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LANCIANO CITTÀ LIBERA ?

LAVORI IN CORSO FINO AL 2016

Graziano D’Angelo e Giovanni Dursi

Comincia, il mattino, col predire a te stesso: «Mi imbatterò


in un curioso, in un ingrato, in un invidioso, in un misantropo».
Questi difetti sono originati in loro dall’ignoranza del bene e
del male, ma io, che ho indagato la natura del bene, sono convinto
che è bella, mentre quella del male è turpe.
Marco Aurelio, Ricordi

Affermo di essere un seguace della verità fin dall’infanzia.


Fu la cosa più naturale, per me.
La mia fervente ricerca mi porto alla massima rivelatrice
“La Verità è Dio”, invece della solita “Dio è la Verità”.
Quella massima mi consente di guardare Dio in faccia, per così dire.
Me ne sento pervaso in ogni fibra del mio essere.
Mohandas Karmchand Gandhi detto Mahatma

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1. Antefatto: La città e le sue origini leggendarie
Sulle ali di una leggendaria origine risalente all’epoca pre-italica, Anxanum o Anxanon
è il luogo geografico sul quale si è condensato il voto di un’amicizia fraterna spezzata dalla
sorte avversa che Solima, inseparabile e fedele compagno di Enea, volle compiere per onorare
la memoria di Anxa, suo grande amico, compagno di mille sventure, perito prematuramente
durante il lungo e periglioso viaggio verso i lidi del Mare Nostrum. A Solima, dunque, si deve
la fondazione di Lanciano: insolita genesi per una città italica, che normalmente sorgevano
all’epilogo del Ver sacrum, Primavera Sacra, la storica migrazione divinatoria praticata dai
ceppi sannitici i quali, per alleviare o contenere il peso delle necessità materiali e far si che
la comunità non crescesse a dismisura, obbligavano le giovani generazioni ad emigrare verso
l’ignoto fino a quando un indizio divino o un segno del fato, (rivelato dall’animale sacro che
precedeva il loro peregrinare), designava irrevocabilmente il luogo prescelto dove fondare una
nuova città e una nuova comunità. Per Lanciano, la leggenda di Solima, così profondamente
intrisa di tormento esistenziale, di coinvolgente rimpianto, già preconizzava un destino protetto
dal favore e dalla benevolenza degli dei dell’Olimpo perché loro stessi furono testimoni di quel
mirabile atto di amore compiuto da Solima, che non avrebbero mai impedito né profanato.
Nel nome della profonda amicizia che nutriva per Anxa, Solima ha sparso sulla terra di
Anxanum uno zampillo di sentimenti positivi, un raggio di energia vitale, un getto di luce
sfavillante, sgorgati dal suo cuore, desiderando ardentemente che potessero durare in eterno e
trapassare a futura memoria. Così facendo, egli ha scosso l’imperturbabilità della trascendenza,
disseminando nei solchi del suolo anxanense, che gli uomini hanno coltivato con il sudore della
fronte e custodito nelle pieghe della storia, l’aura sacrale di un privilegio imperituro. Lanciano
è nata attorno a quel voto di affetto, spontaneo e sincero. Si è ritagliata un suo ruolo di comunità
autentica, si è data uno spirito e una coscienza civica, si è distinta per sapere e coraggio, virtù e
generosità. E il tempo l’ha resa eterna come negli auspici pronunciati da Solima.
Lanciano ha vissuto e condiviso la gloria di Roma, ha accolto le sue legioni e dato asilo a
centurioni e legionari menomati dalle ferite di cruente battaglie i quali, nelle plaghe frentane,
giungevano per ritemprarsi e recuperare le forze; ha dato asilo a schiere di deportati e accolto una
cospicua comunità ebraica. Lanciano ha respirato il profumo della civiltà in tempi remotissimi,
ha eretto altari e templi pagani fino ad abbracciare l’alba del Cristianesimo quando è stata
capace di innalzare una mirabile e sontuosa basilica (dedicata a Maria Santissima del Ponte) sul
ponte che congiungeva i due estremi di una valle, intitolato all’imperatore dalmata Gaio Aurelio
Valerio Diocleziano, prerogativa unica e caratterizzante che sembra imposta e condivisa da una
volontà ultraterrena. Come del resto il successivo straordinario evento del Miracolo Eucaristico,
tramandato dalla tradizione cristiana, che costituisce un’altra tappa aulica della millenaria storia
di Lanciano. A margine del Miracolo Eucaristico, storicamente collocato nel ventennio tra il
730 e il 750 d.C. annotiamo: Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito
dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della
consacrazione sul pane e sul vino, all’improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi
in Carne, il vino in Sangue. Luogo prescelto, dunque, mistico e al tempo stesso fatale, dove
si è manifestato perfino l’afflato divino, cospargendo a macchia d’olio nel resto del mondo
una celebrità che neanche la singolare nomea di frija Criste, acquisita sul finire del XIII sec. è
riuscita a infrangere. Dalla leggenda alla storia Anxanum è stata la città dove l’arte della stampa
ha raggiunto un apice ineguagliato per i tipi della Casa editrice Carabba, fondata nel XIX sec.
da un intraprendente lancianese, di cui restano malinconiche vestigia prospicienti Largo Santa
Chiara; è stata la città delle fiere medievali, che “duravano un anno e tre dì”, dove annualmente
giungevano per le loro compravendite, mercanti provenienti dalle due sponde dell’Adriatico e

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oltre, delle quali restano soltanto tracce nella storiografia; è stata sede consolare della storica
repubblica di Ragusa (l’attuale Dubrovnik), notizia attestata da rigorosi ricercatori di storia
patria tra i quali citiamo volentieri Corrado Marciani; è stata capitale dell’antica Frentania;
è stata la città della gloriosa Ferrovia Sangritana di cui è imminente il centenario (1912), la
cui storica rete è pressoché svanita in gran parte, abbandonata ad un destino di decadimento
e degrado irreversibili, mentre doveva essere tutelata e inclusa gelosamente nel patrimonio
antropico del nostro territorio; è stata la città abruzzese dove in epoca recente è nato un vivace
e antesignano polo fieristico; è stata una città di cultura e di sapere eccelsi che ha dato i natali a
personaggi di rilievo nazionale: citiamo Eraldo Miscia, scrittore finalista del prestigioso Premio
Strega, Corrado Marciani, storico e ricercatore insigne, Vittorio Martelli, pittore e scultore di
suprema sensibilità; è stata la città della “notte bianca” per antonomasia, evento popolare che
si ripete ininterrottamente dal lontano 1833, durante il Settembre Lancianese; è stata la città
dei Martiri ottobrini, giovani lancianesi che hanno osato sfidare la mostruosa efficienza e la
brutale crudeltà della macchina da guerra più potente e distruttiva mai costruita dall’Uomo
sulla terra: la Wermacht, gesto consacrato con una medaglia d’oro al valor militare, appuntata
sul gonfalone municipale il 25 settembre 1952, dall’allora presidente della Repubblica, Luigi
Einaudi. Lanciano è stata tante altre cose ancora, ora distinte ora simultanee nel tempo, il cui
significato e importanza sono stati di volta in volta sanciti da un forte senso di civiltà e da uno
straordinario slancio proprio di una comunità coesa e legata alle proprie origini.
Per amore di Anxa, Solima scrutò il cielo e la terra e il suo sguardo accarezzò i colli declinanti
dove Lanciano è sorta; contemplò la vastità del mare, che insieme al compagno perito aveva
solcato; ripensò alle sventure del viaggio condivise con l’amico, che avevano temprato l’animo
e il corpo; respirò profondamente l’aria salmastra delle plaghe marine frammista al profumo
di frutti gentili e di odorosi boccioli. Infine, s’inchinò alla maestosa e imperante mole della
Maiella madre, tutta infusa dei colori del cielo e dell’abbagliante chiarore della neve. Pensò
che quel luogo era degno di custodire la memoria di Anxa e invocata la benevolenza degli dei,
cavò dalla terra le prime pietra per erigere un’ara votiva in ricordo dell’amico defunto.
La leggenda di Solima è il punto di partenza immaginario di un cammino che è diventato
storia e che direttamente o di riflesso, ha coinvolto tutto il territorio e le comunità sorte nei
secoli seguenti nel suburbio lancianese. Ma il dovere di tenere alto il valore simbolico di quel
gesto, sovente si è infranto nell’oblio e nella incapacità di coglierne appieno il significato
e l’importanza. Lanciano ha vissuto la sua storia, forse senza essere consapevole di questa
leggendaria prerogativa, di questo suo essere luogo prediletto dagli uomini, che sul suo suolo
hanno voluto infiggere il dovere della memoria; e dalla natura, che ha dispensato a piene mani
bellezza, ricchezza e fecondità.
2. Generazione
Lanciano che io iniziai a conoscere, mi accolse alla fine degli anni cinquanta. Quando
nacqui, la montagna, lì all’orizzonte, era fiorita ed innevata, insieme. La Majella, mio Fujiyama.
«Da quando il cielo fu separato dalla Terra, orgoglioso, nobile, divino, troneggia il Monte Fuji
...», cantava un poeta nipponico dell’ottavo secolo. Il tiepido freddo dell’autunno, riscaldava i
miei primi respiri. Una radio a transistor, trasmetteva ritmi ottimisti e calde sonorità di trombe;
mia madre mi ha raccontato dei suoi sorrisi, simultanei al pianto, in quella giornata ottobrina
che la vide domesticamente partorire per la seconda volta. Mio padre giunse trafelato, stretto
nella sua divisa grigio-verde delle Fiamme gialle, a cose fatte; emozionato mi fissò con i
suoi occhi buoni pensando già al mio futuro; si intrattenne silenziosamente estasiato insieme
alla primogenita, ai bordi del letto, stringendole forte la mano. Mia sorella era lì incuriosita,
bimba dalle mille risorse con la quale ho consolidato nel tempo una peculiare consuetudine:

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accentuate diversità di comportamento e di mentalità, a dimostrazione che i legami di sangue,
le relazioni parentali non sono tutto nella vita di una persona che cerca la “propria coerenza”.
La dimensione familistico-tribale, tipica di un certo stile di vita lancianese mai ci appartenne.
Il nostro orizzonte non ha coinciso con quello degli originari gruppi sociali d’appartenenza,
piuttosto angusti, in verità. Tuttavia, la polifonia nelle personalità, più che nel carattere, ci
ha accompagnato in ogni circostanza della crescita e realizzazioni personali, in ogni scelta;
intimamente unendoci, a volte distanziandoci. Una delle prime decisioni alternative, fu quella
mia di partire, all’alba della “maturità”, immediatamente dopo i cinque anni nell’Istituto “Galileo
Galilei”, ubicato, nel biennio liceale terminale, in una sorta di capannone in zona Mancino.
Un’antica poesia giapponese del VII secolo comincia così: «Fra le terre di Kai e quelle di Soruga
lambita dalle onde sta la vetta del Fuji. Gli alti cirri osano appena avvicinarsi, e mai volano fin
lassù gli uccelli ... vano è cercar parole, non vi è un nome degno di lui. Che sia un misterioso
kami ?». I miei orizzonti, circoscritti da una protettiva Majella e percepiti inizialmente dalle
finestrelle dell’ultimo piano del palazzo di Corso Trento e Trieste, prestigiosa sede del Banco
di Roma, hanno poi abbracciato l’Adriatico d’annunziano del “Trionfo della morte” odoroso
di pesce quando spira il vento. Non tanto la spiaggetta di S. Vito marina mi attivava, piuttosto
l’ampia, all’epoca, ancora selvaggia distesa di bianchi sassi e floridi canneti del lungomare
di Fossacesia, riconfermata sede dei miei amori più gioiosi, e l’ostico Block Haus, buono per
inerpicarsi fino a 2100 metri. Un paesaggio e clima colmi di stimoli sensoriali che risentono
della vicinanza tra ambienti salmastri, boschi e massicci montuosi con genti intorno indolenti e
forti, bruciate dal sole e meditabondi. Dai circa “tremila”, ai margini di queste fasce più elevate
si estende una serie di altopiani e di colline dai crinali degradanti su caratteristiche conche
vallive. Un ambiente naturale assai vario e pittoresco che offre l’intera gamma delle possibilità
di vita genuina e dura, dai ritmi eterni e cangianti allo stesso modo. Dalle vette più elevate del
massiccio che distano dal mare circa 45 Km, il litorale adriatico può essere raggiunto in un’ora
di viaggio. Ecco, per me, Lanciano ha sempre rappresentato un paesaggio naturale e sociale
vasto, mai immoto “struscio” in Corso Trento e Trieste o lungo i Viali adiacenti l’arcaica
stazione della Ferrovia elettrica sengritana, come allora era denominata(). Lanciano è per
me come un continuum paesaggistico ed antropologico che, scendendo dai monti, mentre nel
tragitto fischiano le orecchie per lo stabilizzarsi della pressione e ci si accorge delle meraviglie
contadine della Valle del Sangro, entra nell’intimo e forma un modo d’essere refrattario alla
staticità, alla reiterazione di comportamenti insulsamente confermativi dello status quo. Il
paesaggio frentano credo sia fulcro autentico e vitale della città capoluogo. La sensazione che
sia stata dolosamente smarrita tale armonia tra il “costruito”, l’antropizzato, le prassi sociali, la
creatività dei “lavori” e la dimensione geologica, vegetale e faunistica, agricola-produttiva ha
contribuito a far si che abbia deciso, diciottenne, di partire. Alla ricerca di aria pura. Allo stesso
modo, dalle vie di fuga marinare al freddo isolamento montano, l’altalena della mia fuoriuscita
dall’adolescenza è stata andare altrove e tornare al richiamo delle radici mai del tutto recise.
Come fece mio nonno materno, “la quercia”, manovale ferroviere del primo tracciato della
Ferrovia elettrica sangritana, poi marinaio migrante in Argentina, cuoco creatore di sapori
espressione dei luoghi incontrati, rassicurante capo-famiglia durante i bombardamenti ()


Un kami, un dio, ma anche una leggenda, un mito, un simbolo, una speranza e un incubo, perché nella parola kami c’è
tutto questo.

Sul numero 6 di Sabato 2 Aprile 2011 del nuovo settimanale “la Domenica d’Abruzzo”, a pagina 23 un’interessante rico-
struzione dell’origine – nel 1912 - e dei successivi assetti societari della Ferrovia Adriatico Sangritana.

L’officina della guerra La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Antonio Gibelli, Universale Bollati
Boringhieri, 1998.

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del secondo conflitto mondiale, vissuti tra atti di coraggio e riparo nei rifugi sotterranei del
“Diocleziano”. Aquilano d’origine. Come fece mio nonno omonimo, padre che vide migrare i
sui figli, bracciante pugliese, artista di poderi del vino eccellente, curatore di iniziatici rituali,
con mescite da fresche terracotta in piccoli traboccanti bicchieri, e produttore di olio profumato
e mandorle fragranti e nutrienti. Allo stesso modo, muovendomi, inevitabilmente, mi inoltro
dapprima negli anni ‘60 e poi nei fatidici ‘70, conservando il gusto del primo caramellato
bicchiere di vino, della mia “prima volta” lungo i canneti del Sangro e della primigenia lettura
filosofica: Stato ed anarchia di Michail A. Bakunin ().
Quasi adolescente, mi sorprendo mentre corro verso la valle, dalle parti di Treglio, dall’erba
fittissima e verde, avido di natura oltreché di ciliegie offerte dal podere del ruspante compagno
di classe, incosciente neofita di landscape ecology, appassionato di ecosistemi in cui spesso si
integrano eventi della natura e azioni della cultura umana. Simbolo di quegli anni, un’ormai
dispersa collezione di minerali. La ricerca e le scoperte per i limitrofi territori sono state realizzate
percorrendo inconsapevolmente le vie dei greggi che qui transitavano verso la pianura, quella
strada del vino tratturo del Re che conduce a S. Vito Marina e in quelle terre che già furono
fonte d’ispirazione di D’Annunzio e che sospingono in valle affacciandosi sul Sangro, con
alle spalle le colline dove i vigneti di Montepulciano, Trebbiano e Sangiovese si alternano ai
campi di frutta e di ortaggi. Rido clownescamente nel mio incedere esplorativo dentro il primo
decennio d’un’esistenza che s’inoltra in quel tratto di storia civile nazionale contenente gli anni
‘68 e ‘69. Mi apro alla vita con lo sguardo corrucciato, alla libertà, con pudica fiducia.
Una delle prime e vive sensazioni circa l’esistenza di uno “spazio pubblico”, più ampio del
nucleo familiare, la provo quando mi sorprendo ad osservare le combattive lavoratrici dell’A.
T.I.. Alla fine di Viale Cappuccini, nei pressi del Largo Santa Chiara che apre alla storia della
città, assisto ad un inusitato tumulto; la vivacità della scena alla quale sento di partecipare mi
distrae dal recarmi a scuola, al termine della discesa di Corso Roma, presso le Suore del Sacro
Cuore prospiciente la Chiesa di San Francesco, tuttora custode del “miracolo eucaristico”,
per me allora – l’Istituto scolastico e la Chiesa - incomprensibili luoghi e ricettacoli di eventi
magico-misterici che mi incutevano timori.
Dietro i cancelli chiusi della fabbrica di tabacchi occupata dalle lavoratrici, lungo l’alberato
e sempre tranquillo Viale Cappuccini, quel giorno notai un concitato via vai; ricordo poliziotti-
marziani, caroselli di camionette e le donne () con indosso camicioni grigio-azzurri da lavoro,
afferrate ai cancelli chiusi, gridare la loro protesta e narrare ai miei occhi infantili la dignità e
la giusta rabbia. Sullo slancio di scene primarie come questa, ho cercato assiduamente la “mia
migliore gioventù” e coerenti idee; ho cercato un modo personale d’essere me stesso in questo
luogo, in questa cittadina di oltre 30000 abitanti, fiera delle sua vicenda storica intrecciata alla

Oggi il testo è pubblicato nei Saggi dell’Universale Economica Feltrinelli (Prima edizione Feltrinelli, 1968).

Per una comprensione, dall’interno dell’universo femminile, di quegli anni di lotte, leggere “Dita di dama” di Chiara In-
grao, La Tartaruga, Milano, 2009, del quale propongo un brano: Millenovecentosessantanove, l’autunno caldo. Cosa poteva
capirne Maria? Avevamo diciott’anni, non capivamo niente di niente. A lei l’hanno schiaffata in fabbrica, per volere di zio
Sergio; a me all’università a studiare Legge, dopo pianti e strepiti, che io volevo fare la veterinaria. Potevo essere io, a dire
a Maria di ribellarsi? Mi sentivo esclusa, dal mondo nuovo che se la stava risucchiando, in un vortice di parole oscure: il
cottimo, la bolla, la paletta, i marcatempo… Marca-che? ho chiesto. Che roba è? Boh, non lo so, ha detto Maria. Ma dice
che sono i più pericolosi di tutti, ‘sti marcatempo. Chi, lo dice? Mi ci perdevo, in quei suoi racconti arruffati su Mammas-
sunta e le sorveglianti, su Ninanana e gli scioperi… Fioccavano i soprannomi, fra le operaie. E Maria come l’avrebbero
chiamata, con le sue dita di dama e il suo seno sfacciato? Per me ti è andata bene, dicevo io. Buttala a ridere, dicevo; mentre
le massaggiavo le tempie e le spalle, messe a mollo nel bagnoschiuma, per cercare di togliersi di dosso la puzza di stagno…
E la puzza di fumo? E il consiglio di fabbrica? E la Stira? Io non lo so, perché mi assediano la mente quei tempi frenetici,
con tutte quelle cose che ci precipitavano addosso: piazza Fontana, i contratti, lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, Reggio
Calabria… Io non lo so, perché tutti questi ricordi, perché proprio ora. Se è per l’età, o per il casino che ci succede intorno;
o invece soltanto per i casini fra Peppe e Maria, che lui non fa che rovesciarmeli addosso. Io non lo so: so che ci ho lasciato
una parte di me, in quei giorni caldi di quarant’anni fa. Allegri e feroci, e più veloci della luce.

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vicinanza dello Stato pontificio. Ho cercato – dapprima con l’irruenza giovanile - di contribuire
alla mia comunità, liberandola dal retaggio di un certo ingombrante passato, molto simile ad
un medioevo eterno. L’ossequio a “lor signori”, l’egoismo familistico, la grettezza ipocrita dei
costumi. Rimboccandomi le coperte, le sirene del perbenismo e provincialismo, hanno tentato
d’addormentarmi, non inquieto. Restai per sempre sensibile all’irritazione per le ingiustizie,
insostenibili ai miei occhi. Come in quel Natale, amichevolmente gelido, di tanti anni addietro,
quando la giocosa capacità di perdita di tempo preadolescenziale, per un momento fu sospesa.
Ospite a casa del mio compagno di scuola, Mariolino, intento a divorare “taralli” fatti in casa,
ripieni di un favoloso impasto di marmellata d’uva, pezzettini di buccia d’arancia, mandorle
tritate e abbrustolite e “bocconotti” al cioccolato, fummo coinvolti dal rientro, rivelatosi
drammatico, di suo padre con un biglietto di auguri, apparentemente innocuo, tra le mani.
Quasi tremante, con un filo di voce e in evidente imbarazzo, lesse rivolgendosi alla moglie
ed incurante della nostra presenza, il testo scritto dall’onorevole Ministro: “Ti auguro serene
festività, ricordandoti l’importanza del lavoro acquisito che permette a te ed alla tua famiglia
una vita dignitosa”. Questo il mio ricordo delle parole lette, ignaro ancora dell’avvilente
significato. Chiudendosi in camera, ascoltai il padre di Mariolino, piangere.
Il “clientelismo”, avido ed umiliante allo stesso tempo, peculiare manifestazione d’una
gretta socialità, senza slanci ideali, senza capacità di rispetto e d’innovazione civile, sono state
il quotidiano sopravvivere adolescenziale che disegnò l’orizzonte esistenziale. Stivali sulla
testa, mai; sopra di me solo il cielo, mi ripetevo nel silenzio della coscienza; questo, in sintesi,
il percepito embrione dell’etica personale, bussola ancora oggi funzionante del mio agire.
Tutto e tutti, mi è parso, hanno ruotato intorno ai santuari del potere, anche coloro che hanno
immaginato se stessi come “critici” senza, peraltro, saper assumere la liberatoria responsabilità
di sottrarsi al giogo della subalternità, economica, culturale, politica “mettendoci la faccia” e
rischiando un po’. Del gruppo di amici, con in spalla lo zainetto e nel cuore la speranza, che
hanno scelto Bologna come sede universitaria, tutti, appena assolti gli obblighi di studio, son
tornati nel tran tran del tranquillo borgo natio, ove atteggiarsi a “critici” del potere e neofiti
addetti alla retorica.. La “critica” di cui sono stati capaci, l’hanno denominata “alternativa
democratica”, confondendo la loro alternativa di costume con qualcosa di più importante. In
realtà, l’auspicio è stato di sostituire ad una mera gestione del “potere”, un’altra, eventuale,
gestione priva di progetto per la città.
Oggi, dopo trentacinque anni di domande e di tentativi, d’ansia per una trasformazione
sociale, un superamento di angusti ambiti e rituali pseudoculturali mai compiutamente
realizzati, dopo un’esperienza d’adulto fatta altrove, quasi esule, trovo ancora motivazione a
pensare a Lanciano come la “mia” città, meritevole di impegno civico o, quantomeno, di ciò
che sono in grado di fare.
Qualcuno o qualcosa, nel corso degli anni, affossò le mie domande d’allora. I balli e la gioia
un po’ ebete dello stare insieme stereotipato, sempre mi furono estranei, ma in modo altrettanto
duraturo mi sono sentito pari a tutti, “se non di denaro di diritto”. Ho incontrato le emozioni ed
il piacere, in un tempo ricco di rischi e di libere scelte. Si penserà al corpo; io intendo l’uno/tutto
che sono io: quella mente che s’immagina movimento e spazio, quel DNA che, nell’immateriale,
nel sapere, trova il suo essere ed il suo limite. Molte cose sono cambiate da allora, come le
foglie ingialliscono e cadono dai rami, senza fragore. Profondamente cambiati sono i simboli,
così come la sostanza delle cose. Canzoni con nuove tensioni s’affermano nell’immaginario.
Solidale con il mondo della sofferenza; tutt’uno con il mondo della creatività; quella creatività
non mercificata, mai immaginatasi solipsisticamente, arrogantemente “arte della politica”, ma
slancio verso il “bene comune”. Senza mai scindere i “principi” dagli “interessi” mi ritrovo a

