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ANGELICO

Fra Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Piero, meglio noto come


Beato Angelico, nasce a Vicchio di Mugello (Firenze) intorno al 1400.
Attivo come miniaturista e pittore fin dal 1417, il giovane Guido entra nel
Convento di San Domenico di Fiesole nel 1420 prendendo il nome di fra
Giovanni. Probabile allievo del pittore e miniatore Lorenzo Monaco nel
1437 inizia ad affrescare le celle e alcuni locali comuni del nuovo
convento fiorentino di San Marco, che l’architetto Michelozzo ultimerà
intorno al 1452. Dal 1446 l’Angelico è a Roma e vi rimane almeno fino al
1449 per affrescare la Cappella Niccolina su commissione di papa
Niccolò V. Dal 1449 al 1452 viene infine chiamato a ricoprire la carica di
priore al Convento di San Domenico di Fiesole, dove si ritira
sospendendo qualsiasi attività artistica. Sconosciuti sono i motivi per cui,
già gravemente malato, ritorna comunque a Roma, dove la morte lo
coglie nel 1455. Fra Giovanni viene definito per la prima volta Angelicus
pictor (pittore angelico) intorno al 1467/1469 dall’erudito domenicano
Domenico da Corèlla (1403-1483), mentre l’appellativo di Beato gli sarà
successivamente attribuito (1481) dallo storico e umanista fiorentino
Cristoforo Landino. Entrambi i soprannomi fanno riferimento sia alla sua
irreprensibile condotta morale sia alla straordinaria e quasi miracolosa
abilità con la quale il maestro ha sempre saputo far coesistere la tecnica
rinascimentale con l’ancora viva tradizione del Gotico Internazionale,
dando origine a una pittura originale e personalissima.

ANNUNCIAZIONE
Il tema dell’Annunciazione, per la ricchezza dei suoi valori simbolici, è
stato sempre particolarmente caro all’Angelico, che lo ripropone in varie
opere, sia su tavola sia ad affresco. Il prototipo può essere individuato
nell’Annunciazione dipinta intorno al 1425/1426 per il convento fiesolano
di San Domenico, oggi conservata al Museo del Prado di Madrid ,
composta da una tavola principale quadrata e da una sottostante
predella con cinque scene raffiguranti la Vita di Maria, nelle quali sono
ancora evidenti forti legami con i modi espressivi del Gotico
Internazionale. Il pannello superiore è occupato quasi per intero da una
porzione di edificio messa in prospettiva centrale , con la linea
d’orizzonte posta appena sopra la testa reclinata di Maria. L’architettura
rappresentata, di evidente gusto rinascimentale, è composta da un
ambiente chiuso(la camera della Vergine) e da un’ampia loggia
colonnata antistante, aperta su due lati contigui. La camera, spoglia e
disadorna, è arredata con una semplice panca, appoggiata alla parete di
destra, e un cassone, appena visibile dietro l’esile colonnetta centrale
del loggiato. Il capitello composito nasconde in parte anche una finestra
che si affaccia sul rigoglioso giardino retrostante e dalla quale entra la
luce che si proietta sulla parete di destra, rischiarandola, e generando
l’ombra della panca sul pavimento ammattonato. La loggia è coperta con
un sistema di volte a crociera su cinque capitelli e tre pedùcci di marmo.
Le vele sono dipinte d’un azzurro intenso punteggiato da stelline d’oro, a
imitazione della volta celeste, mentre il pavimento è lastricato con marmi
dalle venature variopinte. Il fronte esterno appare decorato con una
fascia in pietra scolpita a girali, due patere laterali e una nicchia centrale
con inserito un busto del Redentore. L’angelo nunziante, dalle ali dorate
e irradiate di luce, si inchina verso Maria con le mani conserte sul petto
in segno di rispetto e devozione. La Vergine, a sua volta, si protende
inchinandosi leggermente verso di lui mentre un fascio di luce dorata,
proveniente direttamente dalle mani di Dio(nell’angolo in alto a sinistra
della tavola), accompagna il volo della colomba dello Spirito Santo verso
il seno di Maria. A sinistra del loggiato, in un’ambientazione fantastica si
estende il Paradiso Terrestre, ricolmo di piante, fiori e frutti d’ogni
genere, con Adamo ed Eva nell’atto di esserne cacciati dall’angelo di
Dio. Nel complesso simbolismo del dipinto i Progenitori rappresentano
proprio quel peccato originale che, secondo la dottrina cristiana, solo la
venuta del Salvatore – di cui l’Annunciazione costituisce il primo atto –
riuscirà a cancellare.La magnificenza incorrotta del giardino, però, allude
anche alla tipologia medievale dell’hortus conclusus (giardino recintato),
a sua volta simbolo della verginità di Maria.L’Angelico organizza lo
spazio del loggiato secondo le giuste regole della prospettiva scientifica
di derivazione brunelleschiana, inserendo anche particolari realistici
quali la rondine (sulla catena del primo arco di destra ) o il prezioso
drappo dorato (appeso dietro le spalle di Maria). Quando tratta le figure
rifiuta invece di accettare fino in fondo il realismo di Masaccio; i suoi
personaggi, infatti, pur dotati di corpi solidi e ben delineati, risultano
sempre sospesi in un’atmosfera di astratta e dolce spiritualità. I colori,
innaturalmente vivaci, e la luce uniforme e perennemente mattutina
rimandano, infine, a una visione simbolica della realtà, nella quale fede e
ragione riescono a coesistere nel modo più semplice e naturale.

DEPOSIZIONE DI CRISTO
Circa al 1430/1432 risale il grande trittico della Deposizione di Cristo.
Nonostante la cornice lignea ancora tardo gotica, che forza la scena
entro i tre archi dorati a sesto acuto, l’Angelico unifica in senso
rinascimentale lo spazio della narrazione dando grandissima profondità
prospettica al dipinto. A tal fine, infatti, egli introduce la visione di un
paesaggio graduato in vari piani successivi. Questi spaziano dal gruppo
delle pie donne in primo piano (a sinistra) al quale si contrappone per
ideale bilanciamento quello dei personaggi in dotta meditazione (a
destra), attraverso la croce e le due scale a essa appoggiate, al centro,
fino alla città ideale nell’arco di sinistra (forse Cortona), ricca di case e
torri variopinte dai volumi ben definiti ,per giungere alla distesa
sconfinata dei campi e dei paesi che si perdono nella lontananza
azzurrognola dell’orizzonte. A questa straordinaria libertà espressiva
dello sfondo si aggiunge anche la studiata ed equilibratissima
composizione dei personaggi in primo e secondo piano, i quali,
nonostante la solida volumetria che li contraddistingue, sembrano
appartenere più a una dimensione spirituale che alla realtà quotidiana.

