
amavo per quel che era. Aveva delle qualità che secondo me sono molto
rare oggi. Sapevamo di poterci fidare l’uno dell’altra e che non ci saremmo
mai fatti del male apposta.»
«Una volta, a Natale, mi comprò un anello e lo mise in una scatola
enorme. La aprii e dentro c’era un’altra scatola, e poi un’altra finché arrivai
a una scatola piccolissima. Quando la aprii, vidi un bellissimo anello con
uno scarabeo egizio. Si dice che porti fortuna. Freddie era impacciato e
dolcissimo quando me lo diede.»
«A prescindere da tutto quel che accadeva», spiega Mick Rock, «Freddie
aveva la sua dolce vita domestica con Mary, molto comoda e piacevole.
Ogni volta che andavo da loro lo trovavo in vestaglia e pantofole e stavamo
così a chiacchierare per ore.»
Mary si è sempre rifiutata di discutere della sua vita privata con Freddie,
facendone quasi una questione d’onore ed evitando di parlare persino degli
aspetti più spicci della convivenza. In qualche intervista, tuttavia, sono
trapelati alcuni dettagli. Per esempio, si sa che quando Freddie veniva colto
dall’ispirazione, avvicinava il pianoforte al letto e andava avanti a comporre,
a qualsiasi ora del giorno o della notte. Un’altra donna si sarebbe presto
stufata di un’abitudine così invasiva.
Se aveva dei sospetti sulle preferenze sessuali di Freddie, all’inizio Mary
tentò di ignorarli.
«Una volta le dissi: ‘Qualche volta deve per forza esserti venuto il dubbio
che fosse gay’», riferisce Wigg. «Ma ovunque andavamo, le ragazze
impazzivano per lui», gli aveva risposto Mary. «Quando scendeva dal palco,
gli saltavano addosso.» Una volta, Freddie fu assalito da uno stormo di
ragazze a fine concerto. Mary fece per andarsene, pensando: Freddie non
ha più bisogno di me. Tuttavia lui la vide e le corse dietro. «Dove vai?»
«Non hai bisogno di me, ci sono loro», gli rispose lei. «Eccome se ho bisogno
di te, invece», insisté Freddie. «Non voglio vivere tutto questo senza te.»
«Più avanti iniziò a rientrare sempre più tardi la sera e pensai: Ecco,
basta, è finita», rivelò Mary a Wigg, aggiungendo di avere pensato che
Freddie avesse un’altra. «Credevo che non mi volesse più. Aveva sempre
qualche scusa: ‘Eravamo in studio, tesoro’, oppure ‘Ci siamo lasciati
prendere, scusa se ho fatto così tardi’.» Tutto il resto tra di loro andava
bene, disse Mary, tranne quegli inspiegabili ritardi. Una sera Freddie infine
confessò: «Mary, devo dirti una cosa». Lei era convinta che lui la tradisse
con un’altra donna, per cui si preparò alla notizia. Con enorme sollievo,
invece, lui le disse semplicemente: «Credo di essere bisessuale».
«No Freddie, non credo che tu sia bisessuale», rispose lei. «Secondo me
sei gay.»
«Freddie ci restò male, ma da lei lo accettò», riferisce Wigg. «Freddie
aggiunse: ‘Voglio che tu faccia sempre parte della mia vita’. E infatti quando
si trasferì a Garden Lodge, comprò a Mary un piccolo appartamento dietro
l’angolo; dalla finestra del bagno si vedeva casa sua.»
Per certi versi, Mary divenne la matriarca della nuova «famiglia» di
Freddie, il suo entourage di collaboratori-amici, quasi tutti gay.
«Freddie instaurò con Mary una relazione onesta e aperta, proprio quella
che non poteva avere con la madre naturale, a causa della religione e della
cultura di famiglia», sostiene Wigg.
Rock ricorda che Freddie andava «fuori di sé» se si affrontavano
questioni legate alla sessualità.
«Questo prima che si dichiarasse apertamente. Sapeva di essere gay, ma
non esclusivamente, e questo lo incasinava. Era lacerato, come se volesse
sapere con certezza se era gay o no, invece era intrappolato in mezzo, in una
specie di terra di nessuno. Amava le donne. Amava la compagnia
femminile. Può darsi che più avanti negli anni si sia rivolto soprattutto agli
uomini per il sesso, che sia stato più promiscuo con gli uomini, ma amava
circondarsi di donne. Mary era l’amore della sua vita, il legame affettivo più
forte che avesse mai avuto. L’ironia della sorte è che nel profondo lui era
gay, ma il suo amore più significativo era una donna. Forse ciò era dovuto
più alla donna in questione che alle preferenze sessuali di Freddie. Fra lui e
Mary c’era vero amore. L’aspetto sessuale non era tanto importante quanto
il legame emotivo e spirituale.»
Freddie iniziò ad avere amanti maschi, ma non li portò mai nel
monolocale che divideva con Mary. All’inizio, si comportò con discrezione,
mantenendo una relazione di facciata con la compagna. Sperando che si
trattasse solo di una fase, Mary pazientò e chiuse un occhio. Con il passare
del tempo, tuttavia, capì senza ombra di dubbio che Freddie preferiva
davvero i maschi e alla fine nemmeno lui riuscì più a nascondersi la verità, e
confessò.
«Vedevo che c’era qualcosa che lo turbava», raccontò Mary a Wigg. «Per
cui fu un sollievo quando me lo disse. Apprezzai la sua onestà. Forse
pensava che non avrei appoggiato la cosa, ma non potevo negargli il diritto
di essere se stesso.»
Il fatto che Mary accantonò il proprio dolore per la fine della relazione e
che permise a quest’ultima di trasformarsi in un’amicizia platonica, la dice
lunga sulle sue qualità umane. Da allora in poi, Mary divenne la leale
servitrice di Freddie incontrandolo almeno una volta al giorno. Si descrisse
come il suo «galoppino». Freddie la chiamava «la mia fedelissima».
Era libera di cercarsi un altro, ma sarebbe passato molto tempo prima che
lo facesse sul serio. Non era in grado di lasciarlo andare e si dice che una
volta gli abbia persino chiesto di darle un figlio (pare che Freddie rispose
che avrebbe preferito prendere un gatto). In seguito Mary avrebbe avuto
due figli: Richard, di cui Freddie era il padrino, e Jamie, nato poco dopo la
morte del cantante. Quasi tutte le future relazioni di Mary, però, parevano
condannate al fallimento, forse perché nascevano sempre nell’ombra di
Freddie e di un rapporto che la donna non aveva mai superato davvero.
Persino quella con il padre dei suoi figli, l’arredatore di interni Piers
Cameron, terminò. «Si è sempre sentito eclissato da Freddie», spiegò Mary.
In seguito Freddie ebbe altre relazioni con donne, in mezzo a un flusso
incessante di partner maschili. Dato che aveva scelto di restargli vicino,
Mary dovette accettare anche questo. Quasi tutte le persone che hanno
conosciuto entrambi sostengono che nessuna donna avrebbe mai potuto
prendere il posto di Mary nel cuore di Freddie. Il fatto che lui le abbia
lasciato in eredità la sua grande dimora e buona parte del suo enorme
patrimonio, probabilmente ne è la prova.
«Mary è una santa», spiega Rock. «È favolosa, straordinaria, fedele,
umile, discreta. Davvero una brava persona, una delle migliori che abbia
mai conosciuto. Dopo che i Queen avevano sfondato e io mi ero trasferito a
Manhattan, vedevo spesso Freddie a New York. Uscivamo insieme e
chiacchieravamo. Una volta, anni dopo, mentre ero a Londra incontrai
Mary per un tè e mi disse una cosa molto strana. All’epoca non la capii, ma
oggi forse sì. Mi disse: ‘Prima mio padre, poi Freddie, ora i miei figli. Sembra
proprio che sia venuta su questa terra per badare agli uomini’. Voleva dire
che la missione della sua vita era quella. Una strana vita, se ci pensi. Ma ha
senso.»
Per Rock fu un sollievo vedere che Freddie la trattava bene.
«Freddie era una persona unica al mondo: chiunque avrebbe avuto
difficoltà ad averci a che fare. Inoltre era più interessato al lavoro che a
qualsiasi altra cosa. E, ad aggravare le cose, aveva dei momenti di
inspiegabile follia. Dev’essere stato un incubo lavorare e vivere con lui. E lui
lo sapeva, non era stupido. Mary accettò cose che pochi avrebbero accettato,
e non ha mai smesso di amarlo; fino a oggi. Si può dire che ha dato la vita
per lui. E quel che ha avuto in cambio è niente rispetto a quel che ha dato,
credimi.»
Come spiegò Mary: «[Freddie] ha allargato i miei orizzonti, facendomi
conoscere il balletto, l’opera e l’arte. Ho imparato tantissime cose da lui, e
mi ha dato tantissimo. Non l’avrei mai abbandonato, mai».
Non che questo rendesse più facile la convivenza. Non solo Freddie
faceva di tutto un dramma, ma era molto pignolo: persino i vasi di fiori
andavano sistemati in un posto preciso, per esempio, altrimenti li faceva
volare dalla finestra.
«Era il suo stile», disse una volta Mary. «Voleva le cose fatte a modo suo
e a volte era molto difficile. Litigavamo parecchio. Ma lui amava una bella
baruffa.»
Diversi anni dopo la morte di Freddie, Mary si fece una ragione della
fortuna lasciatale dal cantante e ritrovò la felicità con Nick, l’imprenditore
londinese che sposò nel 1998 a Long Island, lontano dai riflettori e con i
figli come unici testimoni.
«Nick è stato molto coraggioso a sposarmi», disse a Wigg. «Porto con me
un ‘bagaglio’ pesante… Più passano gli anni e più riesco ad apprezzare quel
che ho avuto, e quel che ho ora, e ad andare avanti con la vita.»
Aggiunge Rock: «Alcuni l’hanno criticata per essere rimasta vicino a
Freddie, e molti hanno sospettato che avesse dei secondi fini, ma posso dirti
per certo che non è rimasta per i cazzutissimi soldi. Potrei scommetterci la
vita su questo».
Le persone possono dire quel che vogliono. Chi li conosceva aveva
sentito le ragioni di entrambi (e ci sono sempre almeno tre versioni della
medesima storia). Per ventun anni Mary si è tenuta le sue opinioni per sé e
la sua lealtà nei confronti di Freddie la dice lunga. Perché non aveva
accettato la separazione cominciando una nuova vita, magari in un’altra
città? Forse perché temeva che senza Freddie non sarebbe stata nulla?
«Il fatto che sia rimasta in una situazione che qualsiasi altra donna
avrebbe rifiutato a favore di un ambiente eterosessuale è il risultato di
un’estrema perseveranza e di una – bisogna dirlo – finzione», commenta
David Evans, amico intimo di Freddie.
«Credo onestamente che Mary non fosse a suo agio nell’entourage
omosessuale di Freddie», rivelò nel 1995 nel suo libro di memorie More of
the Real Life. «Percepivo il suo disagio e per quel che potevo mitigavo il mio
comportamento per adattare la sua femminilità così eterosessuale. Mary non
fu mai ‘una di noi’, come altre donne di Freddie. Sembrava mancarle la
sicurezza e l’esuberanza di Barbara Valentin, Anita Dobson o Diana
Moseley. Tutte donne forti e piene di talento, che non si sentivano per
niente minacciate dalla trasgressività di Freddie, anzi ne uscivano rafforzate.
«Mary era sempre remota, distaccata nello spirito e nella carne dalla ‘Vita
reale’ [come l’entourage casalingo di Freddie definiva se stesso].»
Sia Freddie sia i suoi amici furono felicissimi quando Mary iniziò a uscire
con Piers Cameron e poi restò incinta, ma nessuno si sorprese quando la
storia finì. «È innegabile che continuò a far parte della Vita reale», afferma
Evans. Lui sperava che Mary superasse il suo «attaccamento malato a una
situazione che aggravava il dolore della separazione, dal quale
evidentemente non si era mai ripresa».
8
Trident

È molto difficile fidarsi degli altri, specialmente per come siamo


fatti. Siamo ipersensibili, meticolosi e pignoli. Quel che è
successo con la Trident ci ha sottratto molte energie e così dopo
siamo diventati attenti e selettivi nei confronti di chi lavora
con noi, di chi entra a far parte dell’unità-Queen.

FREDDIE MERCURY

Le sessioni in studio dei Queen hanno sempre beneficiato della


tecnologia. Agli inizi, nel primissimo disco, ebbero accesso ai
Trident Studios nei tempi morti. Fin dall’inizio della loro
carriera, quindi, si trovarono a incidere nei migliori studi
disponibili. Poterono usare le attrezzature più moderne, che
all’epoca erano a sedici piste. Spesso le band sviluppano il loro
suono in studio, dove possono sfruttare le tecniche di chitarra
multitraccia che prevalgono in molti pezzi rock. Grazie a quegli
studi, Brian May poté portare la sua musica a un altro livello.
Fu molto importante per loro.

STEVE LEVINE , leggendario produttore discografico


e proprietario della Hubris Records

IL 1971 era quasi finito, ma la carriera dei Queen ancora non era decollata,
nonostante i quattro si fossero esibiti tanto quanto gli impegni accademici di
Brian e John avevano permesso loro, e nonostante i numerosi tentativi di
ottenere un contratto discografico. Come osservò Brian: «Prima di
abbandonare le carriere per le quali avevamo studiato tanto, volevamo avere
un introito fisso dalla musica. Avevamo tutti molto da perdere, sai, e non
era facile. A essere onesto, penso che nessuno di noi credesse che ci
sarebbero voluti tre anni interi per arrivare da qualche parte. Di certo non
fu una passeggiata».
Freddie: «A un certo punto, due o tre anni dopo l’inizio, ci siamo quasi
sciolti. Vedevamo che non funzionava, che c’erano troppi squali in
quell’ambiente e che era troppo per noi… Ma qualcosa ci spinse ad andare
avanti e a imparare dalle nostre esperienze, belle o brutte che fossero».
In un’altra occasione, però, Freddie contraddisse questa precedente
valutazione sugli inizi dei Queen, dichiarando: «Non ho mai avuto dubbi,
tesoro, mai. Sapevo che ce l’avremmo fatta. Lo dicevo a tutti».
Anche Roger ricorda quei primi tempi in una luce positiva: «Per i primi
due anni non accadde nulla di serio. Ci impegnavamo tutti moltissimo, ma
non facevamo progressi. Avevamo molte idee davvero buone, però, e
sentivamo che in un modo o nell’altro ce l’avremmo fatta».

I Queen avevano parecchio lavoro da fare. Sicuri del proprio talento


musicale e convinti di essere una band ben assortita, continuarono a
tormentare tutte le case discografiche di Londra e a esibirsi in ogni
occasione, accettando qualsiasi concerto gli venisse proposto. Alcuni di
questi attirarono un pubblico notevole, altri meno. Alla fine Tony Stratton-
Smith, proprietario dell’etichetta indipendente Charisma Records, mostrò
un certo interesse per la band e fece ai quattro un’offerta considerevole:
ventimila sterline. Una cifra niente male. Stratton-Smith, detto «Strat», era
un eccentrico proprio come Freddie: ex giornalista appassionato di calcio,
grande bevitore, proprietario di un cavallo da corsa e omosessuale, nel 1958
era scampato alla morte nel disastro aereo di Monaco, in cui avevano perso
la vita ventitré persone, fra cui otto giocatori del Manchester United.
All’ultimo minuto aveva deciso di non imbarcarsi per seguire una partita di
qualificazione per la Coppa del Mondo. Verso la fine degli anni Sessanta,
Strat era diventato un manager di gruppi rock e aveva fondato una sua
etichetta, che dirigeva da un minuscolo ufficio nel cuore di Soho, in Dean
Street. Nel 1970 scritturò i Genesis e negli anni produsse gli album dei
Monty Python oltre che diversi lavori di Peter Gabriel, Lindisfarne,Van der
Graaf Generator, Malcolm McLaren e Julian Lennon. I suoi artisti lo
adoravano e lo definivano «l’uomo che avvera i sogni».
Ma i Queen non furono sedotti dal grande Strat, pur essendo davvero
fatti gli uni per l’altro. Secondo alcune voci, i quattro temevano di diventare
la ruota di scorta dei Genesis. Pensando che, se per Strat valevano ventimila
bigliettoni, per altri dovevano valere molto di più, usarono l’offerta della
Charisma per attirare l’interesse di altre etichette.
«Appena abbiamo inciso un demo, abbiamo avvistato gli squali», ricordò
Freddie nel 1974. «Ricevevamo offerte incredibili, da parte di persone che
dicevano: ‘Vi faccio diventare i nuovi T. Rex’, ma stavamo piuttosto attenti a
non buttarci alla cieca fra le braccia di chicchessia. Siamo andati a conoscere
ogni singola etichetta della città prima di impegnarci con una. Non
volevamo essere trattati come una band qualunque.»
«In parole povere, siamo molto presuntuosi», ammise Brian in seguito,
«nel senso che siamo convinti di quel che facciamo. Se qualcuno ci dice che
facciamo schifo, pensiamo che sia quella persona a sbagliarsi, piuttosto che
crederle.»
«Miravamo alla prima piazza», spiegò Freddie. «Non ci saremmo mai
accontentati di meno.»
In altre parole i Queen non pensavano di essere bravi: sapevano di
esserlo.
Quello che altrove è stato riportato come un incontro fortuito con John
Anthony, all’epoca uno dei più intelligenti produttori discografici di Londra,
probabilmente non fu tanto una felice casualità quanto il risultato della
perseveranza di Freddie.
Molto conosciuto a Kensington e Chelsea per le sue attività musicali e
sartoriali, il sabato pomeriggio Freddie era solito indossare abiti vistosi e fare
le vasche lungo Kensington High Street e la King’s Road, di solito dopo
essersi ingraziato qualche amico per farsi tenere il banchetto. A tutti quelli
che lo stavano ad ascoltare, parlava incessantemente dei suoi idoli: all’epoca
Liza Minnelli, gli Who, i Led Zeppelin e il David Bowie periodo Ziggy.
Giustificava la quantità vergognosa di tempo che dedicava a mantenere il
suo look dicendo che «non sai mai chi puoi incontrare». Freddie voleva
essere notato, e da qualcuno in particolare.
La sua costanza fu ripagata. Durante la sua abituale passeggiata, un
giorno incontrò John Anthony e, senza perdere tempo, riuscì a strappargli
un invito a portare la band a casa sua per discutere del loro futuro.
Quello sì che era un colpo grosso, data la reputazione di cui godeva il
produttore. Ex DJ di importanti locali londinesi come lo Speakeasy, la
Roundhouse e l’UFO Club, Anthony era passato alla produzione discografica
dopo avere registrato qualche demo per gli Yes nel 1968. Come socio di
Strat, aveva anche lavorato con i Genesis, i Van der Graaf Generator e i
Lindisfarne. Il suo motto era: «C’è un solo modo per fare bene un disco, ma
ce ne sono quattrocento per farlo male».
Dopo l’incontro, Anthony persuase Barry Sheffield, coproprietario con il
fratello Norman dei Trident Studios, ad accompagnarlo a un concerto dei
Queen nell’oramai scomparso Forest Hill Hospital, nel sudest di Londra,
venerdì 24 marzo 1972. Fino ad allora i fratelli Sheffield avevano solo
sentito un demo di cinque brani, ma non avevano mai visto la band dal
vivo. Barry voleva vedere come si comportavano sul palco, prima di
impegnarsi con un contratto. Rimase così colpito, specialmente dalla loro
versione effeminata dell’immortale Hey Big Spender di Shirley Bassey, che
volle scritturarli seduta stante.
«I Trident erano i migliori studi del mondo», raccontò poi Anthony, «ed
è per questo che erano prenotati ventiquattr’ore su ventiquattro.»
Poco tempo prima, però, i fratelli Sheffield avevano fondato una
consociata, la Trident Audio Productions con un progetto innovativo:
mettere sotto contratto nuovi talenti e farli incidere nei loro modernissimi
studi, per poi negoziare un accordo di produzione e distribuzione vera e
propria con una grande casa discografica. I Queen sapevano che non
potevano permettersi di fare troppo i difficili, anche se la proposta non
corrispondeva esattamente a quel che cercavano. E i fratelli Sheffield erano
due scaltri imprenditori noti per i loro metodi «risoluti». Fecero balenare
davanti ai quattro diverse cifre, finché i loro occhi luccicarono al punto da
non vederci più. Fra le clausole del contratto, infatti, si nascondeva un
accordo non esclusivo: era invece un pacchetto che li avrebbe accorpati ad
altri due artisti, un cantautore irlandese di nome Eugene Wallace e un
gruppo chiamato Headstone. Altrettanto preoccupanti erano le norme sul
controllo manageriale dei fratelli Sheffield. La loro era un’offerta inconsueta
e prevedeva un contratto complessivo di management e incisione in cui la
Trident avrebbe gestito, prodotto, registrato e pubblicato i loro dischi, oltre a
negoziare un contratto di produzione e distribuzione per conto loro. I
Queen videro solo un conflitto di interessi. Nonostante avessero ottenuto
l’inclusione di contratti secondari per definire ogni aspetto del pacchetto,
erano titubanti all’idea che la Trident avrebbe controllato ogni aspetto della
loro carriera. Presero tempo, tentennando per circa otto mesi, durante i
quale non fecero nemmeno un concerto.
«Gli dissi di tenere un profilo basso», spiegò Anthony. «Volevo che si
concentrassero sulla loro musica, per poi tornare e fare concerti più grossi.»
Dato che nessuna delle persone coinvolte ricorda qualcosa, i motivi di
quell’attesa restano incerti. Non ci furono lunghe controversie legali, per cui
forse la band provò, come al solito, a sfruttare l’offerta della Trident per
ottenerne una migliore da un’altra etichetta. Se il loro procrastinare invece
era mirato a procurarsi un accordo migliore con i fratelli Sheffield, non servì
a nulla. Alla fine i Queen firmarono uno pseudo-contratto, anche se
sarebbe trascorso parecchio tempo prima che se ne rendessero davvero
conto.
Per giustizia nei confronti della Trident e dei suoi proprietari va detto
che i fratelli godevano di un’ottima reputazione. Non solo dirigevano uno
dei migliori studi della città, usato regolarmente dagli artisti più importanti
del momento, ma non erano conosciuti per essere scorretti negli affari. Dato
che investivano tempo e denaro nei Queen, ritenevano di avere diritto a un
cospicuo ritorno. Anni dopo, solo Brian avrebbe riconosciuto il loro
contributo al successo dei Queen, il resto del gruppo non ne volle più
sapere.
Come avrebbe dichiarato Freddie, dopo la cessazione dei rapporti con la
Trident: «Per quel che ci riguarda, il nostro vecchio management è morto.
Per noi non esiste più, in alcun modo […] E ci sentiamo parecchio
sollevati!»
A tutti gli altri, il contratto sembrò troppo bello per essere vero: i migliori
studi di registrazione del mondo davano a una band esordiente pieno
accesso ai loro impianti. I Queen avrebbero inciso il loro primo album sotto
l’ala protettrice di John Anthony e del suo amico Roy Thomas Baker, il
quale si sarebbe poi incaricato di proporlo alle grandi case discografiche. Ma
l’affare non era così buono come sembrava: la band, già umiliata dal fatto
che nessuna etichetta si era interessata a loro fino ad allora, avrebbe subito
l’oltraggio di poter registrare solo durante i tempi morti, ossia quando gli
studi non erano occupati da clienti paganti come David Bowie o Elton John.
«Ci chiamavano e ci dicevano che Bowie aveva finito con qualche ora di
anticipo, per cui avevamo lo studio dalle tre del mattino fino alle sette,
quando arrivavano le donne della pulizia», raccontò Brian. «Abbiamo anche
avuto qualche giorno completo, ma per la maggior parte era un pezzettino
qui e uno lì…»
Un compromesso che non favoriva certo la creatività. È strano quindi
pensare che proprio durante una di quelle attese i Queen incisero un brano
importante per l’epoca dei Trident e che oggi è diventato un ricercatissimo
pezzo da collezione. Un giorno, mentre aspettavano che si liberasse un
posto, furono invitati dal produttore Robin Cable a registrare due cover, una
di I Can Hear Music (scritta da Phil Spector ed Ellie Greenwich ed entrata
nella Top Ten nel 1969, in una versione dei Beach Boys) e un’altra di Goin’
Back, un brano scritto da Gerry Goffin e Carole King e inizialmente
pubblicato dai Byrds. Freddie cantò, mentre Brian e Roger suonarono e
crearono le armonie. Ricevettero tutti un modesto compenso per il loro
lavoro. Nessuno all’epoca avrebbe potuto immaginare quanto quelle
malfamate registrazioni sarebbero diventate preziose. I tre non firmarono
nulla e ingenuamente rinunciarono a ogni diritto sul prodotto finito. I brani
uscirono l’anno successivo per la EMI, sotto il nome fittizio di Larry Lurex,
un omaggio ironico al famoso cantante glam rock Gary Glitter. Ma la presa
in giro ebbe l’effetto contrario a quello desiderato. Quasi tutti i più
importanti DJ inglesi si offesero per la frecciatina nei confronti del loro
beneamato «leader», come lo chiamavano (questo ovviamente molto prima
che Glitter cadesse in disgrazia in seguito a ripetute condanne per pedofilia),
e il disco fu trasmesso pochissimo atterrando così nei cesti delle offertissime.
Anni dopo sarebbe stato ridistribuito e sarebbe diventato un pezzo
ricercatissimo, come è tutt’ora: può passare di mano solo per grosse somme
di denaro. Oramai ricchi e abituati a muoversi nello spietato mondo della
musica, i Queen avrebbero infine acquisito i diritti di quelle incisioni.
All’epoca però ingoiarono il rospo e continuarono a lavorare al loro
primo album, ma senza Anthony. Il produttore, che durante il giorno
registrava con Al Stewart e la notte con i Queen, una sera stramazzò a terra.
Il medico diagnosticò la mononucleosi, che causa affaticamento cronico.
Anthony sparì per un lungo periodo di riposo in Grecia e lasciò i Queen
nelle mani esperte di Baker.
Ex apprendista fonico della Decca, Baker era passato alla Trident nel
1969, dove aveva già collaborato alla produzione di successi come All Right
Now dei Free e Get It On dei T. Rex. Aveva anche lavorato con i Rolling
Stones, Frank Zappa, Eric Clapton, Nazareth, Dusty Springfield e
Lindisfarne, dunque era uno dei produttori più rispettati dell’epoca. Il suo
rapporto con i Queen, però, non fu semplice e alla fine l’album risultò privo
di forma. Tornato dalla Grecia, Anthony lo ascoltò e lo definì
«schizofrenico».
«Quindi io, Freddie e Brian lo remixammo quasi per intero… Volevo che
fosse [un album] con le palle, e che avesse l’energia dei loro concerti», disse
Anthony.
La messa a punto del disco esaurì tutti. Un fonico coinvolto nel progetto
osservò a proposito di Freddie: «Era esasperante lavorare con una superstar
nata». Poi Baker e Anthony cominciarono a fare il giro delle varie case
discografiche, ma nessuno voleva saperne dei Queen. I due erano
sconcertati. Una delle critiche più comuni era che la band suonava troppo
come gli Yes e i Led Zeppelin, anche se tutti quelli che avevano lavorato
all’album concordavano sul fatto che il loro suono era senza eguali. I Queen
non trovarono un’etichetta pronta a stampare il loro album e a distribuirlo.
Andò meglio con i diritti di pubblicazione, per i quali ottennero un
contratto con B. Feldman & Co. I fratelli Sheffield, nel frattempo, avevano
tirato a bordo un energico dirigente dell’industria, Jack Nelson, un
americano, per aiutare i Queen a ottenere un contratto e un manager.
Entusiasta per quel che ascoltò in studio e perplesso per la mancanza di
interesse delle grandi label, Nelson decise di gestire la band personalmente.
«Mi ci volle più di un anno per concludere un contratto per i Queen; non li
voleva nessuno», racconta. «Voglio dire, proprio nessuno. Non ti faccio
nomi, ma loro sanno benissimo chi sono, uno per uno.»
Nelson rimase molto colpito dal talento della band. «I Queen mi
ricordavano l’assetto dei Beatles. Ognuno di loro era diversissimo dall’altro,
erano come i quattro estremi di una bussola. Freddie componeva alle
tastiere e proveniva da una formazione classica; una personalità davvero
complessa, ma piena di talento. Brian era un vero chitarrista rock, ed era
quella l’influenza che portava alla band; pieno di talento anche lui; con la
testa tra le nuvole ma determinato; aveva una laurea in astronomia
dell’infrarosso. John era il bassista; portava solidità al gruppo, come fanno i
bassisti; li radicava; aveva una laurea a pieni voti in elettronica. Roger, il
batterista, aveva due lauree. Probabilmente erano i musicisti più colti in
circolazione. Con personalità totalmente diverse. A volte magari arrivavamo
in aeroporto e uno si fermava, uno andava a sinistra, uno a destra e uno
dritto davanti a sé. Ma insieme erano una forza creativa enorme. Quando si
incontravano, al centro, con le quattro voci sovrapposte, l’effetto era
incredibile.»
Ognuno di loro era primus inter pares. Nessuno era il capobranco.
Troppo intelligenti per coalizzarsi contro gli altri, Freddie e Roger
condividevano una certa complicità in termini di amicizia, sebbene Roger
abbia in seguito dichiarato di avere avuto più cose in comune con Brian agli
inizi.
«Non siamo sempre andati d’accordo, ma abbiamo capito di avere
bisogno l’uno dell’altro», disse alla rivista Q nel marzo 2011.
«Brian è il mio migliore amico, ma ero anche molto vicino a Freddie. Noi
due eravamo i ‘mascalzoni’ del gruppo.»
Brian prendeva tutto con molta serietà; era paziente, introspettivo,
caparbio e restio a cedere il controllo.
«Interagivamo in maniera abbastanza complessa, su diversi livelli», spiegò
sempre a Q. «È per questo che funzionava, tutto sommato. Per certi versi
ero molto vicino a Roger, perché avevamo già suonato insieme. Eravamo
come fratelli, lo siamo tuttora. Eravamo in perfetta sintonia per quel che
riguardava le nostre aspirazioni e i nostri gusti musicali, ma chiaramente
eravamo anche molto distanti su parecchie altre cose. Come tutti i fratelli ci
amavamo e ci odiavamo al tempo stesso... In un certo senso ero molto
vicino a Freddie, in particolare quando si trattava di comporre. Mi è sempre
piaciuto fare le voci sui pezzi di Freddie, guidarlo in una certa direzione.»
Su cosa vertevano i disaccordi con Roger?
«Su qualsiasi cosa. Qualunque dettaglio legato alla nostra musica.
Eravamo capaci di discutere per giorni interi su una singola nota.»
John interveniva poco, ma contribuiva molto, in particolare curando gli
interessi finanziari della band. Ci sarebbero voluti anni, però, perché i
malumori legati ai diritti d’autore si dissipassero. Chiunque firmava un dato
brano (inclusi quelli per il lato B dei singoli) riceveva tutti i diritti d’autore.
Le dispute cessarono solo quando tutti e quattro concordarono di attribuire
i pezzi al gruppo nel suo insieme, in modo da spartire i guadagni in modo
equo. E a quel punto si chiesero perché non ci avessero pensato prima.
Secondo Freddie quella fu una delle migliori decisioni prese dai Queen.
Non solo era il metodo più democratico, ma stroncava qualsiasi conflitto sul
nascere. Molti gruppi si sono sciolti e molte amicizie sono state rovinate per i
malumori legati ai diritti d’autore, come scoprì a sue spese un vecchio amico
di Freddie, Tony Hadley. Nel 1999, lui e altri due membri della sua vecchia
band, gli Spandau Ballet, John Keeble e Steve Norman, fecero causa al
principale compositore del gruppo, Gary Kemp, per ottenere la loro parte di
diritti d’autore sui successi passati. Persero e non parlarono più al loro
compagno per dieci anni, anche se alla fine, nel 2009, accantonarono le
differenze e si riunirono per un grande ritorno sulle scene.
Ciascun membro dei Queen contribuiva a modo suo, completando gli
altri. Erano tutti ottimi musicisti. Sebbene Freddie e Brian siano considerati
i principali autori della canzoni del gruppo, con stili talvolta apparentemente
contraddittori, anche Roger e John composero alcuni grandi successi della
band, un fatto davvero insolito per un gruppo rock. Freddie scrisse
Bohemian Rhapsody, Killer Queen, Somebody to Love e We Are the
Champions, fra gli altri; Brian Tie Your Mother Down, We Will Rock You,
Hammer to Fall e Who Wants to Live Forever; Roger Radio Ga Ga, One
Vision, A Kind of Magic e These Are the Days of Our Lives; e John You’re My
Best Friend, I Want to Break Free e Another One Bites the Dust.
«La maggior parte delle band sono composte da un leader e dal suo
accompagnamento», commenta Doherty. «Non ci sono molti gruppi che
salgono sul palco e ti fanno esclamare quattro volte ‘wow!’.»
«Freddie e Brian si completavano a vicenda», spiega Gambaccini. «Non si
sovrapponevano, per cui non c’erano problemi di gelosia; c’era solo
ammirazione. Inoltre si sollevavano a vicenda da una fetta di responsabilità.
Brian non era uno showman, non come Freddie almeno, per cui gli andava
benissimo che Freddie lo fosse. A lui piaceva salire sul palco e fare la sua
parte, lasciando che Freddie si occupasse del resto. Al tempo stesso, non se
ne stava lì a pensare Sono un dio della chitarra. Si concentrava sulla musica
ed era davvero uno spettacolo vederlo suonare. Era contento che Freddie,
Roger e John avessero anche loro composto delle hit. Prova a paragonare i
Queen a un gruppo come i Bread, dove David Gates ha composto tutti
successi della band, mentre i brani degli altri non sono andati altrettanto
bene, e a furia di litigare hanno finito per sciogliersi. Nei Queen invece,
Brian era contentissimo che le canzoni di Freddie avessero successo. Questo
produceva album equilibrati, e già in questo senso [i Queen] erano dei
geni.»
Nel novembre del 1972, dopo avere firmato il contratto con la Trident, la
band tenne un concerto per gli addetti ai lavori al Pheasantry, un locale di
tendenza sulla King’s Road, dove in seguito Bob Geldof avrebbe organizzato
la sua campagna del Live Aid e che al momento della stesura di questo libro
è diventato una filiale di Pizza Express. Tutti i conoscenti della band si
diedero da fare per contattare chiunque potessero nell’industria
discografica, chiedendo favori, prendendo a prestito indirizzari, rubando
numeri di telefono. Nonostante tutti questi sforzi, però, la partecipazione fu
scarsa e lo show deludente. L’attrezzatura non funzionò a dovere, la band
suonò male… insomma successe di tutto. E in sala non c’era neanche un
talent scout.
Cinque giorni prima di Natale, i Queen suonarono nel famoso Marquee
Club di Soho, in Wardour Street, che aveva ospitato uno dei primi concerti
dei Rolling Stones, nel luglio 1962 (nella sua sede precedente in Oxford
Street), e che aveva visto esibirsi i più grandi artisti del momento: gli
Yardbirds, gli Who e Jimi Hendrix. Fu un concerto migliore della disastrosa
apparizione al Pheasantry, ma non produsse nulla che somigliasse a un
contratto. Poi ci fu un barlume di speranza sotto forma di Jac Holzman,
amministratore delegato dell’Elektra, un’etichetta americana. Holzman
aveva ricevuto un nastro con tutto l’album dei Queen da Jack Nelson.
«Lo ascoltai prima sullo stereo, poi in cuffia», ricorda. «Era stato
registrato e suonato alla perfezione. C’era tutto: era come se mi fosse
atterrato sulla scrivania un diamante tagliato perfettamente. Fui subito
catturato. Keep Yourself Alive, Liar, The Night Comes Down… tutte canzoni
bellissime e con una produzione magnifica, come un gelato purissimo
rovesciato su una vera base rock’n’roll. Volevo i Queen.»
Dopo interminabili negoziati, Nelson riuscì a portare l’americano a un
concerto della band al Marquee. «Presi un aereo per Londra», ricorda
Holzman. «Vidi il concerto che Jack aveva organizzato e rimasi terribilmente
deluso. Sul palco non vidi nulla che eguagliasse l’energia di ciò che avevo
sentito sui nastri. Ma la musica era tutta lì. Scrissi ai Queen una lunga
lettera, quattro o cinque pagine fittissime, piena di osservazioni e
suggerimenti.»
È vero che in quel momento lo stile di Freddie sul palco era ancora
abbozzato e non per tutti. Forse Holzman si aspettava un’immagine più
rock’n’roll e virile, non certo body leopardati, stole di piume e scarpette da
ballerina. A prima vista le pose e gli atteggiamenti vanitosi di Freddie
contrastavano con l’immagine che Holzman si era fatto della band
ascoltando l’album. I Queen non rappresentavano la loro musica come se li
era immaginati.
Poco dopo, tuttavia, ci ripensò e cominciò a vedere ciò che aveva sentito.
È vero, quei ragazzi erano diversi e fuori di testa, ma iniziavano a piacergli.
Accettò di scritturarli per gli USA. Nonostante stessero per condividere una
rinomata etichetta americana con i Doors, però, i Queen erano ancora
scoperti per il mercato inglese. Rimaneva loro solo l’insoddisfacente
contratto con la Trident.
9
EMI

Keep Yourself Alive è un brano che rappresenta alla perfezione


l’essenza dei Queen in quel periodo.

FREDDIE MERCURY

Mi vengono in mente solo due artisti che ti davano subito


l’impressione di essere delle star, fin dal primo momento che li
incontravi. Uno era Phil Lynott, l’altro era Freddie.

TONY BRAINSBY , addetto stampa dei Queen

NONOSTANTE tutte le frustrazioni che ne avevano preceduto la nascita,


l’album di debutto dei Queen, completato nel gennaio 1973, era un
capolavoro. Il mese successivo, la band registrò una puntata per il
programma radiofonico di John Peel. Anche quello era un traguardo in sé,
dato che in quei tempi non era praticamente mai successo che Radio 1
invitasse nei suoi studi un gruppo senza contratto. I Queen ebbero un
ulteriore colpo di fortuna quando la B. Feldman & Co fu acquisita dalla
EMI Music Publishing, perciò all’improvviso si trovarono automaticamente
sotto contratto con una major. Fu un ulteriore passo verso l’avverarsi del
loro sogno.

«Negli anni Settanta la EMI era la casa discografica più importante di


tutte», ricorda Allan James detto «Jamesie», ex dirigente della promozione
della EMI e uno dei più famosi promotori nel campo. Jamesie, che i suoi
artisti chiamavano «l’uomo in nero», negli anni ha seguito artisti del calibro
di Elton John, Alice Cooper, Rick Wakeman, Kim Wilde, Eurythmics e
innumerevoli altri.
«La Warner e la CBS erano americane», osserva.
«La Pye, la Decca e le altre etichette inglesi erano delle nullità. La EMI di
Manchester Square era l’industria discografica. Funzionava anche da filtro
per tutte le etichette alternative americane dell’epoca, come la Capitol e la
Motown. La EMI aveva messo sotto contratto i Beatles, aveva prodotto i
maggiori successi della musica leggera e aveva nella sua scuderia tutti i
principali artisti, da Vera Lynn a Cliff Richard. In quegli anni era la più
grande etichetta discografica del mondo e i Queen sognavano di entrarvi.
«Il presidente, Sir Joseph Lockwood – l’unico ‘Sir’ dell’industria allora –
era una specie di spaventapasseri estremamente effeminato e Freddie lo
idolatrava. Non avrebbe potuto trovare un padrone migliore di ‘Sir Joe’. E
infatti sembravano fatti con lo stampino, avevano un sacco di cose in
comune. La megalomania, tanto per cominciare: ogni volta che Sir Joe
entrava nella reception della EMI con il suo entourage, c’era sempre un
ascensore che lo aspettava per portarlo dritto al suo attico personale.
«Poi c’erano i coniugi East.
«Ken East era l’amministratore delegato della EMI negli anni Settanta.
Era un australiano grande e grosso, e spudorato, che aveva lavorato come
camionista prima di entrare nell’industria. Sua moglie Dolly prima aveva
lavorato nelle pubbliche relazioni e per molti versi aveva continuato a farlo
anche dopo. Era una donna imponente, un personaggio irresistibile alla
Mama Cass. Ken adorava gli artisti e fu uno dei primi a scendere dalla torre
d’avorio per mischiarsi con loro. La EMI era piena di froci, per cui Ken e
Dolly bazzicavano anche quell’ambiente.
«Andavamo a cena fuori con Cliff Richard e combinavamo guai nei club
di Soho. Era un periodo epico, pieno di fantasia. Ovvio che Freddie
desiderasse entrare in quel mondo. Accidenti se era fantastico. E perché mai
la EMI non avrebbe voluto avere i Queen? Sembravano fatti apposta per lei.
Perché? Perché erano diversi e intelligenti, e avevano un atteggiamento
creativo. Erano in sintonia con lo spirito del tempo, ascoltavano i gusti del
pubblico, cercavano di anticiparli e svilupparli. Sapevano esattamente quel
che facevano, proprio come la EMI.»
All’epoca, il capo della divisione A&R, il funzionario dell’etichetta che
doveva decidere se accettare o no i Queen, era Joop Visser, che Steve
Harley, l’ex leader dei Cockney Rebel, ricorda come «un adorabile
olandesone».
«Joop era quello che aveva scoperto le tre band migliori dell’epoca e che
se le era assicurate tutte e tre allo stesso tempo», sostiene Harley. «La prima
erano i Queen. La seconda i Pilot, il gruppo degli ex Bay City Rollers Dave
Paton e Billy Lyall (morto per una complicazione legata all’AIDS nel 1989).
La terza, ovvio, eravamo noi. Joop scritturò i Cockney Rebel per tre album
senza clausole di recessione. Neanche un singolo con l’opzione di scaricarci
se non fosse andato bene. Un genere di contratto che oggi non esiste più.
Joop era uno che faceva sul serio. Ha dato il via alla mia carriera e mi ha
cambiato la vita.
«Avevo ventidue anni ed ero arrogante e presuntuoso. Grazie a Dio ho
avuto a che fare con Joop: chiunque altro mi avrebbe preso a calci prima o
poi. Joop era uno da cui andavi a chiedere consigli.
«Ero uno spirito indipendente, una specie di giocatore d’azzardo,
irrequieto, spavaldo. Ma non si offendeva mai. Lo adoravo con tutto il
cuore. Può darsi che io abbia fatto degli errori che i Queen invece hanno
evitato, perché sono stati più furbi. Io e Freddie avevamo in comune un
debole per la teatralità. Nulla a che fare con il glam rock: quella era
un’etichetta inutile per un gruppo come il mio o come quello di Freddie. Il
fatto è che i Queen di Freddie Mercury sarebbero stati teatrali in qualsiasi
epoca. Non avevano bisogno dell’etichetta ‘glam rock’ per confermare e
contestualizzare il loro stile.»
Fu il fotografo Mick Rock a stimolare la propensione per la spettacolarità
in artisti come Freddie, Bowie e Harley stesso. «Spingendola ai massimi
livelli», prosegue Harley. «Mick era un catalizzatore, sempre indaffarato a
mettere in contatto le persone fra di loro. Ricordo che una volta portò Mick
Ronson [il compianto chitarrista degli Spiders from Mars di Bowie, dei Mott
the Hoople, di Van Morrison e di molti altri gruppi] a casa mia, nella zona
di Edgware Road, dicendo che dovevamo assolutamente conoscerci perché
saremmo diventati subito amicissimi. Cosa che effettivamente successe. I
musicisti lo adoravano. Lo volevano lì con loro nel fronte-palco, per gli scatti
panoramici. Mick era un musicista senza esserlo.
«Mick mi fotografò ovunque e fece anche un lavoro magnifico con i
Queen. Lui mi capiva, così come capiva Freddie. Incoraggiava la nostra
creatività. Noi, come i Queen, volevamo scuotere l’industria dalle
fondamenta. Nel profondo del cuore sono un cantante folk, anche se
all’epoca non volevo ammetterlo: fanculo Woodstock. Truccarsi e fare la
checca in giro era la cosa ‘in’ di quegli anni. So che anche Freddie la pensava
così, perché ne abbiamo parlato più di una volta a cena, giù al Legends. So
pure che i Queen adoravano Joop tanto quanto lo amavo io, specialmente
Freddie.»
Ma non era stato amore a prima vista. Joop Visser stava cercando un
gruppo per colmare il vuoto lasciato da Ian Gillan quando questi aveva
abbandonato i Deep Purple dopo l’estenuante tour mondiale di «Machine
Head». All’inizio, però, non rimase particolarmente colpito dai Queen.
Anche lui andò a vederli dal vivo al Marquee il 20 dicembre 1972, ma la
performance lo lasciò indifferente. Quando poi Visser andò a trovarli in sala
prove, il suo giudizio fu della serie: «Embè?» Avrebbe poi confessato che le
«personalità» della band l’avevano «lasciato freddo». C’era ancora molto
lavoro da fare.
Tuttavia, dopo un altro concerto per gli addetti ai lavori (sempre al
Marquee, il 9 aprile 1973) e dopo tre mesi di complicate contrattazioni con
la Trident, durante le quali quest’ultima riuscì a strappare le condizioni
migliori, l’indomito Visser scritturò i Queen per la EMI. Per la band il
risultato compensava ampiamente l’agonia dell’attesa. E infatti i Queen
sarebbero rimasti alla EMI per tutta la loro carriera, o quasi (l’avrebbero
abbandonata solo trentotto anni dopo, alla fine del 2010).
Il loro primo singolo ufficiale, Keep Yourself Alive, uscì il 6 luglio 1973.
Era il brano che apriva l’album del debutto ed era stato scritto da Brian
May. Ma non bastò. La campagna pubblicitaria fu liquidata dalla stampa
come una «montatura» e, per quanto oggi possa apparire abbastanza
normale, all’epoca fu accolta come opportunistica e di cattivo gusto. La
frustrazione di Freddie raggiunse i massimi livelli, perché a suo avviso i
Queen avevano tutti i numeri per riuscire. Rifiutato cinque volte dai
palinsesti dell’emittente nazionale Radio 1 e in assenza di un’alternativa
commerciale (le radio private sarebbero nate anni dopo), il singolo non
entrò nemmeno in classifica. Fu la prima e ultima volta nella carriera dei
Queen che accadde una cosa del genere. L’unico DJ a passarlo fu Alan
«Fluff» Freeman, descritto da John Peel come «il più grande disc jockey
duro e puro di tutti i tempi», creatore di molte espressioni poi entrate in
voga. Freeman (oggi scomparso) trasmise il singolo sul suo programma Rock
Show, in onda il sabato pomeriggio.
La EMI non si scoraggiò e ingranò la quinta. Senza dubbio, in quegli anni
la migliore visibilità per una band era un passaggio su The Old Grey Whistle
Test (OGWT), il programma musicale di culto della BBC presentato dal DJ
Bob Harris. La trasmissione andò in onda per sedici anni, mentre i
programmi equiparabili di oggi raramente sopravvivono alla seconda serie.
Il nome del programma (letteralmente «il test del fischiettio dei vecchi
grigi») derivava da un’antica espressione della prima industria discografica
americana, quella conosciuta come «Tin Pan Alley». Quando i nuovi dischi
arrivavano sulle loro scrivanie, i dirigenti li facevano sentire ai «vecchi grigi»,
cioè ai loro portieri, che indossavano una divisa grigia. Questi avevano
l’abitudine di fischiettare i motivi più accattivanti dopo un unico ascolto, per
cui si diceva che quei pezzi avevano passato «il test del fischiettio dei vecchi
grigi». Al contrario di Top of the Pops, il programma settimanale della BBC
che presentava le hit della classifica, OGWT si occupava solo di album.
Un white label (un disco promozionale con l’etichetta bianca) dell’album
dei Queen fu spedito alla produzione di OGWT. Il mittente però si era
dimenticato di scriverci sopra il nome della band e della casa discografica.
Nessuno sapeva da dove arrivasse quel disco, né chi fosse il gruppo.
«All’epoca molti album di una certa consistenza provenivano dagli Stati
Uniti», ricorda Mike Appleton, produttore del programma. «Quindi molte
band non potevano venire nel nostro studio a esibirsi dal vivo. Per questo
avevo cominciato a trasmettere i brani dei loro album accompagnati da
immagini montate apposta dal geniale Phil Jenkinson. Secondo molti, quella
nostra idea ha poi portato all’invenzione del video musicale. E con il senno
di poi, posso aggiungere che [il video] fu un vero disastro per l’industria
della musica, perché sottrasse denaro e importanza alle esibizioni dal vivo.
Diversi locali dovettero chiudere e i programmi televisivi dedicati al rock
finirono per somigliarsi tutti.»
Creare immagini che accompagnassero le canzoni, tuttavia, era un’attività
molto piacevole.
«Gli appassionati di musica cominciarono a sintonizzarsi sul nostro
programma solo per quello», concorda Appleton. «Fra gli artisti che
comparivano regolarmente nella trasmissione c’erano Little Feat, ZZ Top, JJ
Cale, il primo Springsteen, Lynyrd Skynyrd: avrei potuto passare la loro
Freebird ogni settimana ed essere comunque inondato da richieste; era il
brano più popolare di tutti all’epoca. Usavamo immagini diversissime:
cartoni animati, film astratti, pezzi sperimentali, di tutto. Funzionava
benissimo. Un giorno presi in mano quel white label che si trovava sulla mia
scrivania e notai che mancava il nome della band e dell’etichetta. Avrei
potuto benissimo ignorare l’album o buttarlo direttamente nel cestino, ma
caso volle che lo misi sul giradischi, senza sapere che si trattava del debutto
dei Queen.»
Appleton rimase così colpito da quel che udì che decise di trasmettere
Keep Yourself Alive nella puntata della settimana successiva.
«Feci un po’ di telefonate per scoprire da chi venisse di quel disco.
Nessuno sapeva niente. Alla fine lo diedi a Phil e gli dissi: ‘Mettiamolo su.
Diremo in trasmissione che non sappiamo di chi diavolo si tratta né da dove
diavolo viene, ma se c’è qualcuno là fuori che lo sa, che ci telefoni’. Phil ci
aggiunse degli spezzoni di cartoni animati in bianco e nero di un treno
argenteo e affusolato con il volto di F.D. Roosevelt, che attraversava
l’America alla velocità della luce; era un filmato usato durante una
campagna elettorale degli anni Trenta. Il giorno successivo, la EMI ci
chiamò per dirci che la nostra band misteriosa erano i Queen. Decidemmo
di annunciare la notizia nella puntata successiva, ma gli spettatori ci
batterono sul tempo: ricevemmo una valanga di richieste di persone
entusiaste; una reazione davvero fuori dal comune.»
L’album uscì il 13 luglio 1973, per pura coincidenza esattamente dodici
anni prima della trionfale esibizione dei Queen al Live Aid. La stampa
musicale non lo accolse con favore. La maggior parte dei critici usò toni
quanto meno sprezzanti. Alcuni lo detestarono, in particolare il critico del
New Musical Express Nick Kent, che lo descrisse come «un secchio di
urina», dando così inizio a una lunga faida fra i Queen e lo stimato
settimanale. Almeno il pubblico, però, cominciò ad ascoltarli. L’album restò
in classifica per diciassette settimane, raggiungendo la posizione numero
ventiquattro e diventando disco d’oro. Dopo un ulteriore passaggio su Radio
1 – anche se gli altezzosi selezionatori musicali continuavano a ignorarli – la
Trident mandò i Queen agli studi cinematografici di Shepperton per
sviluppare nuovi brani e provare quelli vecchi. Fu in questo periodo che la
band girò il suo primo videoclip: da poco la Trident si era infatti ingrandita
nel campo della produzione di filmati musicali, creando un’altra consociata,
la Trillion. Il video per promuovere Keep Yourself Alive e Liar fu diretto da
Mike Mansfield, futuro produttore e regista di successo nel campo.
«Il video promozionale, allora ancora allo stadio embrionale, sarebbe
diventato uno strumento indispensabile nella promozione di un disco e ben
presto le case discografiche avrebbero speso migliaia di sterline per
ingaggiare i registi migliori, girare in location esotiche e riempire i loro
prodotti di sbalorditivi effetti speciali; tutto pur di spingere i loro artisti in
alto nelle classifiche», spiega Scott Millaney, produttore di alcuni dei video
più rappresentativi nella storia della musica pop, fra cui Video Killed the
Radio Star dei Buggles (il primo videoclip a essere trasmesso da MTV nel
1981), Ashes to Ashes di David Bowie e I Want to Break Free dei Queen. In
tutto, la sua casa di produzione, la MGMM, avrebbe creato dieci video per i
Queen.
«L’industria dei video promozionali, con tutti i suoi trucchi e le sue
tecniche speciali, ha finito per esaurirsi da sola», ammette Millaney. «E a
quel punto l’industria discografica si è ricordata dell’elemento umano, e
l’intero ciclo è ricominciato da capo. Ma negli anni Settanta il video era
ancora una novità entusiasmante e ha favorito moltissimo la carriera di
decine di artisti, alcuni dei quali avevano ben poco talento per giustificare
tutto il cancan.»
Secondo Millaney, per avere successo un video promozionale si deve
fondare su tre elementi essenziali: la musica e il testo della canzone, la
performance «dal vivo» dell’artista e un’immagine che lo distingua da tutti
gli altri. Quando il miscuglio di questi tre ingredienti è corretto, un unico
passaggio in televisione può lanciare un disco e affermare un artista più di
qualsiasi numero di passaggi radiofonici. Di conseguenza, presto molti artisti
abbandonarono del tutto il circuito dei concerti, perché avevano capito che
con il video potevano dare una parvenza di perfezione, un risultato che
nessuno spettacolo dal vivo avrebbe mai potuto eguagliare.
«L’aspetto negativo della faccenda è che girare un videoclip è un’impresa
impegnativa e faticosa», osserva Millaney.
«Le riprese cominciano spesso all’alba e a volte finiscono a notte fonda. È
una tabella di marcia massacrante per gli artisti, e alla fine la fatica mostra il
conto. Non c’è dubbio che le case di produzione come la nostra abbiano
trasformato il video non solo in un’industria indipendente, ma in una forma
d’arte. E l’abbiamo affinata al punto che eravamo nella posizione di dire alle
case discografiche: Dovete pagare una fortuna se volete il meglio.
Collaboravo con i migliori creativi del mondo. Eravamo noi a fissare lo
standard del settore e lavoravamo già due anni prima della nascita di MTV,
che con il suo avvento cambiò tutto.»
La prima esperienza dei Queen con il nuovo medium non fu molto
incoraggiante. La band non era a suo agio negli studi e sorsero alcuni
contrasti con Mansfield, che liquidò quasi tutti i loro suggerimenti artistici
come «roba da principianti», preferendo seguire le sue idee «di esperto».
Freddie in particolare pensava che Mansfield non avesse capito la loro
musica e che il suo lavoro fosse già superato, prevedibile e «presuntuoso». Il
risultato finale fu definito inutilizzabile e di conseguenza scartato. Quando
si trattò di girare il video per Liar, i Queen si rifiutarono di lavorare ancora
con Mansfield. Avevano capito che l’unico modo per ottenere ciò che
volevano era di farlo da soli e quindi unirono le loro forze a quelle di Bruce
Gowers, un tecnico dei Brewer Street Studios di Londra, per creare qualcosa
che fosse «in sintonia con l’immagine che la band voleva dare di sé». Quel
video, oramai una rarità, è stato il primo a essere usato per promuovere i
Queen, sebbene a quei tempi ci fossero pochi programmi televisivi in cui
mostrarlo, per cui non è stato visto da molti, come recita il libretto che
accompagna il DVD «Queen Greatest Video Hits 1». Liar era un brano
scritto da Freddie e non uscì mai come singolo nel Regno Unito, solo in
Nord America e in una veste abbreviata. La versione che compare nel DVD
non era mai stata distribuita prima.
L’esperienza insegnò ai quattro che solo se mantenevano il controllo
completo del proprio lavoro potevano rilassarsi abbastanza per correre
qualche rischio dal punto di vista creativo. Questo sarebbe diventato il
modello operativo di tutta la loro carriera.
«Non direi che avevano la mania del controllo», affermò il loro primo
addetto stampa, Tony Brainsby, nel 1996, quattro anni prima di morire.
«Ma sapevano sempre quel che volevano e non scendevano quasi mai a
compromessi, né si accontentavano facilmente. Avevano le idee chiare, per
cui in genere era inutile cercare di convincerli ad accettare qualcos’altro.»
Brainsby fu ingaggiato dalla Trident a un prezzo esorbitante per costruire
l’immagine pubblica dei Queen. Il PR viveva come una star ed era molto
rinomato nella scena musicale. Girava per Londra a bordo di una Rolls-
Royce, era magrissimo, allampanato e occhialuto, e di solito portava una
giacca nera con il collo alla coreana, pantaloni a tubo e stivaletti Chelsea.
Era esattamente il genere di portavoce con cui Freddie poteva trovarsi in
sintonia. Oltre ad avere l’indispensabile look eccentrico anni Sessanta,
Brainsby vantava ottime credenziali rock. Da giovane aveva condiviso un
appartamento a Soho con Eric Clapton e Brian Jones dei Rolling Stones. La
sua rubrica sulla rivista Boyfriend lo portava a partecipare regolarmente alle
prove della trasmissione televisiva Ready Steady Go!, cosa che poi lo ispirò a
lanciare la sua agenzia di pubbliche relazioni. Quando incontrò i Queen,
Brainsby era il PR più ambito di Londra. Fra i suoi clienti vantava i
principali artisti dell’epoca, da Cat Stevens ai Thin Lizzy, dai Mott the
Hoople ai Strawbs. Mick Rock, il fotografo delle band e suo grande amico,
gli aveva fatto il servizio del matrimonio.
Brainsby dirigeva il suo impero da una grande dimora assai disordinata
in Edith Grove, fra Fulham Road e la King’s Road, zeppa di ragazze, piante
morte e televisori. Quelli di noi che sono ancora vivi, ricordano tutt’oggi le
feste in quella casa: se ne riemergeva solo dopo diversi giorni.
«I Queen mi vennero proposti da loro manager americano, Jack Nelson»,
ricordò Brainsby.
«Non era da me accettare gruppi relativamente sconosciuti, ma i Queen
erano diversi. Ricordo che andai a vederli all’Imperial College. Non c’era un
palco, solo una pista da ballo. C’era Freddie che dava spettacolo con una
mantellina bianca e il suo atteggiamento impudente. Quella performance
era molto lontana da quello che sarebbero diventati in seguito, ma di certo
Freddie aveva già tutta la sua presenza scenica.»
In generale ciò che colpiva Brainsby dei Queen era che Freddie non
cercava di accaparrarsi tutta la gloria.
«Quel che trovavo encomiabile era che i Queen non provavano mai a
presentarsi come ‘Freddie Mercury e la sua band’. Erano un vero gruppo e
Freddie non tentava mai di proporsi come il loro leader. Per quel che
vedevo, i rapporti fra di loro erano perlopiù armoniosi. Erano diversi dagli
altri musicisti rock, perché erano tutti molto intelligenti. Potevi sentirti
persino inadeguato in loro presenza.»
All’inizio, ammise Brainsby, c’era la tendenza a utilizzare Freddie più di
Brian, Roger o John per le interviste.
«Poi imparai ad assicurarmi che tutti ricevessero la stessa esposizione. Più
avanti, Freddie venne riservato alle interviste più importanti. Poi ci
mandammo Brian, che raccontava sempre la storia di come avesse costruito
la sua chitarra usando un vecchio caminetto. Era facile promuoverli e
finirono sulle riviste musicali più serie. Roger, che era il pinup del gruppo,
andava bene per le riviste da adolescenti, come Jackie e 19. Era bellissimo.
Almeno i Queen non facevano i preziosi con la stampa, e meno male, dato
che molti giornalisti non erano interessati a chiacchierare con loro. Devo
dire però che erano abbastanza pignoli per le fotografie. Volevano
approvarle una per una prima che potessi distribuirle. Freddie era il più
suscettibile. Il problema erano i suoi denti. Era un tale perfezionista... tipico
di quelli della vergine. Aveva persino creato uno stemma per la band, che
raggruppava tutti i loro segni zodiacali.»
Tutto ciò sarebbe stato ripreso dalla parodia di una band heavy metal,
creata da Rob Reiner e immortalata nel 1984 con il falso documentario This
Is Spinal Tap.
Per quanto Brainsby fosse uno di mondo, rimase subito affascinato da
Freddie. «Aveva molte piccole manie ‘stilose’ che lo rendevano memorabile.
Per esempio si metteva lo smalto nero sulle unghie di una mano sola, la
destra o la sinistra, oppure solo su un mignolo. Riempiva le frasi di ‘tesoro!’
oppure ‘miei cari!’ e i suoi modi effeminati erano molto divertenti e
accattivanti. Era bellissimo stargli vicino. Non ti annoiavi. Le ragazze lo
adoravano quando veniva in ufficio.
«All’epoca viveva con Mary, chiaramente. All’inizio la sua vita sessuale
era un autentico mistero per noi, non riuscivamo a decifrarla. Di certo lui
non ne parlava mai.»
Non che Brainsby frequentasse i membri della band o fosse diventato
loro confidente.
«Mi è sempre piaciuto tenere una certa distanza con i clienti. Pensare che
siano i tuoi migliori amici è il più grande errore che puoi fare nel mio
campo. Finiscono per prenderti per il culo. Gli artisti sono dei rompicoglioni
se gli stai troppo vicino. Lasciavo quel compito alle ragazze dell’ufficio. Era
per quello che le pagavo.»
Il rock’n’roll, concluse Brainsby, parlando a nome di tutti, «è un business
incostante, instabile, emotivo e pieno di persone egocentriche. Proprio come
le star. Prova a lavorarci tanto quanto ci ho lavorato io e non ti sorprenderà
più vedere che ogni singolo musicista è paranoico ed eccentrico. È il
business che li fa diventare così.»
Freddie si salvava perché era sì eccentrico, ma simpatico.
«Lo ammiravo moltissimo», disse Brainsby. «Era pieno di creatività, non
solo nella sua immaginazione, ma per davvero. E sapeva di esserlo, anche se
all’epoca aveva... ventisette anni, mi pare. Voglio dire, [i Queen] erano
abbastanza vecchi per un gruppo rock esordiente, no? Quanto dev’essere
stato frustrante sapere di avere tutte le qualità necessarie per sfondare,
provarci in ogni modo e non riuscirci per così tanto tempo.»
Freddie dava l’impressione di essere stato consapevole delle proprie
capacità fin dall’infanzia.
«Aveva un bisogno disperato di trovare uno sfogo per la sua creatività. Il
successo dev’essere stato un sollievo enorme per lui. C’era stato un periodo
in cui aveva combattuto con le unghie e con i denti per ottenere quel che
voleva, il che normalmente non tira fuori il lato migliore nelle persone...
Battersi, lottare e gridare per fare colpo e conquistarsi un posto sono tutte
cose che hanno conseguenze negative sulla personalità. Quando lo conobbi,
Freddie era arrivato proprio a quel punto.»
Il più ricercato PR di Londra non era l’unico ad avere un lavoro difficile.
10
Giovanotti

Magari sembrerà che abbiamo affrontato la nostra carriera in


modo scientifico e calcolato, ma i nostri ego volevano solo il
meglio. Ho sempre pensato che fossimo una grande band.
Suona molto presuntuoso, lo so, ma è così.

FREDDIE MERCURY

La cosa che distingueva i Queen dagli altri gruppi rock è che


loro scrivevano canzoni con l’intenzione di farne dei grandi
successi. Puoi anche essere il musicista più bravo del mondo,
ma è difficilissimo comporre un gioiello di tre minuti e mezzo e
fare in modo poi che il mondo intero lo canticchi. Se ne sei
capace e in più sai suonare bene, hai vinto. È questo il segreto
del loro successo.

JAMES NISBET, chitarrista e session man

AGOSTO 1973. I Queen tornarono nei Trident Studios per incidere il


secondo album.
Grazie agli incessanti sforzi di Tony Brainsby per promuovere la loro
immagine, questa volta ebbero il permesso di usare gli studi come qualsiasi
altro cliente pagante: poterono persino registrare durante il giorno, se lo
desideravano.
Il 13 settembre andarono al Golders Green Hippodrome e parteciparono
a un’importante trasmissione radiofonica per la BBC. Ricorda Jeff Griffin,
produttore dell’emittente britannica: «Registrammo la prima sessione dal
vivo dei Queen per In Concert di Alan Black [il laconico DJ scozzese, oltre
che fumettista e animatore di Yellow Submarine, oggi scomparso]. I Queen
non suonarono per un’ora intera. Avevo fatto venire [il cantautore] Peter
Skellern come spalla. Oggi devo ammettere che era un abbinamento strano.
I Queen erano tranquilli, solo Freddie mostrò qualche segno di nervosismo.
Era normale, dato che non aveva fatto molte cose dal vivo all’epoca. Lo
spettacolo andò bene e generò molto interesse per la band».
Quello stesso mese, l’Elektra lanciò il primo album del gruppo negli Stati
Uniti. Dopo l’accoglienza tiepida del Regno Unito, però, i Queen non si
aspettavano molto. Fu una piacevole sorpresa quindi, quando appresero che
i DJ americani li avevano definiti «un nuovo, entusiasmante talento inglese»
e avevano cominciato a trasmettere il loro album. Un’ondata di richieste
fece volare il disco in alto nella classifica americana, dove raggiunse quota
ottantatré: niente male per una band sconosciuta. Il successo non passò
inosservato. Brainsby aveva già presentato i Queen a un’altra grande band
presente nella sua rosa di clienti, gli irrefrenabili Mott the Hoople, capitanati
dall’ironico Ian Hunter. Nonostante un nutrito seguito di fedelissimi nei
concerti, le vendite discografiche dei Mott erano deludenti, e verso il 1972 i
membri della band avevano deciso di sciogliersi. Erano stati però
incoraggiati a proseguire da David Bowie che li aveva portati sotto l’ala
protettrice del suo management. Avevano firmato un nuovo contratto con
la CBS Records (poi Sony) e lo stesso Bowie aveva scritto e prodotto il loro
più grande successo: All the Young Dudes («Tutti i giovanotti»). Nel 1973, i
Mott avevano sfornato altri singoli che si erano piazzati fra i primi venti in
classica, tra cui All the Way From Memphis e Roll Away the Stone. Da
questo successo era nato un grande tour inglese di venti date, che sarebbe
cominciato il 12 novembre nella sala municipale di Leeds e che si sarebbe
concluso all’Hammersmith Odeon di Londra poco prima di Natale. Grazie
alla presentazione di Brainsby, per non parlare del compenso (in quei tempi
stava appena diventando accettabile che una band pagasse per partecipare
alla tournée di un’altra), i Queen divennero il gruppo spalla dei Mott. Il 1º
novembre 1973, al Kursaal di Southend-on-Sea (il primo parco a tema del
mondo, che anticipò persino Coney Island a New York), Freddie, Brian e
Roger fecero da coristi per i Mott su All the Young Dudes.
Nel 1964 fu fondata la pionieristica Radio Caroline, un’emittente
indipendente che trasmetteva senza licenza da una nave ancorata in acque
internazionali al largo delle coste inglesi. Nata per sfidare il monopolio delle
case discografiche e della BBC sulla trasmissione di brani musicali nel Regno
Unito, la radio lanciò la carriera di diversi DJ come Tony Blackburn, Mike
Read, Dave Lee Travis, Johnnie Walker ed Emperor Rosko. Il successo
dell’emittente fu stroncato dal governo inglese nel 1967, con una legge su
misura che bandì i pirati dell’etere e che svegliò la BBC dal suo letargo,
spingendola a creare una nuova «stazione per gli adolescenti», Radio 1,
lanciata proprio da Tony Blackburn. Radio Caroline sarebbe rinata più
avanti, ma nel frattempo, mentre Radio 1 muoveva i primi passi, una nuova
emittente balzò alla ribalta: Radio Luxembourg.
Il DJ David Jensen detto «Kid» iniziò a lavorare per la radio del
granducato nel 1968, quando aveva appena diciotto anni. La sua
trasmissione notturna Kid Jensen’s Dimensions, in onda fra la mezzanotte e
le tre del mattino, divenne una delle più seguite, attirando un ampio seguito
di ammiratori, fra cui anche il futuro primo ministro inglese Tony Blair.
Jensen incontrò i Queen per la prima volta nell’ottobre del 1973, durante
un tour promozionale organizzato dalla EMI. Oltre che in Francia,
Germania, Olanda e Belgio, infatti, la band si esibì anche in Lussemburgo,
in un concerto organizzato proprio da Kid.
«Dal 1968 al 1973, Radio Luxembourg era l’unico ‘posto serio’ in Europa
dove potevi ascoltare musica rock e pop», spiega Jensen.
«In quei giorni Radio 1 finiva le trasmissioni abbastanza presto la sera;
poi si fermava anche Radio 2. A quel punto molti ascoltatori cambiavano
stazione per sintonizzarsi sulle nostre frequenze. Noi ci concentravamo sulla
musica cosiddetta ‘progressiva’. Facevamo tendenza e tutti gli artisti
dell’epoca volevano passare da noi. Una sera incontrai la fidanzata di Jimi
Hendrix a una festa, dopo che lui era già morto, e mi disse che Jimi adorava
il mio programma. ‘Tornavamo dalle feste e ti ascoltavamo’, mi disse.
«I Queen mi hanno colpito subito, fin dall’inizio. Keep Yourself Alive è
stato il primo brano che ho ascoltato. Avevo sempre avuto un debole per le
chitarre, ma quel pezzo era diverso. Era così… energico. I Queen avevano
tutto: John, il bassista tranquillo e affidabile; Brian, il brillante chitarrista;
Roger, l’incredibile batterista, che si godeva al massimo la vita da rockstar; e
poi Freddie Mercury, il grande showman, forse il più grande di tutti.
Nonostante avessero inciso un album con una tecnica perfetta e innovativa,
erano stati respinti dalle radio. Sapevo che non li avevano passati su Radio
1. Quando mi dissero che sarebbero venuti qui per un tour promozionale,
organizzai un concertino al Blow Up Club, in centro, che aveva una capienza
di circa duecento persone.
«Per fortuna i proprietari del club si fidavano di me, sapevano che gli
portavo solo le band migliori, per cui mi diedero carta bianca. Il pubblico
era composto soprattutto da ragazzini sui vent’anni. Quella sera c’era un
programma variegato: i Queen suonarono insieme con altri importanti
gruppi rock: Status Quo, Wishbone Ash, Grateful Dead e Canned Heat.
Radio Luxembourg voleva registrare il concerto per trasmetterlo più avanti,
ma l’attrezzatura non funzionò a dovere, per cui purtroppo non esiste
alcuna registrazione di quella serata. I Queen erano sicuri di sé e fecero
parecchio rumore. Erano già una tacca sopra tutti gli altri, persino in quei
primi tempi.
«Dopo lo spettacolo andai nella camera di Freddie con il loro promotore
discografico, Eric ‘Monster’ Hall, e tirammo tardi, parlando di tutto. Freddie
era molto simpatico e gli piaceva chiacchierare; davvero un perfetto
anfitrione. Non creava mai problemi.
«Mi piacevano a livello umano. Scrissi un pezzo su di loro per il Record
Mirror. I Queen andavano contro i gusti musicali di alcuni critici, che infatti
non li amavano per niente, ma io li ammiravo proprio per questo. Non
erano una band solo ‘sesso, droga e rock’n’ roll’, anche se facevano tutte
queste cose. Erano circondati da una certa atmosfera intellettuale. Credo
che ognuno di loro avrebbe potuto avere successo in qualsiasi campo. Sono
molto grato ai Queen perché hanno aiutato me e il mio programma a
crescere. Ho trasmesso i loro brani durante le notti di Radio Luxembourg e
questo ha contribuito ad aumentare la mia popolarità.»
Anche la popolarità della band era in costante crescita e durante
l’apertura dei concerti per i Mott the Hoople i fan li accolsero
calorosamente. Finalmente Freddie ottenne quel che aveva sempre
desiderato: un pubblico incoraggiante, una folla in visibilio che gli chiedeva
di cantare. Le recensioni della stampa musicale, invece, continuarono a
essere perlopiù negative; l’opinione generale era che i Queen fossero un po’
come i «vestiti dell’imperatore».
«Che se ne vadano affanculo, tesoro, se non ci capiscono», rispose
Freddie a un Brainsby allibito.
L’agente, che spesso doveva sobbarcarsi la collera e la frustrazione del
suo cliente di fronte alle recensioni negative, non poté fare a meno di notare
che l’adorazione dei fan stava avendo un impatto cruciale sul cantante.
«Nonostante le critiche sulla stampa, Freddie era sempre più sicuro di sé,
ma vedevo che non gli piaceva fare le interviste. Dopo un po’ smettemmo di
usarlo del tutto, tranne quando si trattava di promuovere un album o un
tour. Quella sua elusività calcolata lo faceva apparire più misterioso, cosa
che chiaramente gli piaceva.»
Così la pensava Freddie all’epoca: «Credo che siamo un bersaglio facile
[per la stampa] perché siamo diventati famosi più in fretta di molte altre
band», disse, interpretando il passato in chiave revisionista e dimenticandosi
quanto avesse faticato a emergere dopo anni di delusioni e frustrazioni. Ma
forse il suo atteggiamento era comprensibile proprio perché aveva sofferto
tanto per sfondare.
«Il mese scorso siamo stati la band più discussa», proseguì, «perciò è
inevitabile... Sarebbe sbagliato se ricevessimo solo critiche positive, ma mi dà
fastidio leggere recensioni ingiuste e disoneste, dove vedi che gli autori non
hanno fatto il loro lavoro come si deve.»
Denis O’Regan, il premiato fotografo che iniziò a lavorare nel mondo del
rock ritraendo David Bowie all’Hammersmith Odeon con una macchina
fotografica prestatagli dallo zio, e che in futuro sarebbe andato in tournée
con i Queen come fotografo ufficiale, nel 1973 andò a vedere il concerto dei
Mott, sempre all’Odeon, e restò allibito per «la pretenziosità e la sicurezza di
sé» del cantante del gruppo spalla.
«Freddie gesticolava e si metteva in posa, persino allora, quando era solo
il cantante della band di supporto», ricorda. «Diceva qualche parola fra un
brano e l’altro, per introdurli. Brian May era fantastico. Non li avevo mai
sentiti prima. A quei tempi era normale ascoltare anche la band di supporto,
oltre che quella principale. Mi girai verso il mio amico George Bodnar [in
futuro anche lui un nome importante nell’ambito della fotografia musicale]
e dissi: ‘Ma chi si crede di essere quel cretino?’ Chiaramente la risposta mi
arrivò un anno dopo, quando i Queen divennero famosi in tutto il mondo.
In realtà iniziai a seguirli davvero solo dopo che li ascoltai alla trasmissione
di John Peel. Da allora sono sempre stato un loro fan.»
«A mio avviso», osserva Joop Visser, «fu solo dopo il tour con i Mott the
Hoople che i Queen iniziarono a esibirsi bene, e voglio dire tragicamente
bene. Verso la fine del tour, infatti, i Mott tremavano: i Queen gli stavano
rubando la scena.»
Nel frattempo, le recensioni migliorarono. «Atmosfera elettrica.» «Band
sensazionale.» I Queen conclusero la loro svolta aprendo un concerto dei
10cc a Liverpool.
Quando gli domandarono di commentare quello che era cominciato
come il tour dei Mott, ma che era finito per essere quello dei Queen,
Freddie rispose: «Suonare con i Mott era una grande opportunità, ma
sapevo benissimo che alla fine del tour non avremmo mai più fatto da spalla
a nessuno, almeno non in Inghilterra».