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voler “agire local-mente “ concependo l’azione “global-mente”.
3. Lanciano, spiritus loci
Lanciano è la mia città anche se non mi ha dato i natali. È la città dove sono nati i miei figli
e dove vivo da tanti anni con la mia famiglia. La città dove sono sparsi frammenti della mia
vita e il ricordo delle persone che li hanno condivisi. Perciò, la sento profondamente nell’animo
perché mi appartiene. Quando ero adolescente l’ho idealizzata, immaginata, raffigurata come
una meta ultima, popolandola di tutti i miei crucci, delle mie aspirazioni, delle mie più intime
fantasie. È la mia città perché nutro per lei un sentimento autentico, sincero e immarcescibile.
E’ il luogo in cui l’equilibrio dell’animo è assoluto, dove la forza vitale sospinge il corpo oltre
le stagioni e il trascorrere del tempo, dove il tormento dello spirito si placa, soggiacendo al
richiamo delle origini che qui pervade il cielo e la terra.
Lungo corso Trento e Trieste sognavo ad occhi aperti ad ogni pie’ sospinto. Guardavo i
palazzi senza mai farmi soggiogare dal grigiore dell’indifferenza e dell’abitudine. E scrutavo
le vie traverse laterali che lo scrittore Giorgio Manganelli, in un suo elzeviro di tanti anni
fa, ha raffigurato come le quinte di un immenso teatro (Via Dalmazia e Via De Crecchio in
particolare). Tra i vicoli, le viuzze, le piagge, i porticati e le antiche scalinate dei quartieri
antichi, sentivo un’attrazione fatale diffondersi ovunque: sulle pareti delle case, sui sampietrini,
sulle vette dei campanili, sotto i ponti e nelle fessure ipogee delle antiche fontane del borgo.
Pensavo che fosse sterminata, cosmopolita, disseminata di musei e luoghi d’arte, di eleganti
luoghi d’incontro, di biblioteche, cinema, teatri, mercati, banche e botteghe d’arte, tutti da
scoprire e da conoscere. Da Rocca la sentivo remota, irraggiungibile, dominante e ingombrante
perché era il luogo dove era possibile trovare tutto, dove tutto era possibile, semplicemente
camminando a piedi per un tempo che mi sembrava infinito. La conobbi poco più che bambino.
Un giorno mia madre mi portò con sé su una corriera amaranto delle autolinee Di Fonzo che
strombettava curiosamente per segnalare il suo arrivo nella piazza del paese. L’autobus aveva
scritto sulla fronte il mitologico nome del Re dei venti, ma io non sapevo chi fosse costui e
dopo un tragitto che ricordo a malapena, ci scaricò sul Piazzale della Stazione dove a quei tempi
giungevano a capolinea gli autobus provenienti da ogni altra città o paese della zona. Serbo di
quel giorno un ricordo offuscato dalla tenera età e dai tanti anni ormai trascorsi che lo rendono
retaggio di un tempo indeterminato, ma in fondo all’animo è rimasto intatto e nitido il senso di
un rapporto incipiente che non ha mai subito incrinature, cedimenti o indugi. Così, mi consola
ricorrere a d’Annunzio per descrivere il mio profondo attaccamento a Lanciano. In una epistola
a Innocenzo Cappa, il Vate così descriveva l’amore innato per la sua terra d’origine: “Non
soltanto la mia infanzia, e la mia puerizia, ma tutte le mie età vivono in ogni pietra, in ogni
mattone, in ogni fil d’erba, in ogni ago di pino della mia città [natale] e fatale”. È importante
raccontare frangenti della nostra vita quando si sono svolti in simbiosi totale con il luogo dove
le radici hanno trovato terreno fecondo per attecchire in profondità. Il ricordo, a volte, è una
sorta di segreta e infallibile panacea, un fluido corroborante per lo spirito, ed è sicuramente da
preferire al rimpianto per ovvie ragioni, anche se hanno scosso l’animo e creato apprensione;
anche se sono stati causa di sofferenza e di tormento. Il ricordo non si piega al tempo e aiuta
a vivere il presente e costruire il futuro. Comunque, i viaggi a Lanciano in autobus si sono
moltiplicati con il passare degli anni fino a diventare giornalieri quando iniziai a frequentare le
scuole superiori e l’orizzonte delle mie aspirazioni si è dispiegato improvvisamente in tutta la
sua estensione. Più la frequentavo, più il mio legame si corroborava e si fortificava: cresceva
con me, diventava stabile e consapevole. Per fortuna, la mia generazione non ha conosciuto
gli orrori della guerra, mentre ha subìto in pieno il ciclone tumultuoso del cosiddetto boom
economico degli anni Sessanta con tutte le derivazioni negative e positive. Questa fu una delle

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prime notizie salienti di cui presi consapevole cognizione perché a quei tempi a scuola non si
apprendevano soltanto nozioni didattiche, ma la dialettica era compenetrata da un coacervo
di altre questioni che implicavano interesse e partecipazione. Parlavamo di tutto, infervorati
da un forte senso di consapevolezza e di condivisione che costituivano le fondamenta di una
imberbe coscienza morale. In quegli anni giovanili, la scuola, gli studi, i professori, gli scioperi,
i “filoni”, le sospensioni, le Nazionali e le Esportazioni senza filtro, fumate di nascosto per
non essere scoperti dagli insegnanti o da qualche conoscente adulto, e tutta l’interminabile
teoria di vezzi adolescenziali, erano gli elementi connotativi di un mondo, del nostro mondo,
che cambiava rapidamente e ci obbligava ad accelerare il passo e a mantenere viva e desta la
nostra attenzione. Studiare a Lanciano e conseguire il diploma di una scuola media superiore,
era il primo importante traguardo della nostra vita di cittadini imberbi, la meta agognata che
sembrava irraggiungibile.
4. Mutando il “paradigma”, muta il “paesaggio”
Lanciano, ritrovata e cara, la guardo ora, all’inizio del secondo decennio del terzo millennio,
non solo dal punto di vista d’una messa in valore della sua storia e delle sue risorse antropologiche
(laboriosità, tradizioni, paesaggio), ma come un sistema di decentramento amministrativo, con
il quale lo Stato lascia a circoscrizioni territoriali minori la gestione di determinati fatti sociali
d’interesse locale, non compiuto. Come ente locale, la municipalità lancianese è stata considerata
“ente di diritto pubblico” i cui elementi costitutivi sono la popolazione residente, il territorio
e l’ordinamento giuridico in base al quale amministrare la collettività. In realtà, e qui risiede
l’amara constatazione di un medioevo eterno nelle cose civili di Lanciano, la municipalità non
è stata in grado, ad oggi, di evolvere dalla prima forma storica d’amministrazione autonoma,
risalente agli inizi del XII secolo, verso una completa, “moderna” e collettiva “maturità
democratica”. Il “comune”, inizialmente è stato “gestione della comunità” da parte di una
élite di proprietari terrieri e di mercanti che nelle terre avevano investito i loro profitti; nacque
come conseguenza della necessità di ottenere la commercializzazione delle terre sottraendole
ai vincoli feudali e dell’importanza economica che andavano acquisendo nuove classi sociali
quali i mercanti, i giudici, i notai sempre più interessati alla vita di affari della città. La “città
umanista” altrove affermatasi nell’italica penisola, non è stata però un traguardo raggiunto dal
centro più grande della “Frentania”.
Simbolicamente, riconfermo questo pensiero ogni qual volta, di ritorno a Lanciano, desidero
ammirare nuovamente la Chiesa di Santa Maria maggiore (), ancora oggi regolarmente officiata,

Le informazioni sono tratte da una ricerca sullo stato di conservazione effettuata dalla Facoltà di Architettura dell’Univer-
sità degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti – Pescara dalla quale, tra l’altro”, si rileva che, duranti i lavori di restauro-ripri-
stino della chiesa di Santa Maria maggiore avvenuti nel 1968, “gli scavi effettuati hanno portato alla luce consistenti tracce
di una chiesa romanica, risalente probabilmente alla fine del XII secolo, trasformata e in parte inglobata nelle costruzioni
successive. La trasformazione della costruzione romanica, ha inizio nel 1227, durante la dominazione sveva, e viene diretta
da maestranze cistercensi-borgognone, molto probabilmente provenienti dal cantiere abbaziale di Santa Maria Arabona. Il
nuovo edificio inglobò quello antico, ingrandendolo longitudinalmente con la costruzione del presbiterio, esternamente qua-
drato ed internamente ottagonale, con copertura ad ombrello. In quest’occasione venne abbassato di qualche metro il piano
di calpestio interno della chiesa e vennero realizzate le volte sulle navate. Della costruzione romanica furono conservati, oltre
al basamento del campanile, alcune pareti perimetrali e il portale principale. Nel 1317 fu aggiunto sul prospetto orientale,
su via S. Maria maggiore, il portale monumentale, opera di Francesco Petrini. In tal modo l’edificio cambiò orientamento,
con l’ingresso principale rivolto verso la nuova direttrice di espansione della città, e con il presbiterio trasformato in vesti-
bolo. L’antico portale romanico venne murato per ospitare l’abside all’interno. Sui prospetti laterali vennero realizzati due
portali con elementi tipicamente federiciani, riscontrabili in altre soluzioni simili a Castel del Monte in Puglia. Si innalzò
la torre campanaria e se ne costruì un’altra gemella, andata distrutta, secondo le cronache locali, con il terremoto del 1600.
La chiesa subì ulteriori trasformazioni nel corso del XVI secolo, in linea con il fermento urbanistico che interessa il quar-
tiere Civitanova a partire, soprattutto, dal 1515, quando vi prende sede il nuovo Arcivescovado. Al 1540 risalgono lavori
di ampliamento della chiesa gotica che ne stravolgono totalmente l’impianto: la navata laterale sinistra viene abbattuta per
far posto ad una grande navata centrale, con l’ingresso in corrispondenza del campanile, la navata centrale diventa navata

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che leggenda vuole sia stata costruita su un tempio pagano dedicato ad Apollo, ubicato nel
luogo dove si tenevano le cosiddette “Nundinae meractus”, ossia le fiere. La meravigliosa
chiesa, con il suo trecentesco monumentale portale, opera di Francesco Petrini (il cui nome,
con la data di realizzazione - il 1317 - è inciso nella lunetta sopra l’architrave, insieme al
gruppo scultoreo della crocifissione), mi sollecita a pensare ad una Lanciano che sarebbe potuta
essere. Il palinsesto del meraviglioso sacro edificio, ubicato nel quartiere Civitanova, tra Via
Garibaldi (accattivante strada che conduce dalle Torri montanare all’estasi visiva dei cosiddetti
“ripili”) e Via Santa Maria maggiore, è “unico in città per caratteri stilistici e costruttivi, gode
di una situazione ambientale che ne esalta l’aspetto monumentale: la facciata principale si alza
sulla piazzetta antistante a mezzo di un’imponente scalinata, chiusa alla base da una cancellata
in ferro battuto del 1901.[...] I virtuosismi decorativi che caratterizzano questo portale, con
le colonnine tortili a doppio nodo, gli archi ogivali sotto il timpano triangolare, la profonda
strombatura e l’apparato scultoreo, ne fanno uno degli esempi più interessanti dell’arte
abruzzese del Trecento” (). Proprio osservando quest’opera d’ingegno creativo, con il suo
laterale, nella navata destra vengono realizzate le cappelle. Accanto alla monumentale facciata del Petrini viene innalzato
un nuovo prospetto, dal coronamento orizzontale posto alla stessa altezza di quello esistente, con portale e rosone posti in
corrispondenza della nuova navata. È in occasione di questi lavori che l’interno viene rivestito di intonaco e di un apparato
decorativo tipicamente rinascimentale. Alla fine degli anni Sessanta del Novecento, un intervento di ripristino condotto sotto
la guida del Soprintentende Mario Moretti, ha manomesso pesantemente l’articolato palinsesto della fabbrica, riportandola
alle presunte forme gotico-cistercensi originarie. Il complesso monumentale si presenta complessivamente in condizioni
discrete, sia riguardo alle strutture che alle superfici, interne ed esterne. Nonostante ciò, rimane forte il disagio provocato dal
ripristino dell’edificio medievale, condotto privilegiando una fase della complessa storia della fabbrica a completo sfavore di
quelle successive, quando mantenute declassate: è il caso della parte all’ampliamento cinquecentesco, attualmente utilizzata
come zona di sgombero e magazzino.

Dalla ricerca sullo stato di conservazione della chiesa di Santa Maria maggiore, effettuata dalla Facoltà di Architettura
dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti – Pescara, leggiamo: “ In asse al portale si apre un rosone fortemente
strombato a cerchi concentrici, di cui quello più esterno presenta una cornice decorata a bassorilievi di motivi vegetali. La
ruota è realizzata con 12 colonnine radianti, che sugli assi principali divengono tortili, collegate a due a due da archetti a
tutto centro che, saltando di volta in volta una colonnina, si intrecciano generando un motivo a traforo polilobato. Il rosone
è contornato da una fascia aggettante dalla muratura, decorata da sculture a motivi vegetali, che si interrompe al centro per
essere sorretta da colonnine tortili poggiate su telamoni a mensola. Ai lati del portale vi sono due aperture a bifora, fortemen-
te strombate, delimitate da colonnine tortili a da un arco a tutto sesto, decorato con scultore vegetali a punta di diamante. A
destra della facciata principale è quella realizzata in occasione dell’ampliamento cinquecentesco della chiesa, anch’essa in
conci di arenaria, terminazione orizzontale, portale affiancato da due finestre strombate e sovrastato da un rosone centrale.
Quest’ultimo presenta forme tipicamente rinascimentali riscontrabili nelle decorazioni classiciste dei cerchi concentrici che
formano la strombatura dell’oculo, caratterizzati da bassorilievi ad ovoli e dentelli e da un doppio ordine di archetti tripartiti,
che accolgono le 16 colonnine della ruota. Il portale è posto ad una quota decisamente inferiore rispetto al piano di calpestio
interno. E’ noto che lo stesso era situato sulla parete perimetrale settentrionale dell’edificio cistercense, distrutta durante i
lavori di ampliamento e qui collocato a seguito della costruzione di questa parte della facciata. Esso presenta caratteri stili-
stici simili al portale che si trova sul prospetto meridionale, e cosiddetto “federiciano” poiché tipico di costruzioni pugliesi
volute da Federico II di Svevia, ed in particolare al Castel del monte di Andria. La facciata della chiesa originaria si apre
sull’attuale via Garibaldi, sul fianco occidentale dell’edificio. Qui sono perfettamente distinguibili le varie fasi costruttive
della fabbrica, del portico antistante e del campanile. Il volume dell’avancorpo è riconoscibile dalla diversa quota della sua
copertura rispetto a quella della chiesa. Esso è coronato da fasce di mattoni disposti diagonalmente, secondo il motivo detto
“a dente di ruota” o “di sega”, e sormontati da un filare di archetti pensili che delimita tutto il portico e il primo livello del
campanile. Al centro della facciata è il portale, con doppio arco a sesto acuto, che precede il vero e proprio ingresso alla
chiesa. Quest’ultimo, molto probabilmente, conserva il portale appartenuto alla chiesa romanica benedettina, realizzato con
3 archi concentrici su altrettanti piedritti e capitelli, e delimitato da un architrave monolitico decorato da figure di animali e
intrecci di vegetazioni. Al centro dell’intero prospetto è collocato il campanile, la cui parte basamentale, in pietra e mattoni,
presenta elementi perfettamente distinguibili dal corpo superiore, interamente realizzato in mattoni. La sua divisione in tre
livelli è realizzata con archetti pensili e una cornice in pietra. Ogni livello è articolato da specchiature, ulteriormente decorate
con archetti pensili in mattoni, al centro delle quali sono ricavate delle trifore, con colonnine e archetti monolitici in pietra.
Sul lato sinistro del campanile si sviluppa il volume dell’ampliamento cinquecentesco, la cui nuda cortina muraria è priva
di partiti architettonici, eccezion fatta per la soluzione angolare a paraste sovrapposte. L’interno della chiesa è diviso in tre
navate da archi a sesto acuto sorretti da pilastri cruciformi cui si addossano paraste e colonnine. E’ da queste che partono
gli archi trasversali, a sesto acuto, che separano le campate, e le nervature delle volte di copertura. Le navate si articolano in
quattro campate di dimensioni diverse, la cui forma diventa quadrangolare man mano che dall’ingresso si raggiunge l’altare.

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impianto a tre navate con presbiterio ottagonale, insistente riemerge l’idea d’una Lanciano
foriera di un’evoluzione civile corrispondente al suo passato che, invece, non ha avuto; il
sentimento che affiora non è melanconico rimpianto per ciò che non è stato, bensì energica
visione “utopistica”() laddove si è irreversibilmente convinti che, nelle prassi storico-sociali,
“vanno realizzate le cose che non sono ancora state effettuate”.
La gestione della comunità da parte delle associazioni dei liberi artigiani e dei mercanti,
cioè il passaggio emancipatorio da una visione elitaria (piuttosto che aristocratica in senso
stretto) della “res publica” ad una propriamente “borghese”, è avvenuto solo formalmente,
solo negli usi e costumi di chi il “potere” l’ha ricevuto nelle mani, solo morfologicamente,
dunque, ma non nella sostanza di un allargamento della base sociale e di nuove modalità – pur
gerarchicamente stabilite - di partecipazione alla vita pubblica. Il processo di transizione da
una fase storica all’altra, da una forma di potere ad un altra più efficiente per tutti, non si è
mai verificato come altrove, producendo un ceto politico dirigente solo apparentemente, nelle
forme esteriori, figlio dell’epoca, bensì immancabilmente retrivo nella mentalità, concessiva
di favori piuttosto che in grado di contrastare – riducendole, se non possibile eliminarle - le
ingiustizie sociali, di colmare il divario tra antiche e nuove povertà “materialististe e post-
materialistiche” delle proprie “genti”. Questa sostanziale continuità storico-sociale trova la
fondamentale manifestazione nell’occupazione del potere politico-amministrativo, dalla
Liberazione agli anni ‘90 del Novecento, da parte di quello che è stato definito il “Partito
– Regime”, la Democrazia Cristiana e nelle dinastie nepotistiche di Sindaci che, in loco, ha
insediato per decenni. Certo, scontatamente, sulla base di legittimazione popolare, considerato
Al corpo longitudinale delle navate si innesta il presbiterio, ottagonale all’interno, quadrato esternamente. La sua copertura è
una volta ad ombrello costolonata, inquadrata da un arco trionfale sostenuto da semicolonne a cono rovesciato, arricchite da
motivi fitomorfi e antropomorfi: eccezionale soluzione che sembra indicare relazioni con la basilica di Santa Maria del Fiore
a Firenze, e con gli antichi martyria e battisteri. Secondo alcuni studiosi questa avrebbe una valenza puramente simbolica,
coincidente con l’intenzione da parte di Manfredi, sotto il cui regno il presbiterio è stato edificato di rievocare, con esso, l’im-
pianto di Castel del Monte ad Andria, residenza preferita di Federico II, o di alludere al Santo Sepolcro, punto di riferimento
fondamentale dell’architettura occidentale. Sulla parete sinistra del presbiterio si accede agli ambienti superstiti dell’edificio
cinquecentesco, con una parte della navata centrale e della navata sinistra con le cappelle laterali. Le coperture sono qui
interamente realizzate con volte a crociera per ciascuna campata e scandite da costoloni che ripetono il ritmo sottostante
delle paraste addossate ai pilastri. L’ordine architettonico inquadra gli archi a tutto sesto che dividono le navate e le cappelle,
e sostiene una trabeazione che disegna in quota l’intero perimetro della navata centrale, interrompendosi all’imposta del
catino absidale, con l’innesto del dossale dell’altare maggiore. Quest’ultimo, privo della mensa, è l’unico elemento super-
stite della navata centrale, in quanto il pavimento è stato completamente eliminato per dar posto ad un percorso scosceso
che unisce l’ingresso sotto il campanile, attraverso la parete absidale, con quello sul prospetto principale, realizzato al fine
di riproporre l’ipotetico prospetto laterale sinistro della chiesa medievale. L’apparato plastico e decorativo ancora in loco è
frutto di soluzioni molto semplici ottenute accostando partiti architettonici in stucco di colori diversi, probabilmente legati
ad ambiti artistici e culturali appartenuti a tempi e committenti diversi. In sagrestia si conserva una croce d’argento di Nicola
da Guardiagrele”. Bibliografia: A. L. ANTINORI, Estratto di scritture dell’Archivio di S. Maria Maggiore Parrocchiale di
Lanciano fatto nel 1750. (ms presso l’archivio capitolare di Lanciano); A. L. ANTINORI, Memorie storiche d’indole chiesa-
stica, riguardanti Lanciano ed Archidiocesi, a sunto di tutti i documenti conservati negli Archivi della cattedrale di S. Maria
Maggiore, Monasteri.

È notorio che il termine “utopia” sia polisemico; proviene dal gioco di parole greche on topos (luogo che non c’è) ed en
(bene) + topow (luogo felice). La problematicità semantica risulta già dall’uso che ne fa Tommaso Moro nella celebre opera
del 1516 in cui il neologismo compare per la prima volta. “Utopia” - composto di ou, “non”, e tópos, “luogo” - nell’opera di
Moro non è chiaro se essa sia l’eu-tópos, il regno perfetto della felicità, o l’ou-tópos, il luogo inesistente per antonomasia, o
l’una cosa e l’altra allo stesso tempo. Pochi anni dopo la pubblicazione del De optimo reipublicae statu deque nova insula
Utopia di Moro, la parola si è variamente connotata, ha esteso e amplificato il suo significato. Per chiarire come il significato
di “utopia” sia andato evolvendo, cito le parole di Louis-Sébastien Mercier (autore dell’utopia L’an 2240, 1770) che spiega-
no l’invenzione approntata dall’autore del neologismo fictionner: Non è narrare, raccontare, favoleggiare. È invece imma-
ginare dei caratteri morali e politici onde far passare verità essenziali nell’ordine sociale [...] in favore della scienza che
abbraccia l’economia generale degli Stati e la felicità dei popoli. Da questa spiegazione si evince che l’utopia non è intesa
solo come sogno, evasione o ipotesi mentale, bensì comincia ad assumere le caratteristiche di un progetto rivolto all’attua-
bilità e alla concreta “felicità dei popoli”. All’autore sta a cuore questo: l’utopia non è fuga dal tempo e dal contesto, bensì
proposta semplice e realistica di un “dover / poter essere” in tensione dialettica con la realtà presente come essa appare.

