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WITTGENSTEIN

Le “forme di vita”.

Il linguaggio fa parte di una forma di vita nel


senso che si trova in relazione con una particolare
situazione pragmatica, vive e si trasforma in un
contesto di abitudini, simboli e credenze umane.

Ciò che conta infatti è l'uso che del linguaggio si


fa, è questo il suo significato, non ha quindi senso
studiare i fenomeni linguistici in modo generale e
generalizzante prescindendo dagli infiniti usi
possibili delle parole e considerando solo i nomi
come, secondo Wittgenstein, aveva
fatto Agostino pensando "ai rimanenti tipi di
parole come a qualcosa che si accomoderà".

 significato come uso


Wittgenstein asserisce che quasi mai le
parole funzionano come nomi, ovvero come
etichette che incolliamo in modo rigido ed
univoco sugli oggetti. Se le cose stessero sempre
in questi termini, i problemi della definizione e
della comunicazione espressiva risulterebbero
molto più difficili: ma le cose non stanno così.
Sia nel linguaggio scientifico sia (e in misura
ancora maggiore) in quello ordinario, le parole si
configurano piuttosto come mobili costrutti, come
fluidi strumenti il cui significato muta in rapporto
alle funzioni specifiche cui sono destinati. Ed è
proprio la funzione, la funzione pratica del
linguaggio, che deve essere concepita in maniera
totalmente innovativa: una maniera non più
univoca, ma pluralistica.

Par.26
«Si pensa che l'apprendere il linguaggio consista
nel denominare oggetti
È evidente che le locuzioni adempiono a compiti
espressivi che nulla hanno a che fare con la
funzione denominativa: esprimono
un'invocazione, un ordine (o una "preghiera"), un
lamento, e così via. Il che dimostra, appunto, per
riprendere un'espressione di Wittgenstein poc'anzi
citata, che col linguaggio noi letteralmente
"facciamo le cose più diverse".

“Se un leone potesse parlare, noi non


potremmo capirlo.”

• Il problema investe dunque i radicamenti stessi


del linguaggio in una forma di vita e qui sembra
chiara la differenza tra la lebensform del leone e
la lebensform degli esseri umani

• Come facciamo a dire che quella parlata da una


forma di vita, fisica e mentale, diversa dalla
nostra è simile alla nostra lingua ?;

• Ogni specie pertinentizza la realtà in modo


diverso, a seconda di come “vede” il mondo.

• Nella nostra specie, il linguaggio rende


estremamente potente il prerequisito
biocognitivo della pertinentizzazione, che, di
per sé, non è una capacità linguistica.
Gioco linguistico
par. 23
A questa attività, Wittgenstein ha dato il nome di
giochi linguistici, espressione con la quale egli
intendeva sottolineare, da un lato, il
carattere sociale e artificiale (nel senso, non
negativo, di non-naturale, di elaborato
culturalmente dall'uomo) dell'agire linguistico, e
dall'altro lato il fatto che questo agire, nonostante
la sua apparente gratuità e la sua relativa
imprevedibilità, ha determinati fini ad esso
immanenti, e soprattutto rispetta (come tutti i
giochi) determinate regole. Ed è proprio laddove
impiega la nuova definizione del fatto linguistico
come gioco che Wittgenstein torna a sottolineare
in modo molto efficace il fondamentale principio
della pluralità delle funzioni linguistiche e degli
asserti proposizionali: 
«Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per
esempio: asserzione, domanda, ordine? Di
tali tipi ne esistono innumerevoli:
innumerevoli tipi differenti d'impiego di tutto
ciò che chiamiamo segni, parole,
proposizioni. E questa molteplicità non è
qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte;
ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi
linguistici, come potremmo dire, sorgono e
altri invecchiano e vengono dimenticati.»
Regola/ gioco degli scacchi

• L’ analogia parola-pezzo degli scacchi ha una


duplice valenza
esplicativa.
• è solo nel contesto del giuoco che la figura
intesa come luogo logico delle sue regole svolge
pienamente la sua funzione.
• è la grammatica, intesa come complesso di
regole, cioè,
fondamentalmente come norma, che ci permette
di vedere
nella figura un elemento del giuoco e non un
semplice pezzo di legno.
• Il carattere sistematico e contestuale dei giuochi
emerge
spesso dal confronto parola-figura degli scacchi
(Saussure)
• Le parole non sono interamente determinate
dalle regole.

