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MODELLI DI SVILUPPO IN PSICOANALISI

a cura di E. Pelanda

1. IL MODELLO EVOLUTIVO DI FREUD

PREMESSA
Il concetto di sviluppo, inteso come cambiamento qualitativo con un decorso temporale e come processo
governato da leggi e principi universali, comincia a diffondersi verso la metà del secolo scorso.
Le teorie evolutive tradizionali hanno in genere concepito la crescita psicologica in termini di una
progressione che si realizza attraverso stadi, ognuno dei quali pone il bambino via via sempre più vicino
alla maturità. Prima del 1970, le principali teorie evolutive sono state quelle di Freud, Piaget e Werner.
Tra gli psicoanalisti, il modello evolutivo di Freud viene valutato in maniera diversa da vari studiosi: si va da
chi è più critico a chi invece ha una posizione più conciliante ed elogiativa.
È bene ricordare fin da subito che la sua teoria evolutiva si è delineata con estrema gradualità ed è andata
incontro a varie rielaborazioni non prive di contraddizioni.
Freud aveva sostanzialmente identificato in due soli sistemi motivazionali le molle che presiedono lo
sviluppo della mente e del comportamento umano: il sistema motivazionale della sessualità e quello
dell’aggressività. In questa cornice di riferimento, il modello evolutivo che ne deriva non può che apparire
oggi molto parziale. Tuttavia, non possiamo esimerci dal riflettere sull’enorme portata evolutiva del
modello freudiano, in quanto diede notevole attenzione al trascurato periodo dell’infanzia.

L’IMPORTANZA DEGLI AFFETTI NEL MODELLO EVOLUTIVO DI FREUD


La concezione che Freud aveva del Sistema Nervoso si articolava attorno al concetto di quantità di
eccitazione di cui esso doveva essenzialmente disfarsi, in quanto la condizione ottimale era vista proprio
nell’assenza di eccitazione e tensione. Secondo questa concezione, per Freud la relazione tra il neonato e il
mondo è così schematizzabile: il bambino, sotto impulso della fame, si sveglia e cerca di eliminare lo stato
di tensione attraverso il pianto; la madre risponde alla segnalazione del bambino allattandolo, lo stato di
tensione finisce e il bambino torna alla quiete. Il concetto di carica è quindi cruciale per la psicoanalisi così
come per la psicologia evolutiva. In questa formulazione Freud dà per scontato che il bambino abbia una
qualche capacità di esperienza psichica cosciente e attribuisce a essa un ruolo essenziale per il successivo
funzionamento del Sistema Nervoso.
Freud considerava però gli affetti dei fenomeni di scarica. A essi non solo ha continuato a dare una grande
importanza nell’elaborazione del modello evolutivo, ma li ha anche usati per spiegare la formazione dei
sintomi nevrotici nei pazienti isterici.
«i singoli sintomi isterici scomparivano subito quando si era riusciti a ridestare con chiarezza il ricordo dell’evento
determinante, risvegliando anche l’affetto che l’aveva accompagnato. Il ricordo privo di elementi affettivi è quasi
sempre del tutto inefficiente; il processo psichico svoltosi in origine deve essere riportato nello status nascendi e poi
espresso in parole.» (Breuer, Freud, 1895)

Il cambiamento decisivo per quanto riguarda gli affetti avverrà però in seguito, quando elaborerà quello
che oggi chiamiamo modello organizzativo degli affetti: gli affetti sono sempre segnali, ma non più
intimamente connessi con gli istinti; sono localizzati nell’Io e nel Super-Io e diventano un fattore di
organizzazione per il funzionamento mentale e per il comportamento. Essi hanno quindi un ruolo
regolatore.
Non c’è dubbio, però, che Freud abbia posto per primo gli affetti nell’ambito di un repertorio di tendenze
comportamentali che hanno valore di sopravvivenza.
Successivamente, furono molte le ragioni che contribuirono a far elaborare a Freud il nuovo modello della
mente, quello strutturale.

TRE SAGGI SULLA TEORIA SESSUALE

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Con l’uso del metodo delle libere associazioni, che coincise con l’elaborazione della teoria della sessualità
infantile (1905), assistiamo all’affermarsi della psicologia delle pulsioni.
Quando Freud si convinse che i fatti riguardanti la seduzione non erano state delle vere esperienze ma solo
fantasie, iniziò a valorizzarle alla stregua di reali esperienze collegate con la realtà esterna. Freud
concepiva tali fantasie come realizzazioni illusorie di pulsioni istintuali, in particolare pulsioni sessuali, e
generalizzò questa concezione fino a formare la proposizione centrale della teoria psicoanalitica: pulsioni
istintuali innate stanno alla base delle determinanti del comportamento.
Nella prima edizione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, l’approccio allo sviluppo infantile è ancora molto
rudimentale e si parla solo di fase autoerotica. Tuttavia, le varie aggiunte che Freud vi fece nel corso degli
anni, non contengono solo una teoria della sessualità e una dell’eziologia delle nevrosi, poiché in più punti
viene proposto anche un vero e proprio schema evolutivo.
Per Freud sembra che l’evolversi del ciclo vitale fosse estremamente semplificato quanto a numero di
tappe vissute. Ad esempio, egli non parlerà mai di adolescenza, ma si fermerà al raggiungimento della fase
genitale. Per avere un concetto di ciclo vitale pienamente articolato, bisognerà attendere Erikson negli
anni Cinquanta.
Quelle che colpiscono ancora sono le citazioni riguardo la suzione non nutritiva, un tipo di suzione che
produce l’assopimento oppure una reazione motoria simile all’orgasmo. Molti anni più tardi, la scoperta
che questi atti si accompagnano alla liberazione di endorfine avrebbe dato una spiegazione completa al
fatto che essi vengano utilizzati dal neonato per tranquillizzarsi. Questi comportamenti venivano
ampiamente utilizzati da Freud per sottolinearne la natura sessuale.
Oggi sappiamo che la sessualità di un individuo ha profonde radici relazionali e che neonati e bambini poco
toccati porteranno le tracce di queste esperienze quando inizierà l’attività sessuale. Ma queste esperienze
non potranno essere ricordate, poiché immagazzinate in quella che oggi conosciamo come memoria
procedurale.
Fra i fattori intrinseci di maturazione vanno annoverati anche quelli che frenano le pulsioni istintuali:
«Durante il periodo di latenza, vengono costruite quelle potenze psichiche che più tardi si presentano come ostacoli
alla pulsione sessuale e ne costringeranno, entro certi limiti, la direzione (disgusto, pudore, ideali estetici e morali). Si
ha l’impressione che la costruzione di questi argini sia opera dell’educazione. In realtà questo sviluppo è condizionato
organicamente.»
È noto che Freud desse un grande rilievo all’amnesia infantile sotto effetto della rimozione per poter
spiegare l’evolversi della sessualità, la comparsa di perversioni, ecc. nel tentativo di delineare un modello
evolutivo normale e indicare al tempo stesso le possibili strade per comprendere l’etiopatogenesi delle
malattie mentali.

Comunque, Freud non si occupa solo di sessualità in questi tre saggi.


Nel paragrafo aggiunto nel 1914 tratta della pulsione di sapere, che si manifesta tra il terzo e il quinto
anno di vita. Evidentemente gli era chiaro che la spinta alla conoscenza possiede quei caratteri di forza
interna che consentono di collocarla nell’ambito delle motivazioni.

LO SVILUPPO DELLA LIBIDO, IL TEMA DEL COMPLESSO EDIPICO E LO SVILUPPO DEL PENSIERO
Nell’ambito del tema dello sviluppo della libido, vanno evidenziati due aspetti degli schemi evolutivi
proposti: quello degli stadi dell’organizzazione libidica (orale, anale, genitale) e quello che riguarda
l’orientamento oggettuale (auto-erotico, narcisistico, eterosessuale e omosessuale).
Durante la pubertà, l’aumento di intensità dell’impulso sessuale fa crollare le difese del periodo di latenza,
delineando nuovi compiti evolutivi: l’abbandono dei rapporti e dei desideri infantili, l’abbattimento
dell’autorità genitoriale, lo stabilirsi di rapporti sessuali non incestuosi. Inizialmente, queste trasformazioni
vengono soprattutto fantasticate, spesso sotto lo stimolo della masturbazione.
Anche la storia dello sviluppo libidico compare con gradualità: il concetto di fase è già presente nei Tre
saggi sulla teoria sessuale ma per ciò che concerne la scelta oggettuale, Freud si limita a parlare della fase
autoerotica. In quegli anni, il tema delle fasi evolutive della libido era collocato nell’ambito del modello
topico, con i sistemi psichici dell’inconscio, preconscio e conscio. Freud dice che, in principio, la mente del
bambino funziona solo col processo inconscio; preconscio e coscienza compaiono successivamente.

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Una visione più articolata dello sviluppo comincia a comparire con l’introduzione del concetto di
narcisismo, attribuendo all’oggetto un ruolo del tutto nuovo. Attraverso il concetto di identificazione,
viene sottolineata la capacità dell’oggetto di influire sulla natura della struttura psichica.
«La comparsa dell’identificazione, un’alterazione dell’Io basata su una relazione oggettuale infantile, successiva a una
perdita oggettuale, veniva ora vista come la via universale per la formazione dell’Io e del Super-Io. La perdita
dell’oggetto infantile, o meglio, la serie di perdite che si verificato, sono inevitabili e cruciali per lo sviluppo di una
struttura psichica matura.» (Greenberg, Mitchell, 1983)
Naturalmente, la perdita più significativa che il bambino sperimenta nel corso della sua vita è quella
dell’oggetto edipico. Il complesso edipico è indicato da Freud come una pietra angolare dello sviluppo, sia
sano che malato. La dissoluzione di tale complesso porta alle identificazioni e, quindi, alla formazione del
Super-Io. Parallelamente, si forma anche un sentimento di colpa inconscio, fonte essenziale di una serie di
successivi conflitti nevrotici.

CONCLUSIONI
Freud non ha mai scritto lavori empirici sullo sviluppo come tale; cionondimeno a sua teoria viene
annoverata tra le radici della psicologia evolutiva di questo secolo. Ci si dovrebbe però domandare se la
proposta freudiana di evidenziare gli aspetti di continuità tra le esperienze infantili e la patologia negli
adulti non ci spinga piuttosto a doverlo considerare un antesignano della psicopatologia evolutiva.
La frequentazione con la patologia sembra imprimere una caratteristica abbastanza comune ai vari
modelli evolutivi psicoanalitici: quella di partire dal presupposto che i periodi della vita e le interazioni
prevalentemente connotate da affetti negativi, siano anche quelle importanti per promuovere lo sviluppo.
L’eccessiva enfasi data agli affetti negativi nel modello evolutivo psicoanalitico ha certamente contribuito
a dare un clima drammatico alla trattazione dei temi evolutivi, con al vertice il mondo cupo e violento
postulato da Melanie Klein.
Gli studi degli evoluzionisti contemporanei hanno evidenziato, invece, che sono gli affetti positivi e a bassa
tensione a promuovere il massimo dell’arricchimento e dei progressi dei bambini.

2. L’APPROCCIO DI MELANIE KLEIN ALLO SVILUPPO

PREMESSA: L’ALLONTANAMENTO DALLA CONCETTUALIZZAZIONE FREUDIANA


Partita dall’analisi infantile, Melanie Klein ha ampliato l’area della conoscenza freudiana, rivoluzionandone
alcune scoperte. Ciò produsse, tra gli anni Trenta e Quaranta, una divisione all’interno della Società
Psicoanalitica Inglese, che si frazionò in un Gruppo A comprendente i seguaci di Anna Freud, la quale
affermava che Klein si fosse allontanata troppo dal pensiero freudiano per poter essere ancora compresa
nel movimento psicoanalitico; in un gruppo B, che viceversa sosteneva la piena coerenza delle scoperte
della Klein con i principi freudiani; e in un gruppo C, cosiddetto Middle Group, di cui anche Winnicott fece
parte, composto dagli analisti che non si riconoscevano a pieno né nella Klein né in Anna Freud.
Possiamo comunque sostenere che l’opera di Melanie Klein segnò un passaggio da una concezione
freudiana che attribuisce alle pulsioni un primato nella genesi della mente, a una concezione in cui la
relazione riveste il ruolo fondamentale.
Più precisamente, la Klein assegna una grande importanza alle relazioni oggettuali primitive, da lei
considerate operanti fin dagli inizi della vita, al contrario di Freud.
«L’analisi di bambini molto piccoli mi ha fatto capire che non esiste spinta pulsionale, angoscia o processo psichico
che non coinvolga oggetti interni o esterni. Le relazioni oggettuali sono al centro della vita psichica.» (Klein, 1952)
Questo passaggio avviene in modo graduale, anche se è possibile rintracciarne i germi sin dai saggi iniziali.
Già nel 1921 l’autrice si mostra profondamente interessata ai temi dello sviluppo e ai fattori relazionali che
possono favorirlo o ostacolarlo.
Inoltre, in Melanie Klein, oltre all’interesse per le primissime fasi dello sviluppo, si palesa anche un
orientamento a ragionare in termini bipolari, per coppie opposte (amore-odio, vita-morte, distruttività-
riparazione, ecc.), cosa già presente in Freud ma sottolineata ulteriormente dalla Klein in forma più
dinamica.

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Segal sostiene che, se Freud ha scoperto nell’adulto il bambino rimosso, Melanie Klein è stata capace di
scoprire ciò che era già stato rimosso nel bambino, cioè il lattante. L’autrice diresse infatti il suo sguardo a
quegli eventi come il modo in cui nasciamo, gli atteggiamenti della madre nel corso della gravidanza, le
relazioni esistenti nella coppia, e altri eventi che non possono non influenzare il nostro sviluppo fisico e
mentale.