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il maggior numero di “voti” che elezione dopo elezione premiava gli uomini dello scudo
crociato. Nel territorio frentano, è bene ricordarlo, l’espressione “voto” è stata decodificata
dai diversi interlocutori con consapevolezza etimologica: il “voto” sulla scheda elettorale,
attribuito nella cabina, angusto spazio che ripara da occhi indiscreti l’esercizio della propria
onestà o della pavidità, custodita fino allo spoglio nel segreto dell’urna, è inteso nel senso
letterale del termine latino vòtum, voto, preghiera, desiderio, una sorta di offerta ad una divinità
di un oggetto, un animale o addirittura un uomo (nell’antichità), per esprimere gratitudine per
un bene ricevuto o per impegnare la divinità medesima a concedere qualcosa. Il sottinteso
auspicio ha innervato per decenni la dichiarazione della propria volontà nei procedimenti
elettivi che hanno riguardato tutte le generazioni di cittadini elettori del Comune di Lanciano.
Il corpo elettorale lancianese, soggiogato dalla mentalità di prostrazione al potere ha accettato
il “voto di scambio” come essenza della “politica” in mano ai “partiti”. Così facendo si è
dato vita ad un fenomeno, dilagante tra le contrade, che ha tracimato anche nella cosiddetta
“seconda Repubblica”, consistente tutt’ora nel chiedere voti (qui il termine rientra nella
prosaica semantica del “mercato politico-elettorale”) in cambio di favori o vantaggi individuali
e/o familiari e/o nelle “affinità elettive” con il “dispensatore” di turno, più o meno leciti. Non è
assimilabile ad una micro-tangentopoli o qualcosa di simile a quanto accade in alcuni territori
del Sud del Paese, altrimenti negli Uffici giudiziari di Lanciano avrebbero molto di più da
fare, come, di recente per i nefasti accadimenti del terremoto, è avvenuto a L’Aquila; trattasi
piuttosto, di una subalternità popolare al valvassino in auge che usa la “raccolta” di voti per
tentare scalate ulteriori nelle Istituzioni della rappresentanza o altrove o per allargare la clientela
del proprio studio professionale o della propria azienda, del proprio “commercio”, dopo uno
o più “giri di giostra” in piazza Plebiscito. Questo anomalo fenomeno d’una sorta di “mercato
laico / laido delle indulgenze”, costituisce una strategia per stabilizzare il potere locale da
parte di un coagulo di interessi che vanno tutelati perpetuando il dominio sulla macchina
amministrativa e le sue articolazioni funzionali sul territorio ed impedendo in questa guisa alla
città un definitivo slancio civile. L’élite economico-politica e culturale, mutatis mutandi, ha,
fino ai nostri giorni, replicato la gerarchia di comando tipica dell’organizzazione medievale
delle vite - un assolutismo che prevede privilegi ed esclusione sociale – mai tramontata
(). Una conferma è data, ad esempio, dal “personale politico” che “nelle parole” si è posto
come competitore, peraltro sempre sconfitto; gli “uomini” che hanno inteso rappresentare
un’alternativa, di fatto, sono stati espressione della stessa “cultura” paternalista, clientelare e
concessiva, a volte anche autoritaria (10) in grado di “parlare” di diritti, ma mai di fuoriuscire
dalla dimensione retorica top down di chi pretende un mandato dal popolo lavoratore, ma
che per estrazione e formazione, non appartiene al mondo del lavoro in senso stretto (dal
latino “fatica”, opera di mano e poi anche d’ingegno, cose fatte o da farsi operando), bensì
a quello delle “libere professioni” che è predisposto a “fare cartello” politico-affaristico.
Non c’è nulla di male ad essere un avvocato, ma ci sarà pur una ragione che i leader indicati
come alfieri dell’opposizione al potere democristiano – sistematicamente sconfitti nelle mire
personali ad uno scranno parlamentare o alla poltrona di Sindaco – sono stati prevalentemente
avvocati ? A riprova di questo, rammento che anche nei rari casi d’affermazione elettorale

Sia chiaro, la storia civile di Lanciano certo non contraddice l’idea di forte continuità che lega l’età medievale al succes-
sivo sviluppo artistico e culturale del Rinascimento, sostenuta dallo storico Johan Huizinga ne “L’autunno del Medioevo”
(Newton Saggi, seconda edizione 2011); qui si configura, semplicemente e polemicamente, un’eccezione a conferma della
“regola”.
10
Mi riferisco a quella stagione politica imperniata sul ‘77 che vide anche a Lanciano prodromi d’aggregazione giovanile
proletaria alternativa alle dilaganti forme “consumistico-borghesi” - “prontamente” criminalizzate dai rappresentanti locali
del P. C. I. - che ebbe, in particolare, nell’occupazione del Cinema “Mazzini” in disuso (noto come il “pidocchietto”) il suo
originale, creativo centro sociale.

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(penso all’ex Sindaco di Atessa, in seguito eletto in Senato, anch’egli rispettabilissimo
avvocato ed insegnante, Enrico Graziani) sui territori limitrofi, il profilo del candidato non si è
discostato dallo standard. Fenomeno, questo, che prevede la persuasione della masse popolari
della propria incapacità alla “parola” inibendone una “produzione autonoma”. Non è affatto
scontato, del resto, che le cose possano cambiare con qualche candidato insegnante, medico
o commerciante; è proprio il meccanismo di selezione e reclutamento dei rappresentanti – in
una comunità bloccata al medioevo – che non funziona. In tal modo, non avendone esaustiva
consapevolezza, si perpetuano riti e comportamenti non emancipatori della più grande risorsa
che Lanciano ha, latente, comunque non utilizzata, silenziosa, a volte passiva e connivente, a
volte brutalizzata e soffocata, ma, nei suoi strati più reconditi, capace di resistenza e di rivolta
quantomeno morale: la società civile.
Dal “negativo” dello sfruttamento dell’agricoltura da parte di commercianti di prodotti
agricoli (in prevalenza, il vino “cerasuolo” delle contrade che oggi primeggia mondialmente,
e l’orto-frutta) molto più interessati ai profitti derivati che gli antichi proprietari alla rendita;
dal “negativo” dell’inurbamento di masse di contadini, dello spirito corporativo che si andò
sempre più sviluppando tra gli artigiani e mercanti in modo tale da monopolizzare ed acquisire
una notevole potenza economica e di dominio vero e proprio della città, non solo in termini di
liquidità, depositi bancari e beni immobiliari, ma anche di formazione e consolidamento d’una
precisa, identificabile mentalità (qualcuno parla, a questo proposito, di “lancianesità” come
peculiare capacità affaristico-abbabulatoria Cicero pro domo sua); dal “negativo” della pervasiva
mentalità riscontrabile nell’attuale tendenza anche giovanile di “creare impresa” aspettando i
clienti in negozio (si noti il proliferare di partite I.V.A. con predilezione nella non impegnativa
vendita di bevande – wine pub, bar, pub, o negozi d’abbigliamento); ebbene, dal “negativo” -
succintamente illustrato - si può e si deve passare ad una “città libera”, non più chiusa nelle sue
“mura” (la “catena di comando” economico-politico-sociale) come un tempo trascorso, non
più gestita da “rappresentanti” eletti dalle varie consorterie o corporazioni piuttosto che dalla
cittadinanza libera da impacci culturali, ricatti e timori reverenziali, “rappresentanti” che hanno
di fatto soffocato le energie genuine che guardano ai “beni comuni”.
La città è in fase drammaticamente implosiva perché si è identificata per molto, troppo tempo
con l’autoreferenziale “ceto” partitico dirigente la “cosa pubblica”; quest’ultimo ha legato –
soggiogandola in modo quasi indolore – la sua comunità di riferimento a vincoli “storici” o
consuetudinari rendendo la residenza abitudinale di decine di migliaia di persone nel territorio
frentano ed anche la presenza estemporanea dei cosiddetti variegati “city users”, occasione
ghiotta per perpetuare lo status quo, per manipolare l’amministrazione ed erogazione dei servizi
pubblici difendendo solo gli interessi di pochi. Sappiamo però che una città oligarchica, per
definizione, non è una città libera.
5. Il “sessantotto”
Negli anni del cosiddetto boom economico, nel contesto regionale abruzzese il senso
della storia era ancora fortemente intriso dalle sofferenze e dagli orrori del secondo conflitto
mondiale che avevano provocato profonde lacerazioni nella coscienza individuale e collettiva
e generato un diffuso senso di incertezza e di apprensione, soprattutto nell’animo di quanti ne
avevano saggiato il dramma. Mentre, la consapevolezza dei diritti civili, incussa dai padri della
Costituzione repubblicana e solennemente affermata in ogni suo articolo, tardava ad affermarsi,
contrariamente alla crescita economica, mossa dal desiderio incontenibile di conseguire un
repentino profitto sulla scia di regole e comportamenti non sempre consoni ai principi etici e ai
valori della solidarietà. In pochi anni, il modello sociale fondato sul benessere economico, sulla
disponibilità di denari, sull’acquisizione smodata di beni materiali e sul predominio dei segni e

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delle forme esteriori, status symbol, prese il sopravvento su tutte le altre modalità esistenziali,
sovvertendo le fondamentali regole della vita sociale e divenendo il motore propulsivo della
nuova era.
L’economia diventa la regina incontrastata dell’universo (non che prima del boom non lo
fosse, ma in quegli anni ottiene una sorta di investitura per l’eternità grazie alle nuove teorie,
ai nuovi assetti sociali e al dirompente affermarsi del consumismo). La ricchezza è socialmente
giustificata da una pletora di ragioni e da un flusso abnorme di informazioni asservite, dalla
necessità-diritto (sic!) di vivere tutti nel pieno benessere e dal nascente mito della “qualità
della vita”, da conseguire ad ogni costo, per essere al passo con i tempi ed essere protagonisti
della modernità. La ricchezza, quindi, diventa una ragione di vita, talvolta l’unica o la più
importante, tanto da assurgere a simbolo di potere, di condizione e di appartenenza ad una
classe socio-economica elevata, a strumento di corruzione e di malaffare, di coercizione e di
ricatto per conseguire scopi immorali e influenzare subdolamente l’andamento del mercato, del
vivere sociale e della crescita civile. Nel processo evolutivo innescato dal tumultuoso sviluppo
economico, la nostra provincia resta intruppata nelle retrovie per una serie di concause ma,
soprattutto, per l’arretratezza del sistema infrastrutturale, per una sorta di storico isolamento e
per un vasto fronte di ritardi culturali che impediscono qualsiasi processo d’integrazione con
il sistema sociale ed economico nazionale. Nel contempo, larghi strati della società civile sono
ancora interessati dall’emigrazione e caratterizzati da una ruralità arretrata. Lanciano non si
discosta da questa condizione, condividendo appieno la patologica immobilità di un contesto
deprivato di qualsiasi impulso di sviluppo e delle più elementari iniziative di governo ad esso
finalizzate. E’ una città dove la vita sociale è regolata da livelli minimi di interesse anche se è
un polo scolastico che accoglie migliaia di studenti provenienti da tutti i comuni di un vasto
comprensorio sub-provinciale. Ma l’affermarsi della cosiddetta “economia di mercato” e del
capitalismo industriale, che sembrano fenomeni estemporanei capaci di turbare gli equilibri
della “vecchia” organizzazione sociale, ben presto genera un vuoto di valori di cui si rendono
interpreti della prima ora le giovani generazioni. I giovani salgono sul proscenio e diventano i
protagonisti di una rivoluzione culturale e di sistema che la storia ricorda come “il Sessantotto”
la cui onda d’urto impatta come una sfera di fuoco non soltanto nelle grandi città e capitali
europee, ma giunge anche nel cuore della provincia, seppur con effetti contenuti, spazzando i
residui del “vecchio” e le scorie del “nuovo”.
6. Una città oligarchica, per definizione, non è una città libera
Un anelito concreto di autodeterminazione e di civico coraggio, Lanciano lo ha manifestato
in occasione della tragica esperienza del nazi-fascismo, combattuto da autoctoni eroi, non a
caso figli del popolo, quando, per un impulso pre-politico, etico (11), si ribellarono, insorgendo,
a costo della vita. Per l’anelito alla “libertà” di alcuni coraggiosi e pugnaci, dunque, Lanciano
è città medaglia d’oro al valore militare. Questa la “motivazione” dell’attribuzione: Forte
città dell’Abruzzo di nobili tradizioni patriottiche e guerriere, insofferente di servaggio,
11
Non sembri dissacrante – in questa sede – far riferimento ad un originale, quanto istruttivo testo “R/esistenze lesbiche
nell’Europa nazifascista” a cura di Paola Guazzo, Ines Rieder, Vincenza Scuderi, Ombre Corte, Verona, 2010, del quale si
propone un brano: In un contesto in cui la ricerca storica europea appare ancora fortemente condizionata da istanze maschi-
li-bianche e le reti accademiche non sembrano certo distinguersi nell’investire sensibilità ed energie sulla storia dei soggetti
“altri”, quali le lesbiche sono indubbiamente, i lavori qui presentati assumono sicuramente una rilevanza particolare nel
panorama storiografico. Frutto di un lavoro corale sulle poche fonti e testimonianze di cui ancora si dispone, il volume si
avvale dei contributi di alcune note storiche del lesbismo che si occupano di esistenze e resistenze lesbiche nell’Europa
dei nazifascismi, includendo anche il franchismo spagnolo. La barra che si è scelto di apporre su “r/esistenze” sta infatti
a indicare come per le lesbiche la stessa esistenza possa essere considerata una forma di resistenza (all’eterosessualità
obbligatoria, alla cancellazione di sé e delle proprie passioni), ancor più in periodi di forzata “normalizzazione” di tutte
le donne come furono quelli dei fascismi europei del Novecento. Nel volume vengono inoltre affrontate anche le questioni,
spesso rimosse, relative alla “zona grigia” della sopravvivenza durante l’internamento e ai rapporti fra “asociali” e “po-
litiche” nei Lager.

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reagiva ai soprusi della soldataglia tedesca con l’azione armata dei suoi figli migliori.
L’intera popolazione, costretta ad assistere in piazza al martirio di un concittadino, valoroso
combattente legato ad un albero, accecato e trucidato per ammonimento ai civili, sorgeva
in armi. Combattevano i cittadini per molte ore, subendo perdite ed infliggendone di ben più
gravi e, per avere ragione della resistenza, il nemico doveva impegnare numerosi battaglioni,
mezzi corazzati, artiglierie. Esempio di civiltà al barbaro invasore che trucidava i colpiti, gli
abitanti curavano con cristiana pietà i nemici feriti. Sottoposta prima ad atroci rappresaglie,
poi alle dure azioni di fuoco degli alleati, infine ai massicci bombardamenti de tedeschi, la città
di Lanciano, presa nella linea del fuoco, subiva radicali distruzioni mentre più di 500 abitanti
perdevano la vita. Per nove mesi di dure prove la popolazione di Lanciano forniva valorosi
combattenti per la Lotta di Liberazione, sosteneva la Resistenza, dava tutta nobile esempio di
patriottismo e fierezza. Lanciano, 5 ottobre 1943 - giugno 1944 (12). É da quell’esempio (13),
glorificato nell’era Repubblicana della vita dello Stato, che bisogna ripartire per pensare a
Lanciano come ad una città autenticamente libera, perché sa reagire ai soprusi, combattere
per l’affermazione della civiltà, in grado di soffrire comunitariamente e collaborare alla sua
rinascita. La rilevante tradizione di autonomia e libertà di cui il Comune è depositario, insignito
della medaglia d’oro al valore militare, e il peso storico di quelle gesta inusitate per un popolo
fiero, ma bonario, sempre disponibile al perdono o, perlomeno, alla “composizione di conflitti”,
si sono purtroppo tradotti in un’egemonia economico-sociale, tanto unilaterale quanto frenante
lo sviluppo non solo “materiale”, di ampiezza socialmente pressoché illimitata, considerata
la “mentalità” detenuta dalle stesse culture politiche che al “sistema” democristiano delle
“raccomandazioni” si sarebbero dovute in modo antagonistico opporre. La mentalità intrisa
d’egoismo e rapacità – pensiamo a chi, sul finire della tragedia bellica, si è arricchito con
la “borsa nera” e nella prima “ricostruzione” della città si è inventato commerciante e, poi,
“imprenditore” - che si cela nella “rappresentanza” degli interessi collettivi ha influito ed
influenza ancora l’organizzazione delle relazioni degli aggregati sociali minori con la stessa
macchina amministrativa. A questo proposito, si pensi alla gestione del sistema di Welfare
locale, dalla sanità, all’istruzione, dall’ambiente, ai servizi socio-assistenziali alla persona, dal
patrimonio immobiliare pubblico, alle “politiche culturali” ed alla valorizzazione della rete
associazionistica, del volontariato e della cooperazione sociale. La nociva influenza del ceto
politico-amministrativo nella relazione cittadini-istituzione comunale, ha costituito ghiotta
occasione di sperequazione e disuguaglianze sociali, delle quali si avverte come cappa di
piombo tutta la derivazione storica e politica della zona, addirittura sancendo elezione dopo
elezione del Consiglio comunale, una distanza, un’estraneità forse non più superabile senza
una soluzione di continuità.
Lo Stato italiano, nonostante forti opposizioni iniziali, si delinea come uno Stato fortemente
decentrato (altro che il “federalismo municipale” dei nostri giorni concepito solo per ragioni
di “cassa”) nel senso che, tendenzialmente, esso riconosce agli enti locali minori una certa
autonomia amministrativa nella gestione degli interessi comuni; è con la Legge 20.03.1865 che
si estende a tutto lo Stato il “sistema amministrativo decentrato” proprio del Regno di Sardegna;
concetto fondamentale di tale sistema è quello di “autarchia”, gestire in proprio un’attività
che ha gli stessi caratteri e gli stessi effetti dell’attività amministrativa statale. Ebbene, dalla
Liberazione dal nazi-fascismo ad oggi, questo processo di efficace decentramento e la correlata
espressione di autonomia della comunità locale lancianese, da chi ha avuto la responsabilità di
12
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 220 del 22 settembre 1952.
13
Per un approfondimento conoscitivo, consiglio l’arricchente lettura de IL FASCISMO LA GUERRA LA RIVOLTA. LAN-
CIANO 1920-1945, Gianni Orecchioni, Casa editrice Ricco Carabba, Lanciano, 2011.

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governare sono state frustrate. A tal punto alienate, da recepire in toto quanto già il Fascismo
fece vuotando di qualsiasi contenuto il concetto di “autonomia locale”, togliendo ai Comuni
anche le forme di autogoverno di cui godevano e facendone delle appendici periferiche statali
rette da funzionari governativi. Pur se alla caduta del Fascismo si restituì alle comunità locali
il diritto di eleggere direttamente i propri amministratori, questi stessi sono stati – nei fatti – i
prosecutori dello svuotamento civile della comunità frentana, svuotamento effettuato dal
didentro delle Istituzioni repubblicane, spacciandosi per paladini degli interessi locali, ma in
realtà agendo da intermediari con i poteri romani ed accreditandosi come veri e propri vassalli
del “partito – regime” - la Democrazia Cristiana. Tale andazzo ha plasmato tutto il “personale
politico” che a quella “scuola” si è formato: dai “socialisti” che hanno gestito importanti deleghe
nelle rare esperienze di “centro-sinistra” locale, ai neofascisti che hanno addirittura avuto la
“fortuna” d’eleggere un Sindaco e, ad oggi, sono presenti nella Giunta di “centro-destra” in
scadenza di mandato. L’immobilismo di tali ultime sprovvedute compagini ha rasentato i
“fasti” delle plurime esperienze della famiglia D’Amico, per una analoga gestione conveniente
del consenso e dei fatti sociali, del sistema tributario e dei controlli, dell’accesso all’istruzione
e al lavoro, drammaticamente dimentichi dei diritti popolari sanciti dalla Costituzione. Questa
peculiare gestione del “potere” ha soffocato un decentramento amministrativo che avrebbe
potuto armoniosamente enuclearsi nel tempo in un “sistema” di partecipazione e di condivisione
delle sorti municipali. Gli “interessi territorialmente e socialmente vasti” coincisero
allora e coincidono oggi con “interessi politicamente ristretti”. La descritta distonia ha
permesso a pochi di protendere le “mani sulla città” mettendo a frutto decisioni concernenti
i “piani regolatori” e, annualmente, il “bilancio di previsione”. Questa a me pare l’origine
della fisionomia di un’inevitabile mutazione storica che ha alienato i cittadini lancianesi della
possibilità di autogovernarsi come saprebbero ben fare. Senza tutor politico interessato.
È vero che gli organi istituzionali del Comune (Consiglio comunale, Sindaco e Giunta)
sono generati direttamente o meno dall’elezione popolare; tuttavia, è altrettanto fondato che
l’organo deliberativo e rappresentativo della comunità è il Consiglio comunale; come tale,
decide su tutte le materie per le quali è riconosciuta autonomia di gestione all’Ente comunale;
in particolare, sull’organizzazione del Comune, amministrazione e gestione finanziaria,
istituzione di pubblici servizi e regolamenti nei settori nei quali è riconosciuta al Comune
potestà normativa. È nel Consiglio comunale, quindi, che risiede l’elaborazione delle politiche
attivabili per migliorare in progress le condizioni di vita dei cittadini residenti. Il Sindaco
e la “sua” Giunta sono organi esecutivi e rappresentano, nelle funzioni proprie, la comunità
locale, sono persone dedite pro-tempore alla buona amministrazione, esercitando lo spirito
di servizio correlando sviluppo civile con l’aumento del benessere cittadino. Le condizioni
sociali poiché si realizzi l’utopia istituzionale (“democrazia”) descritta brevemente, sono di
fatto impossibilitate a realizzarsi perché mai è stata oggettivamente superata una gerarchia
politico-antropologica che ha consegnato ad una struttura complessiva di ceti “dominanti” le
sorti cittadine. Tale struttura è usualmente rigenerata anche attraverso la cooptazione dei suoi
membri, generazione dopo generazione, risultando cristallizzata nelle sue forme e rigida dal
punto di vista della “mobilità” nella rappresentanza degli interessi generali della popolazione.
Un popolo senza voce, là dove serve farsi sentire (ad esempio, nel Consiglio comunale), non
è un popolo libero. Chiediamoci secondo quali modalità effettive si giunge ad essere eletti in
Consiglio comunale (non importa la collocazione politico-partitica, sia essa nelle file della
“maggioranza” di centro-destra o in quelle dell’opposizione), monitoriamo i comportamenti
dei candidati, prima, ed eletti dopo; scopriremmo, ahimè, che la “democrazia” a Lanciano è
stata ibernata.

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Quell’unità sociale che fa di un gruppo indistinto di individui una vera e propria “comunità”
nella quale essi cooperano per soddisfare i bisogni della vita economica, sociale e culturale
comunitaria, non ha trovato modo a Lanciano di evolvere da una originaria dimensione
familistica e parentale. Spesso, la “dimensione” in oggetto, sul versante della “politica” ha
assunto le sembianze da clan, orda, banda, tribù, nelle fattezze esteriori (nei classici compunti
doppiopetti adornati da cravatte doverosamente ostentate) in sintonia con i “tempi”, ma altrimenti
dedite avidamente a confermare storicamente il predominio di persone privilegiate negando
all’universo sociale, esteso all’intera comunità frentana, una vera, irreversibile emancipazione
civile, adeguatamente sedimentata nelle coscienze individuali. Quella fisionomia di “società
globale”, quella ricchezza di vita altrove lasciata affermarsi, qui non trova ancora, come le
acque carsiche, forza e occasione per emergere, lasciando sul terreno del presente, presidiato da
anacronistici notabili, quell’idea dell’autosufficienza (un tempo, denominata “autarchia”) che
avvelena il senso civico, o dell’isolamento, che preludono al declino, tutt’altro che una sana
idea di “sviluppo” concertato e condiviso. La cogente situazione getta una lugubre ombra sul
futuro. Come nelle “società primitive”, nel terzo millennio a Lanciano la comunità è costretta
all’isolamento da parte di potentati che, piegando la macchina amministrativa al tornaconto
individuale e/o tribale, coltivano rapporti profittevoli commerciali inerenti beni e servizi.
Lo sviluppo non pianificato, il caos urbanistico, la gestione delle politiche sociali riguardo
all’integrazione ed eguaglianza sociale, la minaccia permanente di retrocedere economicamente
ancor di più, l’incapacità progettuale, sono sotto gli occhi di tutti e si dimostrano ispirati
scientemente ad interessi “sovrafunzionali” di pochi (14); interessi che hanno cioè un’esistenza
relativamente indipendente dalle esigenze di tutte le persone che abitano Lanciano. Tensioni e
conflitti per una perduta esaustiva socializzazione democratica sono, come altrove, alle porte.
7. La rivolta delle tabacchine e l’inizio del declino
Quando il Sessantotto assediò Lanciano, scuotendo la supponenza dei detentori del potere
costituito, ero ancora adolescente, poco più che un ragazzino, e frequentavo la prima classe di
un istituto superiore. Ricordo che l’esuberanza giovanile si tramutò in protesta, malcontento,
rifiuto e ne fui immediatamente e fatalmente contagiato per una sorta di inspiegabile interesse.
Forse non ero pienamente consapevole del mio ruolo di compartecipe, di quella complicità
esclusiva e incondizionata che avevo implicitamente dichiarato a me stesso, ma l’istinto e
la ragione adolescenziali, mi spingevano a condividere quello “strano” e inopinato desiderio
di protesta che saliva dai bassifondi della società e si affermava come un’idea nuova troppo
tempo tenuta a freno da un pervasivo e becero conservatorismo. Il movimento studentesco
divenne protagonista di quel periodo memorabile e i cortei di protesta s’incrociavano nelle vie
della città, inneggiando al cambiamento, alla messa al bando dei politicanti, al rilancio della
cultura e dei valori etici della politica, all’integrazione sociale e al rispetto della dignità umana
e dei diritti civili, al rinnovamento nel segno della emancipazione sociale e della definitiva
affermazione della cultura. Peccato che anche quel moto spontaneo di giovanile ascendenza,
che anelava al fervidamente al cambiamento, fu contagiato dalla putredine della politica
facendolo degenerare inesorabilmente.
Fu nella primavera di quell’anno che Lanciano salì al centro della cronaca nazionale.
Lo fece quando gli scioperi degli studenti, classificati indecenti e futili dal solito fronte dei
benpensanti, s’intrecciò con la storica protesta delle milletrecento “tabacchine” lancianesi
accumunate da un’unica, triste sorte: il licenziamento in blocco. La città esplose come un
ordigno ad orologeria, rivelando al mondo una condizione di arretratezza di cui la politica e
14
Per utile approfondimento, si propone la lettura di “Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti
della governance” di Antonio Negri, volume curato da Giuseppe Allegri, Ombre Corte, 2010.