Oramai la EMI non riusciva più a gestire la valanga di lettere dei fan dei
Queen, né le pressanti richieste di fotografie, quindi tentò di demandare la
responsabilità alla Trident, ma anche questa non poteva o non voleva farlo.
C’era un solo modo per risolvere il problema. Alla fine del 1973 nacque un
fan club ufficiale, gestito da due vecchi amici di Roger dai tempi della
Cornovaglia: Sue e Pat Johnstone. Il fan club ha cambiato mano nel corso
degli anni, tuttavia ha sempre potuto vantare un rapporto privilegiato con la
band. Non solo esiste tutt’oggi, ma ogni anno organizza un raduno che
attira ancora un grosso numero di fan.
Dato che le vendite dell’album andavano molto bene, la EMI si
concentrò sulla campagna pubblicitaria internazionale. Nel gennaio del
1974 fu organizzato un tour in Australia. Poco prima di partire, la band
sfiorò il disastro, quando Brian sviluppò una cancrena al braccio a seguito di
una vaccinazione, così grave che si temette l’amputazione. Per fortuna il
chitarrista guarì e il viaggio poté procedere. Poi però toccò a Freddie.
Durante il volo per Sydney, fu assalito per la prima volta dalla paura di
volare ed ebbe quasi una crisi di panico. Il suo nervosismo era acuito da una
dolorosa otite, che l’aveva reso temporaneamente sordo. Freddie avrebbe
odiato gli aerei per il resto della vita. Il viaggio sembrava iellato fin
dall’inizio. Né Freddie né Brian erano in forma e i concerti in Australia non
furono granché.
Almeno in patria le cose andavano meglio. In un sondaggio fra i lettori
del New Musical Express, i Queen si classificarono secondi nella sezione
nuovi arrivi, senza avere mai avuto nemmeno una hit in patria. In America,
l’Elektra distribuì un secondo brano tratto dal primo album, che però cadde
nel vuoto. La EMI non si perse d’animo e mise in programma l’uscita di un
nuovo singolo. Il 21 febbraio 1974, inoltre, si liberò un posto all’ultimo
minuto su Top of the Pops (perché il promo del nuovo singolo di David
Bowie, Rebel Rebel non era pronto) e i Queen furono trasportati di corsa
negli studi della BBC per cantare Seven Seas of Rhye in playback, prima
ancora che il singolo uscisse sul mercato.
«Ricordo Freddie che correva lungo Oxford Street per vedere la sua
apparizione in tv nella vetrina di un negozio di elettrodomestici, perché
all’epoca non aveva ancora la televisione», racconta Brainsby.
Il singolo uscì in fretta e furia la settimana stessa. La fortuna continuò a
girare dalla parte della band. Il secondo album, «Queen II», era oramai
pronto e i quattro si prepararono ad affrontare il primo tour del Regno
Unito da protagonisti. Il giro sarebbe iniziato a Blackpool il 1º marzo per
concludersi quattro settimane dopo al Rainbow Theatre di Londra.
L’edificio, che sorge all’angolo fra Isledon Road e Seven Sisters Road, era
nato negli anni Trenta come cinema ed è oggi un bene protetto usato da
una chiesa pentecostale. Negli anni era stato un importante locale musicale:
lì nel 1967 Jimi Hendrix aveva dato fuoco alla sua prima chitarra, lì i Beach
Boys avevano registrato il loro album «Live in London», lì avevano suonato
fra gli altri Stevie Wonder, Who, Pink Floyd, Van Morrison, Ramones e
David Bowie.
La band cominciò subito le prove per il tour agli Ealing Studios. Secondo
Brainsby, fu Freddie che ebbe l’idea di chiedere alla giovane stilista Zandra
Rhodes di creare dei costumi appositi per la tournée, dopo avere visto gli
abiti che questa aveva disegnato per Marc Bolan. Gli altri membri del
gruppo si dissero subito d’accordo. I dirigenti della EMI non tanto, a causa
dell’esorbitante parcella di cinquemila sterline della creativa, sebbene
dovettero poi ammettere che le eccentriche vesti di seta con «ali di
pipistrello» fossero «molto Queen». Fu solo in quel momento che Freddie si
sentì abbastanza sicuro per dire addio al banchetto di Kensington.
Quattro giorni dopo il concerto di Blackpool, Seven Seas of Rhye andò
dritta al numero quarantacinque della classifica britannica. Tre giorni dopo,
uscì «Queen II», che si piazzò al trentacinquesimo posto, fra recensioni
contrastanti. Il tour, però, fu segnato da una serie di incidenti, inclusa una
violenta rissa fra gli studenti dell’università di Stirling, in Scozia, in cui
furono accoltellati due spettatori. Anche se la band riuscì a salvarsi
chiudendosi a chiave nelle cucine, due roadie furono aggrediti e dovettero
essere ricoverati. Lo spettacolo successivo, a Birmingham, fu cancellato, ma
oramai il danno era fatto: i Queen furono di nuovo attaccati dalla stampa
musicale. L’ostilità dei giornalisti continuò anche dopo la data sull’isola di
Man a fine marzo. Nonostante ciò, il gruppo e il suo entourage celebrarono
il tour con nuovi eccessi, alzando gli standard dei loro afterparty, le feste
tenute alla fine degli spettacoli. In un’altra data, invece, prima che la band
salisse sul palco, gli spettatori intonarono l’inno God Save the Queen, un
brano che sarebbe diventato d’obbligo nei concerti della band da quel
momento in poi.
Con «Queen II» al numero sette nella classifica degli album anche le
vendite del precedente LP ripresero a salire, finché entrò per la prima volta
in graduatoria al quarantasettesimo posto. Più o meno nello stesso tempo,
l’Elektra lo distribuì in Giappone, dove fu accolto da recensioni entusiaste.
Ma né la Trident, né la EMI, e nemmeno gli stessi Queen, potevano sapere
quanto la band sarebbe diventata famosa nella terra del Sol Levante.
Il successo, però, ha un prezzo. Freddie era sempre più irascibile, perdeva
le staffe al minimo contrattempo, e Brian cominciò a perdere la sua
proverbiale pazienza. I loro litigi logoravano tutti e di solito finivano con il
cantante che se ne andava stizzito, mentre i rimanenti tre alzavano le spalle:
secondo loro era inutile perder tempo quando avevano tanto lavoro da fare.
Molto più avanti, però, commemorando il quarantesimo anniversario dei
Queen in un’intervista per la rivista Q, Brian e Roger avrebbero entrambi
ricordato Freddie come un paciere: «Credo che sia sbagliato schiacciare
Freddie nel ruolo di primadonna. In realtà era un gran diplomatico e se
c’erano dei disaccordi tra di noi, in genere sapeva come risolverli».
Il senno di poi... una cosa favolosa. Secondo Freddie, invece, i Queen
avevano sempre «litigato su tutto, persino sull’aria che respiravano».
Con il morale sempre più alto grazie al successo del primo tour, i Queen
furono contenti ma non sorpresi quando i Mott the Hoople li invitarono ad
accompagnarli nella loro tournée americana: sarebbe iniziata a Denver in
Colorado e prevedeva diverse date a New York. Nonostante la paura di
volare, il 12 aprile Freddie fu il primo agli imbarchi. La Elektra sfruttò
l’arrivo della band negli Stati Uniti per fare uscire «Queen II» prima del
previsto. I quattro erano galvanizzati dalla prospettiva della loro prima
tournée americana, un traguardo che inseguivano da anni.
La band aveva attirato l’attenzione degli artisti più stravaganti del Paese.
«E noi che pensavamo di essere diversi…» commentò Brian. «Incontrammo
un sacco di artisti eccentrici, persino per i nostri standard. Molti travestiti: i
New York Dolls, Andy Warhol… persone talmente creative da riuscire a
cestinare tutto quel che era successo prima». Ma non fu una passeggiata. La
band sfiorò di nuovo il disastro, a New York, quando Brian collassò perché
non si è ancora ripreso da un’infezione contratta in Australia. La data di
Boston fu annullata e quando al chitarrista fu diagnosticata l’epatite, i
Queen dovettero rinunciare al resto della tournée. La delusione fu enorme
per tutti e il chitarrista si sentì in colpa per avere compromesso il debutto
della band sulle scene americane.
I quattro tornarono a casa e, nonostante Brian fosse ancora debilitato, si
ritirarono negli studi gallesi di Rockfield per cominciare a lavorare al terzo
album. Negli anni Sessanta i Rockfield erano i primi studi di registrazione
che offrivano la possibilità di risiedere sul posto. Negli ultimi quarant’anni
sono stati usati da diversi artisti rinomati, inclusi Mott the Hoople, Black
Sabbath, Motörhead, Simple Minds, Aztec Camera, Manic Street Preachers,
Nigel Kennedy e Darkness (che erano quasi una tribute band dei Queen). I
Queen amarono molto i Rockfield. Il 15 luglio 1974, la band tornò poi ai
Trident Studios, collaborando di nuovo con Baker, che oramai era diventato
il «quinto membro» del gruppo. Le registrazioni, suddivise tra altri studi
londinesi, in particolare Air, Sarm e Wessex, furono interrotte quando Brian
dovette essere di nuovo ricoverato: questa volta per ulcera duodenale.
Un’altra tournée americana, programmata per settembre, fu abbandonata.
Brian sprofondò nella depressione e temette che i Queen avrebbero dovuto
cercarsi un nuovo chitarrista. Un timore inutile: il resto del gruppo continuò
a lavorare senza di lui con l’intenzione di aggiungere i suoi pezzi di chitarra
in un momento successivo.
In compenso, il secondo album raggiunse il disco d’argento dopo avere
venduto oltre centomila copie. Come suo solito, Brainsby organizzò un’abile
montatura pubblicitaria per celebrare l’evento al Café Royal, sotto forma
dell’attraente attrice Jeannette Charles, un’icona della tv britannica che
sovente impersonava la regina Elisabetta. Fu una scelta azzeccata,
specialmente perché i Queen avevano oramai prodotto una personale e
rispettosa versione dell’inno nazionale inglese, da usare in chiusura dei
concerti.
Nell’ottobre del 1974 uscì il terzo singolo della band, Killer Queen,
estratto dall’imminente terzo album, «Sheer Heart Attack».
«Killer Queen parla di una squillo d’alto bordo», spiegò Freddie. «Con
quel pezzo volevo dire che anche le donne dell’alta società possono essere
delle puttane» aggiunse, quasi come si riferisse a se stesso. «È di questo che
parla, anche se preferisco che ognuno la interpreti a modo suo, che ci legga
quel che preferisce. Le persone erano abituate ai nostri pezzi più duri, hard
rock, quella invece era una canzone adatta a Noël Coward. Era un brano da
bombetta e giarrettiere», aggiunse, in omaggio al suo film preferito, Cabaret
con Liza Minnelli. «Non che Noël Coward avrebbe mai indossato cose del
genere!»
«Fu una svolta», osservò in seguito Brian. «Era un pezzo che riassumeva
benissimo il nostro stile musicale e fu un grande successo. Avevamo un
bisogno disperato di un brano che confermasse la nostra popolarità. Non
avevamo un centesimo in tasca, sai, come tutti. Vivevamo in monolocali
minuscoli, proprio come gli altri musicisti.»
Killer Queen arrivò fino al secondo posto in classifica, ma non riuscì a
conquistare la vetta, che era occupata dall’idolo delle donne David Essex
con la sua hit Gonna Make You a Star («Farò di te una stella»). Per uno
scherzo del destino, il successivo tour inglese dei Queen fu promosso da
Mel Bush, grande impresario musicale, che aveva fatto diventare una stella
proprio David Essex! Il tour si prefigurava come il progetto più ambizioso e
complesso dei Queen fino a quel punto. La stampa musicale fu costretta ad
ammettere che quel gruppo, unico nel suo genere, non poteva più essere
ignorato. Non solo «Sheer Heart Attack» era stato accolto da ottime
recensioni, ma adesso in classifica c’erano tutti e tre gli album dei Queen. La
copertina del nuovo disco, un’altra creazione di Mick Rock, segnò una
frattura dall’immagine precedente, quella di «Queen II».
«Deve sembrare come se fossimo stati abbandonati su un’isola deserta»,
disse Freddie a Rock, che lo prese alla lettera. Prima cosparse i quattro di
vaselina, poi li spruzzò di acqua, li fece stendere a terra e li fotografò
dall’alto. I brani del nuovo album sorpresero tanto quanto l’immagine in
copertina, e incontrarono il favore sia della critica sia dei fan.
«Nel 1974 mio padre comprò ‘Sheer Heart Attack’», ricorda Kim Wilde,
figlia del musicista Marty Wilde e cantante di successo negli Ottanta (il suo
primo singolo Kids in America arrivò al numero due in classifica).
«All’epoca avevo quattordici anni ed ero appassionata di musica leggera;
avevo appena cominciato a comprarmi i dischi che volevo. Adoravo Slade,
Sweet, Mud, Elton John e Marc Bolan. Senza dimenticare i Bay City
Rollers... ero giovane!
«‘Sheer Heart Attack’ è uno degli album più entusiasmanti che abbia mai
ascoltato. È stato il primo che ho scaricato con iTunes dopo l’avvento
dell’era virtuale. Adoravo gli acuti di Freddie, le sue armonie vocali e il suo
senso dell’umorismo. Anche la musica di Brian era piena di energia e
passione, ed ero cotta di Roger Taylor. John Deacon era il collante che li
teneva tutti insieme. Che gruppo…»
Alla fine di ottobre, i Queen intrapresero una nuova tournée nel Regno
Unito, che doveva terminare con un’unica serata londinese al Rainbow
Theatre, alla quale però ne vennero aggiunte altre due il 19 e 20 novembre
perché i biglietti per la prima andarono esauriti nel giro di un paio di giorni.
I due concerti furono filmati e registrati per future produzioni. Durante la
festa conclusiva della tournée, tenutasi all’Holiday Inn di Swiss Cottage e
assolutamente decorosa rispetto a quelle future, il promoter Mel Bush donò
al gruppo una targa commemorativa per avere registrato il tutto esaurito in
ogni data della tournée. Fu quindi organizzato il primo tour europeo per la
fine di novembre, che avrebbe toccato i Paesi scandinavi, il Belgio, la
Germania e la Spagna. Le vendite in Europa andavano benissimo e la
maggior parte dei concerti fecero il tutto esaurito. A Barcellona, una città di
cui Freddie si innamorò all’istante e in cui sarebbe poi tornato più volte, i
seimila biglietti del concerto sparirono nel giro di ventiquattr’ore.
A dicembre i Queen decisero che il contratto con la Trident non era più
sostenibile. Sebbene i loro compensi settimanali fossero saliti da venti
sterline a sessanta dopo il successo di «Sheer Heart Attack», si trattava di
somme assolutamente insufficienti per vivere. Oltretutto, nonostante le
ottime previsioni di vendita, la Trident si rifiutava di concedere qualsiasi
anticipo. John Deacon voleva comprarsi una casetta per lui e la fidanzata
Veronica Tetzlaff, che aspettava un bambino, ma la Trident gli negò le
quattromila sterline di caparra. Freddie voleva un nuovo pianoforte e Roger
un’utilitaria. Tutte le loro richieste, però, venivano rigettate di netto. I
rapporti con l’etichetta si fecero così tesi che i Queen decisero di rivolgersi a
un avvocato dell’ambiente per risolvere le controversie. Cominciò così il loro
rapporto con Henry James Beach, detto «Jim», socio dello studio legale
Harbottle & Lewis. Nel 1978, Beach sarebbe diventato il manager dei
Queen, incarico che mantiene tutt’oggi. Gli ci vollero nove mesi per
negoziare l’uscita della band dalla Trident, la quale comprensibilmente
voleva tenersela stretta. Nel frattempo, dato che sia il singolo Killer Queen
sia l’album «Sheer Heart Attack» erano entrati nella Top Ten delle
classifiche statunitensi, i Queen erano pronti per affrontare la loro prima
grande tournée americana.
Il 18 gennaio 1975 John sposò Veronica, con la quale avrebbe poi avuto
sei figli. Il 5 febbraio, la band partì per l’America. Anche questa volta,
nonostante il sostegno dell’etichetta americana, il tour fu segnato da diversi
contrattempi e da alcune critiche ostili, in cui i Queen furono paragonati
negativamente ai Led Zeppelin. Per la prima volta Freddie ebbe dei
problemi con la voce, a causa di alcuni presunti (o confermati, a seconda
delle diagnosi) noduli benigni alla gola. I medici gli ordinarono di stare zitto
per tre mesi (addirittura!), ma la sera successiva, Freddie cantò a
squarciagola a Washington. A causa della sua salute altalenante, però, la
band fu costretta a cancellare parecchie date. Era evidente che Freddie stava
esagerando e che le sue esibizioni erano troppo stressanti per la sua
costituzione e per le sue corde vocali. Doveva assolutamente prendersi un
periodo di riposo per recuperare le forze, ma sarebbe passato molto tempo
prima che lo facesse.
In America i Queen sfiorarono un’altra potenziale catastrofe. Fra una
data e l’altra accettarono di incontrare il terribile Harry Levy alias Don
Arden (ex cantante e attore inglese di vaudeville, un tempo di stanza a
Brixton) con l’idea di assumerlo come manager se fosse riuscito a tirarli
fuori dal debilitate contratto con la Trident. Probabilmente erano disperati.
Arden, famoso per avere progettato le carriere di Small Faces, ELO e Black
Sabbath, era soprannominato «il padrino inglese» per i suoi metodi illeciti
nel condurre gli affari. Era risaputo che non esitava a ricorrere alla violenza
quando le cose non andavano come voleva lui. Leggenda vuole che abbia
persino fatto penzolare certi artisti fuori della finestra tenendoli per i piedi
pur di convincerli a firmare un contratto. Quando la figlia Sharon sposò il
leader dei Black Sabbath, Arden divenne il suocero di Ozzy Osbourne. Se si
pensa che i Queen rischiarono di finire sotto il controllo dell’«Al Capone del
rock», oggi scomparso, c’è da chiedersi se sarebbero sopravvissuti così a
lungo.
11
Rhapsody

Bohemian Rhapsody era una cosa che volevo fare da tempo, a


dire la verità. Non ci avevo dato troppo peso negli album
precedenti, ma quando siamo arrivati al quarto, sapevo che
l’avrei fatta.

FREDDIE MERCURY

Bohemian Rhapsody è stato un brano innovativo sotto molti


aspetti; non è mai apparso superato. È questa la caratteristica
che distingue i pezzi fondamentali della storia della musica,
come I’m Not in Love dei 10cc: un’altra canzone che ha
superato i confini della produzione musicale e che oggi è ancora
fresca come una rosa. Good Vibrations dei Beach Boys: puoi
metterla su adesso ed è ancora fantastica come la prima volta
che l’hai ascoltata. Be My Baby di Phil Spector: appena senti
quell’attacco ti viene voglia di ballare... il segno distintivo di
una grande produzione è che resiste alla prova del tempo. Tutti
i grandi dischi cominciano con un grande brano, ma non è
possibile separare il brano dalla produzione. Per certi versi è la
produzione quella che ti riecheggia in testa, anche se poi ascolti
la canzone dal vivo.

STEVE LEVINE , produttore discografico

I QUEEN non erano pronti per la «Beatlemania», che li attendeva a Tokyo


nell’aprile del 1975. Più di tremila fan isterici si accalcarono nella sala degli
arrivi all’aeroporto internazionale di Haneda, molti impugnando i dischi
della band o alcuni striscioni improvvisati. «Sheer Heart Attack» e Killer
Queen erano in vetta alle classifiche del Paese e ogni singola data del tour
era esaurita da tempo, perciò i Queen avrebbero dovuto aspettarsi un eroico
benvenuto di quel genere. E probabilmente se l’aspettavano, almeno
Freddie, che si mostrò perfettamente all’altezza della situazione, sorridendo
e salutando i fan. Con sarcasmo, un giornalista ipotizzò che Freddie si
sentisse a suo agio in Giappone perché non doveva nascondere i denti, dato
che molti dei suoi fan nipponici avevano «sorrisi» altrettanto esagerati.
Scherzi a parte, non solo Freddie prese in simpatia i fan giapponesi, ma
venne contagiato subito anche dal loro Paese. D’altronde che cosa c’era di
meglio di quella terra antica e remota per riaccendere il suo amore per
l’esotico, mai del tutto sopito? Freddie rimase affascinato da tutto ciò che
era giapponese: la storia, la tradizione e la cultura, così come lo stile di vita
moderno e tecnologico. Divenne un fervido collezionista di porcellane,
dipinti e altre opere d’arte giapponesi.
Freddie e il Giappone avevano molto in comune. Proprio come lui, il
Paese era un groviglio di contraddizioni, con una personalità complessa,
curiosa e sfaccettata. Alle sue orecchie i nomi delle diverse isole
dell’arcipelago riecheggiavano come un incantesimo: Hokkaido, Honshu,
Kyushu, Shikoku. Era attratto dal popolo giapponese, gentile e
imperturbabile, sopravvissuto a secoli di dominio feudale e risorto con
estrema tranquillità dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Corse
dappertutto, assorbendo ogni dettaglio con avidità. Mangiò sushi e bevve
sakè, comprò bamboline, kimono di seta e scatole laccate. Frequentò i
malfamati bagni pubblici e le kage-me-jaya («case da tè appartate
nell’ombra», rese popolari dai soldati americani) e le immancabili geishe, di
tutti e due i tipi. Divenne amico di Akihiro Miwa, la bellissima drag queen
che aveva prodotto un suo cabaret nel quartiere di Ginza (l’equivalente
giapponese di Pigalle a Parigi o di Soho a Londra). Dopo la sua prima visita,
Miwa (che oggi, a settantacinque anni, si mostra ancora con una cascata di
capelli biondi), iniziò a interpretare le canzoni dei Queen in onore del suo
nuovo amico. «L’unico posto in cui Freddie si è comportato come un turista
è il Giappone», ricorda il suo assistente personale Peter Freestone. «Era
appassionato del Giappone e di tutto quel che era giapponese, mentre le
altre località in cui è stato erano solo un posto fra tanti.»
Il concerto di apertura e quello di chiusura del tour giapponese si
tennero alla grande arena Nippon Budokan di Tokyo e furono
indimenticabili. Nemmeno le guardie grosse come lottatori di sumo
riuscirono a contenere la valanga di ragazzine isteriche, oltre diecimila. A un
certo punto Freddie fu costretto a interrompere lo spettacolo di debutto per
implorare gli spettatori perché, per il loro stesso bene, si calmassero e
facessero un profondo respiro. In ogni altra città in cui si esibirono la scena
si ripeté.

Al ritorno nel Regno Unito li aspettavano buone e cattive notizie.


Finalmente la volubile stampa britannica li acclamava, dopo che avevano
vinto un premio Ivor Novello e un Leone d’oro belga per Killer Queen, ma
la burrascosa questione con la Trident non era ancora stata risolta. I fratelli
Sheffield avevano investito oltre duecentomila sterline nei Queen; «Sheer
Heart Attack» era costato da solo trentamila sterline, una bazzecola rispetto
ai costi odierni, ma una cifra esorbitante all’epoca. Ora che avevano
cominciato ad avere successo, i Queen si aspettavano di guadagnare
finalmente qualcosa, ma con sgomento scoprirono di essere indebitati con la
Trident fino al collo. Non sopportavano l’idea di essere ancora squattrinati,
mentre tutti pensavano che ce l’avevano fatta. L’unica possibilità che
avevano era rimettersi al lavoro e produrre un nuovo album. La situazione
generò parecchie tensioni, che i quattro iniziarono a scaricare l’uno
sull’altro, alimentando le voci di un imminente scioglimento. Per fortuna
queste dicerie furono sufficienti a farli ragionare e a spingerli a raggiungere
una tregua. In fin dei conti, erano tutti sulla stessa barca. Poi arrivarono a
un accordo con la Trident, che accettò di liberarli dagli obblighi contrattuali
in cambio di una compensazione una tantum di centomila sterline, più l’un
percento dei diritti d’autore sui loro sei album successivi. Non che i Queen
avessero le risorse per liquidare i fratelli Sheffield, ma almeno erano liberi di
firmare un nuovo contratto con la EMI nel Regno Unito e l’Elektra negli
USA. Se la sarebbero cavata, con un piccolo aiuto dei loro amici.

L’agosto del 1975 li vide provare i brani per il quarto album, «A Night at
the Opera», in una dimora in affitto nell’Herefordshire. Il titolo era tratto da
una commedia dei fratelli Marx (Una notte all’Opera) che loro adoravano.
Poi si trasferirono ai Rockfield Studios, che sarebbero quindi diventati
leggendari per avere ospitato la seduta di registrazione della traccia di fondo
di Bohemian Rhapsody. Quando Freddie propose l’idea per il brano agli
altri, ricordò Brian, «sembrava che ce l’avesse già tutto in mente».
Il pezzo era un’impresa epica e comprendeva un’introduzione a cappella,
una sequenza strumentale di pianoforte, chitarra, basso e batteria, un
interludio pseudolirico e un finale rock. Sembrava presentare problemi
tecnici insormontabili.
«Non avevamo idea di come [Freddie] intendesse legare tutti quei pezzi
insieme», raccontò Brian.
La canzone portava in vita una serie di personaggi oscuri: Scaramouche,
una maschera della commedia dell’arte; l’astronomo Galileo; Figaro, il
protagonista del Barbiere di Siviglia e delle Nozze di Figaro di Beaumarchais,
un testo dal quale furono tratte opere di Paisiello, Rossini e Mozart;
Belzebù, che il Nuovo Testamento identifica con Satana, principe dei
demoni, ma che anticamente era definito il «signore delle mosche» oppure
il «signore delle dimore celesti». Dall’arabo c’era il termine «bismillah»,
tratto da un versetto del Corano: «bismi-llahi r-rahmani r-rahiim», che
significa «in nome di Dio clemente, misericordioso».
Nel 1986, durante una festa nella sua suite a Budapest, esposi a Freddie
la mia teoria su questi personaggi di Bohemian Rhapsody. Scaramouche era
Freddie, vero? L’avevo intuito dal suo ritorno al tema del pagliaccio triste
nel brano It’s a Hard Life. Galileo Galilei, astronomo, matematico e fisico
del Cinquecento, nonché padre della scienza moderna, era evidentemente
Brian. Belzebù era altrettanto chiaramente Roger, il festaiolo del gruppo,
con un diavolo in serbo («a devil put aside») per il suo amico. Il mio
ragionamento si faceva un po’ forzato per il riferimento a John, «il timido»,
che vedevo rappresentato da Figaro, ma non tanto il personaggio lirico,
quanto il gattino bianconero della Disney che compare nel Pinocchio del
1940. In fin dei conti, Freddie adorava i gatti. Forse mi sbagliavo, ma come
diceva Freddie, ogni ipotesi era concessa. Lui non aveva mai spiegato a
nessuno il significato di Bohemian Raphsody, e aveva persino dichiarato al
suo amico DJ Kenny Everett che il testo era solo «un insieme casuale e
insensato di riferimenti in rima». Perché mai avrebbe dovuto svelarlo a me?
Non mi aspettavo che lo facesse e infatti si limitò a fissarmi con un sorrisetto
enigmatico.
La registrazione del brano, che pareva non avere mai fine, stancò tutti i
presenti, anche per le ripetute sovraincisioni di cantato sul nastro.
«La gente la ricorda come una registrazione leggendaria», disse Brian,
«ma se mettevi il nastro controluce quasi ci vedevi attraverso! Ogni volta che
Freddie aggiungeva un altro ‘Galileo’, ne perdevamo un pezzo.»
Agli studi Sarm East e Scorpio di Londra, cominciò poi un lungo processo
di sovraincisione, non privo di incidenti, come ricordò Robert Lee, artista e
amico della band.
«Avevo appena cominciato a registrare con Levinsky e Sinclair [un duo
scritturato dalla Charisma di Tony Stratton-Smith e conosciuto grazie al
Kenny Everett Show]», ricordò Lee, che oggi cura il sito ufficiale degli Who.
«Freddie era amico di un mio coinquilino e di solito il venerdì mattina
andavamo in cerca di pezzi di antiquariato al mercato di Portobello. Aveva
un gusto impeccabile: ho ancora due stampe cinesi che mi ha convinto a
comprare mentre cercavo un regalo per mia madre... me le sono riprese
dopo che è morta.
«John Sinclair [che oggi è diventato un rabbino e abita a Gerusalemme]
era il proprietario dei Sarm Studios in fondo a Brick Lane. C’era anche sua
sorella Jill, che Dio la benedica.» (Jill sarebbe poi rimasta vittima di un
tragico incidente.)
«C’erano i Queen che mixavano Bohemian Rhapsody. Roy Thomas Baker
al timone. Freddie & company al mixer. Era un megamix di ventiquattro
piste, con bobine di lavoro [con submix di tracce su cui sovraincidere],
premix e prove di mixaggio. Per cui moltissimi fader dovevano essere
accuratamente regolati in tempo reale, ed era davvero difficile. Passarono
ore e ore cercando di trovare il giusto mixaggio, ma senza riuscirci. Poi,
miracolo, eccolo lì. Tutto che si incastrava alla perfezione. C’erano riusciti,
erano quasi alla fine. Erano tutti tesi per la troppa adrenalina, ma felicissimi.
Poi, all’improvviso, si spengono le luci... ed entra Jill, con un’enorme torta
piena di candeline e cantando ‘Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti
auguri caro Freddie…’ e dovettero ricominciare tutto da capo!»
«Is this the real life... is this just Battersea» («È questa la vita reale, o è
solo Battersea»), canta Allan James sorridendo. «Bohemian Rhapsody
generò parodie fin dall’inizio: il miglior complimento che potesse ricevere.
Con quel singolo da sei minuti i Queen cambiarono la storia.»
«Quella registrazione è un’autentica opera d’arte», afferma Frank Allen,
bassista dei Searchers, «di gran lunga superiore a quasi tutti i brani prodotti
al tempo. Il modo in cui avevano sovrainciso tutte le parti in un’epoca in cui
c’erano solo apparecchiature analogiche a ventiquattro piste – che erano
tante allora ma che sono pochissime e limitanti oggi – è incredibile.
Bohemian Rhapsody è stato il loro tour de force. Anche ripensandoci adesso
è pazzesco quel che sono riusciti a fare. Ogni nuovo strato di armonie voleva
dire una perdita di qualità del suono. La differenza fra successo e disastro
era minima, ma loro sono riusciti lo stesso a tirar fuori un pezzo geniale.»

Nel 1975, le somiglianze fra Freddie Mercury ed Elton John non erano
subito apparenti. Nessuno poteva certo sapere che sedici anni dopo Elton
sarebbe stato uno degli ultimi a tenere la mano del cantante al suo
capezzale.
I due si erano incontrati di sfuggita verso la fine degli anni Sessanta,
quando Freddie era andato a vedere un concerto del cantante-pianista al
famoso Crawdaddy Club di Richmond, nel Surrey. Il ritrovo era rinomato in
tutto il mondo per avere ospitato i migliori artisti blues americani e per
avere lanciato i Rolling Stones. Fondato dal regista Giorgio Gomelsky verso
la fine del 1962 in un locale all’interno dello Station Hotel, di fronte alla
stazione ferroviaria di Richmond, il club si era poi trasferito nel più ampio
complesso di atletica nella medesima località. Il Crawdaddy aveva ospitato i
primi concerti di Eric Clapton con gli Yardbirds, dei Led Zeppelin e di Rod
Stewart, ed era esattamente il genere di locale in cui Freddie aspirava a
esibirsi. Era forse quello che sognava mentre posava nudo nel corso serale di
disegno dal vero, per dieci sterline la settimana.
Chi li conosceva entrambi, sapeva che Elton e Freddie avevano molti
strani punti in comune. Da piccoli entrambi erano stati molto legati alla
madre; tutti e due erano stati bambini solitari e sensibili, e avevano studiato
il pianoforte fin dalla tenera età. Sia l’uno che l’altro aveva cambiato nome:
Elton da Reginald Kenneth Dwight a Elton Hercules John (e come Freddie,
anche lui aveva scelto il nome di un personaggio mitologico). Anche la
strada di Elton verso il successo era stata lunga e tortuosa, e segnata da
ostacoli. Entrambi avevano avuto difficoltà ad accettare il proprio aspetto e
avevano adottato un look eccentrico (nel caso di Elton, occhiali con
montature bizzarre, scarpe con le zeppe, abiti piumati e sfrangiati) per
nascondere la loro presunta bruttezza. Tutti e due erano confusi, a dir poco,
sulla loro sessualità.
Secondo James Saez, proprio la sessualità era la chiave della creatività di
entrambi.
«Negli anni Settanta cosa poteva esserci di più conflittuale dal punto di
vista psicologico, che l’essere omosessuale e cercare di mettersi a nudo
senza… be’, mettersi a nudo?» domanda.
«Mi sembra abbastanza plausibile che Elton abbia creato il suo
personaggio, con quei costumi stravaganti e i gesti teatrali, proprio per
gestire quel dilemma interiore e al tempo stesso aprirsi al mondo. Presumo
che ‘Farrokh’ avesse un problema simile. La cosa che mi ha sempre colpito
di lui era che, per quanto apparisse forte e carismatico, in un certo qual
modo era anche fragile, quasi sprovveduto.»
Nella vita di Elton, come in quella di Freddie, c’erano state delle
fidanzate e anche quella che al mondo esterno era apparsa come una
relazione convenzionale. Si dice che la fonica tedesca Renate Blauel sia
tuttora addolorata dal fallimento del suo breve matrimonio con Elton nel
1984. Il cantante ha dichiarato di essere gay nel 1988 e nel 2005 ha
contratto un’unione civile con il regista David Furnish; la coppia ha avuto
anche un figlio, Zachary Jackson Levon Furnish-John, nato da una madre
surrogata il giorno di Natale del 2010.
Freddie ed Elton divennero amici e svilupparono le rispettive personalità
in parallelo. Con il passare degli anni divennero sempre più dipendenti
l’uno dall’altro.
«Elton è un tipo tosto, vero?» osservò Freddie. «Lo adoro. Secondo me è
favoloso. Per me è come una di quelle grandi attrici hollywoodiane, quelle
che valevano ancora qualcosa. È stato un pioniere del rock’n’roll. Fin dalla
prima volta che lo conobbi era magnifico, il genere di persona con cui vai
subito d’accordo. Mi disse che gli era piaciuta Killer Queen, e chiunque dica
una cosa del genere finisce subito sul mio ‘libro bianco’. Il mio ‘libro nero’ è
pieno da scoppiare!»
Tuttavia presto sarebbe emersa un’affinità più tragica fra i due cantanti.
Come affermò uno psicoanalista riferendosi a Elton in Tantrums and
Tiaras, il documentario per la televisione diretto dal compagno David
Furnish: «È un tossicodipendente nato; con una personalità ossessivo-
compulsiva. Se non è l’alcol, è la droga, se non la droga il cibo, se non il cibo
le relazioni e se non le relazioni lo shopping. E sai cosa ti dico? Credo che
[Elton] sia dipendente da tutte e cinque le cose». Un terribile verdetto che
Elton non smentì. E il suo coraggio per avere accettato che fosse trasmesso
in televisione fu ricompensato da un’enorme impennata di popolarità. Elton
era lo specchio di ciò che Freddie divenne verso la metà degli anni Ottanta,
quando il peso della fama e degli eccessi a essa legati cominciarono a farsi
sentire sempre di più.

Nel 1975, però, la cosa più importante che i due avevano in comune era
un esuberante giovanotto di origini scozzesi: John Reid.
Originario di Paisley, a soli ventisei anni Reid era diventato un potente
magnate della musica e sedeva al vertice di un’azienda che valeva quaranta
milioni di sterline; un traguardo che aveva raggiunto per vie traverse. La sua
vita professionale, infatti, era iniziata in un negozio di abbigliamento per
uomo, dove aveva lavorato come commesso. Poi era entrato nell’industria
musicale cominciando dal basso, come promotore discografico.
Estremamente ambizioso, aveva fatto rapidamente carriera coltivando
diverse amicizie importanti e a soli ventun anni era diventato il manager di
Elton John, nonché suo amante e convivente per circa cinque anni. Reid era
un altro incerto sulla propria sessualità: nel 1976 infatti, anche se solo per
un breve periodo, e si fidanzò con Sarah Forbes, una giovanissima
pubblicitaria che lavorava negli uffici della sua Rocket Records. Sarah è figlia
del regista Bryan Forbes e dell’attrice Nanette Newman. È sopravissuta alla
separazione e ha poi sposato l’attore John Standing (alias Sir John Ronald
Leon Standing, quarto baronetto di Bletchley Park). Il rapporto
professionale di Reid con Elton durò invece ventotto anni, ma terminò fra
astio e recriminazioni. Nel 2000 il cantante diede inizio a una battaglia
legale multimiliardaria contro il suo ex manager, sostenendo che questi
aveva gestito male i suoi interessi.
Sempre nel 1975, Elton si unì a un altro scozzese che tentava di farsi un
nome: Rod Stewart. I due decisero di coprodurre un album per Long John
Baldry, con cui avevano collaborato in precedenza: volevano ravvivare la sua
carriera oramai in declino. Fu durante le sedute di registrazione per
quell’LP che iniziarono a darsi soprannomi femminili, riprendendo una
vecchia abitudine del teatro. Elton fu ribattezzato «Sharon Cavendish», un
nome che avrebbe poi usato abitualmente in tournée. Rod divenne
«Phyllis», come l’attrice Phyllis Diller. Baldry diventò «Ada» e John Reid
«Beryl», in omaggio all’attrice inglese Beryl Reid. Quando Freddie scoprì la
cosa, volle parteciparvi e divenne «Melina», come l’attrice greca Melina
Mercouri. Cliff Richard era «Silvia Disc», per via di tutti i dischi venduti.
Neil Sedaka, per ragioni simili, era «Golda Disc». Più avanti, Freddie
avrebbe esteso il gioco a tutto il suo entourage. Il suo assistente personale
era chiamato «Phoebe» (Peter Freestone), il suo ex amante e
successivamente cuoco era «Liza» (Joe Fanelli) e il suo manager personale
Paul Prenter era «Trixie». Nemmeno gli amici e gli altri membri della band
sfuggirono: Brian era «Maggie», come il successo di Rod Stewart Maggie
May. Roger era «Liz», come Elizabeth Taylor. David Nutter, fratello del
famoso sarto Tommy Nutter, era «Dawn», e Tony King, assistente di Mick
Jagger e grande amico di Freddie, divenne «Joy». Mary Austin, per ribaltare
le cose, era «Steve», come il Steve Austin della serie televisiva L’uomo da sei
milioni di dollari. Le spiaceva essere chiamata così?
«Nessuno aveva il permesso di spiacersi!» rispose ridendo «Phoebe». «Se
uno aveva un soprannome voleva dire che era stato accettato nel gruppo.
John Deacon non ne ha mai avuto uno, strano. Forse perché era così
timido…»
Dopo il semiritiro dalle scene di Elton e dopo sei anni di duro lavoro in
giro per il mondo, John Reid, che oltre a gestire gli interessi della star
dirigeva anche la sua etichetta personale, la Rocket Records, era in cerca di
nuove direzioni in cui espandere il suo impero. Per questo colse al volo la
possibilità di gestire i Queen. Sebbene vi fossero altri candidati per il posto
(Peter Grant dei Led Zeppelin, Harvey Lisberg dei 10cc e Peter Rudge, tour
manager degli Who, fra gli altri), la band arrivò a scegliere Reid per
eliminazione. Non era proprio una soluzione ideale, anche se Reid, appena
ottenuto l’incarico, lasciò tutti di stucco trovando subito le centomila sterline
necessarie per liquidare la Trident. In realtà lo scozzese non fece altro che
chiedere alla EMI un anticipo sui futuri diritti d’autore della band.
Per tornare a Bohemian Rhapsody, Elton confessò a Reid che a suo avviso
il brano sarebbe stato un fiasco. Anche la EMI e l’industria della musica in
generale espressero riserve. Le radio si domandarono che diavolo dovessero
fare con un singolo che durava ben sei minuti. Persino John Deacon
manifestò qualche timore, seppur in privato, sostenendo che far uscire
Bohemian Rhapsody come singolo fosse il più grande errore strategico della
loro carriera. Tutto sommato, fu un inizio abbastanza incerto per un brano
che sarebbe entrato nella storia della musica, imponendosi come un grande
classico del rock di tutti i tempi. Persino quelli che già all’epoca ne
riconobbero l’importanza esitarono a esprimersi, dato che il pezzo segnava
una frattura radicale dalle regole della canzone rock.
Che cosa ispirò Freddie a comporre un brano del genere? Ascendente e
decadente, pieno di tormento ed estasi, il pezzo è un miscuglio impossibile
di barocco e ballata, di varietà e rock; una serie di spezzoni incongruenti
tenuti insieme da cacofoniche schitarrate, sequenze classiche di pianoforte,
impetuosi arrangiamenti orchestrali e cori ricchi e sfaccettati. Il tutto inciso e
sovrainciso al punto che può talvolta risultare insopportabile, a seconda
dell’umore dell’ascoltatore. Credo che ci siano pochissimi fan del rock sul
pianeta che non lo conoscano a memoria.
«Anche se è un pezzo incredibile e rivoluzionario, oggi mi ha stufato»,
ammette Phil Swern, produttore di Radio 2 e collezionista di dischi.
«Viene trasmesso con allarmante regolarità alla radio. È stato passato e
ripassato fino alla nausea. Eppure nessuno può negare che sia un’opera
eccelsa e intelligente. Dura quasi sei minuti e infrange ogni singola regola
della canzone rock. Che cosa gli si avvicina? Sempre i Beatles con A Day in
the Life [l’ultimo brano dell’album «Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band»
del 1967, che dura 5’03”]. Stairway to Heaven dei Led Zeppelin [8’02”; il
brano più richiesto alla radio negli Stati Uniti, anche se non uscì mai come
singolo in quel Paese] e McArthur Park [7’21”] di Jimmy Webb, registrato
da Richard Harris».
«Se ti allontani abbastanza nel tempo rivedi tutto sotto una nuova
prospettiva», osserva Paul Gambaccini.
«Oggi è difficile entusiasmarsi per un brano rock o pop che dura tre
minuti e mezzo, quando in passato sono usciti capolavori lunghissimi come
Bohemian Rhapsody, McArthur Park, Hey Jude, Light My Fire e American
Pie. Oggi nessuno aspira più a raggiungere quei livelli. Possiamo quindi
guardarci indietro e vedere che si è trattato di autentici traguardi artistici.
Don McLean non scrisse American Pie con l’intenzione di farne un singolo,
non poteva nemmeno immaginarla come un singolo: durava otto minuti e
mezzo! Fu la casa discografica a dividerla in due. Don era un vero artista e
non pensava che American Pie sarebbe diventata una hit. Ovvio che era un
capolavoro, ma la inserì nel suo album come un pezzo qualsiasi. Lo stesso
dicasi per Bohemian Rhapsody, che era l’ultima traccia di «‘A Night at the
Opera’».
«Okay, sì, l’ha scritta Freddie», prosegue Gambaccini, «ma Brian ci ha
messo quell’incredibile assolo di chitarra in mezzo, Roger ci ha messo gli
acuti e anche John ha dato il suo contributo, ovvio. Quando si collabora
così, si lavora benissimo. I Queen l’hanno sempre fatto, anche per le loro
composizioni individuali. Sono sicuro che è questo che li ha tenuti insieme
negli anni. C’è voluta la genialità di Kenny Everett per capire che Bohemian
Rhapsody sarebbe diventata un classico.»
Originario di Liverpool e amico intimo di Freddie, oltre che dei Beatles,
Kenny Everett, conosciuto come «Ev», divenne famoso come DJ radiofonico
e presentatore televisivo, conducendo i programmi Kenny Everett Video
Show e Kenny Everett Television Show. Nel 1989 risultò sieropositivo e nel
1995 morì per una patologia correlata all’AIDS; aveva cinquant’anni. Nel
1966, sposò la cantante pop «Lady Lee» Middleton, ex fidanzata del
cantante Billy Fury (che poi divenne un medium e guaritore spirituale con
lo pseudonimo di Lee Everett Alkin). La coppia si separò nel 1979, quando
Everett rivelò di essere omosessuale. Si ritiene che il DJ fu contagiato da
Nikolai Grishanovitch, un libertino di origine russa, tristemente noto negli
ambienti gay londinesi («Quel coglione egoista di Nikolai!») per avere
contribuito più di chiunque altro a diffondere l’HIV nella città all’inizio
degli anni Ottanta. L’ex soldato dell’Armata Rossa, a sua volta morto per
AIDS nel 1990, talvolta è additato come colui che ha contagiato anche
Freddie, seppure secondo molti sia stato invece lo scomparso Ronnie Fisher,
ex addetto stampa della CBS/Sony.
«Penso che le date della ‘teoria Nikolai’ non combacino», osserva
Gambaccini.
«Non mi pare di averlo conosciuto prima dell’anno in cui partì la
campagna di sensibilizzazione sull’AIDS [1987], perché mi ricordo che lo
incontrai con Freddie quando la pubblicità stava per uscire. Uno o due anni
dopo, Freddie ha poi mostrato i primi sintomi della malattia. Se pensi che di
norma ci vogliono dieci anni fra il momento del contagio e l’insorgere dei
primi sintomi, si capisce che non era passato abbastanza tempo. Inoltre
sapevo che Freddie aveva avuto una vita ‘dissoluta’, per usare un termine
che piacerebbe a mia madre, verso la fine degli anni Settanta, il che
combacerebbe perfettamente con i tempi di incubazione. Certo, non è da
escludere del tutto che sia stato Nikolai, ma è molto improbabile.»
«Non so dove si siano conosciuti», aggiunge, «ma non mi sorprenderebbe
se fosse stato al Coleherne di Earl’s Court. Era uno dei pub preferiti di
Freddie [l’altro era il London Apprentice di Shoreditch] ed era a due passi
da casa sua. È da quel pub che l’HIV è entrato a Londra, portato da un
americano, si dice. Tutti quelli che frequentavano quel giro si sono
ammalati.»
Dato che Ev e Freddie erano esponenti di spicco della medesima scena
gay e che frequentavano lo stesso ambiente musicale, era inevitabile che le
loro strade si incrociassero.
«Non ho mai pensato che Freddie e Kenny fossero amanti», afferma
Gambaccini. «Se lo fossero stati, tutti l’avrebbero saputo nella nostra cerchia.
E non l’ho mai pensato perché a livello sessuale erano troppo simili. Certo,
questo non esclude un’avventura di una notte, ma non è un’idea che mi
convince. Per dirla con franchezza, erano ridicoli insieme.»
Everett giocò un ruolo fondamentale nella diffusione di Bohemian
Rhapsody come singolo. Fu il primo DJ a passare il brano alla radio prima
che uscisse ufficialmente. Aveva ricevuto un demo con il divieto categorico
di trasmetterlo: Freddie voleva solo che lo ascoltasse e gli desse la sua
opinione. Everett invece lo trasmise subito, per ben quattordici volte,
durante il fine settimana, ogni volta dicendo che gli era «scappato il dito».
La sua faccia tosta contribuì a portare il brano all’attenzione degli ascoltatori
londinesi, mentre la cosa non è altrettanto certa su scala nazionale.
«Nel 1975 facevo un programma quotidiano su Radio 1», racconta invece
David «Diddy» Hamilton, riferendosi alla sua seguitissima trasmissione
radiofonica, che arrivò ad avere sedici milioni di ascoltatori al giorno.
«Il palinsesto prevedeva Noel Edmonds a colazione, Tony Blackburn a
metà mattina, Johnnie Walker a pranzo e io dopo pranzo. Avevamo tutti un
nostro ‘disco della settimana’. Ovviamente sarebbe stato molto facile
scegliere gli Abba o i Bee Gees, dato che tutti i loro singoli diventavano
automaticamente dei successi. Ma a volte ti capita di pensare fuori dagli
schemi. Quell’ottobre venne a trovarmi Eric Hall, il famoso promotore
discografico.
«Abitavo in un appartamento in Hallam Street, dietro il palazzo della
BBC, e spesso mi portavano i dischi direttamente a casa», ricorda Diddy.
«Quel giorno Eric arrivò da me con Bohemian Rhapsody, gridando: ‘Un
mostro! Un mostro! Questo sarà un successone!’ Lo ascoltai ed era
totalmente diverso da qualsiasi altro pezzo che avessi mai sentito. Era
innovativo, lirico, saliva in alto e poi scendeva in picchiata e ti entrava sotto
la pelle. Non riuscivo a smettere di canticchiarne dei pezzetti. In ufficio ebbe
un’accoglienza contrastata. Tony Blackburn disse che non lo capiva e nessun
altro sembrò apprezzarlo molto. Rispetto alla disco music che girava
all’epoca, That’s the Way I Like It di K.C. and the Sunshine Band e tutta
quella roba lì, era un pezzo unico, diversissimo. Gli Stones erano una rock
band tradizionale. Anche i Queen erano un gruppo rock, ma non per forza
dei rocker. È diverso.
«Dissi al mio produttore Paul Williams che volevo adottarlo come disco
della settimana. Disse di sì. Poi si sa, la canzone andò al numero uno e ci
restò per nove settimane: un record. Nel gennaio del 1976 aveva venduto
più di un milione di copie qui e diversi milioni in tutto il mondo, e
probabilmente è una delle più grandi canzoni di tutti i tempi. Mi piace
pensare che ho contribuito a diffonderla. Ero molto orgoglioso dei brani che
sceglievo come disco della settimana, e quello non mi deluse. Si dice che sia
stato Kenny Everett a lanciarlo, rubandone una copia prima che uscisse, e
trasmettendola all’infinito su Capital Radio. [Everett] si è preso il merito di
avere fatto conoscere il pezzo al mondo. Di certo l’ha sostenuto, ma non
esageriamo: in quei giorni Capital Radio trasmetteva solo a Londra; nessun
altro in tutto il Regno Unito la prendeva. Radio 1 ha fatto conoscere il brano
a livello nazionale, ma non ha mai ricevuto alcun riconoscimento per
questo»
Dopo la morte di Freddie, il singolo fu ristampato e tornò al numero
uno, restandoci per cinque settimane. È il terzo singolo più venduto di tutto
il Regno Unito ed è arrivato in vetta alle classifiche in molti altri Paesi. Negli
Stati Uniti ha raggiunto il nono posto nel 1976 ed è poi tornato in classifica
nel 1992 grazie all’enorme popolarità del film Fusi di testa, con la famosa
scena in cui i protagonisti lo cantano in macchina.
Il compianto Tommy Vance, uno dei più grandi nomi dell’etere inglese,
presentatore di molte trasmissioni dedicate al rock su Capital Radio, Radio
1, Virgin Radio e VH1, descrisse Bohemian Rhapsody come «l’equivalente
rock dell’assassinio Kennedy».
«[Perché] tutti si ricordano che cosa stavano facendo quando l’hanno
sentita per la prima volta. Io stavo trasmettendo il mio programma rock alla
Capital. Quando l’ho sentita, ho pensato che fosse una canzone da
manicomio. Era così oscura… ma anche magnifica: sarebbe per forza
diventata un successo. Dal punto di vista tecnico, era un casino. Non
seguiva nessuna convenzione o formula commerciale. Era solo una
sequenza di sogni, flashback, flash forward, accenni, idee slegate. Cambia
sequenza, colore, tono, tempo, senza apparente motivo, proprio come
l’opera lirica. Ma il concetto di fondo era geniale: trasudava ottimismo.
Aveva un certo non so che… una magia sorprendente. È stupenda. Ancora
oggi è riverita come un’icona. Esiste una canzone paragonabile?
Assolutamente no. Ma prova ad analizzare il testo di Bohemian Rhapsody e
scoprirai che è senza senso.»
Il paroliere Sir Tim Rice, vincitore di un Oscar e coautore di alcuni dei
più grandi musical della storia, fra cui Joseph and the Amazing Technicolour
Dreamcoat, Jesus Christ Superstar ed Evita, nonché coautore con Freddie
dei brani per lo stravagante LP Barcelona, non è affatto d’accordo con
quest’ultima affermazione.
«Per me è abbastanza ovvio che con quella canzone Freddie dichiarò la
propria omosessualità al mondo», spiega. «Ne ho anche parlato con Roger.
Fin dal primo ascolto ho notato che conteneva un messaggio molto chiaro.
Era Freddie che in pratica diceva: ‘Vengo allo scoperto. Ammetto di essere
gay’.»
«Sì, all’inizio lo ammetteva solo con se stesso, ma poi, per forza di cose
anche con il resto del mondo, perché il brano è diventato un successo.
‘Mama, I just killed a man...’ [‘Mamma, ho appena ucciso un uomo’]: ha
ucciso il vecchio Freddie, la sua vecchia immagine. ‘Put a gun against his
head, pulled my trigger, now he’s dead’ [‘Gli ho puntato una pistola alla
testa, ho premuto il grilletto e ora è morto’]: è morto l’eterosessuale che era
in lui. ‘Mama, life had just begun, but now I’ve gone and thrown it all
away...’ [‘Mamma, la vita era appena cominciata, ma ora ho buttato tutto
all’aria’]. Voglio dire… questa è solo la mia teoria, ma combacia. [Freddie]
ha sparato e distrutto l’uomo che prima cercava di essere, e ora è diventato
se stesso e cerca di convivere con il nuovo Freddie. È un testo molto oscuro,
ovvio, ma pensa al pezzo che fa: ‘I see a little silhouette of a man...’ [‘Vedo
una piccola silhouette di un uomo’] È lui, perseguitato da quel che ha fatto
e da quel che è. Per me è una spiegazione sensata. Anche dopo tutti questi
anni ogni volta che sento la canzone alla radio penso a Freddie che cerca di
abbandonare una personalità per abbracciarne un’altra. Ce l’ha fatta,
secondo me? Credo che ci stesse riuscendo, e anche abbastanza bene.
Freddie era un autore eccezionale e senza dubbio Bohemian Rhapsody è
uno dei brani più belli del ventesimo secolo.»
Dunque Bohemian Rhapsody rifletterebbe la vita del suo autore? Freddie
ha sempre evitato di dare spiegazioni.
«Vuol dire questo, vuol dire quello... Tutti che vogliono sapere la stessa
cosa», disse. «Che se ne vadano affanculo, tesoro. Non dirò una parola in
più di quello che direbbe qualsiasi poeta rispettabile se osassi domandargli
di analizzare una sua opera: se ci leggi una cosa, cara, allora c’è.»
Secondo Brian, era fondamentale che il significato della canzone restasse
oscuro.
«Credo che non lo sapremo mai, e anche se lo sapessi probabilmente non
te lo direi», spiegò. «Di certo non vado a raccontare in giro di che cosa
parlano le mie canzoni. Trovo che questo per certi versi le distrugga, perché
la cosa bella delle grandi canzoni è collegarle alla propria esperienza
personale, alla propria vita. Di sicuro Freddie era afflitto da parecchi
conflitti interiori e può darsi che li abbia riversati in quel pezzo. È
sicuramente vero che voleva cambiare immagine, ma in quel periodo non
era una buona idea, per cui credo che abbia deciso di farlo solo molto più
tardi.»
Forse Brian intendeva dire che Freddie lottava con se stesso perché
temeva le inevitabili conseguenze di quella trasformazione: troncare la
relazione con Mary e cominciare una nuova vita da omosessuale. L’idea lo
terrorizzava, per cui continuava a rimandare. Aveva paura anche della
reazione dei genitori. Dichiararsi omosessuale gli avrebbe semplificato la vita
nel lungo termine, così come accadde a Kenny Everett, il quale non perse né
i fan né la moglie ammettendo con onestà la propria natura sessuale. Come
spiegò Lee Everett, la moglie del DJ: «Era quel che era, ma questo non mi
ha impedito di amarlo ugualmente. Siamo rimasti vicini fino alla fine».
«Se Freddie si fosse dichiarato al mondo non sarebbe andata come per gli
altri», osserva Simon Napier-Bell.
«Non sarebbe stato come per George Michael, che l’ha ammesso solo
quando è stato costretto a farlo e che comunque non era davvero una
rockstar, ma solo un grande cantante pop. Se Freddie si fosse dichiarato gay
avrebbe costretto un sacco di omofobi a guardare in faccia la propria
ipocrisia. Sarebbe stato un passo più semplice di quel che credeva, perché
per molti suoi amici lui era già omosessuale dichiarato e anche molto
trasgressivo.
«Quel che intendeva dire quando sosteneva di essere diverso in privato
rispetto all’artista sul palco, era che doveva nascondersi perché la sua
famiglia temeva che lui si dichiarasse pubblicamente omosessuale. Se
l’avesse fatto fin dall’inizio, però, la sua morte, lunga e lenta, sarebbe stata
accolta con riconoscenza dalla comunità gay. Gli omosessuali l’avrebbero
usata in modo positivo, l’avrebbero trasformata in un evento magnifico, in
una tragedia da show business; avrebbero fatto di lui la nuova Judy
Garland. E probabilmente lui si sarebbe pure divertito!»
Forse Bohemian Rhapsody era davvero un’allegoria in cui il nuovo
Freddie, finalmente libero, uccide la sua incarnazione precedente e
abbraccia il suo autentico sé. Frank Allen, il bassista dei Searchers,
concorda: «Però potrebbe anche parlare di tutt’altro. Non lo so per certo,
non gliel’ho mai chiesto. Quando hanno chiesto a Don McLean di spiegare
il significato di American Pie, lui ha risposto: ‘Significa che non dovrò mai
più lavorare’. Forse in realtà Bohemian Rhapsody contiene una verità più
semplice e immediata, ma non sono abbastanza intelligente per giudicare.
Mi accontento di godermela perché è una canzone costruita alla perfezione:
una suite in tre parti con tempi, chiavi e umori diversi, proprio come i brani
classici. Nel pop era un’assoluta novità».
Ma, come osservò Tommy Vance, ciò che comprovò davvero il valore di
Bohemian Rhapsody non furono né il suo testo innovativo né le sue melodie
impazzite. Non furono le infinite discussioni sul suo significato a
trasformarla in successo, né gli infiniti passaggi alla radio. Fu la televisione.
12
Il successo

Bohemian Rhapsody fu uno dei primi video a ricevere


l’attenzione che oggi si riserva loro, e costò solo cinquemila
sterline circa. Avevamo deciso che dovevamo mettere
Rhapsody su video per farla vedere alla gente. Non sapevamo
come l’avrebbero accolta. Per noi era solo un’altra forma di
teatro. Ma fu un successo. Capimmo che con il video potevi
raggiungere un sacco di persone in moltissimi Paesi, senza
andarci di persona, e che potevi far uscire un disco e un video
in contemporanea. Tutto divenne molto più veloce e
incrementò le vendite in maniera esponenziale.

FREDDIE MERCURY

Per ogni grande artista arriva il suo momento, ma lui dev’essere


pronto a coglierlo. […] Dev’essere pronto a prendere la palla al
balzo e a non lasciarsela scappare. Se ci azzecca, può fare una
canzone che commuove ogni singolo ascoltatore, uomo, donna
o bambino. I sentimenti sono universali, la canzone ti si infila
sotto la pelle e ci resta per sempre. Il genio, la magia, è nel
creare una cosa del genere e poi riuscire a diffonderla, a
renderla entusiasmante e carica di significati. Non serve a
nulla avere idee geniali e tenersele per sé.

JONATHAN MORRISH

«FU il primo successo generato dalle immagini», sostiene Allan James.


«Prima, i video usati dai Beatles e altri erano solo dei piccoli cortometraggi
che accompagnavano la musica. Nessuno sapeva come classificare i Queen,
ecco perché ci volle il video per lanciarli davvero in alto. Da quel momento
in poi non fu più possibile liquidarli come una rock band bizzarra ed
eccentrica. I Queen costrinsero l’industria intera a imboccare una nuova
strada.»
«Il successo di Bohemian Rhapsody obbligò Top of the Pops a dargli una
possibilità», ricorda Vance. «Perché se un pezzo entrava tra i primi trenta,
dovevano trasmetterlo. E più lo trasmettevano, più saliva. La cosa
incredibile è che il video, diretto da Bruce Gowers e prodotto da Lexi
Godfrey per la Jon Roseman Productions, era costato solo cinquemila
sterline.»
Il promo avrebbe segnato una svolta nella carriera di Gowers, che
divenne poi un famoso produttore e regista di speciali dedicati alla musica
lavorando, fra gli altri, con Michael Jackson, Rolling Stones, Paul
McCartney, Britney Spears, Robin Williams, Billy Crystal e Eddie Murphy, e
finendo per dirigere dal vivo American Idol, l’X Factor d’oltreoceano.
«Gowers stava filmando un concerto della band agli Elstree Studios»,
ricorda Vance, «e girò il video di Bohemian Rhapsody il giorno stesso, in
quattro ore soltanto. Ci mise dentro un sacco di idee. Usò dei prismi, per
esempio, per creare gli effetti speciali, molto prima dell’avvento dei
computer. Fu ispirato dall’album: conteneva così tanti spunti creativi che
scatenò la sua fantasia. Ma il concetto fondamentale si basava sulla
copertina di un precedente disco dei Queen.»
Ossia quella di «Queen II» (1974), che ritrae i volti dei quattro membri
del gruppo su fondo nero con un contrasto marcato; solo Freddie appare
con le mani incrociate come due ali sul petto. L’idea della foto era stata di
Mick Rock.
«Le indicazioni per quella copertina erano molto concise», racconta Rock.
«Volevano una copertina pieghevole, con un tema in bianco e nero. Doveva
esserci la band. Tutto il resto era un problema mio. Potevo fotografarla e
disegnarla come volevo. Per caso avevo appena fatto amicizia con John
Kobal, che era un collezionista di foto dei primi film di Hollywood.»
Kobal, storico e autore canadese di origini austriache, era stato una figura
di spicco nell’epoca d’oro di Hollywood.
«In cambio di un servizio fotografico John mi regalò alcune immagini
della sua collezione», spiega Rock. «Fra cui una che non avevo mai visto
prima, di Marlene Dietrich nel film Shanghai Express. Aveva le braccia
conserte e indossava un abito nero su uno sfondo nero; la foto aveva una
luce stupenda. Il capo piegato e le mani la facevano sembrare come se
fluttuasse nello spazio. Vidi subito un nesso. Era un’idea viscerale, una
questione di intuito. Molto forte. Molto chiara. Affascinante, misteriosa e
classica. L’avrei trasformata in un mostro a quattro teste. Gli sarebbe
piaciuta. Quindi andai da Freddie e lui capì subito la mia idea, gli piacque
all’istante e convinse gli altri. ‘Io sarò Marlene’, disse ridendo. ‘Che idea
deliziosa!’»
Freddie fugò le riserve degli altri membri del gruppo, che temevano che
l’immagine sarebbe risultata troppo presuntuosa.
«Amava citare Oscar Wilde», spiega Rock. «‘Spesso ciò che oggi è
considerato pretenzioso, domani è considerato all’avanguardia. La cosa
importante è essere considerati.’»
E così la copertina di «Queen II» ispirò il video di Gowers, che prese
l’immagine, la elaborò e la portò alle estreme conseguenze. La band capì che
il nuovo medium era uno strumento promozionale di fondamentale
importanza, dato che era impossibile suonare il brano per intero nei
concerti.
«Fu il primo disco che balzò in primo piano grazie a un video»,
commenta Vance. «Oggi ai Queen viene attribuito il merito di essere stati il
primo gruppo a produrre un video surrealista, ma non è del tutto vero. Mi
pare che i Devo li precedettero.» Band americana post-punk e art rock, i
Devo si formarono nel 1973 e furono fra i pionieri del videoclip.
«Ma i Queen furono sicuramente la prima band a creare un ‘concept
video’, con immagini che coglievano il senso della loro musica alla
perfezione. E devo dire che non era solo merito di Freddie. La canzone era
la canzone, ma l’interpretazione visuale la trasformò in quel che divenne,
perché ogni volta che nella canzone si sente un’eco, nella mente
dell’ascoltatore si riverberano le immagini del video. Canzone e video sono
diventati indivisibili. Ora non puoi più ascoltarla senza che ti vengano in
mente le immagini del video. Si può dire che Bohemian Rhapsody è stato il
primo singolo in assoluto a essere ‘visto’ ovunque.»
Appleton ricordò l’entusiasmo generale quando il promo arrivò negli
studi di OGWT.
«Davvero un’idea magnifica», disse. «Rimasi ipnotizzato. Non dovevamo
fare nulla, solo trasmetterlo così com’era. Freddie mi incantò. Mi accorsi che
non c’era mai stato nessun altro come lui prima di allora. Né dopo
peraltro... Con Bohemian Rhapsody Freddie maturò: all’improvviso sembrò
l’unico adulto in un business dominato da ragazzini viziati e petulanti. I
Queen sapevano il fatto loro ed erano dei veri signori. Non ho mai
conosciuto un’altra band che lavorasse con tanto impegno.»
Di primo acchito Brainsby trovò il singolo «bizzarro».
«Tutti lo pensarono. Mi piacque subito, ma senza sapere il perché. Per
me fu un momento di svolta. Li avevo presi quando erano praticamente
sconosciuti e li avevo accompagnati su, su, fino a creare uno dei più grandi
successi di tutti i tempi. Mi sentivo come uno che è appena diventato
padre.»
L’entusiasmo di Brainsby, però, ebbe vita breve. I nuovi accordi della
band con John Reid rendevano la sua posizione insostenibile. «Reid rese
difficile la mia collaborazione con i Queen. Preferiva usare i suoi
collaboratori interni. Era impossibile continuare.»
In futuro Brainsby avrebbe di nuovo lavorato per i Queen, ma in quel
momento la band era entrata oramai nell’orbita dell’uomo che controllava la
più grande star del mondo, il cantante che aveva fatto volare il «Rocket
Man».

