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IL PAPATO ANTICHITA, MEDIOEVO, RINASCIMENTO.

SCHIMMELPFENNING
CAPITOLO 1: La comunità romana prima di Costantino.
Il Cristianesimo si diffuse durante l’Impero romano e per tale motivo dovette adattarsi alle sue
strutture, costumi e modi di pensare. Tuttavia, dal IV secolo i cristiani si opposero al culto romano
dell’imperatore rappresentando un pericolo per la stabilità dello stato essi vissero al di fuori della
legalità. Le prime persecuzioni iniziarono a partire dalla metà del III secolo quando le comunità
cristiane si erano stabilite in quasi tutto l’impero. Solo dal 311 al 313 si ebbe la legalizzazione del
cristianesimo con gli editti di tolleranza da parte di Costantino. Questa prima epoca può essere
suddivisa in due periodi: nel primo erano ancora in vita i testimoni diretti della fede, all’inizio del II
secolo però i cristiani furono costretti a costruire la loro dimora nel mondo senza l’aiuto dei primi
testimoni e a cercare la loro identità. Quindi il secondo periodo fu caratterizzato dalla realizzazione
di un canone della sacra scrittura e dalla compilazione di elenchi relativi alle catene relazionali con i
primi testimoni ovvero la successione apostolica, mentre nelle comunità si formava già un
ordinamento gerarchico.
La dottrina tradizionale fonda il ruolo del vescovo di Roma sul fatto che quest’ultimo sarebbe il
successore di Pietro al quale Gesù avrebbe affidato la guida della sua chiesa (potere delle chiavi
Matteo 16-18), ma solo dal III secolo si può individuare un più stretto legame tra Pietro e la
comunità romana. Pietro fu uno dei primi discepoli di Gesù e uno dei primi testimoni della sua
resurrezione, egli guidò il collegio dei dodici (imitava le dodici tribù dell’antica alleanza di Israele)
che si occupava della missione tra gli ebrei di Giudea e di Galilea. Al loro fianco vi erano 7
incaricati scelti dalla comunità detti poi diaconi responsabili della missione tra gli Ellenisti, gli ebrei
non israelitici della diaspora. Ogni componente di questa comunità era un apostolo ovvero un
nunzio del nuovo messaggio, l’accostamento dei dodici agli apostoli venne fatto successivamente.
La comunità di Gerusalemme venne perseguitata per la prima volta nel 42 d.C e rimase priva dei
suoi capi-guida, successivamente la comunità organizzò la propria conduzione in analogia agli usi
degli ebrei di Palestina relativi al reclutamento dei sacerdoti. Per molti decenni il centro dei cristiani
rimase Gerusalemme, distrutta poi nel 70 d.C da Tito e per tale motivo il cristianesimo perse il suo
centro vitale. Della vita di Pietro dopo la fuga da Gerusalemme non si conosce nulla di certo, si
suppone che si sia recato in missione fuori dalla città, tuttavia che egli sia giunto a Roma è un’idea
di generazioni successive. Dalla lettera di Paolo ai romani risulta che la comunità dell’urbe si era
costruita già a partire dalla metà del secolo tra le comunità ebraiche del luogo. Dell’attività di Pietro
non ci dà notizia né la lettera ai romani né quella indirizzata alla comunità di Filippi. Intorno al 96
d.C una lettera ricorda per la prima volta l’operato di Paolo e Pietro a Roma. Nella lettera sono citati
passi del Vecchio Testamento e di Pietro e Paolo si presuppone noto che siano attivi a Roma e che
qui siano morti. Perciò si può presupporre che nella comunità romana del I secolo fossero attivi
degli ispirati annunciatori del Vangelo dei quali forse Pietro e Paolo fecero parte, e che altri membri
della comunità a loro sottoposti si occupassero delle esigenze amministrative e cultuali. Nonostante
si sia tentato di rintracciare le tombe dei due apostoli, gli scavi non hanno dato risultati eccezionali e
ciò che resta certo è che alla fine del I secolo la comunità romana riteneva che Pietro e Paolo
fossero stati attivi al suo interno, dalla metà del III secolo anche nell’Urbe vi erano luoghi
commemorativi dei due apostoli. Più tardi scritti apocrifi descrissero leggendariamente la vita e la
morte di Pietro a Roma e si iniziò a considerarlo come il più eminente tra gli apostoli per
legittimare il primato del vescovo di Roma.
L’organizzazione della vita comunitaria dei Cristiani. In oriente ancor prima che in Occidente nella
seconda metà del II secolo apparve un gruppo di incaricati: alla sommità vi era l’episcopo che
presiedeva le funzioni liturgiche ed era l’unico a poter accogliere nuovi membri attraverso il
battesimo, guidava il collegio dei presbiteri le cui mansioni non sono definibili con chiarezza per
tutte le comunità. In giorni importanti i presbiteri celebravano con l’episcopo l’ufficio divino,
conducevano la celebrazione eucaristica nelle loro sotto-comunità e preparavano i catecumeni al
battesimo. Mentre i presbiteri attestano l’esistenza di un’unione federativa di più gruppi locali in
una comunità complessiva, i diaconi erano il prolungamento del braccio degli episcopi per
questioni riguardanti l’amministrazione e la cura caritativa. Nella Roma del III secolo vi sono altre
cariche: suddiaconi che sottoposti ai diaconi li assistevano nei loro compiti, accoliti che fungevano
da tramite tra episcopo e presbiteri, esorcisti che avevano l’incarico di scacciare i demoni, lettori
che leggevano e cantavano testi liturgici, ostiari che controllavano le aree d’ingresso agli spazi in
cui si svolgevano le celebrazioni comunitarie. Alla metà del III secolo a parte il vescovo, del clero
romano facevano parte 46 presbiteri, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti, lettori e
ostiari. Il numero settenario dei diaconi e dei suddiaconi corrispondeva a quello menzionato negli
atti degli apostoli per i diaconi, per tale motivo Roma fu suddivisa nel periodo tardo antico in sette
regioni ecclesiastiche. Altre fonti ci offrono ulteriori informazioni sulla comunità cristiana, dalla
fine del II secolo di questa facevano parte tutti gli strati sociali dallo schiavo che poteva diventare
vescovo fino agli appartenenti all’alto ceto senatorio. Nel III secolo la comunità richiese una più
vasta attività amministrativa per tale motivo non solo vennero definite le regioni per l’attività di
diaconi e suddiaconi ma venero anche acquistati cimiteri per le sepolture sottoposti alla
supervisione dei diaconi e utilizzati forse anche come edifici destinati alle cerimonie liturgiche.
Importanti sono le riforme del vescovo Callisto I il quale nel 220 riconobbe come matrimoni le
unioni tra donne della comunità e schiavi cristiani o semplici liberi, limitò il numero dei peccati
mortali e si riservò l’assoluzione di un tal genere di peccati, egli si richiamò all’autorità della
cathedra della chiesa di Roma da lui occupata. Già queste disposizioni rivelano: che già allora il
vescovo si attribuì un ruolo monarchico ma non lo giustificò ancora con la successione petrina ed
una comprensione per la realtà delle cose ma allo stesso tempo un mancato rispetto per le antiche
tradizioni cristiane. Ciò portò ad una controversia tra Callisto ed il presbitero Ippolito, dalla quale
uscì vincitore il primo. Il primo scisma a Roma si ebbe dopo la persecuzione delle comunità
cristiane sotto Decio il quale volle rafforzare il culto imperiale per garantire la compattezza
ideologica, nel 257 Valeriano riprese la politica persecutoria di Decio inasprendola non solo con la
minaccia della pena capitale per gli appartenenti al clero e per i cristiani ma anche attraverso la
confisca degli edifici ecclesiastici e il divieto delle riunioni. Queste persecuzioni non ebbero
l’effetto sperato, specialmente la seconda infatti intorno al 260 il figlio di Valeriano, Gallieno
restituì il patrimonio ecclesiastico alla comunità. Negli anni successivi la comunità romana poté
svilupparsi dal punto di vista organizzativo e patrimoniale perché non minacciata da persecuzioni,
l’ultima grande persecuzioni sotto Diocleziano e Galerio del 302 fu destinata a fallire. Prima della
fine delle persecuzioni si ebbero trasformazioni sia in campo architettonico che liturgico: Callisto I
acquistò per la comunità romana le catacombe che presero poi il suo nome, alla metà III secolo vi fu
poi costruita una particolare cripta, a questo stesso periodo si deve ricondurre l’istituzione della
festa papale di Pietro e Paolo nonché la stesura degli elenchi recanti la data di inizio dell’episcopato
e di morte dei vescovi.
Il ruolo di Roma come centro dell’impero si costruì basandosi sulla lettera di Clemente intesa come
uno scritto monitorio della comunità romana a quella di Corinto. Ulteriore occasione per la
costruzione del primato di Roma fu la rivendicazione della successione apostolica. (VEDI
SUSSIDIO) Ciò non significò che i vescovi romani in carica fossero successori di Pietro si volle
indicare che dai tempi degli apostoli alla guida della comunità vi erano sempre stati esponenti in
grado di ricondurre la retta dottrina ai tempi apostolici, analogamente ad altre comunità quali
Antiochia e Smirne. Gli apostoli importanti per Roma erano Pietro e Paolo come già rivelava la
lettera di Clemente. In seguito alla costruzione della dottrina della successione apostolica divennero
d’uso due concetti fondamentali nell’ideologia papale ovvero cathedra e sedes apostolica che
indicavano a Roma come in altre comunità che il titolare della sede si inscriveva in una precisa
tradizione dottrinale ovvero in quella degli apostoli. Il ruolo di Roma fu fondato poi con la citazione
del vangelo di Matteo (16,18) con la quale si voleva indicare solo un rango della comunità romana e
del suo vescovo e non un primato. A partire dal II secolo dunque la comunità romana ed il suo
vescovo erano collegati in modo serrato con l’attività di Pietro e Paolo e che un certo primato era
loro riconosciuto nella parte occidentale dell’impero, tuttavia, nel periodo successivo ciò fu
sufficiente per sviluppare le basi di un risalto del ruolo papale.