ALBERTI
Spetta a Leon Battista Alberti il merito di aver dato una
sistematizzazione teorica alle scoperte, alle innovazioni e agli ideali
artistici del primo Quattrocento. Leon Battista, figlio naturale di Lorenzo
Alberti e di Bianca Fieschi, nacque a Genova il 18 febbraio 1404.Dalla
città ligure si trasferì dapprima a Venezia e quindi a Padova. Dopo la
morte prematura del padre (1421) il giovane Alberti in ristrettezze
economiche, ma riuscì comunque a laurearsi in Diritto a Bologna nel
1428. Solo dopo tale data Leon Battista poté vedere per la prima volta
Firenze, la città degli avi. Dal 1432 divenne abbreviatore apostolico e
cominciò il suo soggiorno romano. Gli ordini sacri gli permisero,
successivamente, di godere di una rendita decorosa. Nel 1433 era
segretario di Biagio Molin, patriarca di Grado, mentre soggiornava
senz’altro a Firenze nel 1434, al seguito di papa Eugenio IV,
spostandosi quindi a Ferrara e ancora a Firenze.Nel 1443 tornò
definitivamente a Roma, città in cui morì nell’aprile del 1472.L’Alberti fu
uno dei più colti e raffinati umanisti, ma, al contrario di altri, non si dedicò
alla ricerca di codici di opere classiche, non ne preparò mai edizioni, né
studiò gli scritti degli Antichi per puro piacere letterario. Per lui l’antichità
era fonte inesauribile di insegnamento: era il passato che giustificava il
presente, un qualcosa che doveva essere continuato, con il quale
confrontarsi e che, dunque, poteva anche essere superato. Secondo
quest’ottica fece proprie le forme letterarie degli Antichi e le attualizzò,
modificandole e adattandole al proprio pensiero. Il suo desiderio di
conoscenza è riassunto nel simbolo dell’occhio alato e fiammante e nel
motto latino ciceroniano «Quid tum» (Che altro?) che fece proprio e che,
circondato da una corona di alloro, compare nel verso della medaglia
con la sua effigie.
Autore di opere poetiche e morali, Alberti scrisse anche di geometria (Ex
ludis rerum mathematicarum), topografia (Descriptio urbis Romae) e
meccanica. Fu architetto e pittore e, nella doppia veste di artista e
letterato, compose i primi tre grandi trattati dell’età moderna sulla pittura
(De pictura, in una doppia redazione volgare, 1435, e latina, 1439-1441),
sull’architettura (De re aedificatoria,1447-1452) e sulla scultura (De
statua, 1450).Nel De pictura vengono esposti i princìpi della prospettiva.
In esso viene data anche la definizione di disegno, si tratta
dell’importanza della composizione e si dice delle relazioni tra luce e
colore. Il disegno per Alberti è «circonscrizione», cioè, linea di contorno.
Le sue idee riguardo alla pittura si possono esemplificare osservando
due dipinti su tavola di Bartolomeo di Giovanni Corradini : Si tratta della
Natività della Vergine del Metropolitan Museum di New York e della
Presentazione della Vergine al Tempio del Museum of Fine Arts di
Boston.Ambedue le tempere su tavola sono probabili parti di una
predella andata perduta. Le solenni prospettive architettoniche, con la
corretta individuazione delle zone in luce e di quelle in ombra, si rifanno
all’Antico e ricordano gli edifici realizzati o anche solo descritti
dall’Alberti. Le due scene, tratte dai racconti dei Vangeli apocrifi, sono
movimentate e arricchite da un numero elevato di persone, animali e
cose. Le dimensioni degli esseri umani, rappresentati nei più diversi
atteggiamenti, costituiscono un metro di paragone per rendere conto di
quelle degli edifici in cui essi sono collocati. Nella Natività della Vergine
anche l’esecuzione del cielo, quasi bianco in basso per l’addensarsi
delle nuvole, quasi azzurro in alto per il loro farsi più rade .Alberti
ritiene che scopo della pittura sia, oltre che l’imitazione della
natura, la ricerca della bellezza intesa come ciò che dà piacere
all’occhio e come qualcosa di riconoscibile in base a una facoltà
che ciascun uomo possiede. Tale facoltà è quella che porta tutti a
definire belle alcune opere d’arte. Secondo Alberti, infine, soltanto
la bellezza ha la facoltà di preservare le opere d’arte dalla violenza
distruttrice degli uomini. Nel De statua l l’artista si inoltra in una
minuziosa descrizione circa la realizzazione e l’impiego di più strumenti
utili per il rilievo di una qualunque statua. La misurazione di molte statue
e di molti corpi consente, inoltre, all’Alberti di definire le dimensioni ideali
delle parti principali di un corpo perfetto come «mediocritas», dopo aver
comparato tutte le misure per ciascuna parte e avendo scartato gli
estremi, cioè quelle che superano la maggior parte delle altre e quelle
che da queste sono superate. È però nel De re aedificatoria che le
conoscenze tecniche e letterarie di Leon Battista si fondono
armoniosamente in una trattazione completa dell’arte di edificare . Sulla
sua composizione influirono enormemente la presenza dell’Alberti a
Roma,la conoscenza profonda delle architetture antiche, puntualmente
rilevate dal vero, e il loro studio.Il trattato, verosimilmente compiuto
attorno al 1452, prende come esempio quello di Vitruvio, persino nella
suddivisione in dieci libri. Vi si discorre del disegno, dei materiali da
costruzione, dei procedimenti costruttivi, degli edifici pubblici e privati, di
strade, ponti, fortezze, dell’organizzazione della città, delle acque e della
loro canalizzazione, dell’ornamento e, quindi, degli ordini architettonici.
Vengono infine trattate, e per la prima volta, le cause delle rotture dei
muri e le opere di prevenzione e di restauro degli edifici. È nel De re
aedificatoria che si precisano le differenze tra l’operare di Brunelleschi
e le concezioni di Alberti in relazione agli ordini architettonici. Leon
Battista, infatti, con maggiore aderenza all’architettura antica, ritiene che
la colonna debba sostenere la trabeazione , mentre l’arco debba essere
costruito al di sopra di pilastri . Inoltre alla colonna egli attribuisce anche
la funzione di sommo ornamento per le fabbriche.

IL TEMPIO MALATESTIANO
Il primo intervento architettonico attuato dall’Alberti è costituito dal
rifacimento della chiesa gotica di San Francesco a Rimini. Nota anche
come Tempio Malatestiano, secondo la volontà del committente,
Sigismondo Pandolfo essa avrebbe dovuto trasformarsi in un
monumento celebrativo della memoria di lui, dell’amante (poi moglie)
Isotta degli Atti , nonché di quella dei più importanti umanisti della corte
riminese. I lavori di rifacimento cominciarono nel 1447,quando Isotta
fece decorare la Cappella degli Angeli. l’intervento all’interno del Tempio
Malatestiano, in cui un doppio ordine di paraste su piedistalli inquadra gli
archi acuti e dove il secondo ordine, su mensole, prosegue lungo le
pareti formandone il coronamento . Il linguaggio classico, infatti, aiuta
l’interno gotico ad avvicinarsi all’innovativa lingua che caratterizza
l’esterno, senza che questo a sua volta, debba essere in alcun modo
influenzato dalla preesistenza architettonica medievale. Alberti, per
conseguenza, incapsula l’edificio in un moderno involucro in pietra
bianca di Verona senza curarsi molto di quanto già esisteva. Ne sono
prova le grandi arcate laterali che l’artista ha progettato strutturalmente
indipendenti dalla fabbrica retrostante e senza tener conto che fossero in
asse con le preesistenti finestre gotiche.Alberti ritiene che l’attività
dell’architetto debba essere puramente «mentale», cioè teorica, perciò
egli non si occupa personalmente della direzione dei lavori.
L’esecuzione del Tempio Malatestiano, infatti, fu affidata a Matteo de’
Pasti. A lui si deve anche l’unica testimonianza visiva del progetto
originario, dal momento che l’opera rimase incompiuta,dapprima per il
rovesciamento delle fortune di Sigismondo Pandolfo, che non ebbe più i
fondi necessari per la prosecuzione dell’opera,poi per la morte dello
stesso committente. La parte superiore della facciata avrebbe dovuto
essere coronata da un fastigio nella porzione centrale. Dei semitimpani
ad andamento curvilineo l’avrebbero poi raccordata con la cornice
sottostante.Infine, una grande cupola emisferica, a somiglianza di quella
del Pantheon, avrebbe completato l’edificio divenendone l’elemento
unificante.Nel Tempio Malatestiano l’Alberti creò la prima facciata di
chiesa rinascimentale e lo fece riferendosi all’antichità romana . egli non
imitò le forme del tempio classico, ma prese come esempi gli archi di
trionfo. Primo fra tutti l’Arco di Augusto, che è appunto a Rimini , e poi il
romano Arco di Costantino . Nei fianchi, invece, le grandi arcate a tutto
sesto sorrette da pilastri ricordano gli antichi acquedotti, ma derivano,
nel disegno, sia dalle arcate interne del Colosseo sia da quelle della
porzione inferiore del Mausoleo di Teodorico della vicina Ravenna .Le
diverse fonti di ispirazione trovano un accordo nell’alto basamento che, a
somiglianza di un podio o di un crepidoma, sostiene sia i pilastri sia le
semicolonne. Queste, dal fusto scanalato, hanno un plinto molto alto,
come nelle basiliche ravennati; inoltre sono coronate da capitelli
compositi con teste di cherubino . Le semicolonne dividono la superficie
della porzione inferiore della facciata in tre parti . Quella centrale
accoglie il portale timpanato, che è all’interno di un’ampia e profonda
arcata, circondato da festoni e da un ornamento geometrico di marmi
antichi e porfidi prelevati da edifici di Ravenna . Le laterali ripropongono
il motivo delle arcate dei fianchi. Esse, però, sono cieche e poco
profonde mentre avrebbero dovuto avere la profondità necessaria per
poter accogliere i sarcofagi di Isotta e Sigismondo. L’edificio riminese dà
voce anche alle aspirazioni del suo committente. Il riferimento
architettonico e ornamentale all’Arco di Augusto è segno, infatti, della
volontà del Malatesta di essere considerato al pari del primo imperatore
romano. Ma la chiesa riminese rivela analogie anche con la Colonna
Traiana. I due edifici presentano una simile ornamentazione conclusiva
del basamento e identiche dimensioni (la facciata del Tempio
Malatestiano è larga – e sarebbe stata alta, se conclusa – cento piedi
romani, la medesima altezza della Colonna). Inoltre entrambe le
costruzioni sono caratterizzate dalle stesse funzioni celebrativa e di
mausoleo (nella colonna onoraria erano state deposte le ceneri di
Traiano e della moglie Plotina, così come nel Malatestiano sarebbero
stati custoditi i corpi di Sigismondo e di Isotta).