«A Night at the Opera» uscì il 21 novembre 1975 e fu lanciato con una


festa smisurata. Questo, ricorda Gambaccini, «era il modo di Reid per dire:
‘Ecco: adesso i Queen giocano nello stesso campionato di Elton John’. Reid
sapeva benissimo quanto valesse quella band, ma non si rendeva conto
quanto fosse stato fortunato a subentrare in quel particolare momento. Se
mai c’è stato un momento ideale per lavorare con i Queen, era proprio
appena prima dell’uscita del quarto album».
Rapporti professionali a parte, Gambaccini strinse un rapporto di amicizia
che, almeno nel caso di Freddie, sarebbe durato tutta la vita.
«Erano un perfetto esempio di musicisti che hanno capito le regole di
questo pazzo gioco. Sapevano che era un business. Non si aspettavano di
diventare i migliori amici l’uno dell’altro. Sapevano che dovevano solo
andare d’accordo e rispettarsi a vicenda. Questo atteggiamento rilassato e
imparziale gli ha permesso di superare certe difficoltà che nel caso di altre
band hanno portato allo scioglimento.
«Freddie era quello con cui avevo più confidenza. Andava dritto al
punto, sempre molto diretto e personale; niente chiacchiere inutili. In parte,
credo che diventammo amici perché ero anch’io nel giro gay del rock.»
Forse Freddie invidiava Gambaccini per il suo coraggio di dichiararsi
apertamente omosessuale, perché in fondo desiderava fare lo stesso.
«Forse… Una volta mi disse: ‘Un giorno faremo un’intervista e lo diremo
a tutti’. Non successe mai. Ma ti dirò che altre volte mi fece sentire uno
sprovveduto», prosegue, riferendosi alla promiscuità sessuale di Freddie,
molto più sfrenata della sua.
«Era come se lui fosse il ‘vero’ omosessuale tra noi due. Io lo ammettevo
apertamente, mentre lui lo teneva per sé, ma sotto sotto era un gay con la
‘G’ maiuscola. A confronto, io ero un dilettante.» Cinque giorni dopo il
lancio, Bohemian Rhapsody divenne la prima numero uno dei Queen. La
band festeggiò in grande stile con un breve tour di ventiquattro date,
incluso un elettrizzante concerto all’Hammersmith Odeon la vigilia di
Natale, trasmesso sia da OGWT sia da Radio 1.
Tre giorni dopo anche l’album arrivò al primo posto in classifica,
diventando disco di platino, con oltre duecentocinquantamila copie
vendute, un numero che raddoppiò nel giro di poche settimane. Sarebbe
anche rimasto nella classifica americana per cinquantasei settimane. E il
nuovo anno portò ulteriori riconoscimenti, incluso un altro Ivor Novello per
Bohemian Rhapsody. Con un gesto per lui inconsueto, il parsimonioso Reid
comprò uno spazio pubblicitario sulla rivista Sounds per congratularsi del
successo con i suoi «ragazzi».
Era ora di pianificare una seconda tournée americana, questa volta come
grandi rockstar. Sarebbe stata la più estenuante fino ad allora, con date
quasi in ogni stato e sotto la guida di un nuovo tour manager, Gerry
Stickells. Fu una nomina fortunata: in passato Stickells aveva lavorato per la
Jimi Hendrix Experience (prima come roadie, poi come tour manager) e
sarebbe rimasto con i Queen fino alla fine. Si dice che fosse con Hendrix la
sera in cui questi morì, sebbene la tragedia sia avvolta dal mistero e Stickells
non ami parlarne.
Fu proprio durante quella colossale tournée americana che i Queen
perfezionarono l’arte degli afterparty. Da allora in poi le loro feste sarebbero
state famose come le migliori nell’ambiente. Ovunque si esibissero, i quattro
invitavano pezzi grossi e celebrità del luogo a partecipare ai loro baccanali. Il
giornalista Rick Sky, che ha pubblicato un suo tributo personale a Freddie,
The Show Must Go On, poco dopo la morte del cantante, ricorda una «festa
tranquilla e moderata» per celebrare il successo di un concerto al Madison
Square Garden di New York.
«Mi invitarono a New York per un’intervista in esclusiva con Freddie e lo
raggiunsi nel backstage», racconta Sky.
«C’erano decine di cameriere in topless con magnum di champagne che
ti riempivano il bicchiere di continuo. Nessuno poteva restare a secco.
Freddie indossava una canottiera bianca e teneva un bicchiere di
champagne in una mano e una sigaretta nell’altra. Sembrava rilassato. Mi
disse che il segreto della felicità era vivere la vita fino in fondo. ‘Gli eccessi
fanno parte della mia natura’, disse. ‘Per me la monotonia è una malattia.
Ho bisogno di pericoli ed eccitazione. Non sono fatto per starmene in casa a
guardare la tv. Sono una persona molto attiva sessualmente. Una volta
dicevo che mi sarei fatto chiunque, ma ora sono un po’ più selettivo…
Adoro circondarmi di persone strane e interessanti, perché mi fanno sentire
vivo. Quelle normali mi annoiano a morte. Mi piace la gente stravagante.
Per natura sono irrequieto e nervoso, quindi non sarei mai un buon padre
di famiglia. Salto da un estremo all’altro e spesso questa è una caratteristica
distruttiva, per me come per chi mi sta intorno.
«Vivo la vita al massimo», aggiunse in seguito, con fare provocatorio.
«Ho un appetito sessuale enorme. Vado con uomini, donne, gatti, qualsiasi
cosa. Ho un letto enorme, ci si può stare comodamente in sei. Preferisco il
sesso senza impegni.»
Celebrità e ricchezza avevano dato a Freddie la libertà di concedersi
qualsiasi lusso.
«Ci dava davvero dentro», prosegue Sky. «Ma questo significava
compromettere la possibilità di una relazione stabile e duratura, che in
fondo è quel che desideriamo tutti. Come disse lui stesso: ‘In amore non mi
impegno mai solo a metà. Non credo nelle mezze misure o nei
compromessi. Do tutto me stesso. Sono fatto così’.»
L’America, e in particolare New York, gli diede alla testa. Freddie si
innamorò della città, della sua densità e intensità, e ovviamente del suo
sottobosco omosessuale. Se di giorno passeggiava per i negozi di lusso e gli
alberghi del centro, di notte vagava per le stradine acciottolate dell’antico
quartiere dei macelli, dove sorgevano i più famigerati bar e club gay della
città. Quasi tutti quei locali avrebbero chiuso verso la metà degli anni
Ottanta durante l’epidemia di AIDS (e la zona sarebbe diventata una delle
più esclusive di Manhattan), ma all’epoca attiravano come calamite i gay e le
lesbiche di tutto il Paese. La rivolta di Stonewall, che lanciò il movimento di
liberazione omosessuale, scoppiò nel giugno del 1969 proprio nel più
frequentato bar gay di New York: lo squallido Stonewall Inn in Christopher
Street (una traversa della Settima Avenue nel cuore del Greenwich Village),
che divenne poi famoso in tutto il mondo come la culla dell’attivismo gay.
La «glasnost» omosessuale legalizzò una serie di commerci molto redditizi
che giravano intorno alla comunità gay. Nightclub, cinema porno, bagni
turchi, locali sadomaso e bar con privé, con nomi come The Mineshaft («il
pozzo della miniera») e The Anvil («l’incudine») spuntarono come funghi,
favorendo i rapporti occasionali e anonimi. In quei tempi, le malattie
veneree non erano ancora un pericolo serio.
Fu proprio all’Anvil che una sera Freddie posò gli occhi su uno dei
Village People mentre ballava sul bancone. Il gruppo di Y.M.C.A., che
giocava con gli stereotipi americani vestendosi da cowboy, poliziotto,
muratore, motociclista, indiano e soldato, era in quel momento
famosissimo. Secondo Mick Rock, che era con lui, Freddie restò
letteralmente «ipnotizzato» da Glenn Hughes, il «motociclista». «Da quel
momento non sarebbe mai più stato lo stesso», osserva.
Alcuni ritengono che l’episodio ispirò sia il look «in pelle nera» del
cantante, sia quello «macho» (o clone). Il primo avrebbe avuto vita breve,
mentre il secondo – che con capelli corti, baffi, petto muscoloso e jeans
attillati rappresentava una frattura radicale dalla sua immagine bohémien
degli anni Settanta – sarebbe durato a lungo. In realtà, quel look era nato a
San Francisco ed era definito Castro clone, dal nome del più famoso
quartiere omosessuale della città, una decrepita area irlandese e hippy, che
aveva attirato i gay di tutto il Paese. Questi erano stati i primi a «clonare» il
look delle persone «normali», per passare inosservati. La moda aveva poi
generato un’intera gamma di «codici» di comportamento. Un gay poteva
persino indicare le sue preferenze sessuali lasciando penzolare un fazzoletto
di un determinato colore dalla tasca posteriore dei pantaloni. Il cosiddetto
hanky code ovvero il «codice del fazzoletto» o «codice della bandana», fu
molto usato dagli omosessuali per tutti gli anni Settanta. I fazzoletti
venivano annodati alla cintura o all’asola dei pantaloni: a sinistra voleva dire
che ti piaceva stare sopra, a destra, sotto. Sebbene i significati dei vari colori
non fossero identici ovunque, i più conosciuti erano giallo per «pissing»,
marrone per «scat», nero per «sadomaso», viola per «amo i piercing», rosso
per... (lasciamo perdere), azzurro per «sesso orale», grigio per «bondage» e
arancione per «mi va bene tutto».
Uno delle cose più entusiasmanti per un omosessuale a New York alla
fine degli anni Settanta, soprattutto per uno appena giunto alla fama come
Freddie, era che i gay vivevano una stagione di affermazione sociale: erano
usciti allo scoperto, si erano uniti e avevano assunto il controllo delle loro
vite e del loro destino. E la situazione poteva solo migliorare, o almeno così
si pensava. Si potevano spingere i confini della sperimentazione sessuale fino
agli estremi, una cosa al tempo impensabile in qualsiasi altra città del
mondo, tranne forse Monaco di Baviera.
«Freddie si comportava abbastanza bene a Londra, rispetto a quel che
combinava a New York o – più avanti – a Monaco», racconta Gambaccini.
«Erano le capitali del sesso anonimo, una cosa che non mi ha mai
interessato. Senza dubbio Freddie se le è godute fino in fondo. È tutto un
mondo, grande quanto quello della musica. A New York, Freddie perdeva
ogni inibizione, ma era la scena gay della città che lo richiedeva.»
In una chiacchierata con il rubricista, poi editore John Blake, Freddie
confessò di avere «fatto la baldracca» a New York.
«È la città della perdizione», mormorò. «Devi andartene al momento
giusto. Se resti un giorno di troppo, sei fregato. Molto ipnotica… Tutte le
mattine rientri barcollando alle otto o alle nove e devi farti le iniezioni alla
gola per cantare. È una città vera. La adoro.»
Sebbene in queste frasi ammettesse vagamente la propria licenziosità
sessuale, nelle interviste Freddie mantenne sempre un silenzioso riserbo
sulla sua passione per la cocaina. A parte il fatto che la droga era del tutto
illegale quasi ovunque, di certo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, a lui
non era mai piaciuta l’immagine del tossicodipendente e aborriva l’idea di
passare per tale. Non lo fu mai davvero: quando decise di smettere, ci riuscì
da un giorno all’altro. In quegli anni però la sua vita era il classico cliché di
«sesso, droga e rock’n’roll». Quel che Freddie amava era la botta istantanea,
l’effetto che il mix di alcol e coca aveva sulla sua personalità e sulla sua
libido. La cocaina lo faceva sentire sicuro di sé, gli dava il coraggio di essere
«Freddie Mercury».
Se a New York Freddie diventava un edonista tutto «sesso e shopping»
era soprattutto perché poteva permetterselo. Quando si stufò dei suoi
alberghi preferiti (il Waldorf Astoria, il Berkshire Place e l’Helmsley Palace),
si comprò un lussuoso e sorvegliatissimo appartamento con vista sul
Chrysler Building (uno dei suoi palazzi preferiti), oltre che sulle Torri
gemelle e l’Empire State Building. L’alloggio sorgeva al quarantatreesimo
piano del Sovereign Building, Cinquantottesima Strada est numero 425, fra
la Prima Avenue e Sutton Place e a breve distanza da Central Park, dai
grandi magazzini Bloomingdale’s e dalla Carnegie Hall. Oltre ai famosi
edifici, dall’appartamento si vedevano sette ponti di Manhattan, incluso
quello della Cinquantanovesima Strada immortalato da Simon e Garfunkel
nella canzone omonima, detta anche Feelin’ Groovy.
«Freddie era la classica persona raffinata che ama frequentare i
bassifondi», osserva Sky. «La sua massima fantasia era portare un
marchettaro all’opera. Rudolph Nureyev era molto simile a lui, perché
amava sia la cultura elevata sia quella popolare; una cosa rara.»
Freddie adorava i ballerini, ma nonostante le voci di un’avventura
appassionata con Nureyev (in una lettera pubblicata nel 1995 il ballerino
russo scrisse di una «relazione» con il cantante e di avere visitato casa sua)
Peter Freestone, poi divenuto assistente personale del cantante, nega,
sostenendo che Nureyev non andò mai a Garden Lodge e che quella
presunta storia d’amore non ebbe mai luogo.
Pochi capivano perché conducesse una vita così dissoluta e depravata. Gli
altri membri della band non si immischiavano: nel mondo si erano fatti
progressi nel campo della libertà sessuale e in fin dei conti chi erano loro per
giudicare? La vita privata di Freddie era affar suo. Inoltre la sessualità era
solo un aspetto fra i tanti della sua personalità e i fan tendevano ad
accettare quel che sapevano e a chiudere un occhio sul resto. Erano solo i
giornalisti a eccitarsi appena fiutavano l’odore di uno scandalo. Freddie era
una delle poche star del rock abbastanza intelligenti per capire che i suoi fan
lo adoravano proprio perché viveva una vita di eccessi con tutti i relativi
pericoli, ossia perché faceva ciò che loro non avrebbero mai osato. Oltre a
intrattenerli con ottima musica e spettacoli indimenticabili, Freddie gli
faceva vivere un’esistenza da brivido per interposta persona.
«Andavamo ai concerti dei Queen, intervistavamo Freddie, vedevamo i
suoi eccessi… e mangiavamo le briciole», racconta Rick Sky.
«Questo ci rendeva dei privilegiati come loro, relativamente parlando. I
Queen non erano affatto egoisti, volevano che tutti si divertissero come loro.
Erano generosi e condividevano la loro ricchezza e questo, rispetto alle altre
band che frequentavamo, li rendeva i migliori del mondo.»
13
Champions

«Day at the Races» finisce con una cosa giapponese, un brano


che Brian ha intitolato Teo Torriatte, che significa «restiamo
uniti». È un pezzo emotivo, uno dei migliori che abbia mai
scritto. Brian suona l’armonium e fa un pezzo di chitarra
fantastico. È una bella canzone per chiudere l’album.

FREDDIE MERCURY

La musica dei Queen possedeva una forza e un’energia capaci


di toglierti il fiato. Oggi, con le nuove tecnologie la gente è
diventata pigra. Sudore, sangue e coraggio, ci vogliono. Freddie
doveva cantare quelle canzoni con ogni singola cellula del suo
corpo. Oggi vedi un cantante con diciotto ballerini dietro di lui
e non sai se canta o è in playback, o che altro diavolo fa.
Freddie ti dava tutto, ed era autentico.

LEEE JOHN , Imagination

ALL’INIZIO del 1976, con tutti e quattro i dischi in classifica fra i primi venti
nel Regno Unito, i Queen affrontarono un nuovo tour in Giappone e
Australia, dove il loro successo cresceva a dismisura. Poi tornarono in studio
per lavorare al quinto album, che avevano intenzione di produrre da soli,
dopo essersi separati amichevolmente da Roy Thomas Baker. Il nuovo LP si
intitolava «A Day at the Races», da un altro grande film dei fratelli Marx
(Un giorno alle corse). A marzo, uscì il loro primo lungometraggio, Live at
The Rainbow. A maggio, Brian si prese una vacanza per sposarsi con Chrissy
Mullen. Il 18 giugno, uscì il primo singolo firmato da John Deacon, You’re
My Best Friend, un brano dolcissimo composto per la moglie Veronica (il
matrimonio dura tutt’oggi, facendo di Deacon l’unico membro della band a
essere rimasto con la prima compagna). Nel brano, oltre al suo strumento
abituale, il bassista suona anche il Wurlitzer. Sebbene fosse molto diverso
dai precedenti, il pezzo entrò subito nella Top Ten. Il video fu girato in una
grande sala da ballo illuminata da migliaia di candele.
Poi i Queen suonarono in Scozia, alla Edinburgh Playhouse, nell’ambito
di un festival sponsorizzato da Reid, e poi all’aperto a Cardiff. Il 18
settembre, per il sesto anniversario della morte di Jimi Hendrix,
organizzarono un grande concerto gratuito a Hyde Park, per ringraziare i
fan per il sostegno: il classico gesto commovente alla Queen. Ne arrivarono
circa duecentomila. L’evento fu coorganizzato da Richard Branson,
l’ambizioso proprietario della Virgin Records che volava alto già all’epoca.
Quando Branson presentò la sua assistente personale Dominique Beyrand
alla band, senza saperlo regalò a Roger Taylor una nuova compagna. Poco
dopo infatti la coppia mise su casa, a Fulham e in una lussuosa magione nel
Surrey circondata da ettari di bosco e dotata di uno studio di registrazione.
Il giorno del concerto splendeva il sole. L’evento ne ricordava altri simili
tenuti nello stesso parco alla fine degli anni Sessanta da Jethro Tull, Pink
Floyd e Rolling Stones. Kiki Dee, anche lei gestita da Reid, doveva cantare il
suo recente successo in duetto con Elton John. Nonostante molti altri singoli
celebri, Don’t Go Breaking My Heart era diventata la prima numero uno di
Elton. Ma il cantante non riuscì a partecipare al concerto e Kiki dovette
accontentarsi di esibirsi a fianco di una grande sagoma di cartone.
«Benvenuti al nostro piccolo picnic in riva alla Serpentine», disse
Freddie, scintillando nella sua tuta elasticizzata bianca.
«Tie Your Mother Down è uno dei pezzi duri di Brian», osservò in
seguito. «Ricordo che la suonammo a Hyde Park prima ancora di inciderla.
Riuscii a cantarla dal vivo prima di registrarla. Dato che va cantata con la
voce rauca, funzionò.»
Denis O’Regan, allora un fotografo alle prime armi, riuscì a imbucarsi nel
backstage e a seguire il concerto da sotto il palco. Da tempo coltivava i
contatti con i collaboratori della Rocket Records per avvicinare i Queen con
la speranza di diventare il loro fotografo ufficiale. Un amico e collaboratore
di Reid, Paul Prenter, lo aveva preso in simpatia e aveva iniziato a lasciarlo
entrare nel backstage.
«Una delle prime volte fu a Parigi», ricorda O’Regan. «Notai che avevano
montato un altro piccolo palco dietro le quinte. Dapprima pensai che i
Queen avrebbero improvvisato uno spettacolino per gli addetti ai lavori,
perché c’erano diverse file di sedie allineate davanti al palco. Invece entrò in
scena una ragazza e fece uno spogliarello. Poi un’altra e un’altra ancora,
finché alla fine c’era una decina di donne sul palco. Poi fecero un gigantesco
spettacolo lesbico, e questo era riservato solo a quelli che lavoravano o si
aggiravano nel backstage. Un po’ squallido, ma il genere di cosa che si
sarebbe vista spesso alle feste dei Queen. Sceglievano sempre culi e tette, e
sesso debosciato. Niente di davvero sordido; solo roba così, tanto per ridere.
I Queen coltivavano un interesse per il sesso e lo usavano apposta per
proiettare un’immagine diversa di sé. Immagino che in parte questo servisse
per mettere a tacere le voci sull’omosessualità di Freddie.»
Anche se all’epoca l’avrebbero negato, non c’è dubbio che Freddie e
Roger fossero la mente dietro quei festini trasgressivi.
«Mi piacciono gli spogliarelli e le spogliarelliste, e le feste selvagge piene
di donne nude», dichiarò una volta Roger con disinvoltura, come a voler
aggiungere: E perché no?
O’Regan fu colpito dal fatto che i Queen restassero insieme anche dopo i
concerti: erano una delle poche grandi band a farlo.
«Cosa che odiavo perché una volta, finito il lavoro, avevo solo voglia di
uscire e divertirmi. Ma c’era sempre la cena insieme dopo il concerto. Le
altre band non facevano così. Sparivano subito: finito di suonare, c’erano già
le limousine che li aspettavano con i motori accesi, pronte a portarli
all’aeroporto o in albergo. Più avanti mi resi conto che in quell’abitudine dei
Queen c’era un vero spirito di cameratismo; capii che gli piaceva davvero
stare insieme. Più avanti si è detto che non andavano d’accordo, che
viaggiavano in limousine separate e così via. Ma tutti lo fanno quando sono
delle star e possono permetterselo. Freddie, su un pullman? Ma stai
scherzando?»
Oltretutto, come dichiarò Roger a Q nel 2011 a proposito delle
«limousine separate»: «Era il modo più semplice per viaggiare. La limousine
è la più stupida delle macchine. C’è spazio solo per due passeggeri comodi e
di solito hai con te la ragazza o la moglie, o la compagna, o l’assistente.
Potevamo permettercene quattro, sai? Non era perché non andavamo
d’accordo».
Il 10 dicembre uscì «A Day at the Races», con prevendite per mezzo
milione di copie. Per promuoverlo in grande stile, la EMI affittò un
padiglione all’ippodromo di Kempton Park e organizzò uno speciale «giorno
alle corse». Portate sontuose, alcol a fiumi e spettacoli dal vivo dei
Tremeloes e dei Marmalade, più un telegramma di Groucho Marx in
persona, resero memorabile l’evento. Per certi versi l’album risultò una
delusione rispetto al precedente, ma il primo singolo, Somebody to Love, un
brano sincero e personale scritto da Freddie, andò dritto al numero quattro
nella classifica inglese e al numero uno in quella di Radio Luxembourg.
«Con quella canzone ho fatto un po’ il matto», disse Freddie. «Volevo
scrivere qualcosa nello stile di Aretha Franklin, ero ispirato dall’approccio
gospel dei suoi primi album. Può sembrare che abbia lo stesso approccio
sulle armonie vocali, ma è molto diverso in studio, perché è un’intonazione
diversa.»
Il Natale del 1976 vide la band festeggiare la prima posizione in classifica
dell’album, con innumerevoli richieste di apparizioni televisive e passaggi in
radio. La BBC trasmise in replica il concerto per Whistle Test
all’Hammersmith Odeon. Freddie si fece un regalo insolito: trovò il coraggio
per confessare onestamente a se stesso e al grande amore della sua vita,
Mary Austin, la sua vera natura, ponendo così fine alla loro lunga relazione.
«Eravamo più vicini di chiunque altro, anche se abbiamo smesso di
vivere insieme dopo circa sette anni», ammise Freddie. «La nostra storia è
finita malamente, ma ne è scaturito un legame che nessuno può portarci via.
È intoccabile.»
Non dev’essere stato facile per lui. Sebbene oramai preferisse i rapporti
occasionali senza alcun coinvolgimento emotivo, Freddie amava anche la
sicurezza e la comodità che solo una relazione stabile poteva dargli.
Dev’essergli costato molto dibattersi fra questi due desideri contrastanti.
Freddie lasciò il nido che condivideva con Mary e si trasferì in un
appartamento al 12 di Stafford Terrace, sempre a Kensington, e comprò
all’ex fidanzata un altro alloggio. Lei sarebbe rimasta al suo fianco come
assistente e «coordinatrice», incontrandolo quasi ogni giorno fino alla sua
scomparsa quindici anni dopo.
Il 1977 portò alla band una sfida imprevista: il punk. I punk erano
ragazzacci pericolosi e arrabbiati, rispetto ai gruppi depravati come i Queen:
rappresentavano proprio tutto ciò che secondo Sex Pistols e compagnia bella
c’era di sbagliato nella scena musicale. Nessuna delle due fazioni poteva
emergere vittoriosa da quella polemica. C’era solo una cosa da fare: un’altra
tournée di tre mesi in Nord America, questa volta con i Thin Lizzy di Phil
Lynott come gruppo spalla. Il tour fu un successo, come il precedente,
tranne due date cancellate per un problema alla gola di Freddie.
«I noduli sono ancora qui», disse. «Ho questi brutti calli che mi crescono
in gola e di tanto in tanto feriscono le mie doti canterine. Al momento,
però, sto vincendo io. Bevo meno vino e il programma sarà riorganizzato
intorno al mio problema.»
Fu durante quella tournée che Freddie iniziò la sua relazione con Joe
Fanelli, un cuoco di ventisette anni. Dopo l’avventura, Fanelli avrebbe
lavorato in una serie di ristoranti (incluso il rinomato September’s in Fulham
Road) prima di diventare un membro a tempo pieno dello staff di Freddie
nella sua grande dimora londinese. Così come il suo padrone di casa, anche
Fanelli sarebbe morto di AIDS.
Poi cominciò il tour europeo, a Stoccolma, che arrivò a toccare la Gran
Bretagna a maggio, al Bristol Hippodrome. I proventi del secondo concerto
londinese, a Earl’s Court, furono donati al fondo per il giubileo della regina
Elisabetta II. Durante quell’evento la band presentò al pubblico la
cosiddetta «corona»: un impianto luci che si sollevava dal palco fra nuvole
di fumo. Finito il tour, la band tornò subito in studio per incidere un nuovo
album. I quattro, inoltre, avevano cominciato tutti a esplorare la strada
solista, oltre che apparire come ospiti nei dischi di altri artisti.
Se fama e ricchezza cominciavano a sembrare un lavoro, almeno la
musica riusciva a entusiasmarli ancora. In studio c’era sempre un insieme di
tensione e sana rivalità a spronarli e anche i concerti sembravano andar
meglio dopo una bella litigata.
«Sebbene Freddie avesse bisogno di una certa stabilità emotiva per
registrare, durante i concerti i litigi erano uno stimolo», osserva Peter
Freestone.
Non c’è dubbio che i contrasti fossero alimentati dal perfezionismo del
cantante.
«Sapeva esattamente quel che voleva e faceva una scenata se qualcosa
non andava come voleva lui. Sapeva benissimo che quegli sfoghi furiosi
erano molto utili e affinché fossero più efficaci li indirizzava ai compagni di
gruppo, o ai soci. Sapeva che in quel modo le altre persone coinvolte
sapevano che lui sapeva di essere indispensabile!»
Il singolo successivo, l’inno We Are the Champions, si sarebbe rivelato
uno dei successi più amati e durevoli della band. Nonostante la tiepida
accoglienza della stampa inglese, impantanata nel gorgo del punk, il 45 giri
si piazzò al secondo posto sia nel Regno Unito sia in America, e al primo
nella classifica della rivista specializzata Record World. Distribuito come un
doppio lato A con We Will Rock You negli USA, We Are the Champions fu
adottata sia dai New York Yankees sia dai Philadelphia 76ers, mentre il
coro di We Will Rock You fu preso in prestito da legioni di tifosi di football
americano. Dolce vendetta... Trentacinque anni dopo il brano è ancora
popolare in tutto il mondo ed è suonato abitualmente nei più grandi eventi
sportivi.
Da luglio a settembre la band registrò il sesto album in studio, «News of
the World», nei Basing Street Studios di Chris Blackwell a Notting Hill, il
fondatore della famosa Island Records (rinominati poi Sarm West, gli studi
sarebbero diventati famosi per la registrazione di Do They Know It’s
Christmas?), e negli oramai scomparsi Wessex Studios a Highbury New
Park, dove una volta Johnny Rotten vomitò nel pianoforte. Per coincidenza,
proprio mentre i Queen erano lì, i Sex Pistols stavano registrando «Never
Mind the Bollocks» in una sala adiacente. A un certo punto, Sid Vicious
ruzzolò nello studio dei Queen e insultò Freddie, perché questi aveva
dichiarato di voler portare il balletto alle masse (in un’intervista con Tony
Stewart per il New Musical Express intitolata: «Questo è uno stupido
secondo voi?»). Freddie rispose con una battuta indimenticabile: «Ah,
mister Ferocious! Facciamo del nostro meglio, caro mio!»
Ottobre portò ai Queen un Britannia Award della British Phonographic
Industry (l’associazione della case discografiche inglesi) per Bohemian
Rhapsody, votato miglior singolo inglese degli ultimi venticinque anni. Lo
stesso mese iniziò la campagna promozionale per «News of the World», un
album esuberante ma anche un po’ lontano dai gusti dei fan (e da quelli
della critica), con una copertina che raffigurava un gigantesco robot
disegnato da Frank Kelly Freas.
Era sempre più evidente che John Reid non aveva il tempo per gestire
adeguatamente i Queen: oramai erano ai livelli di Elton John in termini di
fama e avevano assoluto bisogno di un manager esclusivo. I quattro
convocarono di nuovo l’avvocato Jim Beach per negoziare la cessazione del
contratto con la John Reid Enterprises, una procedura che si rivelò
relativamente indolore seppur costosa. Dato che il contratto veniva rescisso
prima della scadenza, Reid ottenne una cospicua buonuscita più il quindici
percento dei diritti d’autore su tutti gli album precedenti dei Queen, per
sempre. Pete Brown, il dipendente di Reid che aveva effettivamente curato
gli affari dei Queen, se ne andò con loro e fu nominato manager personale.
Anche un altro collaboratore dello scozzese, Paul Prenter, si unì alla
squadra. Da quel momento in poi, Beach gestì tutte le questioni legali per
conto della band e Gerry Stickells si occupò delle tournée. Fu creata la
Queen Productions Ltd, seguita poi dalla Queen Music Ltd e dalla Queen
Films Ltd. Finalmente i Queen erano proprietari delle loro opere e dei loro
diritti.
Fu una svolta sotto molti altri aspetti. Sebbene i problemi imprenditoriali
fossero risolti, a livello creativo i Queen erano a un bivio. Sapevano di dover
cercare nuove sfide se volevano mantenere intatto il loro entusiasmo e
alimentare la loro ispirazione. Così comprarono un jet privato e si
imbarcarono in due ambiziose tournée americane. Durante la prima, che
cominciò a Portland, nell’Oregon, l’11 novembre, Freddie eseguì Love of My
Life dal vivo per la prima volta, invitando il pubblico a cantare con lui,
inaugurando così quella che sarebbe diventata una tappa obbligata di tutti i
successivi concerti dei Queen. A New York, Freddie andò a vedere Liza
Minnelli a teatro, in The Act. Dopo averla citata come sua artista preferita e
sua grande fonte di ispirazione (insieme con Hendrix), con immenso piacere
Freddie scoprì che la stima era reciproca. Anni dopo, nel 1992, la stella di
Cabaret sarebbe stata una delle prime ad accettare di esibirsi al grande
concerto tributo per la morte del cantante.
Al Madison Square Garden, Freddie mandò in visibilio la folla
indossando per i bis la divisa dei New York Yankees. La squadra di baseball
della città aveva appena vinto la World Series, e il pubblico era entusiasta
per quell’omaggio di una band inglese al loro sport più sacro. Nei concerti,
Freddie era solito inserire qualche piccolo omaggio alla nazione in cui si
esibiva: una frase nella lingua del posto, un mantello con la bandiera inglese
da un lato e quella del Paese ospite dall’altro... A volte rifletteva ore per
individuare il gesto migliore da regalare a un determinato luogo. Era il suo
modo per dare qualcosa in cambio ai fan del posto, che immancabilmente lo
adoravano per questo.
Nel gennaio del 1978 durante il MIDEM, la fiera dell’industria
discografica a Cannes, e grazie a We Will Rock You al primo posto nella
classifica francese per più di dodici settimane, i Queen furono premiati nella
categoria Radio come la rock band con maggiori potenzialità. Persino la
Francia («Vous appelez cela de la musique rock!») aveva aperto gli occhi sui
Queen.
Anche il fisco, però. Nel 1978 la band fu costretta a trascorrere la
maggior parte del tempo all’estero per evitare di pagare troppe tasse in
patria. Intraprese un nuovo tour europeo dopodiché tornò in studio per
lavorare a un altro album. Furono scelti i Mountain Studios di Montreux,
perché erano i migliori in Europa a livello tecnico e i Queen avevano sempre
cercato questo tipo di qualità. Il fatto che poi sorgessero in uno dei posti più
incantevoli del pianeta era un bonus aggiuntivo. Lo stupendo lago di
Ginevra e le maestose alpi svizzere innevate lasciarono i quattro a bocca
aperta. All’inizio Brian e Freddie restarono in Inghilterra, il primo per la
nascita del primogenito, Jimmy, e il secondo per produrre l’album
dell’amico Peter Straker, tramite la sua nuova casa di produzione, la Goose.
Straker, un attore di origini giamaicane, aveva conosciuto Freddie nel
1975 da Provan’s, un ristorante di Londra. Il primo era in compagnia del
manager David Evans, mentre il secondo cenava con John Reid. Per uno
scherzo del destino, Evans lavorava anche per Reid.
«Ricordo la pelliccia sciupata e le unghie smaltate di nero, gli zoccoli
bianchi e l’acconciatura», racconta Straker. «E che era anche leggermente
ingobbito. Ma a parte questo, mi colpì la sua estrema timidezza. Teneva gli
occhi bassi, come sempre quando incontrava una persona nuova.»
Quando si incrociarono di nuovo per caso, Straker invitò Freddie alla sua
festa di compleanno, nel suo appartamentino in Hurlingham Road. Era il
novembre del 1975 e si trattava di una festa in maschera: ognuno doveva
vestirsi come il suo personaggio preferito. Freddie rispose che se fosse
andato (cosa che fece), non si sarebbe mascherato, perché era lui il suo
personaggio preferito.
«Freddie arrivò con David Minns [un giovane operaio con cui aveva una
relazione segreta] abbastanza presto e con un jeroboam di champagne:
Moët & Chandon, chiaramente! Se non ricordo male fu quella sera stessa
che di getto gli chiesi di produrre un album per me.»
I due si misero d’accordo per rivedersi a pranzo.
«Da lì in poi diventammo amici. È difficile ricordare luoghi e date precisi,
dato che da quel momento in poi le nostre vite si sono intrecciate in modo
inestricabile. In altri termini: abbiamo ingranato.»
Ben presto Freddie e Straker, che era figlio di una cantante lirica,
iniziarono ad andare a vedere balletti e opere insieme, oltre a bazzicare i
peggiori pub e nightclub della città. Cominciarono persino a giocare a tennis
insieme nell’esclusivo Hurlingham Club. Educato e cortese, dotato di una
voce sopraffina e anche di un’incredibile estensione vocale, che avrebbe
dovuto portargli più successo di quanto ottenne in realtà, Straker voleva
incidere un album di brani post-glam rock e vaudeville. Freddie non solo
accettò, ma investì ventimila sterline nel progetto, intitolato «This One’s On
Me». Uscirono anche due singoli: Jackie e Ragtime Piano Joe. Gli amici li
ricordano come «due monelle» oppure come «due fratelli», mai come
amanti, e infatti il loro rapporto era basato su una sorta di conflitto fraterno.
«Straker lo aiutava ad allentare la tensione», racconta Peter Freestone.
«Era sempre pronto a farlo ridere».
«La profonda amicizia fra Freddie e Peter era fondata sull’amore per
l’opera e per i classici», ricorda Leee John, leader del trio soul-dance
Imagination, famoso negli anni Ottanta e grande amico di entrambi.
«Io venivo dal soul, dall’R&B e dal jazz, e tentavo di capire il blues e tutta
la musica africana, ma Freddie mi suggerì di studiare l’opera, per il bene
della mia carriera. Shéhérazade [di Rimskij-Korsakov, basata sulle Mille e
una notte] era l’unica che conoscevo. Mi disse: ‘Tesoro, è un buon inizio’.
Quindi per un’intera estate andai a vedere un’opera la settimana. Di tutto,
da Don Giovanni a L’anello del Nibelungo. Mi addormentai! Ma mi
emozionai anche, e risi, e imparai tantissimo. Voglio dire, prima ero
appassionato di Motown, pensa un po’… Molta musica classica ha origini
africane, e Freddie lo sapeva. C’è un senso del ritmo unico nel suo genere.
Mi insegnò anche molte tecniche vocali. Tutto quadra, se ci ripensi dopo
anni. Straker, però, era sullo stesso piano di Freddie: imparavano l’uno
dall’altro. Avevano entrambi incontrato un loro pari.»
Poi Brian e Freddie raggiunsero Roger e John a Montreux, dove il lavoro
per il nuovo LP proseguiva spedito. Quell’estate la EMI ricevette il Queen’s
Award to Industry per le esportazioni, uno dei premi regi più ambiti dagli
industriali inglesi. Per commemorare l’evento, l’etichetta stampò Bohemian
Rhapsody in una tiratura limitata di duecento copie su vinile blu, numerate
a mano. All’inizio le cromie prescelte erano oro e viola, per richiamare il
logo del gruppo sulla copertina di «Queen», ma qualcosa andò storto.
«Avevamo deciso di fare una copertina bordeaux e oro, con il vinile
viola», racconta Paul Watts, allora direttore generale della divisione
internazionale della EMI. «Ma quando arrivò dalla fabbrica il disco non era
per niente viola, ma blu. Si erano sbagliati! Dato che volevamo solo
duecento copie [mille o millecinquecento era la tiratura normale], non
valeva la pena cambiarlo.»
Il premio fu consegnato ai dirigenti della EMI nel luglio 1978, nella
Cotswold Suite del Selfridge Hotel. Né Sua maestà né i Queen parteciparono
alla cerimonia. La band era in «esilio» per il fisco e stava festeggiando alla
grande il ventinovesimo compleanno di Roger a Montreux.
Le prime quattro copie dell’edizione limitata furono spedite in Svizzera ai
quattro membri della band. Un gruppo selezionato di dirigenti della EMI
ricevette le altre, insieme con i giornalisti e con alcuni degli invitati; tutti gli
altri si videro consegnare un paio di calici commemorativi o uno speciale
foulard di seta. Pochi fortunati se ne andarono con tutti e tre i regali. Quel
disco è tutt’oggi uno degli oggetti più ricercati dai collezionisti di cimeli, non
solo dei Queen ma del rock in generale.
Le registrazioni proseguirono in un altro studio, il SuperBear di Nizza. Lo
spostamento era stato dettato sempre da motivi fiscali: i Queen non
potevano rischiare di produrre un intero album in un unico Paese per paura
di dovervi poi pagare le tasse.
Il trentaduesimo compleanno di Freddie fu celebrato nell’incantevole
paesino di Saint-Paul-de-Vence dove Bill Wyman dei Rolling Stones aveva
una casa. La festa scatenatissima culminò con un’esibizione di Freddie e
Straker ubriachi che intonarono arie di Gilbert e Sullivan. Due giorni dopo, i
Queen brindarono al ricordo di Keith Moon, il batterista degli Who
scomparso per un’overdose di clometiazolo nell’appartamento di Harry
Nilsson in Curzon Place a Mayfair (lo stesso in cui quattro anni prima era
morta di infarto Cass Elliot, la stella dei Mamas & Papas).
Il nuovo singolo, Fat-Bottomed Girls, uscì come doppio lato A con
Bicycle Race, un brano ispirato al Tour de France, che attraversò Nizza
mentre la band era lì in studio. Per promuovere il singolo, i Queen
affittarono lo stadio di Wimbledon a Londra e ingaggiarono sessantacinque
ragazze per fare una gara in bicicletta completamente nude. L’evento generò
un filmato esilarante ma non solo: le bici erano state affittate dalla catena
Halfords e i suoi dirigenti insistettero perché la band rimborsasse le spese
per sostituire tutti i sellini «usati». Il singolo si piazzò all’undicesimo posto in
classifica, non senza polemiche: il sedere prominente della ciclista che
campeggiava in copertina fu ritenuto offensivo e nelle copie successive
dovette essere ricoperto da un paio di pudiche mutandine.
A ottobre partì una nuova tournée americana. A New Orleans, per
lanciare il nuovo album, «Jazz», i Queen organizzarono quella che può solo
essere definita un’orgia. La sera di Halloween invitarono quattrocento
selezionatissimi rappresentanti della stampa nordamericana, sudamericana,
inglese e giapponese, nella sala da ballo di un albergo cittadino. Il luogo era
stato trasformato in una palude, completa di foschia e vegetazione, in cui si
aggiravano nani, drag queen, mangiatori di fuoco, lottatrici nel fango,
spogliarelliste, serpenti, steel band, danzatori vudù, danzatori zulù,
prostitute, groupie, alcuni di questi intenti a commettere inimmaginabili, e
probabilmente illegali, atti osceni, da soli o in gruppo, davanti agli invitati.
Una modella entrò sdraiata su un vassoio di fegato crudo, altre si
contorcevano dentro gabbie sospese. Quella follia fu ripresa dai giornali di
tutto il mondo e confermò le feste dei Queen come le più corrotte e
smodate nel circo del rock.
Nel bel mezzo di quella baldoria, arrivò Tony Brainsby, il vecchio
addetto stampa dei Queen, che aveva ripreso il suo posto. Giunse da Londra
con un seguito di scribacchini al seguito e si ritrovò subito nel suo elemento.
«Selvaggio», fu il suo laconico commento dell’evento. «Andammo
dall’aeroporto alla festa e dalla festa all’aeroporto, senza nemmeno sfiorare
un letto. Ne avevo viste di feste ai miei tempi ma mai niente del genere.
Alcuni giornalisti avevano gli occhi a penzoloni quando finì. Freddie
autografò il sedere di una spogliarellista, e quella fu la cosa più casta che
vidi. Mi ci volle quasi un mese per riprendermi.»
L’America puritana reagì. «Jazz» comprendeva un poster di cicliste nude,
che fu censurato come «pornografico» e vietato in alcuni stati. L’album
venne quindi distribuito senza poster ma con un modulo che permetteva
all’acquirente di richiederlo tramite posta. I Queen furono sorpresi dalla
reazione americana per quella che a loro avviso era solo un po’ di innocua
ironia, ma questo non impedì loro di portare una frotta di cicliste
scampanellanti sul palco del Madison Square Garden durante Bicycle Race.
In patria «Jazz» arrivò al secondo posto e restò in classifica per ventisette
settimane: un nuovo traguardo. Ora dovevano superarlo. Che cosa si
sarebbero inventati per l’album successivo? E per quello dopo ancora? Forse
i Queen si erano dimenticati come ci si rilassa.
14
Monaco

Mi piace Monaco. Ci ho passato così tanto tempo che dopo un


po’ le persone non facevano nemmeno più caso a me. Ho tanti
amici laggiù che sanno chi sono ma mi trattano come un
normale essere umano, che mi accettano per quel che sono. E
questo per me è un ottimo modo per rilassarmi. Non voglio
dovermi nascondere o tacere. Andrei fuori di testa. Più di
quanto non lo sia già.

FREDDIE MERCURY

Non si vergognava a dire che amava il sesso e questa era una


ventata d’aria fresca. Pochi lo ammettevano all’epoca.

CAROLYN COWAN , truccatrice di Freddie Mercury

ROGER, Brian e John si erano sistemati e rigavano dritto come buoni padri
di famiglia, almeno quando non erano in tournée. Brian, per esempio, si era
già innamorato di un’altra a New Orleans, una certa Peaches. John, in
genere attento ai propri obblighi coniugali, aveva iniziato a bere. Roger,
grande protagonista di tutte le feste, di rado era solo fra la mezzanotte e la
colazione. Freddie, però, li batteva tutti, e aveva gettato al vento qualsiasi
precauzione come mai prima di allora. Se nessuno dei quattro era un
angioletto in tour, infatti, Freddie era un diavolo incarnato. All’inizio del
1979, mentre il loro circo strombazzava attraverso l’Europa con una
mastodontica tournée di ventotto date, incluse due nell’allora Jugoslavia, il
cantante si concesse ogni vizio come se dovessero finire. Gennaio vide
l’uscita del dodicesimo singolo della band, Don’t Stop Me Now, accolto da
una serie di recensioni entusiaste. Poi la band tornò a Montreux per
produrre un doppio album dal vivo, «Live Killers». Sentendosi come a casa
loro sulle sponde del lago di Ginevra, i quattro colsero al volo l’occasione di
comprare i Mountain Studios, dietro consiglio del loro commercialista, per
migliorare la loro posizione fiscale. David Richards, fonico di stanza agli
studi e in seguito produttore della band, si unì alla squadra. Poi l’invito del
produttore Dino De Laurentiis (Barbarella, Il giustiziere della notte, King
Kong, Hannibal, Red Dragon) a comporre la colonna sonora del film di
fantascienza Flash Gordon, basato sull’omonimo personaggio dei fumetti,
permise di concretizzare un’altra ambizione che i Queen covavano da lungo
tempo.
Dopo un’altra serie di concerti in Giappone, accompagnati dalle oramai
abituali orde di fan entusiasti, il gruppo si ritirò per l’estate nei Musicland
Studios di Monaco, famosi per avere sfornato i successi della disco music del
produttore Giorgio Moroder. Sempre costretti a registrare all’estero per
evitare il fisco, in Germania i Queen collaborarono con un nuovo
produttore, il famoso Reinhold Mack, che aveva fondato i Musicland
proprio con Moroder. Anche Marc Bolan, i Deep Purple e i Rolling Stones
avevano lavorato in quegli studi. A detta di Mack, i Queen non erano i
musicisti più «facili» con cui aveva collaborato.
«Avevano abitudini rigide, come i pensionati», ricorda. «Il loro mantra
era: ‘Abbiamo sempre fatto così’. Rispetto a loro, avevo il vantaggio di
prendere decisioni in fretta, di fare le cose mentre gli altri si perdevano nei
dettagli.»
In generale, però, il suo rapporto con i Queen fu «abbastanza rilassato».
«La band arrivava da una tournée in Giappone e aveva un po’ di tempo
‘libero’ prima di tornare in Inghilterra. Quando si dice trovarsi al posto
giusto nel momento giusto... All’inizio l’intenzione non era di registrare un
album [anche se in seguito sarebbe diventato ‘The Game’], ma solo di fare
una serie di session di una o due settimane. Il primo brano su cui
lavorammo fu Crazy Little Thing Called Love. Freddie prese la chitarra
acustica e disse: ‘Svelti! Facciamola prima che arrivi Brian’. Sei ore dopo, la
canzone era finita. L’assolo di chitarra lo aggiungemmo dopo. Brian mi odia
ancora perché lo costrinsi a usare una Telecaster per quella parte. Il pezzo
uscì come singolo apripista dell’album e andò dritto al primo posto. Questo
ovviamente aumentò la fiducia del gruppo e migliorò il nostro rapporto
professionale.»
Mack ricordò che la composizione dei brani non era priva di
complicazioni.
«C’erano due scuole: Freddie e Brian. Con Freddie era facile: la
pensavamo più o meno allo stesso modo. In una ventina di minuti era in
grado di produrre un pezzo eccezionale. Brian invece arrivava con un’idea
bellissima, ma dopo quella prima scintilla si perdeva in dettagli
insignificanti.»
All’epoca il motto della città di Monaco era «Weltstadt mit Herz», «Una
città cosmopolita con un cuore» (dal 2006 è stato cambiato in «München
mag Dich», «Monaco ti ama», ma questa è un’altra storia). Il soggiorno
bavarese dei Queen avrebbe avuto un effetto profondo e persino distruttivo
su tutti e quattro i membri della band, in particolare su Freddie, che ben
presto divenne dipendente dalle attrattive più equivoche della città.
Chiunque avesse soggiornato a lungo in uno dei grandi centri culturali
d’Europa, si sarebbe immerso nella sua storia e nella sua architettura. La
città vantava una fiorente cultura che risaliva al Settecento ed era stata un
centro particolarmente dinamico durante la Repubblica di Weimar. Mozart,
Wagner, Mahler, Strauss, lo scrittore Thomas Mann e il pittore Vasilij
Kandinskij (durante il suo periodo espressionista) erano stati tutti attratti da
quella città, tanto ipnotica quanto piovosa.
Ma per Freddie l’attrattiva principale di Monaco era la sua effervescente
scena gay, concentrata in una piccola zona del centro conosciuta come «il
Triangolo delle Bermude». L’enclave era diventata un rifugio per gli
omosessuali di tutta Europa, proprio come il Village a New York e Castro a
San Francisco per gli americani. La scena bavarese era tranquilla e rilassata.
I locali gay abbondavano, pieni di corpi sudati sette giorni su sette. Freddie
si sentì libero di sperimentare senza avere i paparazzi sulla porta di casa a
seguire ogni suo spostamento. Un’altra attrattiva, per la band nel suo
insieme, erano le ottime discoteche della città, che in quel momento
vivevano la loro età dell’oro. La vita notturna era un sordido viaggio a rotta
di collo fra locali tetri e assordanti, come gli Ochsen Gardens, il Sugar Shack,
il New York e il Frisco. Nel «triangolo» pochi davano peso ai comportamenti
gay più offensivi, perché tutti – gay e non – erano troppo occupati a
divertirsi. Come ricordò Mack: «Freddie amava circondarsi di gente diversa.
Non gli era mai piaciuto un mondo esclusivamente gay. Era una persona
riservata e non dava mai scandalo fuori contesto. Non ti sbatteva in faccia la
sua omosessualità. Non faceva mai scenate e teneva sempre un
comportamento impeccabile quand’era in una compagnia mista. ‘Ogni cosa
al suo posto’ era il suo motto».
Come spiega Brian in Queen: la biografia ufficiale: «Monaco influenzò
profondamente le nostre vite. Dato che ci restammo parecchio, divenne
quasi una seconda casa per noi, un luogo in cui vivere una vita diversa. Non
era come in tournée, dove avevamo un contatto molto intenso con una città
per un paio di giorni e poi si passava ad altro. A Monaco rimanemmo
invischiati nella vita della gente del posto. Ci trovammo a frequentare le
stesse discoteche quasi tutte le sere, per tutta la notte. Ci incantò. Il Sugar
Shack in particolare. Era una discoteca rock con un impianto fantastico e il
fatto che alcuni dei nostri dischi non suonassero molto bene là dentro ci
fece vedere la nostra musica e i nostri mix sotto una luce diversa.
Guardando indietro, probabilmente è giusto affermare che non fummo
molto efficienti a Monaco. A causa delle nostre nottate iniziavamo a
lavorare tardi ed eravamo sempre stanchi, e – specialmente per me, ma
forse anche per Freddie – le distrazioni emotive di quella città erano
distruttive».
Nonostante nella capitale bavarese Freddie conducesse un’esistenza
dissoluta e senza pudori, secondo Mack iniziava a essere stufo di quella vita.
«Diverse volte mi disse: ‘Magari uno di questi giorni lascio perdere
questa vita da gay’. Aveva scelto di diventare omosessuale a ventiquattro o
venticinque anni. Prima lo consideravano eterosessuale. Con lui tutto era
possibile. Credo che avrebbe potuto smettere di essere gay, perché amava le
donne. Vedevo come si comportava con loro; non era certo il tipo di gay che
non vuole avere donne nella propria vita, anzi...»
Freddie divenne un ospite abituale in casa di Mack e strinse amicizia con
la moglie Ingrid. La coppia gli domandò persino di fare da padrino a uno
dei figli. Secondo Mack, Freddie non era refrattario alle comodità della vita
famigliare. Un giorno gli avrebbe confessato addirittura che gli sarebbe
piaciuto sposarsi e avere dei figli, nonostante in quel momento non ci fosse
alcun rapporto stabile nella sua vita.
«In fondo Freddie desiderava farsi una famiglia e avere una vita
normale», sostiene Mack.
«Una volta ero nei guai perché dovevo pagare un sacco di tasse arretrate.
Ero molto depresso e ne parlai a Freddie, e lui disse: ‘Che cazzo, sono solo
soldi! Perché ti preoccupi per roba del genere? Hai tutto, tutto ciò che ti
serve: una famiglia e dei figli stupendi. Hai tutto quel che io non potrò mai
avere. Lì mi resi conto che ci osservava quando veniva da noi, che guardava
la nostra vita famigliare e immaginava come avrebbe potuto renderlo felice.»
Kashmira, però, non è d’accordo: «No, non credo [che sarebbe stato un
buon padre di famiglia]. Sarebbe stato bravissimo a viziare, ma non tanto a
far rispettare le regole».
Sempre durante il soggiorno bavarese, Mack scoprì che Freddie si era
sentito terribilmente solo da piccolo.
«Una volta udii per caso una conversazione fra lui e mio figlio Felix»,
racconta. «Freddie gli stava dicendo: ‘Io non ho avuto la fortuna che hai tu.
Quand’ero piccolo ho passato molti anni in collegio, lontano da mamma e
papà’. Con i miei figli parlava molto della sua infanzia. Adorava i bambini:
appena erano in grado di camminare, parlare e rispondere, gli piaceva stare
con loro.»
Per quel che riguarda la musica che i Queen produssero a Monaco, Brian
ammise che il cambio di direzione musicale fu ispirato da Freddie.
«Tentammo un approccio differente», disse. «Con l’idea di sfrondare
brutalmente e produrre un album più compatto, anziché lasciare che la
fantasia ci portasse in tante direzioni diverse. L’impulso lo diede soprattutto
Freddie. Pensava che ci fossimo diversificati troppo, al punto che le persone
non riuscivano più a inquadrarci. Il tema di quell’album – se ce n’è uno – è
ritmo ed essenzialità: mai due note se ne bastava una. Era difficile per noi,
richiedeva molta disciplina, perché avevamo la tendenza ad abbondare. Era
anche una novità, perché per la prima volta entravamo in studio senza una
scadenza, ma solo con l’idea di buttare giù qualche traccia così come veniva.
«Era un modo per rompere lo schema ripetitivo: ‘album, tour inglese,
tour americano eccetera’. Volevamo cambiare e vedere che cosa avremmo
prodotto. Dopo un po’ devi pur inventarti qualcosa di nuovo per tenere
accesa la passione...»
Mack decantò il metodo lavorativo di Freddie in studio: la creatività
spontanea, l’impegno, la passione, la velocità e l’abilità tecnica. L’unico
aspetto negativo era l’incapacità di concentrarsi per lunghi periodi. Soltanto
la limitata capacità di concentrazione pareva limitare il talento di Freddie e
lo stesso valeva per la sua vita privata: se una cosa sembrava troppo lunga o
laboriosa, lui perdeva subito ogni interesse. Non era in grado di concentrarsi
su un unico pezzo per più di un’ora e mezza.
«In Killer Queen si capisce che si è seduto al piano e l’ha fatta di getto. Il
finale è un po’ irrisolto», spiega Mack. «Era tipico di Freddie. Voleva sempre
passare a cose nuove, diverse. Andavamo molto d’accordo. Mi piaceva avere
a che fare con un genio. E lo era davvero a livello musicale: riusciva subito a
individuare il centro intorno a cui doveva girare una canzone.»
Insieme, Mack e Freddie aggiunsero una nuova dimensione al suono
della band, in sintonia con l’umore di quegli anni, e la ispirarono a tagliare
nuovi traguardi creativi.
Dopo qualche apparizione in alcuni festival all’aperto in Germania,
Freddie tornò a Londra per le prove di uno spettacolo di beneficenza
organizzato dal Royal Ballet a favore della City of Westminster Society for
Mentally Handicapped Children, un ente di beneficenza a favore dei
bambini con handicap mentali. Era stato Wayne Eagling, primo ballerino
del Royal Ballet e suo amico personale, a convincerlo a partecipare. Furono
create le coreografie per Bohemian Rhapsody e Crazy Little Thing Called
Love, che Freddie doveva danzare e cantare dal vivo. La sera dello
spettacolo, al London Coliseum, il cantante ballò così bene che fu salutato
da una standing ovation.
«Conoscevo il balletto solo per averlo visto in televisione», confidò
Freddie a John Blake, all’epoca giornalista musicale dell’Evening News. «Ma
mi è sempre piaciuto.»
«Poi sono diventato molto amico di Sir Joseph Lockwood della EMI, che
era anche il presidente del consiglio del Royal Ballet, e ho iniziato a
conoscere un sacco di persone in quel mondo. Mi affascinava sempre più.
Alla fine ho visto Baryšnikov ballare e sono rimasto basito. Più di Nureyev,
più di chiunque altro. Voglio dire, [Baryšnikov] sa davvero volare. Quando
l’ho visto sul palco ero talmente estasiato che mi sono sentito una groupie.»
Riguardo allo spettacolo con il Royal Ballet, commentò: «Mi hanno fatto
fare gli esercizi alla sbarra e tutto il resto: stirare le gambe... In una
settimana dovevo fare quello che loro facevano da anni. Ero morto. Dopo
due giorni avevo male dappertutto. Mi facevano male certi muscoli che non
sapevo nemmeno di avere, caro mio. Poi quando è arrivata la sera del gran
galà, ero sbalordito dalle scene dietro le quinte. Quando toccava a me, ho
dovuto farmi largo fra Merle Park e Anthony Dowell e tutta quella gente e
dire: ‘Scusatemi, devo andare in scena’. Era incredibile».
Freddie ballò e cantò Bohemian Rhapsody.
«Sì caro, ho fatto il salto. Un salto magnifico, che ha fatto partire un
applauso, e poi mi hanno preso e ho continuato a cantare.»
Quando gli domandarono se gli sarebbe piaciuto diventare un ballerino
professionista, rispose: «Sì, ma sono anche molto contento di quel che faccio
adesso. Non puoi svegliarti a trentadue anni e decidere di diventare un
ballerino».
Dopo lo spettacolo, girò voce che Freddie non fosse proprio un «vero
uomo». Quando gli arrivò all’orecchio, scoppiò a ridere. «O Dio… caro mio!
Lascia che dicano quel che vogliono. Vedi, se ti dicessi no o sì, sarebbe
barboso. Nessuno mi chiederebbe più nulla. Preferisco che continuino a
chiedermelo. Oh, è tutto così scontato. Caro mio, la vita personale è una
questione privata. Voglio dire, con uno come Elton, penso: che potrò mai
dire? E lui è un tipo più ‘mediatico’, no? Ma a me non interessa.»
In seguito Freddie, commentò scherzosamente quel suo balletto con
l’amico giornalista David Wigg. «Cantare a testa in giù è bellissimo.
Tremavo dietro le quinte, dal nervoso. È sempre difficilissimo fare qualcosa
fuori dal proprio ambito, ma mi sono sempre piaciute le sfide. Mi
piacerebbe vedere Mick Jagger o Rod Stewart provare qualcosa del genere!»
Aggiunse anche, col suo solito umorismo, che il momento più
memorabile della serata era stato quando la famosa ballerina Merle Park gli
aveva dato un pizzicotto sul sedere: «È indecente, quella donna!»
Quella breve sortita nel mondo delle punte e dei plié, però, è importante
soprattutto perché procurò a Freddie una nuova amicizia destinata a durare
per tutta la vita.
15
Phoebe

Io scateno molte frizioni, quindi non è facile avere rapporti con


me. Sono la persona più gentile del mondo, cari miei, ma è
difficilissimo vivere con me. Credo che nessuno sia in grado di
sopportarmi. In un certo senso sono un ingordo: voglio tutto
come piace a me. Ma chi non lo è? So amare e sono molto
generoso. Chiedo molto, ma do anche molto in cambio.

FREDDIE MERCURY

Ero il cuoco di Freddie e anche il suo tuttofare, il suo


cameriere, maggiordomo, domestico e segretario... e confessore.
Ho viaggiato in tutto il mondo con lui, ero con lui nei momenti
migliori e in quelli peggiori. Gli ho fatto da guardia del corpo
quando serviva e alla fine, ovviamente, anche da infermiera.