CAPITOLO 2: Il Papato e Roma fino alla morte di Teodorico (526).


Il papato nella sua esistenza e funzione fino alla metà dell’XI secolo fu forgiato da fattori politici
sui quali esso stesso poté influire solo in scarsa misura. A Roma nel IV e V secolo si assiste alla
completa cristianizzazione della città, il vescovo guadagnò maggior potere e si svilupparono
elementi dottrinali significativi del primato papale. Fino alla fine di questo periodo Roma rimase la
capitale ideale dell’impero nonostante gli imperatori risiedessero altrove. Lo scemare dell’influsso
politico della città si avvertì dal 324 quando Costantino e poi il suo successore costruirono in
oriente Costantinopoli come nuova Roma mentre l’occidente fu governato da Roma e Ravenna. A
Roma il senato decadde, i vescovi romani ne approfittarono per costruire un potere loro proprio per
rendersi indipendenti dall’imperatore. È necessario evidenziare le trasformazioni dell’occidente in
seguito alla migrazione di popoli dato che tali trasformazioni furono determinanti per apprezzare gli
ambiti di validità riconducibili al vescovo romano al di fuori della penisola italiana. Nel IV secolo
solo in Italia e in Africa settentrionale esistevano organizzazioni ecclesiastiche salde, poste sotto la
direzione di metropoliti, mentre in Gallia e nella penisola iberica forme amministrative analoghe
erano impegnate a muovere i loro primi passi. Tutto si arrestò nel V secolo dato che dal 430 le
comunità cristiane rimasero nell’ombra, furono perseguitate o scomparvero. Negli anni successivi il
compito dei vescovi di Roma fu quello di riunire in una sola fede e culto la loro città attraverso non
solo l’attività missionaria ma anche attraverso la guida delle differenti comunità cristiane all’interno
di un culto e di una confessione unitari. Di conseguenza la cristianizzazione della città fu pervasa
dallo sforzo tendente a far affermare la lingua latina all’interno di tutte le comunità a inglobare le
micro comunità che avevano vescovi propri oppure ad eliminare le comunità eretiche. Da ciò risulta
chiaro che i pontefici necessitarono di molto tempo per affermare realmente a Roma il loro
controllo dottrinale. Leone I fu il primo papa ad incaricare autorità secolari di procedere con la
forza contro tali gruppi. La cristianizzazione di Roma si realizzò dunque in modo non del tutto
pacifico, ai vescovi non era possibile attuare i loro progetti senza l’appoggio del potere secolare. La
collaborazione si rivelò incisiva nel primo decennio del secolo sotto il dominio di Costantino e dei
suoi figli. La legalizzazione del cristianesimo ebbe come conseguenza la restituzione alle comunità
cristiane dei loro possessi e per Roma ciò significò la riconsegna dei cimiteri situati presso le strade
principali e degli spazi per le riunioni nelle abitazioni. L’ubicazione dei cimiteri è conosciuta ancora
oggi, di contro nulla si sa sulla localizzazione dei centri della comunità, sono gli edifici fondati da
Costantino e dalla sua famiglia a costituire le principali testimonianze sulla prima fase della
cristianizzazione di Roma dopo la fine delle persecuzioni. Quasi tutte le costruzioni cultuali
rappresentative dei cristiani furono erette secondo l’esempio della basilica il principale edificio
polifunzionale romano. La comunità romana pre-costantiniana non ebbe alcuna cattedrale fissa né
un episcopio stabile. All’inizio per i riti officiati dal vescovo era utilizzato il complesso del
Laterano, dove si celebrava la festività di maggior rilievo la Resurrezione, nella vigilia battezzava i
nuovi cristiani e nel tempo preparatorio celebrava con loro la domenica di Resurrezione. La basilica
era utilizzata anche per i sinodi romani e per le sedute giudiziarie ecclesiastiche. Gli edifici erano
eretti al di fuori della zona insediativa cittadina e se ciò rendeva difficoltoso il rapporto tra il
vescovo e i cittadini già dalla metà del IV secolo tale ubicazione periferica si rivelò vantaggiosa in
occasione dei conflitti. Fin dagli ultimi anni di Costantino vescovi romani, presbiteri e più tardi
anche ricchi laici, iniziarono a fondare chiese in abitazioni di loro appartenenza si tratta delle chiese
titolari, all’inizio denominate secondo il proprietario e fondatore a partire dal VI furono sempre più
spesso intitolate a santi. Queste sostituirono sempre più gli antichi spazi per le riunioni ed i fedeli si
trovarono ad essere ripartiti e sottoposti alla chiesa titolare più vicina. In ogni chiesa erano attivi dei
presbiteri che aiutati da ostiari, lettori e accoliti celebravano l’eucarestia, assistevano i fedeli e
preparavano al battesimo i nuovi cristiani con la collaborazione degli esorcisti. Il battesimo era in
origine riservato al vescovo ma con l’aumento del numero degli adulti intenzionati a battezzarsi nel
IV il vescovo dovette delegare le sue facoltà. Dalla fine del IV secolo furono eretti dei battisteri a
ridosso delle chiese titolari ed anche in prossimità delle basiliche cimiteriali ubicate fuori dalla città
come S. Pietro. Altro compito del vescovo e dei presbiteri, connesso alla cristianizzazione
consisteva nella trasformazione in senso cristiano delle onoranze funebri come nel caso del
refrigerium che dalla fine del IV secolo fu bandito dai cimiteri e al suo posto fu accentuata la
venerazione dei martiri li sepolti. Laddove non erano giunti Costantino e la sua famiglia con le loro
costruzioni vi provvidero i vescovi, chierici e laici che fecero erigere piccoli martyria o grandi
basiliche all’interno e presso i cimiteri. L’aumento del numero di edifici ecclesiastici indica che a
Roma la nuova religione guadagnò fedeli rapidamente. I vescovi però necessitavano di assoggettare
il culto e l’organizzazione ecclesiastica al loro controllo e servizio. Prima della metà del IV secolo
la nascita di Cristo era festeggiata in Occidente il 25 dicembre mentre nella parte orientale la
natività era celebrata il 6 gennaio, a Roma erano contemplate entrambe le festività. Altro modo per
guadagnare l’unità cultuale consistette nell’affermazione di una lingua comune per la liturgia
ovvero il latino. Importante al pari dell’unificazione della lingua fu quella relativa alla celebrazione
dei giorni commemorativi dei martiri, sotto Liberio nel 354 venne prodotto un catalogo-elenco nel
quale venivano registrati in successione mensile i giorni commemorativi celebrati con
l’approvazione del vescovo. Nel V e VI secolo questo elenco venne ampliato e il numero dei martiri
aumentò da 14 a 39. Non c’è da stupirsi che fin dall’inizio di tale sviluppo Pietro sia stato
particolarmente venerato e che ben presto il suo culto superò tutti gli altri. La traditio legis e la
traditio clavium (consegna delle chiavi) a Pietro divennero temi prediletti per le raffigurazioni
iconografiche a lui dedicate. Per consolidare le rivendicazioni fu ora necessario istituire un
collegamento tra la serie dei vescovi romani e Pietro. Fin dal II secolo prima fuori Roma poi in città
erano stati compilati degli elenchi con la successione dei vescovi di Roma. Ai tempi di Damaso
esisteva già un elenco di vescovi romani che non solo offriva informazioni sulla durata in carica dei
singoli presuli, ma anche presentava Pietro come primo vescovo di Roma. Alla fine del IV secolo fu
Rufino di Aquileia a tradurre in latino parti delle Pseudo Clementine una leggenda in forma
romanzata della vita di Clemente I, scritta nel III secolo in Oriente conteneva una presunta lettera di
Clemente al fratello del Signore Giacomo, nella quale quest’ultimo era detto capo della comunità di
Gerusalemme e vescovo dei vescovi ovvero capo supremo dei cristiani. Tuttavia era più importante
che Clemente avesse descritto come Pietro gli aveva trasferito quale suo successore il potere di
legare e sciogliere. La lettera provava che i vescovi di Roma detenevano come Clemente il pieno
potere di Pietro. Alla fine del IV secolo si affermò che ogni vescovo dell’urbe occupava la
cathedra Petri. Attraverso l’unione di questi elementi nacque solo ora la dottrina della sedes
apostolica la quale affermava che ogni vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, nella sua
carica poteva disporre della pienezza del potere dell’apostolo. Quest’ultima valeva come intoccabile
poiché non era legata alla persona dei singoli vescovi bensì trovava una fondazione transpersonale
in Dio stesso. Leone I approfondì tale dottrina con l’ausilio del diritto romano poiché presentò il
presule romano come legittimo erede di Pietro, d’ora in poi il vescovo di Roma concepì se stesso
come vicario di Pietro e al contempo vicario di Cristo per tutta la Chiesa. Alla fine del IV secolo la
posizione del vescovo romano fu ulteriormente rinsaldata attraverso l’accentuazione di Paolo nel
culto e nella dottrina. Venne istituito un parallelismo locale e cultuale tra Pietro e Paolo e d’ora in
poi si affermarono rappresentazioni iconografiche comuni ad entrambi. La rappresentazione
congiunta dei due apostoli doveva rendere chiaro come costoro avessero ricevuto il loro potere
direttamente da Cristo: Pietro il potere di legare e sciogliere, Paolo quello di istruire le popolazioni.
I due apostoli furono considerati gli antenati del vescovo romano, che aveva ereditato da uno il più
alto potere pastorale, dall’altro il supremo potere dottrinale. L’evidenziazione cultuale di Pietro e
Paolo fu possibile solo perché il vescovo era stato in grado di ridurre al suo controllo il clero
cittadino e con ciò le micro- comunità romane. Il clero romano poteva essere suddiviso in:
episcopale e di pertinenza delle chiese titolari. Il vescovo di Roma era scelto da clero e popolo, con
clero si intendeva far riferimento ai diaconi e presbiteri e con popolo ai meliores civitatis ovvero gli
appartenenti al ceto superiore. La stessa elezione doveva essere riservata ai vertici del clero, mentre
ai laici dominanti era concesso solo il diritto di conferma. In occasione di una duplice elezione
valeva quale eletto colui per il quale parteggiava la maggioranza del clero. La provenienza die
vescovi dagli strati più alti della società romana indusse un distanziamento sociale rispetto alla
maggioranza della popolazione.