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i potentati dei principali partiti erano responsabili. Lanciano era l’avamposto di un processo
involutivo in cui permanevano i retaggi di un passato arcaico e bizantino, mentre il mondo si
evolveva a velocità cosmica. Già a quei tempi, la politica aveva colonizzato l’esistenza dei
cittadini inducendoli a subire la storia anziché esserne protagonisti e partecipi. All’improvviso
un sussulto, un imprevisto atto di ribellione scosse la placida calma che imprigionava la città in
quegli anni ormai lontani, riportando alla luce un antico senso di responsabilità che sembrava
dissolto nelle nebbie della storia e nei meandri di epoche oscure e remote. Lanciano si sveglia,
scrollandosi di dosso la patina inibitrice e paralizzante del provincialismo. I palazzi del potere
e i loro inquilini tremano di fronte a tanto coraggio che le tabacchine manifestano raccogliendo
l’appoggio e il sostegno del movimento studentesco. E’ un momento socialmente esaltante
anche perché, soltanto pochi anni prima, la città aveva vissuto un altro glorioso avvenimento
che ne aveva consacrato il nome nella storia della libertà contro l’invasore teutonico. Il
presidente della Repubblica, Luigi Einaudi le rese gli onori più alti, recandosi egli a Lanciano
per appuntare una medaglia d’oro al valor civile sul gonfalone municipale, simbolo della
saldezza e della comunità cittadina. Lanciano torna alla gloria, sembra rinverdire i fasti di un
leggendario passato. Ma il clamore di quegli anni svanisce nel vortice del tempo perduto e di
esso resta soltanto la memoria storica. Quegli anni sono la sintesi di una rinascita strangolata da
un inarrestabile decadimento che perdura da oltre quarant’anni e che ha ridotto Lanciano ad un
riflesso olografico, incolore e anonimo. Dopo di allora, la città si è genuflessa alla vanagloria di
falsi dioscuri senza nome né coscienza; si è rassegnata alla volontà di una classe politica mai
all’altezza della situazione, incapace di forgiare il proprio pensiero sul profilo concreto dei fatti,
di distinguersi solo per inclinazioni negative quali l’inettitudine, l’indifferenza, l’incapacità,
l’estraneità, il marcato senso di irresponsabilità al cospetto di un sempre più complesso quadro
storico.
8. Commercio e vita cittadina
Una certa conoscenza della città, ammette presto che i dati puramente numerici, per
quanto necessari, non bastano a caratterizzare il fenomeno “città”. Quando si guarda una città,
ovviamente, ciò che salta subito agli occhi è il fenomeno d’agglomerazione di abitanti; piuttosto
essenziale per “identificare” un contesto urbano cittadino, sono lo stile particolare di vita ed i
caratteri sociali specifici. Questo approccio conoscitivo alla città consente di affermare che è la
“cultura”, nata con la città, coessenziale alla sua natura di entità viva, che tratteggia la qualità
della vita in quella specifica realtà urbana. La provenienza dei residenti, la concentrazione e
densità della popolazione, l’origine, l’orientamento funzionale, la precaria industrializzazione
o i mutamenti nella struttura professionale della comunità urbana, il “sistema di mobilità”,
il comfort (dalla nettezza urbana, ai servizi igienici, alla tutela e valorizzazione del “verde”
pubblico e dei beni artistico-architettonici) definiscono il concreto modus vivendi della comunità.
Ebbene, l’insieme dei rapporti sociali a Lanciano risulta contraddistinto dall’“anomicità”, dalla
sopravvivenza di antiche vestigia che nessuna attrattiva sembrano esercitare nei riguardi di
menti lucide, dalla mortificazione delle competenze indipendenti e dalla segregazione per chi è
fuori dai circuiti che contano; tutto ciò è rilevabile sempre più nelle linee d’ampliamento della
città che si presentano agli estremi con quartieri signorili che fronteggiano abitati assimilabili
se non agli slums, certamente percepiti come la banlieue (dallo storica esperienza del “villaggio
I.N.A. Case” all’insediamento abitativo della “zona 167”) disperdendo la risorsa “vicinato” che
ha svolto un ruolo eccezionale nel modellare armoniosamente la vita comunitaria e contribuendo
ad un impercettibile, ma reale esodo verso Comuni limitrofi ingenerando movimenti pendolari
di popolazione – con il portato di “apatia politica” dovuta a sradicamento comunitario, perdita
di “radici” - a suo tempo “accolta” dal capoluogo frentano. In compenso, poche centinaia di

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metri separano due imponenti Centri commerciali, a loro volta distanti pochi chilometri verso il
mare da altri consimili nefasti “non luoghi” (15); in questo senso, Lanciano è ben introdotta nella
dimensione globale della storia urbanistica recente, come Pechino con le “imprese-mondo” e,
segnatamente, Mc Donald’s, presenti in piazza Tien’anmen. Va qui rammentata l’idea di “luogo”
che possiede tre caratteristiche: è identitario e cioè tale da contrassegnare l’identità di chi ci
abita; è relazionale nel senso che individua i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una
loro comune appartenenza; è storico perché rammenta all’individuo le proprie radici (Luigi
Prestinenza Puglisi). Anche a Lanciano, viceversa, circa i “non luoghi” di tal fatta, nell’ambito
della definizione delle scelte riguardanti le politiche di offerta di spazi per le attività produttive
e commerciali, una specifica attenzione è stata dedicata alla “modernizzazione”, ma è stata
intesa come prioritario sviluppo di una rete commerciale neotayloristica al dettaglio, come
catena di montaggio del consumo. I rapporti concorrenziali fra grandi e piccole superfici di
vendita, la crescente deregolamentazione delle attività commerciali, gli adattamenti imposti
al commercio al dettaglio da mutamenti sociodemografici dei moderni sistemi urbani (la
terziarizzazione dei quartieri centrali, le quote crescenti di city users che intrattengono con
la città un rapporto meramente funzionale senza risiedervi, i fenomeni di invecchiamento
demografico, i nuovi immigrati, l’uso generalizzato dei mezzi privati di trasporto, i problemi
di congestione che ne derivano, ecc.), tutto questo insieme di fattori costringe a riesaminare in
che modo il commercio è cambiato negli ultimi anni, sia in termini quantitativi, sia in termini
qualitativi, a tal punto da diventare cifra dell’esistenza individuale e collettiva. Dal breackfast
alla cena anche il tempo di vita dei lancianesi può essere scandito nei Centri commerciali.
Chi non si incontra al Centro commerciale è “out”, esattamente come chi non “naviga” nel
mare magnum di InterNet, la rete telematica che di “policentrico” ha ben poco, nonostante
le allusioni e suggestioni tecniche che porta seco. Qualcuno dovrà, prima o poi verificare
l’accaduto. Vanno previste due indagini specifiche: un confronto intertemporale fra la rete
distributiva all’inizio degli anni ‘90 e quella ad oggi, finalizzato ad accertare in che modo si
sono modificate la consistenza, la specializzazione e la localizzazione delle attività commerciali;
un’indagine relativa ai titolari (ed ex) degli esercizi commerciali, intesa a rilevare una serie di
aspetti quanti-qualitativi attraverso le opinioni raccolte per far emergere disagi, fuoriuscita
dal “mercato”, impoverimento. Il quadro estremamente aggiornato sul settore delle attività
commerciali relativo non soltanto ai suoi aspetti strutturali (e quindi alle variazioni intercorse
della sua consistenza complessiva, della sua composizione per categorie merceologiche, e della
sua distribuzione spaziale), ma anche ad alcuni elementi di tipo qualitativo sul piano degli stili
di vita, della “mentalità”, dell’organizzazione del “consenso”, non sono certo meno rilevanti
per la determinazione dell’assetto reale della città, del suo “disegno”, del suo “progetto”, del
suo “futuro” vivibile.
È pur vero che i fattori che gli operatori commerciali ed i lavoratori del terziario, in
particolare, percepiscono di volta in volta come opportunità (sostanzialmente come profitti
e reddito), offuscano la minaccia per la qualità della vita individuale e collettiva ispirata al
consumo. Si pensa alla governance solo in termini di elementi infrastrutturali ritenuti capaci
di attrarre maggiore clientela; di condizioni più idonee per il rilancio e la riqualificazione
del commercio tout court; di politiche urbane che riscuotono maggiore consenso presso gli
operatori: i parcheggi; di occasioni che più possono agevolare lo sviluppo delle aziende dedite
alle attività di vendita, piuttosto che alla produzione manifatturiera compatibile ambientalmente;
15
Marc Augé, etnologo francese, nei suoi percorsi di antropologia del quotidiano definisce “non luoghi”, quegli spazi ano-
nimi (supermercati, aeroporti) dove ogni individuo è un «codice sostituibile» (Nonluoghi: Introduzione ad una antropologia
della surmodernità, 1992, tr.it. Milano, Eleuthera 1993; Augé è ben citato in M. Magatti, La globalizzazione non è un desti-
no. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell’età contemporanea).

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di previsioni non entusiasmanti riguardo all’avvenire del commercio al dettaglio nella Lanciano
di domani. Del resto, dall’alto pulpito del Ministero dell’Economia giunge solo l’input
“liberista” che considera negativi i “troppi controlli sulle imprese” e sollecita l’“interruzione
dell’oppressione fiscale”.
Esaminando i caratteri della distribuzione delle attività commerciali, emerge che i due
decenni appena trascorsi hanno avuto un andamento contraddittorio. Negli anni ‘80 le attività
commerciali si sono sensibilmente accresciute; probabilmente non è infondato ritenere che
la crisi dell’impresa manifatturiera negli anni ‘80 abbia trovato nel commercio una valida
camera di compensazione. Negli anni ‘90, tuttavia, il settore commerciale denuncia un vistoso
ripiegamento, a cui sfugge solamente il commercio all’ingrosso. Ecco, il commercio all’ingrosso
diviene il “modello”. La riduzione in valore assoluto delle attività commerciali interessa tutte le
zone urbane del comprensorio, mentre in controtendenza, registra un aumento di penetrazione
territoriale ed estensione del business delle major, società di produzione merci implementate
da surplus finanziari di alcuni Istituti di credito e da una corte dei miracoli di professionalità
inerenti il marketing (16). Il processo di contrazione tuttavia non si è svolto in modo uniforme.
La sopravvivenza, seppur periferica e/o marginale rispetto al core business, nell’edificazione in
loco del sistema di “grande distribuzione” con il suo tipico indotto, di piccole imprese d’attività
artigianali e commerciali, è in parte tuttora constatabile. Ciò sembra preludere, seppure con
timidezza, alla formazione di una struttura insediativa lineare delle attività commerciali,
depauperando i percorsi “tradizionali” o “storici” del commercio lancianese. Bisogna chiedersi
con serietà: chi, oggi, costituisce il vero e proprio quartiere commerciale centrale della città
? Corso Trento e Trieste e via limitrofe resistono ancora allettando i cittadini con i famosi
aperativivi-brunch dei suoi numerosi bar. Di fatto, il quadro che emerge dalle modificazioni
intervenute negli ultimi anni può essere così sinteticamente riassunto: il sistema delle attività
commerciali non ha dato luogo ad alcuna forma di specializzazione per quartieri; in ogni zona
urbana è presente un mix dei settori merceologici in una caotica articolazione; nel decennio
considerato la concentrazione spaziale delle attività commerciali rimane sostanzialmente
immutata, nonostante la lenta crescita demografica, opzionando indirettamente aree per gli
insediamenti dei grandi Centri commerciali; le trasformazioni in corso tendono ad accentuare
i caratteri di debolezza delle aree storiche, mentre la zona centrale, nonostante il calo in valore
assoluto, rimane l’unica vera polarità cittadina per lo “struscio” e gli aperitivi.
9. Interessi territorialmente e socialmente vasti e interessi politicamente ristretti
Questa città è diventata estranea a se stessa. Le strade, presidiate da vigili a volte altezzosi e
non sempre all’altezza della relazione comunicativa con i cittadini, non sono più “dimora della
collettività” e lo stesso labirinto in itinere che diviene, anno dopo anno, è immagine stessa dello
spaesamento urbano. Nell’’aggirarsi senza metà del flâneur si ritrova il rifiuto del modello di
una città indifferente ? Certo è che Lanciano sembra aspirare a diventare la città degli shopping
center, delle strade che diventano spazi di negazione della socializzazione, una sorta di gran
pollaio – o un “Grande fratello” a cielo aperto - oltre la rete del quale non si è più in grado di
pensare ad un universo relazionale possibilmente diverso. La città, moderna nelle sembianze,
viene a caratterizzarsi, così, come luogo di silenzio comunicativo, oltre che di fragilità
occultate, di drammi ignorati e di conflitti frustrati. A Lanciano i cittadini devono mettere alla
prova la propria capacità di dialogare tra loro e costruire relazioni, oltre che di osservare ed
imparare, imitandosi a vicenda. In definitiva, è il “potere costituito” – in tutte le sue espressioni

16
Per un adeguato approfondimento, confrontare quanto affermato dall’autore di questo pamphlet con i contenuti speciali-
stici presenti nel capitolo “L’impresa lean, le filiere e l’outsourcing” del volume Capitalismo e globalizzazione, Nerio Nesi
e Ivan Cicconi, KOINè Nuove Edizioni, 2002.

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economico-politiche e culturali - che narra, legge ed interpreta la città e la comunità che la
abita. La comunità frentana (l’insieme polifonico dei cittadini residenti), oggi, è priva della
sua propria voce. Dalla lettura della realtà cittadina, dalla memoria che di se stessa è in grado
di conservare, si può comprendere la necessità di riappropriarsene come “luogo”, ri-pensarla e
ri-abitarla come spazio di progettazione culturale; ciò significa promuovere con esempi e prassi
comportamentali una nuova idea della cittadinanza che implica l’abilità di costruire “vita”,
ma anche di prendere le misure al mondo, di riposizionare i luoghi del quotidiano e, al tempo
stesso, ascoltare le esigenze collettive, popolari fin’ora mortificate. Si deve, allora, pensare la
città come organismo a quattro elementi composto dallo sguardo che la osserva, l’animo che
la vive e il testo che la narra, il corpo che la gode.
Il ridimensionamento in termini assoluti del potenziale, per così dire, creativo delle attività
artigianali e commerciali lancianesi è avvenuto all’insegna di un rimescolamento profondo
delle attività di vendita: alle tante attività soppresse corrispondono un gran numero di attività
che sono subentrate in un turn over di dimensioni schizofreniche – come chi non sa più che
strada prendere per tornare a casa - per la scala della città in evidente stallo progettuale.
Il commercio di cui Lanciano è potuta andar fiera nei secoli (si “narra” ancora “dell’umana
gente Le magnifiche sorti e progressive” della città del Miracolo, della musica e delle fiere.
“Le “Nundinae” romane si svolgevano nei primi nove mesi dell’anno in onore di Apollo sul
Colle della Selva dove sorgeva il Tempio dedicato alla divinità pagana. A partire dal III secolo
le Fiere vengono trasferite nel pianoro demaniale all’esterno dell’abitato. Qui, dopo le tristi
vicende del periodo Altomedievale, le Fiere si sviluppano sempre più raggiungendo il massimo
splendore nel XV secolo. Benedetto Croce nel narrare un episodio di Storia Medievale, la
rivolta contro Filippo di Fiandra del 25 Settembre 1302, così scrive di Lanciano: “operosa di
industrie e di commerci, rinomata per le sue lane, sete, tele, reti e cordami, famosa per le sue
Fiere antichissime dove traeva gran gente di lontano, popolosa di artigiani coi loro diritti e
privilegi”. Nelle due principali Fiere che si tenevano in giugno e settembre si incontravano
mercanti di tutto il mondo conosciuto. Intensi gli scambi con Venezia e con i maggiori centri
dell’altra sponda dell’Adriatico tra cui Ragusa. Un editto di Ferdinando di Aragona del 1515
stabiliva che «i mercanti di qualunque nazione e religione, cristiana, turca, giudea, infedele,
sarebbe nelle Fiere - di Lanciano - salvi e sicuri per 15 giorni prima del loro inizio e per tutto
il tempo di loro durata». Un apposito Magistrato, il “Mastrogiurato”, aveva la giurisdizione
amministrativa e il controllo sul regolare svolgimento delle Fiere: amministrava la giustizia e
provvedeva alla “pace di Fiera” 17) non è più quindi una realtà viva, in cui possono inserirsi e
cimentarsi nuovi attori, non sono più espresse indubitabili energie di investimento e innovazione,
in presenza di un “mercato” saturo di opportunità variamente convenienti e di una clientela di
riferimento avente un profilo, tutto sommato, tradizionale: i nuclei famigliari del circondario e
di un esiguo numero di city users (prevalentemente, studenti).
Il settore commerciale avrebbe, pertanto, tutto da guadagnare da un attento dosaggio fra
politiche volte a tutelare la vocazione dell’abitare che sta alla radice del fenomeno urbano e
politiche della mixité, termine con il quale si intende il complesso delle funzioni (residenziali,
produttive, terziarie, ricreative) che dovrebbero caratterizzare – storicamente – le città di tale
densità demografica e posizione geografica. Le politiche messe in campo dalle compagini che
hanno guidato l’Amministrazione comunale, non hanno attivato circuiti virtuosi di sviluppo
ed innovazione, limitandosi a favorire lobby e consorterie, mungendo – in talune eclatanti
situazioni, ad esempio il trasporto pubblico - la “mucca pubblica” (essenzialmente, la Regione
Abruzzo), mai capaci di promuovere un’azione congiunta fra istituzioni, associazioni di
17
Fonte: http://www.comune.lanciano.chieti.it:8080/entra/Engine/RAServePG.php/P/27901LAN0100/M/27751LAN0728.

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categoria e operatori più sensibili e preparati. A Lanciano, si registra il primato della miope
“strategia di prodotto” (ossia ispirata alla competizione individuale) rispetto alla lungimirante
“strategia di ambiente” (ossia ispirata alle logiche di cooperazione e del “fare sistema”).
Le caratteristiche di una “rete” produttiva di beni e servizi e commerciale e l’importanza
della creazione di forme di aggregazione istituzionale, sociale ed imprenditoriale dei
commerci, sposta l’attenzione del decisore pubblico dagli aspetti puramente quantitativi
(quali, ad esempio, la definizione di superfici massime o di tipologie di attività compatibili) ad
aspetti qualitativi che, come sempre, sono affidati ad una combinazione di regole e iniziative
che corrispondono meglio alle esigenze dei cittadini residenti i quali – mediante procedure di
partecipazione effettiva, ad esempio le “istruttorie pubbliche” - disegnano il profilo della
città, a sua volta configurato sulle salienti caratteristiche economico-sociali di chi in quella
città vive ed opera.
10. La città dove si vendeva il giudizio
Ma dove è finita la rinomata città dove si vendeva il giudizio? Un tempo, questa era un’altra
inconsueta (e curiosa) virtù attribuita a Lanciano, che accentuava la sua straordinaria versatilità,
conferendole un fascino plateale e vantaggi, diciamo così, estemporanei, assieme a tutte le sue
altre prerogative reali affermate dalla storia. Favola o leggenda, motto o sentenza che sia, la
nomea di essere una città giudiziosa al punto da permettersi il lusso di vendere ad altri parte del
suo prezioso privilegio, è la metafora che racchiude un alto significato che travalica la ragione
e suscita una sorta di rimpianto inesprimibile a parole. Il declino di cui la città è stata resa
oggetto negli ultimi quaranta anni, induce a pensare che la saggezza del passato, cui rimanda il
suggestivo aneddoto popolare, che costituiva un patrimonio di valore inestimabile, sia stata
svenduta in blocco ad un ignoto acquirente e che la città ne sia rimasta priva. La perdita del
giudizio ha reso la città irriconoscibile, depauperata di valori e testimonianze, di cultura e
saggezza e del più autentico desiderio di adoperarsi per il bene della comunità. E’ questo l’unico
dato oggettivo, seppur contornato da risvolti bizzarri, che possa giustificare la sua inarrestabile
caduta di prestigio e di presenza storica in ogni contesto. L’assennatezza di cui Lanciano e i
lancianesi erano detentori, fu oggetto di interessi e attenzioni reali perché al di là dell’aspetto
popolaresco e folkloristico, lasciava aperto uno spiraglio nella mente che inglobava una
recondita speranza; faceva oscillare il pensiero tra l’incredulità e l’ultima remota possibilità.
Come dire: e se fosse vero che nella città delle fiera, descritta da Leandro Alberti, nella sua
opera omonima (Descrizione) come: “un raduno di mercanti (provenienti) quasi da ogni parte
d’Italia, Schiavonia, Sicilia, Grecia, Asia e altre nationi” ci fosse tale abbondanza di giudizio
da poterne fare incetta? Tutti erano disposti a comprarne per servirsene nella realtà di quei
tempi! La singolare notizia si diffuse in ogni dove e raggiunse anche la campagna toscana,
dando perfino motivo ad alcuni di raggranellare un pingue gruzzolo per recarsi a Lanciano ad
acquistare il tanto desiderato giudizio. Non vogliamo mitizzare una storiella popolare come
quella della “vendita del giudizio” anche se la sua “bizzarria” (e infondatezza) sottende elementi
di una saggezza adamantina che deve far riflettere; non intendiamo attribuirle il valore che non
merita, ma semplicemente quello che è: un surrogato di cultura popolare dal quale prendere ciò
che buono e utile scaturisce. Intendiamo menzionarla come allegoria, per sottolineare il quadro
odierno di una città che appare svuotata di tutte le sue principali qualità, delle sue prerogative,
perfino della sua identità, dilapidata come un patrimonio in mano ad un manipolo di sprezzanti
e dissoluti avventori. Da che mondo è mondo, di un posto, di una persona, di una comunità si
è sempre detto quello che più risaltava, in positivo o negativo, divenendo gradualmente di
dominio pubblico. Di Lanciano un tempo si diceva che era la città dei frija Christe, di cui
abbiamo brevemente parlato in un precedente paragrafo, con chiara accezione ipocoristica

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negativa. Presumiamo che la nomea di “città del giudizio”, (o comunque di città dove si vendeva
il giudizio) sia da riconnettere ad un momento storico in cui era giustificata dalla realtà, ovvero
dalla gente di tutte le classi sociali che viveva e lavorava a Lanciano, che aveva profondamente
a cuore le sorti della comunità; che sentiva il dovere di adoperarsi con disinteresse e impegno;
che non aveva nei meandri del cervello la propensione al sotterfugio e alla scaltrezza per
nascondere le proprie debolezze, le proprie magagne, i propri limiti; che amava la città di un
amore incondizionato mai svenevole e interessato. Ai nostri giorni, l’iconografia fantastica
della “città del giudizio” è un ologramma, un ricordo rimosso e sbiadito dal tempo che nessuno
ricorda né rimpiange. Lanciano odierna, non può essere neanche accostata alla città che godeva
di quella fantasiosa e antica virtù. E non potrebbe essere diversamente, perché il “giudizio” è
diventato merce rara, anzi rarissima, soprattutto nei cervelli contratti della cosiddetta “classe
politica” il cui principale cimento è di presenziare, di autocelebrarsi e di sentirsi riverita come
accadeva in tempi di un passato arcaico e remoto. Il giudizio non è più merce di scambio, né
oggetto di vanto semplicemente perché è stato soverchiato, oppresso e contaminato
dall’ignoranza e dall’avidità del potere, dalla tracotanza prevaricatrice della politica che ha
scavato un solco incolmabile tra le funzioni delle istituzioni pubbliche e il legittimo interesse
della comunità dei cittadini. Grazie alla compiacenza inconfessabile di eminenze grigie annidate
nelle maglie del “sistema” sociale, il processo di degrado e di svilimento della politica sembra
inarrestabile e così, accade che mentre Sansone muore, muoiano con lui tutti i Filistei. E’ una
lenta, inesorabile caduta nel vuoto, attuata con lucidità e calcolo, ed è triste per l’”uomo d’amore
e di libertà”, che vive costantemente l’ansia della speranza, che ascolta il silenzio cosmico,
rassegnarsi ad un così infimo stato di cose. Il “giudizio”, dunque, resta l’ingrediente di una
natura morta, di un paesaggio piatto e immoto, come è divenuta Lanciano negli ultimi decenni,
mentre il fervore degli ideali non trova luogo per sovvertire questo quadro desolante e
riaccendere la policromia dei colori. Nelle pieghe della realtà odierna, riusciamo a intravedere
le conseguenze di una normalità anomala, cioè gli effetti negativi e concatenati provocati dalle
aberrazioni della politica che resta sovrana illegittima nella gestione del potere e delle istituzioni
pubbliche senza averne titoli né capacità, a detrimento delle più elementari regole della
convivenza civile. Quando un’aspettativa che implica il bene comune è sistematicamente
ignorata o elusa, quando il dovere di amministrare nel rispetto di principi etici e legali è
subordinato ad altri scopi, quando le legislature trascorrono inutilmente senza che il quadro dei
servizi pubblici, dell’organizzazione sociale, degli interessi culturali, della partecipazione e
della condivisione progrediscano, significa che il futuro diventa incerto e disseminato di
interrogativi e l’avanzamento della storia diventa una mera successione di giorni vuoti e
insignificanti. Da alcuni decenni, Lanciano vive in questo triste e deleterio regime di monotonia,
e sembra pagare dazio ad un passato ricco di grande prestigio che ormai è solo un lontano
ricordo del quale sentirsene parte è un vezzo teatrale e nulla più. Quello che è stato non è più!
Forse non sarà mai più perché sono cambiati i tempi, perché la classe politica non ha né il
senso, né la misura né la statura di perseguire grandi traguardi: progetti ambiziosi, opere
pubbliche innovative, ricerca e conoscenza nel comparto dei bisogni primari dei cittadini,
promozione sistematica e dettagliata della cultura in un contesto di crescita e di emancipazione
reale. In effetti, per una svolta epocale occorrerebbe uno slancio vigoroso che soltanto la cultura
riesce a dare perché è l’unico “strumento” che presuppone la cognizione e l’universalità
dell’essere e del divenire, l’unico valore che semplifica i problemi e aiuta a trovare una soluzione
organica e conforme alle reali necessità dei cittadini. Ma anche la cultura come del resto tutte
le altre innumerevoli componenti immateriali del pensiero civile e dell’azione amministrativa
è stata imprigionata nel gioco perverso della politica utilitaristica, subendo un tracollo epocale.