LA FACCIATA DI SANTA MARIA NOVELLA


Attorno al 1458/1460 l’Alberti progettò anche la facciata della basilica
fiorentina di Santa Maria Novella.Contrariamente al Tempio
Malatestiano, la cui facciata poté essere creata ex nòvo, in
quest’occasione l’architetto si trovò di fronte a una parziale realizzazione
trecentesca. La porzione inferiore, infatti,aveva già i portali laterali, i
profondi archi acuti con le tombe gotiche e le alte arcate cieche. L’Alberti
fu quindi costretto ad armonizzare il “vecchio” con il “nuovo”. In questa
parte inferiore egli limitò, allora, il suo intervento al portale centrale che
inserì all’interno di un arco a tutto sesto incorniciato da due semicolonne
corinzie su alti piedistalli. L’arco introduce a una breve volta a botte
cassettonata che poggia su superfici murarie scandite da coppie di
lesene corinzie scanalate , a imitazione dell’ingresso del Pantheon . Le
semicolonne vennero riproposte, nelle due estremità della
facciata,affiancate alle paraste d’angolo , secondo uno schema ripreso
dalla Basilica Emilia nel Foro Romano. Rivestite con fasce orizzontali di
marmo alternativamente verde e bianco, le paraste rinviano ai pilastri
angolari del romanico battistero fiorentino di San Giovanni. Un alto attico
fra l’ordine inferiore e quello superiore segna l’inizio della realizzazione
tutta quattrocentesca. Per l’intera altezza della navata centrale e oltre, la
porzione superiore della facciata venne organizzata come un tempio
classico tetrastilo che ricorda, allo stesso tempo, la soluzione già
adottata nella basilica fiorentina di San Miniato. Quattro paraste corinzie,
dalla tipica zebratura marmorea, sorreggono una trabeazione sovrastata
da un timpano con mensole e dentelli all’interno, all’uso romano. Due
ampie volute riccamente e minutamente ornate raccordano l’ordine
superiore all’attico nascondendo gli spioventi del tetto delle navate
laterali.

PIERO DELLA FRANCESCA


Piero della Francesca ancora che come artista, viene celebrato come
trattatista e matematico. In verità la sua eredità teorica è davvero
consistente: un trattato d’ Àbaco in volgare, uno in latino sui poliedri, o
corpi regolari di cui esistono copie sia in volgare sia in latino. Mai
nessuno prima di Piero della Francesca aveva disegnato i poliedri
regolari e semiregolari né studiato le relazioni che intercorrono fra i
cinque regolari. Piero della Francesca nacque a Borgo Sansepolcro nel
1412 circa. Allievo del pittore e orafo Antonio di Giovanni d’Anghiàri.Nel
capoluogo toscano l’artista di Sansepolcro ebbe, pertanto, occasione di
conoscere le opere di Masaccio, del Beato Angelico e di Paolo Uccello.
Nel 1445 Piero era di nuovo nella sua città natale. Fu poi a Ferrara alla
corte degli Este, forse nel 1449, e nel 1451 dipingeva nel Tempio
Malatestiano a Rimini, mentre era ad Arezzo l’anno successivo. Nel
1453 lavorò in Vaticano per papa Niccolò V. Fu di nuovo a Roma nel
1458 per dipingere nell’appartamento pontificio su commissione di papa
Pio II, ma nel 1459, dopo la morte della madre, ritornò a Sansepolcro.
Lavorò ancora ad Arezzo fino al 1466, ma sin dal 1440/1450 l’artista era
entrato in contatto con la corte urbinate per la quale eseguì importanti
opere nel corso degli anni. Certamente risiedette a Urbino nel 1469,
ospite di Giovanni Santi, padre di Raffaello, mentre nel 1482 affittò
anche una casa a Rimini, acquistandone una con il fratello a
Sansepolcro nel 1485. Il 12 ottobre 1492 l’artista si spense nella città
natale, dove aveva più volte ricoperto anche vari incarichi pubblici.

Il disegno
Il disegno di Piero si caratterizza per il tocco leggerissimo e sapiente e per l’estrema
sottigliezza del segno operata per mezzo di una penna sempre molto appuntita. L’artista
ricorre anche allo stilo di metallo per graffire la pergamena o forare la carta in punti notevoli
o lasciare sulla carta stessa un tracciato inciso invisibile di cui servirsi, successivamente, per
il disegno a penna. Ne sono esempi altissimi le figure di ornato o di architettura del De
prospectiva pingendi. In realtà non esistono disegni di Piero indipendentemente da quelli
delineati nelle copie dei suoi trattati, né è stato mai possibile individuare un disegno
preparatorio per uno dei suoi dipinti. Non è difficile, tuttavia, mettere in relazione determinati
dipinti ad alcuni schemi prospettici, a dimostrazione quanto la pratica pittorica e la teoria
fossero davvero l’una conseguenza dell’altra per il grande artista di Sansepolcro.

IL BATTESIMO DI CRISTO

Fra i primi dipinti di Piero si colloca certamente la tavola con il Battesimo


di Cristo, ora conservata alla National Gallery di Londra . L’opera,
realizzata per la Chiesa di San Giovanni Val d’Afra a Sansepolcro
attorno al 1443/1445 doveva costituire la porzione centrale di un
polittico. La figura del Cristo, immobile occupa il centro della tavola. A
destra San Giovanni Battista versa l’acqua sulla testa di Gesù
battezzandolo, mentre a sinistra tre angeli astànti assistono alla scena.
Questa, come noto, avviene fra le acque del Giordano, in Palestina, ma
Piero dipinge una veduta della valle del Tevere con una cittadina
(all’altezza del fianco destro di Cristo), chiusa fra le sue mura, alle
pendici di un colle ridente: Sansepolcro, la sua città natale. La solidità
del corpo di Cristo è ripetuta, a sinistra, da quella del tronco dritto
dell’albero la cui chioma, con la sua forma emisferica, determina una
sorta di cupola che copre l’immagine dell’uomo-dio sul quale si libra lo
Spirito Santo in forma di candida colomba con le ali spiegate. L’albero è
un noce, in ricordo dell’antica denominazione della valle in cui sorge
Sansepolcro: Val di Nocèa. D’altro canto un albero di fianco a Gesù,in
primo piano e così fortemente coinvolto nella narrazione, è un’allusione
al legno della Croce.Alla destra del Battista un giovane si sta spogliando
: togliersi le vesti prima del battesimo era inteso dalla Chiesa come l’atto
esteriore dello spogliarsi dei peccati. Ma il gesto del giovane può essere
inteso anche come il vestirsi: anche in questo caso la veste candida è
un’allusione alla nuova vita dopo il battesimo. L’ambiguità dell’azione è,
però, forse voluta dallo stesso Piero per manifestare ambedue i
significati inerenti al battesimo.Dietro al neofita i Farisèi e i Sadducèi si
allontanano seguendo il corso del fiume nelle cui acque si specchiano. Il
cielo è solcato da nuvolette bianco-grigie e il paesaggio è luminoso e
nitidissimo, come se fosse tutto in primo piano. Ma la lunga strada
leggermente ondulata che conduce alla città , le anse del fiume che si
allarga alla base della tavola, gli alberelli conici e i tronchi d’albero
tagliati che proiettano la loro ombra sul prato verde cupo danno la
misura della profondità dello spazio prospettico e della lontananza dei
colli. Sui corpi levigati si spande una luce morbida ed equamente
distribuita che non crea ombre violente, ma tutto avvolge definendo
un’atmosfera sospesa e irreale. La luce costruisce le forme, illuminando i
contorni che, pertanto, non sono evidenziati da un segno scuro, quello
del disegno, che i pittori fiorentini, invece, enfatizzavano per dare più
concretezza plastica alle figure La scelta del soggetto, il Battesimo di
Cristo, implica la raffigurazione della prima distinta manifestazione delle
tre persone della Santissima Trinità. Nella composizione di Piero non
compare Dio Padre. Tuttavia una pioggia d’oro cala dall’alto investendo
la colomba e Gesù, manifestazione visibile dell’emanazione da Dio . Di
leggera polvere d’oro sono anche le aureole prospettiche del Cristo e di
San Giovanni. La forma della tavola e lo stesso schema compositivo
alludono alla Trinità. La tavola, infatti, si compone di una porzione
inferiore, rettangolare, e di una superiore, semicircolare. Il lato superiore
del rettangolo, passante per le ali spiegate della colomba, è anche la
base del triangolo equilatero il cui vertice sta sul piede destro di Cristo
(ma anche sull’asse centrale) e il cui centro cade proprio sulle mani
giunte di lui. Alla Trinità alludono ancora gli angeli stessi, in numero di
tre , e i colori della veste di quello di sinistra. l’angelo di destra e quello
centrale si tengono per mano e si abbracciano sotto lo sguardo di un
terzo angelo che, con il palmo della mano destra rivolto verso il basso,
evoca un antico gesto di concordia. Concordia voluta da Dio stesso:
infatti, l’angelo è vestito di rosso, bianco e blu, i colori che,
nell’iconografia occidentale, caratterizzano l’Eterno.