RAPPORTO CHIESA-IMPERATORE. Distinzione tra il ruolo rivendicato dai vescovi romani
nei riguardi degli imperatori o dei loro rappresentanti, e quello reclamato nei confronti di altre
istituzioni ecclesiastiche. In quanto imperatore Costantino, come i suoi predecessori era il pontifex
maximus, supremo tutore di tutti i culti riconosciuti, era interessato ad assicurare l’unità della nuova
religione attraverso la repressione delle dottrine e dei movimenti considerati non di retta fede o che
minacciavano la pace religiosa. I suoi successori mantennero questo atteggiamento e per tale motivo
gli imperatori si impegnarono a mostrare per mezzo di fondazioni e donativi la loro devota
disposizione d’animo e impegnarono i vescovi in qualità di giudici per la salvaguardia della fede e
per il controllo della disciplina. La politica imperiale rinsaldò la Chiesa di allora allo stesso tempi
però le autorità ecclesiastiche si imbatterono in una svantaggiosa dipendenza dagli intenti politici e
dalle opinioni religiose personali dell’imperatore. Si giunse così a continui conflitti tra i vertici
ecclesiastici e quelli secolari. Le dottrine elaborate in siffatto contesto hanno parzialmente definito
il rapporto tra Stato e Chiesa. Il ruolo dei vescovi romani nei riguardi del potere statale. Non
corrisponde al vero che i papi siano stati i soli o gli unici rilevanti difensori della libertà
ecclesiastica. Ciò che differenziò i vescovi romani dagli altri loro colleghi fu la continuità dottrinale
constatabile a Roma nel V secolo a.C. questa fu dovuta non solo alla personalità singola dei papi ma
anche alla rinomanza della città quale centro ideale dell’impero, ai vertici della comunità, al dato di
fatto che le residenze degli imperatori si trovassero a grande distanza ed a quella continuità
ecclesiastico-politica garantita, ai vertici della comunità, dal collegio dei diaconi e
dell’archiviazione. Nella prima metà del IV secolo la comunità romana si differenziava dalle altre
perché era più fortemente promossa da Costantino e dai suoi primi successori attraverso dei
privilegi. Il vescovo romano ottenne il diritto di fungere da giudice per casi riguardanti la disciplina
cristiana e fu il clero romano ad essere esentato dalla giurisdizione statale mentre la proprietà
ecclesiastica venne esonerata da numerose tasse e prestazione di servizi. Alcuni imperatori
limitarono però alcuni privilegi a causa delle difficoltà finanziarie dell’impero. In occidente la
concezione del rapporto tra Chiesa e Stato iniziò a trasformarsi prima fuori da Roma poi anche in
questa città. Ambrogio di Milano presentò a Teodosio l’idea che l’imperatore come cristiano
avrebbe dovuto seguire i vescovi. Gelasio I elaborò da vescovo la dottrina che, a partire dall’XI
secolo, avrebbe permeato di sé i rapporti tra Chiesa e Stato, la teoria dei due poteri che scaturisce
da una lettera del 494 all’imperatore Anastasio. Questo passo definì le differenti funzioni del potere
secolare e di quello ecclesiastico, nonché dei detentori di tali poteri: auctoritas sacra pontificium, et
regalis potestas (la sacra autorità dei vescovi e il potere sovrano). Tra questi il peso che portano i
sacerdoti è più grande poiché loro devono rendere conto davanti al giudizio di Dio anche per gli
stessi re. Per tale motivo pure l’imperatore avrebbe dovuto obbedire ai vescovi per questioni
riguardanti la fede e la disciplina ecclesiastica. E Gelasio rivendicò per il vescovo romano che la
somma divinità scelse affiche fosse superiore a tutti i sacerdoti, la suprema autorità nella Chiesa.
Egli accentuò il principio della non ingerenza come risulta anche da un altro suo scritto: anche gli
imperatori cristiani necessitano dei vescovi per la vita eterna e i vescovi devono utilizzare, per il
corso delle cose terrene, gli ordinamenti imperiali, così che l’ufficio spirituale sia libero da influssi
terreni e il servitore di Dio non si intrometta in alcun modo nelle cose terrene. Questo rifiuto degli
influssi statali negli interessi della Chiesa fu rafforzato sotto Simmaco che divenuto vescovo grazie
all’appoggio del potere secolare, rifiutò che il giudizio avesse luogo per mezzo di un sinodo,
convocato dal re degli ostrogoti Teodorico, quando i suoi oppositori gli rimproverarono difetti
morali. Per rafforzare questa nuova posizione vennero elaborati degli scritti che vennero retrodatati
agli anni di Silvestro, i quali si fondavano sull’affermazione che un appartenente ad un rango
superiore non poteva essere giudicato da un altro di rango inferiore (nemo iudicabit primam
sedem) nemmeno l’imperatore. È chiaro che i vescovi di Roma a partire dalla fine del V secolo si
attribuirono un rango di dignità pari a quella dell’imperatore. In modo che ciò fosse comprensibile
da parte di ogni fedele, lo palesarono anche nel loro ingresso in carica. Nel VI secolo indossarono il
pallio e lo conferirono ai vescovi loro sottoposti e fino al XII secolo il pallio persistette quale
simbolo dell’autorità del vescovo romano.
ZONE DI INFLUENZA DEI PAPI Diocleziano suddivise l’impero in unità amministrative dette
diocesi composte da molte unità più piccole dette province. Costantino ed i suoi successori
modificarono tale ripartizione ed una delle modifiche maggiori riguardò la diocesi italiana: la metà
settentrionale dalle Alpi agli Appennini serviva l’approvvigionamento della corte imperiale a
Milano (Italia annonaria), quella meridionale con Sicilia e Sardegna serviva la sussistenza di Roma
(Italia suburbicaria). Le province erano amministrate da Milano e Roma ed i vescovi esercitavano il
controllo sulle comunità esistenti nelle due province. All’interno dell’Italia suburbicaria si sviluppò
un distretto che comprendeva il basso Tevere, i colli albani e la toscana meridionale dal quale
provennero quasi tutti i papi. Fuori dall’Italia il ruolo del vescovo di Roma acquisì rilievo solo a
partire da Damaso rimangono in questione solo Spagna, Gallia, Italia settentrionale, Balcani
occidentali, Grecia e l’Africa settentrionale escluso l’Egitto. L’Italia settentrionale godette di una
decisa autonomia ecclesiastica, più forte fu l’influsso del vescovo romano sull’Illyricum e nella
Gallia sud-orientale. Fino all’VIII secolo Roma rivendicò la sovrintendenza ecclesiastica anche sul
distretto dell’Illiria, una lettera di Leone I scritta nel 446 al metropolita di Salonicco diverrà di
massima importanza a partire dal periodo carolingio. Poiché il papa sottolineava che era di
competenza del metropolita solo una parte della responsabilità ma non, come nel caso del papa, la
pienezza del potere (plenitudo potestatis). Anche se la lettera si riferiva solo al ruolo del presule
di Salonicco quale vicario del papa, e non a quello di vescovo e metropolita, a partire dal IX secolo
servì a fondare la subordinazione di ogni vescovo alla pienezza del potere papale. Leone I fu
colui che ebbe più successo in Macedonia e Gallia meridionale, ma ben presto in Gallia meridionale
come nei territori orientali, il dominio degli ostrogoti impossibilitò la prosecuzione della politica
romana anche se le rivendicazioni rimasero in vita. Nella Chiesa spagnola la situazione era simile a
quella della Gallia. I vescovi spagnoli erano impegnati in contese per questioni dottrinali e
disciplinari e per tale motivo si rivolsero a Roma sin dal III secolo, ed è necessario ricordare che la
Spagna non disponeva di un’organizzazione ecclesiastica centralizzata. Se l’influsso romano fu
sconfitto in Gallia e Spagna dalle debolezze organizzative delle chiese di quei luoghi e dal clima
guerresco, nell’Africa settentrionale proprio alla preesistenza di una salda organizzazione
ecclesiastica rappresentò uno svantaggio per Roma. Se torniamo ad osservare il rapporto tra Roma e
le differenti regioni dell’Impero occidentale bisogna constatare che, ai papi non riuscì di guadagnare
stabilmente né un controllo né una giurisdizione al di fuori dell’Italia suburbicaria. I tentativi
acquisirono però senso in seguito, poiché le lettere scritte a tal fine vennero raccolte non solo a
Roma ma anche in Gallia e Spagna e tramandate così da poter essere utilizzate in circostanze più
vantaggiose. Tra queste raccolte furono importanti soprattutto quelle nate a Roma a partire da
Gelasio I, in particolare quella del monaco Dionysius Exiguus, il quale raccolse brani di decretali
redatte da Siricio fino ad Anastasio II e li suddivise per aspetti sistematici. La Dionysiana svolse
perciò un ruolo rilevante a partire dall’VIII secolo come raccolta normativa dell’antico diritto delle
decretali. Fin dai tempi di Siricio queste lettere erano dette decretali con le quali si intendono prese
di posizione per iscritto che riguardavano un caso singolo come i rescritti imperiali ma che al
contempo fissavano delle linee di diritto alle quali doveva essere riconosciuto un valore generale.
A Roma i papi si integrarono completamente e guadagnarono una limitata influenza
sull’amministrazione statale. Al di fuori dell’Urbe riuscirono a imporre per larga misura culto,
disciplina e giurisdizione solo nell’Italia suburbicaria. Riguardo alle altre zone dell’Impero
occidentale i papi certo non riuscirono a realizzarle, ma misero pur sempre per iscritto i fondamenti
per una politica di successo in anni seguenti. A partire dal V secolo i papi reclamarono la suprema
autorità dottrinale nell’Impero occidentale ed anche nei riguardi dell’Oriente. Di conseguenza si
attribuirono all’interno dell’intera chiesa lo stesso ruolo che l’imperatore rivestiva in ambito
secolare.