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La cultura è diventata merce di scambio, oggetto di mire disdicevoli, sovvertendo la sua natura
primordiale di materia intangibile che riguarda e interessa soltanto il pensiero e la sfera
individuale. Un’amara constatazione che segna il limite posto dalla politica al processo di
emancipazione e di crescita civile, individuale e collettivo. La politica si è appropriata del
valore, diciamo, trascendente della cultura, della sua inestimabile utilità, riducendola a semplice
esercizio ispirato dal principio del do ut des inteso nella sua accezione più deleteria.
11. Anche a Lanciano il “globale” si intreccia con il “locale”
La crisi economica che ha imperversato in questi ultimi anni ha colpito profondamente i
soggetti più esposti e deboli. E non ci si può nascondere che la situazione è allarmante. In Europa
negli ultimi due anni i disoccupati hanno raggiunto i 23 milioni, il 10% della forza lavoro e il
PIL dell’Unione Europea è diminuito del 4% con un balzo a ritroso della produzione industriale
a livelli da primi anni novanta. Le stesse finanze pubbliche hanno subito un deterioramento che
ha vanificato il risanamento fatto negli ultimi 20 anni. È in crisi un modello ultraliberista, che si
è rivelato pericoloso e inconsistente. Inoltre, si è ridotta la quota dei salari sul valore aggiunto
ed è aumentata la distanza fra redditi da lavoro dipendente e redditi da capitale; in Italia, ad
esempio, i primi crescono del 6% i secondi del 44% e come se non bastasse aumenta l’indice
di povertà assoluta tra giovani e famiglie con figli dove un solo componente lavora. L’ISTAT
ed altri istituti come l’ISAE ci dicono che 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1200
euro mensili, che il 15% delle famiglie fa fatica ad arrivare alla fine del mese, che il 28% non
riesce a far fronte ad esigenze e spese impreviste, il 10%è in ritardo rispetto al pagamento
delle bollette, il 4% non ha fondi per spese alimentari, il 10% per i medicinali, il 16% per
l’abbigliamento.
Allungamento della vita, riduzione della povertà, diffusione dei servizi per l’infanzia,
contenimento dei tassi di abbandono scolastico, partecipazione femminile al lavoro, tassi
di occupazione, integrazione dei nuovi cittadini provenienti dall’estero, non sono un mero
elenco della spesa, ma traguardi da raggiungere faticosamente e ci fanno dire che per questa
terra il capitale sociale è un fondamentale fattore competitivo della nostra economia e al
contempo un importante fattore di coesione e cooperazione tra persone e soggetti sociali.
Se l’Amministrazione più vicina ai cittadino – il Comune – non se ne fa carico e continua
imperterrito a gestire anacronisticamente il “potere” - fallisce la sua mission specifica e
denuncia a chiare lettere la grettezza morale e intellettuale di chi ha ricevuto l’investitura a
governare non pro domo sua, bensì con “spirito di servizio”. Questo “spirito di servizio” è
lo spartiacque tra “buona” e “cattiva” amministrazione; nel contempo, contraddistingue il
ruolo insostituibile di politiche pubbliche quale strumento per affermare pienamente i
diritti sociali. Questa è in fondo l’idea di Welfare locale e comunitario che va sviluppata nel
capoluogo del Comprensorio del Sangro - Aventino: non il pubblico che si ritaglia un ruolo
marginale e residuale, ma un ruolo di governo dei servizi, che ha al centro la persona e i nuclei
famigliari, la presa in carico dei suoi bisogni, la costruzione, attraverso la rete dei servizi, delle
risposte più appropriate a far sì che nessuno si senta penalizzato e lasciato solo. Per Lanciano,
innovazione fuori dal monopolio dei “soliti noti” vuol dire impegnarsi nella costruzione di
un Welfare di comunità, equo e sostenibile nel tempo, incentrato sulla conciliazione tra vita
e lavoro, il benessere e la salute, che, attraverso il governo associato degli enti locali sa far
rete tra servizi pubblici e privato sociale, dove gruppi, nuclei famigliari, singoli, associazioni,
imprese no profit concorrono alla risposta ai bisogni di cura e sostegno. È la comunità che
pensa a se stessa e non delega ai “notabili” la prospettiva civile e le sorti future.
L’approccio all’amministrazione delle “cosa pubblica” anche in questa terra deve cambiare
radicalmente; a partire dall’idea di sviluppare un Welfare moderno che non solo “ripara”, ma

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promuove, sostiene le politiche demografiche, offre pari opportunità, costruisce integrazione,
investe sul futuro e si fonda sulla responsabilità dei singoli, dei nuclei famigliari, delle comunità,
dei territori, abbattendo i “costi” rappresentati per decenni da un ceto politico tanto avido
quanto parassitario. Un sistema sociale che tiene insieme politiche pubbliche, volontariato e
cooperazione sociale secondo un principio di sussidiarietà alla base di quel benessere diffuso
che prima è stato evocato. In questa terra non vanno divisi i produttori, non va diviso il mondo
del lavoro e dell’impresa di fronte alla crisi, ma va costruito un patto per attraversare la
crisi tenendo insieme tutti i gruppi sociali, garantendo occupazione nell’applicazione integrale
del dettato costituzionale circa la libera iniziativa economica privata, ma non in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art.
41 della Costituzione della Repubblica italiana), poiché è la legge a determinare “i programmi
e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata
e coordinata a fini sociali”; investendo in formazione e ruolo progettuale e di coordinamento
dell’ente locale. Poi, c’è un fattore di “sistema”. L’esperienza di questi anni ha confermato
che l’integrazione tra servizi sociali, sanitari ed educativi può avvenire unicamente con una
piena responsabilità delle Municipalità limitrofe nel governo del sistema di Welfare territoriale
abrogando ogni sterile campanilismo e nel costante confronto e concertazione tra Regione,
sistema delle autonomie locali e forze sociali. D’altronde anche qui, dove non ci sono elevati
standard qualitativi nell’erogazione dei servizi, fatto che ha caratterizzato Lanciano e l’intera
Frentania per la non competitività, si è impossibilitati nel confronto con realtà più avanzate
italiane e d’Europa: di fronte non abbiamo certo una situazione nuova, straordinaria, ma frutto
dei processi economici e finanziari di lungo periodo che non hanno avuto un’adeguata risposta
da parte degli Amministratori i quali hanno aggravato i danni con politiche ciniche e sbagliate
nei confronti della popolazione abdicando in modo scellerato al ruolo di gestori plurali
(democratici) delle risorse, scarse o meno, a disposizione.
Capire il contesto, è buona cosa per prendere coscienza del da farsi. Si dice che non si
aumentano le tasse, ma si mettono gli enti locali, già strozzati dal patto di stabilità, nella condizione
di dover chiedere di più, non per espandere i servizi ma per tentare di lasciare inalterato il loro
livello e spingendoli in modo forzoso e non per scelta alla ulteriore, antieconomica privatizzazione
di alcuni importanti servizi. Crisi economica e sociale, famiglie sempre più fragili e vulnerabili,
innalzamento dell’età della popolazione, immigrazione, cambiamenti demografici, nuove
povertà portano all’aumento della domanda di servizi a fronte di una riduzione drastica
delle risorse finanziarie disponibili. In questo pesante scenario, il rilancio ed il rafforzamento
dei sistemi di protezione e promozione sociale sono una priorità per concorrere a definire un
Welfare come motore di cittadinanza, coesione e sviluppo economico. Tutto questo dovrà
passare per scelte impegnative e difficili come la razionalizzazione delle spese, la definizione di
priorità, l’efficienza della spesa stessa, l’interscambio e l’integrazione pubblico/privato, e sarà
necessaria una forte corresponsabilizzazione e partecipazione di istituzioni, privato sociale,
“terzo settore” e volontariato. Fuori dagli Assessorati, dunque, le consorterie schierate
a sostegno dell’egemonia di peculiari interessi privati nella pianificazione del bilancio
comunale. Senza sminuire una funzione di controllo dell’ente pubblico che diventerà nel tempo
sempre più importante, perché è soprattutto attraverso i processi di governo e controllo che si
capisce se l’andamento della spesa è adeguato, dove si può intervenire e correggere. Insomma,
saranno necessari attenti e ponderati processi di innovazione e cambiamento che dovranno
anche mettere in stretta correlazione il Welfare con altri ambiti importanti come l’urbanistica,
i saperi, la mobilità e l’ambiente. Certo, il grado di fiducia popolare nel cambiamento è quasi
nullo, stante un quadro più confuso che complesso delle rappresentanze partitiche nell’agone

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politico. Anche chi si autocandida sulla spinta del neocivismo, rappresenta pacchianamente
una versione, riveduta e corretta, delle forme storiche di mediazione politica degli interessi
popolari e di velleitaria propensione a sostituire il “personale politico” in auge, ma senza
modificare comportamenti e strategie politico-amministrative. In altri termini, il “nuovo che
avanza” puzza di vecchio, perché non si parte da zero, non si vuole pensare al “bene comune”,
non si vogliono compiere scelte importanti in ambito urbanistico e sociale derubricando per
sempre l’agire oligarchico dei potentati, troppo spesso alle spalle dei cittadini – elettori che
nulla sanno e che tutto subiscono. Questa è la situazione e a questa occorre far fronte assieme,
come comunità frentana. Assieme si, in un’ottica comune di area vasta perché questa è la
dimensione minima dove collocare le politiche di programmazione e concertazione. Altro che
concertazione tra partiti, partitini o aspiranti tali. Necessari per la rinascita lancianese, quindi,
dei primi interventi di effettivo decentramento (circoscrizioni e/o distretti), smettendo di
parlarne da decenni, mediante consultazione e partecipazione propositiva di tutta la popolazione
residente chiamata alle “istruttorie pubbliche” mono e pluritematiche. Ormai risulta impossibile
dare risposte nel piccolo cabotaggio politico-amministrativo, nessuno è più in grado di farlo
senza ulteriormente compromettere il benessere dei cittadini e questa tendenza sarà sempre
più nettamente percepita anche dagli ignavi che si sono lasciati incantare dalle promesse dei
politicanti ed hanno permesso la desertificazione civile di Lanciano. Questa città in declino
ed allo sbando deve aspirare a tornare protagonista nel sistema comprensoriale come una città
viva e, per farlo, deve prendere la strada della costruzione della città dei suoi cittadini; non
si tratta d’una tautologia, bensì del deciso accantonamento dei tentennamenti e paure e della
valorizzazione dei lancianesi tutti, una ricca realtà socio-culturale ed economica, presenti e
responsabili del proprio destino oltre che portatori di utili diverse competenze che – da sole
– potranno spazzare via il pesante fardello del “ceto politico” dominante e riproporre Lanciano
come effettivo perno e traino dell’intero Comprensorio del Sangro – Aventino. L’attenzione
della pianificazione urbanistica si può concentrare quindi sulle forme di aggregazione socio-
istituzionale, artigianale e commerciale, ad elevata specializzazione oppure compresenti
alla residenza (fronti commerciali, addensamenti lineari o a grappolo, “centri commerciali
naturali” quali i centri storici). Nella prospettiva di estensione del “costruito” secondo criteri di
sostenibilità ambientale, il tendenziale avvicinamento alla città dei complessi specializzati può
testimoniare una certa evoluzione anche nel campo dei servizi alla persona ed alla comunità
allargata, impegnata a catturare fasce di domanda che guardano con favore alla prossimità con
l’abitazione o con il posto di lavoro e alla maggiore articolazione della scelta (dal supermercato
alla boutique, dal presidio ospedaliero all’offerta formativa, dalla gestione del tempo libero
alle strutture bibliotecarie). Non vi è chi non riconosca questi fattori come elementi della vera
“qualità urbana” comparandoli con le inadeguate ed “anegoziali sperimentazioni” di semplice
ZTL. Viceversa, oggi, appare pertanto chiaro il rischio di un ulteriore espulsione delle funzioni
urbane dalla loro sede naturale – la città – verso questa sorta di cittadelle in-vitro costituite dai
Centri commerciali. Poiché uno degli obbiettivi di un dignitoso piano strutturale è costituito dal
mantenimento della qualità urbana, intesa anche come compresenza - in forme integrate - delle
funzioni abitative, produttive, di ricreazione e di scambio le conseguenti misure che possono
essere così stabilite: porre un limite all’ulteriore avvicinamento delle strutture commerciali
di grossa taglia, escludendole dal novero delle funzioni compatibili delle aree urbane mai più
consentendo e riservando accoglienza ad ulteriori similari insediamenti o ad una eventuale
richiesta di espansione degli attuali; promozione di forme di densificazione commerciale nelle
aree centrali delle aree urbane di antica formazione, in particolare nelle parti della città ove
sono presenti forme residuali di aggregazione commerciali, prevedendo l’ubicazione di esercizi

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non presenti, ai quali affidare il compito di fungere da “traino”; promozione di interventi di
riqualificazione dello spazio pubblico (connessi alla realizzazione del “sistema delle qualità”
e integrati con le politiche della sosta) nelle aree urbane ove sono storicamente riconoscibili
le centralità di sviluppo storico-sociale; affidamento al regolamento urbanistico-edilizio
del compito di definire una disciplina ad hoc per le vetrine e le insegne nelle aree urbane
storiche. La formulazione di proposte di valorizzazione, di coordinamento degli allestimenti,
di promozione di eventi volti a favorire l’afflusso di persone nelle aree a vocazione comunitaria
e commerciale vanno invece affidati a strumenti ad hoc, quali i piani di settore previsti dalla
vigente normativa regionale oppure alla promozione di innovativi piani di marketing sociale
e commerciale.
12. Un paradigma rinascimentale: La città come opera d’arte
Si parte dall’individuo, anzi dall’uomo, che per la prima volta nella storia dell’Umanità
è considerato un soggetto unico in tutto il creato, capace di evolversi e autodeterminarsi nel
solco della propria esperienza esistenziale e di coltivare e sviluppare le proprie doti con le quali
affrontare le prove che la fortuna (intesa nel senso latino di sorte) gli riserverà. Il Rinascimento,
dunque, poggia le sue basi sul ruolo dell’uomo-individuo per modificare le coordinate del tempo
e dello spazio e, soprattutto, per dare un nuovo senso al vissuto esistenziale, all’interazione tra
gli individui, le famiglie, i ceti sociali: in altre parole alla storia, riportando in auge dal mondo
classico la celebre affermazione: homo faber ipius fortunae (l’uomo è artefice della propria
sorte), una frase ripresa anche nell’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola tanto
da diventare il principio ispiratore del pensiero dell’epoca. L’uomo, dunque, è il centro della
nuova concezione ed è raffigurato creatura libera e sovrana nonché artefice del proprio presente
e del proprio divenire. Di qui, il successivo passo verso l’ideale dello “Stato come opera d’arte”
è cosa fatta: figurazione ideale che prefigura l’uomo come detentore di una coscienza culturale
e storica. Con il Rinascimento accade quello che durante il Medio Evo era impensabile:
l’affermarsi di una nuova concezione della politica e dello stato e, quindi, del cittadino, che
storicamente possiamo ritenere il primo passo verso l’età moderna. Usiamo il postulato di
“Stato come opera d’arte” riferendolo alla città, luogo che identifica la sede per antonomasia
di una comunità organizzata di uomini che conseguono interessi collettivi in rapporto ad un
contesto superiore. Pensare di promuovere e vivere un nuovo Rinascimento è un’idea cui
dovremmo dare concretezza e forza. Aspirare alla città ideale, alla “città come opera d’arte”
(paradigma dello “stato come opera d’arte”) sarà anche un sogno, un’utopia, un’illusione, ma
non ci sentiamo di rinunciare ai nostri ideali e alle nostre aspirazioni. Anzi, vorremmo che tale
modello prendesse forma nella vita quotidiana di ciascuno di noi, che diventasse oggetto delle
nostre più stringenti attenzioni, che assumesse uno spessore di vero e proprio impegno civile
e sociale nel tempo incombente del nostro esistere, con il supporto della classe politica, delle
istituzioni pubbliche e di tutte le cosiddette “parti sociali”, finalmente affrancate dal fardello
della loro insostenibile pesantezza del non essere quello che dovrebbero. E’ sufficiente soltanto
guardarci attorno per scorgere le anomalie che ci circondano, che spesso sono delle brutture
indescrivibili e insopportabili, scoprire che l’ideale di un effettivo rinascimento è dentro di
noi, frustrato dal degrado e dalla soverchiante tracotanza del potere costituito. A Lanciano
esistono mille modi e possibilità per rinverdire il modello rinascimentale, ma è necessario
colmare il vuoto del presente in cui ciascuno trova conforto nella mediocrità altrui, pratica
molto diffusa soprattutto tra coloro che occupano inopinatamente incarichi di responsabilità
pubblica mimetizzati nel grande circo della politica. Non intendiamo dispensare fumo con
il turibolo né dare parvenza di prosaica saccenteria. Il senso del nostro argomentare è insito
nella coscienza, (questa sì che vogliamo condividerla, soprattutto il suo contenuto e la sua

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primordiale schiettezza) con tutta quanta la comunità. Ma il nostro ruolo è di gettare una
voce nello spazio, sperando che l’eco si moltiplichi e giunga laddove l’intento desidera.
Riteniamo che l’impulso a “rinascere” socialmente nel senso auspicato, dovrebbe essere dato,
innanzitutto, dalla politica che tuttavia si è arroccata in una sorta di privilegiato isolamento.
La classe politica non può continuare a barcamenarsi senza alcun costrutto come accade da
decenni, ma ha il dovere morale e giuridico di ristabilire un ordine oggettivo alle necessità
pubbliche, ponendo il cittadino al centro di ogni questione e di ogni iniziativa. Il risveglio
degli ideali non può essere rimandato alle calende greche in un contesto di apatica attesa
del divenire sempre più ingrigito e offuscato dall’incertezza e dall’insipienza. Se questo non
accade è perché lo scadimento è diffuso e radicato come del resto tutte le forme di egoismo
che si sono impadronite della politica. Il “rinascimento” presuppone l’applicazione di principi
e idee che escludono l’asservimento della politica a qualsiasi forma di degenerazione, di
metastasi, di degrado. E’ un principio irrinunciabile che prefigura la nascita dello “stato di
diritto” e l’affermazione di una civiltà alimentata da valori assoluti quali la libertà, la cultura, la
partecipazione, il diritto e l’organizzazione. Il “rinascimento” presuppone un ruolo propositivo
e aperto della classe politica in grado di sovvertire la piattezza e lo scadimento cui è stata
asservita. La “città come opera d’arte” consideriamola pure un’iperbole, un’aspirazione ideale
totalmente inattuabile. Riteniamola una provocazione, ma il concetto non è vuoto di contenuti
perché implica il divenire nel segno del rinnovamento e della innovazione, vocaboli depennati
dal nostro lessico per opera dell’imperante conformismo, dell’invadente conservatorismo e
della soffocante autoreferenzialità del sistema. Negli ultimi decenni Lanciano è stata succube
di una politica depredata della dignità tanto da essere ridotta ad un infimo esercizio di potere
fine a se stesso. Lo è stato per responsabilità di esponenti non all’altezza del loro ruolo ma abili
nel imbastire i giochi in camera caritatis. Eppure, per promuovere un processo di rinascita non
è un’impresa impossibile. Per iniziare è sufficiente crederci e mettersi in gioco. E constatare
quanto sia decadente e misero il nostro presente, quanto siano vuoti i luoghi della nostra
quotidianità, quanto siano emarginati i bisogni reali. Lanciano, per questo motivo, ci sembra
sopravviva imprigionata in uno schema invariabile e stucchevole in cui gli spazi della politica
soggiogano la dignità dei cittadini e, quindi, della comunità. Lanciano, soffre gli effetti di una
sindrome del passato, anzi, della memoria, e non riesce a liberarsi da questo stato d’indigenza
passiva perché il potere è intriso di un’ignoranza proverbiale. La “città come opera d’arte”
vive soltanto nella mente di chi non sopporta questo andazzo ben consapevole che il postulato
implica una condizione di partenza scevra di complessi, di frustrazioni, di rinunce. Perciò agli
amministratori pubblici che si vantano di essere gli “eletti” dalla comunità, diciamo che la
pulizia delle strade cittadine non è soltanto un’esigenza igienica, ma anche un dovere storico e
pre-politico; l’efficienza delle strade, dei marciapiedi pubblici e del relativo verde che li adorna,
non è il mero esercizio di una prerogativa, ma l’estrinsecazione del rispetto doveroso verso
la comunità; la conservazione del patrimonio culturale: opere d’arte, biblioteche, manufatti
antichi e non, musei, teatri, reperti di ogni genere, ecc. non è un impegno istituzionale cui
attenersi semplicemente, ma è un dovere che discende da principi e regole universali sui quali
è stato eretta la civiltà umana. La gentilezza e la cortesia nei modi, la disponibilità a dare agio
e rispetto ai cittadini sono segni tangibili di civiltà, il dovere di non usurpare né tradire la loro
fiducia è sacrosanto, mentre sanzionare la violazione delle regole della civile convivenza non
è deve essere un esercizio da svolgere “a campione”, ma tenendo a mente il diritto e la dignità.
Anche questo è patrimonio dell’agognato progetto di “città come opera d’arte”. Ma tutto
questo, inspiegabilmente, sembra non essere oggetto della “cosa pubblica” perché la politica
del frontismo di piazza genera pressioni demolitrici che soltanto i grandi uomini riescono a