LO SVILUPPO SECONDO MELANIE KLEIN


Le idee di Melanie Klein circa lo sviluppo sono profondamente influenzate dall’idea che la mente umana sia
estremamente complessa già agli inizi della vita postnatale.
Ella ipotizza che il bambino piccolo senta ogni disagio come proveniente da forze ostili e che pertanto
provi, sia durante il processo della nascita che nella situazione postnatale, un’ansia di natura persecutoria,
che può essere lenita dalle cure e dalla comprensione della madre. La Klein ipotizza infatti che il bambino
possieda una “consapevolezza innata dell’esistenza della madre”, che costituisce la base della prima
relazione con lei.
Sulla base di queste ipotesi, nate dall’attenzione prestata al transfert durante l’analisi di bambini piccoli
condotta attraverso la tecnica del gioco, la Klein arrivò alla conclusione che l’Io, sia pur in forma
rudimentale, esiste fin dalla nascita ed è capace di sperimentare angoscia e difendersi da essa impiegando
meccanismi di proiezione e scissione.
I due concetti chiave che sostanziano questa convinzione sono quelli di fantasia inconscia e di angoscia.
 La fantasia inconscia è una funzione dell’Io. L’Io, fin dalla nascita, è capace di costituire relazioni
oggettuali primitive nella fantasia e nella realtà. Secondo la Klein, le esperienze reali influenzano e
trasformano le fantasie inconsce, ma queste ultime a loro volta possono deformare le esperienze della
realtà esterna. In quest’ottica, la qualità della risposta dell’ambiente esercita un notevole peso sullo
sviluppo, ma può anche essere più o meno distorta dalla fantasia inconscia del bambino. Dunque, non
è vero che in presenza di un ambiente positivo non esisterebbe alcuna angoscia o fantasia
persecutoria.
Nella concettualizzazione della Klein la fantasia svolge anche una funzione difensiva nei confronti della
realtà esterna e di quella interna. Essa, infatti, tende alla soddisfazione degli impulsi istintuali,
costituendosi come difesa nei confronti delle frustrazioni provenienti dall’esterno. Allo stesso tempo,
si costituisce anche come difesa nei confronti della rabbia proveniente dall’interno o nei confronti di
altre fantasie, come ad esempio quelle depressive.
Secondo Segal, la fantasia inconscia svolge fondamentalmente alcune delle funzioni che più tardi
saranno svolte dal pensiero.
 L’angoscia, nella concettualizzazione kleiniana, viene vista non solo come fattore inibente, ma anche
come un fattore di centrale importanza nello sviluppo dell’Io. Bisogna sottolineare che l’Io innato della
Klein è capace di sperimentare angoscia fin dall’inizio.
Freud aveva sostenuto che l’angoscia è il prodotto della rimozione della libido; da cui opera una
distinzione tra rimozione non riuscita, il cui risultato è la nevrosi, e rimozione riuscita. Riprendendo
questa distinzione, Melanie Klein sostiene invece l’universale presenza dell’angoscia, e cioè che essa è
attiva anche nel caso di una rimozione riuscita: semplicemente, quanto più perfettamente ha operato il
meccanismo della rimozione, tanto meno facile è riconoscere l’angoscia per ciò che realmente è.
Successivamente, la Klein chiarirà che l’angoscia primaria, sperimentata dall’Io nei primi stadi dello
sviluppo, è connessa alla paura della morte, ed è dunque un’angoscia di annientamento e non di
castrazione.

IL RUOLO DELL’IO NELLO SVILUPPO


L’angoscia primaria deriva, sul versante interno, dal conflitto tra istinto di vita e istinto di morte; e sul
versante esterno, dal contatto con la realtà al contempo angosciante e fonte di benessere.
Una delle principali funzioni che l’Io innato svolge è quella di tenere a bada la minaccia di annichilimento
proveniente dall’interno, cioè dall’istinto di morte. Per fare ciò, l’Io proietta parte dell’istinto di morte nel
mondo esterno (originariamente il seno) e convertendone una parte in aggressività, che viene diretta
verso ciò che il bambino pensa essere la causa della sua sofferenza. È importante sottolineare, però, che

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nella concettualizzazione kleiniana ciò che viene proiettato non è solo l’istinto di morte, ma anche l’istinto
di vita, proiettato all’esterno per creare un oggetto capace di “preservare la vita”. In questo modo, l’Io
instaura un rapporto con due oggetti scissi tra loro, costituiti inizialmente da una mammella ideale e una
persecutoria.

È utile sottolineare che se Freud conferisce un ruolo centrale alle pulsioni, considerando l’oggetto ciò che
può fornire gratificazione, per la Klein non può esistere pulsione senza oggetto. Anche la natura stessa
delle pulsioni differisce nei due pensieri. Per Freud, le pulsioni sono forze biologiche che hanno origine nel
corpo e che generano tensione; per la Klein, le pulsioni sono fenomeni psicologici orientati che
costituiscono emozioni complesse: il corpo non è la sorgente delle pulsioni, ma il veicolo per la loro
espressione.
L’Io assume, dunque, un ruolo diverso nella concettualizzazione freudiana e in quella kleiniana. Nella prima
esso ha la funzione di mediare tra Es, Super-Io e realtà esterna, mentre nella seconda esso è attivo fin dalla
nascita, ed è capace di stabilire relazioni oggettuali primitive e di difendersi contro l’angoscia primaria.
La concettualizzazione kleiniana relativa alle pulsioni e all’Io si riflette sulla sua teorizzazione della
sequenza di sviluppo, anch’essa diversa da quella freudiana, la quale concepisce lo sviluppo come una
sequenza di stadi o di fasi psicosessuali. La Klein sostituisce al termine di “stadi” quello di posizioni,
implicando una specifica configurazione del rapporto con l’oggetto, delle angosce e delle difese.
«Lo spostamento da un concetto di stadi a un concetto di posizioni rispecchia una ridefinizione della pulsione: da
blocchi di energia che si manifestano in una sequenza di zone corporee predominanti, a pulsioni come paradigmi
relazionali, la cui intensità richiede modalità diverse di organizzazione.» (Greenberg, Mitchell, 1983)

PROIEZIONE E INTROIEZIONE
Nel pensiero kleiniano, proiezione e introiezione rappresentano processi primari attraverso i quali
prendono avvio le prime relazioni oggettuali. Dato che il primo oggetto di amore e odio è la madre, è su
parti di lei (all’inizio il seno) che l’uno o l’altro istinto vengono proiettati e reintroiettati.
Se la madre si trova nelle condizioni psicofisiche di “bonificare” l’angoscia, l’aggressività, la frustrazione del
bambino proietta su di lei, è possibile che l’Io si rafforzi. Se invece nella madre, o nel bambino stesso,
prevalgono disagio, angoscia, paura, rabbia, l’Io tenderà ad attivarsi sulla base di vissuti angosciosi.
L’introiezione e la proiezione possono però essere utilizzate secondo modalità differenti: può accadere che
il bambino proietti nell’oggetto esterno ciò che è buono per tenerlo al sicuro dagli attacchi interni o che, al
contrario, introietti gli oggetti esterni cattivi per tenerli al sicuro. A monte l’obiettivo è sempre tenere a
bada l’angoscia di annichilimento che minaccia l’Io. È proprio questa angoscia a mettere in moto la
scissione, mantenendo separati l’oggetto buono e quello cattivo, consentendo così al bambino di
conservare la fiducia in un oggetto buono e nella sua capacità di amarlo, condizione indispensabile per
vivere.

In uno dei suoi scritti la Klein ribadisce che lo sviluppo del bambino dipende sia da fattori interni che da
fattori esterni, attribuendo particolare importanza all’invidia primaria. Secondo la Klein, l’invidia mira a
distruggere la bontà dell’oggetto, ponendo ciò che è cattivo nella madre, e in primo luogo nel seno, allo
scopo di danneggiarla e distruggerla. L’invidia primaria, inoltre – vista come la più precoce
esternalizzazione dell’istinto di morte – aumenta massicciamente la violenza degli attacchi sadici al seno
materno, deprivante o gratificante che sia. Se l’invidia primaria è molto intensa, essa interferisce con i
normali processi di scissione tra oggetto ideale e oggetto persecutorio, portando il bambino a confondere
tra buono e cattivo.

GLI OGGETTI INTERNI E LA LORO EVOLUZIONE NEL CORSO DELLO SVILUPPO


Uno dei concetti principali della teoria sullo sviluppo di Melanie Klein è quello di oggetti interni: parziali
oppure interi, essi sono fantasie (inconsce, primarie) di relazione tra sé e ciò che non è sé, tra sé e gli altri.
Definire gli oggetti interni non è semplice, poiché nel corso degli anni la Klein ha modificato il suo pensiero
riguardo a essi. In una prima fase, sono considerati intrinseci alle pulsioni stesse, mentre in una seconda

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fase costituiscono il “canale” attraverso il quale viene fatto defluire l’istinto di morte. In una terza fase, gli
oggetti interni sono realtà dedotte dallo sperimentare sensazioni come estranee a Sé, ad esempio la
sensazione di essere nutriti.
Ne segue che l’origine degli oggetti interni va individuata in esperienze corporee della primissima infanzia,
in fantasie di incorporazione di un oggetto nell’Io.

IL SUPER-IO PRECOCE
Nella concettualizzazione kleiniana, il Super-Io precoce costituisce uno degli oggetti interni. Anche per
Freud il Super-Io è un oggetto interno, l’unico che egli descrive con precisione, definendolo come un
“erede del complesso edipico”, una formazione psichica derivante dalla rinuncia agli oggetti amati e dalla
loro introiezione. Mentre per Freud, però, il Super-Io diventa operante intorno ai quattro, cinque anni di
vita, la Klein lo ritiene operante sin dalla nascita.
Melanie Klein ribadisce che il fatto che ci colpiscano i comportamenti del bambino tra i due e i cinque anni
relativi all’amore per il genitore di sesso differente, e contemporanea rivalità con quello dello stesso sesso,
non deve indurci a pensare che il complesso edipico sia operante solo in questa fascia di età. Non significa
neanche che il bambino non sia capace di sviluppare un transfert anche su persone estranee all’ambito
familiare, come l’analista. Secondo la Klein, l’analisi dei bambini molto piccoli dimostra che essi
cominciano a elaborare il complesso edipico non appena esso insorge, e con ciò a sviluppare il Super-Io.
Comunque, l’abbandono definitivo della teoria classica del Super-Io avviene con l’esplicitazione, da parte
di Melanie Klein, della convinzione che il Super-Io non solo ha origini molto più precoci di quanto avesse
ipotizzato Freud, ma anche che esso inizia a formarsi nello stesso periodo in cui il bambino compie le prime
introiezioni orali dei suoi oggetti.

DALLA POSIZIONE SCHIZOPARANOIDE ALLA POSIZIONE DEPRESSIVA


La posizione schizoparanoide costituisce quel periodo dello sviluppo che va dagli zero ai tre mesi di vita, e
che vede il bambino rapportarsi ad un duplice oggetto: uno buono e uno cattivo. Secondo l’autrice, il
rapporto con il seno buono e cattivo rappresenta la prima relazione oggettuale del lattante.
Nei suoi scritti, Melanie Klein pone l’accento sul concetto di sadismo primario, già precedentemente
individuato da Abraham e Freud. Per la Klein, il sadismo primario costituisce una fase dello sviluppo
comune a tutti gli esseri umani, ed è rintracciabile nelle fantasie inconsce di aggressioni contro il corpo
materno, che implicano anche quelle contro il pene paterno nel corpo della madre. Anche il bambino
“normale” produrrebbe tali fantasie, in parte a causa dell’innata aggressività dalla quale altrimenti si
sentirebbe sopraffatto.
Nella posizione schizoparanoide, la relazione oggettuale si manifesta in atti di scissione e proiezione:
sia il seno buono, contenente l’istinto di vita proiettato, sia il seno cattivo, contenente l’istinto di morte
proiettato, vengono interiorizzati, e ciò fa sì che il neonato si senta alternativamente protetto o
perseguitato non solo dall’esterno, ma anche dall’interno.
Klein ipotizza che le pulsioni sadico-orali, in situazioni particolarmente frustranti, si intensifichino
determinando ulteriori aggressioni al seno cattivo, che diventa un seno in frantumi. In questa dinamica, se
il seno buono continua a essere percepito come integro e perfetto, esso può contrapporsi ai processi di
scissione favorendo l’integrazione dell’Io. Diversamente, se l’angoscia è eccessiva, per il lattante può
diventare difficile conservare l’idea di un seno buono separato da quello cattivo, ed egli potrebbe avvertire
che anche il seno buono è in frantumi. Quanto più nel processo di incorporazione dell’oggetto predomina il
sadismo, quanto più l’oggetto è sentito in frantumi, tanto maggiore è il pericolo per l’Io di essere scisso
come l’oggetto interiorizzato.

A questi meccanismi di difesa sono collegati altri meccanismi:


 Idealizzazione: costituisce un’esagerazione degli aspetti buoni del seno. Favorisce la fiducia nella
bontà degli oggetti. Quindi, essa è da un lato una difesa dalle persecuzioni, dall’altro è un desiderio di
soddisfacimento illimitato che determina l’immagine di un seno sempre generoso.

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 Diniego: accompagna l’idealizzazione. Costituisce la negazione dell’oggetto cattivo e dei vissuti
frustranti e angoscianti che determina.
 Identificazione proiettiva: si riallaccia all’ipotesi che gli attacchi alla madre possono seguire due linee:
quella della pulsione orale, cioè del portar via succhiando, e quella delle pulsioni escretorie, che hanno
a che vedere con l’espellere le parti cattive del Sé all’interno della madre. Consiste dunque nel
proiettare parti del Sé scisso all’interno dell’oggetto. L’identificazione proiettiva costituisce una
primissima forma di empatia e favorisce la capacità di sviluppare relazioni oggettuali positive.

Con il progredire dello sviluppo, se le esperienze buone hanno avuto maggior peso di quelle cattive,
subentra la posizione depressiva.
Tra i tre e i sei mesi di vita, l’Io innato è sufficientemente integrato perché il bambino possa rapportarsi alla
madre come persona intera, come oggetto totale. A questo punto la madre comincia a essere sentita non
più come scissa in un oggetto ideale e in uno persecutorio, bensì come sorgente unitaria sia di
gratificazione che di sofferenza. In quest’ambito, si fa strada un tipo di angoscia nuova, derivante proprio
dal fatto che il bambino si rende conto che le esperienze buone e quelle cattive provengono dalla stessa
fonte, e che quindi il suo amore e il suo odio sono anch’essi rivolti alla stessa persona. Adesso il bambino
teme che la sua aggressività possa distruggere o aver distrutto l’oggetto dal quale sente di dipendere. Il
termine “depressivo” denota proprio quello stato di tristezza e rammarico derivante dal senso di colpa.
Questi cambiamenti sono ampiamente favoriti dalla maturazione fisiologica dell’Io e dallo sviluppo della
memoria, che consente al bambino di ricordare la madre gratificante nel momento in cui essa è frustrante
e viceversa. In questa posizione, allora, il conflitto di ambivalenza assume un posto centrale.
Il processo che porta al superamento di tali conflitti e del senso di colpa è un processo lento, durante il
quale l’Io ricorre a modalità difensive denominate difese maniacali, che non sono di per sé patologiche,
ma possono diventarlo se utilizzate in maniera massiccia. Tra queste troviamo l’idealizzazione, il diniego,
il controllo onnipotente sull’oggetto.
Man mano che la posizione depressiva viene elaborata e il rapporto con l’oggetto diventa sempre più
solido, anche il Super-Io diventa più integrato, perdendo quelle caratteristiche terrificanti precedenti per
lasciare posto ad aspetti più benevoli, propri dei genitori amati. I meccanismi difensivi primitivi lasciano
allora spazio a meccanismi più evoluti, come la rimozione o l’inibizione.