STORIE DELLA CROCE

nel 1452, Piero viene incaricato dalla famiglia Bacci di continuare gli
affreschi riguardanti le Storie della Croce che Bicci di Lorenzo ,un
pittore fiorentino ancora legato ai modi del Gotico Internazionale, aveva
iniziato nel coro della Chiesa di San Francesco ad Arezzo. Piero
compone dieci scene distribuendole in due lunette e otto riquadri su tre
distinti registri. Le dieci storie, alle quali sono aggiunte due figure di
profeti , sono disposte sulla parete di fondo della cappella absidale e
sulle due laterali. La sequenza degli episodi ha inizio nella lunetta di
destra e si conclude in quella di sinistra, anche se con alcuni passaggi
che possono sembrare a prima vista illogici . In realtà la narrazione
acquista concretezza se si considerano i temi trattati sui tre distinti livelli
delle tre pareti:

■scene di battaglia e annunciazioni con la presenza di figure angeliche


nel registro inferiore ;

■scene nelle quali si esalta l’intuizione mistica di due regine nel


riconoscere il legno della Croce,nel registro mediano ;

■ inizio e fine della storia in quello superiore .

L’artista lavorò ai dipinti con degli aiuti ma solo limitatamente ad alcuni


episodi, facendo uso di cartoni i cui disegni furono seguiti
meticolosamente nel corso dell’esecuzione. Il ciclo si colloca nel clima
della conquista turca di Costantinopoli e del timore, dai colori foschi per
l’Occidente, di una possibile avanzata del sultano Mehmed II in Europa.
Inoltre esso è sostenuto dalle continue allusioni alla necessità di una
crociata per riconquistare i luoghi santi. Gli eventi narrati vanno dunque
letti alla luce di una pittura storica che acquista valore, però, solo se
messa in relazione con la politica occidentale di quegli anni di metà
Quattrocento.

Salomone e la regina di Saba


Una ferrea geometria divide esattamente in due parti uguali gli spazi
dedicati ai distinti episodi della regina di Saba che venera il legno della
Croce e di Salomone che incontra la regina, nel riquadro mediano della
parete di destra . Il primo episodio, a sinistra, si svolge all’aperto, il
secondo, a destra, all’ombra di un portico reso in prospettiva. Venuta da
un lontano regno della penisola arabica, la regina di Saba riconosce la
santità di un legno gettato fra le sponde di un corso d’acqua a mo’ di
ponte, si inginocchia e lo venera. Attorniata dalle dame del suo seguito,
silenziose e meravigliate, la regina, coperta da un mantello azzurro, è a
mani giunte e con la testa leggermente chinata in avanti. Il legame fra la
regina e le compagne e la partecipazione di queste al mistero
dell’intuizione della loro sovrana sono resi visibili dai gesti delle braccia
che quasi si uniscono a formare una sorta di catena protettiva. Una
serva poco lontano aspetta e dei nobili giovani parlano fra loro, mentre si
occupano dei cavalli al riparo di un albero. Poche notazioni
paesaggistiche definiscono l’ambiente esterno: due alberi, un prato
verde, delle colline dalle vette tondeggianti, il cielo con qualche nuvola.
L’incontro avviene in un sontuoso portico con colonne scanalate, su basi
attiche e dal capitello composito, sulle quali grava il solo architrave a tre
fasce. Il soffitto è a grandi lacunari di marmi colorati, che ripetono le
specchiature della parete di fondo. Il centro della composizione in questo
caso è costituito da Salomone che stringe nella mano destra la sinistra
della regina, inchinatasi al suo cospetto. Un ampio mantello di damasco
giallo oro ricade in pieghe regolari dalle spalle del re d’Israele dalla
saggezza proverbiale, che indossa un abito azzurro e un copricapo a
falde tese.Le donne e gli uomini che accompagnano i due sovrani si
dispongono a cerchio attorno a loro e osservano la scena. Piero, che ha
fatto ricorso alle sue conoscenze architettoniche nello strutturare il
portico ,tratta i personaggi secondo precisi volumi geometrici. Non è
difficile, infatti, riconoscere delle figure ovoidali nelle teste degli uomini e,
soprattutto, delle donne; i colli, invece, sono dei piccoli cilindri. Alla
geometria è riservato anche il ruolo di “segnalare” la scansione dello
spazio: una suddivisione dell’intero riquadro in otto parti uguali, infatti,
individua otto elementi significativi che materializzano le verticali
divisorie . Allo stesso tempo tutte le figure– salvo alcuni piccoli
sforamenti – sono rigorosamente contenute nella metà inferiore del
riquadro che occupano per tutta l’altezza. Le donne del seguito
all’esterno sono le stesse che si trovano all’interno dell’edificio, perciò
Piero,per raffigurarle nelle due occasioni, ha fatto ricorso agli stessi
cartoni, che ha semplicemente rovesciato, cambiando poi, in piccola
misura, solo alcune pose. L’importanza e la solennità dell’evento,
infine,sono enfatizzate dalla prospettiva con una linea d’orizzonte molto
bassa che produce l’effetto di conferire monumentalità ai personaggi, in
quanto sono visti prevalentemente dal basso.

Il sogno di Costantino
Il sogno di Costantino è sempre stato interpretato come il primo notturno
della pittura italiana d’età moderna. Un chiarore comincia a diffondersi,
ma le stelle, ancora brillanti, punteggiano il cielo. Un angelo in volo, con
le braccia tese, e recante una piccola croce luminosa, dalla quale la luce
si irradia dintorno, porta a Costantino il sogno con la rivelazione che,
avrebbe vinto la battaglia contro Massenzio se avesse apposto sugli
scudi dei soldati la croce di Cristo. La scelta dell’alba è proprio in
relazione all’avveramento del sognoi. La luce emanata dalla croce rende
luminosissime, candide e traslucide le piume dell’ala destra del
messaggero divino oltre che il suo volto . Essa illumina la tenda da
campo entro la quale, vegliato da un servitore, dorme l’imperatore. Due
armati proteggono il sonno di Costantino e ambedue sono portati alla
ribalta dalla luce.Di quello a sinistra, che impugna la lancia ed è visto di
spalle, si nota l’armatura riflettente, del secondo, a destra, in veduta
frontale, si è catturati dai giochi delle ombre, effetto della luce forte e
improvvisa. È stato dimostrato che le stelle dipinte da Piero non sono
solo puntini casuali contro il chiarore del cielo, ma corrispondono alla
vera posizione di alcune stelle e costellazioni, però in controparte, cioè
non come le si potrebbero vedere dalla terra alzando gli occhi, ma come
le si vedrebbero stando loro dietro, dal cielo.