PETER «PHOEBE » FREESTONE

NEL backstage della Royal Opera House, durante i preparativi per il suo
debutto nella danza, Freddie conobbe un giovane assistente costumista:
Peter Freestone. Indispensabile da subito. Prontamente ribattezzato
«Phoebe», Peter sarebbe diventato l’assistente personale di Freddie,
rimanendo al suo fianco fino alla fine.
«Freddie venne all’Opera House per provare i costumi per il galà del
Royal Ballet», raccontò.
Fisicamente imponente e affabile di carattere, il tipo di persona per cui
nulla è mai un problema, è facile capire perché Freddie si «innamorò» di
Peter all’istante.
«Era gentilissimo ed educato la prima volta che lo incontrai», ricordò
Peter.
«Più avanti scoprii che era sempre educato, a meno che qualcuno lo
infastidisse, nel qual caso andava su tutte le furie. Era abbastanza in
soggezione quando venne alla Opera House perché era fuori dalla sua sfera
abituale. [Inoltre] quello era un bastione dell’establishment e lui era
l’opposto. Il galà fu stupendo: il modo in cui ballerini portarono Freddie in
giro per il palco... magnifico.
«Cantò Crazy Little Thing Called Love con i suoi costumi in pelle, poi
sparì dietro un muro di ballerini e riapparve con un vestito di paillette per
fare Bohemian Rhapsody.
«Era la prima volta che lo vedevo esibirsi, che vidi il grande showman.
Prima di allora avevo sentito vagamente parlare dei Queen e una volta
l’avevo visto con Mary: prendevano un tè alla Rainbow Room di Biba, nel
1973. Aveva i capelli fino a qui e un giacchettino in pelliccia di volpe. Era
lui, ne sono certo.
«Già quella era una performance», aggiunse in seguito.
Durante la festa dopo lo spettacolo, al Legends, Peter incontrò Freddie in
compagnia del manager Paul Prenter e si fermò a chiacchierare con
entrambi.
«Tre settimane dopo, Paul telefonò al mio capo e gli chiese se conosceva
qualcuno interessato a un contratto di sei settimane per curare il guardaroba
dei Queen durante una tournée. Da quando l’avevo visto sul palco volevo
vivere quella vita. Avevo visto La bella addormentata e Il lago dei cigni
migliaia di volte. Volevo rivedere quella persona così entusiasmante, vedere
più rock. Non sapevo a cosa andavo incontro, pensavo che gestire il
guardaroba per quattro persone non potesse essere peggio che gestirlo per
un’intera compagnia di danza.»
Peter si licenziò, perdendo un ottimo posto fisso in cambio di un
contratto temporaneo con i Queen. Dopo il tour si trovò quindi disoccupato
e fu costretto ad accettare un impiego temporaneo come centralinista alla
British Telecom, «finché i Queen non fossero andati di nuovo in tournée e
mi avessero richiamato. Poi mi tennero anche quando non erano in
tournée, mi davano un fisso e gli facevo diversi lavori in ufficio. Dopo il tour
americano, Paul e Freddie decisero che mi sarei occupato esclusivamente di
Freddie. Nei tour avrei sempre gestito il guardaroba per tutti, ma in ogni
altra occasione dovevo badare solo a lui»
Chiacchierando i due scoprirono di essere stati entrambi in collegio in
India, a migliaia di chilometri di distanza dai rispettivi genitori. Nacque un
legame molto forte e Freddie cominciò ad abbassare le difese. Una delle
prime cose che colpirono Peter era l’avversione di Freddie per i litigi.
«Non era mai maleducato», ricorda. «Se nasceva una disputa si faceva in
disparte e lasciava che se la sbrigassero gli altri. Lui si limitava ad ascoltare,
infilando qualche commento qua e là. È vero che lui e Mary litigavano
spesso, ma solo perché lui si aspettava delle cose dalle persone e se queste lo
deludevano si arrabbiava. Imparai in fretta a lavorare con lui. Se sbagliavi
qualcosa te lo faceva notare e tu facevi molta attenzione a non sbagliare una
seconda volta. Ma questo non funzionava con Mary, perché se lei si era
messa in testa una cosa la faceva e basta, e a modo suo, e se questo
contrastava con le idee di Freddie, scoppiava il Gran Litigio.»
D’istinto Peter imparò a tenere le proprie opinioni per sé. Sapeva anche
quando era giusto superare i confini professionali e quando invece era
meglio mantenerli. Il mondo sregolato dei Queen era per lui un pianeta
sconosciuto, che iniziò a esplorare con attenzione. A volte si sentì oppresso
dai privilegi e dagli eccessi che la band dava per scontati.
«A ogni nuovo tour volevano sempre più luci, più impianti, più
scenografie», ricorda. «Tutto doveva essere una novità, uno spettacolo più
grandioso di quello precedente. Anche solo questo faceva di loro una
grande band. Qualche anno fa, ho visto Michael Jackson a Wembley per
due giorni di fila. Il secondo concerto era esattamente uguale al primo. I
Queen erano sempre diversi. Non sapevi mai cosa aspettarti. Anche le loro
riunioni erano costosissime, perché le facevano in studio, che costava una
fortuna all’ora. Oggi nessuno farebbe una cosa del genere.»
Il nuovo assistente era così discreto e tranquillo che presto gli fu chiesto
di badare alle necessità personali di Freddie.
«Gli preparavo persino la valigia», racconta. «Chiamavo l’auto che venisse
a prenderci, mi assicuravo che [Freddie] avesse preso soldi, carte di credito,
passaporto e biglietti, anzi no, tenevo tutto io. Lo mettevo sull’aereo. Il più
delle volte era come prendersi cura di un bambino. Ero sempre con lui,
letteralmente al suo fianco, anche sull’aereo. Considerando il tempo che
abbiamo passato insieme, è incredibile che siamo andati così d’accordo. A
Los Angeles, dove restammo un po’ di tempo mentre i Queen registravano,
c’era sempre altra gente intorno, per cui ero in parte alleggerito dalle mie
responsabilità. Ma a New York, eravamo solo noi due. Il modo più semplice
per descrivere il nostro rapporto è dire che c’era un confine: da una parte il
datore di lavoro, dall’altra l’amico. Ma non era mai un limite netto e
immutabile. Dopo un po’ ero in grado di capire esattamente dov’era il
confine in quel dato momento: capivo se aveva bisogno del suo dipendente
per fare questo e quello, oppure se invece aveva bisogno dell’amico. Era così
per forza. In quel modo sapeva che poteva sgridarmi, cosa che faceva spesso,
soprattutto per sfogare le sue frustrazioni. Sapevamo tutti e due perché lo
faceva, per cui andava bene così. Dopo non ne parlavamo più. Freddie non
serbava rancore. Si sfogava sul momento e poi era finita lì.»
Era difficile essere sempre a disposizione del suo «padrone»? C’erano
state volte in cui si era sentito come un servitore? La sua risposta era
negativa.
«Soprattutto perché – ed è terribile ammetterlo – Freddie non mi trattava
come io invece avevo trattato i domestici che avevamo in India,
ordinandogli di fare questo e quello... Era sempre gentilissimo con me; quasi
sempre. Anche se avevo uno stipendio, non dovevo pagare mai niente, così
come tutti quelli che lavoravano per lui. Mai una cena, né una birra. Se una
volta gli offrivamo noi da bere era contento, ma non se lo aspettava. Se
andava al bar ed eravamo in dieci, finiva tutto sul suo conto. Ma non aveva
soldi in tasca, quelli glieli tenevamo noi. Era proprio come un aristocratico,
in questo senso. Non mi ha mai fatto sentire a disagio.»
Ora che tutto è finito, Peter riconosce di avere avuto «una vita molto
fortunata» con Freddie e i Queen.
«A tutti gli effetti ho vissuto la sua stessa vita, senza dovermela meritare.
Non dovevo comporre canzoni o parlare ai giornalisti. Ho preso il Concorde
una miriade di volte, sono stato nelle migliori suite dei migliori alberghi del
mondo, ho fatto acquisti per conto suo nelle migliori case d’asta, con i suoi
assegni firmati in bianco. Vivevo e spendevo come lui. Come avrei mai
potuto sentirmi un ‘servitore’?»
La forte amicizia personale che nacque tra i due, negli ultimi anni si
basava sul rispetto e sulla fiducia reciproci.
«Freddie non si fidava delle persone con tanta facilità», racconta Peter.
«O si fidava di te nel giro di poco, o non si fidava per niente. Il fatto che mi
avesse assegnato quel ruolo fu la base della nostra amicizia: iniziò già
durante il primo anno. Litigammo sul serio una volta sola, nel 1989 circa»,
quando Freddie pensò che Peter avesse parlato della sua malattia in giro,
cosa che non era vera.
«Ma durò poco. Gli dissi che ne avevo avuto abbastanza, che volevo
andarmene. ‘Ti prego, non farlo’, mi rispose. ‘Resta qui. Ho bisogno di te.’
Era tutto quel che volevo sentirmi dire. Dimenticai subito le sue accuse
ingiuste, e rimasi con lui fino alla fine.
«La sua cerchia personale era davvero la sua famiglia. Facevamo tutto per
lui. Avrei fatto di tutto per lui. E non solo perché mi pagava, ma per
rispetto. Per me era su un piedistallo… Non lo feci perché lo ammiravo o
perché ero in soggezione, ma perché avevo avuto la fortuna di diventare suo
amico. Non l’avrei fatto per nessun altro.»
Quando Peter divenne il suo assistente personale, Freddie viveva già una
vita di eccessi. Molti si domandano come abbia fatto a tenerla nascosta ai
media. «Semplice», spiega Peter, «era solo una questione di riservatezza.»
«Ci sono certi personaggi nel mondo del rock che andrebbero
all’inaugurazione di uno sgabuzzino pur di farsi fotografare», spiega. «Se
non fanno notizia, ne creano una, solo per restare sotto i riflettori. Freddie
invece faceva di tutto per non finire sui giornali. Certo, partecipava a tutti gli
eventi promozionali dei Queen, ma non alle grandi feste o alle varie
première dello show business. Di rado andava ai concerti degli altri. Era
molto riservato. La musica era il suo mestiere, lo studio il suo ufficio. E
quando non era in ufficio, non voleva certo lavorare.»
Nonostante gli eccessi e le imprudenze del cantante, Peter sostenne di
non avere mai temuto per la sua incolumità.
«Era normale in quegli anni», ricorda con un’alzata di spalle. «Erano i
primi anni Ottanta. Si poteva fare qualsiasi cosa.»
C’era anche un altro motivo per cui Freddie era di buon umore
nell’ottobre del 1979: il quattordicesimo singolo della band, Crazy Little
Thing Called Love, spalleggiato da We Will Rock You di Brian sul lato B, era
stato accolto con euforia dalla stampa musicale, piazzandosi al secondo
posto nella classifica inglese. Oramai abbandonato del tutto il look
bohémien, Freddie aveva abbracciato gli abiti di pelle in versione gay, con
pantaloni neri o rossi, e berrettini da macho. Era quella la sua nuova divisa
sul palco, per dare un’immagine più dura e aggressiva, che però non sarebbe
durata a lungo. Nel giro di qualche anno, il look si sarebbe evoluto,
ammorbidendosi molto, fino a raggiungere l’immagine definitiva: canottiera
bianca e jeans. Freddie era pienamente padrone della sua immagine e
proiettava un atteggiamento di sfida. Il look essenziale era perfetto per il
nuovo decennio alle porte. «Da ora in poi, i costumi sgargianti sono out»,
dichiarò. «Trasmetterò il nostro messaggio musicale vestendomi più casual.
Il mondo è cambiato, la gente vuole qualcosa di più diretto.»
Dopo tutti quegli anni di successi, i Queen cominciavano ad avvertire i
primi segni di stanchezza. Erano stufi e nervosi, e con l’affievolirsi
dell’entusiasmo e dell’energia i loro rapporti si deteriorarono sempre più.
Negli anni ho visto diverse grandi band attraversare periodi simili. Arriva
sempre un momento in cui la carriera non è più tutto, in cui non si è più
coinvolti come agli inizi. Brian, Freddie, Roger e John stavano invecchiando.
Oramai erano tutti adulti, con mogli o compagne, figli, case, dipendenti,
un’immagine pubblica da difendere, impegni solisti e di beneficenza da
onorare. Ognuno di loro era una piccola azienda con infinite responsabilità.
I Queen non erano più la band dei primi tempi, cioè un gruppo di
giovanotti spensierati e pieni di talento, che giravano il mondo a cantare e
ballare, facendo ciò che più gli pareva. Anche le loro rispettive personalità,
maturando, li avevano portati in direzioni diverse. Roger era a suo agio nel
ruolo della grande superstar e riempiva i titoli dei giornali tanto quanto il
leader del gruppo, specialmente per la sua movimentata vita privata. Brian,
invece, non amava molto la notorietà, anche se si era abituato, soprattutto
dopo avere incontrato un’attrice, Anita Dobson (sua seconda moglie), che
conosceva molto bene l’ambiente dello show business. John infine era
totalmente immerso nel mondo domestico e famigliare che Freddie aveva
rifuggito e dal quale si era sentito forse escluso.
Sotto questo aspetto, forse Freddie si sentiva in colpa. John infatti, era
l’uomo ideale per i suoi genitori: i Bulsara avrebbero dato qualsiasi cosa
perché il figlio fosse come Deacon. Il bassista personificava tutte le qualità
che Freddie non aveva.
Dei quattro, stranamente era proprio Freddie quello meno interessato
all’esposizione mediatica. Lui si riteneva prima di tutto un musicista e uno
showman, e solo in seconda analisi una rockstar. A suo avviso, la cosa
importante era cesellare dischi perfetti e fare uno spettacolo più
sorprendente dell’altro; essere sempre il migliore, per i fan come per se
stesso.
«Era un gran perfezionista», concorda Peter. «Passava ore su una
canzone: voleva assicurarsi che non ci fosse un modo migliore per
strutturarla, che non esistesse melodia migliore per esprimere quel che
voleva. Componeva innanzitutto per se stesso; cercava la perfezione per se
stesso, non per gli altri.»
A Freddie non interessava partecipare alle feste «giuste» o alle première
«immancabili». Non gli interessava coltivare amicizie importanti. Non faceva
la corte ad amici famosi: lasciava che fossero gli altri a cercarlo. Se poi la
persona in questione aveva delle cose in comune con lui, allora bene,
altrimenti lasciava perdere. Essere visto? Non gliene poteva fregare di meno.
Laddove le star odierne, molto meno solide, sono ossessionate dalla loro
immagine pubblica e smaniano di leggere il proprio nome sui giornali,
Freddie riteneva questa preoccupazione quanto meno noiosa, per non dire
inutile e di cattivo gusto.
«Servono nervi d’acciaio per sopportare questi ritmi», osservò una volta.
«Quando hai successo diventa tutto molto difficile, perché scopri quel che
c’è dietro questo business. Vedi il marcio, incontri i veri cattivoni. Prima
non ne sapevi nulla, poi però devi per forza essere molto forte e fare una
cernita. Questo business è come un’autopista: devi fare attenzione a tutti
quelli che ti vengono contro ed evitare che ti tamponino troppo. Chiunque
abbia successo rimane scottato prima o poi. Non c’è una scala mobile che ti
porti in cima», aggiunse sibillino.
Per una rock band il successo globale comporta inevitabilmente un
distacco dai fan delle prime ore. Consapevoli di questo, e preoccupati per
l’inevitabile effetto a catena, per il nuovo tour i Queen decisero di evitare gli
stadi a favore di ambienti più intimi, come teatri e sale da ballo: alcuni di
questi palesemente inadatti a ospitare la loro enorme macchina scenica.
Ribattezzato «Crazy Tour», proprio per l’inadeguatezza di alcuni dei locali
scelti, e promosso da Harvey Goldsmith, il nuovo tour li vide esibirsi a
Dublino per la prima volta, e poi a Birmingham, Manchester, Glasgow e
Liverpool, dove Freddie sfoggiò due ginocchiere, una rossa e una blu, per
accontentare sia i tifosi dell’Everton sia quelli del Liverpool, le due squadre
della città. Suonarono anche a Brighton e in una serie di date a Londra, fra
cui una alla Lyceum Ballroom e una al Rainbow Theatre. Attaccarono la
tournée con particolare entusiasmo e alla fine dichiararono di essersi
divertiti moltissimo, cosa che non accadeva da tempo. Il tour gli ricordò
quanto era bello suonare ai vecchi tempi, quando fama e ricchezza erano
poco più che un sogno.
Dopo il concerto di Brighton, Freddie confidò a un amico di non
disprezzare qualche strana orgetta, di tanto in tanto. «Due sere fa eravamo a
Brighton e la squadra dei tecnici aveva organizzato una festa», disse. «Una
cosa alla Queen; siamo bravissimi a far festa. C’erano un sacco di
sporcaccione e tutti si sono fatti sotto. Non ti faccio nomi, ma c’era della
bella gente… C’erano arredi scenici e quant’altro che volavano dappertutto.
Magnifico!»
Freddie però non menzionò la sua notte d’amore fra le braccia di un
giovane corriere della DHL, Tony Bastin. Bastin divenne il primo compagno
fisso del cantante, imbastendo una relazione altalenante di circa due anni,
che però non bastò come antidoto alle sue abitudini licenziose. Nessuno dei
due si illuse mai di avere trovato l’amore della sua vita.
«Tony non era affatto il suo tipo», spiega Peter, riferendosi al fatto che di
norma Freddie non amava i ragazzi biondi e con un aspetto normale come
Bastin.
«A Freddie piacevano i tipi grandi e muscolosi, e relativamente anonimi,
su cui poteva lasciare il segno», spiega. «Desiderava una relazione fissa solo
per avere una base d’appoggio stabile che gli permettesse di continuare a
vivere come prima.»
Tutti gli amanti di Freddie erano persone semplici. «Sebbene in fondo
anche lui fosse un ragazzo di campagna – cosa che odiava ammettere – nel
tempo aveva acquisito gusti raffinati. I suoi amanti imparavano ad adeguarsi
in fretta e finivano per avere aspettative sempre più elevate.»
Bastin si trasferì nell’appartamento di Freddie in Stafford Terrace,
portandosi dietro il gatto, Oscar, e iniziò a seguire il compagno in tournée.
Presto si abituò fin troppo al lusso, ma non si può fargliene una colpa, visto
che Freddie prodigava voli in prima classe e altri regali costosi. Non che il
giovane corriere sembrasse apprezzare tutto ciò. Dopo un po’, infatti,
Freddie si accorse che Bastin lo stava usando e – cosa assai peggiore – gli
giunse voce che fosse stato visto in giro in compagnia di un biondino. Fu il
primo di molti tradimenti simili.
«Spesso le sue relazioni finivano male, con un tradimento, e negli anni
Freddie divenne sempre più cauto prima di lasciarsi coinvolgere a livello
emotivo», rivela Wigg.
«Appena gli regalava un braccialetto di Cartier o una macchina... capisci?
Non erano molto furbi quei suoi ‘amichetti’. Capita spesso con gente del
genere. Le persone che bazzicano intorno a una star hanno un ego
spropositato, a volte più grosso di quello della stessa star. Finiscono per
credere che anche loro possono diventare qualcuno, dimenticandosi che
non hanno una briciola di talento e che sono lì solo perché sono al servizio
di una grande stella.»
Questo potrebbe spiegare perché Freddie preferisse il sesso senza legami,
con partner sempre diversi, e riservasse il suo affetto agli amici più fidati.
Alla fine, il cantante convocò Bastin negli Stati Uniti, troncò la relazione
e lo rispedì indietro con il primo aereo, ordinandogli di sgomberare il suo
appartamento ma di lasciare il gatto.
I Queen salutarono la nuova decade con l’uscita del quindicesimo
singolo, Save Me, che si piazzò undicesimo nella classifica inglese. Nel
frattempo, la elvisiana Crazy Little Thing Called Love sedusse il resto del
mondo, regalando ai Queen la prima numero uno americana e
raggiungendo i vertici delle classifiche anche in Australia, Nuova Zelanda,
Messico, Canada e Olanda. La band si ritirò a Monaco per lavorare a un
nuovo album e alla colonna sonora di Flash Gordon.

A Londra nel frattempo Mary aveva trovato a Freddie la casa dei suoi
sogni. Quando lui ricevette per posta le specifiche di Garden Lodge in
Logan Place, una tranquilla via residenziale nel Royal Borough of
Kensington and Chelsea, poco distante dalla sua beneamata Kensington
High Street, si innamorò all’istante della dimora. Cinta da vecchie e nobili
mura sormontate da una ringhiera coperta di rampicanti, la casa offriva una
privacy quasi totale. Dalla strada si vedeva solo il tetto. L’edificio in stile
edoardiano aveva due piani e otto camere da letto e, al contrario di molte
altre nella zona, un giardino con grandi alberi. L’entrata era un anonimo
portoncino verde scuro; anni dopo sarebbe stato ricoperto di scritte dai fan
di tutto il mondo.
La casa apparteneva a una famiglia di banchieri, gli Hoare, e l’assonanza
fra quel cognome e il termine «puttana» (whore) fu subito notata da
Freddie, che prontamente la ribattezzò «Whore House» (bordello). Il prezzo
trattabile superava il mezzo milione di sterline. Freddie pagò in contanti
senza batter ciglio. Dato che nel tempo era stata suddivisa in due residenze
separate, Freddie iniziò una lunga ristrutturazione per riportare la dimora al
suo antico splendore. Sarebbero passati anni prima che potesse finalmente
chiamarla «casa mia», ma questo non gli impedì di vantarsene fin da subito.
«L’ho vista, mi sono innamorato e dopo mezz’ora era già mia», disse alla
giornalista Nina Myskow.
«Adesso è un cantiere. Voglio cambiare diverse cose. Forse ci entrerò tra
un anno. È una casa di campagna… in città. È molto appartata, con un
parco enorme, ma è nel centro di Londra. Una volta al mese mi viene
l’ispirazione e vado lì con l’architetto. Perché non tiriamo giù questo muro?
gli chiedo. Tutti sbuffano e l’architetto vorrebbe morire. L’altro giorno ero
ubriaco dopo un bel pranzetto e sono andato lì. In alto c’è un posto
bellissimo dove voglio farci una grande camera da letto. Sto buttando giù tre
stanze per fare una splendida suite. In quello stato, ho detto, ispirato:
‘Sarebbe bello mettere una cupola di vetro sopra la camera da letto’.
L’architetto è trasalito, ma poi è corso subito a prendere carta e penna. Non
ho ancora visto i disegni, ma li sta preparando.»
Sky apprese la notizia da un’intervista sul Daily Star. «Mi piace spendere,
spendere e spendere,» aveva confessato un gasatissimo Freddie. «Di recente
ho comprato casa. Adoro comprare pezzi di antiquariato da Sotheby’s e
Christie’s. A volte potrei andare da Cartier e comprarmi tutto il negozio.
Spesso le mie spese folli cominciano in modo semplice, come una donna che
esce solo per comprarsi un cappellino tanto per farsi tornare il buonumore.
A volte sono così stufo di tutto che voglio solo affogare nei soldi. Sono così
agitato che spendo, spendo, spendo. Poi torno a casa penso: Oddio, ma che
cosa ho comprato? Ma niente è sprecato, perché mi piace molto fare regali.»
Poi confessò a Ray Coleman del Daily Mirror: «Non amo la vita facile. Se
spendo tanto, devo continuare a guadagnare tanto. È così che mi
autostimolo. Bevo molto, fumo molto, mi piacciono i vini pregiati e la buona
cucina. Non mangerei mai più hamburger».
L’ossessione per la nuova casa era solo un altro modo per allontanare la
noia.
«È la peggior malattia del mondo», ammise. «Io corro intorno al mondo
come un pazzo, ma a volte penso che la vita non sia tutta lì: per giunta io mi
annoio, perché non riesco a star fermo per tanto tempo, divento nervoso.
«Ti abitui a cose diverse. I tuoi standard e le tue aspettative crescono. Se
sai che hai bisogno di intrattenimento costante, fai in modo di garantirtelo.
Quando racconto alle persone le cose che ho escogitato, restano allibite. Ma
sono fatto così, è il mio modo per divertirmi. Ecco perché non riesco a
starmene seduto a leggere un libro. Leggerò tutti i libri del mondo quando
quest’avventura sarà finita e non potrò più camminare. Può darsi che sia
solo ingordigia, ma sono un intrattenitore. Ce l’ho nel sangue... Sono solo
un attore come tanti, caro mio. Datemi un palcoscenico! Ma in un certo
senso ho creato un mostro, vero? E devo conviverci.»
Il sedicesimo singolo dei Queen, Play the Game, vide la luce il 30 maggio
1980. Le fan si offesero per l’immagine indurita ostentata nel video da un
Freddie con tanto di baffi. Molte bombardarono gli uffici dei Queen con
flaconi di smalto. Nonostante le proteste, il singolo si piazzò al
quattordicesimo posto in classifica.
Nell’estate del 1980 i Queen affrontarono una nuova ed epica tournée
americana di quarantotto date, che registrarono il tutto esaurito dalla prima
all’ultima. Poi il nono album della band, «The Game», uscì nel Regno
Unito. Stroncato dalla critica, scalò la classifica e arrivò in vetta. A
Vancouver i fan della band, che di solito lanciavano mutandine e fiori,
tirarono rasoi e lamette sul palco. Ma i baffi restarono dov’erano. Another
One Bites the Dust, composta e suonata quasi interamente da John Deacon,
che oltre al basso registrò anche le parti di pianoforte e chitarra (nota bene:
niente sintetizzatori; Roger aggiunse la batteria e Brian altri pezzi di chitarra
e armonizzatore) uscì ad agosto e andò dritta al primo posto in America,
restandoci per cinque settimane. Raggiunse il top anche in Argentina,
Guatemala, Messico e Spagna e la settima posizione nel Regno Unito. A oggi
è il singolo più venduto dei Queen: oltre sette milioni di copie. John disse
che quell’inconfondibile giro di basso era stato ispirato da Good Times, il
classico della disco music firmato dagli Chic.
«Freddie cantò fino a farsi venire il mal di gola», commentò Brian sulla
rivista Mojo. «La canzone gli piaceva tantissimo e voleva che fosse speciale.»
«The Game» fu il primo album dei Queen a raggiungere il primo posto
negli USA, superando ogni aspettativa. La mastodontica tournée americana
si concluse con quattro date al Madison Square Garden, mentre tutti erano
ancora sconvolti per l’improvvisa scomparsa del batterista dei Led Zeppelin.
John Bonham, che aveva solo trentadue anni, era morto soffocato dal suo
stesso vomito dopo avere ingollato quaranta bicchierini di vodka. La sua
morte distrusse una delle band preferite dei Queen.
Fu durante quella tournée che Freddie incontrò il suo «vichingo
personale», Thor Arnold. Infermiere di giorno e beniamino della scena gay
di Manhattan di notte, Arnold abitava vicino al Greenwich Village e aveva
abbordato Freddie in uno dei locali del quartiere. Sebbene la storia ebbe
vita breve, i due rimasero amici fino alla fine, soprattutto perché Arnold
non voleva nulla dal suo famoso amico. Se per esempio gli prendeva il
ticchio di salire su un aereo per fargli una sorpresa, si pagava il biglietto da
solo. Freddie apprezzava questi gesti e lo adorava per questo. E poi, tramite
Arnold, Freddie conobbe tre nuovi amici a Manhattan: Joe Scardilli, John
Murphy e Lee Nolan. I quattro furono presto ribattezzati le «figlie
newyorchesi», e ogni volta che era in città Freddie usciva con loro a far
baldoria.
A ottobre i Queen si concessero una breve vacanza, che però non fu
sufficiente a farli rilassare, a patto che ancora sapessero come farlo. Il
decimo album, la colonna sonora di Flash Gordon, non era ancora finito,
ma il singolo Flash era già pronto per il mercato. Mentre i quattro
preparavano un altro tour europeo, con tre date alla Wembley Arena,
furono raggiunti dalla notizia della morte di John Lennon, ucciso sulla
soglia di casa da un fanatico. Questo spinse tutte le persone famose a
prendere atto della propria vulnerabilità. C’erano altri pazzi in giro, come
John Hinckley Junior per esempio, ossessionato dall’attrice Jodie Foster e
che avrebbe tentato di uccidere il presidente Reagan nel 1981. I Queen non
avevano mai fatto particolare attenzione alla propria sicurezza, ma era
giunta l’ora di cambiare.
Come tributo per Lennon, suonarono Imagine alla Wembley Arena.
Anche se Freddie si dimenticò le parole e Brian gli accordi, il coro fu
intonato da una folla di spettatori ancora scioccati e affranti per la perdita.
Arrivò una valanga di premi: due nomination ai Grammy Award, per
«migliore produzione» («The Game»), e «miglior performance rock di un
duo o di un gruppo con cantato» per Another One Bites the Dust (persero;
vinse Bob Seger). Crazy Little Thing Called Love e Another One Bites the
Dust entrarono entrambi nei primi cinque singoli più venduti in America: il
secondo brano superò i tre milioni e mezzo di copie vendute. Verso fine
anno, mentre pianificavano un nuovo tour giapponese, i Queen tiravano le
somme. Avevano venduto oltre quarantacinque milioni di album e
venticinque milioni di singoli in tutto il mondo. Erano entrati nel Guinness
dei primati come gli amministratori d’azienda più remunerati e con se stessi
come principale patrimonio. Erano delle rockstar: che cosa potevano fare di
ancora più grande, migliore e innovativo?
16
Sud America

All’inizio siamo andati in Sud America perché ci avevano


invitato. Volevano quattro giovanotti aitanti che suonassero
bella musica… Alla fine avrei voluto comprarmi tutto il
continente e autonominarmi presidente. L’idea di fare un
grande tour in Sud America circolava da tempo. Ma portare in
giro i Queen costa un sacco di soldi e coinvolge moltissime
persone. Però ci siamo detti: Fanculo i costi, tesoro, godiamoci
la vita!

FREDDIE MERCURY

Quest’industria è piena di persone che desiderano


disperatamente essere amate. Siamo tanti piccoli esibizionisti
insicuri. Sembra tutto favoloso, facciamo del nostro meglio per
intrattenere il pubblico. A vederci pare che sappiamo il fatto
nostro, ma sotto la superficie ci agitiamo come papere fatte di
crack.

FRANCIS ROSSI

DOPO avere conquistato cinque continenti su sei (escludendo l’Antartide,


dove i fan del rock sono un numero trascurabile), solo il Sud America era
ancora terra incognita per i Queen. Da anni girava la voce, fasulla, che la
band più venerata e famosa in Argentina e Brasile stesse pianificando una
tournée da quelle parti. Solo una manciata di artisti si era avventurata lì
prima di allora, tra questi gli Earth,Wind & Fire e Peter Frampton, ma mai
con un tour di dimensioni colossali come meditavano di fare i Queen.
Eppure, se si poteva fare secondo il loro standard, ovvero nei migliori stadi
del continente, allora erano determinati ad andarci. Siccome il calcio era
praticamente una religione laggiù, i posti adatti a ospitare un grande
concerto non mancavano di certo. E se la Coppa del Mondo era l’evento
sportivo più seguito sul pianeta, i Queen erano la più grande rock band del
mondo. Era il 1981 e Freddie avrebbe compiuto trentacinque anni.
Molti argentini piazzati nei posti giusti avrebbero guadagnato una
fortuna grazie alla tournée dei Queen. José Rota fu nominato promoter.
Alfredo Capalbo, influente imprenditore del Paese, fornì gli impianti per lo
stadio Vélez Sarsfield di Buenos Aires, per quello municipale di Mar del
Plata e per quello di atletica di Rosario. I Queen erano contentissimi di
poter usare gli stadi della Coppa del Mondo: li ritenevano più che adatti a
ospitare i loro spettacoli.
In fin dei conti, come disse Brian: «Il pubblico dei Queen è come una
folla di tifosi non divisa in due fazioni».

Durante i preparativi per il cosiddetto «South America Bites the Dust


Tour», Freddie andò a New York per concludere l’acquisto di un
appartamento. Il suo portafoglio tirò un sospiro di sollievo: pagare mille
dollari a notte per una camera d’albergo era un’esagerazione persino per
uno come lui, dato che a volte restava in città per più di tre mesi di fila.
Sempre assistito da Peter, Freddie acquistò una magnifica residenza con
doppia vista panoramica, a nord e a sud.
«Mi ricordo ancora il suo entusiasmo per i festeggiamenti del centenario
del ponte di Brooklyn», racconta Peter. «Li guardammo in contemporanea,
dal balcone e in televisione. Prima l’appartamento apparteneva a un
senatore, o forse un membro del Congresso, un certo Gray. Freddie l’aveva
comprato dalla vedova. Era tutto arredato in grigio (grey): quattro camere
da letto, cinque bagni e il salotto, tutto rivestito di tessuto grigio, come
quello che usano per le giacche degli uomini d’affari. Le pareti della sala da
pranzo erano foderate di raso argenteo. Sebbene di solito Freddie amasse
arredare e rimodernare le case che comprava, quella la lasciò esattamente
com’era.» Mentre il cantante prendeva possesso della sua nuova dimora
sulla East Coast, quaranta tonnellate di attrezzature, luci e impianti
viaggiavano via nave dagli Stati Uniti a Rio de Janeiro, dove sarebbero state
montate in vista degli storici concerti. Altre venti tonnellate furono
trasportate su uno speciale DC8 da Tokyo a Buenos Aires, la tratta aerea più
lunga del mondo.
Quando infine anche i Queen atterrarono in Argentina, il 24 febbraio
1981, in una bella giornata con temperature attorno ai ventisei gradi,
capirono per la prima volta che cosa significava ricevere «un’accoglienza da
eroi». Certo, sapevano cosa si prova a essere accolti da folle di fan estasiati –
era già successo a Tokyo – ma nemmeno i giapponesi potevano prepararli
per ciò che li aspettava a Buenos Aires. Fin dal giorno in cui il tour era stato
approvato dal governo e annunciato in via ufficiale, sui media era scoppiata
una vera «Queenmania». Nei giorni precedenti il loro arrivo, decine di
migliaia di fan avevano cominciato a convergere sulla capitale. Il giorno
dello sbarco pareva che si fossero dati tutti appuntamento all’aeroporto. Ad
attendere la band c’erano persino una delegazione presidenziale e una
scorta della polizia. L’evento fu trasmesso in diretta sull’emittente pubblica
del Paese. Persino Freddie restò senza parole.
«Quando siamo entrati nell’aeroporto, non riuscivamo a credere alle
nostre orecchie», raccontò. «Gli altoparlanti avevano smesso di annunciare i
voli e trasmettevano le nostre canzoni!»
La giornalista argentina Marcela Delorenzi, che all’epoca aveva quindici
anni, descrisse l’avvenimento come «il primo grande evento rock nel nostro
Paese».
«Scatenò una rivoluzione incredibile», disse. «Sui giornali, alla radio e in
tv, per ventiquattr’ore al giorno, un mese prima del loro arrivo, si parlava
solo dei Queen. Dopo quel tour, i cantanti rock del nostro Paese sono stati
costretti a cambiare immagine e adottare un altro approccio alle loro
esibizioni dal vivo. Hanno dovuto migliorare gli impianti, le luci, ogni
aspetto della performance. All’improvviso, tutto ciò che prima era
accettabile apparve penoso rispetto ai Queen. Il loro tour è stato come una
versione rock dell’avvento di Cristo. Da allora in poi tutto è stato definito
come ‘prima dei Queen’ e ‘dopo i Queen’. Hanno avuto un effetto profondo
su tutto il Sud America. Orde di cileni, uruguaiani, paraguaiani e boliviani
hanno attraversato il confine per venire ai concerti in Argentina. Le date di
Buenos Aires sono ancora incise nella mia memoria: 28 febbraio, 1º marzo e
9 marzo.»
L’incontro con il suo idolo, Freddie Mercury, le cambiò la vita, raccontò
Marcela con le lacrime agli occhi.
«Alloggiavano allo Sheraton di Buenos Aires. Io andai lì con un sacco di
altri fan ad aspettare che uscissero, perché dovevano andare a una
conferenza stampa allo stadio. C’era una folla enorme che aspettava di
vedere Freddie: gridavano e intonavano cori come se fosse la fine del
mondo.
«Avevo un abito celeste e rimasi di sasso quando vidi che Freddie era
vestito dalla testa ai piedi con il mio stesso identico colore. Uscì
dall’ascensore circondato da guardie del corpo, ma sentii il bisogno
irrefrenabile di correre ad abbracciarlo. Lo feci e gli diedi una lettera,
dicendogli anche che avrei voluto conoscere ‘Frederick Bulsara’, non
‘Freddie Mercury’. Nella lettera c’era il mio indirizzo e il mio numero di
telefono, ma ovviamente non mi aspettavo che mi telefonasse. L’avevo
chiamato con il suo vero nome perché ero convinta che avesse due
personalità, una buona e una cattiva, una bianca e una nera. Freddie
Bulsara era il buono, il lato bianco. Solo molti anni dopo avrei scoperto che
non mi ero sbagliata più di tanto.
«Poi una delle guardie del corpo mi colpì e mi spinse via. Non ce l’avevo
con loro: erano nervosi e dovevano reagire, casomai qualcuno volesse
attaccare Freddie, ma ovviamente io non volevo certo fargli del male.
Volevo solo toccarlo. Immagino che ci fossero milioni di persone in tutto il
mondo che si sentivano esattamente come me. Poi la band lasciò l’albergo
ed entrò subito in macchina. Solo Brian rimase un po’ indietro a firmare
qualche autografo e dovettero spingerlo dentro l’auto [blindata e con tanto
di mitragliatrice]. Mentre si allontanavano, vidi che Freddie aprì la mia
lettera e cominciò a leggerla. Ero euforica.»
Marcela è la giornalista che mi portò una copia del certificato di nascita
di Freddie. Allo stadio di Buenos Aires, i fan si misero in coda fin dalle otto
del mattino, anche se per via del caldo lo spettacolo non sarebbe cominciato
prima delle dieci di sera. Marcela andò a due dei tre concerti di Buenos
Aires, dove i suoi idoli salirono sul palco accompagnati da guardie armate.
«In Argentina non si era mai visto nulla del genere», prosegue.
«All’inizio scese sul palco una specie di UFO, fra un turbinio di luci e fumo;
un momento magico. Tutti avevano la pelle d’oca. La gente intorno a me
piangeva. Il prato era stato coperto di erba artificiale e le misure di sicurezza
erano enormi: c’erano poliziotti ovunque, perché all’epoca avevamo una
dittatura di estrema destra, guidata dal generale Viola. Il generale aveva
detto che voleva incontrare i Queen e aveva mandato loro un invito
ufficiale. Ci andarono tutti tranne Roger, che si rifiutò dicendo che era
venuto in Argentina a suonare per il popolo, non per il governo.»
Una dichiarazione esplosiva. Il Paese era sotto il dominio della giunta
militare di Roberto Eduardo Viola Redondo, che quello stesso dicembre
sarebbe stato deposto da un colpo di stato guidato dal comandante in capo
dell’esercito, il generale Leopoldo Galtieri, e che in seguito sarebbe stato
incarcerato per violazione dei diritti umani. Nel 1982 Galtieri avrebbe
portato l’Argentina alla guerra contro il Regno Unito per il possesso delle
isole Malvine. Quando scoppiò il conflitto, la musica dei Queen fu bandita
dalle radio argentine.
«Due anni dopo la visita dei Queen, raggiungemmo la democrazia per la
prima volta dopo quasi quindici anni», osserva Marcela. «Una cosa simile
accadde in Brasile. Nel 1984 i Queen hanno suonato in Sud Africa fra mille
polemiche. Un paio di anni dopo il regime dell’apartheid cadde e anche il
Sud Africa raggiunse la democrazia. E poco dopo i loro concerti in
Ungheria, nel 1986, cadde il regime e gli ungheresi poterono contemplare
un futuro democratico. Tutte coincidenze, probabilmente, ma comunque
incredibili: era come se i Queen portassero libertà e pace al popolo ovunque
andassero. Era come se fossero la band della libertà.»
Freddie era in piena forma, muscoloso e abbronzato. Salì sul palco
sfoggiando il suo nuovo look: jeans stretti e canottiera bianca, e un foulard
legato alla cintura. Portava i baffi curati e folti, per nascondere i denti. Da
allora in poi non avrebbe più cambiato immagine fino alla fine della sua
carriera, che sarebbe durata solo altri cinque anni, nonostante all’epoca
nessuno potesse saperlo.
Sprizzando energia da tutti i pori, ogni sera Freddie corse su e giù per il
palcoscenico. Il ruggito della folla era spaventoso, ma lui seppe tenergli
testa.
«Non solo incantava gli spettatori», ricorda Wigg, «ma incantava anche
se stesso.»
Freddie guidò il pubblico argentino con i suoi «Yeah!» «All right!»
«Okay!» «¡Cantan muy bien!» Si complimentò con i fan: «Cantate
benissimo!» Un brano in particolare si impose sugli altri: Love of My Life,
composta da Freddie e dedicata a Mary. Una registrazione dal vivo di quella
dolce ballata, uscita come singolo in Sud America nel 1979, aveva regnato al
primo posto in Argentina e in Brasile per un anno intero. I fan la
conoscevano a memoria e la cantarono con Freddie in perfetto inglese. La
folla si trasformò in un mare di fiammelle ondeggianti quando migliaia di
fan sventolarono gli accendini. Freddie provocò un altro boato del pubblico
quando si sistemò al pianoforte per introdurre un altro brano famoso.
«Questo è noto come ‘Bo Rap’», disse.
La band attaccò il suo grande classico, Bohemian Rhapsody, uscendo di
scena durante l’interludio «lirico». Nemmeno per le folle sudamericane,
quella parte della canzone poteva essere eseguita dal vivo.
Fra le numerose interviste che Freddie rilasciò a Buenos Aires, ve ne fu
una per la rivista Pelo, l’equivalente argentino di Rolling Stone. I giornalisti
gli domandarono perché sembrasse sempre separato dal resto del gruppo, al
che Freddie rispose: «Siccome i Queen suonano e registrano insieme, le
persone ci vedono come un’unità. Ma i Queen sono un gruppo, non una
famiglia. Ognuno di noi fa quello che preferisce».
In effetti, una caratteristica di quella tournée, presagio di future fratture,
fu una netta separazione fra Freddie e i compagni: da un lato Peter
Freestone, Joe Fanelli, Jim Beach, Paul Prenter e l’amante di Freddie, Peter
Morgan (tutti i «finocchi», tranne Beach), e dall’altro il resto della band e
della troupe (gli «etero»). Lontano dal palco, le due fazioni conducevano
vite separate. La carovana era tenuta insieme dal tour manager Gerry
Stickells.
Come sempre, Freddie lottava con le sue contraddizioni interiori.
Morgan, un ex body-builder rinomato per avere girato uno dei primi video
omoerotici, da tempo intratteneva una relazione focosa e intermittente con
il cantante e l’aveva raggiunto a Buenos Aires. Durante la sua permanenza,
però, lo tradì con un uomo molto più giovane. Freddie scoprì la tresca
quando vide per caso i due insieme in strada. Tradito per l’ennesima volta,
perse ogni fiducia nell’amore. Scaricò Morgan e si concentrò sul lavoro.
Ma non imparò la lezione. La sua storia successiva, con Bill Reid, un
americano conosciuto in un bar di Manhattan, fu altrettanto disastrosa;
forse la più burrascosa di tutte. L’entourage della star ricorda botte, bicchieri
rotti e comportamenti vergognosi. Secondo Peter, fu colpa del ‘Periodo Bill
Reid’ se Freddie si stufò di New York e abbandonò la scena gay della città, e
forse anche decise di scegliere «la strada più sicura», di «un uomo diverso a
ogni spettacolo».
«Ci furono momenti molto carichi dal punto di vista emotivo», rifletté
Peter. «Sembrava che Freddie avesse bisogno di quelle passioni burrascose
per stimolare la creatività. Forse le sue relazioni terminavano a causa delle
pressioni del lavoro, oppure dava vita a litigi furibondi per avere una carica
extra.»

A quanto pare, le difficoltà emotive stimolavano la creatività del


cantante. E a Buenos Aires, infatti, Freddie si dedicò al lavoro come mai
prima di allora, spinto proprio dalla rabbia e dal dolore per il tradimento di
Morgan.
Che cosa si aspettava da quella tournée?
«Avevo sentito molte cose sull’Argentina», disse, «ma non mi ero mai
immaginato che fossimo così famosi. La reazione dei fan è stata incredibile.
Da anni volevamo fare un tour in Sud America, ma negli ultimi sei mesi
abbiamo lavorato senza sosta. I Queen non sono solo una band, ma una
macchina che muove un gran numero di persone. Quindi ci costa tantissimo
andare in tour.»
Parlando del prezzo del successo e dei problemi con i giornalisti, Freddie
tagliò corto: «Per tanto tempo mi hanno dato fastidio», disse con un’alzata
di spalle. «Ma, come puoi vedere, adesso non più.»
In un’altra intervista per la defunta rivista Radiolandia 2000, Freddie
dichiarò il suo amore per il popolo argentino. «Ero abituato a un altro tipo
di reazione da parte del pubblico», disse. «Ma gli argentini sono stupendi e
voglio tornare. Devo ammettere che mi piace essere trattato come un idolo.
Voglio diventare una leggenda, ma devi capire che il nostro è un lavoro di
squadra. I Queen non sono solo Freddie Mercury: sono un gruppo. Basta
pensare a Seven Seas of Rhye, Killer Queen, You’re My Best Friend,
Somebody to Love [il brano preferito da Freddie e da sua madre], Bohemian
Rhapsody, che ha rappresentato il momento di maggiore soddisfazione della
mia carriera. Questi sono tutti pezzi dei Queen, non di Freddie Mercury.
Credo che la migliore prova del rispetto che abbiamo per il nostro pubblico
siano le nostre opere.»
Per evitare il pericolo di rapimenti o altri atti terroristici, quella tournée
fu segnata da misure di sicurezza mai viste prima. Ogni membro della band
aveva una guardia del corpo e un traduttore locali, oltre agli addetti alla
security inglesi che viaggiavano regolarmente con loro. Quando i fan gli
lasciavano montagne di oggetti da firmare, Freddie si divertiva a farli
autografare dalle sue guardie del corpo. Amava anche farle arrabbiare
schiacciando tutti bottoni dell’ascensore in modo che si fermasse a ogni
piano. Descritto come «un bambino dispettoso», Freddie si metteva a fare
flessioni con i gorilla nella hall o a sfidarli a correre per i corridoi durante i
tempi morti, che erano sempre parecchi.
Una volta disse a tutti che le sigarette facevano male alla salute e quindi
vietò ai suoi autisti di fumare. Loro pensarono che Freddie si riferisse alla
sua salute. Immaginate quindi la loro sorpresa, quando entrò in macchina e
si accese una sigaretta al mentolo. «È per il bene della vostra salute che l’ho
detto, non della mia!» esclamò, ridendo del suo stesso scherzo.
Una serata particolarmente calda, volle cenare in un esclusivo ristorante
di Buenos Aires, il Los Años Locos. In un luogo così esposto le guardie del
corpo erano sulle spine, specialmente quando Freddie disse di voler andare
in bagno da solo. Dato che la toilette era allo stesso piano del loro tavolo, gli
uomini non obiettarono: per una volta poteva anche andarci da solo, perché
no? Di sicuro si sarebbero accorti se qualcuno avesse tentato di infilarsi lì
dentro con lui. Poi, però, dopo quasi venti minuti, videro che non era
ancora tornato e capirono che era successo qualcosa. Si precipitarono in
bagno.
«Trovammo due uomini e due donne che bussavano alla porta di un
gabinetto, chiusa dall’interno», raccontò uno di loro. «Capimmo subito che
Freddie era lì dentro terrorizzato. Quella gente bussava alla porta perché
doveva vederlo; pretendeva un autografo. Freddie non rispondeva. Temetti
che gli fosse successo qualcosa. Gridammo a tutti di uscire subito. Quando
la situazione si calmò, Freddie capì che eravamo noi e aprì la porta. Era
bianco di terrore. Disse: ‘Avevate ragione, non posso nemmeno andare in
bagno da solo, vero?’»
La sera prima del concerto di chiusura a Buenos Aires, i Queen furono
invitati a un asado (una grigliata) alla quinta (casa fuori città) del presidente
dello stadio, il señor Petraca. La dimora sorgeva in mezzo a una tenuta
incantevole, di cui la band si innamorò all’istante. Tutto andò per il meglio
finché non arrivarono i giornalisti. Freddie cambiò umore. Non che lo
infastidissero di per sé (io stessa ero una giornalista quando lo incontrai, ma
nel mio caso rimase perfettamente rilassato). Quello che lo esasperava erano
le domande scontate che i reporter stranieri tendevano a porgli.
«Sono dieci anni che mi fanno le stesse, stupide domande», aveva detto
una volta.
Quel giorno Freddie era in vena di scherzi e quando vide avvicinarsi due
giornalisti argentini, uno dei quali lavorava per Pelo, disse al suo interprete
di inventarsi le risposte al posto suo. Quando in seguito i due lessero
l’intervista si sbellicarono dalle risate. C’era stata una domanda, però, alla
quale Freddie aveva voluto dare una risposta autentica: quella su Diego
Armando Maradona.
La nazionale argentina era campione del mondo, dopo avere vinto il
trofeo per la prima volta in casa nel 1978. Nel Paese il calcio era sacro e
Maradona era un dio. I Queen erano fra i suoi ammiratori. «In quell’uomo
dimora lo spirito della ricerca dell’eccellenza», scrisse Brian in una lettera.
Freddie incontrò il calciatore in una festa a Castelar, presso Buenos
Aires, e lo invitò a salire sul palco per l’ultimo concerto di Buenos Aires.
Maradona accettò subito. «Freddie non sapeva davvero chi fosse, dato che
non era proprio un appassionato di calcio», racconta ridendo Peter.
«Appassionato delle cosce dei calciatori, forse sì. E di quelle dei giocatori di
rugby, ancor di più!»
Tuttavia Freddie non poté fare a meno di prendere in simpatia la
giovane stella del calcio mondiale. Per certi versi, poteva identificarsi con
lui: erano tutti due abbastanza bassi di statura e perennemente affamati di
successo. Maradona salì sul palco e fu accolto da un applauso estatico,
dopodiché si tolse la sua maglia numero 10 e la scambiò con la maglietta di
Flash di Freddie. Poi presentò Another One Bites the Dust, e tornò dietro le
quinte, mentre i Queen attaccavano uno dei brani preferiti dagli argentini.
Forse il giornalista di Pelo non era poi così stupido quando intervistò
Freddie. Suggerì infatti che lo scambio di magliette fosse stato solo un «gesto
demagogico». Freddie, irritato dalle implicazioni di quell’affermazione, la
liquidò come «ridicola» e dichiarò che il suo era stato un gesto di amicizia e
niente di più.
«Se al pubblico sta bene e l’apprezza per ciò che è, non me ne frega
niente di quel che pensano i giornalisti», replicò. «Faccio quel che mi pare,
anche se la stampa lo etichetta come ‘demagogico’ o ‘sbagliato’.»
L’esperienza sudamericana non fu tutta rose e fiori. Costantemente
tormentato da fan e giornalisti, che si accalcavano intorno a lui non appena
usciva dall’albergo, Freddie passò più tempo a sfuggire le orde di fan e
paparazzi che altro. Riconosciuto ovunque andasse, trovava pace e
tranquillità solo chiudendosi nella sua suite. Dormiva più del solito e di
rado usciva dall’albergo prima delle due del pomeriggio. Ogni tanto
chiedeva di essere portato in giro in macchina per la città, ma dato che i suoi
passatempi preferiti erano mangiare fuori e fare shopping, il suo entourage
doveva trovare un ristorante diverso ogni sera, anche se poi quando ci
andavano magari Freddie quasi non toccava cibo. Almeno le spese erano
più fruttuose. In un’occasione il cantante acquistò venticinque paia di calze,
dieci magliette identiche e venti paia di pantaloni abbinati. Le sue guardie
del corpo gli domandarono perché avesse comprato così tanti capi uguali e
restarono di sasso quando spiegò loro che da piccolo non aveva potuto
indossare quel che voleva e che quello era il suo modo per rifarsi.
«Ogni tanto tornava bambino. Come quando visitammo il giardino
giapponese di Buenos Aires», racconta una guardia del corpo.
«C’erano sentieri, ponticelli e un vivaio. Freddie lo trovò incantevole e
disse che voleva crearne uno simile a Londra. A un certo punto si arrampicò
in cima a una cascata per scattare delle foto. La guardia giapponese lo vide e
gli ordinò di scendere. Fummo costretti a spiegargli chi era e persuaderla a
lasciarlo lassù. Freddie sarebbe sceso solo quando l’avrebbe deciso lui. Poi
diede da mangiare alle carpe koi e firmò il registro dei visitatori.»
L’euforia dei Queen per il loro storico tour in Argentina fu tarpata dalla
notizia che non avrebbero potuto esibirsi nello stadio più famoso di Rio de
Janeiro a causa di problemi burocratici. Il leggendario Maracanã, con una
capienza di centottantamila spettatori, all’epoca era lo stadio più grande del
mondo. Ma i promoter del tour brasiliano avevano incontrato una serie di
difficoltà tecniche, legali e politiche che erano risultate insormontabili. Il
governatore della città si era rifiutato di concedere l’autorizzazione per il
concerto, dichiarando che lo stadio poteva essere usato solo per
manifestazioni sportive, religiose o culturalmente rilevanti. Anni prima le
autorità avevano detto sì al Papa, e anche a Frank Sinatra, dunque il no ai
Queen era inspiegabile.
Ma lo spettacolo doveva continuare. La band si accontentò dello stadio
Morumbi, all’estremità meridionale della città, dove si esibì di fronte a
centotrentunomila persone, un record: il pubblico pagante più grande al
mondo per l’esibizione di un singolo artista o gruppo. La sera successiva
arrivarono altri centoventimila fan, sempre per vedere la magia dei Queen,
sorvegliati da schiere di poliziotti in assetto antisommossa e da agenti in
borghese mescolati tra la folla. Ancora una volta, fu particolarmente
commovente vedere centinaia di migliaia di fan che intonavano Love of My
Life in perfetto inglese in una città in cui pochi lo parlavano. Insieme le due
serate totalizzarono duecentocinquantunomila spettatori: un pubblico più
vasto di quello che la maggior parte degli artisti vede davanti a sé in tutta la
sua carriera.
Il successo senza precedenti dei Queen in Sud America era il fiore
all’occhiello del manager Jim Beach, oramai ribattezzato «Miami» dalla
band. Dopo cinque mesi trascorsi a persuadere le autorità argentine e
brasiliane circa i benefici di quell’avventura pionieristica, i suoi sforzi erano
stati ampiamente ricompensati.
«In sette concerti, oltre mezzo milione di spettatori hanno visto i Queen,
quasi tutta gente che non era mai stata a un concerto rock», dichiarò Beach
in Brasile. «I costi per esibirsi qui sono così enormi e il nostro margine di
profitto è abbastanza ridotto. Ma è stata una magnifica campagna
promozionale: durante l’ultima settimana in Argentina i dieci album dei
Queen hanno occupato tutte le prime dieci posizioni della classifica. Prima,
tutti dicevano che non era possibile fare concerti in Sud America, ma noi
abbiamo dimostrato il contrario.»
«Non avevamo la minima idea di come ci avrebbero accolti», aggiunse
Brian. «In Europa e in America sappiamo che cosa aspettarci, ma per il Sud
America eravamo un fenomeno completamente nuovo. In Argentina, dove
sono un po’ più raffinati, avevano una vaga idea di che cosa sarebbe
successo, ma per i fan brasiliani era tutta una novità. Uno dei momenti più
entusiasmanti della mia vita è stato quando ho alzato gli occhi e ho visto
centotrentamila persone che ci aspettavano.»
Ci furono anche alcune polemiche. Certi critici domandarono se fosse
giusto esibirsi in Paesi retti da regimi repressivi come l’Argentina. Non era
forse un modo per avallare dittatori che il resto del mondo detestava? Beach
era imperturbabile: «Se prendessimo questa posizione, allora resterebbero
pochi Paesi al mondo, al di fuori dell’Europa occidentale e del Nord
America, dove potremmo esibirci».
Freddie si cucì la bocca, avendo imparato a proprie spese che era meglio
mantenere un dignitoso silenzio di fronte alle critiche. «Non parla più
perché è un po’ stufo per come le sue dichiarazioni vengono travisate»,
commentò Brian. «Credo che chiunque incontri Freddie rimanga sorpreso,
perché non è la primadonna che uno si immagina. È una persona positiva e
buona, come tutti noi. A conti fatti è uno che si impegna sul lavoro e sforna
performance stupende.»
E dopo il Sud America, dove li avrebbe portati l’irrefrenabile spirito dei
Queen?
17
Barbara

Barbara Valentin mi affascina perché ha due tette bellissime!


Io e Barbara abbiamo un legame che è più forte di qualsiasi
relazione d’amore che abbia avuto negli ultimi sei anni. Con lei
posso davvero parlare ed essere me stesso e questa è una cosa
rara.

FREDDIE MERCURY

Era un periodo pazzesco, molto meglio e molto peggio di come


uno possa immaginare.

BARBARA V ALENTIN

DOPO lo slittamento a fine anno dell’album «Greatest Hits», l’aprile del


1981 divenne il mese di Roger. «Fun in Space», il suo primo album solista
registrato a Montreux un anno prima, era pronto a uscire. Il processo di
registrazione era stato estenuante, dato che Roger non era abituato a
lavorare senza la presenza e l’aiuto dei tre musicisti con cui aveva condiviso
lo studio e il palco senza interruzioni per dieci anni. D’altro canto, una
breve fuga solista era inevitabile dopo un periodo così intenso e faticoso.
«C’erano alcune cose che volevo fare che non rientravano nel formato
dei Queen», disse. «E finché non le facevo non ero soddisfatto.»
Gli altri tre l’avrebbero imitato a tempo debito.
Dopo la nascita della figlia Louisa a maggio, Brian raggiunse Freddie,
Roger, John e Mack a Montreux per incidere «Hot Space». A luglio la
tranquilla città cittadina svizzera si preparava a ricevere le masse per il
celeberrimo festival jazz ideato da Claude Nobs.
«Quando i Queen comprarono i Mountain Studios, abitavo sopra
Montreux», racconta Rick Wakeman. Wakeman era andato in Svizzera nel
1976 per incidere l’album degli Yes «Going for the One», dopo essersi
riunito alla band. Lì aveva conosciuto un’assistente dei Mountain Studios,
Danielle Corminboeuf, per la quale aveva lasciato la moglie Ros. «La
Svizzera è un Paese molto serio ma fino a un certo punto, ti accettano per
quel che sei. La gente di qui era contentissima che i Queen avessero
comprato gli studi. A nessuno importava un fico secco di quel che facevi
nella tua vita privata. Anche la stampa se ne fregava. Quindi agli occhi di un
musicista la Svizzera era un posto stupendo per vivere e lavorare.
«C’era un pub sulla via principale chiamato White Horse, che noi
avevamo ribattezzato Blanc Gigi (esiste ancora, in Grand Rue 28). Era lì che
si trovavano tutti quelli che lavoravano ai Mountain Studios. Se un paio di
band si sovrapponevano, o se c’erano i Queen, ci trovavamo al Blanc Gigi.
Ci andavo soprattutto con Roger e Brian, ma spesso arrivava anche Freddie,
puntualmente con qualche ragazzino al seguito, ma chi se ne frega. Certo,
non era dichiaratamente gay, ma nessuno aveva nulla da ridire. Erano altri
tempi. I Queen amavano Montreux. Comprare gli studi era stata una mossa
azzeccata dal punto di vista imprenditoriale e in più avevano la scusa per
andare in Svizzera e restarci quanto volevano.
«All’epoca noi musicisti eravamo dei gran lazzaroni. Magari prenotavamo
uno studio che costava migliaia di sterline al giorno, poi però uno andava a
sciare, uno era a letto ubriaco dalla sera prima. Alla fine arrivavamo solo io
e Jon (Anderson), scrivevamo un pezzetto di canzone e poi andavamo al
pub. Finivamo per metterci davvero al lavoro verso le sette di sera.
Raramente uno faceva una giornata intera di lavoro. Incisioni che sarebbero
dovute durare cinque o sei settimane occupavano cinque o sei mesi. Gli
studi facevano soldi a palate. Oggi non potresti lavorare così. Con la
tecnologia che c’è adesso in pratica puoi registrare un album nella tua
camera da letto.
«Per anni il mio vicino di casa fu David Bowie. Una sera arrivò al pub,
cenò con i Queen e poi tornò con loro in studio, e fu lì che quel giorno
passò alla storia.»
Bowie era in studio con il fonico David Richards per registrare Cat People
(Putting Out the Fire). Richards, che stava lavorando anche all’album degli
Yes, nel 1977 aveva assistito il produttore Tony Visconti nell’incisione di
Heroes a Berlino. Bowie entrò negli studi e trovò i Queen a metà sessione.
«Una lunga serata...» disse Brian. «Stavamo suonando pezzi di altra
gente, una jam per puro divertimento. Alla fine, David disse: ‘Questa è una
cretinata. Perché non facciamo un pezzo nuovo?’»
Il risultato fu la coproduzione Under Pressure, all’inizio intitolata People
On Streets.
«È nata per puro caso, cari miei», spiegò Freddie in seguito. «Abbiamo
iniziato a giocherellare qua e là, e il tutto è nato molto spontaneamente e
molto in fretta. Eravamo entusiasti del risultato.
«Certo era una cosa del tutto inaspettata, ma come gruppo abbiamo
sempre creduto nella sperimentazione di cose nuove, insolite, fuori dagli
schemi. Non vogliamo seguire un percorso prefissato o diventare prevedibili,
il che è un rischio concreto quando si è insieme da tanto tempo. Con il
pericolo di dormire sugli allori.»
«È stato un vero piacere lavorare con David», aggiunse. «È un vero
talento. Quando l’ho visto sul palco in The Elephant Man, la sua
performance mi ha fatto venir voglia di recitare. Magari in futuro lo farò,
ma al momento ho in mente altri progetti con i Queen. Non vogliamo
fermarci mai, e ci sono ancora molti panorami da esplorare.»
Brian aveva un ricordo diverso della collaborazione: «Fu molto difficile,
perché eravamo quattro ragazzini precoci, a cui si aggiungeva David, che era
il più precoce di tutti. Eravamo tutti molto coinvolti e appassionati. Non la
spuntai su quasi nulla. Ma David aveva un disegno preciso e prese il
controllo della canzone nelle parti vocali».
Due settimane dopo, Freddie, Roger, Bowie e Mack si riunirono di
nuovo a New York, nei famosi Power Station Studios per remixare il brano;
Brian nel frattempo si era sfilato dal progetto. I Power Station, famosi per la
loro acustica magnifica e per avere ospitato artisti molto diversi come Tony
Bennett, Aerosmith e in seguito i Duran Duran, erano stati creati dal
produttore Tony Bongiovi all’interno di un’ex centrale elettrica. Bongiovi
aveva un giovane cugino che desiderava entrare nel mondo della musica e
per aiutarlo l’aveva assunto come tuttofare negli studi, inoltre gli pagava
demo e lezioni di canto. Freddie e Bowie furono accolti da un ragazzino che
un giorno sarebbe diventato famoso come loro: Jon Bongiovi (poi Bon Jovi).
Più avanti i due cugini avrebbero litigato e i Power Station sarebbero
diventati Avatar Studios, ma la leggenda non sarebbe stata dimenticata.
Under Pressure si rivelò una delle registrazioni più problematiche dei
Queen. Il mixer andò in tilt, Bowie voleva rifare il pezzo da zero e la
situazione precipitò. A un certo punto, Bowie si rifiutò persino di dare il
permesso per distribuire il brano, ma poi si arrese.
«Under Pressure è un brano importante per noi», dichiarò Brian quasi
trent’anni dopo. «Merito di David e del testo. All’epoca non l’avrei ammesso
con tanta facilità, ma ora sì. Un giorno mi piacerebbe remixarla, con calma e
da solo.»
Il singolo uscì nell’ottobre del 1981 e fu il primo disco di Bowie in
collaborazione con altri artisti.
Arrivò al ventinovesimo posto negli Stati Uniti e al primo nel Regno
Unito. Fu la seconda numero uno dei Queen e sarebbe stata anche l’ultima
fino a Innuendo, quasi dieci anni dopo. Under Pressure comparve anche sul
decimo album della band, «Hot Space», che uscì nel maggio del 1982. Nel
1990 sarebbe stata campionata (senza permesso) dal rapper Vanilla Ice per il
suo singolo Ice Ice Baby, e più avanti sarebbe diventata il singolo d’esordio
per i Jedward, i gemelli dell’X Factor inglese. La loro versione avrebbe
raggiunto il secondo posto nel Regno Unito e il primo in Irlanda.

A settembre Freddie festeggiò il trentacinquesimo compleanno in grande


stile. Spese quasi duecentomila sterline, soprattutto per portare a New York
una tribù di amici con il Concorde, inclusi Peter Straker e Peter Freestone.
Affittò una sontuosa suite al Berkshire Place Hotel. In cinque giorni di
festeggiamenti, i presenti si scolarono oltre trentamila sterline di champagne
d’annata.
«Ricordo il casino che lasciammo in quella suite», osserva Peter. «E
ricordo Freddie spaparanzato su una montagna di gladioli. Quelle sì che
erano feste...»
Il compleanno segnò un momento di svolta nella vita del cantante. In
una rara intervista, spiegò di essere cambiato e di vedere soldi e successo
con occhio diverso rispetto al passato.
«Detesto frequentare i personaggi dello show business», confessò. «Potrei
fare come Rod Stewart, unirmi a quel mondo, ma preferisco starne fuori.
Quando non sono con i Queen, voglio essere una persona qualunque.
«Sono cambiato. Una volta mi piaceva essere notato. Adesso no. Passo
molto tempo a New York, dove molti non mi riconoscono. Sarò anche
ricchissimo, comunque i giorni dell’ostentazione sono finiti per me. Adesso
sto in jeans e maglietta anche quando esco, non solo in casa. Non do più
spettacolo, tranne quando sono sul palco, perché adesso sono sicuro della
mia identità e di ciò che ho raggiunto. Sono finiti i giorni in cui volevo
entrare in un locale e vedere che tutti smettevano di parlare per mettersi a
fissarmi. Non so dirti se andremo avanti, ma finché continueremo a fare
cose nuove, la scintilla dei Queen resterà accesa. Se perdessi tutto quel che
ho oggi stesso, in un modo o nell’altro riuscirei di nuovo ad arrampicarmi
fino in cima.»
Forse le sue parole più oneste fino ad allora? Freddie stava davvero
cambiando, oppure cercava solo di convincere se stesso? Alcuni
interpretarono le affermazioni come un malcelato tentativo di mostrare al
mondo che era finalmente a suo agio nella nuova pelle. Ma era davvero
così? Si era veramente riconciliato con la sua vera personalità, oppure
sperava solo di riuscirci prima o poi? Non possiamo saperlo.
Dopo la festa al Berkshire, Freddie raggiunse il resto della band a New
Orleans, per le prove in vista di un altro tour sudamericano. Questa seconda
sortita, battezzata «The Gluttons for Punishment Tour», si sarebbe rivelata
l’antitesi della prima. Innanzitutto, quando i Queen arrivarono in
Venezuela per tre date al Poliedro de Caracas, i loro piani furono
scombussolati dalla morte di Rómulo Betancourt, ex presidente ed eroe
nazionale: diverse date nel Paese dovettero essere cancellate. Trovandosi
all’improvviso con dieci giorni buchi prima di una nuova ondata di concerti
in Messico, i Queen si ritirarono a Miami.
Poi le tappe messicane furono segnate da una serie di incidenti: epidemie
fra la troupe, corruzione, minacce alla sicurezza personale, incarcerazione
del promoter e infine il crollo di un ponte all’esterno dell’enorme Estadio
Universitario di Monterrey (detto il «vulcano») dopo uno spettacolo, che
provocò il ferimento di diversi fan. Il secondo concerto nello stadio fu
cancellato e i Queen si trasferirono a Pueblo, per due date all’Estadio
Ignacio Zaragoza. In generale, il tour fu un fiasco.
«Pensavamo di poter ripetere il successo di Argentina e Brasile», disse
Brian. «Ma alla fine ce la cavammo solo per un soffio.»
Quell’anno sul New York Times comparve la notizia di una rara forma di
cancro della pelle che aveva colpito quarantotto omosessuali in perfetta
salute, nove dei quali avevano mostrato anche un’inspiegabile deficienza del
sistema immunitario. Fino ad allora, il sarcoma di Kaposi si era verificato
quasi esclusivamente in persone anziane di origini mediterranee. Verso la
fine di agosto, il numero di pazienti colpiti era salito a centoventi, quasi tutti
a New York. Poco dopo il CDC, il centro per il controllo delle malattie
statunitense, di Atlanta confermò che il sarcoma di Kaposi e una rara forma
di pneumocistosi erano inspiegabilmente in aumento in America. Oltre il
novanta percento delle vittime erano omosessuali. Questo diede vita
all’ipotesi che la cosiddetta «epidemia gay» fosse legata ad abitudini sessuali
sregolate e/o all’abuso di stupefacenti. Le ricerche però dimostrarono che
quella che all’epoca era chiamata GRID (Gay-Related Immune Deficiency,
ossia «immunodeficienza riconducibile ai gay») aveva colpito anche milioni
di uomini, donne e bambini eterosessuali, soprattutto emofiliaci e
tossicodipendenti. Si determinò che la patologia, ribattezzata AIDS
(Acquired Immune Deficiency Syndrome, sindrome da immunodeficienza
acquisita) si diffondeva con le trasfusioni di sangue, le siringhe infette e il
sesso non protetto.
Freddie non prestò molta attenzione alla cosa: i Queen erano occupati a
celebrare il loro decimo anniversario. Fra i prodotti per commemorare
l’evento uscirono una raccolta di successi, «Greatest Hits», una di video
promozionali, «Greatest Flix», e una serie di immagini del gruppo scattate
da Lord Snowdon, l’ex marito della principessa Margaret. La band produsse
anche un lungometraggio di un concerto registrato a Montreal. Le ultime
settimane del 1981 li videro rifugiarsi a Monaco, sempre per motivi fiscali,
dove intendevano cominciare il lavoro per un nuovo album. L’albergo-
residence Arabella-Haus salutò il ritorno di Freddie.
«Solo per una notte o due, perché Freddie odiava quel posto», ricorda
Peter. «Era sopra i Musicland Studios: un cubo di cemento armato come
tanti, orrendo, con i corridoi che puzzavano di cucina araba. Freddie si
trasferì a casa di Winnie Kirchberger (suo fidanzato del posto) e poi allo
Stollbergplaza, un altro albergo-residence che sorgeva in una zona più
elegante e centrale della città. Fu lì che incontrò la famosa attrice Barbara
Valentin: lei abitava di fronte.»
Grazie a Peter che come sempre provvedeva a tutti i suoi bisogni e lo
accompagnava nelle sortite notturne, il soggiorno di Freddie a Monaco fu
molto piacevole, ma pare che il cantante avesse perso il gusto di lavorare. I
suoi compagni erano preoccupati.
«Arrivò al punto che quasi non sopportava restare in studio. Voleva solo
completare le sue parti e andarsene via subito», disse Brian.
Il ritorno della band nella capitale bavarese segnò l’inizio di un periodo
nervoso e confuso nella vita personale di Freddie, durante il quale rimase
invischiato in un groviglio di caotiche relazioni amorose.
La prima era quella con il già citato Kirchberger, ribattezzato al
femminile «Winnie», un ristoratore tirolese aggressivo e semianalfabeta con
i capelli neri e i baffi setolosi. Era così brusco e rozzo che nessuno
nell’entourage di Freddie riusciva a spiegarsi che cosa il cantante vi vedesse;
nessuno accettò che la categoria «lurido camionista» fosse la nuova variante
preferita da Freddie.
La seconda avventura era con un parrucchiere irlandese di nome Jim
Hutton, che Freddie aveva abbordato in una discoteca di Londra. Talvolta il
cantante lo faceva venire a Monaco in aereo solo per fare ingelosire Winnie.
Negli anni, però, tra Freddie e Jim sarebbe nata una relazione molto meno
superficiale e destinata a durare fino alla fine.
Il terzo amante era forse il fattore più imprevisto nell’equazione: una
donna. La nuova compagna di sbronze di Freddie, Barbara Valentin, era
una famosa attrice austriaca di film erotici, soprannominata «la Jayne
Mansfield tedesca» o talvolta «la Brigitte Bardot tedesca». Si era fatta un
nome lavorando soprattutto con il regista-culto Rainer Werner Fassbinder,
esponente di spicco del Nuovo cinema tedesco, in pellicole che parlavano di
amore, odio e pregiudizio. Fassbinder, che sarebbe morto l’anno successivo
a soli trentasette anni per un’overdose di cocaina e sonniferi, era un
personaggio complicato che conduceva una vita di eccessi. Una delle sue
mogli lo descrisse come «un omosessuale che aveva bisogno di una donna».
Barbara diventò amante e convivente di Freddie, una compagna quasi
costante, anche se condivisa con Kirchberger e Hutton, che Freddie
continuò a frequentare in contemporanea. Come Barbara stessa osservò,
tutto il periodo era «pazzesco».
Incontrai Barbara Valentin a Monaco nel 1996, nel suo tappezzatissimo
appartamento in Hans-Sachs Strasse, comprato insieme con Freddie
nell’oramai decaduto Triangolo delle Bermude. Era una casa accogliente:
tappeti ovunque, tende e sofà di velluto. C’erano dipinti dall’aria costosa,
mobili bavaresi in stile rustico e uno squisito lampadario a bracci. La
credenza era zeppa di fotografie incorniciate dei figli, dei nipoti e di
Freddie, oltre a diversi video e dischi dei Queen e di Freddie Mercury che,
come lei stessa ammise, non era più riuscita a guardare o ascoltare. Tarzan,
il «figlio» (gatto) che avevano condiviso, ronfava appallottolato su una
soffice poltrona.
Barbara si era imbarcata in una lunga e aspra battaglia legale con il
management dei Queen per conservare l’appartamento dopo la morte del
cantante. Di conseguenza non voleva rivelare troppo e mi ci erano voluti
diversi mesi per convincerla a concedermi un’intervista.
«Gli altri devono continuare a vivere», disse Barbara, che si sposò tre
volte e che sarebbe morta di ictus nel 2002, a sessantun anni. «Non voglio
ferire nessuno parlando di Freddie. Lasciamo pure che Mary Austin sia la
sua vedova ufficiale, ho sempre detto. Mi sono sempre rifiutata di parlare di
Freddie, fino a ora.»
Quando ci incontrammo, Barbara aveva già superato la cinquantina, ma
era ancora affascinante come quando Freddie si era innamorato di lei.
Dotata di un fisico imponente, con l’ossatura grossa e un seno prosperoso,
ex baronessa per matrimonio, riempiva la stanza con la sua presenza. In
strada, la gente si girava ancora a guardarla. L’orecchino con il diamante da
un carato che portava all’orecchio destro era stato il primo regalo che
Freddie le aveva fatto, disse.
Barbara non avrebbe potuto essere più diversa di Mary Austin: forte,
determinata e padrona del proprio destino. Come Freddie, anche lei era un
coacervo di contraddizioni: il suo aspetto autorevole celava una grande
sensibilità e fragilità. Forse per la prima volta in vita sua, lui si sentì legato a
un altro essere umano con il quale poteva essere se stesso, con tutti i suoi
difetti. Con lei non aveva segreti: non sentiva alcun bisogno di proteggerla
da certi aspetti della sua personalità, come aveva fatto invece con Mary.
Barbara lo capiva perché era come lui e non gliene importava nulla di
che cosa pensasse la gente. Il suo atteggiamento nei confronti delle persone,
della vita e del mondo in generale fu una ventata di aria fresca. Nonostante
le sue forme prorompenti, l’attrice si comportava come un maschio,
spingendo via le persone che la infastidivano e costringendo persino le
guardie del corpo a indietreggiare di fronte a lei. Freddie era inebriato dalla
sua ferocia e dalla sua maestosità. I due combaciavano al desiderio delle
rispettive anime.
Barbara rinunciò alla sua promettente carriera teatrale per restare con
Freddie e lui la lasciò fare e questo, secondo lei, era la prova del loro
imperituro amore. Iniziò ad accompagnarlo nei viaggi di lavoro e di piacere,
a Rio, Montreux, Ibiza e in Spagna. Andò con lui a Londra «quaranta o
cinquanta volte» e le venne assegnata una camera tutta sua a Garden
Lodge.
«All’inizio l’avevo visto in compagnia dei suoi intimi nelle discoteche di
Monaco, soprattutto il New York, sera dopo sera», ricorda Barbara. «Sapevo
vagamente chi era, ma una rockstar non aveva poi chissà che status a
Monaco; probabilmente ero più famosa io di lui. Era sempre circondato dal
suo entourage, era una piccola azienda in sé, aveva persino uno spazio tutto
suo nella discoteca, come l’angolino della famiglia. Stava con Winnie
all’epoca. Vivevano insieme nel suo appartamento. La loro storia durava da
tempo, con diverse interruzioni. Non riuscivano a stare lontani l’uno
dall’altro. Erano una strana coppia e litigavano tantissimo. Tutti e due
abbordavano ragazzi improbabili solo per ingelosire il partner.» All’epoca
Winnie era proprietario di un ristorantino, il Sebastian Stub’n, dove spesso i
clienti si lamentavano per la qualità del cibo. Quando il locale andò a fuoco,
Freddie finanziò parte della ristrutturazione. Non era la prima volta che il
cantante investiva denaro nei sogni degli amici.
«Winnie era una tragedia per Freddie», prosegue Barbara. «Non c’è
dubbio che fossero innamorati, ma litigavano di continuo, facendosi del
male. Io pensavo: Ma perché se ti ami devi farti del male? Per me questa è
una delle tragedie più grandi del mondo. Era un sempliciotto, con poca
educazione e con poca istruzione, e credo che avesse un complesso di
inferiorità per questo. C’erano volte in cui se la prendeva con Freddie: Chi
se ne frega se sei una stupida rockstar? Io sono Winnie Kirchberger, il gran
cazzo di macho man... Inscenava dei tremendi sputtanamenti in pubblico,
insultandolo, facendo stupidate, cose orribili, solo per ferirlo e umiliarlo.
Alla fine capii che Freddie lo amava proprio perché lui lo trattava male.
Tutti gli altri lo adulavano, ma Winnie no; con lui Freddie doveva
conquistarsi i complimenti a fatica. E forse Winnie, dal canto suo, aveva
capito che l’unico modo per tenersi stretto Freddie Mercury era trattarlo di
merda, far finta di non volerlo. Sia come sia, funzionava, perché Freddie era
insaziabile e tornava ogni volta da lui.»
Ma la relazione comportava anche qualche vantaggio. «Fu l’unica volta
che Freddie scoprì che cosa significhi davvero vivere una vita relativamente
normale con un uomo», rammenta Peter.
Molto tempo dopo la fine del rapporto, quando Freddie se ne andò una
volta per tutte, Winnie sprofondò nella pazzia a causa dell’HIV, che gli
devastò il cervello oltre al resto del corpo.
«Alla fine lo trovai moribondo nel suo appartamento», sospira Barbara,
«con il gatto che si mangiava la pelliccia dalla fame. Lo portai in ospedale a
spese mie, ma era troppo tardi per fare qualsiasi cosa.» Nel loro periodo
d’oro, tuttavia, Winnie, Freddie e Barbara in giro per la città erano un trio
da non sottovalutare.
«Una sera io e Freddie finimmo a bere insieme in una discoteca molto
rumorosa. A un certo punto entrammo nel bagno delle donne perché
volevamo chiacchierare un po’ in pace e lì iniziò a raccontarmi di Zanzibar,
del collegio, del padre e della madre. Disse che non avrebbero mai accettato
la sua omosessualità, anche se dopo mi pare che in realtà l’abbiano fatto. Di
sicuro nell’ultimo periodo gli sono stati molto vicini. Ma adoravano Mary.
Secondo Freddie si aspettavano che lui facesse un figlio con lei. Mi raccontò
anche della sorella Kashmira e dei nipoti Natalie e Sam, che lei aveva
adottato con il marito Roger. Disse che di solito non parlava mai di queste
cose, nemmeno agli amici, ma che con me era facile.»
In effetti, Freddie aveva sempre mantenuto una relazione «vagamente
stretta» con la sorella e la famiglia. Non li aveva mai dimenticati né tanto
meno rinnegati. Non li vedeva spesso, ma quando gli capitava di incontrarli
era felice e affettuoso. Freddie riteneva che fosse un suo dovere proteggere
la famiglia dal suo stile di vita spericolato, oltre che dai riflettori.
«Non siamo mai andati ai loro ‘festini’!» raccontò il cognato di Freddie al
Mail on Sunday nel novembre del 2000. «Solo alle feste di famiglia. Freddie
teneva quei due aspetti della sua vita in compartimenti stagni e di rado si
sovrapponevano. Di solito festeggiavamo il compleanno dei ragazzi a casa
sua e c’era sempre una torta enorme o un uovo di Pasqua per loro. Non
aveva figli, per cui gli piaceva avere i nostri per casa. Credo che gli sarebbe
piaciuto vederli crescere.»
Quella sera a Monaco, Freddie e Barbara non riuscirono a staccarsi l’uno
dall’altra.
«Rideva tantissimo con me, di solito coprendosi i denti con la mano,
tranne quando era ubriaco.»
Barbara ammise i rischi di quella vita trasgressiva, ma insistette che lei e
Freddie avevano trovato piacere nelle follie di quel periodo bavarese: le
avevano affrontate senza vergogna e intenzionalmente.
«Era la migliore difesa. Da cosa, non saprei dire. Diverse cose. Ogni
giorno un’esperienza nuova. Io e Freddie dovevamo sempre lottare per una
ragione o per l’altra, ma almeno eravamo in due. Non facevamo mai vedere
agli altri se eravamo feriti, ma tra di noi sì. Avevamo entrambi delle cose da
nascondere alle nostre rispettive famiglie. Per esempio Freddie proteggeva i
genitori e la sorella, mentre di certo io non volevo che i miei figli sapessero
tutto sul mio stile di vita. Ogni tanto capitava di incontrare mio figlio in
discoteca: ‘Oh, oh, locale sbagliato!’ dicevo. Freddie era come una seconda
famiglia per me, e io per lui. Ci tenevamo che le nostre vite private
rimanessero tali.»
Il 26 novembre, il giorno del compleanno di Winnie, Barbara, Freddie e
Winnie si ritrovarono a letto insieme. «Eravamo tutti nudi quando a un
certo punto suona il campanello, alle sette del mattino: ‘Guardia di
Finanza!’ ‘Tornate dopo!’ urlò Freddie. ‘Se non ci fate entrare buttiamo giù
la porta!’ risposero quelli. Freddie andò in panico. Tornò di corsa in camera
da letto urlando: ‘Alzatevi! Alzatevi!’ Un attimo dopo gli agenti erano
dentro l’appartamento, in ogni stanza. Ci dissero che dovevamo restare
fermi dov’eravamo. Freddie era tutto nudo a parte un piccolo asciugamano
intorno alla vita. Rivoltarono tutto l’appartamento. A un certo punto disse:
‘Devo andare a fare la pipì, ragazzi, davvero’. Lo lasciarono andare in bagno
e all’improvviso uno degli agenti lo riconobbe: ‘Sei Freddie Mercury!’ A quel
punto Freddie fece lo spavaldo, non seppe resistere alla tentazione. Disse ai
poliziotti: ‘Se fate i bravi con la mia fidanzata vi canto una canzone. Dai,
amico mio, stappiamo uno champagne!’ Non erano neanche le otto di
mattina e il poliziotto rispose imbarazzato: ‘Mi spiace, siamo in servizio…’,
‘Va bene, allora andatevene affanculo!’ rispose Freddie. ‘Tanto siete troppo
brutti per meritarvi una canzone!’»
Barbara e Freddie erano innamorati, sostiene l’attrice. «Probabilmente
sì», conferma Peter Freestone. «Erano molto intimi. Avevano molto in
comune: fama, status... Barbara se ne fregava, il suo atteggiamento era
‘prendere o lasciare’, e per Freddie questo rappresentava una ventata d’aria
fresca. Avevano gusti simili, molto raffinati. Barbara era importantissima per
Freddie. A me piaceva tantissimo.»
Freddie parlava spesso di Mary con Barbara. «Pare che una volta le
avesse promesso di sposarla, e per questo si sentiva in colpa. Aveva un senso
del dovere molto radicato. Lei si era aspettata una cosa da lui e lui si era
rimangiato la parola. Il senso di colpa era rimasto... anche se mi domando
quanto lei abbia contribuito ad alimentarlo. Non era colpa sua se era
soprattutto gay. È la vita. Eppure non riusciva a perdonarsi di averla delusa.
Disse che non era gay all’inizio, ma che poi era cambiato, era sclerato del
tutto e aveva cominciato a vivere da gay. La sua era stata una scelta, non
una questione biologica.»
«Questo è verissimo», conferma Peter. «E all’epoca Freddie era molto
aperto emotivamente.»
Mary e Barbara non divennero mai amiche. «Era fredda e diffidente nei
miei confronti», spiega l’attrice. «Non che fosse maleducata, anzi era molto
gentile. Ma era riservata e cortese, non affettuosa. Be’, almeno ci
scambiavamo gli auguri a Natale... Una cosa positiva che posso dire su di lei
è che ha sempre agito nel migliore interesse di Freddie.
«Una volta mi telefonò da Londra per dire che era morto uno dei gatti di
Freddie. ‘Dagliela tu la notizia, Barbara’, disse, ‘ma con delicatezza; trova il
momento giusto.’ Io ero tormentata ma alla fine glielo dissi. Lui scoppiò a
piangere e disse: ‘Torniamo a Londra, immediatamente’. ‘Freddie’, dissi, ‘il
gatto è morto.’ Ma non volle sentir ragioni. Tornammo a Londra.»
L’omosessuale era un ruolo che Freddie aveva scelto di interpretare,
secondo Barbara.
«Era proprio The Great Pretender. Lo eccitava, perché era il frutto
proibito. E mentre si comportava così, noi due eravamo amanti, nel vero
senso del termine: andavamo a letto insieme regolarmente. Sì, sì, ci volle un
po’ di tempo, ma quando capitò fu bellissimo, e semplice. A quel punto ero
oramai completamente innamorata di lui, e anche lui aveva detto che mi
amava. Avevamo persino parlato di matrimonio. Certo, continuava a
caricare un ragazzo dopo l’altro e a portarmeli tutti a casa, sera dopo sera,
ma a me non importava. È pazzesco, vero? Ma la nostra vita era quella e
comunque fosse non avrei potuto impedirglielo, neanche se l’avessi voluto.
Anch’io continuai a portare in casa degli amanti. Fino a un certo punto,
potevo farlo. Poi Freddie faceva una scenata e li buttava fuori a calci.»
In fin dei conti, disse Barbara, non era il sesso ciò che interessava a
Freddie.
«Cercava tenerezza e affetto. Il suo non era un desiderio sessuale, ma
somigliava più a quello di un bambino; piangeva come un bambino. Mi
diceva: ‘Barbara sei l’unica cosa che loro non potranno mai portarmi via’.»
Chi fossero mai questi «loro» – i Queen, l’industria discografica in
generale, i fan, l’onnipresente manager – Barbara non lo seppe mai.
«A parlarne oggi sembra tutto così inverosimile. Dovevi esserci per
capire.
«A volte gli dicevo: ‘Tesoro non sei solo un pisello, sai?’ Spesso diceva che
non gli piaceva andare a letto con tutti quei ragazzi diversi. Nessuno però
poteva dirgli che cosa poteva o non poteva fare.»
Secondo Barbara, la dipendenza dal prossimo era il fattore che più di
tutti rischiava di minare la salute mentale del cantante.
«Non sapeva distinguere un marco da mille dollari. I soldi non
significavano nulla per lui. Aveva il terrore degli aerei e anche di restare
bloccato in ascensore, ma più di ogni altra cosa aveva paura di restare solo.
Non era in grado di andare da nessuna parte da solo, nemmeno in bagno.
Dovevo sempre accompagnarlo. Dovunque andava lasciava un casino, ma
era bravissimo a ordinare agli altri di pulire.»
«Ci sforzavamo di essere felici», ammette, «perché non lo eravamo
affatto. Bevi, tiri coca, fai il cretino, scopi con tutti, come se volessi sfidare il
tuo corpo e vedere se regge. In un certo senso, è un desiderio di morte. Alla
fine ti senti ancora più solo, ancora più vuoto. Io e Freddie eravamo l’una
peggio dell’altro. Ci identificavamo l’una nell’altro. Ero l’unica con cui
potesse sfogarsi, e viceversa. Se lui non avesse avuto me, e io lui, credo che
saremmo entrambi morti molto tempo fa.»
18
Jim

Sono molto felice nella mia relazione in questo momento.