CAPITOLO 3: La dominazione bizantina.
Nel 568 giunsero in Italia i Longobardi che non sottomisero mai l’intera penisola ma riuscirono a
consolidare la loro dominazione nell’Italia settentrionale, nella Toscana e in alcune zone dell’Italia
centrale e meridionale. Nel VII e VIII secolo, re come Rotari, Liutprando o Astolfo tentarono di
ampliare i territori di pertinenza longobarda. Dunque le restanti zone bizantine d’Italia continuarono
ad essere minacciate dai nuovi arrivati, ma questa situazione cambiò quando il re dei franchi Carlo
Magno nel 774 si proclamò re dei longobardi e inaugurò l’inizio di una nuova epoca per la penisola
italiana ed il Papato. Già da tempo si stava preparando il distacco di Roma dalla compagine
imperiale bizantina, constatabile già a partire dal pontificato di Gregorio II. A partire da questi
stessi anni il papato aumentò la sua influenza anche nelle restanti zone cristiane d’Occidente è
necessario suddividere questa epoca in due parti: il papato fino a Costantino I e da Gregorio II alla
fine del regno longobardo (715-774).
Il papato fino a Costantino I l’invasione dei longobardi indusse una divisione della penisola
italiana e anche una riorganizzazione dei territori rimasti sotto il controllo dei bizantini. Un esarca,
la cui sede si trovava a Ravenna, fungeva da rappresentante dell’imperatore a cui erano sottoposti
singoli duces che controllavano l’esercito e l’amministrazione dei loro ducati. Roma era collegata a
Ravenna solo tramite la Flaminia minacciata dai longobardi, per questo Roma fu a capo di un
distretto isolato e piccolo situato alla periferia dell’impero. Le guerre greco gotiche e longobarde
determinarono la morte di molte persone, Roma fu per un breve tempo spopolata e una volta
ripopolata gli abitanti condussero una vita di stenti. Mentre Teodorico cercò di conservare le antiche
tradizioni per mezzo di una simbiosi tra la popolazione imperiale ed i goti, Giustiniano fece andare
in rovina sia l’architettura che l’economia romana. Uno dei meriti di Giustiniano fu la collezione
giuridica da lui voluta, il cosiddetto Corpus Iuris Civilis. Questa raccolta conteneva oltre ad un
manuale (Institutiones) dottrine della precedente giurisprudenza (Digestum) e leggi imperiali
antiche (Codex) e nuove (Novellae). La collezione era vincolante per tutto l’impero ed ebbe vigore
anche nella penisola italiana, a Roma disposizioni di diritto civile tratte da questo corpus furono
osservate pure sotto il dominio franco e germanico. Le Novellae offrono chiarimenti sul ruolo dei
vescovi romani e non nell’impero bizantino. Giustiniano sottolineò la responsabilità dei sacerdoti
per la salvezza delle anime e quella dell’imperatore per il benessere civile. Giustiniano ne fece
derivare un più alto ruolo dell’imperatore nella salvaguardia della fede e della disciplina
ecclesiastica, il quale si assicurava così il controllo della chiesa, l’imperatore era l’unico
responsabile per lo sterminio degli eretici. Decise che al vescovo dell’antica Roma toccava una
posizione preminente rispetto a tutti i sacerdoti ma che quanto al rango fosse subito seguito dal
vescovo della nuova Roma. Con ciò l’autorità del papa risultò limitata ai territori del precedente
Impero occidentale. In altre leggi l’imperatore stabilì che i vescovi dovevano esercitare funzioni
anche nella vita civile della loro città. La responsabilità dell’imperatore per la chiesa e i compiti
civili dei vescovi fecero si che il governo imperiale dovette e volle influire sull’insediamento dei
presuli di importanti vescovati. Per tale motivo ogni nuovo papa era obbligato a sottoporre la
propria elezione alla conferma dell’imperatore o dei suoi esarchi e avrebbe potuto farsi consacrare
solo ad approvazione avvenuta. Tuttavia a partire dal VII secolo a Roma si verificò una svolta e
tentativi di ingerenza da parte di imperatori ed esarchi non furono più possibili. In ragione della
completa soggezione gerarchica del vescovo di Roma all’imperatore presso la corte imperiale i papi
necessitarono di una rappresentanza permanente. Questa era curata dall’apocrisiario che doveva
difendere gli interessi del papa e inoltrare le istruzioni imperiali a Roma. Alla fine del VII secolo
l’influsso di Bisanzio su Roma e sul Papato si ridusse sempre più e ciò fu soprattutto dovuto ai
pericoli cui l’impero era esposto in oriente e, nella penisola italiana, alla politica degli esarchi e alla
nuova mentalità delle truppe e degli amministratori bizantini. A parte la penisola italiana intorno al
700 il territorio imperiale era limitato ad alcune zone della Tracia con Costantinopoli e all’Asia
Minore. Gli imperatori bizantini furono costretti a provvedere alla sicurezza dei territori rimanenti e
almeno di rimettere piede in Grecia nell’VIII secolo vi riuscirono. L’impiego di truppe bizantine in
oriente ebbe conseguenze anche per gli esarchi che se forti cercavano di rendersi indipendenti
dall’imperatore, se deboli non potevano imporsi sull’esercito e sull’amministrazione, dipendevano
dalle loro truppe che combattevano se retribuite. Nel VII secolo sempre più soldati furono dotati di
terre, nacque una nuova nobiltà che a partire dal tardo VII secolo si collegò sempre più al vescovo
autoctono piuttosto che all’esarca o all’imperatore. Il tardo VII secolo e la prima metà dell’VIII
secolo sono spesso indicati come il periodo dei papi greci ma è errato dedurre dall’origine greca una
diretta dipendenza da Bisanzio. Papi provenienti da Roma o dall’Italia centrale furono più
dipendenti da Bisanzio di quanto non lo fossero molti di questi greci. A partire dal tardo VI secolo il
Papato e la Roma ecclesiastica erano sempre più grecizzati. Il Papato divenne il maggior
proprietario fondiario della penisola perché almeno nominalmente gli erano rimasti i territori
posseduti in precedenza. I lasciti dei papi e di altri chierici come pure altre eredità comportarono
un’ulteriore diffusione dei possedimenti papali. Questi erano divisi in patrimoni, intesi come
maggiori unità amministrative, nei quali le singole proprietà erano riunite secondo un criterio
regionale. I possedimenti papali con il trascorrere del tempo, a causa delle difficoltà legate ai
collegamenti marini e alle conquiste degli arabi, degli slavi e dei franchi risultarono circoscritti
all’Italia centro-meridionale e alla Sicilia. A partire dal VI secolo la Sicilia che non era stata toccata
dalle guerre greco gotiche divenne il fulcro dell’approvvigionamento per Roma e per il suo
vescovo. Negli altri possedimenti l’agricoltura doveva essere riconsolidata e per tale motivo furono
in gran parte locati. Esistevano due procedure: il livello e l’enfiteusi. Il primo (livello) consisteva
nella locazione ad un singolo di un appezzamento di terra, per 19 o 29 anni, il secondo (enfiteusi)
prevedeva che una proprietà di maggiore entità veniva ceduta ad una famiglia per due o tre
generazioni dietro corresponsione di un censo, una forma che promuoveva l’alienazione dei beni
ecclesiastici. Dal tardo VI fino alla fine del VII fu predominante il livello poi l’enfiteusi si può
dedurre che la ricostruzione dei possedimenti fu possibile grazie all’aiuto di piccoli locatari che
però furono assoggettati dai membri delle nuove nobiltà. I rettori dei patrimoni erano chierici del
luogo che erano controllati dai diaconi di Roma.
L’approvvigionamento della popolazione romana si realizzava per mezzo delle diaconie
un’istituzione presente in Oriente già dal VI secolo, si trovavano vicino alle chiese oppure presso
edifici che avevano svolto funzioni simili ed erano consacrate ai santi greci. Anche molti monasteri
permettono di rilevare un influsso greco così come la liturgia: nel periodo bizantino molti santi
venerati in oriente furono accolti nel canone della messa, vennero riprese dall’oriente alcune
festività. L’influsso orientale si rintraccia anche nelle chiese. Sulla base dei loro diritti e delle
funzioni le chiese romane possono essere suddivise in 3 categorie: basiliche, chiese titolari,
diaconie. Tutte queste furono inglobate nella liturgia papale mediante le stazioni. Il papa celebrava
la sua statio nelle basiliche durante le feste principali, ma la domenica e gli altri giorni della
settimana ciò avveniva nelle chiese titolari e in quelle diaconali. Il predominio del papato sulla
società si rivelava anche nella liturgia. Quest’ultima era importante per cristianizzare i residui dei
culti precristiani, quando i papi tentarono di eliminare gli usi legati a questi culti senza sostituirli
non ebbero successo furono perciò prevalenti misure miranti alla cristianizzazione delle
consuetudini cultuali pagane, ciò che riuscì tramite le processioni. Molti dei nuovi usi e feste furono
esportati dall’VIII secolo in altre zone, le modifiche indotte sono significative anche come
indicatori della diffusione della liturgia romana. Tale esportazione fu facilitata da fatto che nel VII
secolo le parti più importanti del servizio divino erano fissate e tramandate attraverso delle raccolte.