Sacra conversazione
Forse l’opera più rappresentativa dell’intera arte di Piero, oltre che uno
degli ultimi dipinti da lui eseguiti, è la Sacra conversazione, nota anche
come Pala Montefeltro , già nella Chiesa di San Bernardino a Urbino.
Realizzata tra il 1472 e il 1474, la pala, in cui si fa uso dell’olio oltre che
della tempera, aveva un significato votivo a ricordo di avvenimenti
importanti, lieti e tragici, di quegli anni. Essa ricorda, infatti, la nascita a
Gubbio dell’erede di Federico, Guidobàldo , la successiva morte della
moglie Battìsta Sforza e la conquista di Volterra da parte di Federico,
che nella tavola appare rivestito della sua armatura da battaglia.La
Vergine in trono , adorante il Bambino addormentato sulle sue ginocchia,
è circondata da sei santi e da quattro angeli preziosamente abbigliati.
Dinanzi a lei, inginocchiato a destra, è collocato Federico da
Montefeltro . Questa posizione vuol significare umiltà da parte del
signore di Urbino, in quanto non ha voluto essere raffigurato al posto
d’onore, alla destra della Vergine (a sinistra,guardando il dipinto).
Tuttavia la scelta ha anche una motivazione estetica. Infatti Federico
aveva perso l’occhio destro e una parte del naso durante un torneo,
ragion per cui preferiva sempre farsi ritrarre dal lato integro della propria
persona. Il Signore di Urbino ha deposto ai piedi della Vergine il
bastone del comando, affidando così a lei il compito di proteggere lo
Stato. San Gerolamo si percuote il petto con un sasso, San Pietro
martire ha la testa spaccata e sanguinante , San Francesco, scostando
un lembo del saio, mostra la ferita sul costato , mentre tiene nella destra
una piccola croce di cristallo di rocca. La stessa Vergine con il bambino
addormentato rinvia al tema della Pietà cioè all’insieme della Madre che
tiene in grembo il Figlio morto sulla Croce. E il gioiello che pende dal
collo del piccolo Gesù, una catenina terminante con un rametto di corallo
e un pendaglio di peli di tasso, non è solamente un dono
beneaugurante. Infatti, il rametto, rosso come il sangue, si dispone sul
petto del Bambino nella stessa posizione in cui una lancia avrebbe
perforato il costato del bambino fattosi uomo e crocifisso. La Sacra
conversazione si svolge all’interno di un fastoso edificio classicheggiante
di cui si vedono il presbiterio, il coro , l’abside, gli archi laterali introduttivi
ai bracci di un ipotetico transetto e l’accenno all’arco che introduce al
corpo longitudinale. Alcune paraste scanalate e molto sporgenti, con
capitelli corinzieggianti ne scandiscono le superfici laterali rivestite di
marmi variamente colorati. Tutti i personaggi, dalla Vergine ai santi e agli
angeli, sono nella campata dell’edificio che è più vicina a chi osserva ,
anche se la composizione prospettica sembra proiettarli al centro
dell’edificio, al di sotto della cupola che non è difficile immaginarsi
all’incrocio dei quattro bracci della croce. Piero dovette meditare a lungo
sulla Trinità Di Masaccio perché non ne ha ripetuto le incongruenze
prospettiche e, ancor più accuratamente, ne ha evitato la spiccata
assialità . Il coro della Pala Montefeltro, infatti, è coperto da una volta a
botte cassettonata decorata a rosoni con tocchi d’oro, ma il numero dei
cassettoni su ciascun arco è dispari (nove invece degli otto
masacceschi). Ciò comporta che sull’asse verticale non vi sia una
nervatura ma una fila di lacunari, che ne mitiga la rigidità. Il coro termina
con un’abside semicircolare il cui catino è occupato da una conchiglia.
Qui, più che altrove, è dato cogliere la sapienza prospettica di Piero e la
sua non comune conoscenza delle leggi fisiche riguardanti la luce. È
questa che esalta l’architettura dipinta conferendole tridimensionalità,
mentre una grande cura è riservata ai più minuti dettagli. Lo
testimoniano gli abiti di non facile rappresentazione, quale quello di velo
dell’angelo a sinistra della Vergine, il rosso tappeto orientale che copre
la pedana su cui è appoggiato il trono, le acconciature dei capelli, i
gioielli , il manto di velluto blu di Maria bordato di perle e pietre preziose ,
il damasco dell’abito della Vergine infine, l’elsa della spada di Federico e
i volti incisivamente caratterizzati.È però sull’armatura di Federico che
Piero ha veramente misurato il proprio valore. Sulla corazza, infatti, si
riflettono il manto della Vergine e la finestra che è la fonte di luce
nascosta a sinistra. Sull’elmo, la cui celàta è volta verso chi osserva, si
riflette, invece, lo stesso Federico.

MASACCIO
Masaccio nasce a Castel San Giovanni in Altura nel 1401. La
formazione artistica e culturale di Masaccio avviene a Firenze dove egli,
rimasto orfano di padre , si trasferisce con la madre e i fratelli forse. Le
notizie sulla sua biografia sono molto scarse e non si conoscono di
preciso neanche quali furono i suoi maestri, tranne forse il pittore e orafo
fiorentino Niccolò di Lapo. L’ambiente fiorentino del tempo è ricco di
stimoli artistici di ogni tipo e proprio in questo fervore creativo generale il
precoce talento del giovane Masaccio trova il terreno di sviluppo più
fertile e stimolante. Egli concepisce una pittura radicalmente nuova,
arrivando subito a porsi, insieme a Brunelleschi e a Donatello, come il
terzo, fondamentale punto di riferimento della rivoluzione artistica del
primo Quattrocento .Attivo soprattutto a Firenze, sia da solo sia in
collaborazione con Masolino, Masaccio lavora anche a Pisa e a Roma,
dove inizia, assieme a Masolino, un polittico per la Basilica di Santa
Maria Maggiore. Proprio a Roma Masaccio muore, appena
ventisettenne, nel 1428.

CAPPELLA BRANCACCI
Il grande ciclo di affreschi della Cappella Brancacci, nella Chiesa di
Santa Maria del Carmine a Firenze è stato voluto da Felice di Michele
Brancacci, ricco mercante e potente uomo politico fiorentino, e venne
eseguito all’interno della cappella di famiglia a partire dal 1424 in stretta
collaborazione con Masolino, per essere poi modificato e in parte
ultimato da Filippino Lippi tra il 1481 e il 1483. I due maestri concordano
preventivamente la distribuzione delle dodici scene, disposte su due
registri sovrapposti, in modo che i loro diversi interventi possano
amalgamarsi con un certo equilibrio e non contrastarsi, come era
avvenuto nella Sant’Anna Metterza. Il tema narrativo prescelto è quello
della vita di San Pietro , al quale si aggiungono anche due scene tratte
dalla Genesi 1 e 9 . Nel ciclo di affreschi la centralità della figura di
Pietro allude a quella della Chiesa, prosecutrice dell’opera di salvezza
dell’umanità iniziata da Cristo. La severa monumentalità con cui il santo
è più volte raffigurato richiama quella della statua bronzea di San Pietro
in cattedra, ancora oggi nella Basilica Vaticana.

TRIBUTO
Nell’affresco del Tributo,Masaccio illustra un episodio del Vangelo di
Matteo nel quale è descritto l’ingresso di Cristo e dei suoi Apostoli nella
città di Cafàrnao . Come di consuetudine il gabelliere pretende da loro
un tributo per il Tempio di Gerusalemme. Gesù, pur ironizzando su
quanto sia singolare che il Figlio debba pagare un tributo al Padre, non
vuole trasgredire le leggi e, a tal fine, incarica Pietro di pescare un pesce
nella cui bocca troverà una moneta d’argento per pagare la tassa
dovuta.L’artista concentra nello stesso dipinto quattro momenti
temporalmente diversi. Il primo, al centro, corrisponde a quando il
gabelliere, rappresentato di spalle, esige il tributo . Si tratta di una
rappresentazione di grande intensità in quanto in essa Masaccio mette
bene in evidenza lo stupore nei volti degli Apostoli che si guardano
increduli fra loro, incerti sul da farsi, poiché nessuno di essi possiede il
denaro necessario . In questa scena vi è già il preannuncio della scena
successiva, posta in secondo piano. Cristo, infatti, comanda a Pietro di
recarsi a pescare e questi indica a sua volta il Lago di Tiberiade quasi a
chiedere conferma di un ordine che, in quel momento, gli sembra un po’
singolare. Sulla riva, a sinistra, è quindi raffigurato Pietro da solo, intento
alla pesca prodigiosa . A destra, infine, nuovamente in primo piano,
Pietro ricompare nel momento in cui, con un gesto estremamente
deciso, consegna il denaro all’esattore. Tutti i personaggi hanno un
rilievo quasi scultoreo. Masaccio definisce con il chiaroscuro i loro
possenti volumi e i realistici panneggi, ricorrendo a pochi colori
essenziali, approfondendo e portando alle estreme conseguenze la
lezione giottesca della cappella padovana degli Scrovegni. Nonostante
l’artificio di rappresentare contemporaneamente quattro azioni
successive, la prospettiva adottata da Masaccio è sempre la stessa.
Essa fonde pertanto sia lo spazio sia il tempo in una visione unitaria
della realtà. Il paesaggio appare brullo e desolato, con le montagne che
– per accentuare il senso dello sfondamento prospettico – sono disposte
in successione cromatica: verdi quelle più vicine e grigio-azzurrognole
quelle in lontananza, con le vette imbiancate di neve all’orizzonte. Anche
le architetture sulla destra, infine,con una loggia esterna e i battenti
lignei alle finestre, contribuiscono a una chiara determinazione spaziale
della scena, creando un insieme di volumi puri e geometricamente
riconoscibili e ben definiti. Poiché le ombre proiettate dai vari personaggi
hanno tutte una stessa direzione, la fonte luminosa che Masaccio
utilizza è evidentemente unica e puntiforme (il sole). Essa viene
immaginata proveniente dal lato destro, in alto, fuori dai limiti
dell’affresco, come se entrasse dalla bifora archiacuta che illumina
l’intera cappella. In tal modo la luce reale interagisce con quella dipinta.