Davvero non potrei chiedere di meglio. È una sorta di…
sollievo. Sì, questa è una buona definizione. Non chiamiamola
«menopausa»! Non devo più sforzarmi, non devo più
dimostrare chissà cosa. Ho trovato una persona molto
comprensiva. Suona noioso, ma in realtà è magnifico.

FREDDIE MERCURY

Freddie era l’amore della mia vita. Era unico, non c’era
nessuno come lui. Diceva sempre che la vita va avanti. So che
quando morirò, sarà dall’altra parte ad aspettarmi.

JIM HUTTON

JOHN Travolta fece la sua parte, quando trasformò in improbabile eroe il


proletario Tony Manero ne La febbre del sabato sera. Il film del 1977,
basato sulla pseudoinchiesta di un giornalista musicale inglese, Nik Cohn, e
pubblicata su una rivista di New York, racconta la storia di un giovane
italoamericano che si rifugia in discoteca per scampare alla triste realtà
quotidiana. La colonna sonora dei Bee Gees divenne la più venduta di tutti
i tempi. Nacque la febbre da discoteca, con New York all’avanguardia. Lo
Studio 54, Le Jardin e il Regine’s erano i locali di punta, dove si ritrovava
ogni sorta di «diverso». Era l’età dell’oro dei playboy e delle top model, di
limousine chilometriche, champagne e cocaina; di Halston, Gucci e Fiorucci.
Le discoteche newyorkesi favorivano la libertà sessuale e riflettevano meglio
di uno specchio la depravazione della scena gay.
Le Jardin, sulla Quarantatreesima Strada Ovest, attirava i grandi
personaggi del momento: Andy Warhol, Bianca Jagger, Liza Minnelli, Lou
Reed. Il bancone era lastricato di specchi su cui farsi piste di coca, le luci
basse illuminavano sofà bianchi circondati da palme, e sul tetto trovavi letti
ad acqua dove potevi stenderti a inalare sostanze illegali mentre rimiravi
Times Square. Al confronto, la scena gay di Londra era ancora in fasce.
Offriva poco più che «una manciata di pub e qualche baretto marcio»,
quando Jeremy Norman arrivò in città da Cambridge verso la fine degli
anni Settanta, lavorando per conto di Burke’s Peerage, la guida indiscussa
per l’aristocrazia e i reali inglesi. Norman sentì parlare della nuova ondata
disco nella scena gay di New York e volle andare a vedere di persona. Al
Jardin conobbe il promoter Stephen Hayter e tornò con lui in Inghilterra per
fondare una discoteca in Old Bond Street: l’Embassy. Nel locale, Hayter
regnava supremo, come «regina della notte». Si vantava di conservare gli
articoli che lo riguardavano nel caveau di una banca svizzera e criticava le
«checche chiassose» che avevano «la deplorevole abitudine di darsi nomi da
donna». Hayter sarebbe stato il primo proprietario di una grande discoteca a
morire di AIDS.
L’Embassy fu una rivelazione: un reame fantastico e sessualmente
ambiguo che attirava tutti e che serviva sia da antidoto sia da diversivo
contro la corruzione e l’inflazione che caratterizzavano la vita politica e
l’economia di quegli anni. All’improvviso i giovani si facevano di nuovo belli
per uscire e andare a ballare. Ma non erano persone qualunque:
transessuali, rockstar, dive, drag queen, teste coronate, miliardari e modelle
da strapazzo. I camerieri del locale indossavano un paio di pantaloni corti di
seta rossi e bianchi, come quelli dei ragazzi dello Studio 54. Altri dipendenti
simulavano rapporti sessuali sui banconi mentre i più disinibiti li avevano
davvero nei bagni. Cocaina e popper venivano consumati in quantità
industriali. Luci strobo, fumi e una sfera specchiata indoravano la pillola. Il
club attirava personaggi famosi come nessun altro: Pete Townshend, Mick
Jagger, Marie Helvin e David Bowie erano clienti abituali. Persino i new
romantic ogni tanto lasciavano perdere il Blitz Club per far due salti sulla
pista dell’Embassy.
«Se Hayter dava una festa, cercavi in ogni modo di essere invitato»,
ricordò Dave Hogan. «Freddie, Kenny Everett, il fior fiore della ‘mafia gay’
di Londra ci andava. Vedevi delle scene incredibili, ma potevi solo
godertele. Sapevi che se scattavi una foto non saresti uscito vivo.»
L’Embassy era solo il prototipo di un progetto ancor più ambizioso:
Jeremy Norman voleva aprire un locale esclusivamente per omosessuali.
Situato vicino a Trafalgar Square, l’Heaven occupa più di seimila metri
quadri sotto le volte della stazione di Charing Cross. È stata la prima
discoteca ufficialmente gay, quando aprì le porte nel 1979 finì dunque su
tutti i giornali e contribuì a rendere più accettabile la scena omosessuale
della città.
Freddie lo adorava ed era ospite fisso con il suo entourage.
«Per i gay, la pista da ballo era davvero un luogo liberatorio», ricorda
Jeremy Norman, che in seguito avrebbe rivelato tutto nel suo libro di
memorie No Make-Up: Straight Tales From a Queer Life. «Era un posto dove
ti sentivi libero di esprimere la tua sessualità e dove potevi sentire la
coesione della tua tribù. La discoteca era, in un certo senso, la nostra
cattedrale.»
Fu anche, in molti casi, la loro Waterloo. Sebbene Norman, che ha
fondato due enti di beneficenza per le vittime dell’AIDS, non sia affatto
accusato di avere introdotto la malattia nel Regno Unito, è indubbio che i
suoi locali abbiano esercitato un’attrazione fatale.
Paul Gambaccini ricorda con fredda lucidità la sera del 1984 in cui si rese
conto che Freddie sarebbe morto.
«Ero all’Heaven con lui e gli chiesi se avesse cambiato le sue abitudini alla
luce dei recenti sviluppi», osserva. «E lui con quel suo tipico gesto delle
mani mi disse: ‘Tesoro, chi se ne fotte? Faccio quel che mi pare con chi mi
pare’.
«Sentii il classico tuffo al cuore. Avevo visto abbastanza cose a New York
per sapere che Freddie sarebbe morto. Per me all’Heaven ci sono troppi
fantasmi: non potrò mai far finta che fosse un posto spensierato.»
Gambaccini non è in grado di confermare o smentire se Freddie iniziò a
prendere le necessarie precauzioni quando seppe dell’AIDS, quantomeno
per proteggere gli altri se non se stesso.
«Ci vogliono in media dieci anni dal contagio alla malattia, quindi
Freddie fu infettato prima che si sapesse qualcosa», spiega. «Questo lo mette
nella categoria di quelli che furono esposti all’AIDS senza saperlo,
ingiustamente. Fra la sifilide e l’AIDS si aprì una breve finestra nella storia
in cui non era possibile morire di malattie veneree. Quindi si provava di
tutto, per puro piacere o per esplorare nuove possibilità. Non c’era nulla di
male allora. Nell’industria della musica, in particolare, tutto era concesso.
Nessuno giudicava. Poi all’improvviso potevi uccidere qualcuno facendoci
sesso insieme, quindi tutti si responsabilizzarono, ma arrivarono pure le
conseguenze.
«Nel caso di Freddie, presumo che sapesse, e che si fosse abituato
all’idea... Forse pensava di cavarsela, chissà come. Nel 1983 era ancora in
forma (a New York, la malattia era diventata epidemica) e poteva
continuare a vivere come sempre. Ma già al Live Aid [luglio 1985], il
dottore gli aveva detto di non esibirsi, perché aveva una brutta laringite. In
quel momento pensai: È l’inizio?»
Il fatto che in quel momento Freddie andasse a letto con decine di
uomini diversi ogni settimana e che al tempo stesso ostentasse la sua
relazione con Barbara Valentin, indica che oramai si riteneva bisessuale
piuttosto che gay. Tuttavia, controbatte Gambaccini, «ricordiamo che il
concetto di omosessualità è nato solo a metà Ottocento: fu allora che uno
psicologo tedesco inventò il termine. La gamma della sessualità è ampia. Fra
i due estremi ci sono molte persone che fanno l’amore con maschi e
femmine. Quelli che fanno qualcosa di diverso dalle loro abitudini, come
Freddie con Barbara, di solito lo fanno perché sono molto coinvolti a livello
affettivo. Per me non c’è incoerenza nel fatto che Freddie sia andato a letto
soprattutto con uomini e che però alla fine abbia ricordato il suo grande
amore per Mary. Non c’è incompatibilità fra le due cose. Significa solo che
lei era un’eccezione alla regola. Significa che nel suo caso c’era sentimento e
non solo desiderio carnale. Non sto dicendo che Freddie non abbia amato
alcuni degli uomini con cui andò a letto, ma è probabile che lei occupasse
un posto particolare nel suo cuore.»
Freddie tradì sia Barbara sia Winnie – ammesso che sia corretto usare
questo termine – quando incontrò Jim Hutton all’Heaven: capitò una sera
del 1985 e lì non poté più resistere. L’aveva già conosciuto due anni prima
al Copacabana, un bar gay vicino a casa sua, ma all’epoca Jim era
impegnato, per cui l’incontro non aveva avuto un seguito. La seconda volta,
però, il modesto parrucchiere era single e non vedeva l’ora di scatenarsi. La
sua lucida capigliatura corvina e i suoi baffi folti si rivelarono irresistibili per
Freddie. Jim somigliava tantissimo a Winnie. Preso alla sprovvista dalla frase
che il cantante usava per agganciare: «Quanto ce l’hai grosso?» Jim si unì al
suo entourage, che quella sera comprendeva Peter Straker e Joe Fanelli.
Passò il resto della serata a ballare con lui prima di seguirlo nel suo
appartamento di Kensington all’alba. Poi non lo sentì più per tre mesi.
Freddie era andato a Monaco e quindi in Australia, Nuova Zelanda e
Giappone con i Queen. Quando Jim si era oramai quasi dimenticato
dell’incontro, Freddie gli telefonò all’improvviso per invitarlo a cena a casa
sua. Vedendo Peter Freestone, Jim restò di sasso: in passato avevano
lavorato insieme per i grandi magazzini Selfridge in Oxford Street. Né l’uno
né l’altro poteva immaginare che un giorno si sarebbero rivisti grazie a
Freddie Mercury.
Jim era il più improbabile dei partner di Freddie. Nato in una famiglia di
panettieri irlandesi fra una decina di fratelli e sorelle e cresciuto in un
appartamentino di due camere nelle case popolari, lavorava per settanta
sterline la settimana al Savoy Hotel. «[Freddie era] sensibile, timido,
lunatico e testardo. Mentre io sono tranquillo e abbastanza debole di
carattere, almeno prima di bere qualche litro di birra», ricorda Jim.
Fu amore a prima vista. «Mi innamorai subito di ogni aspetto di lui. A
prescindere da quel che faceva di mestiere. Aveva due grandi occhi scuri e
una personalità quasi infantile. Non somigliava a quelli di cui mi
innamoravo di solito. Di solito mi piacevano gli uomini con le cosce robuste.
Freddie aveva un vitino di vespa, con le gambe più magre che avessi mai
visto. Pareva anche totalmente sincero. Era adorabile. Ero cotto.
Considerando chi era, mi sembrava estremamente insicuro», sostiene il
parrucchiere, contraddicendo l’impressione di Barbara e dimostrando quello
che gli amici più intimi del cantante sospettavano da tempo: Freddie
mostrava un lato diverso della propria personalità a persone diverse, mai
tutto il suo sé. Questo modus operandi rivelava che Freddie era convinto
dell’impossibilità di poter vedere i propri bisogni soddisfatti da un’unica
persona. Per la stessa ragione, non dava mai tutto se stesso a un unico
partner. Questo potrebbe spiegare perché i suoi rapporti più duraturi fossero
sempre con persone «inferiori» in termini di fama, ricchezza o posizione
sociale. Con loro Freddie dettava legge, era sempre al primo posto.
La coppia iniziò una storia d’amore che, grazie alle inderogabili assenze
professionali del cantante, imponeva una certa routine. Freddie tornava a
Londra un weekend, e Jim lo raggiungeva a Monaco quello successivo.
Durante la sua prima visita in Germania, l’uomo trovò Freddie, Joe Fanelli e
Barbara Valentin ad attenderlo all’aeroporto. Poco dopo si rese conto che
Freddie lo stava solo usando per ingelosire Winnie e si offese.
«Jim era un burattino», racconta Barbara. «Freddie lo trattava malissimo
all’epoca. Lo faceva venire in aereo da Londra, poi lo rispediva indietro,
talvolta il giorno stesso. Ho sentito tante storie tristi in quel periodo. Jim
piangeva spesso. Gli dicevo: ‘Reagisci. Digli di no per una volta. Non farti
usare’. ‘Sì’, mi rispondeva, ‘ma lo amo.’ E per questo si faceva trattare da
cane. Faceva tutto quel che gli diceva Freddie. Freddie ordinava e lui
arrivava di corsa, ogni volta. Era penoso. Spesso Freddie era davvero crudele
con lui.»
Ma la relazione era più profonda e significativa di quanto apparisse
all’esterno, sebbene fosse sempre Mary, e non Jim, ad accompagnare
Freddie agli eventi pubblici e nonostante sia stata lei a essere presentata
come «la vedova» dopo la morte del cantante. Secondo Peter Freestone, che
ha avuto modo di osservare diverse relazioni di Freddie da vicino, i due
erano davvero innamorati.
«Sono sicuro che Jim e Freddie si amavano, anche se a modo loro»,
racconta. «Nel suo libro Jim idealizza un po’ la relazione. Secondo me lui
desiderava un rapporto monogamo e felice, e non ha mai capito quanto
Freddie andasse oltre quest’idea. Freddie aveva la sua vita: grande,
stravagante, sfaccettata. Tutti sapevano che dovevi adattarti a lui, perché lui
non si sarebbe mai adattato a te. Secondo me, Jim era troppo testardo per
accettare questo. Di conseguenza la loro relazione era del tipo ‘sali-scendi’:
Jim voleva che Freddie scendesse al suo livello, e Freddie invece che salisse
al suo. Detto questo, di sicuro Freddie non sarebbe stato così bene negli
ultimi anni della sua vita senza Jim. A conti fatti, Jim era il compagno ideale
per lui in quel momento della sua vita. Freddie ci teneva, molto più di
quanto hanno insinuato certe persone.»
Con Garden Lodge finalmente ristrutturata e i problemi fiscali quasi
risolti, Freddie scelse Jim, e non Barbara, come convivente per il suo rientro
a Londra. La relazione di Jim e Freddie durò sei anni (anche se il primo ne
abbia spesso citati otto) e questo indica che per Freddie il parrucchiere
contava di più di quello che Barbara, col cuore infranto, volesse ammettere:
«Jim non aveva niente da dire», dichiara sprezzante. «A Garden Lodge,
andava bene per accudire i gatti, il pesce e il giardino, punto. A volte
Freddie usciva dai gangheri per la frustrazione. Una volta che ero lì lo vidi
correre in giardino come un pazzo e strappare tutti i tulipani che Jim aveva
piantato. Gli dissi: ‘Che fai? Poveri fiori!’ E lui rispose: ‘Lo odio, sto stronzo’.
Più di una volta disse che Jim era una persona inutile.»
Eppure Jim evidentemente dava a Freddie qualcosa che gli altri amanti
non potevano dargli, nemmeno Mary. Persino Barbara dovette ammetterlo:
«Spesso consideravamo Jim poco più che un servitore, ma sapevo che
Freddie lo amava. Lo trattava male, ma certe persone hanno bisogno di un
calcio in culo e ti ringraziano se glielo dai. Alla fine è stato un bene che ci
fosse. Sei anni insieme… è un bel pezzo. Freddie tornò a Londra e Jim
rimase al suo fianco fino alla fine. Grazie a Dio, devo dire».
L’America, nel frattempo, era nella morsa di un’epidemia di proporzioni
catastrofiche, che presto si sarebbe estesa al mondo intero. La maggior parte
delle vittime dell’AIDS erano giovani omosessuali che si ammalavano per
una serie di sintomi e patologie correlate all’HIV come perdita di peso,
lesioni, gonfiore delle ghiandole linfatiche, meningite criptococcica e
toxoplasmosi, e caratterizzate da itterizia, disturbi al fegato e alla milza e
convulsioni. Le immunodeficienze erano in aumento: di continuo venivano
riportati nuovi sintomi di disturbi immunitari, fra cui affaticamento, herpes
e ipersudorazione notturna. I casi di candidosi orale si moltiplicavano,
sviluppandosi quasi al punto da impedire la respirazione del malato. A
livello mentale, paranoia, smemoratezza e disorientamento erano disturbi
frequenti. Di tutti i casi di AIDS riportati negli Stati Uniti, metà erano stati
riscontrati a New York e nelle zone limitrofe. Un quarto di secolo dopo,
l’AIDS è diventato una pandemia. Ancora oggi non esiste un vaccino né
una cura. Fu Barbara la prima a notare che Freddie aveva qualche problema
di salute: «Cose da nulla, all’inizio. Meno appetito, ma non era mai stato
uno che mangiava tanto. ‘Mangio come un uccellino e cago come un
uccellino’, diceva. Il suo cibo preferito era il caviale con il purè, e i cracker al
formaggio che gli mandava sua madre. Gli piaceva la cucina italiana,
indiana e cinese, ma non mangiava tanto. Il tutto innaffiato di vodka,
Stolichnaya.
«Poi iniziò ad ammalarsi senza motivo. Una volta stette male a casa mia e
non sapendo cosa fare chiamai il mio ginecologo, che era anche un amico
fidato. Venne subito. Freddie farneticava, poi vide il dottore e si agitò. Gli
dissi: ‘Stai tranquillo, è il mio ginecologo’. ‘Oh, mio Dio, non ci credo’,
rispose. ‘Sono incinto?’»
Fu più o meno in quel periodo che Barbara cominciò a sentir Freddie
parlar male degli altri membri del gruppo, una cosa che non era mai
successa. Poi Freddie litigò con Peter Straker. Il loro rapporto, che durava
da anni, finì in un baleno e non si ricucì mai più.
«Straker era simpatico, era un pagliaccio. Faceva bene a Freddie perché
gli teneva alto il morale e lo divertiva», ricorda Barbara. «Ma non stava mai
fermo, era sempre alla deriva. Dormiva sempre a casa di qualche amico.
Alla fine aveva preso un appartamento in uno dei palazzi di Beach a
Londra, ma c’era bisogno di ristrutturare il bagno: piastrelle, vasca,
lavandino, tutto. Per cinque volte Freddie gli aveva dato i soldi per rifare
quel bagno, ma Peter se n’era sempre disinteressato. Freddie aveva perso la
pazienza e lo aveva cacciato dalla sua vita per sempre. Straker non capì
nemmeno che cosa avesse fatto di male. Era tipico di Freddie: dava, dava e
dava senza badare a spese, fino alla goccia che faceva traboccare il vaso.»
Forse lo stress per la malattia (nonostante non ne parlasse, Barbara, come
Gambaccini, era sicura che Freddie sapesse) lo spingeva a gesti così estremi.
E arrivò il giorno, disse Barbara, in cui non si poteva più ignorare «il
gonfiore al suo gargarozzo».
«Si gonfiava all’improvviso, dietro la gola. Lo chiamavamo ‘il fungo’.
Andava e veniva ma dopo un po’ non se n’è andato più. Freddie diceva che
stava marcendo dall’interno. Una volta ero a letto con lui e uno dei suoi
ragazzi, e lui iniziò a tossire, a causa del fungo. Si sedette sul letto e tossì in
un fazzoletto di carta, poi si appoggiò sopra quel tizio disteso per buttare il
fazzoletto nel cestino. Quello si svegliò e disse: ‘Oh, mio Dio, non avrei mai
creduto di vedere una rockstar nuda che muore sopra di me in un letto!’»
Barbara era al corrente di New York e sospettava che Freddie fosse
sieropositivo quando divennero amanti.
«Quando ci incontrammo o non sapeva o non voleva sapere», ricorda.
Barbara dichiarò che Freddie fece il primo test nel 1985 – al contrario di
altri resoconti – anche se non fu in grado di confermare il motivo che aveva
convinto il cantante a sottoporsi all’esame. «Gli cambiò la vita», ricorda.
Aveva temuto per la propria incolumità? Era arrabbiata con lui per averla
messa in pericolo? «No. Lo amavo. Fine della storia. Feci anch’io il test:
negativo, e finì lì. Dato che non avremmo più fatto sesso e non ci sarebbero
stati più rischi, non rifeci più il test. Scoprii che aveva l’AIDS per caso. Una
sera andò in bagno e si tagliò un dito. C’era molto sangue. Provai ad
aiutarlo e lui strillò: ‘No! Non toccarmi! Non toccarmi!’ Allora capii. Non
me lo disse esplicitamente, ma dopo quell’episodio era evidente. Da tempo
lo sospettavo, chiaramente: aveva dei segni in faccia, come dei lividi bluastri.
Li coprivo di trucco ogni volta che doveva andare in tv o girare un video,
prima che arrivasse la truccatrice.»
Barbara e Freddie non parlarono mai della malattia. «Sapeva che io
sapevo, e io sapevo che lui sapeva. Ogni tanto buttava lì qualche allusione,
dicendo che non sarebbe vissuto a lungo, ma nulla di più. Capii, in base a
certe cose che diceva, che non aveva idea di chi glielo avesse trasmesso, ma
quando un suo amante americano di tanti anni prima morì di AIDS,
esclamò: ‘Oh, mio Dio, ci siamo’, e iniziò a preoccuparsi. Da quel momento
era certo di avere i giorni contati.»
Barbara e Freddie cessarono di avere rapporti sessuali. Winnie era uscito
di scena, perciò da quel momento restava solo Jim nella vita del cantante.
Freddie lasciò Monaco verso la fine del 1985, in modo brusco,
inspiegabile e insopportabile per la donna che si lasciò dietro.
«Un attimo prima eravamo inseparabili, facevamo letteralmente tutto
insieme, quello dopo era sparito», racconta piangendo. «Uscì dalla mia vita,
così. Non capivo. Gli scrissi, gli telefonai. Non c’era mai. Stava mentendo a
se stesso. Ma poi pensai: Okay, se non vuole, non vuole. Ruppe proprio
senza motivo.»

Alcuni mesi dopo, Barbara era in casa che si preparava per andare
all’inaugurazione del negozio di un amico, quando sentì suonare il
campanello.
«Maledizione, e adesso chi diavolo è?» disse. Poi pensò che fosse il taxi,
quindi gridò al citofono: «Arrivo! Arrivo!» ma non ci fu risposta. Pensando
che il portone fosse aperto, si precipitò di sotto. «Mi trovai davanti un uomo
e pensai: Oddio, qualcuno mi ha spedito un manichino di Freddie
Mercury.»
Non credeva ai suoi occhi.
«Pensavo: Oh no, oh sì… Credevo di avere un’allucinazione. L’uomo
aveva un mazzo di fiorellini bianchi e disse: ‘No, sono io!’ ‘Lo so, lo so’, ma
non volevo che fosse vero. Feci per spingerlo di lato, dovevo uscire, pensavo
che la mente mi stesse giocando un brutto tiro e quando lo toccai… Non
potevo reggere. Corsi all’inaugurazione, feci qualche foto con il titolare e un
paio di attori per la stampa. Poi tornai a casa e Freddie era ancora lì,
tranquillamente seduto sul sofà che giochicchiava col telecomando. Allora
crollai: lo abbracciai e piansi. Non riuscivamo a smettere di piangere.»
Ci vollero diverse settimane prima che Freddie trovasse le parole per
darle una spiegazione. Voleva troncare prima di partire, le disse. Voleva
cominciare una nuova vita. Aveva vietato a tutto il suo entourage di parlare
di Monaco o nominare Barbara.
«Un centinaio di amici erano morti di AIDS, oramai», racconta Barbara,
«e non potevamo parlarne. Disse che abbandonare la vita di Monaco e me
era stato come disintossicarsi dalla droga. Se sei dipendente e un giorno
decidi di smettere, dici ‘no’, tiri una riga netta e smetti. ‘Barbara, sono quasi
morto’, mi disse. ‘Quante volte ho preso in mano il telefono, ho fatto il tuo
numero e poi ho riattaccato…’
«Più avanti Phoebe mi disse che Freddie aveva fatto sparire tutte le mie
cose, tolto le mie foto dalla casa, vietato agli altri di parlare di me, buttato
via tutto ciò che gli ricordava Monaco. Voleva scappare da quel periodo di
follie, vivere un’esistenza più tranquilla, diversa e infine morire in bellezza.
Ma non riusciva a stare senza di me. Aveva paura della solitudine. Voleva
stare da solo e ci aveva provato, ma non ci era riuscito.»
Barbara e Freddie ripresero a frequentarsi, ma non ridivennero amanti.
Lei andò a trovarlo spesso a Garden Lodge e cominciò di nuovo ad
accompagnarlo in giro per il mondo.
«Jim aveva sostituito Winnie [dopo un rapporto altalenante durato circa
quattro anni ], ma con Barbara la faccenda era più complicata», ricorda
Peter. «Credo che Freddie ne avesse avuto abbastanza di quel periodo. La
stampa tedesca aveva iniziato a scrivere diverse cose su Freddie e Barbara e
lui si era convinto che fosse stata lei a informare i giornalisti. Secondo me
no, ma Freddie era convinto.»
Era possibile che qualcuno lo consigliasse male, qualcuno che voleva
eliminare Barbara dalla sua vita?
«E chi lo sa?» rispose Peter con un sospiro. «Io so solo che da allora in poi
il suo unico compagno è stato Jim. Poco dopo che Freddie si trasferì a
Garden Lodge, Jim fu sfrattato dal suo appartamento, quindi Freddie lo
invitò a stare da lui.»

«Io e Freddie non abbiamo mai parlato di quanto tempo eravamo rimasti
insieme», osserva Jim. «Lo eravamo e lo saremmo stati in futuro. Ogni tanto
mi chiedeva che cosa volessi dalla vita. ‘Amore e appagamento’, rispondevo.
E avevo trovato ambedue le cose in lui.»
Nel 1987, Freddie ricevette una diagnosi ufficiale, ma né lui, né la band
o il suo entourage avrebbero ammesso pubblicamente il fatto fino alla vigilia
della morte nel novembre del 1991. Lo disse a Jim, dandogli la possibilità di
andarsene, ma questi si rifiutò di abbandonarlo al suo destino. Decise di
restare con lui e la parola «AIDS» non fu mai più pronunciata. Più avanti,
nel 1990, Jim risultò sieropositivo, ma lo disse a Freddie solo un anno dopo.
Morì nel 2010 di cancro ai polmoni (e non di AIDS come si vociferò
all’epoca). Brian May confermò il fatto sul proprio sito web, scrivendo che
Jim era morto per una malattia legata al fumo.
Freddie non disse nulla al resto della band fino al maggio del 1989. Un
giorno invitò tutti, compagne comprese, a mangiare da Girardet a Crissier,
vicino a Losanna, all’epoca definito «il miglior ristorante al mondo». Furono
servite le portate migliori e stappate bottiglie pregiate: un conto da migliaia
di sterline, tutto a sue spese. Ma alla fine non disse nulla della malattia.
Forse la magnificenza del locale e la sua vista stupenda gli fecero mancare il
coraggio. Pochi giorni dopo, tuttavia, i presenti si ritrovarono tutti per una
cena più modesta al Bavaria, presso i Mountain Studios e Freddie si fece
forza.
«Qualcuno aveva il raffreddore e la conversazione si spostò sulle
malattie», ricorda Jim «Freddie stava ancora abbastanza bene a quel punto,
ma si arrotolò i pantaloni e appoggiò la gamba sulla sedia, mostrando a tutti
una lunga ferita sul polpaccio. Fu uno choc. ‘E voi pensate di avere un
problema!’ protestò, con quel suo modo tipicamente blasé. Nessuno disse
una parola, credo fossero tutti scioccati. Poi però lasciò perdere e parlammo
di altro.»
Brian raccontò lo stesso episodio in un recente documentario per la tv.
«Ripensandoci ora, sono certo che sapessero che Freddie era gravemente
malato, ma non sapevano che cosa dire», racconta Jim.
«Quando tornammo a Londra Freddie fece un’intervista per Radio 1 con
il DJ Mike Read. Lì dichiarò di non voler più andare in tournée. Disse che
aveva fatto la sua parte e che comunque stava diventando troppo vecchio
per fare ancora il buffone sul palco. In realtà era troppo debole. La stampa
ovviamente capì tutto il contrario e riferì che Freddie si rifiutava di andare
in tour, che il resto della band era contrariata eccetera; insomma, le solite
sciocchezze.»
Nulla di tutto ciò scalfì l’amore di Jim, anzi lo fece crescere ancor di più.
«Freddie era l’amore della mia vita», dice, riecheggiando in modo un po’
inquietante le parole di Barbara. «Non c’era nessun altro al mondo come
lui.»

Anche se visse con lui fino alla morte, Freddie non considerò la loro una
relazione «matrimoniale», almeno secondo Peter.
«Eravamo tutti molto importanti per lui. Certo Jim occupava un posto
speciale nel suo cuore. Persino ora mi sembra strano dirlo: Freddie aveva
avuto una relazione con Mary e con Joe, ma mai con me. Era incapace di
liberarsi dai sensi di colpa, per questo Joe e Mary era ancora lì intorno a lui.
Si sentiva responsabile per loro. Sentiva di aver loro rovinato la vita e che era
suo dovere prendersi cura di loro, come a volerli risarcire. Se ci pensi, è
ridicolo, ma Freddie era fatto così.»
A Garden Lodge convivevano permanentemente Peter, assistente e
cameriere personale; Jim, che si era licenziato dal Savoy per diventare il
giardiniere di Freddie; e Joe Fanelli, alias «Liza», l’ex amante tornato a fare
il cuoco. Lui e Freddie si erano incontrati in America e avevano avuto una
relazione corta ed esplosiva. Joe era vissuto per un po’ a casa di Freddie in
Stafford Terrace, nelle veci di cuoco e tuttofare, e di tanto in tanto si era
affiancato a Peter a Monaco. La sua relazione con Freddie aveva alternato
momenti di passione a lunghi periodi di distacco. Lo staff della casa
comprendeva anche due dipendenti non residenti: Terry Giddings, l’autista
e Mary Austin, tuttofare, che abitava in un appartamento poco distante. Fra
tutti, Mary era l’unica con cui Jim Hutton aveva qualche problema.
«Mary non mollava Freddie un attimo», osserva. Una convinzione a cui
fa eco Peter: «Secondo me non ha accettato mai il fatto che fra lei e Freddie
fosse finita. Per molti versi, lei dava la carica a Freddie. Non gliele dava
tutte vinte, era molto forte. In questo senso era proprio ciò di cui lui aveva
bisogno. Era come una madre per lui. Si fidava di lei e si appoggiava a lei. E
lei gli dirigeva la vita. È per questo che la loro relazione durava. Freddie
diceva sempre che persino quando stavano insieme erano più simili a un
fratello e una sorella. Molto tempo prima di avermi incontrato aveva detto
pubblicamente che avrebbe lasciato la maggior parte del suo patrimonio a
Mary. E se Freddie faceva una promessa, la manteneva. Non si rimangiava
la parola data».
19
Break Free

La mia musica resisterà alla prova del tempo? Non me ne frega


un cazzo! Io non ci sarò più, quindi… Tra vent’anni sarò
morto, tesori miei. Ma siete matti?

FREDDIE MERCURY

Molte persone che raggiungono il successo nel campo del rock


sono totalmente impreparate alle conseguenze. Quel che capita
di solito è che diventi ricco, ti separi dalle persone normali e poi
cominci a usare i soldi per comprare la gente. Divorzi dalla
realtà, o inizi a bere, o a drogarti, o a fare tutte e due le cose. Da
questo punto di vista, i Queen mi sembravano molto
intelligenti. Detto questo, hanno fatto qualche grave errore.

COSMO HALLSTROM

PAREVA che la vita personale fosse infine diventata una priorità per Freddie.
Ma se la sua ossessione per il lavoro era in declino, lo stesso non si poteva
dire per Brian, Roger e John. Il trio continuava a marciare imperterrito,
convocando il cantante quando necessario e liquidando con una risata le
voci che parlavano di un imminente scioglimento. La stampa ne approfittò
lo stesso, pubblicando articoli sulle loro presunte divisioni per tutto il 1983.
La realtà era che, logorati dalla vita in giro per il mondo, i quattro avevano
deciso di prendersi una pausa e dedicarsi a progetti solisti. «Credo che
ognuno di noi pensi spesso di lasciare i Queen», ammise Brian. «Ma
sappiamo tutti che, sebbene da soli potremmo fare di testa nostra,
perderemmo qualcosa, più di quel che potremmo guadagnare. Stare nel
gruppo è stimolante e non andare sempre d’accordo è un bene. Se ti separi,
perdi il tuo veicolo, che ha un preciso equilibrio di talenti e un nome con
cui le persone si identificano. Fare di testa tua non sempre ti rende felice
alla fine.»
«Pensavo che saremmo durati cinque anni, ma siamo arrivati al punto in
cui siamo troppo vecchi per separarci», disse Freddie. «Ti immagini formare
una nuova band a quarant’anni? Un po’ stupido, no?
«Arriverà un momento in cui ci sarà un consenso unanime o qualcosa
del genere, quando sentiremo istintivamente che i Queen sono arrivati alla
fine della corsa, che non ci resta più nulla da fare dal punto di vista creativo.
«L’ultima cosa che voglio fare è forzare le cose con i Queen. Preferisco
mollare quando siamo a un buon punto e fare qualcosa di completamente
diverso. Sono sicuro che anche gli altri la pensano così.
«Il motivo per cui ho bisogno di riposo è che sono troppo stanco del
business in generale. Ho deciso di prendermi una lunga pausa. Non credo
che ci scioglieremo mai. Sarebbe un atto di codardia. Suppongo che se le
persone non comprassero più i nostri dischi, la faremmo finita. E io me ne
andrei a fare lo spogliarellista o qualcos’altro!»
La decisione di rallentare un po’ i ritmi era arrivata dopo uno degli anni
più impegnativi per i Queen. Nell’aprile del 1982 la band aveva firmato un
altro contratto con la EMI per sei album, e poi si era imbarcata
nell’ennesimo tour europeo, che si era concluso, ovviamente, con un festino
erotico, un party in «mutande e giarrettiere» nella discoteca più rovente di
Londra: l’Embassy. «Hot Space», il loro decimo album in studio, uscì a
maggio. In seguito Brian espresse il proprio disappunto per quell’album
«disco», che fu stroncato negli USA. «Credo che ‘Hot Space’ sia stato un
errore, anche se solo in termini di tempistiche. C’eravamo appassionati
parecchio di funk. Era molto simile a quel che Michael Jackson avrebbe poi
fatto con Thriller. Solo il momento era sbagliato. ‘Disco’ era una parolaccia
allora.»
Ignorando per il momento il crollo della loro reputazione in America, i
Queen rilanciarono con un tour estivo che comprendeva due serate al
Madison Square Garden, uno dei loro posti preferiti per i concerti. A
Boston, il 23 luglio la band ricevette le chiavi della città dalle mani del
sindaco e la data fu dichiarata ufficialmente «Queen Day». Furono ospiti
dei programmi televisivi Saturday Night Live ed Entertainment Tonight. Poi
andarono in Giappone, accolti da un’altra dose di «Queenmania», quindi
Freddie si ritirò a New York. A novembre, la Elektra Records prese atto
delle vendite disastrose di Staying Power, l’ultimo singolo dei Queen per la
casa secondo il contratto in vigore. Rinegoziarne uno nuovo era una
faccenda complicata e costosa. Freddie inoltre era particolarmente scontento
della Elektra, soprattutto per come aveva gestito «Hot Space», e disse agli
altri di non voler fare un altro album per quell’etichetta. Il contratto copriva
anche Australia e Nuova Zelanda, dove i Queen pensavano di poter mietere
più successo. Dopo un’accesa discussione, i quattro si rifiutarono di
rinnovare anche il contratto «australe». Dato che nel frattempo era scaduto
anche l’accordo con la Elektra-Giappone, i Queen erano a un bivio. Sebbene
fossero riusciti a districarsi dagli obblighi americani, la libertà gli era costata
un milione di dollari. Beach negoziò un contratto solista per Freddie, per un
unico disco, con la CBS Records nel Regno Unito e la Columbia negli USA.
Nell’ottobre 1983, la band firmò con l’affiliata americana della EMI, la
Capitol.
Freddie continuò a elaborare le idee per l’album solista a Monaco,
assentandosi di tanto in tanto per andare a New York. Durante uno di quei
viaggi, fece tappa a Los Angeles per unirsi agli altri Queen che lavoravano a
un nuovo album e per far visita a Michael Jackson nella sua bizzarra
residenza in finto stile Tudor su Hayvenhurst Avenue, a Encino (prima di
Neverland). Una torre dominava l’entrata presieduta da guardiani e c’erano
lucine natalizie a ogni singola finestra. «È nostro amico da tempo», spiegò
Freddie. «Una volta veniva sempre a vedere i nostri concerti, ed è così che è
nata la nostra amicizia... Avrei potuto partecipare a Thriller. Pensa a quanti
diritti d’autore mi sono perso!»
Da tempo Michael e Freddie accarezzavano l’idea di collaborare a un
brano. Quella era la prima volta che si trovavano tutti e due nella stessa città
con un po’ di tempo libero a disposizione.
«Mi interessa sempre lavorare con altri musicisti, come Michael Jackson»,
disse in seguito. «Anche se mi preoccupa: tutti quei soldi e non un briciolo
di gusto, cari miei! Che spreco! Avevamo tre pezzi in saccoccia [There Must
Be More To Life Than This, che in seguito sarebbe comparsa sul primo
album solista di Freddie, Victory e State of Shock, che nel 1984 sarebbe stata
inclusa in «Victory», l’album del ritorno dei Jackson 5, cantata in duetto con
Mick Jagger], ma sfortunatamente non li abbiamo mai finiti. Erano delle
ottime canzoni, ma il problema era il tempo, dato che eravamo entrambi
molto occupati in quel periodo. Non ci siamo più trovati nello stesso Paese
abbastanza a lungo per finire il lavoro.
«Michael mi ha persino chiamato per chiedermi se potessi completare
State of Shock, ma non potevo perché avevo degli impegni con i Queen. L’ha
fatto Mick Jagger al posto mio. È un peccato, ma alla fine una canzone è
solo una canzone. È l’amicizia quel che conta.»
«Freddie registrò un paio di demo con Michael nel suo studio privato a
Encino», conferma Peter. «C’ero anch’io. Ho persino giocato ai videogiochi
con Michael. In uno dei pezzi, ci sono io che sbatto la porta del bagno,
perché faceva un suono simile alla grancassa. Gli impegni non hanno loro
mai permesso di coltivare la loro amicizia, ma si rispettavano e
riconoscevano il genio l’uno dell’altro.»
Può darsi che Freddie sia rimasto scoraggiato dall’eccessiva mania di
controllo del clan Jackson (pochi erano in grado di sopportarla), ma è anche
probabile che la collaborazione si sia interrotta per un’altra ragione, più
sinistra, che tempo dopo sarebbe stata svelata dalla stampa.
A Londra, nel maggio del 1983, Freddie appagò la sua passione per
l’opera lirica, andando a vedere Un Ballo in Maschera di Giuseppe Verdi
prodotto dalla Royal Opera House, il teatro lirico di Covent Garden. Le
stelle della serata erano il tenore Luciano Pavarotti e l’affascinante soprano
spagnola Montserrat Caballé, allora cinquantenne.
«Fino a quel momento Freddie aveva sempre amato i tenori», racconta
Peter. «Placido Domingo e Luciano Pavarotti erano i suoi preferiti. Avevo
un’enorme collezione di dischi di musica lirica e voleva imparare il più
possibile sull’opera. Un giorno gli dissi: ‘Okay, dici tanto che ti piace
Pavarotti. Tra poco canta alla Opera House: perché non ci andiamo?’ Disse
che era una splendida idea e mi chiese di prenotare subito i biglietti.
«Nel primo atto Pavarotti cantò un’aria e Freddie disse che era
meravigliosa. Nel secondo salì sul palco la prima donna, Montserrat. Dato
che Freddie era così preso da Pavarotti, non aveva fatto tanto caso agli altri
cantanti. Poi lei cominciò a cantare e patatrac: Freddie restò incantato. Si
dimenticò del tutto di Pavarotti. Da quel momento in poi vide solo lei.»
Freddie fu ipnotizzato in particolare dal famoso duetto d’amore tra il
focoso Riccardo e la splendida Amelia, una donna tormentata dai sensi di
colpa ma incapace di resistere alla passione. Era una condizione con cui si
identificava. Non riuscì a staccare gli occhi, e le orecchie, dalla potente,
seppur delicata, Caballé. Dopo lo spettacolo, non smise un attimo di parlare
di lei in toni estatici, decantando il suo «timbro limpido», la sua «versatilità
vocale» e la sua «tecnica impeccabile». «Ecco una vera cantante», ripeteva di
continuo.
«Se mi chiedessero di descrivere la persona più felice che abbia mai visto,
Freddie che sta per godersi Monserrat sul palco a Covent Garden sarebbe
sicuramente una di queste», disse Gambaccini.
«Ero in platea. Alla mia sinistra, in prima fila, nel posto migliore, c’era
Freddie con gli occhi pieni di meraviglia e di gioia. La mano sinistra protesa
verso il palco, la felicità dipinta in volto… come un bambino. Era una scena
fantastica e una prova del fatto che, a prescindere da quanto successo avesse
avuto, non aveva smesso di rispettare e ammirare i suoi artisti preferiti.
Anche le star hanno le loro star.»
Freddie non poteva sapere che di lì a poco avrebbe registrato un disco e
si sarebbe esibito con Monserrat, dando vita a uno dei duetti più
improbabili del firmamento musicale.
Ma gli altri Queen erano annoiati: non sopportavano tutti quei giorni di
riposo e relax. Scalpitavano per rimettersi al lavoro. Un tentativo di
comporre la colonna sonora per l’adattamento cinematografico del romanzo
di John Irving Hotel New Hampshire, con la regia di Tony Richardson e la
partecipazione di Rob Lowe e Jodie Foster, fallì quando risultò evidente che
il budget della pellicola non bastava per avere musiche composte da
superstar. Il progetto, però, li spinse a tornare in studio. Ritrovatisi alla
Record Plant di Los Angeles, i quattro iniziarono a mettere in cantiere un
nuovo album, «The Works».
Gli studi, famosi per le registrazioni di Jimi Hendrix e dei Velvet
Underground erano stati fondati a New York nel 1968. La succursale di Los
Angeles era diventata molto popolare durante gli anni Settanta, a mano a
mano che il mondo del pop e del rock si era spostato a ovest. Nel 1985, la
Record Plant si sarebbe poi trasferita a Hollywood, al posto dei famosi Radio
Recorders Studios (alias «Annex» Studios) che avevano visto Louis
Armstrong ed Elvis Presley suonare nelle loro sale, e due anni dopo
sarebbero stati acquisiti dalla Chrysalis Records per opera di Sir George
Martin, il produttore dei Beatles.
Eddie DeLena assistette Reinhold Mack durante la lavorazione di «The
Works». «Mack era una persona gentile e di poche parole», ricorda. «Più
avanti scoprii che era un vantaggio. Non si schierava mai e si teneva lontano
dai potenziali conflitti fra musicisti, manager e dirigenti dell’etichetta. Era
neutrale come la Svizzera, ecco perché nessuno litigava mai con lui.»
A parte il garbo e la mitezza di Mack, DeLena scoprì che lavorare con i
Queen era «come incidere quattro diversi album solisti». «Anziché
collaborare fin dall’inizio, ogni membro del gruppo arrivava con le proprie
idee, le elaborava e poi gli altri ci incidevano sopra le loro parti.» Non che
fosse un problema.
«I Queen erano fra i musicisti più dotati e gentili che potessi immaginare.
Quattro gentiluomini, tutti educati e ognuno diverso dall’altro. Roger Taylor
era affascinante e amava la vita mondana in generale, al contrario di Brian o
John. Brian era sveglio, gentilissimo e totalmente appassionato al mestiere,
nel quale eccelleva. Conosceva benissimo la composizione e la teoria
musicale: passava ore a sviluppare le sue parti in studio. John era introverso
e si teneva lontano dai riflettori. Passava meno tempo in studio rispetto agli
altri, ma quando c’era bisogno di lui, era sempre pronto e preciso.
«Freddie era chiaramente trasgressivo ed esagerato. La sua presenza
riempiva la stanza non appena entrava. Quando parlava, usava toni
drammatici e coloriti, con un timbro da attore teatrale. Lo stile operistico dei
Queen era in realtà un’appendice della personalità di Freddie. Era molto
dotato dal punto di vista vocale ed era un ottimo compositore. C’erano volte
in cui registravamo le parti vocali e quasi non facevi in tempo a cambiare
pista sul multitracce che lui già cantava la parte successiva con un complesso
arrangiamento armonico. Aveva già tutto l’arrangiamento in testa e cantava
ogni parte alla perfezione al primo colpo. Era difficile stargli dietro.»
Eddie trovò normale che Freddie girasse con un entourage di
omosessuali.
«In quel caso, amici e conoscenti di ‘Boystown’ [la zona gay di West
Hollywood]. Spesso si vantava delle sue avventure della sera precedente, ma
nessuno degli altri Queen si degnava di prestargli ascolto.»
I club preferiti di Freddie a Boystown erano The Motherlode, The Spike, e
The Eagle sul Santa Monica Boulevard. In una di quelle sortite Freddie finì
fra le braccia di Vince «il barista», che lavorava all’Eagle: un esemplare alto,
scuro, barbuto e grosso, e soprattutto indifferente al fatto che Freddie fosse
una rockstar di fama internazionale. Vince aveva una bella moto e Freddie
non sapeva resistere ai motociclisti. Presto i due divennero inseparabili, ma
quando il cantante gli chiese di seguirlo, Vince rispose di no. Ma non fu
certo il primo rifiuto che Freddie ricevette in questo senso.
«Tutti tranne Freddie avevano una guest list di amici che potevano
passare a trovarli in studio», racconta DeLena. «Erano lì per fare un disco
senza distrazioni. Si può solo presumere che in passato avessero fatto degli
‘studio party’ [DeLena si rifiuta di approfondire; possiamo solo
immaginare…] e che ne avessero avuto abbastanza.»
Una sera, però, lo studio dei Queen si trasformò in un megaevento
rock’n’roll.
«Rod Stewart era in fondo al corridoio, che registrava nello Studio A.
C’era pure Jeff Beck, nello Studio B. Tutti finirono nello Studio C, a
improvvisare insieme. Ci fu una scena eccezionale con Rod Stewart e
Freddie Mercury insieme al pianoforte, che cantavano un duetto
improvvisato sfottendosi a vicenda, in particolare sui loro attributi fisici, con
una comicità tipicamente inglese. Freddie derideva i capelli e il naso di Rod,
Rod rispondeva con qualcosa sui dentoni di Freddie. Esilarante. Piangevo
dal ridere mentre cercavo disperatamente di piazzare amplificatori e
microfoni, perché quel momento andava assolutamente registrato. Jeff Beck
e Brian May che suonavano insieme, Rod e Freddie che cantavano in
duetto, Carmine Appice e Roger Taylor che si alternavano alla batteria. Era
il caos, certo, ma quei nastri esistono da qualche parte. Il management dei
Queen si è subito assicurato che nessuno li sentisse per timore che qualche
copia finisse nelle mani sbagliate. Prelevarono le bobine dallo studio quella
sera stessa. Nemmeno io le ho mai ascoltate.»
Un altro momento memorabile durante la registrazione di «The Works»
fu la festa per il trentasettesimo compleanno di Freddie nell’enorme dimora
che aveva affittato a Stone Canyon Road, già appartenuta a Elizabeth
Taylor. Per l’occasione Freddie fece riempire la casa di gigli orientali dal
profumo inebriante. Decise poi che la sua vecchia fiamma Joe Fanelli si
sarebbe occupato della cucina, e lo fece arrivare da Londra. I due,
rappacificati, decisero il menu per la festa, con i piatti preferiti di Freddie,
fra cui l’insalata di pollo detta «dell’incoronazione» e i gamberoni alla
creola.
Le cameriere lesbiche in camicia bianca e pantaloni neri furono fornite
da una dirigente della Elektra, la cui amante era proprio la donna delle
pulizie della casa.
«Una scena maestosa, in mezzo ai lussureggianti giardini della tenuta»,
ricorda DeLena, che fu invitato alla festa insieme con Elton John, Rod
Stewart, Jeff Beck e John Reid. A parte questi, c’erano pochi volti noti fra il
centinaio di invitati, molti dei quali erano i cari, vecchi ‘anonimi amici’ di
Freddie. Il partner del festeggiato per la serata era Vince il barista.
«C’erano camerieri, baristi, maghi e musicisti classici», ricorda. Uno
spasso. La notte volò via finché mi resi conto che non c’entravo molto con
quelli rimasti»: DeLena era oramai uno dei pochi eterosessuali presenti.
Il primo singolo estratto dal nuovo album fu Radio Ga Ga, scritta da
Roger nel gennaio del 1984. In origine intitolata Radio Caca, pare per un
commento scatologico di Felix, il figlioletto di Roger (la cui madre,
Dominique, è francese), raggiunse la seconda posizione nel Regno Unito e
la prima in diciannove Paesi, rivelandosi una delle composizioni più
intelligenti dei Queen. Fra le righe del testo pop si leggeva una frecciata alle
emittenti radiofoniche, accusate di essersi vendute. La funzione e
l’immagine della radio era oramai diventata l’opposto di tutto ciò che un
tempo essa rappresentava. Quel disco epico aveva bisogno di immagini
altrettanto epiche che lo promuovessero. Prodotto da Scott Millaney e
diretto da David Mallet (che Freddie chiamava «Mallet B. DeMille») il
video comprendeva alcune scene di Metropolis, il capolavoro di fantascienza
di Fritz Lang del 1927, oltre a una panoramica di frammenti di video
precedenti come Bohemian Rhapsody e Flash. Con l’aiuto del fan club,
cinquecento discepoli discesero agli Shepperton Studios londinesi,
indossarono tute argentee e si disposero in fila, dove batterono le mani a
ritmo con il ritornello. La sequenza sarebbe stata poi adottata dai fan nei
concerti in tutto il mondo e sarebbe diventata un’immagine indelebile del
Live Aid. Radio Ga Ga fu il video più costoso dei Queen fino a quel
momento e uno dei loro progetti più ambiziosi.
«David e Freddie passarono ore a discutere idee», ricorda Millaney.
«‘Tesoro, vedi solo di superare Elton’, diceva Freddie. ‘Voglio il meglio’».
«Mandai il budget a Jim Beach e lui disse: ‘No, è troppo’. E io: ‘No, non
hai capito, questo è il budget di Freddie’.»
Millaney e Mallet crearono anche il controverso video per I Want to
Break Free, quello con i quattro Queen travestiti da donne e anche una
sequenza di balletto di quarantacinque secondi, ispirata dal Preludio al
pomeriggio di un fauno di Claude Debussy, in cui Freddie danzava con il
corpo di ballo del Royal Ballet.
«Freddie non stava nella pelle per l’eccitazione quando preparammo quel
video», ricorda Millaney. «‘Bene, tesoro, dobbiamo solo vestirci da donna e
io mi devo tagliare i baffi.’ Ma David gli disse: ‘No! Devi tenerli. È proprio
questo il punto!’ Freddie era il ritratto della felicità quando prenotammo il
Royal Ballet e lui poté danzare con loro per un giorno intero… anzi poté
persino rotolare su di loro!»
La truccatrice Carolyn Cowan, responsabile per il body painting sul corpo
dei ballerini, sviluppò una relazione così stretta con Freddie che fu
prenotata per diversi video successivi.
«Io non ero una normale truccatrice e Freddie non era una normale
rockstar – ammesso che esista una cosa del genere – per cui ci incontrammo
a metà strada», racconta.
«Eravamo tutti e due molto forti e io sapevo disinnescare la sua rabbia in
un attimo. In cambio Freddie si prendeva cura di me. Era una simbiosi, ci
piacevamo, per dirla in parole povere.
«Il camerino del trucco è un luogo sacro. Gli artisti si spogliano e ti
permettono di vederli come sono fatti davvero: ecco perché lì dentro ci
vuole un’enorme dose di fiducia. Ci metto poco a dipingere un corpo. Sono
veloce. Devi esserlo, altrimenti le persone prendono freddo, si annoiano,
perdono la pazienza; si ricordano di essere a disagio. Devi cogliere l’attimo e
andare avanti.
«Arrivai ai Limehouse Studios per I Want to Break Free e andai subito
d’accordo con tutti.
«All’epoca bevevo molto, oltre a tirare di coca e fumare canne, e questo
forse mi fu di aiuto (fu David Bowie a salvarla dalla dipendenza, nel 1991).
«Come Freddie, sono una dipendente per natura. Credo che lui lo capì
subito. Avevo i capelli lunghi, allora; somigliavo a Carlo II. Gonna corta,
stivali alti; ero aperta a qualsiasi esperienza. Ero in sintonia con l’eccentricità
della band.
«Li truccai tutti da donne, in stile Coronation Street, e il risultato fu
incredibile. Freddie aveva già un volto grandioso. Tutto funzionò quel
giorno. Dovetti anche fare le orecchie appuntite in cera dei ballerini. Ma
loro si comportavano così male che rovinavano di continuo il trucco e mi
toccava rifarlo. Nel frattempo Freddie diceva: ‘Preparami un’altra striscia di
coca, tesoro, ti prego!’ Era scandaloso. Facemmo fuori una quantità di droga
incredibile.
«Tieni a mente che stavamo inventando una nuova forma d’arte.
Eravamo sotto pressione per questo. Nonostante ciò andai d’accordo con la
band, nel suo insieme e singolarmente presi. Non si erano ancora stancati,
stufati, rotti le palle. Adoravano ancora la libertà e l’edonismo di
quell’ambiente. Era divertente. Freddie aveva una straordinaria energia
creativa e il miglior senso dell’umorismo che avessi mai visto.»
Tuttavia, come già ricordato, il video si sarebbe rivelato un ulteriore
chiodo sulla bara della reputazione dei Queen negli USA. I travestiti furono
ritenuti troppo estremi per MTV.
Negli anni Ottanta l’emittente esercitava un controllo tale sull’industria
della musica e sulla cultura popolare che la decisione di non trasmettere un
dato video aveva effetti devastanti. Il riferimento ironico alla soap opera
inglese Coronation Street non fu colto dai fan americani, che trovarono il
clip offensivo e incomprensibile. La band restò di sasso.
«Abbiamo fatto dei video strepitosi in passato», disse Roger, «e questa
volta abbiamo pensato che fosse ora di scherzare un po’. Volevamo far
vedere che non ci prendevamo troppo sul serio, che eravamo ancora capaci
di ridere di noi stessi. Credo che ce l’abbiamo fatta.»
«L’americano medio capì che forse Freddie era gay, e l’americano medio
era molto importante», spiega Brian Southall, ex giornalista e dirigente delle
pubbliche relazioni della EMI.
«Potevi sperimentare quanto volevi a New York e a Los Angeles, ma non
in Kansas...»
La band non si scusò e si rifiutò categoricamente di girare un video
alternativo per il mercato americano. L’orgoglio ebbe ancora una volta la
meglio, ma distrusse la loro reputazione in America.
«Break Free fu un problema», concorda Peter Paterno, l’avvocato
americano che nelle veci di presidente della Hollywood Records avrebbe
scritturato i Queen nel 1990.
«Minigonne e trucco offesero molta gente. E anche Radio Ga Ga: molte
emittenti americane se la presero a morte. Dicevano: Non passiamo la loro
musica se ci prendono in giro, perché dovremmo? Dal giorno alla notte i
Queen crollarono qui in America.»
«The Works» sarebbe arrivato a fatica al ventitreesimo posto negli USA e
Radio Ga Ga al sedicesimo.
«Inoltre», aggiunge Paterno, «oramai i Queen erano in contrasto con la
loro stessa immagine. Qui in America, all’epoca, il classico appassionato di
rock era un macho e non somigliava affatto a loro. Secondo me, facevano
ancora una musica stupenda. Ero un loro fan. Prendi Hammer to Fall, il
pezzo contro il nucleare di Brian May, che sarebbe finito sulla colonna
sonora di Highlander. È una canzone stupenda che non ha avuto alcun
successo qui. Niente di niente. Quello fu l’inizio della fine per i Queen in
America.»
La disputa della Capitol Records con i promotori discografici
indipendenti non contribuì a migliorare la situazione, così come lo strano
atteggiamento del manager personale di Freddie, Paul Prenter, che appariva
oramai l’unico responsabile delle trasgressioni sempre più eccessive del
cantante, vale a dire sesso con prostituti e droga. Secondo alcuni, Prenter
spingeva Freddie a raggiungere livelli via via più elevati di pericolo e
depravazione per soddisfare le proprie fantasie perversamente dissolute.
«Esercitava una pessima influenza su Freddie», commentò Roger, «e di
conseguenza su tutta la band.»
Ma né Freddie né i suoi amici potevano sapere fino a che punto il
rapporto con Prenter si sarebbe rivelato disastroso.
A febbraio, mentre la EMI preparava il lancio di «The Works», che,
nonostante la tiepida accoglienza americana, sarebbe diventato l’album di
maggiore successo dei Queen, la band partecipò al Festival di Sanremo in
compagnia dei Culture Club di Boy George, di Paul Young e di Bonnie
Tyler. Partecipare a un evento del genere, per artisti così affermati, era
ritenuto addirittura peggio di un fiasco, ma rappresentava anche
un’occasione per svagarsi un po’ sulla riviera ligure. E poi era anche una
mossa azzeccata dal punto di vista pubblicitario, nonostante Brian e Roger
fossero ai ferri corti.
Durante un’intervista a margine del festival, Freddie alzò il sipario sul
suo rapporto con Michael Jackson: «Io e Michael ci siamo allontanati un po’
da quando ha avuto grande successo con ‘Thriller’», confessò. «Si è ritirato
nel suo mondo. Due anni fa, ci divertivamo a girare insieme per locali, ma
ora se ne sta rintanato nella sua fortezza. È triste. Ha paura di essere
attaccato ed è paranoico su tutto.»
John e Roger affrontarono un tour promozionale con diversi
appuntamenti in Australia ed Estremo Oriente, prima di sparire per una
vacanza. Brian collaborò al nuovo album del rocker americano Billy Squier,
mentre Freddie tornò a Monaco per diverstirsi, fra una puntatina e l’altra in
studio per produrre il suo album solista.
A maggio i Queen si riunirono tutti a Montreux e cantarono in playback
davanti a quattrocento milioni di spettatori televisivi per il Rose d’Or
festival. Annunciarono anche una nuova tournée europea, che avrebbe
preso il via ad agosto. Poi Roger tornò a dedicarsi a un progetto solista, che
avrebbe prodotto un singolo e un album accolti con scherno dalla critica il
mese successivo. Freddie tornò di corsa a Monaco. A giugno, la band si
radunò a Londra e ricevette un premio Silver Clef per il suo «eccezionale
contributo alla musica britannica».
Luglio vide l’uscita del singolo It’s a Hard Life, che arrivò alla sesta
posizione nel Regno Unito; il terzo singolo tratto da «The Works» a entrare
nella Top Ten.
It’s a Hard Life riprendeva il tema metà tragico metà giocoso di Killer
Queen e Play the Game. Il primo verso e la melodia echeggiavano Vesti la
giubba, la famosa aria di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo: «Ridi, Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!» Forse Freddie pensò anche a Smokey Robinson
quando compose il pezzo. In Tears of a Clown («Lacrime di un pagliaccio»)
dall’album del 1967 «Make It Happen» dei Miracles, Robinson si paragona
ai pagliacci, che nascondono il dolore e la rabbia dietro i loro sorrisi vacui.
Già in precedenza Robinson aveva usato il paragone con i pagliacci tristi in
un pezzo scritto per Carolyn Crawford della Motown, My Smile Is Just a
Frown (Turned Upside Down) («Il mio sorriso è solo una fronte corrugata
(girata al contrario)». Richiamandosi a Play the Game e alla ricerca
infruttuosa del vero amore, in Hard Life Freddie descriveva il suo doloroso
dilemma personale. Aveva accumulato enormi ricchezze materiali, più di
quante avrebbe potuto sognare, ma questo non gli bastava. «Il denaro non
può comprarmi l’amore», (Money can’t buy me love) avevano cantato i
Beatles vent’anni prima sullo stesso tema. Come spiegò Paul McCartney:
«L’idea dietro quel pezzo è che tutte queste comodità vanno benissimo, ma
non possono darmi ciò che desidero davvero». Freddie imparò a sue spese
quanta verità vi fosse in quella frase.
Che il cantante si sentisse afflitto da una carenza affettiva non era un
segreto per gli amici più intimi, che negli anni l’avevano aiutato ad asciugare
le lacrime dopo una lunga serie di relazioni disastrose. Era evidente anche
per i fan, grazie alle numerose canzoni che il loro idolo aveva scritto
sull’argomento.
«I testi dei suoi brani rispecchiano la sua vita», osserva Frank Allen dei
Searchers. «I Want It All [‘Voglio tutto’], Somebody to Love [‘Qualcuno da
amare’], Don’t Stop Me Now [‘Non fermatemi adesso’], Who Wants to Live
Forever [‘Chi vuol vivere per sempre’] illustrano le sue speranze e i suoi
desideri. È normale che un compositore esprima la propria personalità nei
suoi testi, e più Freddie accettava la sua sessualità più si apriva con sincerità.
Credo che le relazioni con le donne lo facessero sentire più sicuro. Tutti
hanno un lato bisessuale, anche se pochi lo accettano. Il senso di colpa e le
conseguenze sono troppo grandi, persino in questi tempi cosiddetti ‘liberi’.»
Milioni di persone amavano Freddie, ma da lontano. Pochi gli erano
vicini. Quelli che lo erano e che erano stati ammessi nella sua cerchia di
amici personali avevano troppo bisogno di lui. La loro adorazione
riguardava più i loro desideri e i loro sogni che quelli di Freddie.
L’esuberanza e l’abbandono omosessuale erano depistaggi per celare al
mondo esterno un crescente sconforto interiore. Nel profondo del cuore
Freddie temeva che non avrebbe mai trovato la persona ideale, il suo
«qualcuno da amare», un altro motivo per cui restò aggrappato a Mary con
tanta tenacia.
Riferendosi proprio a It’s a Hard Life, brano a cui lavorò con Freddie
senza risparmiarsi, Brian dichiarò: «È una delle canzoni più belle che
Freddie abbia mai scritto. Arriva dritta dal cuore».
Il sontuoso videoclip del pezzo fu girato dal regista Tim Pope a Monaco e
lasciò la band delusa e confusa. Vi compaiono diversi amici di discoteca di
Freddie, inclusa Barbara Valentin, ma tutti appaiono evidentemente a
disagio nei panni di trovatori medievali. Il costume aderente e decorato con
decine di occhi di Freddie, un omaggio alla cantante osé francese de fin de
siècle Mistinguett, sollevò non poche perplessità oltreoceano. Così come una
misteriosa ferita alla gamba, abbastanza grave da richiedere un’ingessatura,
che il cantante dichiarò essere dovuta a un non meglio specificato
contrattempo in un bar del Triangolo delle Bermude.
I Queen volevano suonare in posti nuovi. Il Vaticano non gli era
concesso, i russi li avevano definiti «debosciati», mentre cinesi e coreani non
stavano al gioco. Accettando di fare dodici spettacoli al Super Bowl in Sud
Africa, nell’ottobre del 1984, i quattro si trovarono invischiati nella più
compromettente tempesta politica della loro carriera. Sun City era un’isola
nel deserto dedicata al divertimento, tipo Las Vegas, in parte finanziata dal
governo dell’apartheid. Per il mondo esterno era un insulto della minoranza
bianca nei confronti della popolazione nera che viveva nella povertà,
rinchiusa in squallidissimi ghetti. La British Musicians’ Union aveva imposto
ai propri membri il divieto di esibirsi in Sud Africa. L’atmosfera
antiapartheid sarebbe stata catturata dal supergruppo Artists Against
Apartheid, fondato da Steven Van Zandt (già membro della E Street Band
di Bruce Springsteen) con il singolo I Ain’t Gonna Play Sun City («Io non
suonerò a Sun City»), che vide la partecipazione di Miles Davis, Bob Dylan,
Ringo Starr e il figlio Zak Starkey, Lou Reed, Jackson Browne, Pat Benatar,
Peter Gabriel, Keith Richards e Ronnie Wood dei Rolling Stones. Quando
uscì, nel dicembre del 1985, il 45 giri non riscosse particolare successo in
America, ma fu una hit in Australia, in Canada e nel Regno Unito.
I Queen non si pentirono. «I Want to Break Free è diventata l’inno
ufficioso dell’African National Congress e Another One Bites the Dust è uno
dei brani più venduti fra la popolazione nera del Sud Africa», spiegò Roger.
Le polemiche, però, imperversarono lo stesso. Nel frattempo i Queen si
accinsero a partire per la tournée di «The Works», insieme con un quinto
membro alle tastiere, Spike Edney.
Erano quasi due anni che non si esibivano dal vivo, per cui furono
costretti a entrare in sala prove, sebbene quello non fosse certo il loro
passatempo preferito. Si ritrovarono in un hangar di Monaco, attrezzato di
tutto punto, con impianti e luci all’avanguardia.
«La primissima cosa che suonai con loro alle prove fu Tie Your Mother
Down», ricorda Edney. «Che andava bene, perché la suonavano da anni.
Poi Under Pressure. Quindi vollero provarne una delle nuove: I Want to
Break Free. Un pezzo abbastanza facile, diresti tu. Arrivammo alla prima
strofa, ci ingarbugliammo e ci fermammo. Mi resi conto che non l’avevano
mai fatta insieme dal vivo. Io avevo la partitura per cui dissi: Guardate, in
realtà fa così e così. John si mise dietro di me, poi anche Brian. E poi
Freddie: ‘Hai per caso anche le parole scritte lì, buon uomo?’ chiese. Li
avevo tutti intorno e pensai: Su Edney, andrà bene, puoi farcela.»
Durante la data al National Exhibition Centre di Birmingham, il leader
degli Spandau Ballet Tony Hadley incontrò il suo idolo Freddie Mercury
per la prima volta. Hadley aveva una voce così potente e versatile che era
stato paragonato al giovane Frank Sinatra. Non lo sapeva, ma Freddie era
un suo fan.
«La massoneria della Stima Reciproca», ricordò ridendo.
«Ero cresciuto con i dischi dei Queen e Freddie era il migliore frontman
del mondo. Morivo dalla voglia di conoscerlo. All’epoca ero abbastanza
famoso per ottenere accesso a qualsiasi backstage. Incontrammo i ragazzi,
che furono molto gentili e simpatici. Ci invitarono alla festa di fine concerto
in un albergo vicino. Ci andai con Leonie [la sua prima moglie]. C’era un
posto libero a fianco di Freddie e lui mi disse: ‘Vieni tesoro, vieni a sederti
vicino a me, caro’. Leonie andò a sedersi dall’altra parte del tavolo. Stavamo
chiacchierando quando all’improvviso arrivarono un paio di spogliarelliste
per intrattenere la troupe.
«Ho sempre pensato che i Queen si divertissero più degli altri.
Festeggiavano alla grande, facevano dischi meravigliosi, avevano più
personalità di chiunque altro. Persino John Deacon, che era il più
tranquillo.
«Quella sera parlai con Freddie dell’immagine pubblica e mi diede
qualche consiglio gratis: ‘Non scusarti mai per essere sul palco’, disse. ‘Mai
chiedere scusa. Il pubblico è venuto a vederti, quindi non importa se non sei
in forma per una sera. Devi guidare lo spettacolo in ogni caso.’ Avevo
ventitré o ventiquattro anni e cantavo in una band che andava abbastanza
bene. Lui era il re del rock. Avrebbe potuto ignorarmi, invece si dimostrò
entusiasta di trasmettermi la sua esperienza e le sue conoscenze. È stato
l’unico che l’ha fatto in vita mia e lo rispetto tantissimo per questo.»
«‘Tutti gli artisti sono afflitti da un senso di insicurezza’, mi disse. ‘Anche
tu?’ chiesi. ‘Soprattutto io’.»
Il concerto del 5 settembre a Wembley terminò con una festa per
cinquecento invitati nella discoteca Xenon per celebrare il trentottesimo
compleanno di Freddie. La torta era forse la più spettacolare di tutte: un
modellino di Rolls-Royce lungo un metro e mezzo. Quella settimana uscì il
ventiseiesimo singolo del gruppo, Hammer to Fall, in contemporanea con il
primo singolo di Freddie come solista, Love Kills, registrato per la riedizione
di Metropolis. Con nove album fra i primi duecento nel Regno Unito, a
ottobre i Queen e il loro entourage, inclusa Mary Austin e il suo nuovo
convivente Joe Burt (bassista della Tom Robinson Band), partirono per il
Sud Africa e il loro controverso appuntamento a Sun City. Durante il
concerto di apertura, però, Freddie perse la voce dopo un paio di canzoni; la
calura e la polvere del deserto avevano aggravato il suo vecchio problema
alla gola. Lo spettacolo fu cancellato, così come i cinque successivi. La band
riuscì a fare solamente gli altri sei concerti in programma.
Al ritorno a Londra, Brian e Roger andarono a difendere le proprie
posizioni alla Musicians’ Union.
«Non eravamo andati [in Sud Africa] a far baldoria», spiega Edney. «I
Queen avevano fatto un bel po’ di beneficenza laggiù, inclusa una raccolta
fondi per l’istituto Kutlawanong per bimbi sordociechi. Più avanti fecero
uscire uno speciale album dal vivo lì, donando tutti i diritti alla scuola.
Avevamo ricevuto un’accoglienza fantastica, per cui secondo me avevamo
fatto bene ad andarci. Nel giro di un paio di anni, la situazione politica
cambiò e tutti andarono a suonare in Sud Africa.»
Liquidati con una cospicua multa ed espulsi dall’organizzazione, i Queen
riuscirono almeno a ottenere che la sanzione fosse devoluta in beneficenza,
piuttosto che incassata dall’ente. Quel fiasco li avrebbe sbalorditi per anni.
«Siamo completamente contrari all’apartheid e a tutto ciò che
rappresenta», dichiarò Brian. «Ma abbiamo gettato un ponte. Abbiamo
incontrato musicisti di ogni colore, bianchi e neri. Ci hanno tutti accolto a
braccia aperte. Le uniche critiche sono arrivate da fuori del Sud Africa.»
Il tastierista ammette che i Queen avessero la reputazione di essere
incredibilmente arroganti.
«È vero. Erano arroganti. Ma era perché il più delle volte avevano
ragione. Secondo loro erano stati trattati ingiustamente agli inizi della loro
carriera, e questo aveva insegnato loro a fidarsi solo del proprio giudizio.
L’unico lato negativo della loro arroganza era che si trasmetteva anche ai
ranghi più bassi dell’organizzazione. I collaboratori erano arroganti a nome
loro, anche se non ne avevano alcun diritto. A volte diventavano abbastanza
insopportabili.»
Freddie tornò a Monaco e a dicembre la band produsse il suo primo
singolo natalizio: Thank God It’s Christmas. Quella parodia di un genere
trito e scontato era stata registrata a Londra e Freddie aveva aggiunto il
cantato in Germania. Non entrò nemmeno tra i primi venti nel Regno Unito
e non sarebbe comparso in nessun album dei Queen, ma li avrebbe
perseguitati ogni anno da allora in poi, finendo in ogni singola compilation
natalizia. Il grande successo di quella stagione, però, fu Do They Know It’s
Christmas? del Band Aid. Il loro appuntamento con la storia era oramai
all’orizzonte.
20
Live