I contrasti dogmatici ebbero una particolare forza propulsiva per il ruolo del Papato nell’impero ed
anche per il riconoscimento di tale ruolo in occidente. Si accendevano per l’interpretazione della
dottrina delle due nature di Cristo. (lotta al monotelismo)
Da Gregorio II alla fine del regno longobardo (715-774) già durante il pontificato di Gregorio II
si possono individuare le tendenze che permearono la storia del Papato fino ai tempi di Adriano I:
conflitti con gli imperatori che indussero il distacco dalla confederazione imperiale, espansione del
potere papale anche in ambiti secolari dell’Urbe, lotta contro l’espansione dei longobardi ed infine
contatti di tipo ecclesiastico poi politico con missionari, vescovi e signori d’oltralpe che nel 754
condussero all’alleanza epocale tra papato e sovrani franchi. Tanto oscuro e per molti aspetti povero
di informazioni è l’VIII secolo, altrettanto costruttivo fu per le epoche seguenti perché molti dei
problemi furono proprio un risultato della storia di tale secolo. Queste trasformazioni non devono
lasciar passare inosservato che Roma ed il papato continuavano a ritenere di far parte ancora
dell’impero bizantino. I diverbi tra il papato e Bisanzio iniziarono a causa delle tassazioni e
culminarono in ambito cultuale. Tra il 717/718 Leone III riuscì ad evitare la conquista di
Costantinopoli da parte degli arabi. Per scacciare gli arabi anche dall’asia minore e riconquistare la
Grecia e parte dei Balcani l’imperatore riformò l’esercito e l’amministrazione imperiali. Uno dei
risultati fu che egli riscosse più tasse dagli stessi possedimenti ecclesiastici, qualora insistessero su
zone di competenza imperiale tali misure coinvolsero anche i patrimoni papali. Gregorio II rifiutò di
accettare la decurtazione dei suoi introiti e per questo avrebbe dovuto essere imprigionato ma non
accadde. Nel 725 l’imperatore tentò di impedire la venerazione delle immagini sacre. A
Costantinopoli il patriarca fece resistenza e Leone III cercò di portare il papa dalla sua parte, anche
in questo caso però Gregorio II rifiutò il suo appoggio, un fatto che non impedì all’imperatore di
distruggere le immagini sacre e di perseguitare quanti si opponevano alla sua politica fino a che il
figlio Leone, Costantino V, nel 754 fece proibire il culto delle immagini in tutto l’impero. E tale
divieto turbò l’animo dei fedeli per tale motivo non mancarono guerre interne. In Italia
l’applicazione del divieto provocò rivolte che accelerarono il distacco dall’Oriente. Per il Papato le
conseguenze furono gravose: Leone sottrasse al papa la giurisdizione sul vicariato di Salonicco ed
anche sulla Siria e sull’Italia meridionale, da allora tutti i territori dell’impero furono riuniti anche
dal punto di vista ecclesiastico. L’imperatore inoltre confiscò i patrimoni papali dell’Italia
meridionale e della Sicilia. Per il papato queste misure rappresentarono una catastrofe: si trovò a
perdere la maggior parte dei suoi territori, mentre la sua sovranità ecclesiastica fu ridotta all’Italia
centrale e settentrionale. Proprio questa contrazione generò un’intensificazione dell’influsso papale
nella penisola e un nuovo orientamento verso l’Occidente. Nell’esarcato le rivolte italiane fecero si
che delle città si coalizzassero contro i loro signori e che i vertici dell’esercito e
dell’amministrazione imperiali fossero cacciati. Ora il papa governò effettivamente Roma e il
ducato, anche se l’imperatore continuava ad essere il sovrano. Il nuovo ruolo del pontefice si rivela
in misure concrete: venne restaurata la cinta muraria di Roma e quella del porto di Centumcellae.
Che adesso i principi degli apostoli Pietro e Paolo reggessero il ducato, lo mostra il fatto che per la
restituzione di località conquistate furono i papi a trattare con i dominanti longobardi, re e duchi.
Nel 751 il re Astolfo conquistò il resto dell’esarcato, assoggettò i duchi che opponevano resistenza
nell’Italia centrale e minacciò Roma. Il nuovo pontefice Stefano II sollecitò Astolfo affinché
restituisse i territori conquistati, e addirittura si recò nel regno dei franchi dove nel 754 con il re
Pipino strinse un accordo: Pipino promise a San Pietro e al suo vicario territori della penisola
italiana. Con ciò pose la prima pietra per la fondazione dello stato della chiesa. Poi franchi, romani
guidati dal papa e longobardi conclusero a Pavia un’alleanza che non impedì ad Astolfo di
proseguire la linea politica adottata fino a quel momento. Per tale motivo Stefano scrisse parecchie
lettere monitorie al re franco e ai suoi vassalli. Nel 756 allorché il re dei longobardi tentò
nuovamente di conquistare territori facenti parte del ducato romano i franchi diedero battaglia ad
Astolfo e lo costrinsero a consegnare una parte dell’esarcato inclusa Ravenna al rappresentante di
Pietro. Quando Desiderio rinnovò la condotta di Astolfo dal 771. Carlo Magno conquistò il suo
regno, confermò ed ampliò nel 774 le promesse fatte da Pipino a Roma. La donazione di Pipino
comprendeva l’intero ducato romano, che doveva essere assoggettato a San Pietro e ai suoi
successori. Furono sottoposti alla protezione franca anche territori che, già appartenenti all’Italia
bizantina, erano stati conquistati nell’VIII secolo dai longobardi: il porto di Luni, Ravenna e le città
della pentapoli. La situazione politica della penisola italiana impedì che le mire territoriali dei
pontefici si realizzassero. Tuttavia, queste fecero si che, gli orientamenti del papato fossero
determinati dalla politica interna italiana, e che gruppi di potere secolari si interessassero ad
esercitare un influsso sull’occupazione della carica papale a proprio vantaggio. A Roma i
raggruppamenti in grado di esercitare un influsso sul governo secolare ed ecclesiastico: gli iudices
de militia e gli iudices de clero, dove per iudex si intende un dignitario. Al primo gruppo
appartenevano i vertici dell’amministrazione secolare e dell’esercito ovvero i rappresentanti dei
laici dominanti dentro e fuori Roma. Del secondo facevano parte gli apici dell’amministrazione
papale, potevano essere considerati come appartenenti al clero. I nuovi pontefici potevano regnare
con successo solo se provenivano da una delle famiglie più in vista di Roma. È coerente con tale
situazione che papa Stefano III nel 769 convocò un sinodo dove fu annunciato un nuovo decreto
sulle elezioni papali, in seguito al quale solo il clero romano avrebbe potuto eleggere il papa, ed
elegibili erano solo i cardinali preti ed i diaconi, il neo eletto doveva essere alla residenza e qui
avrebbe dovuto ricevere l’omaggio dai condottieri dell’esercito, dall’esercito, dai cittadini più in
vista e dall’intero popolo. Il clero considerò da questo momento il papa come unico signore della
città ed escluse l’influsso dei laici sull’elezione papale. Il decreto fu applicato nelle elezioni
successive ma con ciò non si ridusse l’influsso delle famiglie dominanti. Le decisioni di Stefano III
mostrano come il papa e i vertici del clero romano volessero limitare il più possibile l’influsso della
nobiltà romana e a tal motivo divenne indispensabile riorganizzare i possedimenti ecclesiastici
attraverso le domuscultae ovvero aziende agricole che comprendevano unità più grandi che
servivano all’approvvigionamento della chiesa romana ed erano controllate da questa e non
potevano essere alienate.
CONSTITUTUM CONSTANTINI testo nato nella seconda metà dell’VIII secolo in ambiente
papale, basato sulla leggenda di Silvestro. Costantino descrive la conversione al cristianesimo
attuata dai principi degli apostoli e dallo stesso Silvestro, contiene le donazioni e i privilegi in
favore della chiesa romana, di conseguenza il papa in quanto supremo vertice della chiesa
universale detiene nel teso un rango imperiale e perciò l’imperatore presta servizio di reggergli la
staffa, gli dona la tiara insieme ad altre onorificenze, gli concede il diritto di cavalcare un cavallo
bianco, il clero romano è equiparato al senato imperiale e la residenza del pontefice è fissata al
Laterano, infine l’imperatore trasferisce al papa la sovranità su non ben precisati territori ed isole.
Fino alla metà del X secolo non è possibile stabilire quanto il testo fosse noto ed utilizzato a Roma,
a partire dalla lotta per le investiture la funzione di questo testo fu ancora più pregnante per la
fondazione delle rivendicazioni papali. Il Constitutum tende a legittimare, fondare le pretese
pontificie sull’Italia e il conseguente distacco dalla federazione imperiale bizantina. Palesa che
l’alleanza con il re Pipino non indusse alcuna modifica della mentalità romana nondimeno sarebbe
fuori luogo negare il significato oggettivo dell’alleanza tra Papato e franchi poiché questa per lunghi
secoli fu determinante per l’orientamento politico ed ecclesiastico di Roma. Il presupposto più
importante di questa alleanza fu la grande influenza del papato sulle chiese d’oltralpe. Gregorio II
aveva provato ad intensificare la cristianizzazione della zona d’insediamento dei bavari e di
ricalcare la loro organizzazione sul modello romano ma il tentativo fallì. Tuttavia la romanizzazione
del cristianesimo d’oltralpe non è da attribuire all’iniziativa dei papi bensì all’attività dei missionari
anglosassoni come Bonifacio. L’attività missionaria, organizzativa e riformistica di Bonifacio
indusse un’intensificazione dei contatti tra Roma e il regno dei Franchi. La collaborazione tra
franchi e papato fu suscitata dagli sforzi di Pipino per diventare re al posto di Chielederico III.
Chiese aiuto a papa Zaccaria che rispose dicendo che il titolo di re sarebbe dovuto spettare a chi
deteneva il potere, in seguito nel 751 Pipino venne unto come re dei franchi mentre Chielderico III
venne confinato in un monastero. Il re franco da allora necessitò non solo dell’elezione da parte dei
magnati ma anche dell’unzione ecclesiastica. Importante è la Promissio Carsica del 754
sottoscritto da Pipino il quale promise le aree dell’Italia centrale e settentrionale a San Pietro e ai
suoi successori. I pontefici sottolinearono però a differenza di Pipino anche gli obblighi del re quale
patricius romanorum ovvero come protettore dei territori italiani. Il reciproco patto di amicizia
permase valido ma fu necessario rinnovarlo per iscritto dai successivi pontefici. Nel 774 Carlo
visitò Roma e giurò insieme al papa Adriano I la reciproca alleanza e a Carlo fu rinnovato il titolo
di patricius romanorum. Rispetto al 754 le rivendicazioni pontefice erano aumentate poiché ora il
papa volle fossero sottoposti al suo dominio i territori ubicati al di fuori del ducato romano.