TRINITA
Nel ciclo della Cappella Brancacci Masaccio usa la prospettiva
soprattutto per individuare e porre in rapporto tra loro i volumi dei
personaggi e questa è impiegata al fine di misurare e di rendere
comprensibile lo spazio, dando l’effetto ottico di sfondare la parete.
L’affresco, collocato nella terza campata della navata sinistra della
basilica fiorentina di Santa Maria Novella, presenta una struttura
narrativa prospetticamente ripartita su diversi piani . Tale artificio,crea un
effetto di grande profondità spaziale, come se la cappella non fosse
solamente dipinta, ma quasi scavata oltre lo spessore del muro. In primo
piano, in basso, Masaccio raffigura un sarcofago con sopra uno
scheletro. Sopra allo scheletro, su una predella aggettante rispetto alla
parete, sorretta a sua volta da quattro colonnine binate, con capitelli
apparentemente corinzi vi sono le due figure inginocchiate in preghiera
dei committenti dietro alle quali si apre la cappella dipinta vera e propria.
Al suo interno, vengono rappresentati, in secondo piano, in piedi
accanto alla croce, la Vergine (a sinistra), che rivolge verso di noi uno
sguardo severo, indicandoci il figlio con la destra, e San Giovanni, con le
mani giunte. Cristo è simbolicamente sorretto, alle spalle, da Dio Padre
che si colloca in terzo piano, al vertice più alto della piramide
compositiva. Tra il volto impassibile del Creatore e quello dolorosamente
reclinato di Cristo,Masaccio inserisce anche la candida colomba dello
Spirito Santo , cogliendola naturalisticamente in atto di calare in volo
verso il basso, con le ali aperte. Quello che maggiormente colpisce in
quest’ affresco è la monumentalità dei personaggi, i cui mantelli
individuano dei volumi forti e precisi, quasi si trattasse di sculture a tutto
tondo più che di figure dipinte. Esse scandiscono fisicamente i vari piani
stabilendo nello stesso tempo anche una gerarchia crescente di valori.
Dalla morte del corpo ci si eleva,grazie all’intercessione e per mezzo
della preghiera, fino alla salvezza dell’anima e alla definitiva sconfitta
della morte stessa . Con Masaccio, dunque, possiamo considerare
definitivamente superata la tradizione pittorica del Gotico Internazionale.
Le intuizioni di Giotto vengono infatti riprese, sviluppate e potenziate
dando origine a personaggi efficacemente realistici, modellati dal
chiaroscuro e resi credibili dalla perfetta aderenza delle loro espressioni
alle situazioni che stanno vivendo. Tutte le figure, infine, appaiono
inserite entro paesaggi, città o architetture prospetticamente esatti, a
dimostrazione del raggiungimento di una totale padronanza delle
tecniche scientifiche di rappresentazione della realtà.

SANT'ANNA MATTERZA
La Vergine è seduta su un trono con il Bambino tra le braccia.
Sant’Anna invece è dietro di lei e poggia la mano destra sulla spalla
della Vergine. Due angeli in basso agitano un turibolo mentre altri due
scostano le cortine di lato e uno le solleva in alto. Questo dipinto
realizzato in collaborazione tra Masolino e Masaccio rappresenta una
diversa e netta concezione della rappresentazione della realtà. Questa
tavola è anche detta Sant’Anna con la Madonna, il bambino e cinque
angeli. Si tratta di una delle opere più importanti conservate presso la
Galleria degli Uffizi di Firenze. Masolino realizzò l’intera tavola mentre
Masaccio dipinse la Madonna, il Bambino e l’angelo che regge la cortina
in alto a destra. La mano dei due maestri è evidente poiché la
concezione dello spazio e dei volumi è diversa. Masaccio fu un
innovatore e introdusse un netto chiaroscuro nelle tre figure, che dipinge
rendendole maggiormente solide e realistiche. Masolino invece fu un
artista ancora legato alla concezione dello spazio del gotico Fiorentino. I
colori sono tutti caldi e tendenti al rosso. Il trono spicca per la sua
colorazione verde-grigio. Il manto della Madonna è molto scuro e
lumeggiato sul panneggio lasciando intravedere la solidità del corpo
sottostante. Le vesti degli angeli, soprattutto quella arancione in alto a
sinistra hanno delle ombre colorate che li rendono leggeri e
impalpabili.Le ombre e i colori dei volti invece sono tendenti al verde,
colore complementare al rosso e al rosa, che crea un chiaroscuro deciso
ed efficace. La luminosità intensa proviene frontalmente da sinistra e
modella i volumi, soprattutto della Madonna con Bambino in modo molto
deciso e marcato. La profondità si percepisce attraverso il basamento
del trono e le solide strutture che lo chiudono lateralmente e nella
sovrapposizione dei personaggi, a partire da Gesù Bambino in primo
piano, dal volto della Madonna e, dietro di lei, da Sant’Anna. Fa da
sfondo alle tre figure divine il manto e la cortina decorata finemente e
sostenuta dagli angeli che si pongono dietro di essa suggerendo quindi
un quinto piano prima del fondo dorato. La Madonna è contenuta in un
blocco piramidale molto pesante visivamente. La composizione in alto
termina con un arco a sesto acuto come nella tradizione gotica. Si tratta,
comunque, di una composizione fortemente centrale che si riflette lungo
l’asse che unisce il centro del basamento del trono che viene verso lo
spettatore, il volto della Madonna, il volto di Sant’Anna e l’angelo
reggicortina in alto.

POLITTICO DI PISA
Il Polittico di Pisa è un'opera di Masaccio, è una tempera su tavola a
fondo oro. Originariamente doveva essere composta da almeno cinque
scomparti, organizzati su doppio registro, per dieci pannelli principali, dei
quali se ne conoscono solo quattro. Altri quattro piccoli pannelli laterali e
tre della predella sono noti e oggi conservati agli Staatliche Museen di
Berlino. Il polittico aveva un impianto ancora medievale, diviso forse in
scomparti su più ordini e figure su fondo oro, con i personaggi modellati
da un forte chiaroscuro, ottenuto tramite vibranti campiture di colore e
lumeggiature.Vi si può sicuramente leggere un'influenza di Donatello e
delle sue sculture nella maestosa monumentalità di alcune figure, come
la stessa Madonna o i santi nelle cuspidi. Tutti i pannelli rispondevano
ad un unico punto di fuga in modo che la composizione risultasse
unitaria, per questo si spiegano le figure rialzate della predella e le figure
incassate della cuspide.

DONATELLO
Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, nasce a Firenze nel
1386. Di modestissime origini,inizia il suo apprendistato artistico fra il
1404 e il 1407 presso la bottega del già affermato Ghiberti, dal quale
acquisisce sia le tecniche del cesello e della fusione in bronzo sia
l’amore per l’arte classica. A Roma ha l’opportunità di ammirare
direttamente dal vivo opere scultoree della tradizione classica. Molta
dell’attività di Donatello si svolge a Firenze, alla cui crescita artistica egli
contribuisce forse più di ogni altro, soprattutto per la realizzazione di
cinque statue per il Campanile di Giotto e tre per i tabernacoli esterni
della Chiesa di Orsanmichele.Nel 1466 muore, ottantenne, nella sua
casa fiorentina nei pressi del Duomo. Con Donatello la scultura giunge a
risultati irripetibili non solo perché, l’artista è stato il primo a sapersi
riallacciare alla tradizione scultorea greco-romana , ma anche perché
per primo ha saputo superarla, infondendo ai suoi personaggi
un’umanità e un’introspezione psicologica che sarebbero rimaste a
lungo uniche nella storia dell’arte. Nel corso di oltre un sessantennio di
intensa attività Donatello sperimenta tutte le possibili tecniche
(tuttotondo, altorilievo, bassorilievo, stiacciato) e tutti i possibili materiali
(marmo, bronzo,terracotta, stucco, legno), riuscendo ogni volta a dare
alle proprie opere un’impronta assolutamente riconoscibile e innovativa.