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controllare e a respingere nel nome del superiore e inviolabile bene comune.
13. Conclusioni provvisorie: Lanciano, città libera. Come ?
13.1 Via l’egoismo tribale dallo spazio politico pubblico
L’intento è parlare a tutti coloro che vogliono cambiare seriamente, a tutti coloro in
grado di produrre un linguaggio originale, di essere amica ed amico dei simili e dei diversi.
Lo scritto, un semplice pamphlet (18), è una proposta alla città di tutte e tutti, pensata come
“liberata e libera”. Come forse è noto, alle elezioni amministrative che si terranno a Maggio di
quest’anno, in piena rigogliosa primavera come sa esserlo solo tra i profumati colli lancianesi,
si presenteranno legittimamente liste di partito e “civiche”, nessuna senza retropensieri.
Tutt’altro. Conosciamo le motivazioni che spingono i promotori, i “grandi elettori” e gli
stessi candidati che in pubblico sono oggetto di compunte dichiarazioni, ma che in cuor loro
occultano, considerando ed auspicando un po’ ebeti i cittadini che si recheranno alla urne.
Di fatto, non è più distinguibile una “sana” comunicazione politica – che potrebbe evitare di
parlare di “nani e ballerine” e concentrarsi sui programmi, sulle cose che si intendono fare
per la città - dalla pubblicità. Questa fenomenologia è una lesione grave della democrazia
popolare perché espropria la società civile della consapevolezza degli eventi, la sospinge in
una dimensione virtuale artefatta, depaupera la comunità territoriale di persone d’ingegno
e generose, annichilisce l’appeal delle istituzioni rappresentative, desertifica l’humus dal
quale potrebbe germogliare un fertile ricambio generazionale proprio in quelle responsabilità
chiaramente configurate nell’organizzazione e gestione della res publica.
La nota affermazione “il medium è il messaggio” del sociologo canadese Marshall McLuhan
(19), in questi giorni, nello specifico contesto lancianese, trova un’ulteriore conferma di veridicità
e le elezioni amministrative programmate per il 15 e 29 Maggio 2011 ne sono ennesima riprova.
In quella circostanza, i cittadini-elettori di Lanciano, oltre che di altri Comuni, si recheranno
ai seggi per rinnovare il Consiglio comunale ed esprimeranno con il voto la preferenza per una
lista piuttosto che per la competitrice (certo, si può dare anche un voto “disgiunto” tra lista
prescelta e candidato Sindaco, ma in questa sede non rileva). Le modalità di “comunicazione
politica” adottate da mesi da parte dei competitori o aspiranti tali, sono tra gli aspetti eclatanti
di questa tornata elettorale sui quali vale la pena riflettere. Si nota un’ulteriore accentuata
tendenza alla “personalizzazione”, declinata in modo variegato, che produce distorsioni nella
comprensione del “programma politico” dei candidati da parte di cittadini che dovrebbero (il
condizionale è d’obbligo) scegliere avvedutamente i propri rappresentanti. In realtà, i “mezzi”
utilizzati – dalla cartellonistica con incombenti gigantografie, dai volti, espressioni e posture
che i candidati fotografati assumono, dalle interviste radio-televisive o rilasciate alla stampa,
dal pittoresco uso dei blogs nella rete telematica policentrica InterNet – si coglie un’ansia di
protagonismo fisico piuttosto che cognitivo dei candidati. Non un’idea chiara e coerente di
cosa pragmaticamente, eventualmente eletti, sono in grado di fare (piuttosto che dichiarare di
voler fare). La deriva narcisistica di alcuni, addirittura, non è più compressa nell’intimo, esplode
sui megamanifesti elettorali in un delirio d’autosufficienza in base al quale “quello che si dice,

18
L’autore è “debitore”, nell’elaborazione e stesura dei testi, nei riguardi di tante “fonti” (altri autori, documenti, “pubbli-
che riflessioni”, dialoghi), spesso non citate esplicitamente, i contenuti delle quali sono stati assimilati, condivisi, “messi in
relazione” con il contesto lancianese. Pertanto, le idee esposte sono l’amalgama personale – di cui l’autore se ne assume la
responsabilità - in uno scritto che si sente in toto proprio, poiché integralmente corrispondente alla soggettiva esperienza
politico-culturale e, soprattutto, alla trasparente intenzione, eticamente fondata, di concorrere a produrre polemicamente,
anche a Lanciano, una presa di coscienza collettiva per la “trasformazione sociale” locale, dopo essersi analogamente im-
pegnato altrove.
19
Marshall McLuhan, “Gli strumenti del comunicare”, Il Saggiatore, Milano; originale: 1964 “Understanding Media: The
Extensions of Man”, Gingko Press.

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si fa” … verrebbe da dire: bene, allora fai quello che dici, non quando sarai eletto, ma da subito.
Ci sono tanti modi di “servire” la città, non si comprende il perché di un mettersi in lizza
quando si ha questo “potere” magico-misterico di realizzare la “parola”. Siamo al gioco delle
tre carte. Non un’idea chiara emerge dall’osservazione delle mere immagini o dalla lettura
degli slogans didascalici che le corredano. Le parole, nella degenerazione iconica della
“comunicazione politica”, diventano rumore di fondo, anche fastidioso. In questo senso,
Marshall McLuhan ha ancora ragione: i “mezzi” rischiano di essere più convincenti dei
“messaggi” stessi; si vota per simpatia, perché la persona è riconosciuta esattamente come un
efficace o conveniente detersivo o rotolo di carta igienica, si vota per il passa parola su tratti
fisiognomici ritenuti gradevoli o meno, si vota in un senso o in un altro perché l’immagine è
più facile da ricordare (questa inclinazione dell’elettorato è dovuta alla pervasività manipolatoria
alla quale l’elettore-telespettatore da decenni è stato televisivamente nocivamente sottoposto,
a tal punto che – oggi – non è più in grado di distinguere tra fiction e realtà) che un ragionamento
scritto, si vota perché le figure umane ammiccanti ritratte nelle foto elettorali sono separate
dallo “sfondo” economico, sociale, politico-culturale di cui dovrebbero pur essere dignitosi
interpreti. In definitiva, ci si recherà alle urne per eleggere i Consiglieri comunali quasi storditi
da “segni visivi” che, pur essendo in qualche modo imitativi del referente (in questo caso il
candidato che si mostra con la sua faccia nell’assoluta indistinzione del programma politico,
cioè in quella nebbia notturna ove tutte le vacche sono nere, essendo tutti in passerella, come
se si fosse al “Bagaglino”, a comunicare con linguaggio non verbale), sono certamente non
decodificabili, da parte dei possibili fruitori, in termini di competenze possedute o di capacità
nel problem solving per la comunità lancianese. I “contenuti” rimangono inespressi e sospesi
nell’attesa mediatica di un esito elettorale comunque falsificato da preferenze “rubate” da chi
può investire e spendere in “comunicazione” e “pubblicità”, ma non ha proprio nulla o quasi da
dire alla città. Che sia un singolo candidato o un gruppetto, come avviene nella sigla della
nuova serie della fiction RAI ambientata nel Commissariato Spaccanapoli, a mettersi in “bella
mostra” politico-pubblicitaria, non importa: il meccanismo di artificializzazione comunicativa
e persuasiva è lo stesso. Esemplificando: dalla prima metà degli anni ‘90, per l’esercizio
psicologico di “lettura preiconografica”, sono stati circoscritti “segni politici” indistinti (di
destra, di sinistra, di centro, del neocivismo) che caratterizzano i partiti, liste e candidati,
corrispondenti alle aspettative anche inconsce dell’immaginario di massa, a tal punto che in
alcune campagne elettorali sono decodificabili solo colori, simboli, pennellate cromatiche o
figure umane che evocano, piuttosto che indicare con chiarezza l’orientamento politico o cosa
si pensa di una specifica questione di rilevanza sociale, ancestrali e/o tribali appartenenze
assimilatrici muovendo all’azione: votare, appunto, colori, segni grafici, emoticon o smiley.
Niente di nuovo, del resto. A Lanciano si fa oggi farsescamente ciò che altrove è stato già fatto.
La peculiarità frentana consiste nell’evidente totale commistione tra “comunicazione politica”
e “pubblicità” tout court: non si vota un’idea o un programma, si vota un “prodotto” attraverso
la sua esposizione mediatica. Come sempre, in questi casi, all’interno della confezione c’è la
fregatura. Per fortuna non tutta la cittadinanza si lascia abbindolare da simili operazioni
pubblicitarie; inoltre, depurati dalle lagnanze degli stessi dispendiosi candidati (una campagna
pubblicitaria costa, si sa; quale dimostrazione di grande impegno personale può esserci,
superiore a quello di chi impiega denari per essere eletto ?), c’è seriamente da porsi il quesito
seguente: il ricorso a lauti finanziamenti (i denari, è notorio, sono nei forzieri degli Istituti di
credito che, a loro volta, “valorizzano” il risparmio privato e/o aziendale) non condiziona un
po’ l’orientamento, l’attenzione ai problemi e le proposizioni risolutive, l’impatto comunicativo
con l’opinione pubblica dei candidati che hanno più risorse rispetto a chi, pur avendo

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competenze spendibili nella Pubblica Amministrazione, non ha disponibilità di un surplus di
liquidità per farsi conoscere ed apprezzare ? È mai possibile che solo chi è ricco (o è “reso
ricco”) può aspirare a “governare” ? Non sembri ingenua la domanda retorica. In un articolo
apparso nel gennaio 1998 sull’autorevole The New York Times, una giornalista parlava di New
York nei termini di un visual marketplace, cioè di un enorme mercato visuale, in cui i pubblicitari
si gettavano con foga indescrivibile e per il quale erano pronti ad inventare nuove soluzioni in
grado di catturare l’occhio di uno spettatore sempre più sommerso da cartelloni, insegne al
neon e in ultimo, “moving objects”. Le città sono diventate da tempo degli enormi cartelloni
pubblicitari, e per convincersi di ciò basta citare due città famosissime e ricordarne le zone
simbolo: Londra è la sua Piccadilly Circus; New York è la sua Times Square. Cartelloni
pubblicitari in primo piano dunque; che siano fissi, che siano in movimento, che rivestano le
impalcature di un palazzo in restauro; centinaia di metri quadri di spazio pubblicitario che
spesso però non viene più neanche percepito. E nel flusso incessante di stimoli che si
moltiplicano, esso si integra a tal punto con il paesaggio, che può anche sfuggire, passare
inosservato, non nel senso di non-visione, ma di non-percezione. Come a riuscire ad ovviare a
questa condizione ? Trovando spazi che siano molto stimolanti e il più possibile non invadenti.
Camminando lungo una linea di confine molto labile, tra lo stupire e l’annoiare, tra l’informare
e il raccontare, tra l’apparire e l’essere. Già qualche anno fa i nuovi spazi su cui si puntava per
restituire alla comunicazione pubblicitaria urbana un supporto a cui si chiedeva essenzialmente
visibilità prima ancora che spettacolarizzazione, erano proprio quelli offerti dalle fiancate dei
mezzi di trasporto. C’erano dapprima i tabelloni – più o meno grandi – e la possibilità di
raccogliere una audience molto vasta ed eterogenea (lavoratori, studenti, casalinghe; bambini,
ragazzi, adulti ed anziani; possibilità di segmentare il pubblico, di rivolgersi a tutti in modo
sufficientemente preciso). Ad aprire l’era della spettacolarizzazione urbana è stato proprio il
Comune di Roma quando promosse una campagna contro l’abuso delle corsie preferenziali da
parte dei privati. Il messaggio, affidato all’eloquente immagine di uno squalo dall’aria
minacciosa, non ammoniva il pubblico dal sia pure imponente tabellone 300x70, bensì da
un’affissione grande quanto l’autobus stesso. La rivoluzione per la cartellonistica classica
invece si è avuta nel momento in cui si è passati dagli impianti tradizionali alle impalcature dei
palazzi. Una novità apprezzata dai pubblicitari, che hanno a disposizione una affissione di
dimensioni notevoli, ma anche dal pubblico, che per la prima volta può guardare alla pubblicità
in un’ottica di utilità, senza che questa riguardi il contenuto, e cioè senza che si faccia
riferimento ad una pubblicità sociale o no profit. Nessuno, infatti, si sogna di preferire ad
un’immagine (colorata, accattivante, imponente e affascinante) una impalcatura. Almeno fino
a quando questa sia “reale” e serva a coprire lavori realmente in corso. I più critici lamentano
un inquinamento visivo che danneggia le nostre città, mortifica le loro bellezze architettoniche
e le rende un immenso catalogo di merci. Forse è il segno di una civiltà che non ha più colonne
da innalzare, né chiese da edificare. E come un tempo l’architettura e la scultura avevano in sé
un notevole potere comunicativo, oggi l’hanno ceduto alla pubblicità e ai suoi mille modi di
manifestarsi. È vero che spesso la storia, soprattutto recente, della pianificazione dei mezzi
pubblicitari viene vista come una storia di abusi: troppa la pubblicità che farcisce i programmi
televisivi, li spezzetta, ne condiziona i tempi e ormai anche i contenuti; troppe forse anche le
pubblicità in città che, è vero, soffrono di una scarsa regolamentazione e di un ancor più scarso
controllo sugli impianti di affissione. Ciò si traduce in pubblicità sui cassonetti dell’immondizia,
o su superfici destinati ad altri usi o su impianti abusivi giganteschi, mal collocati, pericolosi,
che vengono ignorati o guardati con molto fastidio. Per questo diviene essenziale utilizzare
quelle superfici che partono privilegiate in partenza dallo sguardo benevolo del cittadino; quelle

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superfici che sarebbero destinate al divertimento di pochi e all’irritazione della collettività (i
mezzi pubblici ed il problema dei writers) e le superfici – anche quelle di edifici storici –
durante i lavori di ristrutturazione. Spazi neutri per i quali la pubblicità non ha sulla coscienza
nessun peccato originale da espiare; spazi che anzi contribuisce a migliorare e a valorizzare.
Torniamo, in ogni caso, a distinguere inequivocabilmente la “pubblicità” tout court dalla
“comunicazione politica”, accettando il “dilemma” di Jena a pagina 2 de “La Stampa” di
venerdì 4 Marzo 2011: “L’occidente si interroga: intervenire a Tripoli o ad Arcore ?”.
La parola “libera” significa molte cose, quindi, quando ci si riferisce ad una città,
come Lanciano, in preda ad un’omologazione neofeudale diretta da ceti economicamente
abbienti e propugnatori ancora una volta, senza soluzioni di continuità, di una “democrazia
concessiva”: naturalmente, libera dall’arroganza autoritaria del familismo e di Sindaci
che l’hanno amministrata nel triste trascorrere ultradecennale del tempo, mai svincolatosi
dal passato modus vivendi. Ma non solo: libera dal dogmatismo liberista che ha guidato le
scelte delle amministrazioni negli ultimi decenni, da quando si è innestata ed avviata l’idea
di privatizzazioni senza nulla da privatizzare, predicando – non avendone lo spessore - il
verbo thatcheriano anche in questa città che non ne aveva bisogno. Libera dall’inquinamento
da petrolio da carbonio e da particolato, cioè libera dall’ossessione automobilistica. Libera
dall’ingerenza curiale e dal fondamentalismo di qualsiasi credo ideologico-religioso. Lanciano
deve proporsi di modificare la geografia politica orientando l’elettorato verso la creazione di
zone di resistenza umana nella tempesta che si prepara, anzi è già qui. La politica dovrà entrare
in dialettica con l’etica per affrontare con una visione culturale innovativa i temi dell’ambiente,
della vivibilità, dei servizi per i cittadini, del lavoro e della convivenza civile.
Ci scandalizza la povertà dei discorsi e l’aridità delle emozioni comunicate dai poli
storicamente antagonisti, dei variegati “terzi poli” e del falso “neocivismo” che pretendono
di occupare la scena, e sono sempre più simili sia dal punto di vista delle enunciazioni e della
comunicazione politica che dal punto di vista del comportamento etico. Ma ci scandalizza
anche la povertà mentale di chi crede che il compito sia solo quello di moralizzare la vita
pubblica, come se il problema fosse quello di rispettare le regole. Le regole stesse sono la
causa della disuguaglianza della corruzione dell’impoverimento e della barbarie che cresce
all’orizzonte. Le regole che hanno dominato la vita sociale negli ultimi decenni, le regole della
competizione, dell’egoismo sociale, dell’accelerazione produttiva, della “crescita” illimitata, e
dell’esaltazione del “privato” in tutti i suoi aspetti. Mi colpì tempo fa, Porta S. Biagio, restaurata
con il contributo dello sponsor “Rotary” che non ha potuto evitare di mettere il proprio logo sul
monumento … Un patrimonio pubblico, parte restante più antica di una poderosa cinta muraria
eretta dopo l’anno Mille, della quale resta in piedi insieme alle due Torri Montanare, simbolica
ricchezza di inestimabile valore, viene delegata nella tutela a facoltosi privati. Generalizzando,
resta il sottofondo egoistico, un’egolatria che nega incessantemente la dimensione collettiva
del quotidiano urbano e la salvaguardia prioritaria dei “beni comuni”. L’imposizione di queste
regole ha esaltato la disparità economica, ha distrutto il tessuto della solidarietà sociale, ha
premiato la corruzione e il cinismo, e alla fine ha portato l’economia globale (quindi anche quella
cittadina) a un collasso che nessuna buona amministrazione potrà sanare seguendo la strada
degli “interessi particolari”. Soltanto l’abbandono della via liberista e delle “privatizzazioni”,
un’inversione completa della rotta, permetterà la ricostruzione del tessuto dell’empatia tra esseri
sensibili che il fanatismo della competizione e dell’individualismo ha lacerato dolorosamente.
La via della “privatizzazione della politica”, della “personalizzazione”, della gestione a proprio
beneficio delle risorse pubbliche sono portatrici di miseria, di violenza e di solitudine per la
gran parte dei cittadini; di prebende e benemerenza per pochi altri.

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Sulla scia della privatizzazione dei trasporti e dei finanziamenti per la scuola, del gas e
dell’elettricità, la prossima Giunta si troverà a dover privatizzare l’acqua, qualora in occasione
del previsto referendum di giugno non si dovesse raggiungere il necessario quorum. Chi si
candida deve chiedere il voto ai cittadini residenti per fermare la follia tribale della deriva
privatistica, familistica e democratico-concessiva i cui effetti sono evidenti nella catastrofe
economica e sociale che il dogma della “combriccola dirigente” ha già prodotto nella vita
non solo di poche decine di migliaia di cittadini occidentali, bensì, a ben guardare gli sbarchi
quotidiani a Lampedusa, dei popoli del mondo. Con il voto può essere avviato un processo di
deprivatizzazione di tutto ciò che è essenziale per la comunità. Si tratta di una riconversione
delle tecnologie per la mobilità e per il riscaldamento così da garantire l’autosufficienza
energetica. Lanciano dovrà offrire residenza e diritto di asilo a tutte le donne che fuggono da
paesi in cui la violenza di genere è la norma. Lanciano dovrà cambiare la natura del fenomeno
migratorio: non più invasione di maschi giovani e soli, ma afflusso di donne che cercano
convivenza tollerante e libera. Lanciano sarà impegnata a garantire una risposta al bisogno di
alloggio seguendo il principio secondo cui nessuno spazio abitabile deve rimanere inabitato.
Andranno cancellate le scelte proibizioniste che sono state alla base del governo di questi
ultimi cinque anni, intendendo contemperare le esigenze di quei cittadini che pensano alla notte
come al momento del riposo e del sonno, con gli stili di vita diversi, soprattutto giovanili e
della soggettività organizzata socio-culturale. Lanciano darà spazio e visibilità alle produzioni
culturali indipendenti perché cultura non è solo quella delle Istituzioni e di chi ruota intorno agli
Assessori di turno. Consapevole della conclusione del ciclo della crescita, la nuova Lanciano
potrà promuovere un nuovo modo di concepire la ricchezza come godimento, non come
acquisizione, creando le condizioni per superare il consumo privato favorendo la condivisione
concreta collettiva dei “beni comuni”. Per tutte queste ragioni, partecipare con le proprie idee
alla campagna elettorale – prima - e – dopo - contribuire, nelle forme che ciascuno riterrà più
utile e più intelligente, con la parola e con gli atti, alla vicenda politico-amministrativa del
Comune che ridisegni il panorama e l’orizzonte, prima di tutto nelle immaginazioni e nelle
attese, poi nei progetti e nelle realizzazioni, con questi propositi succintamente esposti, vuol
dire pensare ad una Lanciano libera davvero. Lanciano “città libera” è una boccata d’ossigeno
in un’atmosfera soffocante. È atto di coraggio, voglia di futuro, progetto fiducioso. È sviluppo
di idee nuove, ribellione all’ingiustizia, corsa libera. È lotta al malaffare, fiducia nella comunità,
quindi in se stessi e negli altri, affermazione di valori forti perché condivisi. È sfida ad ogni
paura, abbraccio solidale ai deboli, gravidanza del domani. Lanciano sarà crocevia di mille
percorsi diversi che hanno portato e porteranno nello stesso luogo e nello stesso tempo, il luogo
e il tempo del cambiamento. “Lanciano libera” (20) è un progetto politico di lungo periodo,
che incrocia e affronta a viso aperto con proprie liste e con un candidato Sindaco le prossime
elezioni amministrative. Non quelle del Maggio 2011, dunque. “Lanciano libera” sarà anche
una lista civica, svincolata dai partiti, che vuole vincere per una città: 1) libera dai veleni
(verde)

lpilota nel territorio frentano nello sviluppo e nell’uso delle energie alternative e
rinnovabili;
20
Le proposte qui presentate sono ispirate all’esperienza politica vissuta dall’autore nella lista civica “Bologna Città Libe-
ra”, della quale è stato candidato in occasione delle elezioni amministrative, svoltesi nel capoluogo emiliano-romagnolo nel
2009, contribuendo ad elaborarne il programma animando lo specifico gruppo di lavoro denominato “Welfare delle cono-
scenze”. Come è noto, il capoluogo felsineo ha riconfermato in quella circostanza elettorale il “ceto politico-amministrativo
il quale, ad oggi, – Maggio 2011 – ha costretto i cittadini bolognesi a vivere l’inedita storicamente e triste esperienza del
“commissariamento” dell’Amministrazione comunale.