CAPITOLO 4: La dominazione carolingia (774-904)


L’avvenimento più importante di questo periodo fu il giorno di Natale dell’800 giorno
dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno dato che con questa venne fondata una tradizione che
durò per un millennio fino a Napoleone. Per Roma questo significò che da quel momento il
rispettivo imperatore fu il sovrano del territorio romano e per via di ciò anche dei pontefici. Nel 774
Carlo aveva rinnovato la promessa fatta da Pipino a San Pietro, ma in seguito non fece nulla per
realizzare le rivendicazioni di papa Adriano sul territorio di Ravenna e sui ducati di Spoleto e
Benevento. Il pontefice dovette tollerare invece gli attacchi che muovevano dai nuovi territori
franchi di Spoleto e di Tuscia. E quando il re si incontrò di nuovo con il papa nel 781 a Roma non
accondiscese alle sue richieste e invece ridusse l’entità dei territori rivendicati dal papa, riservandosi
la conquista di Benevento e Spoleto. Solo i territori di recente conquista (Ravenna e la confinante
pentapoli) furono nominalmente sottoposti al papa nell’VIII secolo. Carlo poi trasferì al pontefice
alcune città ubicate nella Tuscia meridionale, un dominio diretto del papa però era esercitato solo
nel ducato romano e nei patrimoni che gli erano ancora rimasti. In una lettera del 796 di Carlo a
papa Leone III, l’imperatore descrisse il modo in cui si rappresentava la collaborazione con il papa
e rivendicò per sé il controllo della Chiesa terrena. Nel 787 a Nicea un concilio consentì di nuovo il
culto delle immagini nei modi voluti dal pontefice. Però quando il papa pregò Carlo ed i suoi
vescovi di aderire alle decisioni conciliari, il re rifiutò dal momento che il papa era stato invitato in
qualità di membro della Chiesa imperiale, e altrettanto non era avvenuto per nessuno dei vescovi del
regno dei franchi, per tale motivo Carlo si adirò e non riconobbe tali decisioni come valide nei
territori a lui sottoposti. Nei Libri Carolini si polemizzò contro il papa, poi nel 794 un sinodo
convocato a Francoforte condannò le prescrizioni del 787 e con ciò anche Roma. Fino a che punto
Carlo su considerasse il padrone della chiesa occidentale, lo mostrò anche la presenza dei vescovi
inglesi e la condanna come eretica della dottrina dell’adozianismo sviluppatasi nella Spagna
mussulmana. Dietro indicazione di Carlo, Adriano dovette ripetere la condanna in un sinodo
romano. Il papa dunque non era molto di più che il vescovo di maggior rango del regno, nel quale a
Carlo spettava un grado simile a quello dell’imperatore.
Papa Leone III si ritrovò attaccato dalla stessa curia, i suoi oppositori intendevano renderlo inadatto
alla carica e deporlo. Il loro piano riuscì in parte perché si il papa fu catturato ma riuscì a scappare e
scortato dai franchi si rifugiò da Carlo. Leone ritornò a Roma con dei messi del re e alla fine
dell’800 lo stesso Carlo giunse in città dove venne ricevuto come un imperatore dal papa, dal clero
e dal popolo. I congiurati furono ritenuti colpevoli di tradimento, il papa si ripulì delle imputazioni
attraverso un giuramento in San Pietro e il 25 dicembre dell’800 Leone incoronò Carlo che venne
acclamato imperatore, nei giorni seguenti questo si eresse a giudice dei congiurati e li condannò a
morte per delitto di lesa maestà. Carlo si servì della nuova onorificenza per unificare in ambito
ecclesiastico i territori da lui dominati per integrare i diritti delle differenti stirpi fino a quel
momento intatti. Il nuovo titolo inoltre gli offrì la possibilità di governare più saldamente il
territorio romano in qualità di primo sovrano. Carlo nominò dei rappresentanti che a Roma
avrebbero dovuto garantire i suoi interessi e di conseguenza anche il papa fu sottoposto al controllo
dell’imperatore. Carlo mostrò polso fermo anche al riguardo di questioni spirituali. Nella liturgia
franca nella professione di fede era usuale sottolineare attraverso l’aggiunta della formula filioque
(VEDI SUSSIDIO) che lo spirito santo procedeva non solo dal padre ma anche dal figlio. La chiesa
imperiale e quindi anche Roma avevano però fino a quel momento rifiutato di modificare il dettato
della professione di fede fissato nel IV e V secolo. Nel IX secolo quando a Gerusalemme si accese
una contesa tra monaci franchi e greci Carlo ordinò al papa di prendere posizione. Leone III si
mantenne fermo sulla formula tradizionale. Però un sinodo del regno, voluto da Carlo, prescrisse
l’uso franco dimostrando quanto fosse limitato il peso della decisione papale tra i franchi. Anche la
politica bizantina rivela la subordinazione del papa a Carlo. Nell’802 Irene fu deposta, dai
successivi imperatori il papa fu ritenuto escluso, in quanto scismatico, dalla chiesa imperiale e Carlo
venne considerato un usurpatore. Solo quando Bisanzio necessitò di aiuto contro i Bulgari, nell’811
furono avviate delle trattative per un riconoscimento reciproco. Tuttavia, il papa poté solo
sottoscrivere il trattato. E Carlo già nell’813 associò il figlio Ludovico alla corona imperiale
rifiutando così la pretesa del papa e di Roma di assegnarla. Lo stesso Ludovico poi si comportò così
quando nell’817 associò al trono suo figlio Lotario I, anche se si affermò quella tendenza che
riservò poi al papa la consegna della corona imperiale. Il papa deteneva il diritto di assegnare il
titolo imperiale. Papa Pasquale I strinse un’alleanza e un patto con Ludovico, nel quale l’imperatore
sosteneva le rivendicazioni territoriali del papa e rinunciò a intromettersi nel governo dello Stato
della Chiesa. Roma ora fu nuovamente governata dal papa. Nell’824 vi fu un nuovo trattato la
cosiddetta Constitutio Romana tra papa Eugenio II e Lotario I per mettere fine alle continue
dispute tra le fazioni romane, sancire definitivamente i diritti e i doveri di ciascuno e prevenire
futuri disordini, così fino all’875 il Papato in realtà, risultò controllato dall’imperatore. L’alleanza
tra papato e franchi esercitò influssi anche sulla liturgia, sull’organizzazione e sul diritto della
chiesa franca. Pipino e Carlo Magno si dedicarono alla riforma della chiesa del regno dei franchi
allo scopo di rendere stabile il regno anche in ambito spirituale e cercarono appoggio da Roma. A
vantaggio di una liturgia unitaria importarono sia collezioni romane di formule e preghiere per la
messa sia prescrizioni per l’espletamento di funzioni liturgiche, ne risultò una liturgia mista
romano-franca. Nell’ambito del diritto canonico Carlo chiese a papa Adriano I la collezione
giuridica Dionysio-Hadriana un fondamento tra i più importanti del diritto ecclesiastico, in ambito
monastico chiese la regola di Benedetto e da allora tutti i monasteri franchi furono adattati a questa
regola. La collaborazione tra papato e sovrani franchi indusse una trasformazione anche a Roma
dove i monasteri furono in genere benedettini, dalla liturgia franca vennero riprese le rogazioni nei
3 giorni precedenti l’ascensione, si affermarono feste franche. Dietro pressione imperiale, i sinodi
romani si occuparono pure della riforma del clero cittadino, ma approvarono per la prima volta
anche per l’Italia centrale l’istituzione franca delle chiese private. La collaborazione tra papato e
franchi fu più gravida di conseguenze per l’organizzazione ecclesiastica. Da Carlo era diventato
usuale che i nuovi arcivescovi fossero eretti dal papa poiché il sovrano aveva riconosciuto a lui il
diritto di definire l’estensione delle province ecclesiastiche e la sede arcivescovile. E un arcivescovo
poteva esercitare il suo ufficio solo dopo aver ricevuto il pallium consacrato presso la tomba di
Pietro. Quindi le realtà ecclesiastiche erano pilotate dal sovrano ma formalmente il papa guadagnò
un influsso sulla chiesa franca che doveva sviluppare e trasformare non appena la posizione del
sovrano si fosse trovata a diminuire. Fu Gregorio IV a cogliere l’occasione quando nell’830 i figli
di Ludovico il Pio si ribellarono contro il padre, il papa si recò oltralpe per rappresentare gli
interessi di Lotario I e dei suoi vescovi. I vescovi fedeli a Ludovico però gli si opposero e il
pontefice pubblicò una decretale nella quale sottolineò che solo il papa possedeva la pienezza del
potere mentre i vescovi ricevevano da Cristo una parte della responsabilità. Questa interpretazione
che dalla fine del IX secolo servirà a fondare la supremazia papale ebbe diffusione quale testo
giuridico per mezzo di una grande falsificazione giuridica, le decretali pseudo isidoriane, già a
partire dal IX secolo. La ragione che indusse la compilazione di questa raccolta risiedette in un
conflitto dell’850 tra l’arcivescovo di Reims ed alcuni vescovi suffraganei che volevano impedire
una riduzione dei loro diritti e funzioni. Perciò il falsario sottolineò l’indipendenza dell’autorità di
ogni vescovo e attribuirono al papa un potere di controllo e non agli arcivescovi. Per consolidare
questa posizione decisioni di sinodi, espressioni di teologi vennero modificate e pubblicate come
decretali di vescovi romani e più recenti rivendicazioni di questi ultimi come leggi di papi
precedenti. Questa collezione venne utilizzata come base del diritto processuale ecclesiastico.
Quindi nel IX secolo molto era già teoricamente predeterminato tuttavia la prassi differiva ancora
molto dalla teoria giuridica.