Diciamocelo: tutte le rockstar vogliono stare sotto i riflettori e


questo concerto ci farà vedere al mondo intero.
Ammettiamolo. Okay, aiuteremo chi soffre, ma d’altro canto
avremo un pubblico planetario, una trasmissione in
mondovisione e in diretta. Si tratta anche di questo, e non
dovremmo dimenticarcelo. Dubito che ci sia un singolo
musicista fra quelli che parteciperanno che non ci abbia
pensato.

FREDDIE MERCURY

La musica non è sempre ciò che suoni. È anche ciò che non
suoni. Freddie Mercury era almeno tre persone diverse: sul
palco, giù dal palco e in quella zona del crepuscolo che sta a
metà strada. Incarnava la sua musica. La sua performance
rifletteva ogni brano alla perfezione.

LOUIS SOUYAVE , chitarrista, Daytona Lights

ROCK in Rio, «il più grande festival rock che il mondo abbia mai visto»: un
evento spettacolare in concomitanza con il capodanno del 1985, con la
partecipazione di Rod Stewart, Yes, Iron Maiden, Def Leppard, Ozzy
Osbourne, George Benson, James Taylor e alcuni degli artisti più rinomati
in Brasile. Un progetto vasto e ambizioso, perfetto per le ambizioni dei
Queen. Il fatto che fosse organizzato dal loro fedele tour manager Gerry
Stickells, soprannominato «zio brontolone», e che la band sarebbe stata
l’ospite di punta dell’evento, sigillò l’accordo. Domenica 6 gennaio, i Queen
partirono ancora una volta per il Sud America.
L’entourage personale di Freddie comprendeva Mary Austin, Barbara
Valentin, Peter Freestone, Paul Prenter e una guardia del corpo. Circa
trecentomila fan si misero in viaggio in un caldo opprimente per assistere al
più grande evento rock di tutti i tempi.
Spike Edney aveva già fatto dei concerti di una certa dimensione, ma
nulla come Rio. «Sapevo che il precedente tour dei Queen in Sud America
era stato pionieristico, ma Rio prometteva di essere l’evento più grandioso
nella storia del rock.»
Ma la cosa che il tastierista si ricorda di più di quel periodo, era la pena
che provò nei confronti di Freddie.
«In Sud America era oramai diventato una star colossale. Era una
divinità. In Argentina Love of My Life era rimasta al primo posto per
un’eternità… era la loro Stairway to Heaven. Di conseguenza, laggiù
Freddie era come un prigioniero: non poteva andare da nessuna parte,
nemmeno con una scorta armata. Era penoso. Una volta o due riuscì a
svignarsela, ma non ne valeva la pena.»
Secondo Edney, la popolarità di Freddie in Sud America era dovuta in
parte al suo look.
«Qualcuno mi spiegò che tagliandosi i capelli e facendosi crescere i baffi,
aveva incarnato la quintessenza del maschio sudamericano; era diventato
una sorta di Clark Gable latino. Forse è anche per questo che lo adoravano
così tanto.»
La costruzione del «rockodromo» Barra da Tijuca era durata mesi e il
complesso comprendeva un gigantesco palcoscenico a forma di semicerchio
con due enormi fontane ai lati, che durante l’evento i fan usarono per
lavarsi, dato che una pioggia torrenziale trasformò il campo in un lago di
fango. Furono erette enormi tribune per la stampa, complete di linee
telefoniche internazionali e apparecchiature per trasmettere le fotografie,
destinate alle migliaia di giornalisti e fotografi che documentarono l’evento.
La sera, enormi riflettori fendevano il cielo, come in una première
hollywoodiana. L’eliporto appositamente costruito si rivelò una necessità
logistica piuttosto che un lusso, perché non c’era altro modo per raggiungere
il palcoscenico: tutte le strade che portavano al rockodromo erano intasate.
Freddie dovette accantonare la sua paura di volare.
La prima sera, i Queen dovevano esibirsi dopo gli Iron Maiden, ma
erano due ore in ritardo.
«Non ricordo più perché», rimugina Edney, «forse un normale ritardo
generale.»
Alla fine salirono sul palco alle due del mattino, quando oramai il
pubblico era in sommossa.
«Jim Beach mi fece arrivare vicino a lato-palco quando toccava ai
Queen», ricorda Peter Hillmore, che seguì l’evento per il quotidiano inglese
Observer.
«Guardai fuori e vidi quel pubblico immenso. ‘Come ci si sente là fuori?’
domandai a Brian. ‘Va’ a vedere da te’, rispose.
«Lo feci: decine di migliaia di facce che mi fissavano e che urlavano
perché volevano i Queen. Capii il potere che aveva Freddie Mercury, ebbi
un piccolo assaggio di quel che significava avere davanti trecentomila
persone che non aspettano altro che tu apra bocca e canti. Ebbi paura,
perché io non sapevo fare nulla. Poi i Queen salirono con calma sul palco e
si accinsero a suonare. C’erano roadie che correvano a destra e sinistra,
nessuno fece caso a me. Tornai di lato.
«In quel preciso momento sentii che più di ogni altra cosa al mondo avrei
voluto essere uno dei Queen. Avrei voluto essere Freddie Mercury. Alzava
la mano e il pubblico cantava con lui, la abbassava e tutti stavano zitti, solo
perché l’aveva deciso lui. Un potere incredibile, come un reattore nucleare
che spacca l’atomo.»
Freddie era soprannaturale, pensò Hillmore.
«Ai semafori la gente saltava fuori dalla macchina, sbavava sulla sua
limousine dicendo: ‘Freddie, ti amo, sei Dio!’ Lui e i Queen avevano dietro
di sé un’organizzazione enorme, che costava una fortuna: il suo unico scopo
era permettere ai quattro di essere comodi ovunque andassero, prima
ancora di fare anche solo un giorno di lavoro. Non dovevano nemmeno
disfarsi le valigie da soli. Mai preoccuparsi di bagaglio in eccesso, o di dover
fare la coda al check in o al duty free. Per loro solo salette VIP e voli in
prima classe, con un assistente pronto a soddisfare qualsiasi capriccio. Per
questo Freddie non poteva avere una vita privata. Una vita del genere
minerebbe la stabilità di chiunque, anche della persona più normale del
mondo.»
La storia dei «fischi brasiliani» a Freddie, fu in realtà un’esagerazione
della stampa. Quando salì sul palco vestito da donna, come nel video di
Break Free, il cantante fu sorpreso dalla reazione del pubblico, che bersagliò
il palco lanciando pietre, lattine e altri oggetti. Freddie pensò che fosse una
protesta per il suo abbigliamento. Quando un pezzo di cartone lo colpì in
pieno, Brian indietreggiò e si piazzò a fianco della batteria di Roger.
Freddie, invece, restò dov’era, con aria di sfida e fece l’errore di perdere le
staffe. Fraintendendo la reazione degli spettatori, prese a schernirli. Una
serie di giornalisti riferirono che, siccome in Brasile il brano era diventato
un inno contro la dittatura, il pubblico si era offeso nel vederlo presentato
da un travestito, e si era infuriato.
Dave Hogan, che fotografò l’evento per You, la rivista del Mail on
Sunday, invece descrisse l’intera faccenda come «un equivoco madornale».
«Di solito nei concerti di quelle dimensioni i fan si accalcano per arrivare
sotto il palco, ma in quell’occasione gli organizzatori ne avevano eretto uno
così alto che chi era immediatamente sotto non riusciva a vedere cosa
accadeva sopra. Non si riusciva a vedere niente di quel che succedeva sul
palco. Alcuni allora cercarono di salire sulle transenne, ma gli addetti alla
sicurezza li respinsero indietro picchiandoli sulle mani. A quel punto
Freddie uscì con parrucca e tette finte, proprio mentre i fan si
arrampicavano sulle spalle di quelli davanti a loro per vedere qualcosa. Le
guardie li attaccarono e loro reagirono con una sassaiola. Nessuno voleva
tirare una pietra a Freddie, al contrario, lo adoravano. Ma fu scritto che i
fan fischiarono Freddie e gli tirarono di tutto perché si era travestito.
Chiamiamolo ‘giornalismo creativo’, da parte di reporter in cerca di un facile
scoop. Va bene… Freddie, devo dire, fece la sua solita performance e fece
furore. Non gli tirarono pietre, posso testimoniarlo personalmente: ero
proprio lì di fronte a lui. Ma perché lasciare che la verità rovini un’ottima
storia?»
Installato in grande stile nella suite presidenziale del Copacabana Palace
di Rio, Freddie teneva banco.
«In quella suite erano passati tutti i presidenti americani», ricorda Wigg.
«Freddie mi invitò a bere qualcosa. Quel giorno pioveva molto e c’era fango
ovunque, ma il motto di Freddie era: ‘Lo spettacolo deve continuare’. Poi mi
invitò a cena. C’era anche Mary Austin, seduta alla sua sinistra, come
sempre. Alla destra c’era invece il suo fidanzato del momento. Poi
andammo in discoteca (l’Alaska, all’epoca la discoteca gay più famosa di
Rio). Tirammo fino alle quattro del mattino. Dovevo scrivere il mio articolo
per l’Express, per cui decisi di andare in albergo a dormire un po’. Mi
avvicinai a Freddie per congratularmi e ringraziarlo prima di andarmene.
‘Dove vai?’ mi chiese. ‘Torno in albergo a piedi’, gli dissi. ‘Assolutamente
no!’ rispose. Schioccò le dita: ‘Steve! Accompagna David con la mia
macchina e non lasciarlo fuori dell’albergo: accompagnalo dentro.’ Freddie
era gentile, sensibile e premuroso. Tutta la sua famiglia era così, i genitori, la
sorella, tutti. Era un vero signore inglese vecchio stampo, una cosa insolita
per una rockstar.»
Paul Prenter aveva l’incarico, assai discutibile, di scegliere gli uomini per i
festini di Freddie. Pochi rifiutavano l’invito a «raggiungere Freddie Mercury
nella sua suite personale per una festa privata». La maggior parte dei
testimoni concorda nell’affermare che il compito di Prenter aveva assunto
una dimensione assai squallida. Non solo il manager era responsabile per
trovare nuovi «talenti» – di solito giovani prostituti conosciuti come «taxi
boys» – ma anche per procurare alcolici e cocaina in grandi quantità.
Uno di questi taxi boy era Patricio, un ebreo biondo e con gli occhi
azzurri, che partecipò a quegli incontri privati in diverse occasioni.
Trasferitosi da Buenos Aires a Rio per tentare la carriera drammatica,
Patricio era caduto nel mondo della prostituzione a causa della povertà e
della miseria. Nella sua vita avrebbe poi compiuto un ultimo viaggio
significativo, in Israele, per morire di AIDS. Patricio ammise di avere avuto
diversi rapporti sessuali con Freddie.
«I prescelti raggiungevano Freddie nella sua lussuosissima suite, con vista
sulla piscina», racconta.
«Prima bevevamo qualcosa, poi tiravamo un po’ di coca; c’era un tavolino
basso con le strisce già pronte. Quindi ci toglievamo i vestiti ed entravamo
nella camera di Freddie, dove lui ci accoglieva indossando solo una
vestaglia. Paul [Prenter] invece restava sempre vestito. Freddie faceva sesso
con ognuno di noi a turno, davanti agli altri. Quando era stanco, Prenter ci
pagava e ci diceva di andarcene. Freddie era sempre passivo. Quando
cominci a essere gay di solito sei attivo, ma più diventi popolare e tutti
vogliono andare a letto con te, più ti piace fare il passivo, visto che è il modo
più semplice per divertirsi. Fare l’uomo è faticoso. La maggior parte dei gay
alla fine preferisce fare la donna.»
Freddie era diventato dipendente dal sesso occasionale. Secondo
Patricio, la maggior parte delle volte la star non si eccitava nemmeno. Più
loro si scatenavano, più lui restava impassibile.
«Sembrava che non si divertisse nemmeno, che lo facesse solo così, tanto
per fare.»
A Rio ci furono molti festini del genere, che si conclusero tutti allo stesso
modo. La ricerca di stimoli sempre nuovi aveva portato Freddie a
raggiungere eccessi che nemmeno lui riusciva più a gestire, come se
ricercasse la trasgressione fine a se stessa. Questo provava una sola cosa: era
stufo. Poteva avere tutto ciò che il denaro può comprare, ma il piacere lo
eludeva sempre più. Il sesso senza amore non lo eccitava più. Difficile
credere che non si disprezzasse per quei suoi vizi, che oramai lo
dominavano. Ma non riusciva a smettere. Prima o poi sarebbe successo
qualcosa. «Quando c’erano sia Paul sia Barbara in giro», confessa Peter,
«diventava una gara a chi trasgrediva di più, fino all’esaurimento. Freddie
aveva già perso interesse da tempo, ma era troppo cortese per chiedere ai
due di smettere. Si era divertito tantissimo a fare quelle cose prima, e
ovviamente loro si aspettavano che continuasse.»
Il 12 gennaio ci fu una grande festa al Copacabana Beach Hotel. Fu un
evento molto movimentato che venne trasmesso in televisione in tutto il
Sud America. Persino Brian, di solito più moderato, finì a mollo in piscina.
Il 19 gennaio la band salì di nuovo sul palco per chiudere il festival. I Queen
avevano di nuovo fatto la storia, e non per l’ultima volta.
Il 5 aprile la band andò in Nuova Zelanda per cominciare una tournée
australe. Furono accolti da manifestanti antiapartheid, ancora infuriati per
la loro esibizione a Sun City, che inscenarono proteste all’aeroporto e
all’esterno dell’albergo. Freddie quasi non ci fece caso, preoccupato com’era
per l’uscita nel Regno Unito del suo secondo singolo da solista, estratto dal
suo primo album, che secondo molti commentatori non avrebbe mai visto la
luce. Il brano si piazzò all’undicesimo posto, ma fu un fiasco totale in
America. Tutti e quattro i Queen furono costretti a guardare in faccia la loro
maggiore paura: il loro regno negli Stati Uniti era tramontato.
Il tour neozelandese fu segnato da altri problemi, sotto forma di Tony
Hadley. Poco prima, gli Spandau Ballet avevano completato un tour di due
mesi in Europa e si accingevano a farne un altro in Oceania. A causa di
alcuni problemi con il promoter, però le date neozelandesi erano state
cancellate, causando dissapori con alcuni personaggi del posto per i mancati
introiti. Il manager di Tony Hadley gli aveva ordinato di tenere un profilo
basso. Non era una cosa facile per lui, soprattutto quando in città c’era
anche il suo vecchio compagno di sbronze.
«In pochissime occasioni Freddie salì sul palco ubriaco», racconta Edney.
«La prima data in Nuova Zelanda fu una di queste, dopo un pomeriggio
assurdo passato con Tony Hadley.» Tony aveva pensato di fare
un’improvvisata. «Prenotai una camera nel loro stesso albergo, andai a
trovarli al sound check, li salutai e poi io e Freddie tornammo insieme in
hotel. Ci fermammo al bar per bere qualcosa. Poi Freddie disse:
‘Prendiamoci una Stolichnaya’. Restammo lì a bere e a risolvere i problemi
dell’universo, e a scambiarci aneddoti sul mondo della musica, e finimmo la
bottiglia. Liscia. Allora disse: ‘Su, dai tesoro, in camera mia. Ho una bottiglia
di porto d’annata’.
«A quel punto eravamo già tutti e due ubriachi. E Freddie disse: ‘Devi
salire sul palco con me stasera’. ‘Non voglio intromettermi’, gli risposi, anche
se ero pronto a farlo. ‘No no no’, insistette, ‘faremo furore.’ Prese il telefono
e chiamò Roger e John. ‘Tony viene sul palco con noi stasera, va bene,
tesoro? Bene.’ A loro stava bene. ‘L’unico problema potrebbe essere Brian’,
mi confidò. ‘Fa sempre un po’ il difficile per queste cose.’ Così lo chiamò e,
diventando molto diplomatico, gli disse: ‘Brian, tesoro. Tony viene sul palco
con noi stasera e facciamo Jailhouse Rock, ti va bene?’ Poi a me: ‘Tony,
amore, Brian ci sta, gli va benissimo’. A quel punto mi venne in mente che
non sapevo le parole della canzone. ‘Non la so, amico mio’, gli dissi. ‘Non ti
preoccupare... e che cazzo, nemmeno io la so!’»
I due cantanti ubriachi cercarono di ricordare le parole del brano. Per
metà tirarono a indovinare, e per metà le inventarono di sana pianta. Poi
Tony andò a riposare un po’.
«Quella sera andai al concerto e tutti mi dicevano: ‘Ma che diavolo hai
fatto a Freddie! È ubriaco fradicio’. ‘Be’, risposi, ‘abbiamo bevuto come due
spugne.’ Mi guardarono tutti malissimo. ‘Ma Freddie non beve mai prima
dei concerti!’ disse qualcuno.»
Mai si era faticato così tanto per preparare Freddie a salire sul palco.
«All’epoca erano di moda gli stivaletti da boxe della Adidas con i lacci
lunghissimi, perché erano comodi e perfetti per correre e saltare sul palco»,
racconta Edney. «Quella sera, Freddie era spaparanzato sul sofà nel
backstage. Tony Williams, uno degli assistenti del guardaroba, e Joe Fanelli
lo stavano vestendo, perché lui era troppo ubriaco per farcela da solo. Gli
misero i pantaloni e poi gli stivaletti, ma quando si alzò e fece per
camminare, non ci riuscì. Sentimmo l’annuncio: «Comincia il nastro!» A
quel punto dovresti trovarti di fianco al palco. Freddie disse: «Brutte teste di
cazzo, mi avete messo la calzamaglia al contrario! Un attimo dopo era steso
a terra come uno scarafaggio con le gambe per aria, con Tony e Joe
agitatissimi che cercavano di togliergli gli stivaletti. Alla fine riuscirono a
rivestirlo nel modo giusto e ci precipitammo tutti di sotto. Il nastro di
introduzione era finito e il palco era già pieno di fumo. Arrivammo in
tempo per un soffio.
«Freddie, poveraccio, era così fuori che pensavo crollasse», aggiunge
Edney. «Per la prima mezz’ora improvvisò, inventandosi le parole, cantando
qualsiasi stronzata gli venisse in mente. Roger teneva gli occhi bassi, non
riusciva a guardare nessuno. Brian era furioso e aveva scritto in fronte: ‘Che
cazzo succede?’ A metà concerto circa, Freddie si riprese un po’, dopodiché
tutto filò liscio, alla perfezione – incredibile – almeno finché arrivò Tony
Hadley.»
Con le orecchie che ancora gli bruciavano per la sfuriata del suo manager
(altro che tenere un profilo basso…), Tony non vedeva l’ora di risollevarsi il
morale cantando davanti a un pubblico.
«Ero a lato del palco, che cercavo ancora di ricordarmi le parole di
Jailhouse Rock», racconta ridendo. «Freddie venne verso di me e si spalmò
sul pianoforte di Spike, sibilando: «Hadley, bastardo, sono ubriaco marcio»,
di fronte a quarantacinquemila persone. E poi eccomi lì a biascicare fra me e
me come un idiota, con qualche parola scarabocchiata sulla mano:
‘wardens... county jail... party... jailhouse... rock’. Non riuscivo a ficcarmi le
parole in testa. A un certo punto Freddie disse: ‘Signori e signore, ecco a voi
mister Tony Hadley!’ La folla impazzì, io corsi fuori e attaccai il pezzo «a
bop-bop alum bop» di Tutti Frutti. Avevo sbagliato canzone! Con Freddie
che faceva: ‘Yeah! All right!’ e Brian che mi guardava come a dire: Che
cazzo fai? Tutti gli altri si pisciavano addosso dal ridere. Io e Freddie ce ne
fregammo. Ci andammo giù di brutto, simulando un coito con la chitarra di
Brian mentre lui suonava; facemmo di tutto...»
Le date di Melbourne furono tranquille al confronto. Quattro sere al
Sydney Entertainment Centre verso la fine di aprile (seguite poi da sei
concerti in Giappone) furono rallegrate dalla presenza di Elton John in città.
Freddie, Elton e Roger non persero tempo e uscirono a far baldoria per
festeggiare in anticipo l’album solista di Freddie.
«Solo Freddie Mercury mi superava quando si trattava di far festa, e
questo la dice lunga», commenta Elton John. «Siamo stati svegli notti intere,
ancora su di giri alle undici del mattino. Magari i Queen dovevano prendere
un aereo e Freddie diceva: ‘O che cazzo, ci facciamo un’altra striscia?’ Era
insaziabile.»
Il concerto finale della band a Sydney coincise con l’uscita di «Mr. Bad
Guy». Anche in questo caso Freddie aveva riversato i suoi sentimenti più
intimi nei brani dell’album, che rappresentava una netta frattura dal suono
originale dei Queen. I brani più rivelatori erano Living On My Own
(«Vivere da solo»), There Must Be More To Life Than This («La vita non
può ridursi a questo») e la malinconica ballata Love Me Like There’s No
Tomorrow («Amami come se non ci fosse un domani»), scritta per Barbara.
L’album arrivò al sesto posto nel Regno Unito, ma fu comunque un disastro
in America. Il singolo I Was Born to Love You, non andò tanto male, ma
Made in Heaven non mosse nemmeno i primi passi, nonostante un video
pomposo e accattivante diretto da David Mallet. Presentato come un
balletto su un palcoscenico teatrale, il videoclip mostrava Freddie, con
indosso un abito bondage di pelle rossa e nera e una sottile mantellina
rossa, in cima a un’enorme roccia. I ballerini in abiti succinti si
arrampicavano sul masso e sui propri compagni per raggiungerlo, finché
questo si spaccava rivelando il pianeta Terra.
Terminata la tournée, Brian restò in Australia con la famiglia per una
vacanza, John e Roger ripararono nella nuova casa di quest’ultimo a Ibiza, e
Freddie andò dritto a Monaco, per ulteriori feste e trasgressioni con i suoi
amanti.
Grazie a Dio arrivò il Live Aid.

«Abbiamo fatto schifo», afferma Francis Rossi, riferendosi alla


performance degli Status Quo che aprì il concerto londinese del 13 luglio.
«Pessimi. Non avevamo provato abbastanza. Anzi, ti dico la verità, non
avevamo provato per niente. Se avessimo capito meglio di cosa si trattava,
che avremmo avuto un pubblico globale, avremmo provato. I Queen
avevano appena finito un tour ed erano perfetti. E in più avevano provato.
«Forse Bowie andò bene, ma a parte lui non mi viene in mente nessuno.
Bono che salta giù dal palco... e chi cazzo se ne frega? È stato il giorno dei
Queen, non c’è dubbio. Vedi, in quel momento nessuno aveva capito la
portata di quell’evento. Bob era un rozzo parvenu irlandese che diceva a
tutti che cosa bisognava fare. E ci riuscì. È difficile tenere il tuo ego fuori da
una cosa del genere, perché siamo delle rockstar, tesoro. Ma quel giorno
molti ci riuscirono.
«A Wembley, Freddie mi diede un paio di raddrizzate», prosegue Rossi.
«Ricordo che ci avevano messi tutti in un’area per gli artisti e che
stavamo facendo gli stupidi. Poi di colpo successe una cosa. Vedi, non ho
alcun problema con i gay; come potrei: ho due cugini gay e un figlio gay. Ma
sono sempre stato uno di quegli etero che credeva che i gay non fossero veri
maschi come noi. Quanto mi sbagliavo... Io e Freddie iniziammo a fare la
lotta per scherzo, quando di colpo mi ritrovai bloccato in una presa di
sottomissione, un mezzo nelson, con Freddie dietro di me. Cazzo, non
potevo muovermi. Era fortissimo. In quel momento il mio cervello pensò di
tutto: imparai un sacco di cose in un attimo. Vedo ancora l’espressione sulla
mia faccia. Restai paralizzato. Lo fissai. Era la persona più forte che avessi
mai incontrato in vita mia. ‘Non temere, tesoro’, disse con una risatina
maliziosa. ‘Se volessi prenderti, ti prenderei.’
«So che molti pensano che gli omosessuali, anzi i froci – preferisco usare
questi termini, niente eufemismi – non sono capaci di battersi. Tutti quegli
idioti che vanno in televisione a spiegare perché non dovremmo ammettere
i gay nell’esercito: pensano che non ci siano mai stati? La nostra industria è
piena di gay. Trovo che le checche siano grandi intrattenitori e che spesso
siano più affabili degli altri. Rick [Parfitt] faceva la checca da matti, ai vecchi
tempi. Molti lo facevano. Ho sempre pensato che i gay siano più a posto di
noi. Sono costretti a esserlo, per reggere a tutta l’ostilità che incontrano nella
vita. In questo nessuno era meglio di Freddie. Sapeva il fatto suo, almeno
allora. Non c’è dubbio che il Live Aid fu la sua giornata, e basta. Cazzo se lo
adoravo per questo.»
«Bisogna dar credito a tutti loro per quella performance fenomenale»,
conferma Gambaccini. «Quando iniziarono a suonare ero nel backstage che
intervistavo gli artisti per la trasmissione. Sentii il fremito della gente. Tutti
smisero di parlare e si girarono verso il palco: i Queen stavano rubando la
scena. Freddie stava facendo il suo numero spudoratamente sessuale con il
cameraman. Si erano preparati, erano pronti, erano dei veri professionisti.
Pensammo: Oddio, questo è il massimo dello spettacolo rock. I Queen
furono i migliori e se ripensi ai nomi che c’erano quel giorno, è davvero
incredibile. Prima i Queen erano finiti, il loro momento di massimo
successo era alle loro spalle. E invece eccoli lì, a reinventare se stessi e a
schizzare di nuovo in vetta, sotto i nostri occhi. Mi meraviglio ancora
quando ci ripenso. Freddie Mercury ci regalò la migliore performance di
tutti i tempi.»
Incoraggiati dall’esperienza, i Queen si fecero un esame di coscienza. Può
darsi che prima del Live Aid si stessero preparando per la naturale
conclusione della loro carriera. D’altronde non potevano continuare
all’infinito: i gruppi che lo fanno rischiano di diventare una caricatura di se
stessi. Si diventa leggenda solo smettendo in tempo. Tutti e quattro avevano
seguito progetti solisti, con risultati diversi, ma solo Freddie aveva raccolto
qualcosa in tal senso. Costretti quindi ad accettare il fatto che avevano più
successo insieme che da soli, in particolare in quel momento della loro
carriera, decisero di posticipare l’oblio e ricominciare. Il Live Aid gli regalò
una seconda opportunità. Nessuna band degna di questo nome se la
sarebbe lasciata sfuggire. I quattro non vedevano l’ora di rimettersi in
carreggiata. 1986, Europa: stava per partire la tournée più ambiziosa di tutta
la loro carriera.
Prima però, c’era il trentanovesimo compleanno di Freddie da
festeggiare, con un ballo da cinquantamila sterline all’Henderson’s, una delle
discoteche di Monaco preferite dal cantante. Durante la festa si girò anche il
video per Living On My Own, a cui presero parte trecento amici, incluse
Barbara Valentin e Ingrid Mack, moglie di Reinhold. Molti invitati-
comparse arrivarono da Londra e la maggior parte si travestì, tranne
Freddie, che indossò una calzamaglia da Arlecchino, una giacca militare con
le spalline e un paio di guanti bianchi, e Mary Austin, che si vestì da
scolaretta. Brian era una strega, Peter Freestone uno zingaro. Ne risultò un
video psichedelico, edonistico, allucinato, erotico e pulsante, che
ovviamente non fu mai mostrato negli Stati Uniti. In Gran Bretagna il
singolo raggranellò una misera cinquantesima posizione.
Barbara organizzò la cena della festa che era in tema «bianco e nero».
«Caviale e purè, e una torta a forma di pianoforte, e magnum di champagne
Cristal, che la gente si portò via», sospira. «Tutti gli rubavano tutto.
Sparirono persino due contenitori pieni di regali di compleanno.»
Poi i Queen dovettero onorare un impegno preso con Russell Mulcahy,
socio di David Mallet e Scott Millaney della MGMM, e composero le
musiche del suo nuovo film, Highlander, con Christopher Lambert. Ancora
una volta si inimicarono la stampa con l’uscita del singolo One Vision. I
critici li accusarono di avere voluto «monetizzare il successo del Live Aid»
con quel brano «spudoratamente in tema». I Queen si indignarono. In
realtà la canzone era ispirata al famoso discorso di Martin Luther King del
1963 e non al Live Aid, spiegò Roger, che l’aveva composta. Il pezzo si
distinse anche per la voce al contrario dell’inizio; se lo si suona per il verso
giusto si sente: «God works in mysterious ways... mysterious ways...» («Le
vie del Signore sono misteriose… misteriose…»)
Con un gesto di sfida, i Queen accettarono di girare un
minidocumentario su se stessi come video promozionale per il disco. Fu la
prima volta che lavorarono con Rudi Dolezal e Hannes Rossacher, i
cosiddetti «Torpedo Twins», ma non certo l’ultima. Nel 1987 i Twins
avrebbero completato un’antologia-video sulla carriera dei Queen, intitolata
Magic Years.
Il 5 novembre 1985 Freddie prese parte al Fashion Aid for Ethiopia alla
Royal Albert Hall, cui parteciparono diciotto stilisti di fama internazionale,
inclusi Yves St Laurent, Giorgio Armani, Calvin Klein e Zandra Rhodes.
Vestì i panni dello sposo a fianco dell’attrice Jane Seymour, visibilmente
emozionata, indossando gli abiti disegnati da David ed Elizabeth
Emmanuel, che avevano creato l’abito nuziale di Lady Diana per il
matrimonio con il principe Carlo. Poi Freddie si mise a disposizione
dell’amico Dave Clark che stava componendo un musical per il Dominion
Theatre di Londra. Intitolato Time, si trattava di un lavoro molto creativo
che vedeva la partecipazione di Cliff Richard e di Sir Laurence Olivier
(quest’ultimo sotto forma di ologramma). Freddie collaborò a un paio di
brani per l’album, che vide la partecipazione anche di Stevie Wonder,
Dionne Warwick e Julian Lennon, e fece una comparsata eccezionale a
teatro. La EMI, nel frattempo, massimizzava i profitti producendo un
cofanetto di lusso degli album dei Queen (con alcune palesi omissioni).
Freddie però non era ancora riuscito a ottenere il successo solista che
desiderava. Love Me Like There’s No Tomorrow, il quinto singolo estratto da
«Mr. Bad Guy», non era nemmeno entrata in classifica.
I Queen decisero di usare la colonna sonora di Highlander per creare un
nuovo album. Dopo un’apparizione al festival rock di Montreux, iniziarono
le prove per un tour europeo, che cominciò a Stoccolma e culminò con due
grandi concerti a Wembley e a Knebworth Park. La tournée incassò oltre
undici milioni di sterline e nel Regno Unito registrò il record di pubblico,
con oltre quattrocentomila fan. Chissà, forse loro avevano intuito che quella
era l’ultima occasione per sperimentare la magia di Freddie dal vivo.
21
Budapest

Voglio andare dove non sono mai stato prima. Per me sono le
persone che contano. La musica dovrebbe viaggiare in tutto il
mondo. Voglio andare in Russia e in Cina e in luoghi che non
ho mai visto, prima che sia troppo tardi, prima che finisca su
una sedia a rotelle e non possa più far nulla. Continuerò a
mettermi la calzamaglia, però! Già mi immagino che mi
spingono sul palco sulla sedia a rotelle fino al pianoforte, dove
attacco Bohemian Rhapsody.

FREDDIE MERCURY

Fu surreale partecipare a una festa rock nell’ambasciata inglese


in Ungheria, sapendo che quel luogo era abituato ad accogliere
una «regina» di tutt’altro tipo.

PETER HILLMORE

«A KIND of Magic», quattordicesimo album dei Queen e colonna sonora di


Highlander, uscì alla fine di maggio del 1986 per segnare l’inizio della
tournée europea. Come ci si aspettava, arrivò fino alla prima posizione.
All’alba del 4 giugno, tredici enormi camion pieni di attrezzature uscirono
da Londra per cominciare un’odissea che avrebbe toccato undici Paesi. Un
milione di spettatori, ventisei date in venti città, tutte scelte dalla band per
ragioni personali: Stoccolma, Parigi, Monaco, Barcellona e Budapest, fra le
altre.
Denis O’Regan, oramai richiestissimo, fu ingaggiato come fotografo
ufficiale del tour. Era nervoso, anche se non per ragioni strettamente
lavorative: «Avevo sentito dire che cosa combinavano quand’erano in
tournée. Tony Brainsby mi raccontò che una volta aveva trovato Freddie in
un cassonetto dell’immondizia nel retro dell’Embassy.
«Roger, John e Brian erano tre ‘giovanotti’ abbastanza alla mano. Freddie
era più enigmatico. A volte non riusciva a stare dietro ai suoi stessi
ragionamenti: la sua mente correva troppo in fretta per la sua bocca. Diceva
cose come: ‘Quel che voglio fare è una cosa, mm… o, fanculo!’ Faceva
discorsi pieni di ‘Fanculo! Fanculo!’ perché perdeva il filo, dato che il suo
cervello era già andato troppo avanti».
Pur essendo già stato in tournée con altre band, O’Regan restò sorpreso
dalle feste dei Queen. Gli parve che i quattro quasi volessero parodiare lo
stereotipo della rock band.
«Feste in bordelli, terme romane, bagni turchi. Spogliarelliste lesbiche e
donne nude con il corpo dipinto perché sembrassero in uniforme. Per non
dire di quel che succedeva nei bagni...»
Non sempre era divertente. Anzi molte volte le maestranze sembravano
godersi la festa più della band. O’Regan capì perché Freddie oramai
detestasse le tournée. Ma gli obblighi contrattuali dettavano legge: prima fai
l’album, poi vai in tour a promuoverlo. All’epoca era una procedura scolpita
nella roccia.
«Freddie non era felice durante i tour», ammette O’Regan. «Una volta
mi disse che amava esibirsi, ma che odiava girare. Era così vulnerabile…
L’opposto di quel che ti saresti aspettato. A volte era dolce e adorabile, come
un bambino. Si sedeva a capotavola battendo le mani per la contentezza
davanti a una bella cena o altro. Voleva che tutto fosse preciso. Era così
carino. Spesso era tranquillo, riservato e introverso. Ma poteva passare da
un estremo all’altro in un lampo: considerando com’era imponente e forte
sul palco, pareva proprio minuto ed effeminato lontano dai riflettori.»
Non era difficile fotografarlo, ma O’Regan si dichiarò sorpreso dalla sua
timidezza.
«Non si metteva mai in posa. Faceva il buffone o mi ignorava e si
comportava ‘normalmente’. Magari appariva alla porta con una corona in
testa, o faceva qualche mossa, sapendo che ero lì, ma non mi invitava
esplicitamente a ritrarlo. Sapeva sempre quel che faceva, era chiaro.»
Un’altra cosa che O’Regan non si aspettava erano le sfuriate del cantante.
«Spesso si arrabbiava e diventava molto sprezzante. Ripeteva spesso:
‘Digli che se ne vadano tutti affanculo!’ Ma era anche pronto a chiedere
scusa. La sua magia era tutta nella performance. Il suo era un talento
innato. Inoltre, siccome non era ‘etero’, quando saliva sul palco non doveva
provare chissà che, come il resto della band. Saliva e si prendeva gioco del
pubblico, laddove altri non avrebbero mai osato correre un rischio del
genere. Evidentemente era stato un vero festaiolo ai suoi tempi, ma oramai
aveva quasi smesso: era il 1986.»
Spike Edney, signore delle tastiere anche per quel tour, concorda: «Le
feste si erano tranquillizzate moltissimo. Non si alloggiava più in due
alberghi separati», osserva, riferendosi all’abitudine di spartirsi talvolta il
territorio in tournée: omosessuali da una parte ed eterosessuali dall’altra.
Quando la band era arrivata a Monaco la prima volta, per esempio, si era
installata all’Hilton dividendosi in un «PPP» (Presidential Poofter Parlour,
suite presidenziale pederasta) e un «HH» (Hetero Hangout, ritrovo etero).
«Durante il Magic Tour stavamo oramai tutti insieme, in un solo posto.
Freddie era molto più tranquillo. Non usciva più tutta la notte come una
volta. E poi faceva attenzione alla voce. Spesso finivamo nella sua suite a
bere champagne e a giocare a Scarabeo o a Trivial Pursuit. Ricordo diverse
notti in cui restammo svegli fino alle nove del mattino, solo io e Freddie, per
finire una partita. Giocavamo anche a Scarabeo invertito, dove devi togliere
le lettere lasciando sulla tavola parole di senso compiuto. Prima, i tour dei
Queen erano tutto sesso, droga e rock’n’roll. A metà anni Ottanta, erano
champagne e Scarabeo!»
Nonostante quei passatempi da pacati signori di mezza età, il tour fu
segnato da un’ultima, grande festa, come a voler chiudere in bellezza.
L’invito più ricercato di quel luglio era per l’afterparty dei Queen dopo il
concerto di Wembley, al Roof Gardens Club. Il giardino pensile più antico e
più bello di Londra esiste tutt’oggi, una trentina di metri sopra Kensington
High Street, in cima all’ex grande magazzino Derry & Toms. Durante la sua
breve permanenza in quell’edificio, l’emporio di Biba aveva attirato un
milione di clienti la settimana grazie ai suoi piani a tema e al suo Rainbow
Restaurant, dove si poteva brindare gomito a gomito con rockstar e
celebrità. Per Freddie era un luogo speciale per una ragione molto
personale, dato che lì aveva messo gli occhi su Mary Austin per la prima
volta.
Oh, che serata! Eccessi a go-go. Nani, drag queen; con il sedere di fuori,
con i seni di fuori e, a proposito di topless, c’era anche la modella
superdotata Samantha Fox, che in quegli anni era famosa tanto quanto
Katie Price (Jordan). Improvvisò con Freddie All Right Now, il successo dei
Free del 1970. Non male.
«Assolutamente esagerato», così definisce l’evento Hogan. «La festa di
chiusura di tutte le feste. Se entravi puro uscivi stralunato. Gente nuda, con
il corpo dipinto; un acquario enorme pieno di persone nude pitturate come
pietre e rettili, che si ammucchiavano l’una sull’altra. Appena mettevi il naso
fuori dall’ascensore, non sapevi più da che parte girarti: capezzoli e
ombelichi ovunque. I Queen sì che sapevano fare una festa rock’n’roll.
«Freddie adorava Samantha Fox. Aveva un paio di bellissimi, ehm, occhi.
Qualsiasi cosa facesse, finiva sui giornali, inoltre aveva appena cominciato a
muoversi nel mondo del pop. Freddie era incantato dalle sue tette. Voleva
prenderla e scuoterla per vedere se riusciva a fargliele saltar fuori dal vestito.
Era eccitatissimo: ‘Oh guarda: carne fresca! Che giocattoloni!’ Sam stava al
gioco. A un certo punto riuscì a prenderla e la sbatté come una bambola di
pezza. Foto stupende, che il giorno successivo finirono su tutti i giornali, il
che non arrecò alcun danno a nessuno dei due, anzi.»
«Non ci sarà mai più un’altra band come i Queen», commenta Trip, il
tecnico del suono americano che alzò il volume della band durante il Live
Aid.
«Erano sempre pronti ai peggiori eccessi. Le loro feste erano le migliori, le
loro donne le più procaci; tutto ai massimi livelli, quindi spesso era difficile
stargli dietro.»
Trip disse di avere sempre trovato Freddie un po’ «strano». «Era
adorabile, ma non era come noi… era una star. Cos’altro avrebbe potuto
essere? Quel figlio di buonadonna sapeva il fatto suo.»
Il 9 agosto, i Queen si esibirono all’aperto davanti a centoventimila fan
nel prato di Knebworth Park, a Stevenage: il loro record di pubblico nel
Regno Unito, che ovviamente richiese una celebrazione. Senza Freddie,
però, che si ritirò con discrezione dopo il concerto, andandosene
sottobraccio con Jim Hutton e Peter Freestone. Come spiegò Peter, a
Freddie non erano mai piaciute «quelle» feste: «Odiava particolarmente le
feste delle case discografiche. Senza voler offendere nessuno, ma Freddie
non aveva alcuna voglia di chiacchierare con i dipendenti».
Forse il cantante aveva intuito che Knebworth sarebbe stato il suo ultimo
sipario.
Sull’elicottero che lo riportava all’eliporto di Battersea quella sera,
Freddie fu informato di un grave incidente avvenuto durante lo spettacolo:
un fan era stato accoltellato, i soccorritori non erano riusciti a farsi largo tra
la folla e l’uomo era morto dissanguato.
«Freddie era sconvolto», racconta Jim. «Anche la mattina dopo era
ancora giù, quando arrivarono alcuni amici per pranzo. I giornali parlavano
bene del concerto e questo parve rallegrarlo, ma la morte di quel ragazzo lo
tormentò per un pezzo: lui voleva che la sua musica portasse sempre e solo
felicità ai fan.»
Se i bei tempi sono finiti, almeno i ricordi sono eterni. Fra tutti i concerti
di quell’ultimo tour dei Queen con Freddie, uno in particolare è rimasto
inciso nella mente di tutti quelli che ebbero la fortuna di vederlo.

L’apparizione della band al Népstadion («stadio del popolo») di


Budapest, domenica 27 luglio 1986, fu molto di più che un concerto. Elton
John, i Jethro Tull e i Dire Straits avevano già suonato in Ungheria prima di
allora, ma quello sarebbe stato il primo concerto in uno stadio da parte di
un gruppo rock occidentale al di là della Cortina di ferro, che all’epoca era
ancora saldamente al suo posto. Attirò ottantamila fan, sia dall’Ungheria sia
dalle nazioni confinanti. I biglietti costavano l’equivalente di circa tre euro
l’uno, che per molti corrispondevano a un mese di stipendio. Nonostante
ciò, i promoter furono sommersi da una marea di richieste: più di tre volte il
totale dei biglietti disponibili.
Con l’avvicinarsi del grande giorno la stampa ungherese impazzì sempre
più. I giornali allusero anche alla possibilità di «un allentamento delle
restrizioni sul comportamento del pubblico», dal che deducemmo che forse
le autorità avrebbero dato agli spettatori il permesso di applaudire. Di certo
non sarebbe stata una folla ubriaca, drogata, turbolenta o aggressiva, dato
che sarebbe stata sorvegliata da poliziotti armati di mitra. L’unica bevanda
distribuita era il succo d’arancia. Persino fumare era proibito. Ci si aspettava
un evento regolato e composto. Grazie a Dio avevamo un pass per il
backstage.
I principali addetti stampa dei Queen – Roxy Meade e Phil Symes – ci
bombardarono di informazioni e cifre. Diciassette telecamere avrebbero
ripreso l’evento, una delle quali manovrata dal settantunenne Gyorgy Illes,
veterano della professione e stimato professore dell’accademia del cinema di
Budapest. Illes era famoso perché il suo allievo Vilmos Zsigmond aveva
vinto un Oscar per la migliore fotografia con Incontri ravvicinati del terzo
tipo. I Queen e il loro seguito percorsero il Danubio da Vienna a Budapest
sull’aliscafo ufficiale del futuro presidente sovietico Mikhail Gorbaciov.
Altre «magiche» note informative ci spiegarono che il palco misurava oltre
cinquecento metri quadri e che erano stati usati più di tredici chilometri di
cavi per collegare strumenti, amplificatori, luci e altre attrezzature a cinque
generatori da cinquemila ampere; e che l’impianto sonoro, dotato di torri di
ritardo rivoluzionarie, sarebbe stato alimentato da più di mezzo milione di
watt. Michael Jackson o Elton John non ti davano comunicati stampa del
genere: l’apparizione dei Queen veniva salutata come un grande passo in
avanti nelle relazioni Est-Ovest. L’incaricato d’affari David Colvin, facente
funzione di ambasciatore britannico, fu all’altezza della situazione
organizzando un esclusivo ricevimento a inviti in ambasciata prima del
concerto, un’embassy assai diversa da quella a cui era abituato Freddie…
La serata richiamò un insieme eterogeneo di inglesi residenti all’estero,
musicisti del blocco comunista, rockstar occidentali e corrispondenti di Sua
maestà, oltre alla solita infarinatura di scrocconi vari. Freddie apparve
divertito dall’evento, ma confessò che avrebbe «preferito andare a fare
shopping», piuttosto che stare ad ascoltare persone che «si annoiavano a
vicenda» raccontandosi le vicissitudini storiche dell’Europa dell’Est. Da
sempre, manteneva una dignitosa posizione apolitica. Sebbene le sue
preferenze personali a volte vertessero verso l’imperialismo, preferiva evitare
di farsi attirare in discussioni sociali o politiche in pubblico. Una celebrità
internazionale, diceva, faceva meglio a «lasciare la politica ai signorotti che
sono pagati per fare quel lavoro, caro.»
«Quello era Freddie al cento percento», osserva Peter. «Secondo lui
persino gli U2 erano un gruppo troppo politico. Sapeva di essere arrivato
dov’era perché era un intrattenitore. Non era lì per guidare le persone e
influenzare le loro idee.»
Pochi giorni dopo, Freddie organizzò una bella festa per i giornalisti
inglesi nella sua suite presidenziale al Duna Intercontinental.
«Presidenziale» era un eufemismo, anche se Freddie, con indifferenza,
dichiarò che «tutte le suite sono uguali». «Be’, che cazzo, questa è un po’ più
uguale della mia», ribatté Roger quando ci fece una capatina.
Cortese anfitrione, all’arrivo Freddie ci strinse la mano e scambiò qualche
chiacchiera con noi. Piccolo di statura, ma più muscoloso e in forma di
molte persone con la metà dei suoi anni (mancavano due mesi al suo
quarantesimo compleanno) era pulito e profumato, e vestiva una camicia
floreale su un paio di jeans chiari e attillati. La capigliatura curata alla
perfezione si faceva solo un po’ rada sulla sommità del capo.
«Grazie per essere venuti. Vi siete divertiti?» chiese con calma e con un
mezzo sorriso di cortesia, mentre ci offriva una coppa di champagne.
Annuì e sghignazzò mentre noi gli raccontammo le nostre avventure
ungheresi: le terme dei bagni Gellért e la manipolazione di robuste
massaggiatrici. In seguito però concordammo che Freddie doveva avere
provato tutto ciò, e molte volte. Volle sapere se avevamo «comprato»
qualcosa. Descrivemmo di getto i nostri strani acquisti.
«Molto bene, molto bene», disse sorridendo e invitandoci in un’altra
reception verso un sontuoso buffet ricolmo di aragoste, gamberetti, caviale,
frutta candita ed esotici gelati. Seduto a un luccicante pianoforte a coda, un
pianista in smoking inanellava pezzi da piano bar.
Le finestre scorrevoli della suite erano aperte e davano accesso a un
balcone grande tanto quanto la camera. Nell’orizzonte turchino della notte
si intuivano in lontananza i profili dei famosi monumenti cittadini: il
Bastione dei pescatori, la cittadella sulla Gellért-hegy, la guglia illuminata
della chiesa di Mattia. Mary Austin era lì che chiacchierava a bassa voce con
Jim Beach, offrendo consigli: il vantaggio di mangiare alimenti ricchi di
fibre. Jim Hutton teneva un profilo più che basso in un angolo, così come
Brian, Roger, John e qualche altro membro della squadra.
Domenica, con i nostri pass bene in vista, attraversammo la periferia
cementificata della città fino al Népstadion. Danzatori popolari ungheresi in
costume rosso, bianco e nero rotearono fazzoletti a tempo di musica per
prepararci al numero principale, che arrivò in pompa magna con fumo e luci
accecanti: l’esperienza totalizzante e assordante di un concerto dei Queen.
Che cosa ricordo di più? Brian, impegnato come un principiante in
un’audizione, che agita frenetico la sua monetina sulle corde della chitarra
autocostruita tanti anni prima; la sua versione di un brano popolare
ungherese, Tavaszi Szél Vizet Áraszt, cantata da Freddie; il boato della folla
estasiata perché il cantante si era dato la pena di imparare la loro ballata,
senza quasi notare che controllava le parole ogni secondo, scarabocchiate
così come si pronunciavano sul palmo della mano; il pubblico che intona
Radio Ga Ga alla perfezione, battendo le mani a tempo; il grande
semifinale: Freddie a torso nudo che gronda sudore dentro un’enorme
bandiera inglese e poi fa una giravolta rivelando sul retro il vessillo
ungherese.
E non è tutto: Freddie che sale sul palco alla fine indossando un lungo
mantello regale bordato di ermellino, disegnato dalla stilista Diana Moseley,
e una grande corona in testa, accompagnato dall’inno nazionale inglese
nell’inimitabile versione di Brian, fra applausi scroscianti. Quella
conclusione, non certo inattesa (i Queen la usavano fin dal 1974, quando
l’avevano composta per «A Night at the Opera»), suonò più maestosa che
mai in quella terra straniera.
«È stato il concerto più impegnativo ed emozionante di tutti», disse Brian
nel backstage subito dopo.
E noi giornalisti? Avevamo già visto tutto. Eravamo troppo blasé, Dio solo
sa. Non avevamo nemmeno pagato per essere lì. Sapevamo che al mattino,
finiti i postumi dello champagne, avremmo ricordato di avere assistito
all’ennesimo, fantastico concerto dei Queen. Davamo per scontato la loro
magnificenza, da anni oramai. Perché smettere? La meraviglia, l’atmosfera,
la magia «natalizia» erano frutto del fantastico pubblico ungherese. Per quei
fan che avevano sacrificato un intero mese di stipendio per essere lì, quello
era stato lo spettacolo più fenomenale delle loro vite.
Il più grande frontman del rock aveva di nuovo trionfato. Era però una
vittoria di Pirro. L’ironia del titolo del tour cominciava a diventare evidente.
Per Freddie la tragedia era oramai annunciata. La magia di quella sera
entusiasmò tutti tranne lui.
22
Garden Lodge

Ogni volta che guardavo i film di Hollywood con quelle case di


lusso splendidamente arredate, ne volevo una tutta mia, e ora
ce l’ho. Ma per me era molto più importante comprarla che
andarci davvero a vivere. Sono fatto così: una volta che ottengo
qualcosa non mi interessa più così tanto. Amo quella casa, ma
il vero godimento è averla comprata. Qualche volta, quando
sono da solo la notte, immagino che a cinquant’anni mi ritirerò
a Garden Lodge. Sarà il mio rifugio e comincerò a trasformarla
in una casa vissuta. Quando sarò vecchio e avrò i capelli
bianchi e tutto questo sarà finito e non potrò più mettermi gli
stessi costumi e saltellare sul palco – non è ancora ora – avrò
qualcosa a cui dedicarmi: questa casa meravigliosa.

FREDDIE MERCURY

DA un successo a un premio, da un album a un video, la macchina dei


Queen era in perpetuo movimento. Il prodigio non finiva mai e garantiva
un reddito favoloso a vita. Freddie non aveva bisogno di guadagnare di più.
Poteva comprarsi qualsiasi cosa desiderasse, andare ovunque volesse. Invece
si ritirò nel suo mondo privato e nella relativa modestia di un focolare
domestico. Aveva un cuoco, un cameriere, un autista, un addetto alle
pulizie e una manciata di amici fidati. Mary Austin era responsabile per i
conti della casa, incluso il salario del personale e la cassa, e andava a trovare
Freddie ogni giorno. Anche Jim Hutton era lì al suo servizio. A chiunque
chiedesse, inclusi i genitori di Freddie che talvolta venivano a pranzo la
domenica, diceva che Jim era semplicemente il giardiniere, e fingeva che
dormisse in una delle tante camere della casa. Jim era offeso per questa
messinscena?
«Assolutamente no», dice. «Erano bellissime persone. Capivo il motivo
della segretezza. Erano religiosi. Lo zoroastrismo non ammette
l’omosessualità. Freddie non aveva detto nulla ai suoi.»
E loro, non avevano mai sospettato di avere un figlio gay?
«No», rispose la madre al Times nel 2006, quindici anni dopo la morte di
Freddie.
«Era un argomento troppo delicato», aggiunse il genero Roger Cooke,
confermando che Freddie non aveva mai confidato alla propria famiglia di
essere omosessuale.
Aveva forse paura di rivelare la verità al mondo?
«All’epoca la società era molto diversa», rispose la madre. «Oggi è così
aperta, vero?» aggiunse, sottintendendo che se fosse vissuto più a lungo,
forse nel tempo Freddie sarebbe riuscito ad aprirsi.
«Non voleva offenderci», concluse. «Quando veniva da noi, era sempre il
nostro Freddie.»
La canzone preferita di Jer era Somebody to Love, che era anche la più
amata dal figlio.
Peter Freestone ricordò una particolare festa organizzata da Freddie per
celebrare l’anniversario di matrimonio dei genitori, poco prima di trasferirsi
ufficialmente a Garden Lodge. Nessuno del suo futuro entourage fu
invitato.
«Solo la sua famiglia e Mary, chiaramente: era magnifica in un abito
scarlatto di Bruce Oldfield che Freddie aveva comprato per lei. L’avevo
aiutata a sceglierlo dal suo grande guardaroba.»
Jim incontrò i genitori di Freddie «molte volte», e andava d’accordo con
loro.
«Di rado venivano a Garden Lodge. Di solito la domenica per pranzo, o
in occasione di una delle feste per i figli di Kashmira», racconta. «Ma se era
a Londra, Freddie andava a trovarli ogni settimana. Lo accompagnavo io in
macchina, ogni giovedì pomeriggio, in quella loro piccola villetta a schiera a
Feltham, dove erano sempre vissuti. Ci accomodavamo tutti insieme in
cucina, a prendere il tè. La signora Bulsara preparava il tè con i suoi tempi,
non si affrettava. Era una donna molto indipendente, guidava ancora la sua
macchinina dappertutto. Casa loro era molto accogliente. La cosa strana per
me era che non si vedeva nemmeno una foto di Freddie in giro. Era anche
strano che abitassero ancora in quella casetta, quando Freddie avrebbe
potuto comprar loro qualcosa di più sontuoso. Si era offerto, ovvio, ma loro
avevano detto che non volevano cambiare. Erano felici dov’erano. Era una
scelta davvero ammirevole, dato che di solito i genitori di molte rockstar
colgono al volo l’opportunità di elevare il loro standard di vita non appena i
figli hanno avuto successo.»
Jim aveva poche cose in comune con la madre di Freddie, ma
condivideva con il padre un amore per la natura e la passione del
giardinaggio.
«Era orgoglioso del suo giardino. Me lo faceva vedere ogni volta. Amava
le sue rose e il suo meraviglioso eucalipto.»
Jer invece preparava per il figlio i suoi craker al formaggio preferiti e
gliene metteva un po’ in una scatola da portare a casa.
«Incontrai Kashmira la prima volta quando venne con i genitori a trovare
Freddie in Logan Mews. Si vedeva che erano fratello e sorella: avevano gli
stessi occhi, grandi, marroni. La figlia Natalie era una bambina dolce e
turbolenta; aveva anche un figlio, Sam.»
La famiglia era molto importante per Freddie. «Ogni volta che andava
via, per qualsiasi motivo, spediva una cartolina ai genitori e alla sorella,
sempre.»
Il padre di Freddie morì nel 2003. La madre ora abita a Nottingham,
dove si è trasferita per restare vicino alla figlia e alla famiglia di quest’ultima.
La casa di Jer era stata ribattezzata «Fredmira», un mix dei nomi dei suoi
due figli.