LO SVILUPPO SESSUALE NEL MASCHIO E NELLA FEMMINA


Melanie Klein sostiene che le tendenze edipiche nascono in seguito alle frustrazioni orali dovute allo
svezzamento, e che successivamente vengono rafforzate dalle frustrazioni anali subite dal bambino nel
periodo dell’educazione alla pulizia.
La Klein sostiene che lo sviluppo sessuale non presenta, nei primi tempi, differenze sostanziali nel maschio
e nella femmina. I primi stadi sarebbero secondo lei caratterizzati da una comune identificazione con la
madre e, più precisamente, con il suo seno. Le frustrazioni alle quali il bimbo e la bimba andrebbero
incontro nel loro rapporto con il seno attiverebbero un processo di allontanamento dalla madre e di
interesse per il padre.
Entrambi questi oggetti primari – il seno e il pene – sono coinvolti nelle angosce e nei meccanismi difensivi
che caratterizzano i primi mesi di vita. Pertanto, vengono alternativamente idealizzati o trasformati,
attraverso la proiezione, in figure terrificanti e vendicative.
Un aspetto importante dei primissimi stati del complesso edipico è la fantasia della figura genitoriale
combinata, derivante dall’invidia connessa alla frustrazione dei bisogni orali.
«Alla frustrazione si associa l’idea che c’è un altro oggetto (presto immaginato come il padre) che riceve dalla madre il
soddisfacimento bramato e l’amore che in quel momento viene negato a lui.» (Klein, 1952)

Secondo la concettualizzazione kleiniana, ben presto alle pulsioni orali si mescolano tendenze genitali,
mantenute però in secondo piano per la presenza di desideri anali e uretrali. Una componente centrale che
favorisce tale sviluppo è la spinta a riparare, che favorisce lo sviluppo libidico rendendo meno pericolosa
l’aggressività. Tale spinta, unita al crescente senso di realtà, conduce gradualmente alla situazione edipica
classica.

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Se nello sviluppo maschile e femminile vi sono alcuni aspetti comuni, altri lo differenziano:
 Nel bambino, se la deviazione dei desideri libidici dal seno al pene avviene mantenendo il seno come
oggetto buono, allora anche il pene potrà assumere il carattere di oggetto buono e gratificante. Ciò
costituisce la prima posizione omosessuale, ma è contemporaneamente anche il presupposto della
capacità di sviluppare tendenze edipiche positive, poiché la paura di essere evirato dal padre è
temperata dalla fiducia in lui.
 La bambina, secondo la Klein, sa inconsciamente che il suo corpo contiene potenziali bambini; perciò,
il pene paterno diventa oggetto di desiderio perché donatore di bambini. Accanto a questa
consapevolezza inconscia, la bambina possiede anche dei seri dubbi sulla sua futura capacità di
generare, pertanto si sente in svantaggio rispetto alla madre. Tutto ciò alimenta profonde angosce nei
confronti della madre, che spingono a depredarne il corpo e i beni che contiene. L’invidia del pene
della bambina maschererebbe quindi il desiderio frustrato di prendere il posto della madre presso il
padre e di ricevere bambini da lui. Nella femmina, l’angoscia dominante è quella di poter essere privata
delle potenzialità di creare la vita.

4. HARTMANN: IL MODELLO PULSIONALE TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE

IL PUNTO DI VISTA TEORICO E SCIENTISTA


Heinz Hartmann, all’interno della sua opera, ha privilegiato un livello teorico astratto, deliberatamente
distante dall’esperienza clinica, volto a rendere coerente e scientifico il corpus teorico psicoanalitico.
Nella sua prima opera significativa, egli prefigura quello che sarà il suo stile dominante di produzione: una
ricerca continua tra le sinuosità e le ambiguità della teoria, volta ad ampliare l’eredità freudiana, ma
sempre nel tentativo di preservare la tradizione.
Egli sottolinea l’importanza che le osservazioni fenomenologiche possono avere per la psicoanalisi.
L’opzione teorica compiuta da Hartmann è netta e priva di ambiguità: la psicoanalisi appartiene all’ambito
delle scienze naturali. Poiché è necessario che i risultati conseguiti siano sottoposti a verifica empirica, si
pone la questione quella quantificabilità: in ogni caso, secondo l’autore, il fatto che alcuni fenomeni
psichici non siano accessibili al metodo sperimentale non deve comportare una rinuncia al loro studio.
A differenza della psicologia naturalistica, la psicoanalisi non si limita allo studio dei processi psichici da un
punto di vista formale, ma ritiene essenziale affrontare il livello del contenuto. Secondo Hartmann, la
psicoanalisi indaga la vita psichica secondo le sue funzioni biologiche e il suo concetto di persona è
strutturato in modo analogo al concetto biologico di organismo. Grazie al concetto di pulsione, le cui radici
affondano nel campo organico, la psicoanalisi inquadra i fenomeni psichici in quelli biologici.

L’ADATTAMENTO E LA REALTÀ
Per la nuova importanza che venne ad assumere l’Io in ambito psicoanalitico e per un interesse particolare
mostrato da Hartmann nei confronti della personalità nel suo insieme, il concetto di adattamento assunse
un peso straordinario nella sua elaborazione.
Anche se Hartmann non definisce in modo chiaro e univoco il concetto di adattamento, egli sostiene che
esso implica una relazione reciproca fra organismo e ambiente, e che è assicurato da ciò che l’uomo
eredita, dalla maturazione dei suoi apparati e dalle azioni regolate dall’Io che migliorano attivamente i
rapporti con l’ambiente.
Proprio in conseguenza dell’inclusione nel campo di indagine psicoanalitico della questione
dell’adattamento, Hartmann coglie l’importanza della sfera libera da conflitti, costituita da quelle funzioni
che operano al di fuori dei conflitti psichici. L’adattamento non coincide con un adeguamento passivo alla
società, ma consiste in una collaborazione ai fini della società, compresi gli sforzi attivi per cambiarli.
L’essere umano deve adattarsi ad un ambiente sociale e umano che egli contribuisce a creare: struttura
sociale, organizzazione del lavoro, ruolo nella società contribuiscono a regolare gli esiti e le forme
dell’adattamento individuale.
Hartmann sostiene che esistono processi di oscillazione intorno all’equilibrio e che, sia all’interno
dell’organismo sia nel suo rapporto con l’ambiente esterno, hanno luogo tensioni che alterano tale stato di
equilibrio. Egli rileva l’esistenza di un’interdipendenza non solo fra gli elementi che regolano l’equilibrio

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intrapsichico, ma anche tra adattamento e integrazione; non esiste una pulsione che garantisca
l’adattamento: è l’azione esercitata dagli apparati dell’Io a determinare gli esiti adattivi tra individuo e
realtà.
Il pensiero svolge un ruolo rilevate dal punto di vista biologico, in quanto permettendo un ritiro dal mondo
esterno e un ritorno a esso con una maggior padronanza, favorisce un migliore adattamento.

L’ESTENSIONE CONCETTUALE DELL’IO


Hartmann definisce l’Io come una sottostruttura della personalità deputata dall’esame di realtà, all’azione,
al pensiero. Le sue funzioni consistono nel rapporto con la realtà, nel controllo della motilità e della
percezione e nell’organizzazione di una barriera contro gli stimoli esterni e interni.
Uno degli elementi innovativi più significativi introdotti da Hartmann riguarda lo sviluppo autonomo
dell’Io: quest’ultimo non è solo un sottoprodotto dell’influenza della realtà sulle pulsioni, ma ha un’origine
innata. La prima conseguenza di tale affermazione consiste nel riconoscere che non tutti i fattori dello
sviluppo psichico presenti alla nascita sono riconducibili all’Es.
Hartmann ritiene che la primissima fase postnatale sia caratterizzata da un’indifferenziazione tra Io ed Es,
nella quale non solo non si può parlare dell’Io come lo ritroviamo nelle fasi successive, ma risulta
estremamente difficile poter distinguere i nuclei di quelle funzioni che in seguito assumerà l’Io stesso da
quelle invece tipiche dell’Es.
Quando Hartmann parla della presenza di un “nocciolo ereditario” dell’Io, cioè degli apparati innati che
costituiranno in seguito la struttura che entra in rapporto con la realtà, si riferisce all’autonomia primaria
dell’Io. Ma esistono nell’Io anche interessi o funzioni che diventano parzialmente autonome nel corso dello
sviluppo, mantenendo un certo grado di non reversibilità.
L’autonomia secondaria indica la capacità di resistere alla regressione da parte dell’Io. Il grado di
autonomia dall’Es delle funzioni dell’Io è dato dal loro distacco dai conflitti pulsionali e dai rischi di
regressione. I fattori autonomi, inoltre, possono essere coinvolti nella difesa dell’Io dalla realtà, dalle
pulsioni e dal Super-Io e contribuiscono a influenzare i tempi, le forme e le intensità dei conflitti.

HARTMANN: TRA PASSATO E FUTURO

PSICOANALISI E PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO


Uno dei contributi più significativi di Hartmann riguarda il rapporto tra metodo osservativo e metodo
ricostruttivo. Diversi insiemi di ipotesi danno forma alla teoria psicoanalitica: tra questi il punto di vista
genetico che, pur implicitamente presente in Freud, non era stato formalizzato prima della psicologia
dell’Io. Le ipotesi genetiche ci aiutano a comprendere l’origine nel passato di una situazione o di un
comportamento attivo nell’individuo, stabilendo nessi causali tra le circostanze passate e la condizione
presente.
Hartmann si mostra sensibile alla necessità di verificare le ipotesi genetiche. La precisione, la completezza
e soprattutto la correttezza di queste ultime sono ottenibili mediante un ampliamento dei dati osservativi
e un’integrazione del metodo psicoanalitico con altri metodi di indagine. La strada indicata da Hartmann
consiste nell’integrazione tra metodo psicoanalitico e osservazione sistematica longitudinale di singoli
individui.

Dal punto di vista dei contenuti, Hartmann ribadisce l’evidente impossibilità di ridurre lo sviluppo a uno
sviluppo di fasi libidiche e la necessità di considerare le vicende delle pulsioni aggressive e soprattutto
dell’Io e delle relazioni oggettuali.
L’osservazione diretta, integrata col metodo psicoanalitico, permette di identificare e utilizzare i dati del
primo sviluppo come indici del conflitto e della patologia reale o potenziale, e questo aspetto può avere
effetti rilevantissimi sulla terapia e soprattutto sulla possibilità di prevenzione.

IL MODELLO ENERGETICO
Hartmann, sulla base del concetto di autonomia primaria, elabora l’ipotesi che l’Io sia dotato di energia
psichica con un’origine indipendente dall’energia pulsionale.

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Mentre Freud aveva ipotizzato che l’Io lavorasse con libido desessualizzata, Hartmann affianca a questa
l’utilizzazione di energia deaggressivizzata. La neutralizzazione avviene grazie alla mediazione dell’Io ed è
caratterizzata da una serie di gradi intermedi. Inoltre, l’Io può accumulare riserve di energia neutralizzata
che impiegherà negli investimenti di mete e funzioni. Un aumento degli investimenti neutralizzati dell’Io
non genera patologia mentre, al contrario, l’Io può essere sopraffatto da energia non sufficientemente
neutralizzata. Un certo grado di neutralizzazione, oltre a giocare un ruolo importante nella padronanza
della realtà, garantisce la formazione e il mantenimento di relazioni oggettuali. L’energia
deaggressivizzata non provoca autodistruzione, bensì viene utilizzata dall’Io e dal Super-Io come forza
motrice. Il processo di neutralizzazione ha inizio da quando l’Io incomincia a evolversi come struttura
distinta.
Hartmann ritenne che il linguaggio energetico fosse lo strumento irrinunciabile che rende intelligibili
fenomeni disparati tra loro eterogenei, un modello operazionale che costituisce soprattutto una sorta di
precondizione e garanzia di scientificità per la psicoanalisi.

LE RELAZIONI OGGETTUALI
Hartmann, nel tentativo di rendere coerenti e di integrare le formulazioni di Freud sul narcisismo con la
teoria strutturale degli anni Venti, affronta il concetto del Sé.
Parlando di narcisismo si tende a confondere due insiemi di entità opposte: il Sé contrapposto all’oggetto,
e l’Io contrapposto alle altre componenti della personalità. L’opposto dell’investimento dell’oggetto è
l’investimento della persona, quindi del Sé, che per Hartmann non ha la configurazione di un sistema
psichico distinto come l’Io, l’Es e il Super-Io. La prima tappa sulla strada della formazione dell’Io è quella
della distinzione tra il Sé e il mondo esterno.
Parallelamente allo sviluppo dell’Io, ha luogo quello delle relazioni oggettuali. La madre è l’oggetto più
intensamente investito tra quelli che il bambino ha a disposizione e la capacità di distinguersi da lei gli
consente di trasformare l’identificazione con la madre in una relazione oggettuale. La stabilità delle
relazioni oggettuali è resa possibile dalla capacità del bambino di tollerare la frustrazione e dalla
sublimazione dell’aggressività. Quando, alla fine del primo anno di età, si è stabilita la relazione
oggettuale, il bambino ha acquisito la capacità di astrarre dalla situazione reale e la paura di perdere
l’oggetto d’amore è sostituita da quella di perdere l’amore stesso.
Allorquando il funzionamento mentale viene essenzialmente regolato attraverso il principio di realtà,
muta il rapporto del bambino con la realtà esterna; sulla base di un processo di apprendimento (favorito
dalla madre) il bambino acquista la consapevolezza di poter influire sul suo ambiente. Anche in virtù del
fatto che la madre lo aiuta a tollerare la tensione pulsionale, il bambino diviene gradualmente capace di
posporre il soddisfacimento, e questo gli permette di attaccarsi alle figure importanti del suo ambiente non
più esclusivamente in funzione del soddisfacimento. Hartmann ritiene che l’oggetto assuma un aspetto
definito in funzione delle esigenze pulsionali e dello sviluppo dell’Io e che si realizzi fin dal primo giorno di
vita uno stato di adattamento del bambino all’ambiente normale. È in questo senso che si può sostenere
che esista fin dall’inizio un rapporto col mondo esterno.
Il mondo esterno e le relazioni umane sono subordinati all’esigenza primaria dell’individuo: sopravvivere e
adattarsi alla realtà. Proprio il concetto di adattamento salvaguarda Hartmann rispetto al rischio di dover
modificare gli assunti fondamentali della metapsicologia freudiana. Funzionale alla salvaguardia di
quest’ultima è la posizione per cui esisterebbero due fonti indipendenti di motivazioni: da un lato le
pulsioni, dall’altro le capacità di adattamento dell’Io intrinsecamente legate all’ambiente. L’ambiente
umano può influire sulla sequenza del piacere-dispiacere, ma il ruolo centrale nelle motivazioni continua a
essere svolto dalle pulsioni. Inoltre, l’ambiente di Hartmann non è personificato: l’accento non viene posto
tanto sulle specifiche caratteristiche personali di chi si prende cura del bambino, quanto sulle
caratteristiche innate biologiche e psicologiche dell’individuo e sul modo in cui le relazioni oggettuali
vengono modificate dai processi maturativi.