CAPITOLO 5: L’influsso della nobiltà romana (904-1046)
Al fine di valutare la condotta dei vescovi e della nobiltà di Roma è necessario osservare i vari
mutamenti politici e sociali caratterizzanti questo periodo. Il X secolo fu l’ultimo secolo in cui gran
parte della popolazione fu minacciata da invasori stranieri. Per l’Italia i più pericolosi furono i
saraceni che dal 902 dominarono la Sicilia e da qui, come dall’africa settentrionale e da un base
provenzale insediarono l’Italia meridionale e le coste occidentali. Fu grazie a vittorie significative,
come a iniziative nell’Italia centrale e ad incursioni nei territori sottoposti ai mussulmani che,
dall’XI secolo i saraceni rinunciarono all’espansione in Europa. Il pericolo degli ungari venne
scongiurato dai successi riportati durante i sovrani tedeschi Enrico I e Ottone I. In Italia centrale la
minaccia saracena e quella ungara avevano rafforzato una tendenza che può essere osservata a
partire dal IX secolo: quella dell’incastellamento. Dal momento che gli insediamenti in campagna
non erano adatti ad essere fortificati, la popolazione si trasferì o volontariamente o costretta dai
signori terrieri su alture che non erano mai state abitate o lo erano state fin dall’antichità. Signori sia
ecclesiastici che laici mirarono all’incorporazione di numerosi castelli nel loro dominio. I conflitti
dei papi con nobili e monasteri caratterizzarono la storia dello Stato della Chiesa. Dal 962 Roma
ebbe un nuovo protettore ovvero Ottone I di Sassonia che venne incoronato imperatore da papa
Giovanni XII in san Pietro. Tuttavia la protezione si trasformò in oppressione dal momento che per
Ottone il papa rappresentava il supremo vertice spirituale della chiesa, mentre per la nobiltà romana
e per il clero era il garante nominale di un’indipendenza regionalmente delimitata. A causa di tale
contraddizione si giunse continuamente a scontri ulteriormente acuiti dal fatto che componenti delle
famiglie nobiliari dominanti un giorno appoggiavano il papa imperiale e quello seguente i suoi
avversari. Nel 963 un sinodo convocato dall’imperatore depose papa Giovanni XII e ne insediò un
altro, Leone. Nel 964, dopo la partenza di Ottone, Giovanni tornò a Roma e fece spodestare con un
sinodo Leone. Dopo la morte di Giovanni XII risultò con chiarezza come per l’imperatore fosse in
questione un’affermazione del controllo del papato e non la scelta del candidato più adatto. Siccome
il nuovo papa Benedetto V era stato eletto senza l’approvazione imperiale fu deposto. Giovanni
XIII godette della benevolenza di Ottone infatti il suo pontificato fu uno dei più lunghi e uno dei più
pacifici. Quando Ottone III prese il potere la situazione si complicò, egli volle trasformare Roma in
sede del suo dominio per realizzare il suo programma ovvero la renovatio imperii romanorum. Fu il
primo imperatore occidentale a progettare di fissare nell’urbe la sua principale residenza. Fu il
primo ad insediare pontefici non italiani e di sua fiducia dal momento che volle governare l’impero
e la chiesa come servo di Gesù e degli apostoli. Ma i sogni di Ottone III si infransero con la sua
morte nel 1002, i Crescenzi riuscirono ad impadronirsi del potere. Senza la protezione imperiale
Roma visse un periodo di pace e serenità, i Crescenzi restarono fino al 1012 quando l’ultimo papa
crescenziano Sergio IV morì, e subito i conti Tuscolo ne approfittarono per imporre un pontefice
della loro famiglia. Ebbe inizio con Benedetto VIII il periodo dei papi tuscolani durato per 30 anni.
Ad un certo punto Roma si trovò con 3 papi ed era in discussione la loro legittimazione, per questo
Enrico III recatosi a Roma per l’incoronazione imperiale nel 1046 fece deporre tutti e 3 e diede
inizio al periodo dei papi tedeschi nonché al periodo della riforma. L’influsso tedesco si palesò nella
liturgia. In occasione dell’incoronazione imperiale di Ottone, alcuni vescovi tedeschi portarono in
Italia e a Roma una collezione di testi liturgici che riproduceva la liturgia episcopale il Pontificale
Romanum Germanicum. Mentre Roma nei periodi precedenti aveva esercitato un influsso culturale
sui territori barbarici, essa fu ora fecondata dalla cultura più alta di quei luoghi. Dalla nuova
commistione di testi romani e franchi, derivano tutti i testi di rilievo per la liturgia della
consacrazione papale fino al XIII secolo. La comunità romana pronunciava la professione di fede
unicamente nella liturgia battesimale, e che Leone III era riuscito ad opporsi alla ricezione del
Filioque. Questa insistenza sull’antica tradizione caratterizzò anche il X secolo. Però Enrico II in
occasione della sua incoronazione imperiale, durante un sinodo ottenne che il credo fosse recitato
anche a Roma durante ogni messa domenicale e festiva, incluso il Filioque. Il Filioque fu subito
ritenuto tipicamente romano e anche l’unico corretto dal punto di vista liturgico e teologico. Il
dibattito su questa formula rappresentò poi uno dei motivi che nel 1054 condussero alla frattura con
la Chiesa Orientale. Altri documenti indicano però che l’influsso tedesco non si esercitò su tutte le
funzioni pubbliche del papa e che anzi più antiche usanze furono osservate con maggiore tenacia.
Se per gli anni a venire furono significative le trasformazioni del governo papale altrettanto lo
furono le modifiche delle strutture ideologiche. Consistettero in una sottolineatura di istituzioni e
idee antiche intese in modo nuovo. Per l’imperatore l’Urbe rappresentava il punto fisso di
legittimazione del suo potere e per tale motivo Roma fu detta caput mundi. L’apice fu il tentativo di
Ottone III di governare il suo impero da Roma. Altrettanto importante era l’impulso romano. Roma
a partire dalla metà del X secolo fu retta, come in antichità da un prefetto della città o patrizio. A
questa ricezione dell’antico corrisposero sia il riferimento alla donazione di Costantino sia le
pretese papali in relazione a ranghi di palazzo e onorificenze imperiali. Di queste ultime faceva ora
parte insieme al pallio e alla tiara anche la mitra. Il papa conferì anche la mitra a prelati forestieri
soprattutto abati, viceversa abbazie ed episcopati esenti dovevano inviargli dei cavalli bianchi che
manifestavano un rango corrispondente a quello dell’imperatore. In questo periodo il papa fosse
ancora il vescovo di Roma, anche se aumentano gli indizi che alludono alla generale direzione della
Chiesa universale da parte del papa. Funzionali alla sicurezza di Roma furono i tentativi di
sottoporre importanti castelli alla sovranità papale nonché il tentativo di sottoporre al governo
pontificio i monasteri di Farfa e Subiaco entrambi con dipendenze monastiche a Roma ed intenti a
guadagnare l’autonomia e un proprio territorio. Nell’Italia meridionale la politica fu rivolta a
scacciare i saraceni, ad ampliare il territorio fattualmente dominato dal papa e la sua sovranità
ecclesiastica e a consolidare il dominio sui territori di Fondi e di Terracina. Contemporaneamente al
peggioramento dei rapporti con Bisanzio, si approfondirono le relazioni dei pontefici con la
Germania. Per questo ampliamento della sfera d’influenza pontificia due sono le opportunità da
ricordare: la direzione dei sinodi regionali per mezzo di legati papali e un particolare tipo di legame
tra una istituzione ecclesiastica e il papato ovvero la protezione papale e l’esenzione. La
protezione consisteva nel fatto che un’aggressione al monastero era al tempo stesso un’aggressione
a Pietro, l’esenzione dal potere episcopale attraverso il diretto assoggettamento al papa era un
prolungamento della protezione. Spesso i privilegiati dovevano pagare un tributo al papa.