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ldeterminata nella promozione del trasporto pubblico e privato alternativo all’auto e nella
riduzione delle emissioni inquinanti;
lcapace di generare una nuova coscienza ecologica collettiva
lsostenitrice di una nuova imprenditoria nel settore delle tecnologie ecocompatibili
2)libera dagli egoismi (solidale)
llungimirante nella messa in opera di progetti di ridistribuzione a favore delle famiglie e
degli anziani soli e, in generale di tutte le persone in difficoltà economica;
lpaziente nel ricostruire la trama dei rapporti umani oramai usurata dalla diffidenza e dal
rifiuto della socialità;
lrisoluta nel riconoscere i diritti e le esigenze dei lavoratori e degli imprenditori provenienti
da altri paesi;
lferma nella difesa del lavoro stabile e nella lotta alla precarietà
3) libera dalla speculazione sui beni comuni (pubblica)
loculata nella salvaguardia e nella fruizione del territorio e delle sue risorse
linflessibile nel perseguire una gestione irreversibilmente pubblica dell’acqua
lcontraria al dilagare incontrollato del cemento a danno delle aree verdi
4) libera dalle paure (coraggiosa)
lorgogliosa dei cittadini che si impegneranno contro ogni violenza
lfautrice del coraggio come antidoto all’insicurezza e alla paura nemica della militarizzazione
delle sue strade
lfantasiosa contro l’ignoranza e l’appiattimento culturale
lgiusta nella valorizzazione del ruolo sociale della donna
lconvinta del ruolo rigenerante delle idee e delle aspirazioni dei giovani
5) libera dalle ingerenze ecclesiastiche (laica)
lindipendente nelle scelte etiche e bioetiche, dalla procreazione alla morte;
lfavorevole al riconoscimento delle unioni di fatto e dei diritti della diversità;
ldisponibile alle ipotesi antiproibizioniste
6) libera dai poteri forti (rivoluzionaria)
llibera dalle beghe dei burocrati di partito
llibera dalle infiltrazioni mafiose
llibera dai poteri occulti
llibera dalle baronie e dalle lobbies
llibera da un sistema affaristico-commerciale-familistico pervasivo e retrogrado
llibera dall’eredità dei Sindaci della prepotenza concessiva, della divisione sociale e della
vendetta
Lanciano, in questi anni, si è sempre di più trasformata in una città gestita e pensata per
persone “benestanti” e “benpensanti”: è stata molte volte autoritaria e forte coi deboli (si
pensi, a mero titolo d’esempio, alle diuturne scorribande neofasciste ed alla loro “protezione”
politico-giudiziaria che i lancianesi hanno dovuto subire – ci si riferisce al “caso Berardinelli
/ Giudice D’Ovidio - nel corso degli anni ‘70, con la sola chiara opposizione dei giovani di
“Lotta continua” la cui sede nel ghetto ebraico di Lanciano “vecchia” fu per questo motivo
– l’antifascismo militante - incendiata) e timida e ossequiante coi potenti. In alcune occasioni,
sempre più rare, si è mostrata solidale, ma appena sono stati toccati certi interessi e certi equilibri,
ha perso la testa. La città è sempre più subordinata agli interessi dei poteri forti, locali e globali,
e sempre più configurata ai modi di vivere degli “influenti”: i potentati economici si sono
impadroniti di Lanciano pezzo per pezzo. È colpa loro se non si trovano case in affitto equo, se
i prezzi sono altissimi, se ogni spazio è stato commercializzato, se ci sono zone intoccabili, se

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si è di nuovo prodotta una selezione sulla base della condizione sociale. L’esclusione sociale è
un fatto sempre più palpabile. Chi non possedeva strumenti per competere economicamente è
stato discriminato e allontanato: infatti è continuata l’espulsione verso i comuni della cintura
dei nuclei familiari nuovi, in particolare dei lavoratori. L’aumento delle povertà, materiali e
immateriali, ha prodotto “buchi neri” dei diritti e della dignità soprattutto nelle periferie dell’area
urbana, in primo luogo con l’annullamento civico e l’occultamento dei migranti. Il processo
di trasformazione postindustriale della città non è stato guidato dalle forze dell’innovazione
(cultura, formazione, tecnologie) ma dalle banche, dalla grande distribuzione commerciale e
dai “chierici” megafoni d’una cultura stantia. Sono molti anni che costruttori, commercianti,
cenacolo di “liberi professionisti” ed Istituti di credito si disputano, con fare da padroni, pezzi
di città, si uniscono in cordate, si spartiscono interi quartieri, impongono “scelte strategiche”.
Sempre più spesso gli interessi dei cittadini sono stati subordinati all’espansione irrefrenabile
della vision monotematica pseudoaziendalista che nell’Ente Fiera e nell’insediamento di mega
centri commerciali trova la sua kafkiana mutazione da iniziale paesana farsa in tragedia. Sotto
la torre campanaria di Piazza Plebiscito si è consumata, con recite da avanspettacolo, molta
“politica” prodotta altrove; la città si sta trasformando in un luogo di mortificazione sistematica
dell’intelligenza. L’Università degli Studi “G. D’Annunzio”, negli anni di amministrazione di
centro-destra di Lanciano, quest’ultima tutta intenta a autopromuoversi, culturalmente è stata
molto “conformista”; infatti, l’Università a Lanciano non è arrivata. In realtà, l’idea degli studi
universitari della cultura politica di destra assomigliava al sapere professionale d’una società
immobiliare che ingoia pezzi di città. Con il Sindaco uscente, l’eventuale sede universitaria
non è nemmeno più riuscita a trovare sponsor, l’Amministrazione comunale non è riuscita
a mascherare il suo vuoto culturale e il pensare all’alta formazione come ad un esamificio.
Un’altra presenza “pesante” è stata quella della Curia: ha influito politicamente su scelte
amministrative (come il finanziamento delle scuole private, l’azzeramento dell’ICI per le sue
proprietà immobiliari, il finanziamento degli oratori) e ha lanciato i suo strali morali preventivi
contro scelte politiche improntate alla laicità. Mentre certo clero ha tuonato a più riprese contro
le città “sazie e disperate”, la Curia lancianese è molto cauta nel mettere a disposizione i suoi
possedimenti immobiliari per le emergenze sociali. La Curia, infatti, gestisce un potere che non
è rilevante solo nell’empireo, ma anche nelle banche e al catasto. Lanciano si sta gradualmente
trasformando in città più “usata” (per transiti commerciali, affari, indotto SEVEL, studenti del
comprensorio) che “vissuta”, con una popolazione residente in gran parte formata da persone
benestanti, da studenti fuori sede e da “cittadini senza cittadinanza”; è una città dominata
dall’intermediazione finanziaria e dalla vetrinizzazione forsennata. Alcuni la vogliono libera.
Per renderla libera va attuata la democrazia partecipativa come regola permanente di
governo cittadino. La domanda di partecipazione, la diffusione di esperienze come il “bilancio
partecipativo”, le agende 21 locali, creazione di “contratti di quartiere”, le Consulte cittadine
specifiche, i Progetti integrati di sviluppo locale, le “istruttorie pubbliche”, si accompagnano
alla crisi di rappresentanza degli istituti di democrazia delegata, alla disaffezione al voto,
alla crescita di politiche individualistiche di desolidarizzazione sociale e di esaltazione del
“mercato”, anche quello delle coscienze. Lanciano deve ricostruire uno spazio pubblico di
decisione sui destini della città e del territorio, sul benessere e il buon vivere dei suoi abitanti.
Questa costruzione passa attraverso l’ascolto dei diversi soggetti sociali (donne, anziani,
adolescenti, giovani immigrati, giovani famiglie, organismi delle società civile, “portatori di
conoscenze”), l’estensione della rappresentanza di genere e il confronto con le esperienze di
autorganizzazione degli abitanti nel territorio, in particolare le forme di “vertenze collettive”
e le forme organizzate di nuova “economia dello scambio” senza lucro. I processi di democrazia

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partecipativa vanno finalizzati alla salvaguardia e alla valorizzazione delle peculiarità e delle
eccellenze delle risorse ambientali, territoriali e umane. Solo la valorizzazione consapevole e
non distruttiva di queste risorse può consentire la costruzione condivisa di modelli di sviluppo
sostenibile socialmente che producano ricchezze durevoli, in grado di competere, ma anche di
creare relazioni solidali e di cooperazione.
13.2 Lanciano analogica o digitale ? Meglio democratica
A volte, guardando alle cose lancianesi, con lo sguardo di Ulisse che rientra ad Itaca, pare
che le distruzioni causate dalla guerra e la faticosa ricostruzione dell’economia e della società
frentane e del Sangro-Aventino, negli anni immediatamente post-bellici causa d’inibizione di
ogni possibilità di ripresa, non siano mai superate. Lanciano, che all’inizio degli anni Cinquanta
è stata in procinto – come altri centri abruzzesi - di traguardare una «grande trasformazione»
economico-sociale, basata sull’ottimismo e su peculiare intraprendenza, è stata dirottata dal
ceto politico-amministrativo su di un “binario morto”: è stata “disegnata” come una cittaduzza
di provincia sempre molto bisognosa d’aiuti esterni e arretrata, non solo a causa delle ormai
lontane terribili vicende belliche, quanto soprattutto per la debolezza dell’immodificabile
struttura sociale ereditata dal recente passato, troppo dipendente dalle famiglie e consorterie
che avevano salvato – passando dal regime fascista alla Repubblica democratica – un ruolo
dirigente di intermediazione politica, in quanto benestanti o possidenti. È sembrato allora e
tutt’ora pare che il 12 - 15 chilometri di distanza dal mare ed i 30 circa dalla Majella fossero
molte migliaia; nulla, dagli anni ‘50 ad oggi, è stato fatto dalle Amministrazioni comunali per far
si che il relativo “isolamento” geografico di Lanciano potesse essere definitivamente superato.
Questa vera e proprio mancanza di vision dello sviluppo territoriale, altri la definirebbero
miopia culturale se non idiozia tout court del ceto politico dirigente, ha fatto si che, inalterate,
ancora nel presente si ripropongono le anguste limitazioni ad uno slancio innovativo nella
gestione delle risorse paesaggistico-territoriali, storico-culturali, umano-imprenditoriali ed una
loro autentica “messa in valore” (21).Oggi, volendo esemplificare, l’ampio comprensorio della
Val di Sangro-Aventino è di fatto “zona industriale” (SEVEL, HONDA, …) unilateralmente
assoggettata alla volontà delle imprese anche multinazionali che hanno investito, ma che
possono – ciò è già drammaticamente segnalato dalla cronaca – arbitrariamente e velocemente
disinvestire. Si è giunti a questa spoliazione di “risorse umane e territoriali” poiché alcuni
hanno pensato unicamente alle “clientele” da coltivare ed incrementare, facendo anche del
“posto di lavoro in fabbrica” merce di scambio con lo scopo di ottenere consenso elettorale e
quelle “rendite di posizione” che usualmente ne derivano (la stessa “flessibilità” nel delimitare
l’ampiezza territoriale del “bacino di impiego di manodopera” operaia locale per la SEVEL, è
notoriamente servita anche a tacitare gli “appetiti” economico-politico-elettorali di faccendieri
al servizio di politici ed amministratori). Limiti e contraddizioni, tra isolamento e integrazione,
si intrecciano e si ripresentano nel tempo. Un contributo decisivo verso uno sviluppo organico
e equilibrato, basato su elementi strategici, quali l’innovazione, la trasparente comunicazione
e la promozione non può che generarsi dalla sinergia di forze produttive (organizzative
e cognitarie), istituzioni regionali e popolazione “sana”, quest’ultima contraddistinta da
un’incommensurabile e ineguagliabile tenacia. Eppure, il modus operandi nelle relazioni sociali
21
Comparando la situazione di varie cittadine abruzzesi, alcuni osservatori sostengono che tutte le città abruzzesi, dopo il
formarsi post-bellico di amministrazioni provvisorie, grazie anche all’avvio dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno,
trovarono in alcune parti della regione, un ambiente particolarmente ricettivo e innovativo. Come nel caso di Pescara, pun-
ta avanzata del processo di urbanizzazione del litorale medio-adriatico, che soddisfa gradualmente le emergenti esigenze
industriali e turistiche investendo su infrastrutture di rilevanza strategica (strade statali e provinciali e realizzazione delle
autostrade L’Aquila-Roma, L’Aquila-Avezzano e Ancona-Vasto). Per Lanciano, degno di nota era l’ampio comprensorio
della Val di Sangro-Aventino per insediamenti metalmeccanici. La fascia pedemontana della Majella e della Majelletta era
invece molto attiva nei comparti dell’abbigliamento, della calzatura, e del pastificio, a Fara San Martino

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frentane si è cristallizzato a tal punto che non è stato mai possibile mettere in discussione in
modo radicale, quindi autentico, lo status quo e gli aspetti socio-culturali della vita quotidiana
lancianese e delle zone limitrofe; la realtà locale è oggi condizionata da prassi obsolete e da
un’evidente estraneità della cittadinanza dalla gestione corresponsabile della “cosa pubblica”.
Una spia rivelatrice di questa situazione la si nota comparando Lanciano con cittadine di
dimensioni demografiche simili; ebbene, laddove tecnologia e società sono legate fra loro da
quel rapporto biunivoco cosi ben delineato da Mc Luhan quando affermò negli anni ‘60, che
mentre l’uomo cambia il mondo grazie alla tecnologia, essa a sua volta cambia altrettanto
radicalmente l’uomo, il suo modo di vivere e di rapportarsi, il suo immaginario e la sua stessa
visione del mondo, a Lanciano – beninteso, nello spazio pubblico collettivo - la rivoluzione
digitale, certamente una delle più radicali, superiore probabilmente – per la sua pervasività - a
quando lo fu a suo tempo l’invenzione della stampa, è di là da venire. A Lanciano, nel privato
ci si circonda di ogni ritrovato della tecnica, nel pubblico non si investe un euro.
Le idee e i valori fondamentali su cui si è costruita e si regge la società contemporanea
stanno subendo un veloce e talvolta traumatico cambiamento: concetti basilari dello spirito del
tempo novecentesco (le idee di individuo, storia, se non addirittura - ancor più radicalmente - di
spazio e di tempo, di visibile ed invisibile) trascinando nella loro attuale metamorfosi l’intera
struttura sociale ed economica in cui viviamo, mentre nuovi modelli di partecipazione (come
la pratica dello sharing) delineano nuove forme di identità sociali, altrove hanno attecchito,
nel capoluogo frentano no. Scopo della politica è dunque quello di affrontare le tematiche
relative alle trasformazioni culturali dovute al diffondersi delle nuove tecnologie digitali – in
particolare sotto l’aspetto della comunicazione sociale, partecipazione, fruizione di servizi -
all’interno della società locale, sia attraverso i contributi di conoscenza dovuti alla ricerca
scientifica, sia attraverso l’uso “popolare” diretto della “conoscenza” fruibile socialmente che
essa produce. Nella dialettica culturale fra modalità tradizionali d’amministrazione dei beni
pubblici (intesi come apparati di quella che è stata definita “società del bisogno”) e nuovi metodi
(visti come opportunità tecnologiche al servizio dell’interazione sociale), si delineeranno vari
nuclei di intervento sociale, corrispondenti in parte alle reali esigenze comunitarie piuttosto
che corrispondere alla autorefernzialità di chi caparbiamente ed egoisticamente si pensa
indispensabile leader cittadino.
Nel presente, Lanciano a noi non appare più né “analogica” (22)né “digitale”(23). Lanciano
non è “analogica”, cioè capace di far parte del “sistema dell’imitazione” (in grado di copiare
ciò che sanno fare gli altri), capace di far parte del “sistema” oppositivo originale/falso e,
dunque”, dell’imprecisione, ma almeno del fare qualcosa. L’analogica Lanciano, come spiega
la parola stessa, tenderebbe ad evidenziare il legame che esiste tra i suoi fondativi fenomeni
storico-sociali, secondo grandezze “continue” che subiscono progressive trasformazioni,
22 Tecnicamente per “analogico” si intende “continuo”. Il tachimetro dell’automobile, se a lancetta, l’orologio a lancette,
se queste non si muovono a scatti, la manopola del volume di uno stereo, se non ha gli scatti, un termometro a mercurio:
sono tutti esempi di strumenti analogici. Il problema è che i segnali analogici non si possono rappresentare direttamente con
numeri, ma solo con grandezze, angoli per le lancette, segnali elettrici, l’altezza del mercurio e, purtroppo, queste grandezze
a loro volta non possono essere trattate ed elaborate da un computer. Più in generale, per analogico si intende un sistema in
cui una quantità fisica continuamente variabile, ad esempio, l’intensità di un’onda audio, viene rappresentata da un’altra, ad
esempio, la tensione di un segnale elettrico, nel modo più fedele possibile.
23 Tecnicamente “digitale” significa (il termine deriva dall’inglese digit, che significa “cifra”, a sua volta derivante dal
latino digitus, dito) avere a che fare con numeri. Se l’analogico è il regno del “continuo”, nel mondo “digitale” domina
il “discreto”. In un orologio digitale che visualizza solo i minuti, in un determinato istante sono le 15.30, dopo un minuto
sono le 15.31: non è possibile visualizzare gli infiniti attimi intermedi che sono invece rappresentati nell’orologio analogico
dall’impercettibile, ma continuo movimento delle lancette. In altri termini, è “digitale” un sistema o dispositivo che sfrutta
segnali discreti per rappresentare e riprodurre segnali continui sotto forma di numeri o altri caratteri. È l’universo nel quale
le informazioni vengono rappresentate da stringhe di 0 e 1, attivo/inattivo, alto/basso, vero/falso.

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sarebbe custode e testimone del tempo, della tradizione; purtroppo, il presente dimostra che la
città non è in grado nemmeno di conservare ciò che di “buono” è stato fatto. Un esempio, dalla
cronaca locale: dopo 40 anni, diversi tentativi fallimentari e progetti sulla carta di cui restano
solo le fondamenta abbandonate in via Rosato, Lanciano si dota di un parco piscine comunali,
chiamato “Le Gemelle”. Con emozione – narrano le cronache - il Sindaco uscente Filippo
Paolini annuncia l’evento mentre è intento al taglio del nastro; il 26 settembre del 2010. Il nome
e il logo sono stati studiati dal grafico Gianluca Masciangelo, che ha voluto sottolineare la
presenza nella struttura di due vasche (16x25 mt) che, uniche in Abruzzo ad essere totalmente
coperte, avranno finalità diverse. Una vasca sportiva ad 8 corsie, alta 1,80 metri, sarà infatti
dedicata all´attività sportiva, mentre l´altra, una vasca ludica sempre ad 8 corsie ma alta 1,20
metri, sarà destinata alle attività ricreative. Complessivamente l´impianto si estende per una
superficie di circa 3000metri quadri, ubicati nel quartiere Santa Rita (ex campo da baseball)
in via Gabriele D’Annunzio, all’incrocio con via Umberto Cipollone. L’opera, costata circa
3 milioni e 200mila euro, di cui 700.000 sono stati finanziati interamente dalla Regione, è il
risultato della parternship tra pubblico e società Wellness Srl, che ha impegnato la somma
restante provvedendo alla costruzione dell’impianto e alla sua gestione. «L´obiettivo - ha
rimarcato il presidente della Wellness, Paolo Primavera - è costituire un polo di eccezione non
solo per chi ama l´attività natatoria e fino ad ora è stato costretto a migrare nei paesi vicini, ma
offrire anche servizi di natura riabilitativa per gli anziani». Oltre all’insegnamento del nuoto
tradizionale, si attiveranno tutte le varianti acquatiche e attività sportive specializzate: pre-parto
e attività fisica per diversamente abili, incluso servizio di personal trainer dedicato. Ma il parco
piscine “Le Gemelle”, che sarà dotato di sofisticati impianti di sicurezza con moderne soluzioni
in materia di standard qualitativi, offrirà anche un centro fitness e un’area commerciale per
garantire all’utenza funzionalità, comfort e relax. Il Sindaco uscente Paolini ha ricoperto la
carica di Sindaco per due mandati consecutivi, dieci anni.
Lanciano non è neppure “digitale”. Il digitale è il regno dei caratteri “discreti”, discontinui,
un mondo dove le cose non avranno sfumature; saranno o 0 o 1, dentro o fuori, bit o non-bit.
Conseguentemente al concetto, il “successo” delle modalità digitali, per così dire, di gestione
della res publica è dovuto al fatto che le competenze (lo specifico “saper fare”) messe in campo
sono perfettamente in grado di trattare ed elaborare quei “numeri” che riguardano specifici
settori di intervento; anzi, i “politici digitali” non sanno fare altro nella vita professionale
e per un periodo limitato sono al servizio esclusivo della collettività, quando, ad esempio,
diventano Assessori. Il punto fondamentale è questo: le competenze possono manipolare
esclusivamente informazioni disponibili che siano chiaramente riferite al peculiare campo
d’azione. Dal momento che dilettanti allo sbaraglio occupano posti nei quali elaborano diversi
tipi di informazioni tranne quelle specifiche di competenza, si pone il problema di come
sia arduo beneficiare di politiche efficaci e ricevere servizi all’altezza dei bisogni generali
della popolazione residente. Non è, quindi, questione di qualità o di modernità, ma soltanto
di una esigenza pratica, legata al mondo della “politica competente” (quindi onesta) e della
competente gestione dei servizi pubblici, quella che è una delle più gravi lacune della realtà
pubblica lancianese. La “politica”, l’amministrazione pubblica e l’azienda, a Lanciano, sono
affidati a personale approssimativo nella formazione tecnico-politica ed arraffone.
Un altro esempio, ancora dalla cronaca locale: arrivano i treni passeggeri per Bologna.
Annuncio trionfalistico della stampa che enfatizza: si arricchisce la flotta “Minuetto” della
Sangritana, che ha acquistato due nuovi treni, passando da quattro a sei “Lupetto”. “I nuovi
mezzi - assicura il presidente Pasquale Di Nardo - entro l’autunno (tra i mesi di settembre e
ottobre 2010) raggiungeranno, per la prima volta, anche il capoluogo emiliano, rafforzando così

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il servizio effettuato già dagli autobus”. Prima di adesso, la Ferrovia Sangritana raggiungeva
il nord solo per il trasporto merci sulla tratta Fossacesia–Rimini-Faenza, in collaborazione con
Nord Cargo Milano. Un obiettivo importante, reso possibile grazie al contributo regionale e agli
sforzi dell’azienda, che in questo modo premia la crescente richiesta degli utenti viaggiatori
che già usufruiscono del servizio sulle tratte Teramo-Giulianova-Pescara, Pescara-San Vito-
Lanciano e Vasto-Pescara, dove il sistema tariffario fra Trenitalia e Sangritana è integrato.
“Ogni treno - aggiunge Di Nardo - è costato quattro milioni e mezzo di euro e andrà a sostituire,
mano a mano, quelli più vetusti”. Destino diverso, invece, per i treni diesel risalenti agli anni
’80: “In questi giorni - aggiunge il presidente - raggiungeranno l’officina per essere omologati
e dotati di sistemi di sicurezza più moderni, in modo da poter essere utilizzati per la tratta de
L’Aquila e di Sulmona, dove la linea non è elettrificata. Stesso progetto di omologazione anche
per i 5 treni Orsetto, acquistati anni fa, ma ormai quasi pronti”. Ulteriore potenziamento in
vista anche per gli autobus: entro il mese di agosto 2010, infatti, saranno presentati, oltre ai
due nuovi treni, anche altri 16 nuovi minibus che andranno ad ampliare l’attuale parco bus, già
dotato di 50 unità, utilizzate a fini turistici, e di 111 utilizzate per il trasporto pubblico. Per i
nuovi Lupetto diretti al capoluogo felsineo sarà necessario attendere ancora; ad oggi, la linea
ferroviaria della Sangritana verso il Nord, s’arresta a Giulianova.
Due semplici esempi – le infrastrutture ricreativo-sportive e la mobilità - di come si agisce
a Lanciano; chi gestisce i servizi pubblici, siano essi pubblici amministratori che “privati”
imprenditori, non ritiene prioritarie alcune azioni e scelte, quando non giudica utili (a vario
titolo) a se e al proprio sistema di relazioni, progetti ed investimenti, pur gestendo a proprio
beneficio alcuni strumenti di comunicazione mediatica, non lavora appropriatamente
nell’interesse della comunità, dei cittadini che di quei servizi sono destinatari e fruitori. È vero
che non c’era una piscina a Lanciano, ma è anche vero che in un decennio l’Amministrazione
comunale ben altro avrebbe potuto fare e avviare, senza – necessariamente – ricorrere (ad
intercettare fondi europei nessuno pensa, magari consorziandosi con altri Comuni in progetti
ad hoc ?) ai “privati” che contaminano lo “spazio pubblico” con i loro limitati interessi
economici; è pur vero che Lanciano ha una nuova stazione (un po’ già “inumidita”, in verità) e
che la Sangritana ha finalmente provveduto a rinnovare il parco terni a disposizione, ma è pur
vero che si continua a non arrivare a Bologna o in altre città comodamente seduti sui convogli
e bisogna, come nel remoto passato, ob torto collo adattarsi all’intermodalità prevalente su
gomma, quindi inquinante, per recarsi altrove. La metafora di Lanciano “analogica” o “digitale”
può far comprendere che prioritari non sono la retorica politica, tantomeno l’atteggiarsi a
pubblici amministratori scimmiottando chi sa fare meglio, piuttosto il saper individuare un
concetto che goda di maggiore fortuna e diffusione rispetto a questi presi in prestito dal gergo
dell’informatica: quello di “democrazia”. Nel corso del Novecento, è progressivamente
diventato un ingrediente irrinunciabile per l’autodefinizione di qualsiasi movimento politico
(dal liberalismo al repubblicanesimo e al socialismo), tanto che nessun attore sulla scena
politica può definirsi “antidemocratico” pena la sua immediata cancellazione dal dibattito
pubblico. Oggi, le manifestazioni “reali” della “democrazia” italiana sono di quanto più lontano
si possa pensare dal concetto e dall’ideale che la parola vuole contraddistinguere. Come è stata
coniata la definizione “socialismo reale” per descrivere la deriva stalinista, dal 1924 in poi, in
U.R.S.S., così è altrettanto chiaro indicare con “democrazia reale” l’esperienza storico-politica
che dal 1948 ha segnato l’evolversi, in Italia ed in altri paesi europei ed “occidentali”,
dell’organizzazione socio-istituzionale del paese e del progressivo, evidente e mai lento
depauperamento d’ogni concreta espressione di partecipazione “plurale”, “collettiva” e
cosciente (poiché responsabilizzante) di intere generazioni di cittadini italiani alla vita pubblica,