6. LA NASCITA PSICOLOGICA DEL BAMBINO NEL PENSIERO DI MARGARET MAHLER

PREMESSA

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L’interesse ad approfondire lo sviluppo infantile è un’esigenza che Margareth Mahler avverte in seguito
alla sua esperienza clinica con bambini affetti da psicosi infantili, risalente agli anni Trenta. Tale
esperienza fu di grande importanza in quanto, a quei tempi, il riconoscimento di disturbi di tipo
schizofrenico nei bambini operava una grande resistenza.
La Mahler fu sorpresa dall’incapacità dei bambini psicotici di vedere l’oggetto umano nel mondo esterno e
di interagirvi in quanto entità distinta e separata. Possiamo pensare a questa incapacità come
un’esemplificazione della sindrome autistica e della patologia simbiotica. Nel 1949, l’autrice giunge a
delineare la teoria secondo cui le sindromi psicotiche infantili simil-schizofreniche siano in origine
autistiche, simbiotiche o associate.

LA NASCITA PSICOLOGICA
Seguendo la linea tracciata da Freud, la Mahler insiste sull’incapacità iniziale del neonato di provvedere a
se stesso. Esso necessita di una figura di riferimento, la madre o chi ne fa le veci, con cui stabilire un lungo
rapporto di dipendenza che gli garantisca non solo la sopravvivenza fisica, ma anche quella che la Mahler
definisce nascita psicologica: questa è frutto di un processo intrapsichico che si svolge lentamente, in cui
la figura materna è un partner irrinunciabile disposto a plasmarsi su bisogni che cambiano se lo sviluppo
della coppia procede.
Tuttavia, secondo la Mahler, al bambino è richiesta una dose superiore di adattamento: per quanto la
madre possa essere sensibile e plasmabile sui bisogni del bambino, la capacità adattiva di quest’ultimo -
finalizzata all’ottenimento di indispensabili gratificazioni - dev’essere superiore a quella della madre, la cui
personalità è già strutturata in modo più solido. Il bambino prenderà forma adattandosi all’oggetto
materno, più o meno sano esso sia.
La nascita psicologica è da intendersi come il momento culminante di un processo che ha come esito
l’instaurarsi di un senso di separatezza dall’oggetto d’amore primario (separazione), e l’instaurarsi di un
rapporto con il proprio corpo, avvertito come distinto dall’iniziale matrice indifferenziata (individuazione).
La separazione, intesa come processo intrapsichico, continua gradualmente lungo tutto l’arco della vita,
tuttavia le principali conquiste si realizzano fra i quattro mesi e i 3 anni di vita.

LA FASE AUTISTICA NORMALE


Mahler fa risalire questa fase intorno al primo mese di vita.
Il neonato sembra funzionare come un organismo esclusivamente biologico. Gli stati di sonno superano
quelli di veglia: essi sono una persistenza di quello stato primario di investimento libidico che prevaleva
nella vita intrauterina.
Nelle prime settimane di vita tale situazione può essere mantenuta grazie all’apporto di cure materne
puntuali e disconosciute dal neonato, ma che gli permettono di allucinare uno stato di autosufficienza. Tale
attitudine di investimento libidico del neonato insieme alla presenza materna costituiscono una protezione
nei confronti del mondo esterno, che permette al neonato una continuazione delle sensazioni
sperimentate nello stadio prenatale, facilitandone l’omeostasi psicofisica e la crescita biologica.
Il narcisismo primario delle prime settimane di vita non è, tuttavia, stabile. Dall’iniziale mancanza di
percezione delle cure materne, intorno al primo mese di vita il bambino acquisisce una vaga sensazione
che la soddisfazione dei propri bisogni possa provenire da qualcuno esterno al Sé.
Le stesse cure materne, se da un lato contribuiscono a mantenere quel guscio protettivo tipico
dell’autismo normale, dall’altro chiamano il neonato al contatto con l’ambiente. La Mahler sottolinea che
l’esperienza di contatto percettiva con l’interno corpo della madre – che si realizza quando questa tiene il
figlio in braccio – costituisce un potente stimolo sulla sensibilità del neonato, favorendone l’ingresso alla
simbiosi. È altrettanto importante poter vedere il volto materno durante l’allattamento. Questo suscita nel
bambino quella risposta che la Mahler definisce sorriso sociale non specifico, che rappresenta l’inizio della
fase di relazione con l’oggetto che soddisfa il bisogno. Così, a partire dal secondo mese, si determina una
graduale inclusione della madre all’interno del guscio che inizialmente comprendeva esclusivamente il
neonato. Questo cambiamento segna il passaggio dallo stadio anoggettuale dell’autismo allo stadio
preoggettuale della simbiosi.

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LA FASE SIMBIOTICA
La Mahler utilizza termine simbiosi metaforicamente per indicare l’unità duale madre-bambino, rinchiusa
da un confine che chiama membrana simbiotica, all’interno della quale la coppia agisce in uno stato di
indifferenziazione costituendo un sistema onnipotente.
L’equilibrio all’interno di questa cornice è strettamente difeso: qualsiasi percezione spiacevole esterna o
interna è proiettata al di là del confine comune, al fine di mantenere quello che Freud chiamava “l’Io-
piacere allo stato puro”.
Rispetto al periodo precedente, la fase simbiotica normale è caratterizzata da un maggior investimento
percettivo e affettivo di quanto proviene da ciò che circonda il lattante, anche se la differenziazione tra
interno ed esterno non è ancora chiaramente demarcata e l’interesse per la madre è ancora l’investimento
per un oggetto parziale.
Margareth Mahler attribuisce una speciale importanza come organizzatori simbiotici della nascita
psicologica ai diversi modi in cui una madre tiene in braccio il suo bambino. Esemplifica a questo proposito
la situazione di una madre che allatta il figlio al seno ma non lo tiene in braccio, lo appoggia invece sulle
ginocchia, non lo guarda e non lo culla. Il bambino in questo caso può sorridere in ritardo, e quando inizia a
farlo, la sua è quasi una risposta automatica. Al contrario, il neonato di una madre che non allatta al seno
ma che, mentre lo nutre col biberon, lo sostiene, lo culla e gli sorride, farà sì che il bambino acquisti
precocemente il sorriso non specifico e poi quello specifico.

IL PROCESSO DI SEPARAZIONE-INDIVIDUAZIONE

PRIMA SOTTOFASE: DIFFERENZIAZIONE E SVILUPPO DELL’IMMAGINE CORPOREA


Al quarto-quinto mese di vita comincia a verificarsi quel processo designato dalla Mahler col termine
inglese di hatching: esso indica lo schiudersi dell’uovo e la fuoriuscita del pulcino. Numerosi sono i segnali
di questo emergere. Tra di essi il mutamento dell’attenzione del bambino. Essa, inizialmente rivolta
all’interno del proprio corpo o dell’orbita simbiotica, si indirizza all’esterno. L’attenzione nei confronti della
madre diventa qualitativamente e quantitativamente diversa; gradualmente il bambino comincia a
memorizzare le esperienze di soddisfazione e, se queste sono prevalenti, lo predispongono a tollerare
l’assenza materna, poiché subentra una “fiduciosa aspettativa” della ricomparsa della madre.
Compariranno, inoltre, altri due segnali indicativi: il sorriso specifico e il checking back pattern.
Quest’ultimo consiste in un’attività di confronto ripetuto che il bambino compie tra la madre e l’altro, il
non familiare, al fine di differenziare sempre più distintamente quello che essa è e quello che le appartiene
da quanto fa parte del mondo circostante.
Tipica dell’ottavo mese, ma con un certo grado di variabilità, è l’angoscia dell’estraneo, indice
inequivocabile dell’avvenuto apprendimento dell’altro che non è la madre. La variabilità di tale fenomeno
è, a sua volta, un segnale indicatore dell’andamento del precedente sviluppo: se la simbiosi è stata
ottimale, allora il bambino si è sufficientemente impadronito dell’immagine della madre, ha interiorizzato
una “fiduciosa aspettativa” di lei e di conseguenza può rivolgersi all’estraneo con curiosità e una moderata
dose di angoscia. Diversamente, i bambini reduci da un’insoddisfacente simbiosi, si sentono minacciati
dalla presenza dell’estraneo e questo inibisce un loro comportamento esplorativo libero e gratificante.
Lo stesso processo di emergenza (hatching) può essere nel complesso influenzato dallo svolgimento della
fase simbiotica. È osservabile un’emergenza ritardata in quei casi in cui la madre è distolta dalla simbiosi
dai suoi problemi specifici: in questi casi, il bambino presenta in ritardo sia il sorriso aspecifico che quello
specifico, è poco interessato all’esplorazione e rimane più a lungo attaccato alla madre.
Possono presentare un’emergenza anticipata quei bambini che hanno avuto una simbiosi problematica per
svariati motivi: l’imprevedibilità della madre nel rispondere ai loro bisogni, un attaccamento eccessivo. È
come se il bambino, pur di non restare in una situazione frustrante, rompesse il guscio per cercare
all’esterno dei partner più gratificanti e adeguati ai suoi bisogni evolutivi. L’angoscia dell’estraneo può sia
produrre una regressione narcisistica, sia gettare le basi per la formazione di una personalità fondata su
un’apparente autonomia e una segreta fragilità; Winnicott definisce questo tipo di personalità falso Sé.

SECONDA SOTTOFASE: LA SPERIMENTAZIONE

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La seconda sottofase coincide temporalmente con la sottofase della differenziazione; l’attività di
sperimentazione effettuata nel corso di essa aiuta significativamente il bambino a differenziarsi. Tuttavia,
la Mahler ama descriverla come una fase distinta, a sua volta divisa in due periodi:
1. Fase di sperimentazione precoce: coincide con gli ultimi mesi del primo anno di vita. Il bambino si
allontana dalla madre carponi, barcollando e avendo bisogno di un appoggio.
2. Fase di sperimentazione vera e propria: consiste nel raggiungimento della deambulazione eretta.
In questo periodo il bambino mostra un vivo interesse per gli oggetti inanimati del mondo che lo circonda,
spesso offertigli dalla madre durante l’attività di gioco. Ad alcuni di questi si affezionerà in modo
particolare. Lo scopo di tali attività esplorative è sia quello di familiarizzarsi a poco a poco con un settore di
mondo sempre più ampio, sia quello di ricreare un rapporto con la madre che prevedere però una
maggiore distanza.
Naturalmente, il raggiungimento di tali conquiste è condizionato dal vissuto che le singole madri possono
avere di questa evoluzione dei loro bambini. Si realizzavano migliori condizioni di sviluppo per quei
bambini le cui madri erano in grado di mantenere il miglior “contatto a distanza”, mentre risultavano
svantaggiati quei bambini le cui madri avevano intensi bisogni simbiotici. Questi bambini sembravano
perdere totalmente il contatto con la madre in sua assenza.
In questi suoi tentativi verso l’autonomia il bambino si rivolge continuamente alla madre per avere un
rifornimento affettivo. Egli attinge tale rifornimento tramite lo sguardo, l’udito, o tornando
temporaneamente vicino alla madre dopo essersene allontanato.
La conquista stabile della posizione eretta e della deambulazione dà al bambino un senso di euforia, tutto
l’investimento libidico è finalizzato allo sviluppo dell’Io autonomo e delle sue funzioni. Stando in piedi, il
bambino prende inoltre maggior consapevolezza dei propri genitori. Questo influenza l’accelerare della
conquista della propria individualità. È possibile che questa euforia non riguardi solo la sperimentazione
delle sue nuove capacità, ma che essa sia anche alimentata dal desiderio di una fuga dalla simbiosi,
avvertita come un pericoloso risucchio. È uno scappare però per essere reinseguito, per ritrovare la madre
pronta a riprenderlo in braccio.

TERZA SOTTOFASE: IL RIAVVICINAMENTO


Dai quindici mesi verso la fine del secondo anno di vita il bambino acquisisce una padronanza sempre
maggiore del mondo che lo circonda e della sua autonomia. Ma si accorge sempre di più che il mondo non
obbedisce ai suoi ordini e che nella sua avventura è più o meno solo, avendo ormai maturato una sempre
maggiore coscienza della propria separatezza dall’oggetto materno. Questo lo spaventa e lo porta a
cercare un riavvicinamento che culmina in quella che la Mahler definisce crisi di riavvicinamento: il
superamento di essa, con modalità differenti per ciascun bambino, costituisce una tappa fondamentale
della sua evoluzione, permettendogli di conquistare una distanza ottimale dalla madre.
Il riavvicinamento ha però caratteristiche diverse dal rifornimento affettivo tipico della fase di
sperimentazione. La madre non è più per il bambino un “campo base” a cui tornare di tanto in tanto, ma
una persona con cui condividere le sue scoperte. Prendono così piede altre forme di scambio: l’attività
ludica, l’esordio del linguaggio e di altre forme di comunicazione. Il linguaggio, in particolare, permette di
compensare la separazione in quanto, attraverso di esso, il bambino scopre di poter richiedere
l’appagamento dei propri desideri.
Verso i due anni l’interesse del bambino si sposta dall’esplorazione del mondo inanimato all’interazione
sociale. Quest’espansione dei rapporti sociali prevede l’inclusione del padre come figura significativa. In
ogni caso, il padre viene ritenuto un oggetto d’amore facente parte di una categoria diversa da quella della
madre, in quanto la sua presenza viene intuita precocemente dal bambino.
Anche i coetanei diventano motivo di interesse. Nel rapporto con gli adulti significativi, soprattutto i
genitori, compare la paura di perderli non più come oggetti, ma di perdere il loro amore.
Durante la crisi di riavvicinamento, lo stato d’animo del bambino è improntato sul conflitto tra il desiderio
di essere maggiormente autonomo e quello di avere accanto la madre a soddisfare i suoi desideri. Il
termine ambitendenza ben descrive questo atteggiamento, consistente nell’alternanza improvvisa tra
l’evitamento della madre e lo starle strettamente accanto. L’atteggiamento della madre è fondamentale
nel superamento di questa crisi. Per un buon esito è importante che essa sia capace di lasciare libero il

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figlio e che, allo stesso tempo, sia pronta a riaccoglierlo nei momenti in cui questo sente il bisogno di
tornare indietro, senza che ciò significhi farlo ricadere in simbiosi.
Dopo il ventunesimo mese la Mahler evidenzia la diminuzione dei conflitti di riavvicinamento. Ogni
bambino trova la sua distanza ottimale in relazione a come la sua maggiore autonomia influisce sui
rapporti con gli adulti significativi.
Un aspetto importante di questa sottofase è lo sviluppo dell’umore di base e dell’identità sessuale. La
perdita del senso di onnipotenza tipico della sottofase di sperimentazione, dovuta alla conquista di una
immagine di sé più realistica e separata, fa sì che l’umore prevalente di questa fase sia di relativa calma.
Il maschio, grazie alla “mentalità motoria determinata dal suo sesso”, riesce più facilmente a mantenere
investimento e fiducia nel proprio corpo, così che in condizioni favorevoli, il maschio sperimenta
attivamente la separazione dalla madre e la riunificazione con lei. Nelle bambine, invece, la ferita della
separazione si somma a quella dell’assenza del pene, già percepita a questa età precoce, provocando
sentimenti di angoscia, rabbia e negazione delle differenze sessuali. Di questo ritengono colpevole la
madre, favorendo un attaccamento protratto, che rende l’individuazione della bambina più problematica.
Ma normalmente, mentre la bambina si trova già alle prese con l’invidia del pene, nel maschio della stessa
età compare solo timore di essere riassorbito dalla madre simbiotica; l’angoscia di castrazione comparirà
per lui più tardi, nella fase fallica, promossa dalla presenza paterna.