• I giochi sembrano essere caratterizzati da regole


che hanno un significato costitutivo § 82-84
• Un gioco configura un sistema di regole aperto
(automodificante e interattivo);
• I confini sfumati del gioco (“un recinto che
abbia
un buco è ancora un recinto?”).

• La regola può avere parti diverse:


– un ausilio,
– uno strumento,
– pratica del gioco (§ 54)

• Un gioco senza regole fisse ed esplicite non


cessa
di essere un gioco (§§ 70-71).
• Perché un gioco sia tale non è affatto necessario
che sia limitato dovunque da regole (§ 68)

• Un gioco dai confini sfumati non cessa di essere


un gioco. Il tennis non ha regole che stabiliscano
quanto alta o quanto forte gettare una palla

• Il paragone tra uso delle parole e un calcolo e


condotto secondo regole fisse rischia di essere
fuorviante (§81)
• Un errore potrebbe essere quello di coltivare
un’immagine ‘mitica’ della regola per cui
seguire una regola sarebbe come scivolare
lungo
– “un binario che si prolunga, invisibilmente fino
all’infinito” (§ 218, 219)

Seguire una regola è una prassi (§202)

• Credere di seguire una regola non è seguire una


regola
• Non si può seguire una regola una sola volta
• Per conoscere una regola ci vogliono due
eventi da confrontare.
• “Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo
bisogno di esempi” (DC §139)

Linguaggio privato

Wittgenstein introduce l’argomento del


“linguaggio privato”, chiedendosi se sia pensabile
un linguaggio in cui uno possa
esprimere le proprie esperienze intime ed
interiori, sentimenti, umori, un linguaggio
insomma in cui le parole «dovrebbero riferirsi a
ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza;
alle sue sensazioni immediate, private». Un
linguaggio dunque che un altro non può
comprendere
 confronto tra un atteggiamento di tendenza
“comportamentista” e una atteggiamento di
natura “coscienzialista”.
Prendiamo in considerazione il ‘dolore’….
Che cos’è propriamente il dolore? Come
posso sapere di provare dolore? Per Wittgenstein
il primo madornale errore sta nel processo
ostensivo di significazione, per cui noi tendiamo
ad associare il significato di una parola al suo
nome e all’oggetto che tale nome designa. Siamo
quindi tentati di usare «per le parole che indicano
impressioni la stessa grammatica che usiamo per
le parole che indicano un oggetto fisico».
Tale errata convinzione ci induce a parlare anche
del dolore e in generale dei sentimenti come
fossero cose, oggetti privati che possono essere
identificati con sicurezza tramite una sorta di
definizione ostensiva interna e privata. 
Fenomeno di ‘oggetificazione’… considerato da
Wittgenstein come «una delle grandi fonti di
disorientamento filosofico».
Come etichettare le impressioni? Bisogna prima
di tutto compiere due mosse decisive: 1)
abbandonare l’ossessiva ricerca del significato
della parola e concentrarci sul suo uso, o meglio
derivare il significato di una parola dall’uso che
ne viene fatto nel linguaggio; 2) introdurre
un’immagine del linguaggio fondata
su condizioni di asseribilità (o condizioni di
giustificazione) e non più su una logica vero-
condizionale. 