«Non posso più continuare così come ho fatto finora», dichiarò Freddie
nell’agosto del 1986, dopo quello che si sarebbe rivelato l’ultimo concerto
con i Queen.
«È troppo. Sono troppo grande per fare queste cose. Ho già smesso di far
baldoria non perché sono malato, ma perché sto invecchiando, non sono
più un ragazzino. Preferisco passare le mie serate a casa. Sono cresciuto.»
Continuò a intrattenere il pubblico, ma soprattutto fra le pareti di casa.
Festeggiò i quarant’anni in maniera assai modesta per i suoi standard, con
una festa a tema («Cappello matto») in giardino per duecento ospiti.
La costumista Diana Moseley preparò una serie di eccentrici copricapi
per Freddie. Lui ne scelse uno di pelliccia bianca con le antenne da
marziano.
«Fu una festa molto composta per i suoi standard, ma bella comunque»,
ricorda Tony Hadley, che partecipò, con Tim Rice, Elaine Paige, Dave Clark,
il comico Mel Smith, l’attrice Anita Dobson, Brian, Roger e John.
«Freddie volle portarmi di sopra e mostrarmi la moquette che aveva fatto
fare apposta per la sua camera da letto», ricorda Tony. «Non aveva
giunture, avevano usato un telaio enorme. C’era un simbolo enorme, tipo
una stella di Davide. Era orgogliosissimo di quella moquette, da non
crederci.»
«Freddie era molto rispettabile e molto british nelle faccende
domestiche», rivela Jim.
«Ricordo una domenica che i genitori dovevano venire a pranzo e
Freddie stava praticamente avendo un esaurimento nervoso. Era tutta la
mattina che entrava e usciva dalla cucina, agitandosi per il cibo. Una
chioccia, ti dico. La tavola volle prepararla da solo. Era importante per lui:
coltelli e forchette dovevano essere perfettamente allineati con quelli di
fronte, e le tovagliette dovevano essere assolutamente dritte. Era un
perfezionista assoluto.»
Nonostante il personale fosse ufficialmente lì per servirlo, non c’erano
gerarchie né intrighi a Garden Lodge. Tutti ricevevano lo stesso trattamento
e dovevano rispettare un’unica regola. «Non potevi invitare nessuno»,
spiega Jim. «Niente amici, niente amanti. Era il dominio di Freddie. La
sicurezza era di fondamentale importanza. A parte questo, eravamo più
simili a un gruppo di amici che condividono una casa. Era una situazione
equilibrata, il più delle volte. Joe il cuoco la faceva sempre franca. Era molto
dolce, ma in certi momenti faceva i capricci. Freddie si arrabbiava piuttosto
spesso, ma non era autoritario, non faceva il padrone. Non ti faceva pesare
la sua posizione né ci dava ordini. Era una situazione molto più tranquilla e
alla mano. Spesso mangiavamo tutti insieme, ‘in famiglia’, ma il più delle
volte eravamo solo io e Freddie. Non credo che gli altri covassero del
risentimento nei miei confronti. Ognuno aveva la sua stanza, inclusa
Barbara: lei dormiva in quella che era stata camera mia prima che arrivasse.
Più avanti, quando io e Freddie non dormivamo più insieme, mi ritrasferii
lì. Non c’erano favoritismi. Ogni volta che Freddie invitava qualche amico a
bere qualcosa, eravamo tutti inclusi nell’invito. Per tutti noi Garden Lodge
era ‘casa’.»
Nonostante il divertimento, le feste e i viaggi che i due condivisero (una
vacanza da favola in Giappone, la follia del Live Aid, la tranquillità della
Svizzera), Jim sostenne che la cosa più soddisfacente della sua relazione con
Freddie fosse stata la creatività del suo compagno. «Non stava mai fermo»,
dice. «Aveva sempre qualcosa in ballo, sempre nuovi progetti. Il suo cervello
faceva gli straordinari, da sempre. Prima, bisognava finire la ristrutturazione
di Garden Lodge, poi comprare le vecchie scuderie convertite in casa in
Logan Mews; e poi ancora partiva per andare a comprare una casa in
Svizzera. Non si riposava mai, non aveva mai finito di lavorare. Voleva
sempre fare e fare…»
Freddie non era solito parlare di musica con Jim. «Ma se si trattava dei
testi, sì. Non solo con me, ma con chiunque avesse a tiro. Diceva: ‘Ho
quest’idea’, oppure: ‘Ho queste parole’, o ancora: ‘Mi aiuti con questo
verso?’ Buttava giù idee di continuo, su qualsiasi cosa avesse sottomano.
Non cantava mai ad alta voce in casa, solo a volte nel bagno. Ma non pezzi
dei Queen. Ho un video di lui nella Jacuzzi [affiorato su Internet dopo la
morte di Jim] in cui canta a squarciagola.» Freddie aveva promesso al suo
compagno la vacanza della sua vita in Giappone alla fine del settembre 1986
e manteneva sempre le promesse. Era contento di poter rivedere da turista il
Paese che amava da sempre. Freddie e Jim visitarono tutti i monumenti,
cenarono, fecero acquisti folli (comprarono persino un enorme porta-
kimono; un oggetto che Freddie desiderava da tempo). Fu un’esperienza
indimenticabile per entrambi. Tornati a Londra, ripresero la loro routine
domestica con i gatti, la carpa e gli amici più vicini.
Quel loro mondo intimo e accogliente fu sconvolto da una notizia bomba
del News of the World, domenica 13 ottobre 1986. Una nube opprimente
discese su Garden Lodge, e non se ne sarebbe mai più andata.
La rivelazione era tanto sensazionale quanto nauseante: Freddie,
sosteneva la testata scandalistica, aveva fatto un test per l’AIDS l’anno
prima, di nascosto, proprio durante il Live Aid. Il giornale parlò anche della
morte di due suoi ex amanti: lo steward John Murphy, uno delle quattro
«figlie newyorchesi», e Tony Bastin, il giovane corriere che Freddie aveva
abbordato anni prima a Brighton. Jim Hutton fu identificato come l’amante-
convivente. Furono descritti nei dettagli i festini a base di cocaina del
cantante con David Bowie e Rod Stewart, e fu rivelata la ragione per cui
Michael Jackson e Freddie Mercury avevano litigato. Secondo l’informatore
del giornale Michael era rimasto sconvolto dalla quantità di cocaina che
Freddie tirava: Jacko l’aveva sorpreso a sniffare nel suo salotto. C’era persino
un paginone con diverse fotografie private di Winnie Kirchberger e altri
amanti, sormontate dal titolo: «All the Queen’s Men» («Tutti gli uomini
della regina»). Fu scritto che Freddie aveva litigato con Kenny Everett per
una questione di cocaina.
«Everett pensava che Freddie si approfittasse della sua generosità,
quando in realtà era piuttosto il contrario; non che Freddie l’avrebbe mai
rimproverato per questo», spiega Jim. «Non si riconciliarono e Kenny non
venne mai più a Garden Lodge, non da quando andai lì. Se lo incrociavamo
in giro nelle discoteche gay, loro due non si parlavano. Chi ha scritto che
Kenny era a fianco di Freddie in punto di morte, si è inventato tutto di sana
pianta.»
Freddie rimase senza parole quando scoprì che quella sensazionale
«esclusiva» era opera di Paul Prenter, il suo fidato ex manager personale e
(presunto) amico intimo. Prenter aveva accompagnato Freddie in tournée
per anni. Aveva venduto la dignità e la privacy del suo «amico» per
trentaduemila sterline.
«Freddie non poteva sopportare quel tradimento», racconta Jim. «Non
riusciva a credere che una persona così vicina potesse rivelarsi tanto perfida.
Lo scandalo proseguì per giorni e giorni, ripreso dal Sun, la testata sorella
del News of the World: Freddie e la droga, Freddie e gli uomini… sempre
peggio. A ogni nuova rivelazione, Freddie si infuriava ancor di più. Non
parlò mai più a Paul.»
L’ex manager fu anche escluso da Elton John, John Reid e altri
conoscenti, che serrarono i ranghi per proteggere Freddie.
Perché lo fece? Alcuni sostengono che fosse risentito per la relazione di
Freddie con Jim: il cantante era entrato in un rapporto di convivenza stabile
con un compagno, di fatto quindi non aveva più avuto bisogno di lui. Resosi
conto che la sua influenza era finita, forse Prenter volle vendicarsi. Più
avanti telefonò a Freddie per scusarsi, ma il cantante si rifiutò di rivolgergli
la parola.
«Paul cercò di discolparsi sostenendo che i giornalisti l’avevano assillato
così tanto che alla fine era crollato», dice Jim.
«Provò a dire che le sue dichiarazioni erano state falsate, che l’avevano
travisato. Come no… Solo Paul poteva sapere alcune delle cose che erano
state scritte.
«Dopo quel tradimento Freddie non riuscì più a fidarsi degli altri, con
pochissime eccezioni», lamenta Jim. «Da quel momento in poi non instaurò
più nuove amicizie.»
«Freddie aveva ingaggiato Paul dopo che la band l’aveva scaricato»,
osserva Peter Freestone. «Anche se sapeva che Paul si approfittava di lui, dal
punto di vista finanziario e non. Questo rese il voltafaccia ancora più
difficile da accettare.»
«Prenter si era sempre approfittato del fatto che Freddie tendeva a
perdonare le persone», aggiunge Edney.
«Tutti si chiedevano: Ma come cazzo riesce a cavarsela dopo aver fatto
cose del genere? Eppure Freddie continuava a restargli amico. È stato
fregato da così tanta gente, più di qualsiasi altro che io conosca, anche se era
abbastanza bravo a giudicare le persone… ma è incredibile quante
sanguisughe riuscissero a eludere le sue difese. Freddie non aveva mai
nessuna privacy; mai. Proprio grazie a gente come Prenter.»
Negli Stati Uniti, intanto, si registrava un notevole aumento nelle
falsificazioni dei certificati di morte. Molti personaggi famosi che stavano
morendo di patologie correlate all’AIDS convincevano i propri medici a
dichiarare il falso pur di preservare la loro immagine postuma. Persino
mentre era sul letto di morte, Liberace, la star del varietà, insistette tramite
il suo portavoce di trovarsi a letto «per gli effetti collaterali della dieta
dell’anguria». Rock Hudson, idolo delle donne e divo di Hollywood,
compagno sullo schermo di Doris Day, era stato il primo attore famoso a
morire di AIDS nel 1985. Duecentoquarantasei casi erano stati riportati nel
Regno Unito e la malattia era stata dichiarata la peggior minaccia per la
salute nazionale dal dopoguerra. Furono promulgate leggi apposite per
permettere ai magistrati di procedere al ricovero forzato dei malati di AIDS,
per evitare che contagiassero altre persone, e le aggressioni contro gli
omosessuali aumentarono paurosamente. La disinformazione dilagava.
Burke’s Peerage, dove aveva lavorato il fondatore dell’Embassy Club e
dell’Heaven, annunciò che, per preservare «la purezza della razza umana»
avrebbe depennato dai suoi elenchi le famiglie che avevano un membro
malato di AIDS.
I motivi per mantenere un profilo basso erano quindi concreti. Nel caso
di Freddie, si aggiungeva anche la vergogna di dover confessare ai genitori
di essere gay. Il dolore e l’imbarazzo che questa rivelazione avrebbe
provocato ai Bulsara nell’ambito della comunità parsi erano impensabili per
lui. Infine c’era il contratto discografico: un problema non da poco.
Dovendo produrre altri album per la EMI, qualsiasi notizia che Freddie
potesse non vivere abbastanza per adempiere agli obblighi contrattuali era
l’ultima cosa di cui i Queen e Jim Beach avevano bisogno.
Nel Natale del 1986 uscì l’album dal vivo «Live Magic», che raccoglieva
diverse hit del passato. Poi la band annunciò che si sarebbe presa un anno
di pausa, per riposare, fare il punto della situazione e concentrarsi su
progetti solisti.
Nonostante il suo tormento interiore, Freddie appariva sereno:
finalmente aveva raggiunto il perfetto equilibrio fra lavoro e vita privata.
Sebbene stesse segnando il passo, aveva deciso di farlo in grande stile. Si
alzava tardi, invitava qualche amico a pranzo oppure andava a mangiare in
uno dei tanti locali vicino casa; stava a chiacchierare per ore, si riposava un
po’, poi invitava amici a cena o cenava fuori con il suo entourage. Dopo
cena, si metteva a lavorare nel suo studio fino a tarda ora. Ogni tanto
andava all’ufficio dei Queen in Pembridge Road (Notting Hill) per qualche
riunione; faceva un salto da Christie’s o Sotheby’s per vedere gli oggetti di
antiquariato o orientali in vendita. Era «sempre occupato, ma mai di corsa».
Quella vita tranquilla, però, aveva una data di scadenza, che incombeva
sempre più minacciosa.
23
Barcelona

Con l’album «Barcelona» avevo un po’ più di libertà per


provare qualcuna delle mie idee più folli. Montserrat mi
ripeteva che [con quel disco] aveva trovato una nuova vita, e
una nuova libertà. Diceva proprio così, e io ero molto
commosso. Mi disse al telefono che le piaceva il suono delle
nostre voci insieme... avevo un sorriso che andava dal sedere al
gomito, cari miei. Ero come il gatto che ha appena mangiato il
canarino, e pensavo: Ci sono un sacco di persone che
vorrebbero essere nei miei panni in questo istante.

FREDDIE MERCURY

Alcuni dicono che per certi versi Barcelona è una canzone pop
abbastanza banale; che è un’assurdità come brano lirico. Non è
affatto vero. In altre circostanze, con quella melodia, avrebbe
potuto far parte di una grande opera. Non sarebbe stata
ridicolizzata.

SIR TIM RICE

IL suo primo album solista non aveva certo lasciato il segno, ma Freddie era
determinato a riprovarci a tutti i costi.
Per registrare l’LP successivo scelse i Townhouse Studios in Goldhawk
Road, nella zona ovest di Londra, soprattutto perché erano facilmente
raggiungibili da Garden Lodge. Gli studi, creati da Richard Branson nel
1978 erano fra i più famosi della città. Frank Zappa, Bryan Ferry e Tina
Turner, per citare solo qualche nome, avevano sfacchinato lì dentro. Lo
studio 2 compare nello strano film di Bob Dylan Hearts of Fire. Nel 1997
Elton John vi avrebbe registrato il suo tributo per la principessa Diana il
giorno del funerale.
Ai Townhouse, Freddie lavorò a una versione di The Great Pretender, il
grande classico composto da Buck Ram. Il brano era diventato un successo
dei Platters nel 1956 e negli anni successivi era stato interpretato anche da
Pat Boone, Roy Orbison, Sam Cooke, Dolly Parton e dalla Band; inoltre
aveva ispirato il nome del gruppo di Chrissie Hynde, i Pretenders appunto.
Nel 1969 era stato cantato anche da Gene Pitney, e Freddie basò la sua
versione definitiva proprio su quest’ultima interpretazione, sebbene i primi
demo tendano più verso quella dei Platters.
Freddie era così entusiasta del suo lavoro che non vedeva l’ora di fare il
video. Al costo di centomila sterline, il promo fu girato in tre giorni dalla
MGMM, con la produzione di Scott Millaney e la regia di David Mallet.
Freddie si tagliò persino i baffi per entrare in sintonia con il personaggio
impomatato che lui e Mallet avevano immaginato.
Il video alternava una panoramica affettuosa della storia dei Queen (che
incorporava alcune scene di lavori precedenti, come Bohemian Rhapsody,
Crazy Little Thing Called Love, It’s a Hard Life e I Want to Break Free) e
sarebbe diventato uno dei più amati di tutti i tempi. Freddie avrebbe ancora
girato altri video dopo questo, ma dopo la sua morte The Great Pretender fu
considerato una sorta di ultimo addio. Anche questa volta il cantante si
travestì da drag queen, con Roger Taylor e Peter Straker nelle veci di
«coriste», sebbene le loro voci non si sentissero sul singolo. I due
comparivano nei crediti di copertina, ma Freddie aveva registrato tutte le
parti vocali da solo. In molte sequenze Freddie reindossò i costumi originali
dei vecchi video dei Queen, che Diana Moseley aveva tenuto da parte.
Scoprì che gli andavano ancora tutti a pennello. Un mese dopo uscì un
video ancora più trasgressivo, che mostrava la produzione di The Great
Pretender nei dettagli. Il singolo fu lanciato nel febbraio del 1987 e arrivò al
numero quattro nel Regno Unito. Da allora è stato incluso in innumerevoli
compilation. Insieme con Bohemian Rhapsody, è una testimonianza
dell’anima tormentata che si celava dietro la rockstar e ci permette di dare
una sbirciatina nella mente del Freddie più recondito. Nella sua ultima
intervista filmata, nella primavera del 1987, Freddie ammise che quel pezzo,
più di altri, riassumeva la sua carriera. Ancora una volta aveva ripreso il
tema delle «lacrime del pagliaccio»: «Just laughing and gay like a clown»
(«felice e gaio come un clown»). La strofa più rivelatrice: «Oh yes, I’m the
Great Pretender / Pretending that I’m doing well / My need is such / I
pretend too much / I’m lonely but no one can tell» («Oh sì, sono il grande
simulatore / Fingo che vada bene / Il mio bisogno è tale / che fingo troppo /
Sono solo ma non lo do a vedere»), rifletteva benissimo come Freddie si
sentisse a esibirsi davanti a migliaia di fan. Sorge spontanea una domanda:
ne valeva la pena? Non lo sapremo mai. Ma possiamo cogliere una tragica
ironia in questa vicenda: nonostante il suo immenso talento compositivo, la
canzone che Freddie scelse per descrivere se stesso era stata composta da
altri.
Durante il Magic Tour, nell’agosto 1986, un intervistatore radiofonico
chiese a Freddie chi fosse, a suo avviso, la miglior voce del mondo. «Non lo
dico solo perché siamo in Spagna», rispose, «ma secondo me Montserrat
Caballé è la miglior voce esistente al mondo.»
«Montserrat venne a saperlo», racconta Peter Freestone. «Tempo prima
le avevano chiesto di fare un pezzo per le Olimpiadi del 1992, dato che
Barcellona era la sua città.»
Nessuno ricorda di chi fu l’idea, fatto sta che cominciò a prendere forma
il progetto di far duettare Freddie e Montserrat nella canzone ufficiale dei
giochi olimpici.
«Jim Beach parlò con Carlos, fratello e manager di Montserrat», prosegue
Peter. «Poi lo proposero a Freddie, che accettò subito: da tempo desiderava
lavorare con lei. Inoltre fu completamente sedotto all’idea di un’altra
apparizione in mondovisione dopo l’assaggio del Live Aid. Fu organizzato
un incontro a Barcellona nel marzo del 1987. Montserrat mandò a Freddie
alcuni video delle sue performance. In cambio, chiese tutti i lavori dei
Queen.»
Freddie era insolitamente nervoso durante il volo verso la Spagna: lo
accompagnavano Peter, Beach e Mike Moran, il produttore incontrato
durante la lavorazione del musical di Dave Clark Time. Quando arrivarono
al Ritz, aspettarono per ore: la diva era solita arrivare in ritardo.
«Pranzammo in una sala-giardino privata con un pianoforte sistemato in
un angolo per l’occasione», racconta Peter. «Freddie aveva portato un nastro
con una canzone e qualche idea, che io dovevo proteggere a costo della mia
vita. C’era Exercises in Free Love, più quella che sarebbe diventata Ensueño e
alcune idee per altre tracce. Notai che Freddie e Montserrat erano entrambi
in soggezione, ma entusiasti alla prospettiva di lavorare insieme. Andarono
subito d’accordo e il pranzo fu un grande successo.»
Pochi giorni dopo, Montserrat aveva un impegno alla Royal Opera
House, terminato il quale andò a trovare Freddie a casa sua.
«I cantanti lirici di solito vanno a letto presto, per preservare la voce»,
dice Wigg, ma quella sera Montserrat «restò sveglia fino alle cinque del
mattino a cantare le canzoni dei Queen con Freddie e Mike al pianoforte.
Come le conoscesse non lo saprò mai. Freddie aveva un’estensione vocale
incredibile, ma restò ammaliato da quella di Montserrat. Avevano entrambi
trovato pane per i loro denti.»
«C’era Mike Moran e non ci volle molto prima che lui e Freddie si
mettessero al pianoforte», ricorda Peter. «Fu una notte indimenticabile.
Freddie e Montserrat erano completamente a loro agio l’uno con l’altra.
Bevevano champagne e improvvisavano; fu una jam session, se si può usare
questo termine per una cantante lirica. Il loro lavoro in studio non è così
naturale e rilassato come quella sera a Garden Lodge.»
Il mese successivo i Queen ricevettero un altro premio Ivor Novello per il
loro «eccezionale contributo alla musica britannica», dopodiché Freddie si
concentrò su quello che sarebbe diventato il suo ultimo album solista.
«Barcelona» sarebbe stato prodotto da David Richards dei Mountain
Studios, che dovette dividere il lavoro: «la Stupenda» infatti era
richiestissima dai teatri di mezzo mondo e la sua agenda era prenotata con
cinque anni di anticipo. Non aveva molto tempo per sperimentare e provare
i brani in studio come Freddie amava fare. Il grosso della produzione fu
quindi fatto a distanza nei nove mesi successivi. Freddie registrava i brani
cantando lui stesso le parti di Montserrat in falsetto, e poi li faceva
recapitare alla soprano perché lei ci sovrapponesse il suo cantato. Anche se
non era il modo ideale per lavorare, il risultato fu sorprendente: uno dei
migliori traguardi nella vita di Freddie.
Tim Rice collaborò al testo di The Golden Boy e The Fallen Priest in
«Barcelona». All’epoca, la compagna di Rice era Elaine Paige, la stella di
Evita, Cats e Chess, che stava lavorando a un album di cover dei Queen
approvato da Freddie. Freddie e Tim si erano conosciuti tramite Elaine ed
erano diventati ottimi amici. The Golden Boy comprendeva un gospel
cantato da celebrità fra cui Madeline Bell dei Blue Mink, Peter Straker (di
nuovo) e Miriam Stockley, una session woman sudafricana. The Fallen
Priest invece era una specie di capolavoro alla Moran, nel quale il
produttore diresse l’orchestra, scrisse gli arrangiamenti e suonò il pianoforte
e le tastiere.
«Montserrat e Freddie cantarono quei due brani in duetto», racconta
Rice. «Erano entrambe interessanti. Nessuna delle due è una grande
canzone, ma sono entrambe ottimi frammenti musicali. Freddie era un
uomo di cultura e di talento, ed era davvero appassionato di opera lirica.
Era il suo grande amore negli ultimi anni. Quando andavamo a casa sua, ci
faceva vedere i video delle dive pieno di entusiasmo: Maria Callas,
Montserrat Caballé, Joan Sutherland, tutte che cantavano arie magnifiche.
Per certi versi mi fece scuola: infatti io non conoscevo granché l’opera.
«Forse per lui era un modo per esprimere liberamente il suo amore per le
donne. Perché Freddie adorava le donne. Si crogiolava nella loro
femminilità, nel loro modo di vestirsi e apparire, nella loro diversità dagli
uomini, persino nel loro profumo. Era evidente che amava Mary. Quando
andavo a cena con lui ed Elaine, voleva la sua compagnia. Non è vero che
escludeva le donne, anzi desiderava frequentarle. Non sono mai andato ai
suoi festini selvaggi, ma solo ad alcune cene con venti, trenta persone, e la
metà erano donne.»
Verso la fine di maggio, Freddie partì per Ibiza, accompagnato da Jim,
Peter, Joe e Terry, il suo autista. Ora che gli era stato ufficialmente
diagnosticato l’AIDS, voleva fuggire da Londra a tutti i costi. Dietro
consiglio del suo medico curante, il dottor Gordon Atkinson, portò con sé
una valigetta piena di medicinali.
Fu una vacanza trascorsa in un’incantevole fattoria con cinque secoli di
storia convertita in albergo di lusso. Freddie si sentì come a casa. Giocava a
tennis, si rilassava in piscina e ogni tanto faceva delle sortite fuori per
avventurarsi in qualche discoteca o gay bar.
«Si era aperta una brutta ferita sulla pianta del piede destro», racconta
Jim. «Gli rendeva difficile camminare e lo avrebbe perseguitato fino alla
fine.»
Durante il viaggio, Freddie fu portato al famoso Ku Club fuori San
Antonio, dove aveva un appuntamento con la sua nuova amica del cuore. Il
festival Ibiza ’92, organizzato per promuovere le imminenti Olimpiadi di
Barcellona con la partecipazione di Marillion, Duran Duran, Chris Rea e
Spandau Ballet, doveva essere chiuso da Barcelona eseguita da Freddie e
Montserrat. Lo champagne scorse a fiumi al Ku Club, e poi in albergo.
Freddie fece festa fino alle ore piccole. Sapeva di avere i giorni contati. Passò
poi l’estate a lavorare in casa, ristrutturando i cottage che aveva comprato in
Logan Mews e progettando una veranda. Era come se volesse lasciare dietro
di sé un angolino di paradiso, osservò Jim. A settembre tornò a Ibiza per
festeggiare il quarantunesimo compleanno, accompagnato da Peter, Joe,
Terry, Peter Straker e David Wigg. Gli altri membri dei Queen erano già
sull’isola, dove Roger aveva una villa in un luogo appartato. La festa doveva
essere un doppio compleanno, in concomitanza con quello dell’ex manager
dei Queen John Reid, che però si tirò indietro all’ultimo momento. Decine
di invitati di Freddie erano già sull’aereo, per cui il cantante, seppur
imbarazzato, procedette da solo. Si ritrovò con uno spettacolo di fuochi
d’artificio con due nomi e una torta di compleanno ispirata a Gaudì per
due. «Fanculo Reid», fu il suo commento: quella defezione non gli avrebbe
rovinato la festa.
Roger, che lavorava a un album solista con la sua nuova band, i Cross,
invitò Freddie a partecipare a un brano da registrarsi ai Maison Rouge
Studios di Londra. La canzone, Heaven for Everyone, sarebbe poi finita
anche nell’album dei Queen «Made in Heaven».
«Chiaramente la versione di Freddie è fantastica», afferma Edney, che
collaborò al progetto, «ma Freddie non poteva cantare su un album di
Roger, perché glielo impediva il suo contratto solista. Così non compare nei
titoli. Di conseguenza sul primo album dei Cross, ‘Shove It’, c’è Heaven for
Everyone con la voce di Freddie, ma quando uscì il singolo, dovettero usare
la versione di Roger!»
Il singolo «Barcelona» uscì in Spagna il 21 settembre. Diecimila copie
furono vendute in meno di tre ore. Nel Regno Unito uscì il mese successivo
– la prima collaborazione di una grande rockstar con una soprano di fama
internazionale – e sorprese la critica raggiungendo l’ottava posizione. La
canzone sarebbe poi stata usata per le Olimpiadi del 1992, un anno dopo la
morte di Freddie e avrebbe raggiunto la seconda posizione nel Regno Unito,
nei Paesi Bassi e in Nuova Zelanda.
Il Natale del 1987 aveva portato nuovi amici a Garden Lodge: un paio di
micini di nome Goliath e Delilah. Per quest’ultima, una bellissima gattina
tartarugata, Freddie compose un brano omonimo. La gatta dormiva ai piedi
del letto. A mano a mano che la malattia fece il suo decorso, i suoi animali,
che Freddie adorava come figli, furono per lui un’immensa fonte di sollievo.
Oramai Freddie lavorava solo quando ne aveva le forze. Nel gennaio del
1988, i Queen si riunirono in studio per cominciare il loro nuovo album,
«The Miracle». Tutti sapevano che Freddie era molto malato, i sintomi
erano evidenti. La gravità della sua condizione era stata ignorata fino a quel
punto, ma oramai era impossibile continuare a farlo. Un giorno Freddie
prese in disparte Brian, Roger e John e gli diede la brutta notizia.
«Innanzitutto disse: ‘Probabilmente sapete qual è il mio problema: la mia
malattia’», ricordò Brian. «E oramai sì, lo sapevamo, più o meno, anche se
non ne avevamo parlato. Poi aggiunse solo: ‘Questo è quanto. Non voglio
che faccia alcuna differenza, non voglio che si sappia, non voglio parlarne,
voglio solo continuare a lavorare finché potrò farlo’. Credo che nessuno di
noi si dimenticherà mai quel giorno. Ce ne andammo a star male ognuno
per conto suo.»
«Freddie sapeva di avere i giorni contati e voleva lavorare, tirare avanti»,
disse Roger.
«Sentiva che quello era il modo migliore per non perdersi d’animo.
Inoltre voleva lasciare dietro di sé più musica possibile. Eravamo d’accordo
con lui e lo sostenemmo fino in fondo. ‘The Miracle’ fu un album molto
lungo per noi.»
«Credo che [il lavoro] lo rendesse felice», spiega Mary Austin. «Lo faceva
sentire vivo interiormente, gli permetteva di non farsi sopraffare dalla
monotonia e dal dolore. [Grazie al lavoro] la vita non era diventata solo un
viaggio verso la tomba.»
«Freddie si sentiva al sicuro nel gruppo», aggiunse Brian. «Era tutto come
sempre, anche se a volte ci sforzavamo… ma cercammo di far sì che tutto
fosse normale. Sembrò funzionare.» L’8 ottobre, Freddie arrivò a Barcellona
per partecipare alla grande cerimonia con cui la città riceveva la fiamma
olimpica da Seul, e si esibì di fronte al re Juan Carlos, alla regina Sofia e alla
principessa Cristina. Freddie e Montserrat cantarono Barcelona in playback
accompagnati dall’orchestra e dal coro del teatro lirico. L’esibizione fu il
culmine di una strana serata che vide alternarsi sul palco un insieme
eclettico di artisti: José Carreras, Spandau Ballet, Eddy Grant, Jerry Lee
Lewis e Rudolf Nureyev.
I Queen e Freddie trascorsero il resto dell’anno dedicandosi ai loro
progetti personali. Il gruppo si riunì all’inizio del 1989 per finire «The
Miracle». Dopo anni di dispute creative e aspri litigi, i quattro avevano
infine trovato un modo per lavorare in armonia. I Want It All, il loro
trentaduesimo singolo nel Regno Unito, uscì nel maggio del 1989, seguito
dal sedicesimo album. «The Miracle» divenne disco di platino nel giro di
una settimana. Freddie e Jim partirono per Montreux diretti verso «I cigni»,
una bellissima villa in riva al lago, così chiamata per i cigni che la
circondavano e che Freddie correva subito a vedere ogni volta che vi
andava. Freddie la ribattezzò «Duck House», «casa delle anatre». Roger fece
di meglio e la chiamò «Duckingham Palace». Il cantante passava ore in riva
al lago. L’aria di montagna lo rinfrescava. Si sentiva più in pace a Montreux
che in qualsiasi altro posto. In patria le congetture sul suo stato di salute
dominavano i giornali. La band contrattaccò con il singolo Scandal.
Votati «miglior gruppo del decennio» dai lettori della rivista TV Times, i
Queen apparvero in uno speciale televisivo intitolato Goodbye to the Eighties
(«Arrivederci anni Ottanta»), e furono premiati da Cilla Black, la
seguitissima presentatrice inglese (ed ex cantante pop) coadiuvata da un
giovanissimo Jonathan Ross, oggi a sua volta rinomato presentatore
televisivo.
Più creativo che mai e desideroso di incrementare la sua eredità per i
posteri, Freddie si dedicò alla promozione del terzo singolo estratto
dall’album, anche questo intitolato The Miracle. Fu sua l’idea del video:
suggerì di usare dei sosia-bambini per ognuno di loro. La produzione ne
trovò quattro, perfetti, e ne risultò un videoclip ipnotico. All’inizio del 1990,
con il cuore pesante, i Queen si ritrovarono ai Mountain Studios per
registrare «Innuendo», pensando che l’album sarebbe stato il canto del
cigno di Freddie. Non esattamente.
24
Bis

Ho avuto scombussolamenti e problemi immensi, ma mi sono


divertito tantissimo e non ho rimpianti. Oh, caro, sembro
Edith Piaf!

FREDDIE MERCURY

In questo ambiente esistono persone che non sono fatte per


invecchiare. Freddie era una di queste. Non potevo
immaginarmelo a settant’anni; lo stesso vale per Michael
Jackson. In ogni caso, a Freddie non sarebbe piaciuto il modo
in cui si fanno i dischi oggi. Ha vissuto al massimo. È morto
giovane, ma nella sua vita ha fatto tantissime cose, più di
quelle che la maggior parte delle persone fa in cinque vite messe
insieme.

RICK WAKEMAN

CAPODANNO 1990. Mentre i Queen si riunivano per lavorare al nuovo disco,


Beach avviava un estenuante negoziato con la Capitol per la cessazione del
loro contratto. All’insaputa della band, c’era un’altra etichetta americana
che aspettava dietro le quinte. L’avvocato che anni prima aveva patteggiato
l’uscita dei Queen dall’Elektra era diventato presidente della Hollywood
Records del gruppo Disney ed era pronto a scritturare la sua band preferita.
«Molti pensavano che fosse una mossa stupida, destinata a fallire»,
racconta Peter Paterno. «In realtà è stata un successo, che ha superato
qualsiasi aspettativa.»
«Malgrado tutti i commenti negativi, sapevo che non era un affare
rischioso. Saremmo rientrati dall’investimento in otto anni. Sapevo che
Freddie aveva l’AIDS? Sapevo che era malato, i particolari erano segreti. Ma
francamente sapevo che non potevamo perdere. Se moriva, avevamo
previsto di andare in pari in tre anni. Caso volle, però, che uscì Fusi di testa,
con quella scena da urlo dove cantano Bohemian Rhapsody in macchina, e
così andammo in pari in tre settimane.»
«Fino a quel momento [i Queen] erano morti negli USA, ma famosissimi
nel resto del mondo. Secondo me ‘A Kind of Magic’ era un disco favoloso,
ma aveva venduto pochissimo negli Stati Uniti. Tuttavia ebbi una
premonizione. Mandai un messaggio a Jim Beach dicendo: ‘Ho sentito che i
Queen sono liberi’. ‘Non solo sono liberi’, fu la risposta, ‘ma anche il loro
intero repertorio è libero.’ È così che cominciammo.»
L’intera produzione dei Queen sarebbe stata rimasterizzata e distribuita
su CD, il supporto che all’epoca stava soppiantando il vinile. Quella di
Paterno era una scommessa gigantesca, dato che negli USA la band non
aveva avuto un album nei primi venti dal 1982.
Tutto procedeva per il meglio, finché qualcuno non informò il capo della
Disney, Michael Eisner, che Freddie stava morendo di AIDS.
«Michael mi chiamò e mi disse: ‘Cosa sta succedendo?’» ricorda Paterno.
«La notizia l’aveva reso molto nervoso, pensava che ci stessero prendendo in
giro, che l’affare ci avrebbe fatto apparire ridicoli. Secondo lui dovevamo
inserire una clausola che prevedesse certe condizioni in caso di morte. Ma io
dissi: ‘Per quanto suoni cinico, se muore le vendite saliranno. Ho sentito
alcuni pezzi del nuovo album e non sono preoccupato.’
«Era un affare molto costoso: dieci milioni di dollari. All’inizio la
dirigenza della Disney rifiutò e dovetti argomentare le mie ragioni. Alla fine
la spuntai e firmammo. Fu uno dei momenti migliori della mia vita.»
«Dissi a Beach: ‘Per dieci milioni di dollari, posso almeno conoscerli?’
Presi un volo da Los Angeles a Montreux per passare un pomeriggio con
Freddie Mercury. Fu un soggiorno breve ma indimenticabile. Lui era
piacevole e cortese. Mi fece ascoltare il nuovo album in studio. Andammo a
passeggiare in città, cenammo insieme. Fu una bella esperienza, ma era
evidente che Freddie stava affrontando l’idea della morte.
«E poi all’improvviso i Queen divennero di nuovo famosissimi qui!»
esclama Paterno. «Il mio intuito non mi aveva tradito! Il fatto era che non
avevano mai smesso di fare album eccellenti. Se avessero suonato come
vecchie glorie, oramai stanche, avrei lasciato perdere, ma continuavano a
produrre musica bellissima e sapevo che prima o poi sarebbero tornati in
voga negli Stati Uniti. Che soddisfazione per me avere avuto ragione, anche
se la perdita di Freddie Mercury fu una tragedia.»
Dopo avere ricevuto il Brit Award della prestigiosa British Phonographic
Industry per il loro eccezionale contributo alla musica britannica, che gli era
sempre sfuggito, e consapevoli che Freddie era oramai prossimo alla fine, i
Queen si accinsero a celebrare il loro ventesimo anniversario.
Organizzarono una festa per quattrocento invitati al Groucho Club. Il locale
londinese era stato scelto per il suo nome, in omaggio ai primi dischi
intitolati come due film dei fratelli Marx. Parteciparono Liza Minnelli,
George Michael, Patsy Kensit, Michael Winner e Rod Stewart. La torta era a
forma di Monopoli, con i titoli dei successi della band al posto dei nomi
delle strade.
Mentre i paparazzi assetati di sangue sbavarono sulle foto di un Freddie
macilento, quando era arrivato e aveva lasciato la festa, i compagni, il
management, gli amici e l’entourage continuarono a negare le voci di una
morte imminente del cantante.
«Freddie voleva così» disse Peter Freestone. «Mentivamo persino con i
nostri famigliari. Lo facevamo per lui. Non voleva chiasso, né scioccare i
genitori. E poi pensava che la sua malattia fosse solo affar suo.»
«C’era molta gente a quella festa, ma, stranamente, pochi parlavano con
la band», ricorda Phil Swern. «Quasi come se avessero paura. Mi ritrovai
vicino al bar con Freddie e chiacchierammo per una ventina di minuti. Non
riuscivo a credere che stavo parlando con quell’icona del rock come se
fossimo vecchi amici. Freddie era molto pallido e tranquillo. Di colpo mi resi
conto che io invece ero nervoso e tremavo. Perché? La sua aura. Lui sì che
ce l’aveva. Chi altri? Frank Sinatra; una volta lo incontrai dietro le quinte
della Royal Albert Hall. Prima ancora di vederlo, e sebbene dessi le spalle
alla porta, percepii la sua presenza. Pochissime persone hanno l’aura. Paul
McCartney no. Mick Jagger no. Sono troppo accessibili. Barbra Streisand ce
l’ha: è una donna eterea, non è di questo mondo. Nemmeno le stelle del
cinema ce l’hanno.
«Qualunque cosa sia, è innata e non la perdi mai. Non puoi costruirla,
non puoi comprarla. È pura magia. Non puoi neanche attraversarla, per
questo un comune mortale non può avere una relazione profonda con una
persona del genere. È una delle ragioni principali per cui queste persone
hanno una vita affettiva disastrosa. Conquisti milioni di ammiratori, ma non
riesci a ottenere o conservare l’amore di una singola persona.
«Io e Freddie parlammo un po’ della storia dei Queen», racconta Swern.
«Parlammo anche della struttura delle sue canzoni. Si animava parecchio
quando parlava di musica. Era una sua peculiarità, senza dubbio. Anch’io
avevo composto qualche canzone ai miei tempi, che erano entrate in
classifica. I compositori sono sempre interessati a come lavorano gli altri, per
cui gli chiesi da dove traesse ispirazione.
«‘I versi mi arrivano e basta’, rispose sorridendo. Era molto difficile
parlargli, perché sapevo che stava morendo. Non era ancora stato
annunciato ufficialmente, ma lo sapevo già perché me l’aveva detto Jim
Beach. Pensai che l’aura alla fine ti schiaccia, ti soffoca: è una croce
pesantissima da portare e, se sei un genio, probabilmente quello è il prezzo
da pagare. All’interno di quell’aura, sei solo un essere umano come tutti.
«Molte persone di talento muoiono giovani. Forse perché raggiungono il
loro apice creativo e poi si ‘suicidano’ in un certo senso, perché non
sopportano più la notorietà. Sebbene alcune si tolgano fisicamente la vita,
come Marilyn Monroe con un’overdose, molte altre no, ma rovinano la
propria esistenza in modo diverso. James Dean guidava così veloce che un
incidente era inevitabile prima o poi. Elvis aveva solo quarantadue anni
quando morì, ma si era spremuto fino al nocciolo, non gli restava più nulla e
lo sapeva. Forse il ‘desiderio di morte’ di Freddie era il sesso estremo che in
quegli anni portava inevitabilmente all’AIDS. È un modo per cedere la
responsabilità di una vita che è diventata troppo dura da sopportare.»
Finita l’ultima festa, la band tornò ai Mountain Studios.
«‘Innuendo’ fu creato nei ritagli di tempo, perché Freddie non stava
davvero bene», rivelò Roger dopo la morte dell’amico.
Appena la salute glielo permetteva, negli ultimi anni di vita, Freddie si
rifugiava spesso a Montreux per sfuggire ai giornalisti, trovando nella
cittadina svizzera la tranquillità e il riposo di cui aveva bisogno.
Per puro caso il vecchio amico di college di Freddie, Jerry Hibbert, fu
incaricato di produrre le animazioni del videoclip di Innuendo.
«Avevo sentito dire che Freddie non stava bene e chiaramente ero
preoccupato. Durante una riunione chiesi a Beach: ‘Facciamo
un’animazione perché Freddie è malato e non può comparire nel video?’
‘Freddie non è affatto malato. Dove diavolo hai sentito una cosa del
genere?’ replicò lui.»
Il quarantaquattresimo compleanno di Freddie fu festeggiato in maniera
molto modesta, con una cena per venti invitati a Garden Lodge. Mary ci
andò con il compagno Piers Cameron. Jim Beach con la moglie Claudia.
C’erano anche Mike Moran con la moglie, Dave Clark, Barbara Valentin,
Peter Straker e il dottor Gordon Atkinson, oltre ai soliti che componevano la
cerchia di Freddie. Sarebbe stato il suo ultimo compleanno e lui lo sapeva,
ma non lasciò che questo pensiero rovinasse la festa. Generoso fino alla fine,
offrì a ogni ospite «un pensiero per ricordarmi» di Tiffany, e fu
contentissimo quando arrivò la sua maestosa torta di compleanno. Era una
replica di uno dei suoi monumenti preferiti, il Taj Mahal. Il singolo
Innuendo uscì nel gennaio del 1991, regalando alla band la sua prima
numero uno nel Regno Unito da dieci anni. Anche l’album, che uscì a
febbraio e che fu l’ultimo lavoro in studio dei Queen a essere distribuito
mentre Freddie era ancora in vita, si classificò al primo posto, e non solo nel
Regno Unito, ma anche in Svizzera, in Italia, in Germania e nei Paesi Bassi,
diventando il primo album dei Queen da «The Works» nel 1984 a diventare
disco d’oro al debutto in America. Nel video del singolo I’m Going Slightly
Mad si vede un Freddie tragicamente magro e truccato che scimmiotta un
Lord Byron impazzito. Headlong, il trentanovesimo singolo della band uscì a
maggio. Poi i quattro, in lotta contro il tempo, tornarono in studio per
incidere «Made in Heaven», un album che però sarebbe uscito solo quattro
anni dopo la morte di Freddie. Nonostante la crescente debolezza, il
cantante lavorò più che mai, aiutandosi con ampie dosi di vodka per
superare le lunge e difficili sedute di registrazione.
«Credo che una parte di lui sperasse in un miracolo», disse Brian. «Lo
speravamo tutti.»
«Furono giorni tristi, ma Freddie non si lasciò deprimere», racconta Peter
Freestone. «Era rassegnato all’idea della morte. La accettava… E comunque,
puoi immaginarti un Freddie Mercury vecchio?»
A Freddie tornò la voglia di disegnare e dipingere. Era dai tempi del
college che non si era più dedicato all’arte.
«Jim gli comprò qualche acquerello e alcuni pennelli», ricorda Peter.
«Passò ore a tentare di ritrarre Delilah, la sua gatta preferita. Era troppo
difficile, ma riuscì a fare un paio di lavori astratti. Tutta colpa del Matisse.
Un giorno sfogliavamo un catalogo di un’asta e c’era un Matisse che andava
per diecimila sterline. ‘Dieci bigliettoni?’ aveva detto Freddie. ‘Potrei farla io
una cosa del genere!’
«Diede due pennellate e disse a me e a Joe: ‘Et voilà, uno a testa!
Vediamo quanto valgono!’ Suppongo che valgano come il Matisse ora.» La
vita accelerò. Troppo veloce. Ad agosto arrivò la notizia che Paul Prenter era
morto di AIDS. Quello stesso mese, Freddie raccontò la verità alla sorella e
al cognato.
«Eravamo seduti in camera sua che bevevamo un caffè quando
all’improvviso disse: ‘Devi capire, cara Kash, che quel che ho è terminale’»,
ricorda il cognato.
«‘Sto per morire’, aggiunse. Vedemmo i segni sulle caviglie. Sapevamo
che era malato. Non aggiunse altro e non ne parlammo mai più.»
«Continuavamo a vivere il più normalmente possibile», racconta Jim.
«Andammo in Svizzera solo tre settimane prima che morisse. Anche se
non era in salute, è ovvio che stava abbastanza bene per viaggiare e lavorare:
era in studio, santo Dio. Non parlavamo mai di quanto gli restasse, ma
credo che se hai una malattia terminale, arriva un momento in cui hai
un’idea ben precisa di quanto la morte sia vicina…
«Andammo a Duck House per una pausa. C’era Mary e il piccolo
Richard, e Terry con la famiglia. Un giorno visitammo un bellissimo chalet
degli anni Cinquanta in riva al lago, con giardino e pontile privato. Era
stupendo, ma non avrebbe funzionato per Freddie: a lui serviva un
appartamento. Fu Jim Beach che trovò un attico in un palazzo chiamato ‘la
Tourelle’. Aveva tre camere, per Freddie, Joe e io, e un enorme salotto con
una grande finestra e un balcone con la vista sul lago.»
Freddie desiderava passare il Natale nel suo nuovo appartamento di
Montreux. Chi gli era vicino sapeva che non sarebbe arrivato a dicembre,
ma stette al gioco per accontentarlo.
«Forse ora sembra inutile che si sia comprato un appartamento a
Montreux quando era oramai alla fine», ammette Peter.
«Ma Freddie adorava ristrutturare e arredare le case, perciò quell’alloggio
era solo un progetto come tanti per tirare avanti. Freddie aveva già in mente
come rinnovare ogni stanza e aveva comprato un sacco di mobili da
Sotheby’s apposta.
«Sapeva esattamente come voleva l’appartamento e scelse mobili e
decorazioni da solo.
«Io e Joe potemmo decidere le tinte delle nostre camere, lui scelse verde
chiaro mentre io azzurro. Io dovevo poi creare dei piccoli giardini sui
balconi: Freddie voleva più verde possibile. È un peccato che non sia riuscito
a festeggiare lì il Natale, e che non sia riuscito a viverci un po’.»
Per il quarantacinquesimo compleanno Jim gli regalò un set di calici di
cristallo da champagne: erano destinati all’alloggio di Montreux. Fu il suo
ultimo regalo di compleanno: sia Jim sia Freddie sapevano che non
sarebbero più tornati in Svizzera insieme.
«Fu il compleanno più silenzioso di tutti», ricorda Jim. «Fu molto triste.
Freddie stava accettando il fatto che la sua vita era oramai finita e
chiaramente non era contento di questo. Alla fine non aveva più voglia di
vedere quasi nessuno. Non voleva che vedessero come stava, quanto fosse
malato. Non voleva angosciarli, preferiva che si ricordassero il vecchio
Freddie.»
L’ultima torta di compleanno di Freddie era una replica del suo caro
palazzo svizzero, creata da Jane Asher con l’ausilio di foto scattate da Jim e
Joe. Quello stesso giorno, negli USA uscì il singolo These Are the Days of
Our Lives, accompagnato dall’ultimo video di un Freddie inquietante. Lo
stesso singolo, accoppiato a Bohemian Rhapsody, sarebbe uscito nel Regno
Unito a dicembre, dopo la morte.
Freddie disse ai suoi coinquilini che intendeva smettere di prendere i
farmaci.
«Interruppe tutto tranne gli antidolorifici», ricorda Peter.
«Non disse mai di avere paura di morire. Non serviva a niente avere
paura. Non lasciò mai che la malattia prendesse il controllo della sua vita.
Appena stava per accadere, riprese lui il controllo.
«Voleva decidere lui quando morire.
«Da settimane i giornalisti erano accampati sullo zerbino, ventiquattr’ore
al giorno. Era prigioniero nella sua stessa casa. Non poteva farci nulla,
tranne, forse, quel che fece: mollare.» Ne aveva avuto abbastanza. Non solo
stava perdendo la vista, ma anche la voglia di vivere.
«Credo che il suo unico rimpianto fosse di avere ancora così tanta musica
in sé», racconta Peter.
The Show Must Go On, il singolo coraggioso e straziante dei Queen, con
Keep Yourself Alive sul lato B, uscì a ottobre. La band, il management, gli
addetti stampa e l’entourage, che avevano tutti giurato di mantenere il
segreto su Freddie, continuarono a smentire qualsiasi voce sulla malattia.
Nel frattempo, la EMI continuò a sfornare prodotti – «Greatest Hits II»,
«Greatest Flix II» – e mentre la vita di Freddie era appesa a un filo, la band
appariva più prolifica che mai.
«Freddie aborriva l’idea di sconvolgere la famiglia», afferma Wigg, «e di
essere assediato dai media se la notizia della sua malattia fosse stata resa
pubblica. Ecco perché chi gli stava intorno negava tutto. Lo spettacolo
continuava.»
Peter e Joe assistettero Freddie negli ultimi giorni.
«Imparai a farlo. Non c’era nessun altro che poteva farlo al posto mio»,
spiega Peter.
«Freddie aveva cominciato a tagliare i rapporti con diverse persone. Non
voleva vederle. I genitori, per esempio: erano venuti a trovarlo in quelle
ultime due o tre settimane e volevano tornare la domenica prima che
morisse, ma lui disse: ‘No, li ho visti’. In parte perché non voleva che lo
vedessero in quelle condizioni; preferiva che lo ricordassero com’era prima.
È per questo che voltò le spalle a molte persone in quell’ultimo anno di vita.
A volte la scusa era un banale litigio o altro, ma lui sapeva il vero motivo, e
anch’io.»
Alcuni amici intimi furono davvero splendidi negli ultimi giorni. «Dave
Clark, Elton John, Tony King. Io e Joe ricevemmo aiuto dal Westminster
Hospital dove Freddie era stato curato, in particolare da parte di un
dermatologo e di un oncologo che cercava di trattare il sarcoma di Kaposi.
«È incredibile quanto si impara in fretta in quelle situazioni. Freddie
aveva un catetere nel petto, per esempio, tramite cui potevamo
somministrargli i farmaci. Nelle ultime settimane uno di noi – Jim, Joe o io
– gli restava sempre vicino, anche la notte. Non lo lasciammo solo neanche
una volta.»
Gordon Atkinson, amico e medico curante di Freddie, gli fece visita
regolarmente. Terry Giddings, il suo autista, continuò a presentarsi ogni
giorno a Garden Lodge, sebbene Freddie non dovesse andare da nessuna
parte.
«Anche se era al settimo mese di gravidanza, Mary cercava di passare
ogni giorno, per continuare il proprio lavoro. Freddie voleva che tutto
proseguisse come sempre.»
I genitori e la sorella con la sua famiglia fecero visita durante l’ultima
settimana e presero il tè con Freddie in camera sua, scrisse Peter nelle sue
memorie. «Con uno sforzo sovrumano riuscì a intrattenerli per due o tre
ore. Era il suo modo per proteggerli, per far credere loro che non c’era nulla
di cui preoccuparsi. Portammo il tè con dei panini fatti in casa e alcuni dolci
comprati. Nessuno sapeva che quella era l’ultima volta che l’avrebbero visto
in vita.»
Vennero Brian e Anita, così come Roger e Debbie Leng, la modella sua
compagna. Anche nel loro caso, nessuno sapeva che Freddie era prossimo
alla morte e che non l’avrebbero mai più rivisto.
«Entrambe le visite furono abbastanza brevi», osserva Peter. «Senza che
lo sapessero, Freddie aveva detto loro addio.»
Il 23 novembre, con Beach al capezzale per un lungo incontro, Freddie
dettò la sua ultima dichiarazione: davanti ai fan e al mondo ammetteva di
avere l’AIDS. Fu distribuita immediatamente dall’addetto stampa Roxy
Meade e fu uno choc terribile per tutti.
«Dopo tutti quegli anni, il nostro segreto fu svelato al mondo intero»,
dice Peter. «Dopo una lunga discussione, accettammo il motivo di quel
gesto: poteva essere un bene se Freddie ammetteva di avere la malattia
quando era ancora in vita.»
Ventiquattr’ore più tardi, Peter chiamò i genitori di Freddie per dare la
terribile notizia: il loro beneamato figlio, The Great Pretender, era morto.
25
Leggenda

Per anni ci eravamo assicurati che Freddie fosse presentabile


prima di uscire di casa. L’ultima cosa che potevo fare per lui, in
preparazione per il suo ultimo viaggio, era far sì che tutto fosse
perfetto.

PETER FREESTONE

Ogni nuova generazione scopre i Queen e li rende importanti in


un modo o nell’altro. Brian e Roger sono consapevoli della loro
eredità e ne hanno fatto un uso molto intelligente. Oggi i
Queen sono una grande azienda. Sono più grandi di quando
Freddie era ancora in vita. Sono ricchissimi, e buon per loro.
Molti pensano che si siano venduti, che abbiano compromesso
la loro arte, ma che gliene frega a loro? Nuotano nel grano.
Come dice Roger Taylor: «Che si fottano, se non ci arrivano».

RICHARD HUGHES , produttore, Transparent Television

GLI zoroastriani hanno una visione ottimista della morte, che per loro non è
una fine, ma un inizio: l’esistenza terrena è solo un preludio per la vita dopo
la morte, dove ci attendono molte felicità. Siccome per loro il fuoco, la terra
e l’acqua sono elementi sacri, dopo la morte non si fanno né cremare, né
seppellire, né gettare in mare.
Dato che il corpo non è altro che un recipiente vuoto, non viene
preservato ma lasciato a consumarsi nelle cosiddette «torri del silenzio»
fuori delle mura cittadine, esposto agli avvoltoi e alle intemperie. Ma
nemmeno per una grande superstar come Freddie era possibile organizzare
una cosa del genere in Inghilterra.
«Dovemmo cremarlo, e farlo nel più breve tempo possibile», ricorda
Peter, che firmò il certificato di morte, segnando come causa del decesso:
«a. broncopolmonite. b. AIDS», secondo quanto attestato dal dottor
Atkinson.
Poiché Freddie era stato seguito dai medici, non fu necessaria
un’autopsia per determinare le cause del decesso. Di conseguenza Peter
organizzò subito il funerale, dopo essersi consultato con i genitori di
Freddie.
«Dovevamo coinvolgerli. Noi seppellivamo una rockstar, ma loro
seppellivano un figlio. Naturalmente volevano fare le cose secondo la
tradizione parsi e le loro richieste furono prese in considerazione.»
«Freddie mi disse che quando fosse morto voleva che il funerale si
celebrasse subito», conferma Jim. «Il prima possibile, senza tante cerimonie.
Voleva essere cremato il giorno stesso. Fatto, finito, in modo che poi tutti
riprendessero la loro vita... Non voleva gente in coda a strapparsi i capelli.
Continuate a vivere. È a questo che serve la vita.»

Freddie fu cremato al Crematorio di Londra ovest di Kensal Green alle


dieci del mattino di mercoledì 27 novembre.
«Un funerale perfetto, proprio come sarebbe piaciuto a lui», racconta
Peter sorridendo. «Cinque carri funebri della Daimler solo per i fiori. La
cassa su una Rolls-Royce, con altre quattro auto al seguito. Una bara
semplice, in rovere chiaro con una sola rosa rossa sopra, trasportata a spalla
sulle note di You’ve Got a Friend di Aretha Franklin. Seguimmo il feretro.
C’erano circa quattordici persone dal lato degli amici e circa trenta da quello
della famiglia.»
Elton John arrivò con la sua Bentley verde. Brian con la sua fidanzata
(oggi moglie) Anita Dobson. Mary Austin, incinta del suo secondo figlio
Jamie, arrivò con Dave Clark. Jim Callaghan, la fedele guardia del corpo dei
Queen si piazzò in silenzio alla porta della cappella, salutando i genitori di
Freddie e scortandoli all’interno.
«Quando la cassa sparì, suonammo D’Amor sull’ali rosee di Verdi, un’aria
de Il Trovatore, cantata, ovviamente da Montserrat Caballé. Era il brano
preferito di Freddie in assoluto. Spesso andava in studio e lo metteva a un
volume così alto che si sentiva persino il rumore degli spartiti sfogliati e dei
musicisti che spostavano sulle sedie. Fu molto commovente», racconta
Peter. «Ed ero abbastanza sconvolto. Avevo bisogno di stare solo. Mia
madre è in quel crematorio. Corsi sotto dove c’è l’urna con le sue ceneri e le
chiesi di prendersi cura di lui.»
I fiori mandati per il funerale di Freddie ricoprirono oltre mille metri
quadrati all’esterno del crematorio. Gigli e dalie bianche da parte dei
genitori, con il messaggio: «Al nostro amatissimo figlio Freddie. Ti ameremo
sempre, mamma e papà». Rose gialle da David Bowie. Un cuore di rose rosa
da Elton John, con le parole: «Grazie per essere stato un amico. Ti amerò
sempre». Il tributo di Boy George fu molto semplice: «Caro Freddie, ti
amo». Quello di Mary Austin fu una corona di rose gialle e bianche con
scritto: «Per la persona più cara, con il mio più profondo amore, dalla tua
fedelissima». Quello del figlio di Mary: «Allo zio Freddie con amore dal tuo
Ricky». L’addio più commovente fu quello di Roger Taylor: «Addio, vecchio
amico; pace, infine!» Tutti i fiori furono donati agli ospedali di Londra.
Tornato a casa, Jim, non sopportando di stare tra le persone, andò in
giardino. «Avevo perso mio padre anni prima», dice, «ma non ero in Irlanda
quando era successo. Quindi la morte di Freddie è stata il lutto che mi ha
coinvolto più da vicino. Fu molto dura.» Nelle settimane successive, Jim si
infuriò per le parole e le azioni di altri. Secondo la stampa, Dave Clark aveva
affermato di essere stato l’unico al capezzale di Freddie quando questi era
spirato.
«Non è vero», dice Jim. «Ma lo scrissero dappertutto.»
Alla fine l’errore turbò persino Clark, di norma sensibile e premuroso,
perché Jim ricevette una bellissima cartolina di compleanno da parte sua.
«Dentro c’era scritto: ‘Tu sì che c’eri’. Non so perché abbiano scritto
altrimenti. Dave era stato davvero magnifico durante la malattia. Veniva
sempre a trovarci. Sì, era stato al capezzale per ore, per darci un po’ di
riposo. Era in casa con noi quando Freddie era morto. Ma non era andata
come avevano raccontato.
«La gatta preferita di Freddie, Delilah, non era salita sul letto tutto il
giorno, il che era strano. Era lì che dormiva, anzi che viveva, in pratica.
Quella sera invece era stesa ai piedi del letto, per terra. La presi in braccio.
Dave prese la mano di Freddie e gli fece accarezzare il gatto. Freddie fece
un cenno di riconoscenza, poi chiese di andare in bagno. Mi precipitai di
sotto per chiamare Peter, perché mi aiutasse, ma Freddie bagnò il letto e
dovemmo cambiare le lenzuola. Dave uscì dalla stanza, per rispetto. Fu in
quel momento che Freddie se ne andò.»
Jim non si sarebbe mai più ripreso dalla perdita.
«Ancora adesso ci sono volte in cui sto lavorando in giardino e mi appare
il volto di Freddie con l’espressione di quando morì», mi raccontò in
Irlanda. «A livello cosciente posso cancellare quel che è successo, ma non a
livello inconscio. È impossibile dimenticarlo. Ho imparato tantissimo da lui,
soprattutto a essere ottimista. La sua idea era che potevi fare tutto; che se ti
dedicavi a una cosa, potevi farcela. Era una delle cose più belle di lui.»
Jim è morto di cancro ai polmoni nel 2010, in Irlanda.

A Monaco, la povera Barbara Valentin fu costretta a vivere il lutto da


sola. Comprò un abito nero per il funerale e un biglietto d’aereo per Londra.
Quando stava per andare in aeroporto, però, ricevette una telefonata che le
ordinò di restare dov’era. Non ha rivelato chi la chiamò quel giorno e Peter
Freestone sostiene di non ricordare. Probabilmente fu un collaboratore di
Beach. Quel giorno Mary Austin doveva essere presentata come l’unica
«vedova» e Barbara sarebbe stata una presenza inopportuna.
«Non ho potuto nemmeno partecipare al suo funerale», disse piangendo.
«Dopo tutto quel che avevamo passato insieme. È stato un dolore terribile.
Non l’ho mai superato. Non ho mai amato nessuno come ho amato
Freddie. Non che ne abbia cercato un altro: uno è bastato. È stato il più
grande amore della mia vita. Lo è ancora. Venti donne dovrebbero vivere
cent’anni l’una per avere l’amore che ho avuto io. È meglio fermarsi al
momento giusto. È quello che ha fatto anche lui.»
Freddie si era comportato da star, proseguì Barbara: «Smettendo quando
era in cima. Mi diceva che non puoi permetterti di cadere dalla vetta, di non
essere più all’altezza di quello che sei stato. La fama l’aveva trasformato
nella persona più sola al mondo e per compensare era diventato sempre più
scatenato e selvaggio, finché i suoi eccessi avevano finito per controllarlo.
Compensava in eccesso per la sua solitudine, faceva di tutto un eccesso. Ha
pagato il prezzo più tremendo di tutti. So che non pensava di andarsene
così, ma in un certo senso ha fatto a modo suo: voleva l’immortalità e l’ha
avuta».
Barbara è morta di ictus nel 2002, a Monaco.

Garden Lodge non tornò mai più «come prima». Mentre si preparava a
prendere possesso della sua eredità, Mary fece capire che la voleva vuota.
Jim aveva creduto che sarebbe potuto rimanere nella dimora per sempre,
ma gli fu chiesto di andarsene subito.
«E io. E Joe», ricorda Peter con tristezza. «Non avevamo un altro posto
dove andare e avevamo bisogno di tempo per organizzarci. Ce ne saremmo
andati comunque, ma… Mary si è comportata in modo sconcertante.»
«Ma come ha potuto trattarci così, dopo tutto quello che avevamo
passato con Freddie?» disse Jim. «Non aveva alcun senso. Ho lasciato quella
casa senza niente; nemmeno le mie cose.»
Le controversie legali e finanziarie che seguirono la morte di Freddie
lasciarono i suoi ex «badanti» in un limbo e Barbara Valentin quasi
senzatetto. Con l’aiuto dei suoi amici di Garden Lodge, l’attrice riuscì a
respingere gli attacchi. Tuttavia il testamento di Freddie sollevò
innumerevoli dubbi, alcuni dei quali non furono mai risolti.
Jim spiegò di avere scritto il proprio libro di memorie per rabbia, non per
denaro. Voleva che il mondo sapesse la verità: secondo lui non c’era altro
sistema.
«Credo che Beach si sia arrabbiato perché il mio libro ha rovinato ‘il mito
di Freddie’», disse. «E invece l’ha solo riportato al livello dell’essere umano.
Ho scritto la verità. Beach voleva che i fan credessero che la dolce Mary
Austin fosse stata l’amore della vita di Freddie: una bella favola romantica.
Credo che ai fan non importi un fico secco se Freddie era gay o no. Credo
anche che preferiscano sapere la verità, bella o brutta che sia.»
Peter era d’accordo. Freddie sarebbe stato disgustato se avesse visto le
persone che amava litigare dopo la sua morte. «I diretti interessati devono
fare i conti con se stessi. Mary una volta ha detto di Jim [Hutton] che era
dotato di ‘un’immaginazione vivace’. Conoscevo Jim da tanto tempo e so
che era sempre stato onesto. Aveva la coscienza pulita, sempre; come me.»
Che cosa ne è delle ceneri di Freddie? Sono state sparse nel lago di
Ginevra, il suo «lago dei cigni», a Montreux? Sono conservate in un’urna
nella casa dei genitori? Sono state riportate a Zanzibar e offerte all’oceano o
sono state mandate dalla zia Sheroo in India, o ancora sepolte sotto un
ciliegio a Garden Lodge, come sostenne Jim Hutton? O potrebbero persino
trovarsi in un sepolcro anonimo nel cimitero civile e militare di Brookwood
nel Surrey, che ha una zona dedicata ai parsi? La vecchia compagna di
collegio di Freddie, Gita Choksi, ritiene veritiera quest’ultima ipotesi.
Quando andò al cimitero la prima volta, per trovare il padre, Gita incontrò
un custode che le disse: «Le ceneri di Freddie Mercury, il cantante rock,
sono sepolte laggiù».
«Fu uno choc», racconta. «Ovviamente quell’uomo non sapeva che avevo
conosciuto Freddie da piccola e non aveva alcun motivo per mentire. E così,
dopo avere perso di vista il mio compagno di scuola per così tanti anni, le
sue ceneri erano lì, sepolte a pochi metri da quelle di mio padre. Sono
assolutamente certa che sia vero. Non credo che il custode me l’avrebbe
detto, se non fosse vero. È la cosa più straordinaria che mi sia capitata in vita
mia, e sono contenta che mi sia successa.»
È possibile che il custode si sbagliasse? Sì. Stranamente, però, quando mi
recai sul posto, un custode mi raccontò la stessa storia. Forse era un piano
per depistare i fan.
Quando gli riferii la storia di Gita, Peter si disse sorpreso e non fu in
grado di confermarla. «Non lo so. Sospetto che le ceneri siano state divise,
che magari i genitori ne abbiano una parte e che Mary ne abbia un’altra…
ma chi lo sa per certo? Soltanto loro.»

Bohemian Rhapsody fu di nuovo distribuita come singolo a Natale, poco


dopo la morte di Freddie. Schizzò subito al numero uno, raccogliendo oltre
un milione di sterline per il Terrence Higgins Trust, un ente di beneficenza
per i malati di AIDS. Il brano più famoso dei Queen uscì anche in America,
e gli introiti furono suddivisi fra diverse organizzazioni americane di
assistenza ai malati di AIDS tramite la Magic Johnson Foundation.
Il 20 aprile 1992, la band era pronta a dare il suo tributo rock’n’roll a
Freddie, con un concerto che sarebbe stato poi votato il più grande evento
rock degli anni Novanta. Brian disse che la morte di Freddie era stata
«come perdere un fratello» e sottolineò che il Freddie Mercury Tribute
Concert allo stadio di Wembley non era un concerto dei Queen, anche se la
maggior parte dei partecipanti avrebbero eseguito i brani della band.
Quando il concerto fu annunciato, i settantaduemila biglietti andarono
esauriti nel giro di due ore, sebbene la line-up definitiva non fosse ancora
stata annunciata. L’evento sarebbe stato trasmesso alla radio e in televisione
in settantasei Paesi e ripreso da David Mallet per diventare un
documentario.
Il megaspettacolo iniziò con un filmato di Freddie che faceva vocalizzi.
Annie Lennox e David Bowie cantarono Under Pressure, Roger Daltrey I
Want It All; gli Extreme fecero Hammer to Fall, George Michael e Lisa
Stansfield duettarono su These Are the Days of Our Lives ed Elton John
affrontò Bohemian Rhapsody con Axl Rose. Seal scelse Who Wants to Live
Forever, Mick Ronson e Ian Hunter, dei Mott the Hoople, staccandosi dal
format basilare, offrirono un commovente tributo cantando All the Young
Dudes di Bowie. Così fece pure Robert Plant, interpretando il brano dei Led
Zeppelin Thank You (ma cantò anche Innuendo e Crazy Little Thing Called
Love). Tuttavia fu Liza Minnelli che superò tutti con We Are the
Champions.
Ma dov’erano Dave Clark, Peter Straker, Tony Hadley ed Elaine Paige?
Aretha Franklin, Prince e Michael Jackson? Tanti furono sorpresi
dall’inspiegabile assenza di molti cantanti che avevano significato molto per
Freddie, e dal fatto che l’elemento «metal» del cartellone non
corrispondesse ai gusti di Freddie. La musica di Guns N’ Roses, Metallica e
Def Leppard piaceva soprattutto a Brian e a Roger, non a Freddie. Si disse
che molti artisti furono scelti perché la loro musica era stata influenzata da
quella dei Queen. Altri sostennero che con quel concerto Brian, Roger e
John tentavano di ricondurre il loro amato cantante all’interno del recinto
dei Queen, in quella che a loro avviso era la sua giusta collocazione,
offrendo una retrospettiva dei gusti, delle abitudini di vita e degli ideali
originali della band.
Tim Rice sostenne che Elaine Paige fosse rimasta «ferita» dal fatto che
Liza Minnelli era stata invitata al posto suo. Molti, inoltre, rimasero sorpresi
dall’assenza dell’elemento omosessuale – Boy George, Holly Johnson,
Jimmy Somerville, Leee Johns – per commemorare anche quell’aspetto della
vita di Freddie. In mezzo a quegli artisti, inoltre, Pavarotti, Carreras e
Domingo che cantavano le arie classiche preferite di Freddie sarebbero
apparsi molto fuori luogo. Montserrat Caballé era impegnata con
l’inaugurazione dell’Expo di Siviglia, che ebbe luogo in contemporanea al
tributo. La soprano avrebbe voluto partecipare con un collegamento via
satellite, ma alla fine non si poté fare perché il tributo stesso era trasmesso in
mondovisione, in diretta. Nemmeno Elizabeth Taylor, la leggenda di
Hollywood e grande attivista contro l’AIDS, con il suo commovente
messaggio al pubblico poté compensare per l’assenza della Stupenda.
George Michael, che rubò la scena con Somebody to Love, echeggiando il
trionfo dei Queen al Live Aid sette anni prima, dichiarò di avere realizzato
un sogno che coltivava fin da bambino.
«Quando penso a Freddie, ricordo tutto ciò che mi ha dato in termini di
tecnica», dice. «Cantare le sue canzoni, specialmente Somebody to Love, ti
dà una sensazione pazzesca. Probabilmente è stato il momento più stupendo
di tutta la mia carriera.»
«George Michael fu magnifico in quel concerto», dichiara Paterno con
entusiasmo. «Pensai – e sono certo che lo pensarono in tanti – che
avrebbero dovuto prenderlo in considerazione come sostituto per Freddie.
Anche se credo che in ultima analisi nessuno potrà mai prendere il suo
posto.»
Edney, che diede il suo contributo alle tastiere con Moran, si disse
rattristato per le reazioni dei media dopo il concerto. Molti critici infatti
attaccarono i partecipanti per non essere stati all’altezza di Freddie,
dimenticandosi che pochi cantanti nella storia del rock hanno avuto il dono
di un’estensione vocale come quella di Freddie Mercury.
«Non è giusto dire che nessuno di quei grandi artisti riuscì a cantare
quelle canzoni come Freddie», rimugina Edney. «Ma so che molti sentivano
il peso della sua ombra. Certo, questo [a Freddie] sarebbe sicuramente
piaciuto. Si sarebbe divertito a vederli soffrire. Oltre ad apprezzare il
concerto per quel che era – un grande tributo – gli sarebbe piaciuto vedere
le sofferenze a cui quei cantanti si erano sottoposti per raggiungere le sue
tonalità!»
Secondo Edney, la festa che si tenne al termine del concerto riassunse
bene l’esperienza dei partecipanti. «Al piano di sopra, vidi Roger appoggiato
al muro con lo sguardo perso nel vuoto. Poi vidi Brian poco più in là, con lo
stesso sguardo. Mi avvicinai. ‘Come vi sentite?’ dissi. ‘Non riesco a sentire
niente’, mi rispose uno di loro. Nessuno si ricordava nulla del concerto. Non
potevi assimilare tutto. Quando finì, pensarono: Oddio, ma cosa abbiamo
fatto nell’ultimo mese? E cosa facciamo ora?»
La macchina della raccolta fondi si mise in moto. Nel 1992 fu fondato il
Mercury Phoenix Trust, per gestire i proventi del concerto e di altre
iniziative, con la fenice-simbolo dei Queen come emblema. Ancora oggi la
fondazione continua a raccogliere fondi per la lotta all’AIDS in tutto il
mondo.
George Michael, Lisa Stansfield e i Queen cedettero i diritti d’autore del
minialbum «Five Live» al Mercury Phoenix Trust. Nell’aprile del 2002, la
fondazione ricevette un ulteriore incentivo quando il concerto fu distribuito
in DVD in occasione del suo decimo anniversario, entrando nella classifica
inglese direttamente al primo posto. Oggi, a vent’anni di distanza, la
fondazione continua a raccogliere proventi.