QUARTA SOTTOFASE: CONSOLIDAMENTO DELL’INDIVIDUALITÀ E INIZIO DELLA COSTANZA


DELL’OGGETTO EMOTIVO
Queste due tappe, fondamentali nel processo di separazione-individuazione, prendono avvio nel corso del
terzo anno di vita, ma si realizzano progressivamente in un arco di tempo molto lungo e con percorsi del
tutto peculiari in ogni bambino poiché influenzati da una molteplicità di fattori.
L’instaurarsi della costanza dell’oggetto emotivo dipende dall’interiorizzazione di un’immagine materna
stabile, in cui c’è una riduzione delle scissioni tra gli aspetti buoni e cattivi. Quindi non è più un’immagine
solo idealizzata o solo persecutoria, ma un’immagine nella quale esiste un gradiente di qualità sia positivo
che negativo. Quando tale costanza d’oggetto si realizza in maniera sufficiente, è possibile per il bambino
tollerare l’assenza della madre. La via per arrivare a ciò è tracciata dalla ripetizione di esperienze
gratificanti, che infonderebbero nel bambino la fiducia che le proprie tensioni possano essere alleviate
dalla madre.
In questo periodo della vita è più facile ricostruire il percorso che porta al consolidamento
dell’individualità. È infatti cominciato il linguaggio verbale e, attraverso di esso, è possibile dedurre ciò
che passa nella mente del bambino. Il gioco si arricchisce, prende spunto dalla realtà, dalla fantasia, dalla
simulazione o dall’integrazione dei tre livelli. Comincia a svilupparsi un discreto senso del tempo e, con
esso, una maggiore capacità di dilazionare il soddisfacimento dei bisogni e sopportare la separazione. La
percezione del tempo si è sviluppata proprio in rapporto alla comparsa e alla scomparsa della madre.
Il “no” diventa frequente e ripetitivo, e sembra utile a stabilire una differenziazione tra se stesso e gli altri e
ad affermare la propria individualità.

LA SALUTE MENTALE DEL BAMBINO


Nel modello della Mahler la salute mentale del bambino, così come la patologia, è vista come il risultato
di una serie di variabili che comprendono:
 La dotazione individuale del bambino: consistente nella sua capacità innata di suscitare le cure
materne di cui necessita per il suo sviluppo.
 L’interazione precoce madre-bambino: la personalità della madre, le fantasie consce e, soprattutto,
quelle inconsce riguardo al proprio bambino, sarebbero rilevanti nel favorire od ostacolare
l’adattabilità del piccolo.

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 Avvenimenti cruciali nel periodo della crescita: è tradizionalmente ritenuto da psichiatri e psicologi
che la precocità dei traumi, o qualunque cosa renda negative le fasi iniziali della vita extrauterina,
predisponga a sviluppare un grave disturbo della personalità. Secondo la Mahler, tuttavia, ciò può
accadere solo se la dotazione innata del bambino è gravemente anormale.

7. WINNICOTT: L’EMERGERE DELL’ESPERIENZA DEL SÉ

WINNICOTT COME UOMO, PEDIATRA E PSICOANALISTA


Il pensiero teorico di Winnicott e la sua metodologia clinica affondano le radici nel mondo culturale
anglosassone e nel pensiero psicoanalitico.
Egli giunge ala psicoanalisi “attraverso” la pediatria. Egli è, in effetti, uno psicoanalista che non ha mai
cessato di essere pediatra, arricchendo entrambe le sue attività attraverso la loro integrazione.
La profonda familiarità con i bambini e con le madri permea e modella il suo approccio ai problemi
psicoanalitici, così nel suo pensiero l’esperienza umana appare sempre più inserita nel contesto del
modello strutturale delle relazioni.
Come psicoanalista, Winnicott aveva uno stile del tutto personale di praticare, pensare e vivere
l’esperienza clinica. Anche sul piano metodologico, si rivelò innovativo con un duplice stile di lavoro clinico:
era capace sia di adattare il setting al bisogno del bambino, sia di sostenere l’adulto nel contesto analitico.
L’originalità di pensiero e di metodo, la prolungata attività clinica con bambini e adulti e la sua personalità,
fecero sì che il personaggio di Winnicott risultasse scomodo per l’ambiente psicoanalitico del tempo.
La sua opera si sviluppa in un momento particolarmente vivace della psicoanalisi. Durante i suoi primi anni.
Freud a Vienna arricchiva le sue ipotesi teoriche con l’introduzione degli istinti di vita e di morte e con
l’elaborazione della seconda topica strutturale, che elaborava le istanze psichiche in termini di Io, Es e
Super-Io. Negli anni a seguire, entrarono a far parte della società psicoanalitica inglese molti personaggi di
rilievo. Winnicott, già affermato come pediatra, venne inizialmente accolto con una certa diffidenza a
causa delle sue prime innovative considerazioni sulla persona umana. Basti ricordare che la sua prima
comunicazione, risalente al 1935, rimase nel totale silenzio fino al 1958, quando venne pubblicata l’opera
Dalla pediatria alla psicoanalisi. Nel 1940 invece, Winnicott aveva fatto trasalire i suoi colleghi con la frase
“un neonato è qualcosa che non esiste”.
Egli, attingendo alla pratica ambulatoriale pediatrica, porta una particolare attenzione sul bambino
piccolissimo. In verità, l’osservazione psicoanalitica del bambino aveva già cominciato a rivoluzionare il
modo di accostarsi all’infanzia, attraverso i contributi di Anna Freud e Melanie Klein, le quali dibattevano
le fondamentali divergenze teoriche che le distinguevano, determinando una spaccatura all’interno della
scuola psicoanalitica. Nulla era, tuttavia, più lontano dall’indole di Winnicott delle diatribe delle società
psicoanalitiche, pertanto egli si associò con il Middle Group, divenendo uno dei principali esponenti.
Si può dire che Winnicott assorbe e contemporaneamente trasforma i suoi precursori teorici, Freud e Kelin,
distaccandosi dalle teorie psicoanalitiche che descrivono il funzionamento della psiche umana basandosi
sul modello meccanicistico e pulsionale.
Winnicott preferisce elaborare una teoria generale dello sviluppo e della psicopatologia, fondata sullo
studio dei processi che sono all’origine dell’emergere della personalità, visti nel contesto del modello
relazionale.

L A CON CEZI ON E DELL A NATURA UMAN A E IL MOD ELL O DI SV ILUPP O IMP ERNIA TI SULL’ EMERGENZA DEL SÉ
Winnicott afferma che comprendere lo sviluppo della prima infanzia serva a comprendere lo sviluppo
ulteriore dell’individuo. Con questa impostazione, egli si colloca subito nella tradizione psicoanalitica, che
pone a una età precoce il punto di fissazione della variegata tipologia delle turbe narcisistiche.
Tuttavia, egli si discosta dal modello freudiano e kleiniano, virando dal bisogno dell’Es al bisogno dell’Io.
La sua teorizzazione si sposta così dal modello pulsionale al modello relazionale, entro il quale le pulsioni
vengono intrecciate e orientate dalle relazioni oggettuali e consentono all’individuo di crescere attraverso
esperienze viventi.

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I TERMINI: EGO, IO, SELF, ME
In Winnicott, il concetto di I am (Io sono) è embricato con quello di self (Sé). I am specifica ciò che self
esprime in senso generale, ossia il sentimento della soggettività, cioè la risonanza emotiva di
un’esperienza maturativa e di relazione.

L’EMERGERE DEL SÉ NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO


Winnicott definisce le condizioni necessarie emozionali del bambino e precisa ciò che l’ambiente (la
madre) deve garantirgli perché si possa stabilire la relazione madre-bambino.
L’autore spesso ribadisce che il potenziale ereditato da un bambino non può diventare un bambino se non
è congiunto alla cura materna.
I punti cardine della teoria di Winnicott sono:
 Il rapporto madre-bambino rende possibile per il bambino diventare self.
 Un oggetto reale, ossia la madre, diventa alleato dei processi maturativi del bambino, e contribuisce
alla personalizzazione del potenziale istintuale e psichico del bambino verso l’individualità.
 Il primo rapporto è un rapporto creativo: la madre “crea” il bambino non solo fisicamente, ma anche
nei suoi primi movimenti psichici; dal canto suo, il bambino “crea” l’oggetto che aspetta di essere
trovato.
L’essenza dell’esperienza del bambino sta, dunque, nella dipendenza dalla cura materna, che fornisce un
ambiente che “sostiene” (holding), entro cui il figlio è contenuto e sperimentato.

Secondo Winnicott, il percorso evolutivo del bambino piccolo si compie attraverso tre conquiste:
1. Conquista dell’integrazione dell’Io: il bambino esce da uno stato di non-integrazione.
2. Conquista del sentimento che si ha della propria persona nel proprio corpo: il bambino perviene a
uno stato nella quale psiche e corpo vengono a patti, finché i confini del corpo diventano anche quelli
della psiche.
3. Conquista del senso di realtà: permette la valutazione del tempo e dello spazio e delle altre
caratteristiche della realtà.
Queste tre conquiste non sono da intendersi come fasi consecutive, ma come tre aspetti che si intrecciano
in un processo evolutivo complesso, fondamentalmente ancorato al rapporto madre-bambino.

Andando più a fondo sul tema dell’emergenza del Sé, riscontriamo uno dei fondamentali paradossi di
Winnicott: all’inizio, egli sostiene, vi è uno stato di solitudine fondamentale. Allo stesso tempo, questa
solitudine può esistere solo in condizioni di massima dipendenza e prima ancora che tale dipendenza
venga riconosciuta. È una caratteristica dello stato di salute il fatto che questo nucleo della personalità
rimanga occultato. Proprio questo “Sé in solitudine” è il nucleo personale del vero Sé. L’autore ci fa
riflettere sulla solitudine non come condizione di paura o desiderio, ma come particolare condizione di
benessere. Introduce allora l’impensabile concetto della “capacità di essere solo in presenza della
madre”.
L’Io ha la capacità di stabilire un rapporto con se stesso, con un’emozione positiva di esistere, in quanto
sostenuto da una madre non più adattiva ai suoi bisogni né richiedente qualcosa, bensì affidabile e che
accetta di essere messa tra parentesi senza il rischio di perderla.
Questa esperienza è il primo passo per introiettare la madre che dà sostegno all’Io, fondando
un’autonomia che permetterà la vera autonomia adulta.

La preoccupazione materna primaria, cioè il modo di essere e di porsi della madre nei confronti del
bambino, caratterizza il periodo che intercorre dalla fine della gravidanza ai primi mesi di vita.
In questa fase, secondo Winnicott, il soggetto non esiste ancora come entità in quanto vi è non-
integrazione, cioè assenza di legame tra psiche e corpo. Successivamente, con la conquista
dell’integrazione il bambino diventa un’unità, un Io, che esclude tutto il resto come non-me.
Attraverso questi processi maturativi, il corpo, con i suoi limiti, viene avvertito dall’individuo come il nucleo
del suo Sé immaginativo. Questo nucleo, da cui deriva la consapevolezza di essere reale, ha quindi radice
nell’insieme della vita sensoriale-motoria.

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Viene così raggiunta la personalizzazione, cioè la capacità del Sé di fondarsi su psiche e corpo insieme.
L’origine del Sé per Winnicott è, dunque, assai più precoce rispetto agli studi della Mahler.

Per quanto riguarda la conquista del senso di realtà, in questo processo ha particolare importanza il
momento dell’illusione su cui si fonderà la facoltà umana immaginativa.
Winnicott impiega solo parzialmente il termine fantasia (che secondo Freud e la Klein designa
l’immaginazione e i suoi contenuti). Per lui la fantasia è l’elaborazione immaginativa della funzione fisica e
dell’esperienza corporea. Inoltre, egli opera una distinzione teoria tra:
 Fantasia: l’incontro significativo dell’immaginario con il reale;
 Fantasizzare: visto come una sorta di pensiero fatto di pure fantasie che non hanno contatto con la
realtà, per cui rimane un fenomeno che non contribuisce né al sogno né alla vita reale.
Il momento dell’illusione non viene inteso da Winnicott come un processo patologico, ma al contrario
diventa il perno centrale della sua teoria, in quanto costituisce il fondamento della possibilità per l’essere
umano di vivere in modo creativo.
Possiamo ora cogliere il valore dell’illusione come momento evolutivo: quando tutto va sufficientemente
bene, la madre devota rende possibile al suo bambino l’illusione di creare il seno che lei stessa gli offre
come oggetto adeguato ai suoi bisogni. Il continuo ripetersi di quest’esperienza, dove il bambino crea e la
madre presenta, permette al bambino di avvicinarsi sempre di più al mondo reale.
Attraverso l’esperienza illusoria il bambino sperimenta se stesso come onnipotente. Ciò diventa per egli il
fondamento della fiducia di base e della solidità del Sé.