La legittimazione del cosiddetto “linguaggio


privato” comporta
1) che i sentimenti, le emozioni, i dati di senso,
siano proprietà esclusiva della persona che
li sente;
2) nessuno può avere la certezza di conoscere
le sensazioni e i sentimenti altrui.
Del dolore dell’altro si potrebbe congetturare solo
attraverso i suoi “segni” esterni. Tuttavia, come
abbiamo già visto, non esiste nessuna definizione
ostensiva interna attraverso cui individuare e
intendere una volta per tutte il presunto
significato di “dolore”, l’esperienza privata è
«una costruzione degenere della nostra
grammatica 
Ma allora in che modo le parole si riferiscono alle
sensazioni? Come imparare e comunicare il
dolore? Wittgenstein vira sull’osservazione del
comportamento: «un bambino si è fatto male e
grida; gli adulti gli parlano e gli insegnano
esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano
al bambino un nuovo comportamento del dolore».
Ad una prima ed autentica esplicitazione di
dolore (il grido) si sostituisce una sua
verbalizzazione successiva, che però è allo stesso
tempo qualcosa di differente rispetto al grido vero
e proprio. Se presupponessimo che alle parole
con cui esprimo determinate sensazioni fossero
collegate di norma altrettanto determinate
manifestazioni esterne, riconoscibili entro criteri
comuni e comunitari, il mio linguaggio
perderebbe qualsiasi privatizzazione, qualcun
altro potrebbe comprenderlo. 
 Non è infatti grazie a una definizione data ogni
volta da una persona singola ed isolata che
“dolore” diventa il nome di una sensazione, ma
perché appartiene al gioco linguistico proprio di
una comunità.
Definire “privatamente” una parola sarebbe
paradossale come “far regalare” denaro dalla
mano destra a quella sinistra, un fatto senza
alcuna rilevanza pratica, dato che non si potrebbe
di certo considerare un “regalo”. Wittgenstein
sembra voler sottolineare allora la superfluità
degli stati soggettivi sull’utilizzo comune e
quotidiano delle parole.
Wittgenstein cerca di dimostrare come in realtà il
processo di conoscenza dei nomi delle sensazioni
sia pubblico, o meglio che la “privatezza” delle
sensazioni possa essere legittimata solo
all’interno di una cornice di dimensione pubblica
precostituita e condivisa.
D’altronde, a colui che rimane scettico sulla
possibilità di sapere con certezza se l’altro provi o
meno dolore, Wittgenstein risponde a mo’ di
sfida: «prova un po’ a mettere in dubbio – in un
caso reale – l’angoscia, il dolore di un’altra
persona!». Certo, qualcuno potrebbe mentire o
camuffare il proprio dolore, ma anche tale
eventualità fa parte di un gioco linguistico che
deve essere imparato e che viene imparato da
tutti.

Comprendere, pensare, intendere

La parola ha una sua patria dentro un gioco


linguistico (§ 116)

Il comprendere

• Non svela l’oggetto


• Non dà la radiografia del fatto
• Non dà le regole d’uso
• È un suggerimento per cogliere la regola
• È al par dell’esempio

Comprendere, Capire

• Non esiste un sapere in assoluto ma sempre in


relazione a qualcuno
• Sapere andare avanti insieme intendendosi
• L’applicazione è un criterio della
comprensione (es. successione fino a 100)
• Padroneggiare una tecnica
Il pensare e il comprendere

• Il pensiero non è qualcosa che accade al


momento ma che si adagia in una situazione
(§ 323)
• Il pensiero non è un accompagnamento (§
332)
• Il linguaggio è il veicolo del pensiero (§ 329)

Capire

• Non è uno svelamento


• Non è un processo mentale
• È un’abilità (abitudine)
• Necessita di un addestramento

• « la proposizione è ‘ellittica’, non perché


ometta qualcosa che intendiamo
quando la pronunciamo, ma perché è
abbreviata rispetto a un determinato
modello della nostra grammatica»
(Wittgenstein, RF § 20).
doppia organizzazione della percezione in

– Percezione funzionale (vedere)


– Percezione simbolica (vedere come)

Il linguaggio ordinario

• Per il Wittgenstein delle Ricerche si deve stare


sul
terreno del linguaggio ordinario, fornire esempi di
giochi linguistici ed osservare come in essi il
“vedere”
funziona in modi diversi e riveste a seconda
dell’uso
significati differenti.
• Questo tipo di riflessione sul linguaggio porta
alla
consapevolezza che il “vedere” è un concetto la
cui
complessità e nebulosità non può essere
eliminata.