SAN GIORGIO
San Giorgio commissionato a Donatello nel 1417 . La statua presenta
ancora qualche traccia di un gusto gotico ormai al tramonto. San Giorgio
appare solido e ben sicuro di sé, con le gambe leggermente divaricate e
il grande scudo crociato romboidale che funge da ulteriore punto
d’appoggio. un volto sereno e consapevole. Donatello conferisce al suo
San Giorgio dei tratti pensosi, con le sopracciglia contratte e la fronte
aggrottata, come per esprimere una certa inquietudine interiore.Nel
basamento della statua, oggi conservata al Museo Nazionale del
Bargello, Donatello realizza anche un bassorilievo con San Giorgio e la
principessa . In esso l’artista mostra di aver già acquisito la piena
padronanza delle tecniche brunelleschiane della rappresentazione
prospettica.La linea d’orizzonte è posta all’altezza della testa della
principessa e il punto di fuga centrale sulla mediana minore, in
corrispondenza del dorso del santo cavaliere. Questi, al centro della
scena, sta trafiggendo il drago, simbolo del peccato e della barbarie, ed
è rappresentato in modo molto verosimile, nel pieno della lotta. Il suo
mantello si agita al vento, quasi fuoriuscendo dal margine superiore
della lastra, mentre il piede sinistro di San Giorgio stringe con grande
realismo la pancia del cavallo che, essendosi impennato, avrebbe
altrimenti potuto disarcionarlo. Sulla destra la principessa
(personificazione della Chiesa) osserva il combattimento a mani giunte.
Alle sue spalle vi è un portico classicheggiante in prospettiva, emblema
di razionalità, in contrapposizione con l’antro del mostro, sul lato
opposto, a sua volta simbolo di primitività. Nonostante la lunga
permanenza all’esterno abbia parzialmente abraso il marmo e quindi
alterato gli effettivi spessori, il graduale passaggio dal bassorilievo dei
personaggi principali allo stiacciato appena percepibile dello sfondo
boscoso non ubbidisce solo alle regole della prospettiva geometrica.
Esso, infatti, crea anche dei suggestivi effetti di chiaroscuro in tutto simili
a quelli ottenibili in pittura.

IL BANCHETTO DI ERODE
Tra il 1423 e il 1427 Donatello,è chiamato a collaborare alla
realizzazione del fonte battesimale del Battistero di Siena . In
quest’occasione egli realizza una straordinaria formella in bronzo
raffigurante Il banchetto di Erode, successivamente dorata dall’orafo e
scultore Giovanni di Turino . In essa l’artista pone ogni cura sia nella
rappresentazione prospettica, sia nell’organizzazione degli spazi, sia
nella disposizione dei personaggi. La scena mostra in primo piano, a
sinistra, un servo inginocchiato che offre a Erode un vassoio recante la
testa mozzata del Battista. Il vecchio sovrano, che pur ne aveva
comandato la decapitazione per compiacere la giovane Salomè è
rappresentato da Donatello nell’atto di ritrarsi, con le palme delle mani
aperte, in un gesto quasi di orrore di fronte a quella terribile vista. Il
racconto, così, assume aspetti di drammatico realismo e l’allegro
banchetto sfocia in turpe delitto. Anche altri partecipanti al banchetto si
ritraggono, agghiacciati dalla crudele esecuzione e solo Erodiade, a
sinistra, si protende verso di lui, indicandogli il macabro trofeo. Donatello
rappresenta gli effetti dello spregevole delitto sui partecipanti al
banchetto, giustificando così una soluzione compositiva alla quale
avrebbe più tardi guardato Leonardo per l’Ultima Cena .In tal modo,
viene a crearsi un vuoto proprio al centro della scena e questo artificio
compositivo, insieme alla fuga prospettica del pavimento e degli oggetti
posti sulla tavola imbandita , crea un senso di profondità e di realismo
mai visti prima in un bassorilievo. Il geometrico succedersi degli archi
dello sfondo, grazie all’uso di un rilievo progressivamente sempre più
schiacciato e all’impiego, relativamente alle travi e ai soffitti, di un
secondo e più elevato punto di fuga prospettico , contribuisce a dare
ulteriore profondità all’intera scena. Al di là degli archi, del resto, si
stanno svolgendo due altre fasi della narrazione. Al centro un suonatore
di viola allude alla danza dei sette veli che Salomè, raffigurata a
destra,davanti al tavolo, sta ancora compiendo (o ha appena concluso),
come si indovina dalle sue armoniose movenze. In fondo a sinistra,
invece, oltre la seconda serie di archi, ritorna la raffigurazione del
servitore che, in un momento precedente, mostra la testa del Battista
anche a Erodiade (o Salomè) e a due ancelle. Mediante tale invenzione,
Donatello definisce con la lontananza nello spazio quello che è anche
lontano nel tempo (cioè avvenuto prima) e, viceversa, vicino nello spazio
(in primo piano) ciò che è vicino nel tempo (quindi avvenuto dopo).
Questo nuovo modo di scandire la narrazione, rappresentando tempi
diversi all’interno della medesima scena, sostituisce, di fatto, il ciclo
narrativo medievale, nel quale, al contrario, a ogni avvenimento
successivo corrispondeva una nuova e diversa raffigurazione.

MONUMENTO EQUESTRE AL GATTAMELATA


La prima e più grandiosa fra le realizzazioni di Donatello nel decennio
padovano della sua piena maturità artistica consiste in un monumento
celebrativo in onore del capitano di ventura Erasmo da Narni,
soprannominata Gattamelata che, combattendo al servizio di Venezia,
ne aveva esteso i possedimenti in terraferma fino alla Lombardia. Il
gruppo bronzeo e il suo alto basamento vennero realizzati tra il 1446
circa e il 1453. La singolare architettura di tale basamento, che vista dal
lato corto appare come una tozza colonna, assolve di fatto alla funzione
di sepolcro monumentale del condottiero. Il gruppo bronzeo si ispira
direttamente alla statuaria romana e, in modo particolare, alla Statua
equestre di Marco Aurelio, del quale imita anche la collocazione. Infatti,
come la statua imperiale si trovava inizialmente nel Campus
Lateranensis, di fianco alla basilica romana di San Giovanni in Laterano,
il Gattamelata è posto sul sagrato della Basilica del Santo. Egli volge la
testa verso la propria sinistra, al pari del cavallo. La mano sinistra regge
saldamente le redini, mentre la destra impugna simbolicamente il
bastone del comando, che risulta orientato in modo tale da proseguire
nella direzione della retta ideale passante per lo spadone che gli pende
dal fianco . In pratica, se immaginiamo il cavallo e il cavaliere su un
piano, bastone e spada descrivono un’unica retta che taglia
diagonalmente la composizione , contraddicendone lo sviluppo secondo
le tre fasce orizzontali uguali corrispondenti alle zampe del cavallo, al
suo corpo e al busto del cavaliere. I tratti severi del volto, le ampie
stempiature della fronte, lo sguardo risoluto ne fanno uno dei ritratti più
naturali e psicologicamente profondi del Quattrocento, in una visione che
unisce l’ideale umanistico dell’astuto uomo di azione con il rimando
celebrativo alla potenza imperiale. Anche lo straordinario «naturalismo
integrale» del cavallo, con la zampa anteriore sinistra appena sollevata
e, per motivi statici, la punta dello zoccolo che poggia su una simbolica
palla di cannone, contribuisce alla credibilità complessiva del cavaliere.
Nonostante i riferimenti alla statuaria classica, infatti, esso è frutto di un
indubbio studio dal vero, come si ricava anche dalla forma della sella e
dalla realistica presenza delle staffe. La tecnica di fusione, in più pezzi
assemblati successivamente assieme, mediante grappe interne e
saldature, poi rifinite a freddo con il cesello, è tanto perfezionata da
eguagliare quella degli Antichi e da destare la meraviglia.