Partendo da questa esperienza il bambino affronta la tappa evolutiva più importante per l’emergere del
suo Sé: grazie alla natura dei fenomeni transizionali, resi concreti dai ben noti oggetti transizionali, il
bambino sopravvive alla disillusione, mentre inizia a compiere il duro compito di accedere al reale. Egli
deve abbandonare l’onnipotenza illusoria e prendere consapevolezza dell’esistenza autonoma degli altri.
Gli oggetti transizionali costituiscono un’area intermedia di esperienza che favorisce tale transizione.

VERSO L’INDIPENDENZA E LA “CAPACITÀ DI PREOCCUPARSI”


Dopo la fase di pieno adattamento materno e di dipendenza assoluta dell’infante, assistiamo al graduale
venir meno di tale adattamento, calibrato in base ai ritmi di sviluppo del bambino.
In quest’arco di tempo, il bambino avverte che la madre appartiene all’esterno, al non-me, mentre la
persona intera che si sente di essere ha un dentro che significa me.
La dimensione della relazionalità dell’Io si realizza in questo arricchimento reciproco fra realtà esterna e
interna. Tenendo presente ciò, è possibile capire l’importanza del momento evolutivo che si realizza
intorno ai sei mesi: la capacità del bambino di preoccuparsi.
Secondo Winnicott, la parola “preoccupazione” è usata per indicare l’aspetto positivo di un fenomeno il cui
aspetto negativo è indicato dalla parola “senso di colpa”. Preoccuparsi è in relazione positiva con il senso di
responsabilità avvertito dall’individuo: si riferisce al fatto che l’individuo si prende cura o prova
apprensione.
Tale capacità emerge prima che la situazione relazionale triangolare (padre-madre-bambino) si realizzi
nella vita del bambino. Infatti, tale capacità implica che l’Io del bambino si sia reso autonomo dall’Io
ausiliario materno e che sia ormai pronto per l’esperienza di un Sé intero con un oggetto intero.

A questo riguardo, Winnicott introduce una distinzione fondamentale tra:


 Madre-oggetto: che diventa bersaglio dell’esperienza eccitata sostenuta dalla tensione istintuale
primitiva.
 Madre-ambiente: che riceve tutto quanto è definibile come affetto e come sentire condiviso.
Le due madri vanno gradualmente riunendosi, contemporaneamente all’emergere della capacità di
preoccuparsi. Il bambino è capace di sperimentare l’ambivalenza tra l’angoscia di perdere la madre-
oggetto e la fiducia di dare e riparare l’oggetto, assicurata dalla presenza attendibile della madre-
ambiente.

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Il senso di colpa, generato dall’angoscia, ma contenuto dalla fiducia di riparare la madre-ambiente, si
modifica ulteriormente, ed è allora che per indicarlo abbiamo bisogno di servirci del termine più positivo
preoccupazione. Dunque, il bambino, che all’inizio della sua esistenza era oggetto di cure materne, ora
può cominciare egli stesso a recepire e a rispondere ai bisogni della madre.
Si profila ora un’altra caratteristica dell’emergere della persona, legata all’acquisizione del senso di
permanenza dell’oggetto, in quanto capace di sopravvivere alla distruzione operata in fantasia dal
soggetto. Tutto ciò è fondamentale per il Sé infantile: l’esperienza della sopravvivenza della persona che è
stata “distrutta” significa che questa stessa persona può essere odiata e attaccata senza pericolo; il che
può portare anche a rafforzare l’amore e la fiducia nei suoi confronti. Solo grazie a queste esperienze il
bambino cresce e si separa dalla madre senza paura.
Per capire questo ulteriore momento di crescita Winnicott introduce un’altra importante distinzione:
 Relazione d’oggetto: l’entrare in rapporto può riguardare un oggetto-soggettivo. Tale relazione
rientra nell’area dell’esperienza soggettiva, proiettiva, in cui l’oggetto è sotto il controllo onnipotente
del bambino.
 Uso d’oggetto: implica che l’oggetto sia parte della realtà esterna. L’uso d’oggetto consente una sua
percezione reale, fuori dal controllo illusorio.
Gli oggetti si trovano nello stesso momento in via di essere distrutti (in fantasia) perché reali, e di diventare
reali perché distrutti. È comunque fondamentale che l’oggetto possa “sopravvivere”, ossia non difendersi
aggredendo di fronte a tali attacchi.
La funzione dell’aggressività e della distruttività del bambino, viene messa da Winnicott al servizio
positivo della costituzione dell’oggetto reale.

IL CONCETTO DI CATTIVA SALUTE E LA PATOLOGIA DEL SÉ


Secondo Winnicott, si ha cattiva salute psichica quando c’è un problema di immaturità, da lui espressa
sempre in termini di psicologia dell’Io.
Alla base del modo in cui l’autore individua la cattiva salute troviamo il concetto di falso Sé opposto a
quello di vero Sé. Il falso Sé si attiva nella situazione in cui il vero Sé si sente disturbato nei suoi ritmi di
crescita, mentre attua la scoperta spontanea dell’ambiente. A questo riguardo, la motilità gioca un ruolo
importante poiché può essere utilizzata a favore dello sviluppo dell’individuo, ma anche in favore della
necessitò di difendersi dall’invasione dell’ambiente.
Nella fase in cui l’ambiente dovrebbe essere quasi perfetto, i fallimenti delle cure materne si presentano in
due modi: vi può essere incapacità della madre di sostenere i bisogni e i desideri del bambino; oppure la
madre può interferire nella continuità dell’esistenza del bambino quando, in condizioni di quiescenza, è
ancora privo di forma e integrazione. In entrambi i casi, qualora i fallimenti fossero ripetuti ed eccessivi, il
vero Sé del bambino va incontro a una minaccia di annichilimento, poiché gli è impedita l’esperienza
ripetuta e strutturante di essere un individuo. Se questa situazione di pressione si prolunga, il bambino è
costretto a sottomettersi alle aspettative altrui, a scapito della presa di contatto con i suoi propri bisogni.
Avviene dunque una scissione tra un vero Sé, che rimane staccato e atrofizzato, e un falso Sé compiacente.
Il falso Sé è portato ad affinare le funzioni cognitive dell’Io, col risultato di un’eccessiva attività dei processi
secondari di pensiero e con un possibile grave scollegamento da qualsiasi base affettiva o somatica.
Inoltre, Winnicott più volte richiama la connessione tra le interferenze delle prime cure e l’origine delle
psicosi. Sarà il grado di libertà dalla rigidità delle difese a definire il disturbo psichico all’interno del vasto
spettro dalle nevrosi alle psicosi.
 Nell’area della sofferenza nevrotica le difficoltà emozionali insorgono nell’ambito delle relazioni
interpersonali, quando il bambino, persona intera tra persone intere, è soggetto a potenti esperienze
istintuali basate sull’amore tra persone.
 Nell’area della sofferenza psicotica le difficoltà emozionali si presentano agli stadi più precoci
dell’unità madre-bambino.
Sebbene nell’individuo sia innata la tendenza a integrarsi e maturare, lo sviluppo emozionale è
normalmente doloroso e contrassegnato da conflitti tali che sia il soma, sia la psiche possono soffrire.
Quando è il corpo a soffrire di situazioni di carenza o di conflitto, appare il disturbo psicosomatico come
sintomo capace di segnalare tale sofferenza. Al riguardo, Winnicott segnala la funzione positiva di tale
disturbo: è come se l’individuo umano, nel momento vulnerabile del suo processo di integrazione e

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insediamento della psiche nel corpo, cercasse, attraverso questo disturbo, di contrastare la fuga verso stati
di depersonalizzazione. Se il Sé è sospinto verso la depersonalizzazione, esso incorre nella minaccia più
diretta di un crollo psicotico.
Quando a soffrire è la psiche occorre stabilire il punto di origine dei disturbi dello sviluppo emozionale:
 I fenomeni di disintegrazione (per il fallimento della holding)
 I fenomeni di dissociazione dell’unità psico-somatica (per il fallimento della handling)
 I fenomeni di cattiva relazione con gli oggetti (per il fallimento della object presenting)
Questi fenomeni inducono l’individuo a proteggersi mediante un’organizzazione elaborata di difese. Sono
queste rigide difese che possono portare alla scissione tra vero Sé e falso Sé.

La salute mentale è il prodotto delle cure materne ininterrotte, che permettono la continuità dello sviluppo
emozionale e il senso di essere (Io sono) dell’individuo umano, così, nella tappa successiva, detta dello
“svezzamento” (tra i sei e i nove mesi) la salute mentale è ancora connessa al modo in cui avviene il
rapporto del soggetto con l’ambiente personale continuativo e col tempo.
Solo se questo rapporto è positivo il bambino può compiere il suo percorso normale verso quella che la
Klein definisce posizione depressiva, ridenominata da Winnicott come capacità di preoccuparsi.
Winnicott ne sostiene tutto il valore positivo: il bambino che ha sanamente realizzato la posizione
depressiva, può passare al problema del complesso edipico.
L’autore, a differenza della Klein, nello studio della depressione rivolge attenzione non tanto all’angoscia e
ai suoi contenuti, quanto alla struttura dell’Io e all’economia interna dell’individuo, poiché la causa
principale dell’umore depresso è una nuova esperienza della distruttività e delle idee distruttive che si
scoprono essere collegate all’amore.

È particolarmente interessante il modo in cui Winnicott individua valenza positive anche nelle tendenze
antisociali: egli ricerca e individua le loro determinanti eziologiche in una perdita di qualcosa che è stato
positivo nell’esperienza del bambino fino a una certa epoca, ma che poi è stato ritirato. La tendenza
antisociale si configura quindi come una manifestazione di una vera e propria deprivazione.
Nella pratica clinica occorre risalire alle radici più primitive di tale sofferenza, per osservare la presenza di
due aspetti rivelatori di una specifica carenza dell’ambiente:
 Ricerca dell’oggetto (il furto): la tendenza antisociale diventa sintomo di speranza, il bambino “allung
la mano e ruba un oggetto”. Il bambino non vuole andare alla ricerca di un oggetto da trovare, ma alla
ricerca della capacità di trovare stessa, per cui occorre che vi sia un oggetto che si faccia trovare.
 Distruzione (l’acting distruttivo): il bambino reclama in modo provocatorio e aggressivo quel grado di
stabilità ambientale che potrà sopportare la tensione proveniente dal comportamento umano che, per
la fiducia che esso ispira, dà all’individuo la libertà di muoversi e agire.

Se la salute mentale si fonda sull’emergenza del Sé integro e creativo col supporto di stati ambientali
“sufficientemente buoni”, la psicopatologia sottolinea quanto i fallimenti carenziali o traumatici
dell’ambiente possono frammentare, costringere, sedurre il processo evolutivo e l’espressione del Sé.
Ne segue, nell’ambito della cura analitica, un nuovo modo di considerare e trattare i fenomeni di
regressione: questa rappresenta un ritorno al punto in cui ha avuto inizio il fallimento delle cure
ambientali; l’individuo umano, con i suoi sintomi, va alla “ricerca” delle esperienze relazionali che gli sono
mancate.
Il modo in cui il Sé emergente “esita” e ha bisogno di sentirsi incoraggiato a evolvere, o il modo in cui il Sé
ferito va alla ricerca dell’oggetto di cui si sente deprivato, suggeriscono a Winnicott di rivisitare i concetti
classici di resistenza e di transfert, di teorizzare l’uso del controtransfert, di riconsiderare i tempi e l’uso
dell’interpretazione. Per Winnicott, l’analista e il setting analitico diventano “un certo tipo di ambiente”
entro cui si può giocare con il tempo, per creare uno spazio potenziale dove, sulle orme della primaria
relazione illusoria, sia resa possibile quella particolare attività di gioco nella quale il paziente “si perde”,
mentre in effetti “si ritrova”.

8. RELAZIONI OGGETTUALI, AFFETTI E NUOVO CONTESTO IN KERNBERG

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KERNBERG
Nel suo complessivo percorso teorico, Kernberg è riuscito a coniugare i suoi interessi clinici e la sua
esperienza psichiatrica con costante sforzo, volto alla costruzione di una teoria psicoanalitica dello
sviluppo dell’apparato mentale che fosse in grado di restituire e decifrare la ricchezza clinica e la varietà
patologica che egli andava osservando.

LA CLINICA
Kernberg sofferma la sua attenzione su un gruppo di pazienti che egli caratterizza sulla base di un
elemento comune, cioè la struttura patologica dell’Io; proprio la stabilità di tale struttura, spinge
Kernberg a formulare l’espressione organizzazione della personalità caso al limite.
In tale categoria rientrano pazienti la cui personalità è caratterizzata da tipiche costellazioni sintomatiche
(ad esempio sintomi ossessivi, angoscia cronica e diffusa, fobie multiple, tendenze sessuali perverse
polimorfe, ecc.) e da tipici meccanismi di difesa dell’Io. L’Io di tali pazienti è inoltre caratterizzato
dall’incapacità di controllare l’angoscia e gli impulsi e di elaborare soluzioni sublimatorie.
Kernberg rileva la presenza di un’intensità particolarmente forte delle pulsioni aggressive, la quale rende
particolarmente difficile superare i compiti evolutivi connessi all’integrazione delle interiorizzazioni.
La patologia borderline ha origine quindi da eccessive introiezioni negative, determinate o da intense
tendenze aggressive, o da gravi frustrazioni nella prima infanzia. L’incapacità di integrare interiorizzazioni
positive e negative costituisce un fattore determinante di tale patologia.

I pazienti con personalità narcisistica sono caratterizzati invece da un intenso riferimento al proprio Sé, da
un intenso bisogno di riconoscimento e dall’incapacità di dipendere da altre persone, da senso di
grandiosità e onnipotenza, assenza di empatia, sentimenti di insicurezza e inferiorità. Secondo Kernberg,
in questi pazienti ha luogo una svalutazione e una distruzione dell’oggetto sia interno che esterno.
L’autore, riprendendo Hartmann, sostiene che il narcisismo normale consiste nell’investimento libidico
del Sé, inteso come struttura intrapsichica composta di rappresentazioni del Sé e delle relative disposizioni
affettive, di rappresentazioni oggettuali e di immagini ideali del Sé e dell’oggetto.
La mancanza di integrazione del Sé provoca sentimenti di vuoto e irrealtà, insieme all’incapacità di
percepirsi realisticamente e di cogliere empaticamente la realtà degli altri. Narcisismo e relazioni
oggettuali procedono parallelamente, e le loro vicende sono regolate sia dall’investimento libidico che da
quello aggressivo: la regolazione del narcisismo normale avviene infatti sulla base del predominio
dell’investimento libidico su quello aggressivo. Kernberg sottolinea come, parallelamente all’aumento
dell’investimento libidico del Sé, aumenti anche la capacità di amare e di investire l’oggetto.
Il narcisismo patologico è l’esito di un investimento libidico di una struttura patologica del Sé.
Una forma di narcisismo più grave si realizza quando il Sé si identifica e si modella su un oggetto patogeno
interiorizzato con la contemporanea proiezione su oggetti esterni di aspetti importanti del Sé; in questi
casi il soggetto si identifica e ama un oggetto che rappresenta il suo Sé.
Esiste però una terza forma ancora più grave, caratterizzata da un deterioramento delle relazioni
oggettuali in cui si instaura un rapporto fra Sé e Sé, fra un Sé grandioso e patologico e la sua proiezione
sugli oggetti.
Dal tentativo di Kernberg di analizzare la psicodinamica delle personalità narcisistiche emerge con
chiarezza come il Sé sia strettamente correlato alle strutture normali e patologiche formatesi in seguito
all’interiorizzazione delle relazioni oggettuali.