L’analisi di Wittgenstein
dell’anatra-lepre

• Il caso classico di figura bistabile è l’esempio


della figura proposto dalla Gestalt, che può
essere vista sia come la testa di una lepre sia
come la testa di un’anatra.
• Wittgenstein chiama questa figura “testa L-A”.

• Davanti a questa testa posso vedere diverse


cose:
• o la figura dell’anatra,
• o quella della lepre,
• oppure prima l’una e poi l’altra.

“Vedere”.

• Se si guarda l’immagine dico: «E’ una lepre!»;


• la duplicità della figura ambigua mi sfugge e
comunico una percezione.
• Vedo soltanto una lepre, senza sapere che
potrei vedere anche un’anatra.
• Se vedo una lepre devo “conoscere” l’animale
lepre, o per averlo visto direttamente o
attraverso immagini.
• E’ un tipo di percezione strutturata, integrata
da “conoscenze”;
– ma non è “vedere come”.

Se invece dico: «Ora è una L» non comunico una


percezione.

• Il termine “ora” indica la consapevolezza della


duplicità.
• Non comunico semplicemente la percezione, ma
anche qualcosa d’altro:
• la consapevolezza che in quella immagine posso
vedere anche una testa di anatra;
• Esprimo la consapevolezza del cambiamento
d’aspetto. Potrei dire «Ora io vedo questo»
indicando, per esempio un’altra immagine; la
fotografia di una lepre. «E’ la forma della
comunicazione di una nuova percezione».

Casi di “vedere come”

• Ad esempio, un problema si pone se guardando


gli
stessi due volti io vedo una somiglianza che
un’altra
persona non vede, o come quando lo stesso
“soggetto”, guardando lo stesso “oggetto” in due
momenti successivi, vede, la seconda volta,
qualcosa
che non aveva visto la prima.
• Ciò accade, ad esempio, nella soluzione di
figure
rebus.

Le figure pluristabili del linguaggio verbale

• È il fenomeno delle “frasi perfettamente


grammaticali”, e tuttavia altrettanto
perfettamente ambigue grazie a casi di
polisemia o di omonimia.

“Una vecchia porta la sbarra”

• Slittando lo sguardo nella comprensione


linguistica ci appaiono due frasi
completamente differenti;

• Vecchia è nome comune e aggettivo,


• Porta è nome e verbo
• La articolo e pronome
La vecchia porta la sbarra

• Si possono individuare due frasi


completamente differenti come nel caso della
figura anatra/lepre, in cui vediamo non
contemporaneamente (aut aut) le due
immagini corrispondenti dell’anatra e della
lepre.

o Vedo effettivamente una cosa diversa ogni


volta, o
interpreto soltanto in maniera diversa quello che
vedo? Sono propenso a dire la prima cosa. Ma
perché? Il fatto è che interpretare è un’azione [...]
Vedere non è un’azione ma uno stato”

Casi in cui quando interpretiamo

facciamo una ipotesi


Di norma supponiamo di distinguere tra:
• La semplice ricezione sensibile di un segnale
(es. un suono squillante),
• Dalla sua interpretazione (“squilla il
telefono”);
• Posso scoprire che il campanello non era del
telefono ma della porta

• Quando vediamo un coniglio e un attimo dopo


un’anatra non c’è né ipotesi, né la possibilità di
verificare o falsificare, perché quella che
sembra una interpretazione è venuta ad
occupare il posto della percezione sensibile
fino a rendersi indissociabile da essa.

Wittgenstein sottolinea come il cieco al


significato non può cogliere in un solo colpo:
– L’unità tra segno e designato (vedere);
– Vedere che il segno è e non è il suo
designato (il
poter essere che fa del segno un segno).

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