Fabrizio De André
un timido che parla a milioni di persone
Lo accusano di essere un individuo scorbutico che disprezza il pubblico. Non è così: De
André è affetto da eccezionale timidezza e il suo colloquio con la gente riesce ad
averlo soltanto attraverso le sue canzoni.
Fabrizio, molti dicono che sei il cantante più discusso, più scontroso, più
introverso e forse il più odiato nel mondo della musica leggera. Cosa ne
pensi?
«Per quanto mi conosco e dalle amicizie che ho, anche nello stesso ambiente di lavoro,
dove le gelosie sono di facile presa, rifiuto questi giudizi così poco veri. Purtroppo alle
volte la mia timidezza viene fraintesa come un atteggiamento di antipatico distacco, il
che non è vero. Che io sia discusso come autore lo considero un fatto decisamente
positivo, uno stimolo continuo a migliorarmi, naturalmente entro i limiti del possibile.»
Pur ammirando la tua produzione dicono però che sia ispirata in senso
letterario ai famosi cantautori francesi tipo Brel e Brassens.
«Tutti noi credo abbiamo delle origini e radici culturali dalle quali difficilmente
riusciamo a staccarci per tare di noi delle persone completamente autonome. All'inizio
l'ispirazione mi è venuta forse dagli autori che hai citato. Poi ho preso la mia strada e
ora penso che ciò che dico sia esclusivamente mio.»
Della vecchia leva dei cantautori alla quale appartieni, tutti hanno lasciato
Genova, patria di questo filone musicale. Da Lauzi a Bindi, da Paoli a Paolo
Villaggio. Ognuno in cerca di brillanti affermazioni. Perché tu al contrario sei
rimasto fedele alla tua città?
«Non parliamo di fedeltà; diciamo più semplicemente che sono attaccato a certe
abitudini.»
Però proprio per il tuo lavoro sei obbligato a viaggiare spesso e quindi la tua
famiglia rimane sola; non è un comportamento egoistico?
«Direi di no, perché dovunque io piazzassi le tende, finirei per lasciare la famiglia sola
dato che il mio tempo lo devo dividere tra Roma e Milano. Non è comunque un
problema questo, perché i genovesi da tempo immemorabile sono dei viaggiatori e le
loro famiglie abituate ad aspettarne il ritorno.»
So che non vuoi che si dica che ti sei fatto una casetta in Sardegna dove
spesso vai a rifugiarti...
«Oramai l'hai detto e tanto vale che ne parliamo. La Sardegna rappresenta per me il
ritorno a una vita di libertà, soprattutto fisica, la stessa che facevo da bambino in
campagna durante lo sfollamento per la guerra; è un richiamo costante dovuto a un
forte residuo di sensazioni infantili, quasi un ritorno alle origini insomma.»
Per quanto riguarda il lavoro è cambiato qualcosa tra il tuo primo LP e il tuo
nuovo disco "Storia di un impiegato"?
«Un cambio totale. Se prima mi ispiravo alla letteratura, con Storia di un impiegato ho
inteso rivelare esattamente il mio pensiero, il mio modo di sentire le cose. Un
chiarimento per tutti, anche per i critici.»
Molti dicono che tutto quello che produci non sia completamente farina del
tuo sacco, è vero?
«Tu credi che i grandi autori che sono all'estero e che hai citato lavorino da soli? Tutti
lavoriamo in "équipe" e io mi avvalgo di ottimi collaboratori come Giuseppe Bentivoglio
e Nicola Piovani. Con tutto il rispetto e le dovute proporzioni, vorrei ricordarti che
anche Gesù Cristo aveva dei collaboratori: addirittura dodici!»
Il contenuto e gli stessi versi dei tuoi testi, soprattutto quelli del tuo ultimo
disco, ti sembrano comprensibili a tutti?
«Da quanto ho avuto occasione di leggere nelle lettere inviatemi da studenti e operai,
ad esempio, direi che chi ha voluto capire il discorso lo ha capito perfettamente.»
Damilo Maggi