LA TEORIA DELLO SVILUPPO PSICHICO


Nel 1966 Kernberg inizia a elaborare un modello nel quale correla le interiorizzazioni delle relazioni
oggettuali alle vicende dei derivati dei moti pulsionali e allo strutturarsi dell’Io.
Egli distingue tre livelli del processo di interiorizzazione. Sostiene che l’esito di tale processo coincide con
la struttura psichica corrispondente. Una prima organizzazione dei sistemi di identificazione avviene a uno
stadio dell’Io nel quale predomina il meccanismo della scissione; mentre lo stadio successivo vede
l’affermarsi di un meccanismo meno elementare, cioè la rimozione.
1. Quello dell’introiezione è il livello più primitivo: esso può assolvere non solo a funzioni di crescita, ma
anche a funzioni difensive per l’Io. L’introiezione è la riproduzione e fissazione di un’interazione con

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l’ambiente attraverso un complesso organizzato di tracce mnestiche, le quali implicano almeno tre
componenti: l’immagine di un oggetto, l’immagine del Sé in interazione con l’immagine dell’oggetto,
la coloritura affettiva sia dell’immagine del Sé sia dell’immagine dell’oggetto. Kernberg enfatizza
l’importanza della coloritura affettiva in quanto “valenza attiva” che permette la fusione delle
introiezioni con valenza positiva da un lato, e di quelle con valenza negativa dall’altro. Sulla base della
fusione di introiezioni con valenza positiva si vengono a costituire i primi nuclei dell’Io.
La primissima organizzazione difensiva dell’Io è costituita dagli oggetti interni buoni e dagli oggetti
esterni buoni, e contemporaneamente dall’espulsione delle introiezioni negative; in questo primo
stadio dell’Io non esiste una differenziazione netta tra gli oggetti esterni e le loro rappresentazioni
psichiche. Nello stadio di sviluppo successivo la scissione è meno potente; ciò consente il realizzarsi di
un processo di sintesi tra le introiezioni positive e quelle negative del Sé e dell’oggetto, e di
un’integrazione degli affetti.
2. L’identificazione (che si sviluppa a partire dalla fine del primo anno) rappresenta una forma superiore
di introiezione, è dotata di una componente affettiva più elaborata e ha luogo quando lo sviluppo delle
capacità percettive e cognitive del bambino gli consentono di riconoscere il ruolo delle persone con cui
entra in rapporto.
3. L’identità dell’Io costituisce il livello più evoluto dei processi di interiorizzazione; contrariamente a
introiezione e identificazione, essa è una struttura caratteristica dell’Io e non dell’apparato psichico in
generale. Questa comporta l’organizzazione delle identificazioni e introiezioni sotto la funzione
sintetica dell’Io. L’identità si forma a partire da identificazioni primitive che vengono selezionate,
scelte e sublimate, e di cui vengono interiorizzati gli aspetti egosintonici.

Nel delineare lo sviluppo normale delle relazioni oggettuali interiorizzate, Kernberg trae ispirazione dalle
ricerche di Margareth Mahler nell’ambito delle patologie psicotiche.
Il primo stadio, quello dell’autismo normale, precede il consolidamento della buona costellazione
oggetto-Sé, formatasi sotto l’influenza di esperienze piacevoli.
Il secondo stadio, della simbiosi normale, vede il consolidarsi della rappresentazione dell’oggetto-Sé:
accanto alla rappresentazione buona di tale oggetto, viene a crearsi quella cattiva, organizzata su affetti
penosi e separata dalla prima.
Con lo stadio successivo (che Kernberg situa tra i sei-otto mesi e i diciotto-trentasei e fa coincidere con lo
stadio della separazione-individuazione della Mahler) ha luogo la differenziazione della rappresentazione
del Sé da quella dell’oggetto e l’integrazione delle rappresentazioni buone e cattive del Sé e dell’oggetto.
La differenziazione tra il Sé e l’oggetto è caratterizzata dal riconoscimento della madre, permette sia lo
sviluppo di rappresentazioni libidiche più complesse sia la definizione dei confini dell’Io.
In questo stadio, la scissione separa le immagini del Sé e dell’oggetto buone da quelle cattive, ed è proprio
questa assenza di integrazione una delle caratteristiche pregnanti della patologia borderline.
Con il quarto stadio viene portata a compimento l’integrazione delle rappresentazioni del Sé e di quelle
dell’oggetto, e si assiste inoltre al consolidarsi delle strutture psichiche di Io, Super-Io ed Es.

AFFETTI, PULSIONI E RELAZIONI OGGETTUALI


L’importanza degli affetti, il ruolo delle relazioni oggettuali, il concetto di pulsione, costituiscono
interrogativi sui quali Kernberg inizia a riflettere sin dall’inizio degli anni Settanta.
Fin da subito è apparso evidente come egli si muovesse perseguendo l’obiettivo di coniugare il modello
pulsionale con quello delle relazioni oggettuali, modificando parzialmente entrambi, ma tentando
comunque di preservare la teoria pulsionale freudiana.
Egli formula un modello della strutturazione della mente in termini di teoria dei sistemi: le unità di relazioni
oggettuali interiorizzate sarebbero dei sottosistemi che costituiscono pulsioni e strutture psichiche, e
questi a loro volta sono i sistemi che formano la personalità.
Kernberg sottolinea il ruolo giocato dai modelli affettivi innati nella comunicazione tra madre e bambino.
In quanto sistema motivazionale, gli affetti contribuiscono alla fissazione, attraverso la memoria, di un
mondo interiorizzato di relazioni oggettuali.
Gli affetti di amore e odio correlati a tali relazioni oggettuali gradualmente si arricchiscono, fino a che non
acquistano la stabilità di strutture intrapsichiche dotate di continuità nel corso delle diverse fasi evolutive.

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Sarà proprio questa continuità, secondo Kernberg, a trasformare amore e odio in libido e aggressività.
Queste vengono organizzate attraverso le relazioni oggettuali interiorizzate. Attraverso la loro
condensazione nelle relazioni oggettuali interiorizzate può realizzarsi una strutturazione delle pulsioni.
Una volta strutturato il sistema motivazionale pulsionale, all’attivazione di una specifica pulsione
corrisponde l’attivazione di uno specifico stato affettivo che implica una relazione oggettuale
interiorizzata.

13. STERN: LA CENTRALITÀ DEL SÉ TRA SVILUPPO INFANTILE E LAVORO CLINICO

INTRODUZIONE
Il lavoro di Stern si colloca in un ambito fra ricerca sullo sviluppo infantile e psicoanalisi che, nell’ultimo
decennio, ha assunto un peso crescente nella disciplina che ha preso il nome di infant research.
All’inizio degli anni Settanta, Stern pubblica i suoi primi contributi sullo sviluppo infantile, che già
documentano l’affermarsi di un nuovo paradigma, sicuramente influenzato dagli interrogativi della
psicoanalisi, ma anche estremamente attento alle sofisticate tecniche di ricerca basate sulla
videoregistrazione e sulla microanalisi delle interazioni madre-bambino.
In questi stessi anni, negli Stati Uniti, si affermava sempre di più la figura di Margareth Mahler, che cercava
di fondare, sul piano empirico, un parallelismo fra sviluppo infantile ed evoluzione psicopatologica.
Gli studi osservativi di Stern si muovevano in una direzione diversa. Egli adottava una cornice sistemica per
studiare il bambino, non più come individuo isolato, ma nelle sue continue interazioni con la madre e le
altre figure di attaccamento.
L’impatto nel mondo psicoanalitico è grande. Gli psicoanalisti più tradizionali sono diffidenti per le
posizioni di Stern che vanno in una linea diversa rispetto a quelle canoniche. Tuttavia, il contributo di Stern
si è rivelato sempre più decisivo per formulare nuovi interrogativi sia nel campo della ricerca che nella
clinica.

UN NUOVO PARADIGMA TEORICO PER LO STUDIO DELLO SVILUPPO INFANTILE


La ricerca sperimentale sulle prime fasi dello sviluppo infantile ha ricevuto, negli ultimi vent’anni, un
impulso straordinario dall’utilizzo di sofisticate tecniche sperimentali.
I dati elaborati dalla ricerca osservativa sembrano proporre un modello dello sviluppo infantile
radicalmente diverso da quello ipotizzato dalle teorie psicoanalitiche classiche, dal quale emerge che non
solo il neonato possiede molte competenze precoci che lo rendono in grado di interagire attivamente con il
mondo reale, ma che tali competenze fanno parte di un patrimonio biologico che favorisce fin dall’inizio
l’instaurarsi di relazioni sociali complesse con gli altri esseri umani.
Il contributo di Stern a questo nuovo paradigma è senza dubbio di grande importanza, poiché la sua
teorizzazione si pone come un tentativo di integrare i dati emersi dagli studi osservativi e sperimentali
della psicologia evolutiva e quelli provenienti dall’ambito terapeutico della ricerca psicoanalitica.
La ricerca sulla prima infanzia ha consentito anzitutto di ampliare notevolmente le prospettive teoriche sui
sistemi motivazionali di base, ponendoli al di là delle sole pulsioni libidiche e aggressive proposte da
Freud. La coesistenza di diversi sistemi motivazionali, sembrano descrivere un bambino il cui
comportamento non è più sospinto dalle sole pulsioni, e la cui esperienza non è racchiusa in un’orbita
narcisistica. Al contrario, il bambino è fin dalla nascita predisposto biologicamente a interagire
attivamente col mondo. Lo stato di inattività vigile, caratterizzato da quiete fisica e vigilanza, che
costituisce il momento preferenziale per l’apprendimento, è diventato per i ricercatori una finestra da cui
osservare il mondo del bambino.
Le nuove conoscenze sullo sviluppo infantile nei primi tre anni di vita hanno modificato radicalmente alcuni
dei più importanti postulati delle teorie psicoanalitiche.
Stern contesta il modello di fissazione-regressione che considera lo sviluppo infantile come una
successione di stadi che rappresentano punti cruciali, la cui mancata risoluzione porterebbe a specifiche
entità cliniche. Conseguente a tale visione è la considerazione che determinate entità cliniche
appartengano a precisi momenti dello sviluppo, all’interno dei quali devono essere risolti i compiti evolutivi

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specifici di quella fase. Secondo Stern, questi aspetti clinici non sono specifici di una fase, ma rimangono
presenti per tutta la vita dell’individuo.
L’ottica con cui Stern affronta il problema dello sviluppo si colloca in un nuovo paradigma teorico, quello
del modello di costruzione continua dello sviluppo e della psicopatologia.
Il bambino viene ora considerato come parte di un sistema interazionale, il quale viene osservato nel suo
sviluppo nel tempo.
L’esperienza soggettiva durante tutto lo sviluppo è organizzata dai sensi del Sé, la cui continua presenza e
crescita non presuppone più il concetto di fissazione-regressione.

IL BAMBINO COME PARTE DI UN SISTEMA INTERAZIONALE


Fin dai primi anni Settanta, l’interesse di Stern è focalizzato sui primi comportamenti sociali che si
verificano all’interno della relazione precoce tra madre e bambino. Egli è interessato a capire in modo
specifico i primi processi interattivi di natura sociale che coinvolgono la diade e che costituiranno per il
bambino il prototipo per i successivi scambi interpersonali.
Una nuova modalità di osservare le interazioni tra madre e bambino, attraverso videoregistrazioni in un
setting naturale, permette a Stern di rivolgere l’attenzione a quei momenti della relazione la cui natura è
preminentemente sociale, cioè ai momenti ludici. Secondo Stern, proprio questi momenti costituiscono
un insieme di esperienze particolarmente rilevanti per lo sviluppo dei comportamenti sociali infantili e per
l’apprendimento.
Fin dai primi mesi di vita, il bambino possiede un repertorio di comportamenti e abilità percettive che lo
predispongono all’interazione sociale con altri esseri umani. Anche la madre attinge al suo personale
repertorio di comportamenti comunicativi per entrare in relazione con il bambino, in un modo
esattamente complementare a quelle che sono le capacità recettive di quest’ultimo. L’interazione che
viene a stabilirsi non è solo frutto dell’adattamento materno: entrambi i partner della coppia vi
contribuiscono, creando insieme una danza interattiva, fatta di ritmi e caratteristiche specifiche di quella
diade.
Stern mette in luce alcune abilità che favoriscono lo stabilirsi del rapporto umano. Tra queste in primo
piano vi è lo sguardo: i neonati possiedono fin dalla nascita un apparato visivo-motorio relativamente
maturo. Dopo un paio di settimane, questo consente al bambino di fissare a lungo la madre negli occhi e,
verso la fine del terzo mese, ha raggiunto uno sviluppo molto simile a quello dell’adulto.
In questi primi mesi, anche i movimenti della testa, di solito coordinati agli spostamenti dello sguardo, le
espressioni facciali, il sorriso, fanno parte del repertorio che il bambino ha a disposizione per regolare
l’interazione.
La madre, a sua volta, è portata a usare l’espressività comunicativa del suo volto, il linguaggio e le
vocalizzazioni in un modo del tutto peculiare: sembrerebbe che utilizzi a sua volta, nei primi mesi, una serie
di comportamenti sociali che sono indotti proprio dal bambino e che favoriscono lo stabilirsi
dell’interazione.

LO SVILUPPO DEL SÉ
Dopo aver a lungo studiato lo sviluppo delle interazioni e delle relazioni sociali precoci dalla parte di un
osservatore esterno, Stern opera un cambiamento profondo nella sua prospettiva fino ad arrivare a
proporre una teoria dello sviluppo interessata a esplorare la dimensione soggettiva dell’esperienza
infantile.
La prospettiva interazionale dello sviluppo implica per Stern che vi sia non solo una progressione dei
diversi sensi del Sé, ma contemporaneamente una progressione di nuovi “campi di relazione”.