Non c’è dubbio che Jim abbia deciso di scrivere la sua biografia con
l’intenzione di offrire un tributo personale al suo amato. L’opera fu però
compromessa da un coautore che si concentrò sugli aspetti più
sensazionalistici della loro relazione, oltre che sui dettagli personali degli
ultimi giorni di vita di Freddie.
Di conseguenza Jim fu emarginato dall’entourage dei Queen, una
reazione che lo lasciò sconcertato e confuso: fu dovuta certo al fatto che gli
amici, il management e i famigliari di Freddie erano ancora addolorati per
la scomparsa. Questi non sopportarono che i particolari intimi della morte di
Freddie fossero stati dati in pasto al pubblico.
Durante il tempo trascorso con Jim nel pittoresco County Carlow, nel
sudest dell’Irlanda, dove viveva in un accogliente bungalow costruito con il
lascito di Freddie, cinquecentomila sterline, non ebbi alcun dubbio che il
suo amore fosse genuino. Jim era un uomo caloroso, umile e corretto. Mi
disse che era eternamente grato per avere potuto sperimentare la vita da
superstar tramite Freddie. Nel suo giardino mi mostrò orgoglioso le sue rose
lilla «Blue Moon», che Freddie adorava.
Date le sue origini cattoliche e il fatto che la madre era ancora in vita
quando la pubblicò, Jim fu molto coraggioso a scrivere la sua biografia.
«Ne parlai con la mia famiglia», mi disse. «In un certo senso cercai il loro
assenso, ma mi ero preoccupato per niente. Mi dissero semplicemente che
loro per me ci sarebbero sempre stati e finì lì.»
Jim sapeva che Freddie aveva affrontato un dilemma più grande a causa
della religione dei genitori.
«Ma Freddie non era uno zoroastriano praticante», riflette. «Siccome i
genitori lo fecero cremare, le persone presunsero che fosse praticante. Ma in
tutti gli anni che passai con lui non lo vidi mai praticare. Non sapevo nulla
della religione della sua famiglia, non ne parlavamo mai, ma ricordo che a
volte la notte lo sentivo pregare. In che lingua? In inglese. Chi pregava? Non
lo so. A volte gli chiedevo con chi parlasse e lui mi rispondeva con un
sussurro: ‘Sto solo dicendo le mie preghiere’.»

Gli uffici dei Queen in Pembridge Road chiusero dopo la morte di


Freddie, così come i Mountain Studios, quando David Richards smantellò le
sue attrezzature e si trasferì nelle Alpi sopra Montreux. L’entrata coperta di
graffiti (e i fantasmi dello studio) sono tutto ciò che resta. Ma tutti quelli
che presumevano che la storia dei Queen sarebbe terminata amaramente
con la morte del cantante, si sbagliavano. «Made in Heaven», il
quindicesimo album in studio della band debuttò al numero uno nel 1995,
quattro anni dopo la morte di Freddie. Si stima che abbia venduto venti
milioni di copie in tutto il mondo. È una raccolta impeccabile, fatta con
diligenza e dedizione. Piena di vitalità e mortalità è sia un requiem sia una
vetrina per la diva che c’era in Freddie. Un brano particolarmente
significativo, a mio avviso, è Mother Love. Su musiche di Brian, la voce
struggente di Freddie ci riporta come in un flashback a una sequenza di
incandescenti esibizioni dal vivo, a un riff di chitarra di A Kind of Magic e a
un frammento di Goin’ Back, il brano di «Larry Lurex» dei giorni della
Trident. «I think I’m going back / to the things I learnt so well / in my
youth» («Mi sa che ritorno / alle cose che ho imparato così bene / in
gioventù»). Il pianto di un neonato, che di certo simboleggia la morte oltre
che la rinascita del cantante, conclude in modo spettrale il brano.
L’altro mio pezzo preferito di quell’album è A Winter’s Tale, il canto del
cigno di Freddie, scritto e composto nell’appartamento di Montreux che si
affacciava sull’amato lago. Il testo, che descrive quel che Freddie vedeva
dalla finestra, celebra la pace e l’appagamento che trovò verso la fine. Il
titolo, forse un omaggio alla commedia romantica di Shakespeare Il racconto
d’inverno, rivela qualcosa sulle prime fonti di ispirazione di Freddie. Uno
dei protagonisti della commedia shakespeariana è Polissene, re di Boemia.
Come tale, potrebbe avere ispirato Bohemian Rhapsody. Se, come
presumono molti studiosi del Bardo, la commedia era un’allegoria sulla fine
di Anna Bolena, allora il suo personaggio Perdita era basato sulla figlia di
Anna ed Enrico VIII, la futura Elisabetta I, regina d’Inghilterra... L’ultimo
lavoro di Freddie sarebbe quindi legato alla prima grande hit della band?
Non è impossibile.
Ci sono molti monumenti commemorativi, fra cui la statua di Freddie a
opera di Irena Sedlecka eretta a Montreux in riva al lago. Fu svelata da
Montserrat Caballé il 25 novembre 1996, nel quinto anniversario della
morte. La cerimonia fu aperta dal sindaco di Montreux, di fronte ai genitori
e alla sorella di Freddie, al fondatore del Montreux Jazz Festival Claude
Nobs, a Brian e a Roger. Il monumento è oggi uno dei più frequentati in
Svizzera ed è anche diventato il centro dei pellegrinaggi annuali dei fan che
si radunano per festeggiare il compleanno del loro idolo.
«Inaugurare la statua fu uno dei momenti più difficili della mia vita»,
dichiarò Brian a Q nel 2011. «Ovviamente era un tributo bellissimo e la
cerimonia fu davvero commovente, ma all’improvviso mi sentii pieno di
rabbia. Pensai: Questo è tutto quel che resta del mio amico e tutti credono
che sia normale e favoloso, ma in realtà è orribile che io sia qui a guardare
un pezzo di bronzo plasmato a immagine e somiglianza del mio amico che
non c’è più.»
Uno speciale «balletto per la vita», Le Presbytère n’a rien perdu de son
charme ni le jardin de son éclat («Il presbiterio non ha perduto il suo
fascino, né il giardino il suo splendore»), fu creato cinque anni dopo la
morte di Freddie dal coreografo Maurice Bejart del Bejart Ballet di
Losanna, per celebrare la vita di Freddie e quella del primo ballerino della
compagnia, Jorge Donn. Il balletto mette in scena musiche dei Queen e di
Mozart e si apre con It’s a Beautiful Day, la prima canzone di «Made in
Heaven» e si conclude con The Show Must Go On, l’ultima traccia di
«Innuendo». Debuttò al Theatre de Chaillot di Parigi nel gennaio del 1997,
in presenza di madame Chirac (moglie dell’allora presidente francese) con
la partecipazione di Elton John, Brian, Roger e John. Fu l’ultima occasione
in cui il bassista si esibì con i compagni. Dopo la morte di Freddie, infatti,
Deacon era caduto in depressione. Aveva perso il padre a soli undici anni e
quindi la morte dell’amico aveva risvegliato in lui ricordi ed emozioni
irrisolte. A un certo punto iniziò a frequentare un club di lap-dance e a
uscire con una ballerina venticinquenne: le regalò un appartamento,
un’automobile e altre cose costose. Quella relazione sconsiderata fallì,
dopodiché, comprensibilmente, John volle ritirarsi con la moglie e la
famiglia. Lasciò la band ufficialmente nel 1997.
«Adesso fa una vita molto appartata», commentò Brian. «Comunica via
e-mail quando ci sono questioni di affari, ma questo è tutto.»
Brian e Roger, invece, non erano affatto pronti a ritirarsi dalle scene e
sapevano che a tempo debito sarebbe saltata fuori l’occasione giusta.
Nel giugno del 2002, Brian suonò God Save the Queen sul tetto della
residenza reale di Londra (in memoria, disse, di Jimi Hendrix), per aprire il
«Party at the Palace», un concerto voluto per commemorare il giubileo d’oro
di Sua maestà la regina Elisabetta II. Nel 2004, collaborò per la prima volta
con Paul Rodgers, l’ex frontman dei Free e dei Bad Company, al concerto
Fender Strat Pack. Entusiasta per la sintonia che si creò con il cantante, lo
persuase a suonare con i Queen per celebrare l’entrata della band nella
Music Hall of Fame britannica. Poi nel 2005 Brian, Roger e Paul
annunciarono un tour mondiale come «Q + PR», un nome scelto per
sottolineare che il cantante non sostituiva Freddie, ma faceva parte di un
progetto diverso, una sorta di variazione sul tema. La band si esibì in Sud
Africa per la campagna di sensibilizzazione sull’AIDS 46664 di Nelson
Mandela, dopodiché continuò la tournée con Edney alle tastiere
inanellando ventitré date in Nord America. Due anni dopo, i Q + PR si
esibirono all’Hyde Park per il novantesimo compleanno di Nelson Mandela,
degno epilogo delle polemiche legate al loro primo concerto in Sud Africa.
Poi partirono per una grande tournée europea. Mentre questo libro va in
stampa la collaborazione è sospesa, ma tutti gli interessati sostengono che
rimane aperta e si dedicano a progetti solisti, in particolare Brian, che nel
2011 ha prodotto il primo album della star del musical anglosassone Kerry
Ellis, intitolato «Anthems».
Per il diciottesimo anniversario della morte di Freddie, il 24 novembre
del 2009, circa duemila fan di tutto il mondo si riunirono nel centro di
Feltham per assistere all’inaugurazione di una lapide commemorativa in
stile stella hollywoodiana, da parte di Brian e della madre del cantante. È la
prima targa nel Regno Unito che celebra il frontman dei Queen (se si
esclude l’enorme manichino che capeggia sopra il Dominion Theatre, dove
va in scena il musical We Will Rock You).
«Feltham è stata la sua prima residenza in Inghilterra quando siamo
arrivati da Zanzibar ed è il posto in cui ha cominciato a esplorare il suo
futuro da musicista», dice la ottantasettenne Jer Bulsara.
«Freddie, abbiamo seguito il tuo sogno, il nostro sogno. Ti amiamo e ti
ameremo per sempre», disse Brian. «Siamo felicissimi di onorarti in questo
modo.»
Stormtroopers in Stilettos (titolo che replica in maniera quasi identica un
brano tratto dal terzo album dei Queen, «Sheer Heart Attack») è invece una
mostra itinerante che ripercorre in chiave nostalgica i primi anni della band.
È stata inaugurata nel 2011 per celebrare il quarantesimo anniversario dei
Queen, un anno di festeggiamenti che ha visto anche la firma di un nuovo
contratto discografico con la Island Records.
Verso la fine del 2010, Graham King annunciò di voler girare un
lungometraggio sulla vita di Freddie. Il film è coprodotto dalla TriBeca
Films di Robert De Niro e dalla Queen Films. Il ruolo di Freddie è
interpretato da Sacha Baron Cohen, la stella di Borat e Brüno, su
sceneggiatura di Peter Morgan, autore di molte pellicole di successo tra cui
The Queen, Frost/Nixon e L’ultimo re di Scozia.
«Freddie Mercury era un interprete che ispirava meraviglia e
soggezione», commenta King, «quindi con Sacha nel ruolo principale, il
copione di Peter e il sostegno dei Queen, abbiamo la formula perfetta per
raccontare la vera storia del loro successo.»
La sceneggiatura di Morgan parte dai primi anni Ottanta, quando i
Queen sono crollati in America e appaiono oramai in declino, ma vengono
«salvati» dalla grande esibizione del Live Aid e dalla successiva tournée
mondiale. Il ritrovato successo, però, è rovinato dalla malattia di Freddie...
Al momento in cui questo libro è andato in stampa non è stata annunciata
alcuna data di produzione o uscita del film.
Dopo la scomparsa di Freddie, la reputazione e il successo dei Queen
hanno continuato a crescere, in parte grazie anche al trionfo del musical We
Will Rock You. Ambientato in un universo parallelo in cui il rock è vietato e
dove i Bohemian, una banda di ribelli amanti della musica, attendono
l’arrivo di un eroe, il musical è stato scritto dal comico Ben Elton sulla
musica dei grandi successi dei Queen. Dalla première londinese (al
Dominion Theatre di Tottenham Court Road) nel 2002 a oggi, la
produzione ha sempre registrato il tutto esaurito, ogni sera, e non mostra
segni di cedimento. Sono state prodotte ventisette versioni diverse in
altrettanti Paesi, ha vinto l’Olivier Audience Award di BBC Radio 2 nel
marzo 2011, e nel 2013 diventerà anche un film.
Ma il musical potrebbe non essere per tutti i palati. In effetti, alcuni
hanno accusato Brian e Roger di essersi «venduti». A chi importa? Non ai
Queen. La grande popolarità dello spettacolo parla per sé.
Secondo Gambaccini: «Il ruolo fondamentale di We Will Rock You è
stato di portare la musica dei Queen a milioni di giovani che non erano
ancora nati quando Freddie era in vita e quando la band originale si esibiva
dal vivo».
Come si sarebbe sentito Freddie se avesse saputo che la sua band sarebbe
diventata ancor più famosa dopo la sua morte?
«Sarebbe stato contentissimo», afferma Gambaccini. «Gli sarebbe piaciuto
moltissimo. [Freddie] oggi è più grande di Liza Minnelli: ti immagini che
emozione, che gioia, avrebbe provato? Amava le dive; le adorava. Liza,
Montserrat… le venerava. Sarebbe stato elettrizzato se avesse saputo quanto
sarebbe stato stimato. Voglio dire, oggi molti giovani mi chiedono l’amicizia
su Facebook perché sanno che ho conosciuto Freddie. Peter Freestone è un
idolo di quel gruppo. È una carriera in tutto e per tutto. Si travestono,
organizzano tributi, fanno il ‘Freddie for a Day’ [un evento in cui i fan di
tutto il mondo si vestono come il loro idolo il giorno del suo compleanno,
per raccogliere fondi per il Mercury Phoenix Trust ], di tutto. È affascinante.
Nessuno di loro era ancora nato, o era interessato, quando Freddie era in
attività. La loro è una reazione al Freddie Mercury storicizzato, non
all’uomo che avrebbero potuto conoscere di persona.»

Chi l’ha conosciuto, oggi prosegue quella che non sarà mai un’esistenza
normale. Oggi John Deacon, dopo avere archiviato gli anni di follie dei
Queen nei recessi della propria mente inquieta, è un tranquillo padre di
famiglia. Brian, nominato «comandante dell’ordine dell’impero britannico»
per i servizi resi all’industria discografica, dedica il tempo alla seconda
moglie Anita, ai tre figli oramai grandi, all’astronomia e alla protezione delle
volpi. Dopo Debbie, Roger si è risposato con la giovane Sarina, sua fidanzata
da sei anni: ha cinque figli in totale. Come per Brian, anche per lui la
musica rimane una priorità.
Potrà sembrare incredibile, ma nel Regno Unito i Queen hanno superato
i Beatles per successi in classifica. Nel 2006 il loro «Greatest Hits» è
diventato l’album più venduto nel Paese, con quasi cinque milioni e mezzo
di copie vendute. «Greatest Hits II» si è piazzato al settimo posto, con oltre
tre milioni e mezzo di copie vendute. I Queen hanno prodotto un totale di
diciotto album andati al numero uno in classifica, diciotto singoli numeri
uno e dieci DVD numeri uno nel mondo, e questo li rende la band che ha
venduto più dischi in assoluto. Si stima che le vendite totali sfiorino i
trecento milioni di sterline, di cui trentadue milioni e mezzo solo negli USA.
I Queen sono anche l’unico gruppo in cui ogni membro ha composto una
numero uno. We Will Rock You è stata adottata come inno sia dai New
York Yankees sia dal Manchester United. We Are the Champions resta il
brano più suonato di tutti i tempi, intonato da milioni di tifosi in tutto il
mondo. Freddie stesso lo descrisse come «il pezzo più egoistico e arrogante
che abbia mai scritto».
«Sento che Freddie è ancora qui, per certi versi, perché la sua musica c’è
ancora», afferma Kashmira. «Era mio fratello, ma anche una megastar. Non
so cosa significhi avere un fratello normale, perché il mio era davvero
straordinario.»

«Freddie era il mio migliore amico», confessò Roger in un momento di


franchezza. «Non ho mai superato la sua morte. Nessuno di noi lo ha fatto.
Tutti pensavamo che ce l’avremmo fatta nel giro di qualche anno, ma
avevamo sottovalutato l’impatto che Freddie aveva avuto sulle nostre vite.
Mi fa ancora male parlarne. Il nostro presente – e il nostro futuro – senza
Freddie è impossibile da immaginare. Devo affrontarlo giorno per giorno.»
Il Freddie che manca a Roger è l’anima che si celava dietro la superstar,
l’essere profondamente umano che si innamorò di un sogno. Forse deluse
qualcuno, ma fece la gioia di milioni. Le cose dovevano essere fatte a modo
suo. Non offriva scuse e quindi non si aspettava solidarietà. Forse a volte si
sentì intrappolato dalle sue stesse contraddizioni, ma furono proprio le sue
canzoni a liberarlo.
Al pagliaccio triste che ha riso per ultimo... e a Brian e Roger, che vanno
avanti, in sua memoria. Qualcuno può accusarli di non avere tenuto viva la
scintilla? Io no di certo.
Ringraziamenti

GRAZIE , con amore:

Ad Hannah Black, la mia bravissima editor, per i suoi consigli e per la


passione che dedica al suo lavoro.
Anche a Camilla Dowse, Kate Miles, Alice Howe, Kerry Hood, Bea
Long, Jason Bartholomew e a tutti i collaboratori della Hodder & Stoughton
che si sono dedicati alla causa con impegno; la loro esuberanza e la loro
determinazione a raggiungere i traguardi sono state un vero piacere.
A Ivan Mulcahy, il mio fantastico agente, per il suo incoraggiamento
costante, la sua amicizia e il suo sostegno. Anche a Laetitia Rutherford,
Stephanie Cohen e Jonathan Conway della Mulcahy Conway Associates; è
un privilegio conoscere persone così positive e lavorarci insieme.
A Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon per la
musica che entusiasma i miei figli tanto quanto ha entusiasmato me.
Ai molti amici, colleghi e collaboratori generosi, oltre che alle figure
chiave della vita di Freddie Mercury, che hanno aperto i loro cuori e il loro
libro dei ricordi per me, e che mi hanno aiutato a creare questo libro in un
modo o nell’altro, la maggior parte dei quali (spero) sono ricordati in questo
elenco:
Tim Rice, Steve Harley, Phil Swern, Andy Hill, Jim Diamond, Steve
Levine, Mick Rock, Dan Arthure, Jonathan Morrish, Leee John, Frank
Allen, David Wigg, Clare Bramley, Francis Rossi, Dave Hogan, Nigel Angel,
Bob Lefsetz, Peter Paterno, James Saez, Eddie Delena, Reinhold Mack, Rick
Wakeman, Ben Wakeman, John Waite, Elton John, Jamesie, Kim Wilde,
Nick Boyles, Chris Hewlett, Henry Semmence, Alan Edwards, James Nisbet,
Scott Millaney, Simon Napier-Bell, Richard Hughes, Robert Lee, Gray
Jolliffe, David Hamilton, David «Kid» Jensen, Paul Gambaccini, Spike
Edney, David Stark, John Fleming, Jeff Griffin, James Khalaf, Nick
Fitzherbert, Paula Fitzherbert, Louis Souyave, Tony Hadley, Carolyn
Cowan, Bernard Doherty, Tony Bramwell, Harvey Goldsmith, Pete Smith,
Peter Freestone, Mike Read, Michael Appleton, Bob Geldof, Fiz
Shapur,Andrew MacGillivray, Lindsay Martins, Jude Martins, Alicia
Martins, Daniel Martins, Jeremy Norman, David Thorpe, Rolf Harris, Denis
O’Regan, Peter Hillmore, Edmund Preston, David Quantick, Phil Symes,
Jerry Hibbert, Chris Poole, Shernaz Screwaller, Michael Anastasios,
Dominic Denny, Jim Jenkins, Gerd Kochlin, Nick Elgar, Stuart White,
David Syner, Toby Rose, Sandy Evans, Bonzo Fernandez, Perviz
Darunkhanawala, Diana Darunkhanawala, Nancy Galloway, Nasser K.
Awadh, professor Abdul Sheriff, Hamari Omar, Kevin Patience, Sheroo
Khory, Morris W. Innis, Cyrus Ghandy, Janet Smith, Gita Choksi, il signore
e la signora Davis, Marcela Delorenzi, Hollow Skai, Tomas Petterson, Paul
Davies, Saskia Campbell, Annabel Lord, Frank Warren, Laura Morris, John
McFaul, Stephen Kahn, Mike Stone, Michael Charidemou, Anthony Lee,
Linda Plant, Rita Rowe, Robert Kirby, Chris Griffin, Wendy Reid, Phil
Mackney, Jessica Mackney, Rachel Tarnoy, Dominic Collier, Alison Miller,
Claire Weeks, Lia Policane, Sharron Nasir, Pauline Thomson, Julie Ives-
Routleff, Karen French, Bill e Rachel Leigh, Maureen e Ghee Ong, Jan
Moore, Jane Stone.
Il professore Edward G. Hughes della McMaster University, Hamilton,
Ontario.
Il dottor Cosmo Hallstrom, Londra.
Bernie Katz, June Cluskey, Kent Olesen, Matthew Hobbs, Vincent
McGrath e amici, il Groucho Club.
Bob, Jim, Nick e Dave, Right Turn Left R.I.P.
Kelvin Mackenzie, Rod Gilchrist, Lynda Lee-Potter, Nigel Dempster, Bob
Hill, Nick Gordon, John Koski, John Chenery, Herbert Kretzmer, Jack
Tinker, Baz Bambigoye, Sean Usher, Pat Hill, Anne Barraclough, Steve
Absolom, Geoff Sutton, Roger Tavener, Richard Young, Alan Davidson,
Alan Grisbrook, Dave Benett, Geoff Baker, Annette Witheridge, Gill
Pringle, Rick Sky, Martin Dunn, Nick Ferrari, David Wigg, John Blake,
Piers Morgan, Hugh Whittow, Adam Helliker, Martin Townsend, Lisa
Clark, Rachel Jane, Stephen Rigley, Clair Woodward, Amy Packer: gli anni
di Fleet Street.
Un ringraziamento speciale a Dave Hogan e David Stark. Sono in debito
con Roger Tavener per i suoi appunti e ricordi della nostra notte con
Freddie Mercury a Montreux. Un grazie sentito a Jim Beach, Phil Symes,
alla madre di Freddie, Jer Bulsara e alla sorella Kashmira Cooke.

Christopher Millard ed Elizabeth Bell, la Royal Opera House.


Imperial College, Londra
Ealing College of Art, Londra
University of Westminster, Londra
Trident Studios, Londra
De Lane Lea Studios, Londra
I Like Music, Londra
Associated Newspapers, Londra
News International, Londra
Trinity Mirror PLC, Londra
British Library Newspapers, Colindale, Londra
The Groucho Club, Londra
Soho House, High Road House & Shoreditch House, Londra
Babington House, Somerset
Zanzibar Museums, Zanzibar
University of Dar es Salaam, Tanzania
St Peter’s School, Panchgani, India
Norbert Muller & Montreux Music, Switzerland
www.montreuxmusic.com
Billboard USA www.billboard.com
Record Plant Studios, Los Angeles
Hollywood Records / The Walt Disney Company, Los Angeles
Soho House, West Hollywood
New York Daily News
Soho House, New York

The Mercury Phoenix Trust


www.mercuryphoenixtrust.com

46664 Nelson Mandela HIV/AIDS Awareness Campaign


www.46664.com
Child Hope
www.childhope.org.uk

UK National AIDS Trust


www.nat.org.uk

Bone Cancer Research Trust


www.bcrt.org.uk

Sito ufficiale dei Queen


www.queenonline.com

Sito ufficiale di Freddie Mercury


www.loveroflifesingerofsongs.com

Freddie For a Day Global Charity Network


www.freddieforaday.com

Sito ufficiale degli Who


www.thewho.com

www.lesleyannjones.com
e-mail: laj@lesleyannjones.com

In memoriam:

Rose Allocca, Poly Styrene, Peter Batt, Gerry Sanderson, John Entwistle,
Roger Scott, Kenny Everett, Ginny Comely, Barbara Valentin, Pat Stead,
Giles Gordon,Tony Brainsby,Tommy Vance, Jim Hutton, Liam McCoy,
John Sutton, Lester Middlehurst, Sir Henry Cooper.

Qualsiasi omissione è involontaria. Sono sinceramente grata a tutte le


persone coinvolte in questo progetto per il loro inestimabile aiuto. Nessuna
delle persone citate sopra è responsabile per le mie opinioni personali
espresse in questo libro.
Cronologia

5 settembre
Farrokh Bulsara nasce a Zanzibar.
1946
1951 Viene iscritto alla Zanzibar Missionary School.
Farrokh in collegio alla St Peter’s School, Panchgani, India.
1955-1963 Cambia nome in Freddie. Crea la sua prima band, gli
Hectics.
Freddie torna a Zanzibar e completa gli studi alla St Joseph’s
1963
Convent School.
Rivoluzione di Zanzibar, a gennaio. Freddie e famiglia si
1964
rifugiano nel Regno Unito.
1964-1966 Freddie studia arte alla Isleworth Polytechnic School.
Freddie si iscrive all’Ealing College of Art nel corso di
1966 grafica e illustrazione. Va a vivere da solo e incontra Tim
Staffell, che suona in un gruppo con Brian May.
Freddie si diploma all’Ealing College of Art; allestisce un
banchetto al mercato di Kensington con Roger Taylor;
1969
incontra le band Smile e Ibex; lancia il suo secondo gruppo,
i Wreckage; incontra Mary Austin.
Brian, Roger e Freddie si uniscono e formano i Queen.
Aprile 1970
Freddie cambia il cognome in Mercury.
1970 Jimi Hendrix, idolo di Freddie, muore il 18 settembre.
Febbraio 1971 Il bassista John Deacon si unisce ai Queen.
1972 I Queen sono scritturati dalla Trident.
I Queen firmano un contratto discografico con la EMI e
debuttano con il singolo Keep Yourself Alive, e l’album
1973
«Queen» a luglio. Girano il Regno Unito in tournée come
spalla dei Mott the Hoople. Nasce il primo fan club ufficiale.
Escono il singolo Seven Seas of Rhye e l’album «Queen II», a
marzo. La band intraprende la prima tournée nel Regno
Unito e fa da supporto ai Mott the Hoople negli USA, ad
1974
aprile. Escono il singolo Killer Queen e l’album «Sheer Heart
Attack», in ottobre e novembre. Entrambi entrano nella Top
Ten negli USA.
Primo tour negli USA e in Giappone. Freddie vince un
premio Ivor Novello come autore di Killer Queen. I Queen
rescindono il contratto con la Trident. Il manager di Elton
John, John Reid, diventa il manager dei Queen. Bohemian
1975
Rhapsody esce il 31 ottobre. «A Night at the Opera» esce a
novembre. Bohemian Rhapsody è la prima numero uno nel
Regno Unito della band, a novembre, e procura a Freddie
un altro Ivor Novello.
Secondo tour negli USA. Tutti e quattro gli album fra i
primi venti in classifica nel Regno Unito. Tour in Giappone
1976 e in Australia. Grande concerto gratuito a Hyde Park,
Londra, il 18 settembre. Esce «A Day at the Races» in
dicembre.
Tour mondiale. Esce We Are the Champions, ottobre.
Bohemian Rhapsody vince un Britannia Award. Esce «News
of the World». L’avvocato Jim Beach negozia la cessazione
1977
del contratto con John Reid e assume il controllo delle
questioni legali della band. I Queen creano una squadra di
management personale, che comprende Paul Prenter.
Tour europeo. A ottobre la band festeggia l’uscita di «Jazz»
1978 con una festa trasgressiva la notte di Halloween a New
Orleans.
I Queen iniziano a registrare ai Musicland Studios di
Monaco. A giugno esce «Live Killers». Freddie partecipa a
1979 un galà di beneficenza con il Royal Ballet al London
Coliseum. Incontra Peter Freestone, suo futuro assistente
personale.
Crazy Little Thing Called Love al numero uno in diversi
Paesi fra cui per la prima volta gli USA. Freddie acquista
Garden Lodge, sontuosa dimora londinese. I Queen
iniziano un epico tour negli USA. A giugno esce «The
1980 Game» che diventa il primo album numero uno negli USA
per la band. Another One Bites the Dust al primo posto negli
USA e in diversi altri Paesi. Due nomination ai Grammy
Awards. I Queen entrano nel Guinness dei primati. Esce
l’album «Flash Gordon».
Tour in Sud America. Freddie celebra il compleanno con
1981 una festa di cinque giorni a New York. A novembre esce la
raccolta «Greatest Hits».
I Queen firmano un nuovo contratto con la EMI per altri sei
album. A maggio esce «Hot Space». Under Pressure, il
1982 singolo con David Bowie, raggiunge il primo posto. Tour
americano in cui la band riceve le chiavi della città di
Boston.
Freddie incontra Winnie Kirchberger e Barbara Valentin a
1983 Monaco, e Jim Hutton a Londra. Inizia a incidere il suo
primo album solista a Monaco.
A febbraio esce «The Works». I Queen ricevono un Brit
Award per il loro «eccezionale contributo alla musica
britannica». Spike Edney si unisce alla band come tastierista
1984
durante le tournée. Controversa esibizione a Sun City in
Sud Africa che provoca l’espulsione della band dalla
Musicians’ Union.
A gennaio i Queen aprono il festival Rock in Rio, poi
partono per una tournée in Nuova Zelanda, Australia e
1985
Giappone. Rubano la scena al Live Aid, a Wembley. Freddie
lascia Monaco per sempre e torna a Londra.
Magic Tour in Europa. A giugno esce l’album «A Kind of
Magic», colonna sonora del film Highlander. Freddie si ritira
1986
dalle scene per mettere su casa a Garden Lodge con Jim
Hutton, Peter Freestone e Joe Fanelli.
A febbraio Freddie pubblica la cover di The Great Pretender.
Il mese successivo incontra Montserrat Caballé a Barcellona
per discutere di una possibile collaborazione. Il suo ex
1987 manager personale Paul Prenter lo tradisce rivelando la sua
condizione di salute alla stampa. A ottobre Freddie si
esibisce al La Nit Festival, a Barcellona, davanti ai reali di
Spagna. Lo stesso mese esce l’album con Montserrat
Caballé, «Barcelona».
A maggio esce «The Miracle». I Queen sono votati «la band
1989
degli anni Ottanta».
I Queen ricevono un Brit Award per il loro «eccezionale
1990
contributo alla musica britannica».
Il singolo Innuendo diventa la prima numero uno della
1991 band in dieci anni. L’album omonimo esce a febbraio. I
Queen iniziano a incidere «Made in Heaven».
Freddie Mercury muore. Bohemian Rhapsody esce come
singolo di Natale, raccogliendo oltre un milione di sterline
24 novembre per il Terrence Higgins Trust. Esce anche negli Stati Uniti
1991 dove i proventi vengono devoluti a diverse organizzazioni
che si occupano della lotta all’AIDS tramite la Magic
Johnson Foundation.
Mercury Tribute, megaconcerto a Wembley, lunedì di
1992 Pasqua. Viene fondato il Mercury Phoenix Trust per la lotta
all’AIDS.
Jim Hutton pubblica un libro di memorie dove racconta
1994
della sua vita insieme con Freddie.
1995 Esce «Made in Heaven» che debutta al primo posto.
Inaugurata a Montreux la statua di Freddie di Irena
1996
Sedlecka.
Le Presbytère: Ballet for Life in onore di Freddie debutta a
1997 Parigi, con musiche dal vivo dei Queen. John Deacon lascia
la band.
Brian suona God Save the Queen sul tetto di Buckingham
Palace per il giubileo d’oro della regina Elisabetta II. Il
2002
musical We Will Rock You debutta al Dominion Theatre di
Londra e verrà poi replicato in ventisette Paesi.
Brian si esibisce al Fender Strat Pack, dove incontra
2004 nuovamente Paul Rodgers, cantante dei Free e dei Bad
Company.

Brian, Roger e Paul Rodgers annunciano un tour mondiale


come «Q + PR». La band si esibisce anche al concerto
sudafricano per la campagna contro l’AIDS di Nelson
2005
Mandela. Brian viene nominato «comandante dell’ordine
dell’impero britannico» per servizi resi all’industria
discografica.
I Q + PR iniziano un tour di ventitré date in Nord America.
«Greatest Hits» diventa l’album più venduto nel Regno
2006 Unito, superando «Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band»
dei Beatles. Si stima che le vendite totali siano intorno ai
trecento milioni di copie.
I Q + PR si esibiscono a Hyde Park per il novantesimo
2008
compleanno di Nelson Mandela.
Targa commemorativa per Freddie inaugurata dalla madre
2009
a Feltham di fronte a duemila fan.
Quarantesimo anniversario dei Queen. Inaugurata a Londra
la mostra itinerante Stormtroopers in Stilettos. Nuovo
contratto discografico con la Island Records. A marzo
escono tutti e cinque i primi album della band, in versione
2011
rimasterizzata ed estesa. A giugno seguono i successivi
cinque e poi altrettanti a settembre, in occasione di quello
che sarebbe stato il sessantacinquesimo compleanno di
Freddie.
Discografia

Nel 2011 è uscita una versione rimasterizzata ed estesa di tutti e quindici gli album in studio dei
Queen. Ulteriori informazioni sul sito www.queenonline.com

ALBUM DEI QUEEN

Le date fra parentesi si riferiscono all’uscita negli USA, se nota.

«Queen» 13 luglio 1973 (4 settembre 1973)


«Queen II» 8 marzo 1974 (9 aprile 1974)
«Sheer Heart Attack» 8 novembre 1974 (12 novembre 1974)
«A Night at the
21 novembre 1975 (2 dicembre 1975)
Opera»
«A Day at the Races» 10 dicembre 1976 (18 dicembre 1976)
«News of the World» 28 ottobre 1977 (1° novembre 1977)
«Jazz» 10 novembre 1978 (14 novembre 1978)
«Live Killers» 22 giugno 1979 (26 giugno 1979)
«The Game» 30 giugno 1980 (30 giugno 1980)
«Flash Gordon» 8 dicembre 1980 (27 gennaio 1981)
«Greatest Hits» 2 novembre 1981 (3 novembre 1981)
«Hot Space» 21 maggio 1982 (25 maggio 1982)
«The Works» 27 febbraio 1984 (28 febbraio 1984)
2 dicembre 1985: cofanetto in edizione limitata con
«The Complete tutti gli album precedenti eccetto «Greatest Hits», e
Works» con un album speciale, «Complete Vision», che
raccogli i lati B dei singoli.
«A Kind of Magic» 2 giugno 1986 (3 giugno 1986)
«Live Magic» 1° dicembre 1986
«The Miracle» 22 maggio 1989 (6 giugno 1989)
4 dicembre 1989: ripubblicato nel maggio 1997
«Queen at the Beeb» come album doppio, rimasterizzato e contenente
tutti i brani registrati per la BBC.
«Innuendo» 4 febbraio 1991 (5 febbraio 1991)
«Greatest Hits II» 28 ottobre 1991
«Classic Queen» 3 marzo 1992 (solo USA)
«Live at Wembley ’86» 26 maggio 1992 (2 giugno 1992)
26 maggio 1992. Include «The 12 Collection
«Box of Tricks» Greatest Hits» (con tracce diverse, 15 settembre
1992 solo negli USA)
«Made in Heaven» 6 novembre 1995 (7 novembre 1995)

CONSIGLIATI

«The Platinum Collection: Greatest Hits I, II & III» Novembre 2000


«Absolute Greatest» Novembre 2009
«Deep Cuts, Volume I (73–76)» Marzo 2011
«The Singles Collection Volume I» Dicembre 2008
«The Singles Collection Volume II» Giugno 2009
«The Singles Collection Volume III» Ottobre 2010

ALBUM DI FREDDIE MERCURY

«Mr. Bad Guy» 29 aprile 1985 (7 maggio 1985)

Con Montserrat
10 ottobre 1988 e 10 agosto 1992 (14 luglio 1992)
Caballé: «Barcelona»

«The Freddie 16 novembre 1992 (uscito negli USA come «The


Mercury Album» Great Pretender», 24 novembre 1992)
«Freddie Mercury
in vari stati 1993 (non negli USA)
Remixes»
CONSIGLIATI

23 ottobre
«The Solo Collection Box Set»
2000
Panoramica completa della carriera di Freddie Mercury, fra i cofanetti più
completi della Queen Productions, comprende esclusive bonus track e
remix, pezzi strumentali; le «rarità» ovvero le session «Mr. Bad Guy»,
«Barcelona» e altre, più un’esclusiva intervista con Freddie di David Wigg,
oltre a molte fotografie rare, disegni e scritti di Freddie.

«Lover of Life, Singer of Songs: The Very Best of Freddie 5 settembre


Mercury» 2006
Una doppia compilation per celebrare quello che sarebbe stato il
sessantesimo compleanno della star. Autentica celebrazione di Freddie e
della sua musica. C’è tutto.

SINGOLI

COME LARRY LUREX :

I Can Hear Music 29 giugno 1973


FREDDIE MERCURY :

Love Kills 10 settembre 1984 (11 settembre 1984)


I Was Born to Love You 9 aprile 1985 (23 aprile 1985)
Made in Heaven 1° luglio 1985
Living On My Own 2 settembre 1985 (2 luglio 1985)
Love Me Like There’s No Tomorrow 18 novembre 1985
PER IL MUSICAL TIME :

Time 6 maggio 1986


The Great Pretender 23 febbraio 1987 (3 marzo 1987)

DA «BARCELONA», CON MONTSERRAT CABALLÉ


Barcelona 26 ottobre 1987
The Golden Boy 24 ottobre 1988
How Can I Go On? 23 gennaio 1989

SINGOLI POSTUMI

Barcelona 27 luglio 1992


How Can I Go On? Ottobre 1992
In My Defence 30 novembre 1992
The Great Pretender 5 gennaio 1993 (12 novembre 1992)
Living On My Own 19 luglio 1993
Questa nuova uscita di Living On My Own è il singolo più venduto di
Freddie, primo singolo di un membro dei Queen a raggiungere il primo
posto in classifica, l’8 agosto 1993.

Per ulteriori informazioni su singoli, cofanetti, bootleg, dischi non ufficiali e


album tributo, e Queen + Paul Rodgers e altro, vedi:
http://www.queenpedia.com/index.php?title=Discography
Bibliografia consigliata

BLAKE , MARK , Is This the Real Life? The Untold Story of Queen, Aurum Press Ltd, Londra 2010.
BROOKS , GREG e LUPTON , SIMON (a cura di), Freddie Mercury: parole e pensieri, Mondadori, Milano
2008.
CANN , KEVIN , David Bowie: Gli anni londinesi, Arcana, Roma 2011.
COURAULD , PARI , A Persian Childhood, Rubicon Press, Londra 1990.
DEAN , KEN , Queen: la storia illustrata, Kaos Edizioni, Milano 1992.
E VANS , DAVID e MINNS , DAVID , Freddie Mercury: More of the Real Life, Britannia Press Publishing,
Culver City 1995.
FREESTONE , PETER con E VANS , DAVID , Freddie Mercury: una biografia intima, Arcana, Roma 2009.
GELDOF, BOB , Tutto qui?, Sperling & Kupfer, Milano 1987.
GUNN , JACKY e JENKINS , JIM , Queen: la biografia ufficiale, Arcana, Milano 1993.
HODKINSON , MARK , Queen: the Early Years, Omnibus Press, Londra 1995.
HOGAN , PETER K., The Complete Guide to the Music of Queen, Omnibus Press, Londra 1994.
HUTTON , JIM con WAPSHOTT, TIM , I miei anni con Freddie Mercury, Mondadori, Milano 2000.
KENT, NICK , Apathy for the devil: memorie dagli anni Settanta, Arcana, Roma 2011.
NORMAN , JEREMY , No Make-up: Straight Tales From A Queer Life, Elliot & Thompson Ltd, Londra
2006.
NORMAN , PHILIP , Sir Elton: The Definitive Biography of Elton John, Pan Books, Londra 2002.
O’REGAN , DENIS , Queen: the Full Picture, Bloomsbury, Londra 1995.
PALMER, ROBERT, Dancing In the Street:A Rock and Roll History, BBC Books, Londra 1996.
RIDER, STEPHEN , These Are The Days Of Our Lives, Castle Communications, Londra 1991.
ROCK , MICK , Mick Rock, A Photographic Record 1969-1980, Pinewood Studios, Century 22nd Ltd,
1995.
ST MICHAEL, MICK , Queen: We are the champions, Gammalibri, Milano 1993.
SHERIFF, ABDUL e FERGUSON , E D , Zanzibar Under Colonial Rule, James Currey Ltd, Oxford 1991.
SHILTS , RANDY , And the Band Played On: Politics, People, and the AIDS Epidemic, Penguin Books,
Londra 1987.
SKY , RICK , The Show Must Go On, Fontana Press, Londra 1992.
SMITH, PETE , Live Aid, Penn & Ink Ltd, Vancouver 2012.
SOUTHALL, BRIAN , The Rise and Fall of EMI Records, Omnibus Press, Londra 2009.
Indice analitico

«FM» indica Freddie Mercury.

10cc
19 (rivista)
1984 (band)

A Day in the Life


A Kind of Magic
A Review
A Voyage to Arcturus
A Winter’s Tale
A&M Studios
Abba
Abbey Road (album)
Aerosmith
AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita) vedi anche Kaposi, sarcoma di
AIDS
Air Studios
Alaska (discoteca)
Alkin, Lee Everett
All Right Now
All the Way From Memphis
All the Young Dudes
Allen, Frank
Amburgo
American Idol
American Pie
ANC (African National Congress)
Anderson, Jon
Anello del Nibelungo
Animals
Anon
Another One Bites the Dust
Anthems
Anthony, John
Anvil Club
Appice, Carmine
Apple Records
Appleton, Mike
Arabella-Haus (hotel)
Arden, Don
Arden, Sharon
Armani, Giorgio
Armstrong, Louis
Arnold, Thor
Artists Against Apartheid
Asher, Jane
Ashes to Ashes
Associated Newspapers
Atkinson, Gordon
Austin Knight
Austin, Mary
Austin, Steve
Avesta
Aztec Camera

B. Feldam & Co
Bad
Bad Company
Baez, Joan
BAFTA, premio
Bailey, David
Baker, Ginger
Baker, Roy Thomas
Baldry, Long John «Ada»
Ballet for Life
Bananarama
Band
Band Aid
Barbarella (film)
Barbiere di Siviglia
Barcellona
Barcelona
Barghash, Sayyid
Barišnikov, Mikhail
Barra da Tijuca Rockodromo
Barrett, Syd
Basing Street Studios (poi Sarm West Studios)
Bason, Oswal D.
Bassey, Shirley
Bastin, Tony
Bavaria (ristorante)
Bay City Rollers
BBC
Beach Boys
Beach, Claudia
Beach, Henry James «Jim» «Miami»
Beatles
Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de
Beck, Jeff
Bee Gees
Bejart Ballet
Bejart, Maurice
Bell, Madeleine
Benatar, Pat
Bennett, Tony
Benson, George
Berkshire Place Hotel
Berlino
Bersin, Mike
Burt, Joe
Betancourt, Rómulo
Beyrand, Dominique
Bharucha, Gita (poi Choksi)
Biba
Birmingham
Black Sabbath
Black, Alan
Black, Cilla
Blackburn, Tony
Blackwell, Chris
Blair, Tony
Blake, John
Blake, Sir Peter
Blanc Gigi vedi White Horse
Blauel, Renate
Blitz Club
Blodwyn Pig
Blow Up Club
Blue Mink
Bodnar, George
Bohemian Rapsody
Bolan, Marc
Bolena, Anna
Bombay
Bongiovi, Jon (poi Bon Jovi)
Bongiovi, Tony
Bonham, John
Bono
Boomtown Rats
Boone, Pat
Borat (film)
Boston
Bowie, David
Boy George
Boyfriend
Boystown
Bp
Brainsby, Tony
Branche, Derrick
Branson, Richard
Bread
Brewer Street Studios
Brighton
Bristol Hippodrome
Britannia Award, premio
British Musicians’ Union
British Phonography Industry
British Telecom
Brixton
Brookwood Civil and Military Cemetery
Brown, James
Brown, Les
Brown, Pete
Browne, Jackson
Brüno (film)
Budapest
Buenos Aires
Buerk, Michael
Buggles
Build Your Own Boat
Bulsara, Bomi (padre di FM)
Bulsara, famiglia
Bulsara, Farrokh
Bulsara, Freddie
Bulsara, Frederick
Bulsara, Jer (madre di FM)
Bulsara, Jer (zia di FM)
Bulsara, Kashmira (sorella di FM)
Bulsara, Perviz (cugina di FM) vedi Darunkhanawala, Perviz
Burke’s Peerage (guida)
Bush, Mel
Bycicle Race
Byrds
Byron, Lord George Gordon

Caballé, Carlos
Caballé, Montserrat «la Stupenda»
Cabaret (film)
Cable and Wireless
Cable, Robin
Café Royal
Caine, Michael
Callaghan, Jim
Callas, Maria
Cameron Richard
Cameron, Jamie
Cameron, Piers
Can’t Buy Me Love
Candle in the Wind/Something About the Way You Look Tonight
Canned Heat
Capalbo, Alfredo
Capital, Radio
Capitol Records
Carlo, principe di Galles
«Carmel»
Carreras, José
Cartier
Cash, Angela
Cass, Mama
Cat People (Putting Out the Fire)
Cats
Cavern Clus
CBS Records (poi Sony)
Chandler, Chas,
Changes
Channel
Chaplin, Charlie
Charisma Records
Charles, Jeannette
Charles, Ray
Charterhouse College
Chelsea College
Chess
Chic
Chirac, Bernadette
Choksi, Gita vedi Bharucha, Gita
Christie, Julie
Christie’s
Chrysalis Records
Chrysler Building
City of Westminster Society for Mentally Handicapped Children
Clapton, Eric
Clark, Dave
Clark, Petula
Cocker, Joe
Cockney Rebel
Cohen, Sacha Baron
Cohn, Nik
Coleherne (pub)
Coleman, Ray
Collins, Phill
Columbia Records
Colvin, David
Cooke, Natalie
Cooke, Roger
Cooke, Sam
Cooke, Sam (cantante)
Cooper, Alice
Copacabana (bar)
Copacabana Palace Hotel
Corminboeuf, Danielle
Coronation Street
Cowan, Carolyn
Coward, Noël
Crawdaddy Club
Crawford, Carolyn
Crazy Little Thing Called Love
Cream
Crematorio di Londra ovest
Cristina, principessa
Croce Rossa
Cross, The
Crossroads (serie tv)
Crystal, Billy
Culture Club

D’Amor sull’ali rosee


Daily Express (rivista)
Daily Mail (rivista)
Daily Mirror (rivista)
Daily Star (rivista)
Daley, Celine
Daltrey, Roger
Dannemann, Monika
Darkness
Darunkhanawala, Diana (nipote di FM)
Darunkhanawala, Perviz (già Bulsara, cugina di FM)
Dave Clark Five
Davis, Miles
Day, Doris
Day, Jan e Maureen
Day-Lewis, Daniel
Daytona Lights
De Lane Lea Studios
De Laurentis, Dino
De Niro, Robert
Deacon, John
Dean, James
Debussy, Claude
Decca
Dee, Kiki
Deep Purple
Def Leppard
DeLena, Eddie
Delilah (gatta di FM)
Delorenzi, Marcela
Denver
Derry & Toms
Devo
Diamond, Jim
Dietrich, Marlene
Diller, Phyllis
Dire Straits
Do They Know It’s Christmas?
Dobson, Anita
Doherty, Bernard
Dolesal, Rudi
Domingo, Placido
Domino, Antoine Dominique «Fats»
Domonion Theatre
Don Giovanni
Don’t Go Breaking My Heart
Don’t Stop Me Now
Donn, Jorge
Donovan
Doors
Dovetale Towers (pub)
Dowell, Anthony
Dublino
Duck House vedi I cigni
Dummett, (poi Chesney) Chris
Duna Intercontinental
Duran Duran
Dylan, Bob

E Street Band
Eagle, The (club)
Eagling, Wayne
Ealing College of Art
Ealing Studios
Earl’s Court
Earth
Earth/Step on Me
East, Dolly
East, Ken
Edinburgh Playhouse
Edmonds, Noel
Edney, Spike
Eisner, Michael
Electric Lady
Elektra
Elisabetta I, regina
Elisabetta II, regina
Ellis, Kerry
ELO
Elstree Studios
Elton, Ben
Embassy Club
EMI
Emmanuel, David
Emmanuel, Elizabeth
Encino
Ensueño
Entertainment Tonight
Entwistle, John
Epstein, Brian
Essex, David
Estadio Ignacio Zaragoza
Estadio Universitario
Eurythmics
Evans, David
Evening News
Everett, Kenny «Ev»
Everett, Lee
Everton Football Club
Evita (musical)
Exercises in Free Love
Extreme

Faces,
Fame, Georgie
Family
Fanelli, Joe «Liza»
Fashion Aid for Ethiopia
Fassbinder, Rainer Werner
Fat-Bottomed Girls
Feelin’ Groovy
Feltham
Fernandez, Bonzo
Ferry, Brian
Festival di musica contemporanea di Tregye
Fiorucci
Fireball XL 5 (serie tv)
Firm
Fisher, Ronnie
Flash
Flash Gordon (colonna sonora)
Flash Gordon (film)
Fleetwood Mac
Forbes, Brian
Forbes, Sarah
Forest Hill Hospital
Foster, Jodie
Foster, Nigel
Fox, Samantha
Foxy Lady
Frampton, Peter
Frankie Goes to Hollywood
Franklin, Aretha
Fratelli Marx
Freas, Frank Kelly
Freddie for a Day
Freddie Mercury, concerto tribute
Freddie Mercury, mostra fotografica
«Fredmira»
Free
Freeman, Alan «Fluff»
Freestone, Peter «Phoebe»
Freyer, Fritz
Frisco
Frost/Nixon (film)
Fun in Space
Furnish-John, Zachary Jackson Levon
Furnish, David
Fury, Billy
Fusi di testa

Gable, Clark
Gabriel, Peter
Galilei, Galileo
Gallop, Jeremy «Rubber»
Galtieri, generale Leopoldo
Gambaccini, Paul
Garden Lodge «Whore House»
Garland, Judy
Gates, David
Gaudì, Antoni
Geldof, Bob
Genesis
Get It On
Giddings, Terry
Gilbert e Sullivan
Gillan, Ian
Girardet (ristorante)
Glasgow
Glitter, Gary
Glover, Roger
God Save the Queen
Godfrey, Lexi
Goffin, Gerry
Goin’ Back (Larry Lurex)
Going for the One
Golders Green Hippodrome
Goldsmith, Harvey
Goliath (gatto di FM)
Gomelsky, Giorgio
Gonna Make You a Star
Goodbye to the Eighties
Goose Productions
Gorbaciov, Mikhail
Gowers, Bruce
Graham Bond Organisation
Grammy Award
Grand Dance
Grant, Eddy
Grant, Peter
Grateful Dead
Gray, senatore
Greenwich, Ellie
GRID (poi AIDS)
Griffin, Jeff
Grishanovitch, Nikolai
Grose, Mike
Groucho Club
Gucci
Gunn, Jacky
Guns N’ Roses

Hadley, Tony
Halfords
Hall, Eric «Monster»
Hallstrom, dottor Cosmo
Halston
Hamilton, David «Diddy»
Hammer to Fall
Hammersmith Odeon
Hannibal (film)
Harbottle & Lewis
Hard Rock Cafè
Harley, Steve
Harris, Bob
Harris, Richard
Harrison, George
Harvey, Alex
Hatch, Tony
Hayter, Stephen
Headlong
Headstone
Hearts on Fire (film)
Heaven (club)
Heaven for Everyone
Hectics, The
Helmsley Palace Hotel
Helvin, Marie
Henderson’s (club)
Hendrix, Jimi
Heroes
Hey Big Spender
Hey Joe
Hey Jude
Hibbert, Jerry
Hideaway
Higgins, Geoff
Highlander (film)
Hillmore, Peter
Hilton (hotel)
Hince, Peter «Ratty»
Hinckley, John Junior
Hitchens, Win
HIV vedi anche AIDS
Hoare, famiglia
Hodkinson, Mark
Hogan, Dave «Hogie»
Hokkaido
Holly, Buddy
Hollywood Records
Holzman, Jac
Honsu
Hopkin, Mary
Hopkins, Nicky
Hotel New Hampshire (libro, film)
Hubris Records
Hudson, Rock
Hughes, Glenn
Hughes, Richard
Hulanicki, Barbara
Hulford, Nick
Humpy Bong
Hunter, Ian
Hunters
Hurlingham Club
Hutton, Jim
Hyde Park (concerto)
Hyndie, Chrissie

I Ain’t Gonna Play Sun City


I Care Hear Music
I Cigni «Duck House» «Duckingham Palace»
I Don’t Like Mondays
I’m Going Slightly Mad
I Should Have Known Better
I Want It All
I Want to Break Free
I Was Born to Love You
I Won’t Let Your Down
Ian Dury and the Blockheads
Ibex
Ibiza
Ibiza, festival
Ice Ice Baby
Il giustiziere della notte (film)
Il lago dei cigni (balletto)
Il racconto d’inverno
Il Trovatore
Illes, Gyorgy
Imagination
Imagine
Imperial College
In Concert
Incontri ravvicinati del terzo tipo (film)
Innuendo
Irani, Farang
Iron Maiden
Irving, John
Is This World We Created
Island Records
Isleworth College
It’s a Beautiful Day
It’s a Hard Life
Ivor Novello, premio

Jackie
Jackson
Jackson, Michael
Jagger, Bianca
Jagger, Mick
Jailhouse Rock
James, Allan «Jamesie»
Jamshid bin Abdulla
Japan
Jedward
Jenkins, Jim
Jenkinson, Phil
Jensen, David «Kid»
Jesus Christ Superstar
Jethro Tull
Jett, Joan
Jimi Hendrix Experience
JJ Cale
Joel, Billy
John F. Kennedy, stadio
John Reid Enterprises
John, Elton «Sharon Cavendish»
John, Leee,
Johnny Quale and The Reaction
Johnson, Holly
Johnstone, Sue e Pat
Jon Roseman Productions
Jones, Brian
Jones, John Paul
Jones, Quincy
Jones, Tom
Joseph and the Amazing Technicolour Dreamcoat
Journey to the Centre of the Earth
Juan Carlos, re
Junior’s Eyes

K.C. and the Sunshine Band


Kandinskij, Vasilij
Kaposi, sarcoma di
Karume, Sheikh Abeid Amani
Keeble, John
Keep Yourself Alive
Kemp, Gary
Kemp, Martin
Kennedy, John Fitzgerald
Kennedy, Nigel
Kenny Everett Show
Kensit, Patsy
Kent, Nick
Kerzner, Sol
Khalaf, James «Trip»
Khory, Sheroo (zia di FM)
Kid Jensen’s Dimensions
Kids in America
Killer Queen
King Kong (film)
King, Carole
King, Freddie
King, Graham
King, Tony «Joy»
Kinks
Kirchberger, Winfried «Winnie»
Klein, Calvin
Knebworth Park
Kobal, John
Ku Club
Kutlawanong Institute
Kuursal
Kyushu

L’ultimo re di Scozia (film)


L’uomo da sei milioni di dollari (serie tv)
La Bella Addormentata (balletto)
La febbre del sabato sera (film)
La Nit, festival
La Tourelle
Lambert, Christopher
Lang, Fritz
Las Vegas
Lauper, Cindy
Law
Lawson, Leonie
Le Bon, Simon
Le Jardin (locale)
Le Presbyrtère n’a rien perdu de son charme ni le jardin de son éclat
Led Zeppelin
Lee Travis, Dave
Lee, Robert
Legends (club)
Leng, Debbie
Lennon, John
Lennon, Julian
Lennox, Annie
Leoncavallo, Ruggero
Leone d’oro, premio
Let It Be
Levine, Steve
Levinsky/Sinclair
Levy, Harry vedi Arden, Don
Lewis, Clive Staples
Lewis, Huey
Lewis, Jerry Lee
Liar
Liberace
Life On Mars
Light My Fire
Lily of the Valley
Limehouse Studios
Lindisfarne
Lindsay, David
Lisberg, Harvey
Little Feat
Live Aid
Live at the Rainbow (film)
Live in London
Liverpool
Liverpool Football Club
Living On My Own
Lockwood, Sir Joseph
Lomax, Jackie
London Apprentice (pub)
London Coliseum
London Hospital Medical College
London Rugby Club
Londra
Lontano dal pianeta silenzioso
Lopez, Trini
Los Angeles
Los Años Locos
Love Me Like There’s No Tomorrow
Love of My Life
Lover
Lowe, Rob
Lurex, Larry
Lyan, Billy
Lyceum Ballroom
Lynn, Vera
Lynott, Phil
Lynyrd Skynyrd

Mack, Felix
Mack, Ingrid
Mack, Reinhold
Made in Heaven
Madison Square Garden
Madonna
Maggie May
Magic Johnson Foundation
Magic Years
Mahler, Gustav
Mail on Sunday (rivista)
Mair, Alan
Maison Rouge Studios
Mallet, David «Mallet B. DeMille»
Mamas & Papas
Manchester
Manchester United
Mandela, Nelson
Manero, Tony
Manic Street Preachers
Mann, Manfred
Mann, Thomas
Mansfield, Mike
Maracanã
Maradona, Diego Armando
Margaret, principessa
Marillion
Mark & Spencer
Marmalade,
Marquee Club
Martin Luther King
Martin, Sir George
Marx, Groucho
Matisse, Henri
Matlock, Glen
May, Brian «Maggie»
May, Harold
May, Jimmy
May, Louisa
Mayall, John
McArthur Park
McCartney, Paul
McConnell Helen e Pat
McGowan, Cathy
McLaren, Malcolm,
McLean, Don
Meade, Roxy
Mehta (dottore)
Melbourne
Melody Maker (rivista)
Mercouri, Melina
Mercury Phoenix Trust
Mercury Records
Mercury, Freddie
cambio del nome
certificato di morte
certificato di nascita
diagnosi ufficiale AIDS
formazione scolastica
funerale
malattia
«Melina»
morte
nascita
sepoltura
test AIDS
testamento
the Great Pretender
Mercury, Mike
Metallica
Metropolis (film)
MGMM
Miami
Michael, George
Middleton, Lady Lee
MIDEM
Millaney, Scott
Mille e una notte
Mineshaft
Minnelli, Liza
Minns, David
Miracle
Mistinguett
Mitchell, Barry
Mitchell, Mitch
Miwa, Akihiro
Mojo (rivista)
Monaco di Baviera
Monroe, Marilyn
Montreux
Montreux Jazz Festival
Montreux Palace
Monty Python
Moon, Keith
Moran, Mike
More of the Real Life
Morgan, Peter
Moroder, Giorgio
Morrish, Jonathan
Morrison, Jim
Morrison, Van
Morumbi, stadio
Moseley, Diana
Mother in Love
Motherlode, The (club)
Motörhead
Motown
Mott the Hoople
Mountain Studios
Mozart, Wolfgang Amadeus
MTV
Mud
Mulcahy, Russell
Mullen, Christine
Murphy, Eddie
Murphy, John
Murray, Bruce
Music Hall of Fame
Musicland Studios
My Beautiful Laundrette
My Fairy King
My Name is Jack
My Smile Is Just a Frown (Turned Upside Down)
Myskow, Nina

Nabokov, Vladimir
Napier-Bell, Simon
National Council for the Unmarried Mother and Her Child
National Exhibition Centre
Nazareth,
Neighbours (serie tv)
Nelson, Jack
Nelson, Willie
Népstadion
Never Mind the Bollocks
Neverland
New Musical Express (rivista)
New Orleans
New York (club di Monaco)
New York
New York Dolls
New York Times
New York Yankees
Newman, Nanette
News of the World (rivista)
Nicks, Stevie
Nilsson, Harry
Nippon Budokan Hall
Nisbet, James
No Make-Up: Straight Tales From a Queer Life
Nobs, Claude
Nolan, Lee
Norman, Jeremy
Norman, Steve
North London Polytechnic
Nozze di Figaro
Nureyev, Rudolph
Nutter, David «Dawn»
Nutter, Tommy

O’Regan, Denis
Observer (rivista)
Ochsen Gardens
Old Grey Whistle Test
Oldfield, Bruce
Olivier, Sir Laurence
Omartian, Michael
One Vision
Orbison, Roy
Osbourne, Ozzy
Oscar (gatto di FM)
Oxfam International
Oxford
Oxford Mail (rivista)

Page, Jimmy
Pagliacci
Paige, Elaine
Paisiello, Giovanni
Panchgani
Papa, Giovanni Paolo II
Parfitt, Rick
Parigi
Park, Merle
Partito Afro-Shirazi ASP
Partito Nazionalista di Zanzibar ZPPP
Parton, Dolly
Party at the Palace
Paterno, Peter
Paton, Dave
Patricio
Pavarotti, Luciano
Peaches
Pearson, Rosemary
Peel, John
Pelo (rivista)
Perelandra
Peter, Paul and Mary
Peters, Martin
Petersen, Colin
Petraca, señor
Pheasantry, The
Philadelphia 76ers
Phillips, Antony
PhP
Piaf, Edith
Pilot
Pink Floyd
Pinocchio (film)
Pitney, Gene
Pizza Express
Plant, Robert
Platters
Play the Game
Polar Bear
Poliedro de Caracas
Pope, Tim
Potgieter, Sarina
Power Station Studios (poi Avatar Studios)
Preludio al pomeriggio di un fauno
Prenter, Paul «Trixie»
Presley, Elvis
Pretenders
Price, Katie «Jordan»
Pride (In the Name of Love)
Prince
Provan’s
Public Records Office (oggi National Archives)
Pune (già Poona)
Punjabi, Ravi
Purple Haze
Pye Studios

Q (rivista)
Q + PR
Quale, Johnny
Quant, Mary
Queen
Queen Day
Queen Films Ltd
Queen: la biografia ufficiale (libro)
Queen Music Ltd
Queen Productions Ltd
Queen’s Award to Industry, premio

Radio 1
Radio 2
Radio Caroline Radio Luxembourg
Radio Ga Ga
Radio Recorders Studios «Annex»
Radiohead
Radiolandia
Ragtime Piano Joe
Rainbow Restaurant
Rainbow Room
Rainbow Theatre
Ram, Buck
Ramones
Ramsey, Sir Alf
Rana, Victory
Randolph Hotel
Rea, Chris
Read, Mike
Ready, Steady, Go!
Reagan, Ronald
Rebel Rebel
Record Mirror
Record Plant
Record World
Red Dragon (film)
Red Hot Chili Peppers
Red Special
Redding, Noel
Reed, Lou
Regina Madre, Elizabeth Bowes-Lyon
Regine’s (club)
Reid, Beryl
Reid, Bill
Reid, John «Beryl»
Reiner, Rob
Reizner, Lou
Revolution Club
Rhodes, Zandra
Rice, Sir Tim
Richard, Cliff «Silvia Disc»
Richard, Little
Richards, David
Richards, Keith
Richardson, Tony
Richie, Lionel
Ridgeley, Andrew
Righteous Brothers
Rimsky-Korsakov, Nikolai Andreyevich
Rio de Janeiro
Ritz Hotel
Robinson, Smokey
Rock in Rio
Rock Show
Rock, Mick
Rocket Records
Rockfield Studios
Rodgers, Paul
Roll Away the Stone
Rolling Stone (band)
Rolling Stone (rivista)
Rondo
Ronson, Mick
Roof Gardens Club
Roosevelt, Franklin Delano
Rose, Axl
Rose d’Or, festival
Rose, Graham
Rosko, Emperor
Ross, Diana
Ross, Jonathan
Rossacher, Hannes
Rossi, Francis
Rossini, Gioacchino
Rota, José
Rotten, Jhonny
Roundhouse Club
Royal Albert Hall
Royal Ballet
Royal Opera House
Ruby Tuesday
Rudge, Peter
Rutherford, Mike

Sabine (tata di FM)


Saez, James
Said Alì Adballah
Saint Laurent, Yves
Samarkland Hotel
Sanremo, festival
Sarm West e Scorpio Studios
Satellite of Love
Saturday Night Live
Save me
Savoy Hotel
Scandal
Scardilli, Joe
Seal
Searches
Sebastian Stub’n (ristorante)
Sedaka, Neil «Golda Disc»
Sedlecka, Irena
Seger, Bob
Selfridge Hotel
Sensational Alex Harvey Band
September’s
Seul
Seven Seas of Rhye
Sex Pistols
Seymour, Jane
Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band
Shakespeare, William
Shangai Express (film)
Shaw, Sandie
Sheffield, Barry e Norman
Shéhérazade
Shell
Shelter
Shepperton Studios
Sheraton Hotel
Shikoku
Simon e Garfunkel
Simple Minds
Sinatra, Frank
Sinclair, Jill
Sinclair, John
Skellern, Peter
Sky, Rick
Slade
Small Faces
Smile
Smith, Chris
Smith, Janet
Smith, Mel
Smith, Mick «Miffer»
Smith, Pete
Smoke on the Water
Snowdon, Lord Antony Charles Robert Armstrong-Jones
Sofia, Regina
Somebody to Love
Somerville, Jimmy
Sonny&Cher
Sotheby’s
Sounds
Sour Milk Sea
Southall, Brian
Souyave, Louis
Sovereign Building
Space Oddity (album)
Spandau Ballet vedi anche Hadley, Tony
Speakeasy (club)
Spears, Britney
Spector, Phil
Spencer, Lady Diana principessa
Spider from Mars
Spielberg, Steven
Spike, The (club)
Springfield, Dusty
Springsteen, Bruce
Squier, Billy
St Edward College
St John, Bridget
St Joseph’s Convent School
St Peter’s Church of England School
Staffell, Tim
Stafford Terrace
Stairway to Heaven
Standing, Sir John Ronald Leon
Stansfield, Lisa
Star Club
Star Fleet Project
Starhe Club
Stark, David
Starkey, Zak
Starr, Ringo
State of Shock
Station Hotel
Status Quo
Staying Power
Step on me
Stephen, John
Stevens, Cat
Stewart, Al
Stewart, Rod «Phyllis»
Stewart, Tony
Stickells, Gerry «zio brontolone»
Sting
Stoccolma
Stockley, Miriam
Stollbergplaza (hotel)
Stone Cold Crazy
Stonewall Inn (bar)
Stormtroopers in Stilettos, mostra itinerante
Straker, Peter
Stratton-Smith, Tony
Strawbs
Streisand, Barbra
Studio 54 (club)
Studio A
Studio B
Studio C
Style Council
Sugar Shack
Sun, The (rivista)
Super Bowl (Sun City)
SuperBear Studios
Sutherland, Joan
Sweet
Swern, Phil
Swimming Baths
Swiss Cottage Holiday Inn
Sydney
Sydney Entertainment Centre
Symes, Phil
Sympathy for the Devil

T. Rex
Talking Heads
Tantrums and Titans
Tarzan (gatto di FM e Barbara Valentin)
Taste
Tavaszi Szél Vizet Áraszt
Tavener, Roger
Taylor, Elizabeth
Taylor, Felix
Taylor, James
Taylor, John «Tupp»
Taylor, Roger «Liz»
Tears of a Clown
Terrence Higgins Trust
Testi, Ken
Tetzlaff, Veronica
Thank God It’s Christmas
Thank You
That’s the Way I Like It
The Act
The Elephant Man
The Fallen Priest
The Golden Boy
The Grand Dance
The Great Pretender
The Madcap Laughs
The March of the Black Queen
The Miracle
The Night Comes Down
The Queen (film)
The Rich Kids
The Show Must Go On
The Show Must Go On (libro)
The Tube
The Wind Cries Mary
Théâtre de Chaillot
There Must Be More To Life Than This
These Are the Days of Our Lives
Thin Lizzy
This Is Spinal Tap
Thomas, Rhys
Thompson, Richard
Those Were the Days
Thriller (album)
Thriller (canzone)
Tie Your Mother Down
Tim Pan Alley
Time (musical)
Times, The (rivista)
Tokyo
Tom Robinson Band
Tomato City
Tommy (album degli Who)
Top of the Pops
Top Rank Club
Torpedo Twins
Torri Gemelle
Tour de France
Tourelle, la
Townhouse Studios
Townshend, Pete
Trasparent Television
Travolta, John
Tremeloes
Trent, Jackie
Triangolo delle Bermude
TriBeca
Trident Audio Productions
Trident Studios
Trillion
Troggs
Truro
Turner, Tina
Tutti Frutti
TV Times (rivista)
Tyler, Bonnie
Tyrrell, Robert

U2
UAMSHO (Associazione per la mobilitazione e propaganda dell’Islam)
UFO Club
Ultravox
Un ballo in maschera
Un giorno alle corse
Una notte all’opera
Under Pressure
Ure, Midge
USA for Africa

Valentin, Barbara «la Jane Mansfield tedesca» o «la Brigitte Bardot tedesca»
Van der Graaf Generator,
Van Halen, Eddie
Van Zandt, Steven
Vance, Tommy
Vanilla Ice
Vaticano
Vélez Sarsfield (stadio)
Velvet Underground
Vendidad
Verdi, Giuseppe
Vesti la giubba
VH1
Vicious, Sid
Victory
Video Killer the Radio Star
videoclip
Village People
Vince «il barista»
Viola Redondo, generale Roberto Eduardo
Virgin Radio
Virgin Records
Visconti, Tony
Visser, Joop
Voodoo Chile

Wagner, Wilhelm Richard,


Wakeman, Rick
Waldorf Astoria
Walk on the Wild Side
Walker, Johnnie
Wallace, Eugene
Walt Disney
Walt Disney Company
Warhol, Andy
Warner
Warwick, Dionne
Watts, Paul
Wayne, Mick
Wayne’s World, vedi Fusi di testa
We Are the Champions
We Are the World
We Will Rock You
We Will Rock You (musical)
Webb, Jimmy
Weller, Paul
Wembley Arena
Wembley (stadio)
Wessex Sound Studios
West Ham United
Westminster Hospital
Wham!
Whistle Test
White Album
White Horse (pub)
Who
Who Wants to Live Forever
Wigg, David
Wild Thing
Wilde, Kim
Wilde, Marty
Wilde, Oscar
Williams, Paul
Williams, Robin
Williams, Tony
Wimbledon, stadio
Wind & Fire
Winner, Michael
Wisdom, Norman
Wishbone Ash
Wonder, Stevie
Wood, Ronnie
Woodstock
Wreckage
Wyman, Bill

X Factor
Xenon (club)

Yardbirds
Yates, Paula
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You (rivista)
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Zsigmond, Vilmos
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Freddie Mercury. The Definitive Biography


Copyright © Lesley-Ann Jones 2011
© 2012 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Ebook ISBN 9788873396192

COPERTINA || ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: ANTONELLA CUCINOTTA | FOTO ©
PETER HINCE
«L’AUTRICE» || FOTO © DAVE HOGAN

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