DAVID
L’esatta datazione del Dàvid in bronzo che Donatello realizzò per
Cosimo de’ Medici è a tutt’oggi molto dibattuta e controversa ma, se si
accetta – come è stato attendibilmente proposto – che fosse stata
commissionata per il vecchio palazzo di famiglia, potrebbe collocarsi
intorno al 1435/1440 . La scultura, una fusione a cera persa di
dimensioni pressoché naturali, perfettamente tornita e rifinita al cesello,
è stata evidentemente pensata, oltre che per la vista f rontale, anche per
quella tergale e – soprattutto – per quella dal basso, poiché in origine
doveva essere posta su di un alto piedistallo . Essa presenta alcuni tratti
singolari, come lo strano copricapo e i calzari, tanto che è stato anche
proposto di identificarla con il giovane Hermes della mitologia greca. In
questo caso il dio sarebbe colto nell’atto di osservare con pacato
distacco la testa mozzata di Argo, il leggendario gigante dai cento occhi
da lui ucciso per ordine di Zeus. Partendo da uno spunto decisamente
classico (questa è infatti la prima grande statua a tuttotondo, dopo oltre
un millennio, che raffiguri di nuovo un nudo virile), Donatello conferisce
al suo personaggio, chiunque esso rappresenti, un’espressione di
naturale pensosità, con la testa ruotata e lievemente inclinata verso il
basso, in vivace contrasto con l’innaturale postura del corpo ,
sicuramente ispirata all’antica statuaria di derivazione policletea. Tutto il
peso del giovane corpo grava sulla gamba destra, imponendo un
corrispondente abbassamento del bacino a sinistra. In opposizione a
questo la spalla sinistra è lievemente rialzata, mentre la mano destra
impugna una lunga spada e il piede sinistro poggia, in segno di vittoria,
sulla testa del nemico ucciso. La luce è impiegata da Donatello come
strumento di modellazione delle masse e, scivolando dolcemente sulle
membra adolescenti del David/Hermes, finisce poi per addensarsi ai
suoi piedi, ove crea ombre profonde sulla testa di Golia/Argo , ancora
racchiusa dall’elmo ornato di ali, una delle quali si distende lungo
l’interno della gamba destra del giovane. Il Vasari rimane profondamente
colpito da quest’opera, della quale scrive che «è tanto naturale nella
vivacità e nella morbidezza, che impossibile pare agli artefici che ella
non sia formata sopra il vivo», vale a dire che non sia stata realizzata
con un modello vivente, e non solo riprendendo forme desunte dalla
tradizione scultorea e figurativa di bottega, come era avvenuto fino ad
allora.

BRUNELLESCHI
Figlio del notaio ser Brunellesco Lippi e di Giuliana Spini, Filippo dovette
avere una formazione che comprendeva anche lo studio della lingua
latina. Erano tuttavia le scienze esatte quelle che più lo appassionavano,
come narra il suo biografo, Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497). Ma
soprattutto egli prediligeva il disegno, la pittura, la scultura e
l’architettura. Dopo aver iniziato la propria attività artistica in qualità di
orafo ed essersi poi affermato pubblicamente nel 1401 al concorso per
la Porta Nord del battistero fiorentino , Brunelleschi dedicò tutta la vita
all’architettura.Alcuni soggiorni di studio a Roma permisero a Filippo di
avere una profonda conoscenza dell’architettura degli Antichi

SANTA MARIA DEL FIORE


Forte di queste conoscenze, Filippo, che già era stato consultato
dall’Opera di Santa Maria del Fiore per questioni inerenti al
completamento delle tre tribune e alla sopraelevazione del tamburo
della cattedrale fiorentina, partecipò al concorso per la realizzazione
della cupola, che ancora mancava per la conclusione della fabbrica
avviata da Arnolfo di Cambio nel 1310. In quegli anni, infatti, la
cattedrale della città toscana era ancora senza copertura nella zona del
coro e l’immane spazio ottagonale su cui era stata prevista una cupola
aveva il considerevole diametro di ben 78 braccia fiorentine . Se al
diametro dell’interno si aggiunge anche lo spessore del tamburo si arriva
a 92 braccia : dimensione che avrebbe impressionato qualunque
architetto, per quanto coraggioso. Brunelleschi propose di costruire una
cupola che noi oggi chiamiamo autoportante, cioè capace di sostenersi
(reggersi) da sé durante la costruzione, senza richiedere l’aiuto di
armature provvisorie di legno, la cui realizzazione, peraltro, sarebbe
stata improponibile sia per l’altezza dell’imposta della cupola (circa 50
metri da terra), sia per la quantità di materiale necessario, sia, infine, per
l’incapacità di una qualunque armatura lignea di sostenere il grande
peso della struttura in muratura durante l’esecuzione, ammesso che
l’intero castello di legname non fosse crollato prima a causa del peso
proprio.A Filippo venne dato per compagno nell’impresa Lorenzo
Ghiberti, che pure aveva presentato un suo progetto; ma questi, già dal
1425,non ebbe più una parte di rilievo nella costruzione. Con
Brunelleschi, d’altra parte, nasce la nuova figura del moderno architetto:
un artefice geloso delle proprie invenzioni e orgoglioso del proprio ruolo
intellettuale, tanto da richiedere per sé solo il controllo dell’intera opera,
dall’ideazione all’esecuzione finale.La cupola si erge su un tamburo
ottagonale forato da otto grandi finestre circolari che danno luce
all’interno. Vista dall’esterno essa appare come una rossa collina
percorsa da otto bianche nervature marmoree che convergono verso un
ripiano ottagonale in sommità. Su di esso imposta una leggera lanterna
cuspidata stretta da otto contrafforti a volùte, simile a un isolato
tempietto a pianta centrale. La cupola è alta e maestosa. La grande
struttura è costituita da due calotte distinte, una interna e l’altra esterna .
Tra l’una e l’altra calotta esiste, quindi, un’intercapèdine ,cioè uno spazio
che rende possibile la presenza di scale e corridoi , percorrendo i quali si
giunge sino al piano su cui si imposta la lanterna .Le due calotte ogivali
sono collegate da otto grandi costoloni d’angolo , i soli che si vedono
anche dall’esterno perché rivestiti di creste di marmo bianco , e da sedici
costole intermedie disposte lungo le facce delle vele . Costoloni d’angolo
e costole intermedie sono anch’essi uniti per mezzo di nove anelli in
muratura. Contrariamente a quanto avviene per le volte gotiche, che
prevedono che i costoloni siano costruiti per primi e poi si proceda con le
vele, la cupola fiorentina è costruita tirando su contemporaneamente e
con omogeneità costruttiva tutte le parti, strettamente connesse le une
alle altre e tutte portanti. Come si è accennato, la cupola è autoportante
e nessuna struttura lignea fu usata per sostenerla durante la
costruzione; solo delle centine mobili dovettero essere impiegate in
corrispondenza degli angoli dell’edificio, per guidarne correttamente il
tracciato a quinto acuto. La possibilità di costruire l’immensa mole di
mattoni è dovuta a due fattori:

■all’impiego della muratura a spinapesce;

■all’aver costruito una cupola di rotazione e non una semplice volta a


padiglione.

La spinapesce è una tecnica, dedotta dall’opus spicatum romano, che


consiste nel disporre dei ricorsi di mattoni verticalmente, di seguito ad
altri collocati di piatto .In tal modo l’intera doppia cupola è
attraversata,da parte a parte, da un insieme di «eliche murarie» che
stringono la muratura raccogliendosi alla base della lanterna .Come si è
detto Filippo Brunelleschi concepì e costruì la cupola della cattedrale di
Firenze come una di rotazione. Infatti i mattoni non sono disposti su
piani orizzontali, ma risultano inclinati verso i loro centri di curvatura e
giacciono su superfici coniche. Che tale fosse la tecnica adottata da
Filippo lo si può riscontrare anche salendo sulla cupola stessa: i mattoni
di ciascuna vela risultano tutti inclinati secondo una curva che ha il
massimo della sua concavità proprio nel centro di ogni vela .È noto
come una semisfera sia descritta dalla rotazione nello spazio di un
raggio . A una determinata altezza, quindi,il raggio che ruota disegna la
figura di un cono ,cono che, a sua volta, in una cupola reale, determina
la giacitura dei mattoni.Le tante possibili intersezioni tra i vari coni aventi
lo stesso vertice e la semisfera sono sempre delle circonferenze . Nel
caso di una cupola di rotazione a pianta ottagonale che implica
l’esistenza di più coni, tutti con il vertice sull’asse centrale della cupola ,
ciascuna intersezione, livello per livello, si legge come un insiemedi otto
curve . Le cùspidi in corrispondenza di ogni spigolo non devono trarre in
inganno: non c’è discontinuità nella muratura della cupola, come non c’è
interruzione nella rotazione del raggio di curvatura, filare per filare.
Com’è stato felicemente suggerito, ciascuno può avere esperienza sia
dell’assenza di soluzione di continuità tra una vela e l’altra sia della
conformazione delle curve di intersezione tra ogni cono e le vele, se solo
si sostituisce al padiglione ottagonale il prisma sfaccettato di una matita
e alla superficie conica generata dal raggio di curvatura il cono di un
temperamatite dotato di una lama . Facendo la punta alla matita si
modella un cono che interseca le facce della matita secondo linee
curve : è facile, per analogia, trasferire la semplice esperienza sul piano
più complesso della geometria della grande architettura fiorentina.

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