LA PERCEZIONE AMODALE
Fin dall’inizio della vita, i neonati rivelano preferenze innate per alcuni tipi di stimolazioni sensoriali e
percettive. Essi sono, inoltre, in grado di trasferire l’esperienza percettiva da una modalità sensoriale
all’altra. Questa capacità innata, che Stern chiama percezione amodale, consentirebbe al bambino di
sperimentare il mondo come un’unità percettuale, in cui le qualità globali dell’esperienza – le forme,

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l’intensità, gli schemi temporali – vengono percepite in modo astratto, trascendendo la modalità
sensoriale in cui vengono recepite e costituendosi come rappresentazioni amodali.
Queste capacità innate permettono al bambino di costruire una rappresentazione dell’esperienza
soggettiva precoce più unitaria e globale di quanto non si ritenesse finora possibile.
Secondo Stern, nei primi due mesi di vita è proprio l’esperienza di un processo di organizzazione
emergente di questo tipo che costituisce quello che l’autore chiama il senso del Sé emergente.
Tuttavia, queste iniziali integrazioni non sono ancora unificate in un’unica esperienza soggettiva
organizzante fino al momento in cui si va formando il senso del Sé nucleare. Questo nuovo senso del Sé,
che opera ancora al di fuori della consapevolezza, si basa sulle nuove capacità del bambino di percepirsi
come un’entità fisica unitaria dotata di coesione, volontà e continuità e con una vita affettiva propria.
Dopo i due-tre mesi il bambino è anche in grado di percepire una coesione fondamentale del Sé attraverso
una serie di esperienze particolarmente importanti, come la percezione che tutti gli stimoli che emanano
dal Sé hanno una struttura temporale e di intensità comune tra loro e diversa dagli stimoli che provengono
dall’altro.
Anche l’esperienza affettiva assume via via caratteristiche di costanza attraverso il riconoscimento di
costellazioni di eventi che si verificano ogni qualvolta il bambino sperimenta una particolare emozione. Ciò
che progressivamente integra i diversi caratteri di un’esperienza vissuta e fornisce continuità al senso del
Sé nucleare è la memoria.

IL MONDO RAPPRESENTAZIONALE DEL BAMBINO


Ogni esperienza di interazione che il bambino sperimenta contiene diversi attributi fondamentali, come
percezioni, sensazioni, affetti, scopi, che vengono immagazzinati in memoria come un’unità indivisibile
definita episodio.
L’episodio è, secondo Stern, l’unità mnestica fondamentale che raccoglie insieme tutti gli attributi
significativi di un’esperienza interattiva, che verranno poi astratti e rappresentati in un episodio
generalizzato. L’aspetto più rilevante di queste rappresentazioni è che esse riguardano esperienze di
regolazione del Sé. Le esperienze di essere con un “altro regolatore del Sé” sono tra gli eventi più
importanti per la costruzione del mondo rappresentazionale del bambino. Tali episodi, dopo essere stati
immagazzinati come episodi specifici, vengono in seguito (con il loro ripetersi) astratti e rappresentati
sotto forma di RIG, cioè Rappresentazioni di Interazioni che sono state Generalizzate: queste
costituiscono delle strutture flessibili che rappresentano la media di diversi episodi reali e formano un
prototipo che li rappresenta tutti. Le RIG sono, dunque, memorie prototipiche che rappresentano la sintesi
della storia passata di un tipo particolare di interazione con un altro e, in quanto tali, creano aspettative
che potranno essere di volta in volta modificate dai successivi episodi specifici dello stesso tipo di
interazione.
L’interesse di Stern per le rappresentazioni mentali riguarda prevalentemente le esperienze relazionali del
bambino e l’esperienza soggettiva di tali relazioni. Secondo l’autore, la natura delle relazioni oggettuali o
dei modelli di relazione è in gran parte il risultato delle interazioni reali con la figura materna, e delle
rappresentazioni mentali che vengono costruite a partire da queste interazioni.
Il modello proposto da Stern prevede che la costruzione di una rappresentazione segua passaggi precisi a
partire dai singoli eventi vissuti nell’interazione: uno specifico momento interattivo vissuto, detto
momento V, viene codificato in memoria come una traccia mnestica, cioè come ricordo di un episodio
specifico, detto momento M. Successivamente, si verifica la formazione del momento R, che costituisce la
rappresentazione di diversi e organizzati ricordi di episodi specifici simili.
Secondo Stern, pur essendoci attributi che in alcuni particolari tipi di interazioni e in certi periodi dello
sviluppo possono risultare più importanti, nel loro complesso essi sono sempre tutti presenti in un
momento vissuto e nessuno di essi viene privilegiato.
Quando invece ci riferiamo a sequenze più lunghe di momenti interattivi posti in una sequenza invariante,
parliamo di scenari. Questi possono essere avvicinati concettualmente agli script, poiché secondo Stern
seguono lo stesso tipo di codificazione in memoria dei momenti vissuti, portando con loro il ripetersi alla
rappresentazione di diversi scenari (R). Il passaggio successivo è la costruzione dei Modello Operativi
Interni: questi sono una sorta di riorganizzazione di diversi momenti R e scenari R che fanno parte di una
stessa categoria di contenuto.

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Nella sua più recente teorizzazione del mondo rappresentazionale infantile, Stern presuppone l’esistenza
di una rete complessa di schemi, che chiama “schemi di essere con” un altro e che possiede codici
multipli, ognuno dei quali codifica l’esperienza soggettiva vissuta durante un’interazione sociale secondo
una particolare struttura, attraverso l’identificazione degli elementi invarianti e la costruzione di prototipi.
Secondo Stern, lo “schema di essere con” è sovrapponibile al concetto di RIG, ma ha la caratteristica,
rispetto a quest’ultimo, di essere concettualizzato dal punto di vista soggettivo del bambino.
Tra il settimo e il nono mese di età del bambino, avvengono ulteriori e importanti cambiamenti
maturazionali che consentono al bambino di sperimentare un nuovo senso del Sé, il senso del Sé
soggettivo: questo viene costruito a partire dalle nuove capacità del bambino di condividere l’attenzione,
le intenzioni e gli stati affettivi con un altro, capacità che lo rendono in grado di formarsi una teoria delle
menti separate. A circa nove mesi, il bambino comincia a puntare il dito e a seguire con lo sguardo la
direzione indicata dal dito della mamma, cosa che non aveva mai fatto prima.
Possiamo interpretare questo comportamento come un tentativo del bambino di verificare la
compartecipazione dell’attenzione con l’altro su un oggetto esterno, e ciò dimostra che è avvenuto un
decentramento, dal momento che il bambino è in grado ora di immaginare che l’oggetto della sua
attenzione può coincidere o meno con quello dell’attenzione dell’altro. Allo stesso modo, può essere
osservato l’inizio dell’inter-intenzionalità, quando il bambino mette in atto dei gesti o delle vocalizzazioni
che possono essere ritenute forme di comunicazione intenzionale, in cui è evidente che egli attribuisce a
un altro la comprensione della sua intenzione. Infine, il bambino è ora in grado di utilizzare l’espressione
emotiva dell’altro come guida per regolare il proprio stato interno o il proprio comportamento.
Dunque, questo momento dello sviluppo è per Stern il momento in cui inizia l’intersoggettività.

LA SINTONIZZAZIONE DEGLI AFFETTI


Dopo i nove mesi si verifica un cambiamento importante nei comportamenti reciproci di madre e
bambino, che non era presente nelle interazioni precedenti. Assistiamo all’emergere di un nuovo
fenomeno: il bambino colpisce un giocattolo morbido con la mano, prima con rabbia, poi
progressivamente con piacere ed allegria. Mette a punto un ritmo costante. La madre si accorda a tale
ritmo e dice “hop-bum” emettendo “bum” quando il bambino colpisce e “hop” nel momento in cui tiene il
braccio in alto.
La madre introduce una corrispondenza con il comportamento del bambino che trascende il
comportamento stesso, e ne sottolineano invece gli aspetti che si riferiscono al sentimento sottostante
condiviso. Il comportamento della madre ha una corrispondenza che ricorda un’imitazione, ma la modalità
espressiva che viene messa in gioco non è la stessa che ha usato il bambino. La corrispondenza avviene
dunque per mezzo delle proprietà amodali che consentono di astrarre le qualità fondamentali della
percezione e di tradurle in qualsiasi altra modalità sensoriale.
L’aspetto più importante di questo tipo di comportamento tra madre e bambino è che esso si riferisce alla
qualità dello stato d’animo condiviso e non al comportamento che lo esprime. La madre, quindi, effettua
una corrispondenza con gli aspetti del comportamento del bambino che ne indicano il sentimento
sottostante.
Le capacità che entrano in gioco nel periodo in cui si sviluppa il senso del Sé soggettivo creano le
premesse per accedere, dopo gli undici-diciotto mesi, a una nuova prospettiva soggettiva organizzante
del Sé e dell’altro, il senso del Sé verbale. Il bambino affronta un nuovo passo: quello di creare, attraverso
il linguaggio, de significati condivisi.
Questa nuova prospettiva organizzante introduce il bambino in una dimensione del tutto diversa dalle
precedenti, non solo perché gli consente di utilizzare un sistema simbolico per entrare in relazione con
l’altro. Questa nuova dimensione crea in realtà una scissione definitiva anche nell’esperienza stessa che il
bambino fa del mondo: viene a crearsi una discrepanza tra la modalità di sperimentare soggettivamente il
mondo al livello del Sé nucleare e soggettivo, che è una modalità prevalentemente amodale, e quella
introdotta dal linguaggio che seleziona una o alcune delle qualità percettive dell’esperienza per renderla
verbalizzabile. Questo significa, secondo Stern, che vi saranno esperienze che rimarranno per sempre
segrete e non comunicabili se non in alcune forme di espressione artistica.
L’ultimo passaggio che il bambino compie durante il suo sviluppo è quello della formazione del senso del
Sé narrativo, dopo il terzo-quarto anno di vita. Il bambino diventa in grado di utilizzare il linguaggio non

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solo per nominare oggetti o comunicare con gli altri sul mondo che lo circonda, ma arriva a produrre una
narrazione della propria storia.
Nella sua più recente teorizzazione, Stern ipotizza che l’esperienza soggettiva precoce del bambino venga
progressivamente astratta in schemi o involucri protonarrativi, in cui sarebbero presenti tutti gli elementi
fondamentali di una struttura narrativa, come l’agente, l’azione, la strumentalità, lo scopo e il contesto.

TEORIA DEL FUNZIONAMENTO PSICHICO NORMALE E PATOLOGICO


L’attenzione particolare che Stern pone al contesto delle prime interazioni tra madre e bambino fa parte di
una prospettiva che evidenzia la natura essenzialmente relazionale dello sviluppo. Il processo maturativo si
caratterizza come risoluzione di una serie successiva di compiti adattativi negoziati all’interno della diade,
e come conquista di coordinazioni nuove e specifiche rese necessarie dalle sempre maggiori capacità che il
bambino acquisisce con la maturazione.
L’attenzione alle interazioni reali allontana il modello di Stern dalle concezioni tradizionali della
psicoanalisi che hanno sempre attribuito un ruolo fondamentale alla fantasia nello sviluppo delle relazioni
oggettuali, e di conseguenza modifica completamente anche le considerazioni relative all’emergere della
psicopatologia.
Stern è interessato inizialmente a comprendere proprio gli scacchi interazionali che possono verificarsi
nelle danze interattive tra madre e bambino. L’aspetto fondante la sua prospettiva è quello di non
privilegiare uno dei due partner dell’interazione, proprio perché l’interesse è rivolto alla diade.
I difetti della regolazione possono avere inizio da uno dei due partner, ma ciò che conta è la capacità della
coppia di ristabilire quella particolare danza che consenta al bambino di raggiungere e mantenere un livello
di stimolazione appropriato. Tuttavia, possono essere presenti caratteristiche materne, quali la
depressione, l’inibizione, le eccessive preoccupazioni personali, ecc. che rendono difficile questa
regolazione e portano a eccessi o difetti continui e prolungati della stimolazione; oppure possono essere le
caratteristiche del bambino a contribuire in maniera determinante al tipo di interazione che si stabilirà
nella coppia. Non è solo la madre, infatti, ad avere capacità di adattamento al bambino; anche il bambino,
a sua volta, è in grado di regolare il livello di stimolazione fornito dalla madre attraverso potenti segnali
comunicativi. È infatti soprattutto quando la madre non è in grado di cogliere questi segnali, o quando i
segnali del bambino costituiscono per lei un segno di rifiuto, che il bambino viene privato dei suoi naturali
meccanismi di autoregolazione e di regolazione dell’interazione. Questi comportamenti interferenti
possono portare a disadattamenti della regolazione reciproca che costituiranno la base per una successiva
patologia.
Il modello della psicopatologia proposto da Stern individua dunque i momenti di formazione dei nuovi
sensi del Sé come periodi sensibili, in cui esperienze relazionali disturbate potranno incidere in maniera
particolare sullo sviluppo della personalità; parallelamente però i diversi sensi del Sé continuano a operare
in modo simultaneo per tutta la vita dell’individuo e l’origine della psicopatologia è collocabile,
teoricamente, in qualunque momento dello sviluppo. A questo proposito, Stern propone di considerare
l’importanza dell’origine “narrativa” della patologia, ossia la metafora ricostruttiva che possiede maggiore
potere esplicativo ed euristico per il paziente e a partire dalla quale, paziente e terapeuta, potranno
ripercorrere la storia evolutiva, piuttosto che rintracciare l’origine reale in cui un preciso evento patogeno
ha esercitato la sua influenza.

IMPLICAZIONE PER IL TRATTAMENTO


La concezione psicopatologica formulata da Stern comporta diverse implicazioni per il trattamento.
Innanzitutto, viene sottolineata l’importanza di ricorrere ad un approccio flessibile che si adatti in maniera
specifica alle caratteristiche della patologia. Uno specifico senso del Sé e campo di relazione può risultare
maggiormente colpito, e sarò dunque necessario individuare la strategia terapeutica più efficace.
L’interesse terapeutico di Stern è comunque rivolto principalmente alla terapia della coppia madre-
bambino, secondo un’ottica sistemica che considera la madre e il bambino come elementi di un unico
sistema di interazione. L’intervento terapeutico, in quest’ottica, viene ritenuto efficace anche se opera a un
solo livello e su un solo membro della coppia, poiché il cambiamento di una parte avrà ripercussioni
sull’intero sistema.

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