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Posizioni sulla diagnosi?

Anche volendo partire dalla questione della diagnosi presa in termini generali, che
è uno dei possibili punti di partenza, si può fin da subito notare come, aldilà dei contenuti,
ovvero aldilà di categorie diagnostiche, strutture, e così via, rimane sullo sfondo,
costante, l’uso che della diagnosi si fa in una cura; e dato che un uso se ne fa
inevitabilmente, vale la pena esserne avvertiti.

Una prospettiva che includa questa nozione di uso comporta, e\o presuppone, un
modo diverso di intendere il sapere. Anche solamente l’etimologia del termine, “diagnosi”,
si richiama alla conoscenza (gnosis); ma accade che, anche in questo, come nel caso
della diagnosi, si potrebbe pensare di avere a che fare con un semplice contenitore di cui
variano solo i contenuti: partendo dalla diagnosi, data per assodata, tenuta ferma, si
possono veder variare le diverse classificazioni diagnostiche, che sarebbero i contenuti
da ricercare, da applicare; così, partendo dal sapere si può pensare che a variare siano
solo gli ambiti, i contenuti di quel sapere, le specializzazioni, perché in fondo sempre di
sapere si tratterebbe. Invece, può variare proprio il rapporto al sapere, l’uso che se ne fa,
così come fa la differenza l’uso che si fa di una diagnosi.

La diagnosi ha a che fare quindi certamente con il sapere, ma con il sapere inteso
in un modo preciso, cioè in relazione al transfert. In questo contesto si può utilizzare una
delle definizioni di transfert che dà Freud – dove viene caratterizzato come il momento in
cui il paziente fa, ripete, invece di ricordare – per mettere in luce come vi sia in gioco
qualcosa che attiene più al campo concreto dell’esperienza, invece che a quello del
ricordo. Freud parlerà di nevrosi di transfert proprio in questi termini, come di un
momento in cui “il nemico” si fa presente e solo per questo può essere sconfitto: il solo
ricordo infatti non basterebbe, perché “nessuno può essere sconfitto in absentia o in
effige.” Quel che di quest’espressione si vuole qui mettere in luce è la sfaccettatura
seguente: ci può essere un sapere quasi senza effetti, contemplativo, dunque che si
prende come esterno al suo oggetto, e ci può essere un sapere che è invece implicato nel
suo oggetto, che ha degli effetti e che forse è indistinguibile dai suoi effetti. È per questo
che, per Freud, il tempo di interpretare è subordinato all’instaurarsi di un transfert.

Per Lacan, invece, “all’inizio della psicoanalisi è il transfert”. Miller denomina “pre-
interpretazione” questo transfert preliminare di chi decide di rivolgere una domanda di
analisi. La pre-interpretazione si riferisce ai sintomi, che essendo diventati problema
spingono il soggetto a tentare una interpretazione di essi. Questa pre-interpretazione
tuttavia include già l’idea che qualcun altro possa avere una parte nella cura e
nell’interpretazione di tali sintomi: si instaura in questo modo il soggetto supposto sapere,
ossia il transfert. Ci si ritrova dunque di nuovo a constatare questo intreccio tra sapere e
transfert, ma si può riprendere il senso in cui qui si ha a che fare con un modo del sapere
ben preciso:

“la clinica psicoanalitica, propriamente parlando, non può essere che il sapere del transfert, e cioè il
supposto sapere (che funziona come verità nel corso dell’esperienza) divenuto trasmissibile, per altre vie e
con altri effetti di quelli ricavati dall’esperienza in cui si forma. Ne segue che la clinica appare all’analista
antitetica al discorso, poiché essa comporta che il sapere si stacchi dal posto che gli spetta nell’esperienza:
esplicitare il sapere, è desupporlo.” (Miller, C.S.T.)

Dunque al sapere spetta un posto nell’esperienza, e quello è il posto da cui può


funzionare “come verità”. E se il sapere è desupposto quando è esplicitato, è supposto
quando è implicito. Nell’esperienza analitica dunque vi è un sapere implicito, e che
funziona come verità solo fintanto che rimane tale. È questo implicito, forse, a fare tutta la
complicazione del reperire la posizione in cui un paziente, nel transfert, sta ponendo
l’analista. E forse quella difficoltà di distinguere tra il sapere del transfert e i propri effetti,
di cui si scriveva sopra, (difficoltà che si pone solo nel momento in cui si considera il
sapere, la diagnosi in questo caso, come qualcosa che non è implicato nella cura
(l’ambito degli effetti) ma che se ne sta fuori e deve soltanto essere applicato), non è altro
che la conseguenza logica di una considerazione del sapere come non implicato nel
transfert.

“Implicito”, “implicato”, “complicazione”. Di fatto il transfert per Freud arriva come


una complicazione, una piega. Anche il termine “applicare” si richiama alla stessa
etimologia, dunque porta con se una piega, ma il prefisso “ad-“ cambia completamente le
cose: “implicare” ha il prefisso locativo “in-“, a renderlo lo stesso che “impiegare”, cioè
usare. Applicare vuol dire accostare, congiungere, dove dunque chi applica sta fuori e
non dentro l’esperienza, non “in”.

In Psicoterapia dell’isteria, Freud descrive il modo in cui, col nuovo metodo


(catartico), vada in contro a questo “ostacolo” (la traslazione) alla cura. È un ostacolo
perché rappresenta una resistenza, ma è un così temibile ostacolo perché è difficile da
cogliere. Perché è così difficile da cogliere? Esso, scrive Freud, è “non relativo al
contenuto, ma esteriore”. Questa esteriorità fa pensare alla questione della posizione, a
quella dell’esperienza, dell’implicito. Di fatto, i contenuti possono essere molto vari, e
soprattutto individuabili, dal momento che potrebbero essere fatti rientrare in un ambito
che ha affinità con quello che Lacan definisce l’enunciato. Vi sono degli enunciati,
leggibili come contenuti, che tuttavia sono sostenuti da una enunciazione: questa
enunciazione è l’implicito. È un piano che attiene maggiormente a quella che Miller ha
definito esperienza. Non si tratta quindi per Freud di una difficoltà legata ai contenuti, ma
a qualcosa che riguarda estrinsecamente questi contenuti: la loro enunciazione, il loro
implicare il soggetto in un certo modo, la posizione in cui lo mettono, e la posizione in cui
mettono chi ascolta.

Freud sperimenterà la complicazione dell’essere implicato dal transfert, ad


esempio con Dora, dove solo a posteriori potrà accorgersi di essere stato messo in una
certa posizione, per così dire aldilà dei contenuti. I contenuti abbagliano, su di essi non
può fondarsi alcuna diagnosi, né tantomeno possono fornire l’orientamento di una cura.

[Altri spunti: Miller parla anche di “posto” del sapere. Questo è quel che si
intendeva più sopra con l’espressione “uso”.

(“Significante del transfert”, “innesto” (nel discorso analitico), nevrosi di transfert)]

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