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formandosi al ruolo di “decisore” attraverso l’esercizio trasparente del “dialogo tra diversi”
all’interno di autentiche istituzionalità popolari nelle quali, con “spirito di servizio” rappresentare
le istanze comunitarie. Attualmente “democrazia” non indica più solo una forma di governo,
un’ideologia o una procedura, ma l’intero orizzonte assiomatico dei paesi occidentali, che
comprende al proprio interno idee - quali libertà, autonomia, diritti individuali, eguaglianza -
affini, ma non equivalenti, alla tradizionale immagine della sovranità popolare. Questa
straordinaria fortuna dell’idea di democrazia non è però priva di ambiguità perché confonde in
sé molteplici piani di argomentazione. All’inizio di una nuova epoca caratterizzata dalla
globalizzazione, le dinamiche democratiche non hanno infatti generato solo luci ma anche
ombre (24) con le quali è necessario oggi fare i conti. Per esempio, libertà ed eguaglianza non
hanno camminato di pari passo, tanto che nelle democrazie liberali contemporanee sono
chiaramente aumentati i livelli di diseguaglianza sociale ed economica, così che oggi sembrano
riproporsi vecchie questioni di ceto, in particolare nell’accesso alle risorse e alle opportunità.
Anche a livello istituzionale il principio della rappresentanza ha finito per entrare in crisi a
causa della progressiva trasformazione dei partiti politici in macchine oligarchiche di
organizzazione del consenso, con scarso ricambio nella partecipazione ai processi decisionali
da parte dei cittadini. Infine, di fronte a un’insistita paralisi nella circolazione delle élites e
nella mobilità sociale, si sono affacciati sulla scena pubblica movimenti populisti che, favoriti
dall’irrigidimento delle istituzioni tradizionali e dalla “telecrazia”, hanno proposto nuovi
modelli di azione politica per certi versi contrari alla natura della democrazia rappresentativa e
costituzionale, ma che hanno riscosso grandi favori popolari, giungendo dunque a rovesciare
nel suo esatto contrario lo scopo intrinseco dell’appello alla maggioranza. Per questi, ed altri,
motivi è dunque necessario ritornare a discutere criticamente l’idea di “democrazia”, troppo
spesso diventata una banale e superficiale etichetta che maschera pratiche e ideologie non
democratiche (25). Quando si inizia un’esperienza nello “spazio pubblico”, molti credono sia in
gioco soprattutto la modernizzazione dello Stato. Poi ci accorge che non esiste solo lo Stato,
ma anche il territorio; oggi, ci si accorge anche che l’ICT (information and communication
tecnology) sia in grado di aprire spazi inediti di dibattito, alternativi al sistema mediatico
tradizionale. Soprattutto, che c’è una società che ha tutto il diritto di riprendersi in mano la
parola “pubblico”, senza lasciarla alla sola mercé delle burocrazie, delle consorterie, dei
“furbetti del quartierino”. È questo il percorso, umano e intellettuale, che porta ad immaginare
la “democrazia” soprattutto come “libertà da” (26) un esercizio del “potere” autoritario anche se
24
Illuminante, a questo proposito, il recente intervento di Alberto Asor Rosa su “il manifesto” del 13 Aprile 2011 - Fonte:
http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/04/articolo/4446/.
25
La sollecitazione proviene dalla lettura del volume pubblicato dalla Società editrice Il Mulino: Democrazia. Storia e
teoria di un’esperienza filosofica e politica (Società editrice Il Mulino, Bologna, 2011, a cura di Carlo Altini, contenente
saggi di: Carlo Altini, Ferruccio Andolfi, Dario Antiseri, Daniele Archibugi, Ermanno Bencivenga, Luciano Canfora, Pietro
Costa, Francesco Fistetti, Giovanni Giorgini, Bruno Karsenti, Yves Mény, Stefano Petrucciani, Pier Paolo Portinaro, Wolf-
gang Reinhard, Silvano Tagliagambe, Nadia Urbinati, Gianfrancesco Zanetti.), che nasce dalle attività pubbliche promosse
dalla Fondazione San Carlo nello scorso anno accademico. Cicli di conferenze, seminari, corsi e workshop hanno affrontato
l’argomento “democrazia” secondo approcci plurali - storico, filosofico, politico, sociologico e culturale - proprio perché
plurali erano gli orientamenti teorici, gli stili letterari e le argomentazioni concettuali degli studiosi che hanno animato i
lavori. Da tali esperienze è nato il presente volume, che mira a promuovere il dibattito sulla condizione attuale delle de-
mocrazie e a descriverne la complessità, senza però dimenticare i principali snodi storici e teorici che hanno condotto alla
situazione presente.
26
A questo proposito, utile la lettura di La comunicazione pubblica per una grande società. Ragioni e regole per un miglior
dibattito pubblico, Stefano Rolando, Etas Libri, 2010. Un testo che, partendo dal concetto di “Big Society”, si propone innan-
zitutto di suggerire percorsi concreti di miglioramento del rapporto cittadino-istituzioni, anche attraverso nuove proposte di
regolamentazione, a partire dall’inserimento di processi di valutazione dell’attività di comunicazione pubblica assenti nella
legge 150 e oggi assolutamente necessari per innescare il meccanismo virtuoso che Rolando auspica e prefigura.

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non in tutte le circostanze della vita pubblica presenta un volto repressivo; ecco, il focus risiede
proprio nell’arbitrio insito in una concezione “concessiva” della democrazia che bypassa
l’istituto dei “diritti”. A questo proposito, pur condividendone l’analisi e l’appassionata
necessità urgente d’agire contenute nell’intervento di Alberto Asor Rosa su “il manifesto” (13
Aprile 2011, citato in nota), non si converge sulle modalità auspicate perché si continua a
confidare nella “forza” del popolo. Un meccanismo storico evolutivo che, significativamente,
ha il suo centro in quella parte per nulla inerte e statica, ma anzi molto attiva e viva, dell’universo
pubblico composta da tutti quei “mestieri relazionali” che (Rolando), con espressione molto
felice, chiama “architetti sociali”: «medici, educatori, psicologi, sociologi, che stanno
diventando forse la parte più importante del mestiere pubblico e che sfatano la vecchia idea che
le professioni amministrative siano solo di contabilità e controllo». In termini diversi, alle
stesse conclusioni, utili a fornire energia civica per una nuova “liberazione” da un “potere
stabilmente occupato dai soliti noti”, giunge Aldo Bonomi riferendosi a “pratiche e comunità
di cura” ed individuando nel “mettersi in mezzo delle professioni dell’inclusione, degli
insegnanti e della giustizia mite, del lavoro invisibile femminile e dell’auto-organizzazione dei
soggetti sociali, oltreché delle istituzioni pubbliche e delle fondazioni bancarie” quelle “zone
di passaggio nel muro che separa l’istituzione dalla società, creando terreni di incontro in cui
interrogarsi sulle cause che rendono il sociali sempre più indocile” (27). Come auspicio e
obiettivo, la “democrazia” dovrebbe stare dentro quest’area, quella del “sociale” piuttosto che
monopolizzata ed anestetizzata dalla nociva ipostasi politico-partitica e lobbystico-finanziaria.
In ogni caso, non più dentro la voce del potere costituito. Va insegnato anche ai cittadini a stare
in guardia dai processi di propaganda e di espropriazione dell’esistenza dentro la gabbia di
un contemporaneo feudalesimo. Processi di omologazione e di desertificazione che non sono
solo quelli archiviati nei libri di storia, ma esistenti tuttora nel quotidiano “democratico” italiano
dei quali bisogna aiutare le coscienze a prenderne le distanze.
“Big Society”, nelle scienze politiche, indica attualmente il processo di accelerazione dato
da alcuni governi – in particolare quello inglese, ma i presupposti si riconoscono già nella
politica di Obama – alla progressiva integrazione tra stato, mercato e cittadinanza, in
direzione di un’idea di società, appunto, “allargata”. Una società, in altri termini, pienamente
consapevole del suo ruolo attivo nella dimensione pubblica, nella quale assume compiti e
responsabilità sempre maggiori, ivi compreso quello della rappresentazione dei problemi
comuni e della costruzione del dibattito pubblico. Si tratta però di un modello strettamente
legato a canoni tipicamente anglosassoni e che dunque non può essere mutuato sic et simpliciter
nel contesto italiano, dove vigono logiche assai diverse. Quello che può e deve invece essere
“importato” nel nostro scenario è il tema connesso di un parallelo allargamento dell’idea di
dimensione pubblica, vista non più soltanto in senso restrittivo, come l’insieme di servizi e
apparati messi in atto dalle normative vigenti per dare “voce” alla pubblica amministrazione. È
questa un’idea limitativa, come lo sarebbe ridurre la l’azione economica d’impresa alla sola
attività di persuasione all’acquisto delle merci, ignorando la capacità del sistema produttivo di
rappresentare anche valori, diritti e interessi ben più ampi e diversificati. Allo stesso modo, la
dimensione pubblica non è solo un insieme di figure professionali e di funzioni, ma una parte
viva di un dibattito pubblico al plurale, a più voci che contempla la partecipazione attiva di
“tutti”, ricevendo apporti da ognuno secondo le sue possibilità.. Chi dice del resto che a definire
l’agenda setting devono essere solo pochi poteri oscuri o palesi, comunque estranei alle forme
di vita sociali ? Al contrario: la parola “pubblico” appartiene non solo allo Stato “occupato”,
27
“Sotto la pelle dello Stato – Rancore, cura, operosità” di Aldo Bonomi, Feltrinelli, 2010, pagine di riferimento 163
– 169.

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ma a tutti i soggetti sociali che si fanno carico, in modi diversi, di responsabilità su interessi
collettivi e che dunque, come ripetono le teorie della cittadinanza attiva, sono per ciò stesso
portatori di un’istanza pubblica. Quale cambiamento potrebbe portare questa visione nella
dimensione pubblica ? Innanzitutto il passaggio della “politica” e dell’amministrazione a
discipline tecniche, normativamente intese, come pura dimensione organizzativa della PA, a
componente viva dello scambio civile all’interno di una società matura poiché partecipata dai
cittadini. Il che significa portarla oltre la “soglia democratica minima” del ricorrente rito
elettorale e del voto di preferenza, ormai diventati limitativi, espropriatavi dei diritti civili
verso il più vasto orizzonte della democrazia partecipativa e delle neoistituzionalità
popolari. Si tratta allora di dare spazio a nuovi sviluppi e alla possibilità di utilizzare lo “spazio
pubblico” per rappresentare anche altri bisogni oltre a quello informativo – identità di un
territorio, coesione sociale, solidarietà – e sviluppare nuovi processi, che abbiano al centro non
più solo il funzionario comunale o, peggio, il funzionario di partito, ma tutta una filiera di
operatori pubblici – i cittadini stessi organizzati in un efficace “decentramento” - che
agiscono variamente nella dimensione relazionale del sociale. Si al “ruolo” politico di sana
mediazione dei medici, degli insegnanti, degli educatori, ma anche a soggetti associativi e
imprenditoriali: tutti portatori di un’istanza pubblica tanto quanto i rappresentanti dello Stato
depurati delle appartenenze partitiche. Del resto al centro di questo modello c’è una visione
non più prescrittiva e top-down del rapporto tra istituzione e società, ma partecipata e fondata
sulla discussione. In Italia si dimentica che la dimensione pubblica dell’esistenza civile non
deve semplicemente rassicurare il cittadino e “tenerlo buono”, ma deve responsabilizzarlo e
aiutarlo a responsabilizzarsi autonomamente, incoraggiarlo ad “afferrare” gli argomenti che
ritiene importanti per difendersi in prima persona, per essere più reattivo di fronte ai problemi,
compresa la “crisi”. Senza aspettare la “lezione” dello Stato sotto forma di omelia ministeriale,
regionale, provinciale, comunale. In questa riflessione, il richiamo al recupero del “valore della
conflittualità”, senza la quale non si dà dialettica né un sano dibattito pubblico, è importante,
anche se può spaventare o rendere perplessi. Esattamente come nella psicologia delle persone,
il conflitto è di per sé un processo maturativo; quando scade nell’eccesso, però, diventa
patologia. È evidente che il conflitto va temperato e che tale compito spetta alla politica. Ma
questo non vuol dire sedare le conflittualità, renderle irriconoscibili, ridurle a in una linea
piatta, bensì farle esprimere e metterle in condizione di generare una maturazione responsabile
della vita collettiva. I conflitti “spostano gli equilibri”, e questo spostare produce anche
sofferenza, dolore – basti pensare ai processi migratori. Ma nello spostare rimescolano le carte,
“cambiano posto” alle cose e nel farlo cambiano anche la faccia del mondo. Per questo la
dimensione pubblica dell’esistenza collettiva non ha solo il compito di “rivendicare cose”, ma
anche di creare spazi e dare voce. Anche al conflitto. Per l’innovazione necessaria e per la
definitiva affermazione d’una “democrazia” senza aggettivazione oppure, semplicemente
declinata nella categoria del “possibile”. Questi auspici teorici hanno anche i merito di poter
essere tradotti in “pratica” (come le ciliegie: una tira l’altra) oltreché rappresentare una strategia
per lo sviluppo. Autonomia energetica completa basata sulle energie rinnovabili è il programma
di minima per i prossimi 15/20 anni di un governo di Lanciano basato sul realismo ed il buon
senso (qui ci si riferisce compiutamente agli apporti ideativi, politico-programmatici e culturali
del compianto Prof. Oscar Marchisio, mente sublime di esploratore del mondo, docente
universitario, creativo scrittore, editore, promotore raffinatissimo di saggezza trasformativa
che ho avuto modo di conoscere ed d’apprezzare 28). Si tratta di “agire local-mente e pensare
28
La casa editrice di Oscar Marchisio, parte d’eccellenza della sua ricchezza progettuale in campo politico-culturale, è
SOCIALMENTE [http://www.socialmente.name/].

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global-mente”. Anche i veloci corsari del Somaliland l’hanno capito. La centralità dell’energia
e il problema dell’autonomia energetica come fondamento di ogni azione politica. Di qui
l’attacco alle petroliere, la valutazione del rischio, il costo del riscatto bilanciato su un 10%
circa del valore della nave e del carico, una transazione ragionevole per gli assicuratori ed i
broker marittimi abituati a giocare sul rischio nave. Loro i “corsari somali” agiscono con una
visione a breve, noi gli eredi dei gloriosi corsari, citati dai Greci e dai Romani, i famosi
Thyrrenos, dovremmo pensare alla nostra autonomia energetica come base e seria discussione
per ogni ulteriore discussione politica e amministrativa. Autonomia energetica completa basata
sulle energie rinnovabili è il programma di minima per i prossimi 15/20 anni di un governo di
Lanciano basato sul realismo ed il buon senso. Ovvero dobbiamo riappropriarci della
“alimentazione”: sia di quella energetica elettrica e e sia di quella dei carboidrati e delle
proteine, vegetali naturalmente. Alimentare corpo e mente, grassi vegetali e plug-in virtuali.
Non ci interessa la tracciabilità sulle etichette, meglio, non ci basta, dobbiamo risalire la catena
del valore e “governare” l’alimentazione. Curiosamente “alimentare” nasce dalla stessa radice
di “alunno”, infatti “alumnus”,“allievo” è il participio passivo di “alere” “allevare”. Ritroviamo
nella nostra etimologia, i percorsi dei nostri programmi di azione : siamo “alunni” di un nuova
forma di alimentazione. Poi, i “giardini verticali” che abbattono il calore e fanno ridurre il costo
del “conditioning”, visto che il cambiamento climatico ormai per un po’ lo sentiremo acutamente.
Allora dobbiamo liberare “territori” dalla dipendenza dal petrolio e dalla chimica, questo è il
programma di minima “per la sopravvivenza”. Dunque la strategia è da subito: energie
rinnovabili e bio-agricoltura. Energie rinnovabili (eolico, fotovoltaico, idro, biomasse mini) e
bioagricoltura, ma non lontano da noi, anzi a Km 0, se non si perde in trasporto quello che
guadagniamo in energia. Quindi il tema della nostra “azione diretta” è la nuova “forma della
città”. Questa è la dimensione del nostro operare che si deve “articolare a geometria variabile”
per la lotta di liberazione dal petrolio. In questo contesto le elezioni amministrative sono un
“accidente” utile, ma sicuramente piccola cosa rispetto alla “lotta” a “geometria variabile” che
deve “liberare i territori” dal comando suicida dei petrolieri e dei chimici. Il “giardino ciclabile”
è il simbolo di un percorso che mette insieme: a) azioni immediate di innovazione sulle
rinnovabili b) azioni immediate di occupazione e sviluppo della bio-agricoltura con mercatini
bio e nuovi orti urbani c) programmi di medio periodo sui regolamenti edilizi e sull’innovazione
ed efficienza dei “componenti” energetici d) programmi a medio termine sul nuovo ruolo del
“mare come bene comune” sia per l’energia sia per la biodiversità e) rilancio della lingua “arti
varie“come punto di incontro delle culture del Mediterraneo a partire dalla costituzione della
“Biblioteca del mondo” nuovo grande “luogo-evento permanente” della città f) progetti da
subito del “giardino-città” come programma della fabbrica dell’ossigeno e della progressiva
riduzione dell’asfalto. Questo terreno diventa un sistema a “geometria variabile “rivolto a
smontare il potere dell’asse auto-petrolio come cerniera della nostra “deserta urbanità”,
dobbiamo rimettere al centro la città di Lanciano come “santuario” delle energie rinnovabili,
della bio-agricoltura e della “arti varie” come lingua “franca” della sua missione come
“metropoli” della Frentania. A distanza di decenni dai primi importanti esperimenti in Italia e
all’estero, si impone un bilancio sulla qualità, il senso, la forma del parco urbano: nell’attuale
situazione economico/politica è impossibile infatti acquisire ed attrezzare grandi aree, salvo
che siano dichiarate inedificabili da norme legislative cogenti di tipo ambientale, e gli spazi
verdi urbani si organizzano sempre più come sistemi che seguono spesso gli andamenti dei
corsi d’acqua o la presenza di manufatti storici. Grandi spazi inedificati certo non mancano
all’interno della città, ma sono destinati a parcheggi, grandi aree di sosta e di manovra, nodi
infrastrutturali, piccole e medie aziende manifatturiere aziende o grandi attrezzature.

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Il discusso “federalismo municipale” dovrebbe, non solo a mio avviso, considerare anche
l’irrisolta situazione di crisi economico-sociale del nostro Paese, nonché lo scivolamento verso
il basso del tenore di vita dei ceti già disagiati. In questo contesto, non possono che preoccupare
alcune scelte inserite nella Legge di Stabilità per l’anno 2011. Tali scelte vengono prese dal
Governo Centrale senza considerare le conseguenze per Comuni e Regioni di come sarà poi
possibile garantire la continuità dei servizi, le risposte alle persone in difficoltà, i livelli minimi
di protezione sociale.
Un simile grido di allarme è stato lanciato anche da Caritas che chiede all’attuatore e,
di riflesso, alle istituzioni locali, maggiore attenzione a questi aspetti, spesso sottovalutati.
In effetti, riguardo all’esenzione ICI sulla prima casa (e relative pertinenze), a prima vista
potrebbe sembrare un vantaggio per la collettività, ma in realtà l’esonero indiscriminato ha
portato a minori introiti comunali e ad una disparità di trattamento (considerando anche la non
progressività dell’imposta). Tra i punti di questo Decreto Attuativo ne cito solo alcuni in termini
generali: 1) dal 2011 va ai Comuni il gettito derivante da imposta di registro e di bollo, imposta
ipotecarie e catastale, tasse ipotecarie, per una quota pari al 30%; 2) torna la tassa di scopo per
finanziare opere pubbliche, al 100% e per 10 anni, già prevista nella Finanziaria 2007 varata dal
Centrosinistra; 3) imposta municipale unica, (IMU,) fissata al 7,6 per mille (ridotta a metà per
gli immobili locati) che dal 2014 sostituirà dal 2014 Irpef, addizionali comunali e ICI, colpendo
solo immobili diversi dalla abitazione principale. Di fatto una “ICI seconda casa”; 4) imposta
municipale secondaria, con cui i Comuni,a seguito di delibera Consigliare,accorperanno date
forme di prelievo come la tassa occupazione ed i diritti di affissione; 5) “cedolare secca” sugli
affitti di immobili abitativi al 21,6% (19% canoni concordati) al posto della consueta tassazione
Irpef; 6) scompare l’agevolazione alla famiglie numerose, nel limite di 400 milioni di euro. In
ogni caso l’autonomia finanziaria delle Amministrazioni Comunali deve essere compatibile con
gli impegni finanziari assunti con il Patto di stabilità. Secondo ANCI rimangono quindi alcune
perplessità: la nuova Imposta comunale premierà proprietari di seconde case penalizzando
i titolari di imprese; la convenienza nell’uso impositivo della cedolare secca dipenderà dal
tipo di contratto, con maggiori benefici per quelli cosiddetti “convenzionati”, oggi però poco
applicati. A parte che mi chiedo se questo nuovo Progetto, accanto ad un discutibile maggior
gettito, porti davvero alla semplificazione amministrativa, dato che di fatto aggrava i Comuni
di responsabilità e funzioni non dovute e impedisce loro di concentrarsi sulle competenti
attività gestionali. Considerando che le risorse disponibili già ora sono spesso sprecate per
scopi definiti pubblici, ma in realtà inutili. Insomma oggi più che mai servirebbe una politica
“a misura d’uomo”. A misura della comunità dei cittadini. Cerchiamo di smentire nei fatti, la
triste profezia liberatoria di Alberto Asor Rosa.

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LANCIANO CITTÀ LIBERA ? LAVORI IN CORSO FINO AL 2016

© Maggio 2011 Graziano D’Angelo e Giovanni Dursi

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Indice

1. Antefatto: La città e le sue origini leggendarie, Graziano D’Angelo pag. 3


2. Generazione, Giovanni Dursi pag. 4
3. Lanciano, spiritus loci, Graziano D’Angelo pag. 8
4. Mutando il “paradigma”, muta il “paesaggio”, Giovanni Dursi pag. 9
5. Il “sessantotto”, Graziano D’Angelo pag. 13
6. Una città oligarchica, per definizione, non è una città libera, Giovanni Dursi pag. 14
7. La rivolta delle tabacchine e l’inizio del declino, Graziano D’Angelo pag. 17
8. Commercio e vita cittadina, Giovanni Dursi pag. 18
9. Interessi territorialmente e socialmente vasti e interessi politicamente ristretti,
Giovanni Dursi pag. 20
10. La città dove si vendeva il giudizio, Graziano D’Angelo pag. 22
11. Anche a Lanciano il “globale” si intreccia con il “locale”, Giovanni Dursi pag. 24
12. Un paradigma rinascimentale: La città come opera d’arte,
Graziano D’Angelo pag. 27
13. Conclusioni provvisorie: Lanciano, città libera. Come ?, Giovanni Dursi pag. 29
13.1 Via l’egoismo tribale dallo spazio politico pubblico pag. 29
12.2 Lanciano analogica o digitale ? Meglio democratica pag. 36

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Maggio 2011
Casa Editrice TABULA srl
Villa Martelli, 221 - 66034 Lanciano CH
www.tabulaedizioni.com
tel.0872.45208

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