CAPITOLO 6: La lotta per le investiture (1046-1123)
I sovrani tedeschi Enrico IV ed Enrico V furono spesso in conflitto con i pontefici, uno dei motivi
consisteva nella facoltà o meno del monarca tedesco di investire del loro ufficio, nel suo regno,
abati e vescovi con anello e pastorale. Gli autori e gli storici definiscono questa epoca con il nome
di lotta per le investiture intendendo il periodo che comportò l’ascesa del papato a livello di
autorità universale. Ricerche recenti hanno dimostrato che il conflitto per il diritto all’investitura
rappresentò solo un aspetto parziale dei sovvertimenti di quel tempo. Sicuramente una delle
conseguenze più importanti fu l’affrancamento del papato dalla tutela dei sovrani. La spinta per le
successive trasformazioni provenne da Enrico III nei sinodi da lui inaugurati a Sutri e Roma nel
1046. La sua ingerenza fu accolta con favore unanime dai contemporanei anche da quanti erano
favorevoli alla riforma. Quanto più la riforma si affermava e si moltiplicavano i conflitti con i
sostenitori di questa, tanto più Enrico andò conquistando la fama di simoniaco così che il giudizio
sulla sua attività passò dall’approvazione alla condanna fino a quando nel 1200 venne considerato
eretico. Enrico III si applicò per riformare la chiesa romana, tuttavia siccome i primi suoi pontefici
Clemente II e Damaso II trascorsero a Roma solo pochi mesi le attività in favore della riforma si
affermarono solo con Leone IX. Ciò non dipese solo dal temperamento del nuovo papa ma anche
dai personaggi che egli portò con se a Roma o che si imbatterono in lui. Fin dall’inizio la riforma
della chiesa significò un rafforzamento del ruolo del pontefice. Per quanto riguarda la riforma del
clero uno dei primi obiettivi fu l’eliminazione del nicolaismo che indicava la convivenza di membri
del clero con donne. Il celibato si affermò quale norma vincolante non solo per monaci o canonici
ma anche per i detentori dei più alti gradi di consacrazione dal suddiacono al vescovo. Gli sforzi
dovevano consentire solo ai sacerdoti degni le celebrazioni liturgiche dall’altro impedire che i figli
dei chierici ereditassero l’incarico del padre. La legislazione riguardante il celibato fu perciò
integrata con sanzioni contro i figli dei chierici, nonché contro le donne dei chierici che furono
considerate concubine e fino alla fine dell’XI secolo furono obbligate a prestare servizio nelle
rispettive chiese locali come domestiche non libere. Allo stesso modo del nicolaismo fu decretato il
divieto della simonia ovvero l’acquisto di poteri spirituali con mezzi materiali. Si discuteva su chi
dovesse essere considerato simoniaco e se i simoniaci potessero essere riordinati. Certamente la
simonia doveva essere combattuta efficacemente ma al tempo stesso era il modo in cui i vescovi e
gli abati dovessero ricevere la loro carica a necessitare di una regolamentazione ineccepibile dal
punto di vista del diritto ecclesiastico. Sinodi romani perciò si schierarono in favore della libera
elezione che avrebbe dovuto essere realizzata da clero e popolo per i vescovi, e dalla comunità
monastica per gli abati. Decisioni analoghe furono prese nel 1059 per l’elezione del papa. Anche il
divieto dell’investitura è correlato alla lotta contro la simonia e all’affermazione della libera
elezione. Fu solo durante il pontificato di Urbano II che si rafforzarono i provvedimenti contro
l’investitura di prelati da parte dei sovrani per colpire di re di Francia ed Inghilterra. La contesa
trovò una composizione tra 1106/1107 prima in Francia poi in Inghilterra dove ai signori laici fu
assicurato il conferimento delle funzioni e beni temporali (temporalia) ai prelati, tuttavia si decise
che l’elezione dovesse avere luogo alla presenza del signore o del suo rappresentante. Nel 1122
Callisto II concluse con l’imperatore un compromesso simile il concordato di Worms che
differenziava le zone di influenza imperiale. In Germania l’investitura con i temporalia doveva
avvenire tra l’elezione e la consacrazione, un fatto che garantiva al sovrano la possibilità di
continuare a esercitare pressioni; nel regno d’Italia e Burgundia ciò dovette verificarsi entro i sei
mesi successivi alla consacrazione, in questo caso le possibilità del sovrano erano limitate poiché
egli entrava in gioco solo allorché tutti gli atti ecclesiastici costitutivi risultavano già perfezionati.
Ovviamente tutti i propositi di riforma potevano avere successo solo qualora il ruolo del papato
venisse rafforzato. Nel 1075 Gregorio VII pubblicò nel Dictatus papae in forma di massime i diritti
che il papa rivendicava per sé in quanto successore di Pietro e vicario di Cristo, a suo avviso
all’interno della Chiesa il papa è l’istanza suprema di supervisione e controllo perciò può emanare
nuove leggi, insediare e deporre prelati ed è santo in conseguenza della sua stessa carica. In parte
fondandosi sulla donazione di Costantino, Gregorio pretese che solo al papa fosse consentito di
portare insegne imperiali e di insediare e deporre sovrani. Questa concezione fu sottolineata con
maggior chiarezza da Urbano II. Di conseguenza la teoria gelasiana dei due poteri fu ora intesa a
vantaggio di una univoca supremazia del potere spirituale su quello temporale, il significato
originario delle affermazioni di Leone I sulla plenitudo potestatis fu messo da parte e ne risultò
un’interpretazione in accordo con la lettera di Gregorio IV e con le decretali pseudo-isidoriane. Il
ruolo del papato all’interno della chiesa venne così definito in modo univoco e nuovo. Per adeguare
la realtà all’autocoscienza papale fu necessario come prima cosa regolamentare il modo in cui il
papa doveva ricevere la sua carica, a tale scopo servì il decreto sulle elezioni papali del sinodo
romano del 1059. Venne decretato che l’elezione poteva avvenire fuori Roma e doveva essere
effettuata da parte dei cardinali vescovi che dovevano controllare l’elezione e consacrare l’eletto, e
infine se presenti, il clero e il popolo romano, avrebbero dovuto aderire al loro voto. Con questo
decreto si fece il primo passo verso l’esclusivo diritto di elezione da parte dei cardinali. Il
concorrenziale adeguamento della corte papale ai centri di potere secolari si palesò anche nel
cerimoniale. Per insediare il nuovo papa eletto fu necessario non solo che prendesse possesso del
Laterano ma anche che fosse intronizzato in san Pietro o in altra chiesa petrina e che qui fosse
consacrato e gli venissero consegnati il pallio e la ferula nonché doveva essere anche ammantato.
La riforma interessò l’intera chiesa occidentale ora intesa sempre più come chiesa universale,
strutturata unitariamente e guidata dal papa. Per raggiungere lo scopo si tennero anche sinodi fuori
Roma diretti dagli stessi pontefici o dai legati papali. E quanto la posizione del papato fosse
rafforzata lo evidenzia il fatto che soprattutto in Francia alcuni legati papali deposero e nominarono
abati e vescovi e intervennero sulle strutture ecclesiastiche tramite la divisione e l’unione di diocesi.
I papi più di prima ricompensarono i loro seguaci con privilegi ed esenzioni. Punto di partenza per
questi interventi furono le raccolte di diritto ecclesiastico che non era ancora normalizzato in modo
unitario. Il fondamento fu rappresentato dallo Pseudo- Isidoro, l’accoglimento di altro materiale
dipese dagli scopi perseguiti dal singolo compilatore e dai modelli in suo possesso. I testi papali
possono essere suddivisi in due categorie: decisioni di sinodi pontifici e comunicazioni di singoli
papi in relazione a casi concreti. Della seconda categoria facevano parte non solo ordini e divieti ma
anche dispense ossia decisioni che regolamentavano le deviazioni della norma. Tuttavia le leggi, le
dispense e l’attività dei sinodi e dei legati papali poterono recare frutti solo qualora risultassero
accette agli interessati perciò è necessario chiedersi chi fossero i seguaci della riforma diretta dal
papato. Il papato trovò forte sostegno pressi i differenti gruppi di riforma monastica anche se i più
importanti furono dei gruppi di monaci o separatisi dai preesistenti movimenti di riforma o sorti ex
novo. La riforma propagata dal papato ebbe una positiva accoglienza anche presso diversi gruppi di
laici, membri della media e alta nobiltà fondarono monasteri legati al loro casato o dotarono con
beni e diritti nuove fondazioni riformistiche. Imperatori e papi si impegnarono per la riforma della
chiesa le relazioni però peggiorarono dopo la morte di Enrico III. Enrico IV si impegnò sempre
nella riforma ma cercò di limitare il più possibile l’influsso dei papi avversari utilizzando ogni
mezzo. Per quanto riguarda l’Oriente nel 1054 vi fu la scissione tra la chiesa d’Occidente e quella
d’Oriente. Richiamandosi alla donazione di Costantino i legati di Leone IX scomunicarono a
Bisanzio il patriarca e l’imperatore e di conseguenza il patriarca anatematizzò il papa. Molti
pontefici cercarono di annullare la separazione ma nessuno ebbe successo. Di positivo per il papato
vi fu che da allora in poi solo quei territori che riconoscevano la sua superiorità ecclesiastica furono
considerati come facenti parte della cristianità di retta fede. Una unione delle due chiese sarebbe
stata possibile qualora il papato fosse stato riconosciuto come suprema autorità ecclesiastica. La
cesura con la chiesa orientale rappresentò uno dei motivi per cui i pontefici si allearono con i
normanni che divennero i feudatari del papa e con la sua autorizzazione sottomisero tutta l’Italia
meridionale e anche la Sicilia. I normanni rappresentarono una sicura protezione per i papi che, da
Niccolò II, tentarono di governare effettivamente attraverso una politica di incastellamento la
Sabina e in prossimità delle vie-consolari meridionali. Nel 1102 la contessa Matilde di Tuscia lasciò
in eredità a Pasquale II il suo territorio, ma i sovrani tedeschi tentarono di guadagnarne il dominio
così che la contesa per i beni matildini diventerà a partire da Federico Barbarossa una costante.
Quindi per riassumere la chiesa occidentale era ora intesa come chiesa universale, sottoposta al
papa che deteneva la plenitudo potestatis e non poteva essere deposto, era il giudice supremo e
unico legislatore che gli permise di intervenire sulle strutture ecclesiastiche. Ne risultò indebolita la
posizione dei vescovi. Con l’aiuto di una nuova interpretazione della teoria gelasiana dei due poteri,
attraverso il ricorso alla donazione di Costantino e un’anacronistica lettura di vecchi documenti il
papato riuscì a capovolgere il rapporto tra potere ecclesiastico e potere secolare. Il papa pretendeva
ora di deporre re ed imperatori e quindi i sovrani cercarono una nuova legittimazione del loro
potere. Ciò determina che per la prima volta si può parlare di un antagonismo tra Stato e Chiesa.
CAPITOLO 7: L’ampliamento dell’autorità papale (1124-1198).
I papi di questo periodo riuscirono ad ampliare i presupposti realizzati nell’XI secolo e di
incrementare l’influsso del papato. Nel XII secolo antiche zone di insediamento furono utilizzate
più intensivamente e coltivate, migliorò lo status giuridico e sociale delle popolazioni nonché la
libertà per gli abitanti delle città. La colonizzazione intensiva contribuì all’infiltrarsi della
dominazione secolare che ne approfittò anche per rafforzare il diritto feudale e tentarono inoltre di
sottoporre al loro potere giudiziario il clero. Questo comportamento provocò conflitti con il papato,
e questi furono acuiti anche dal fatto che il clero si consolidò con un proprio diritto di stato e con
una giurisdizione propria che proibivano ingerenze da parte di istanze secolari. Da parte sia secolare
che ecclesiastica fu allora approfondita la base teorica di legittimazione della sovranità. Se la
riscoperta del diritto romano andò a vantaggio di entrambi fu soprattutto il clero ad approfittare
della nuova scolastica in applicazione alla teologia ed al diritto ecclesiastico. Lo slancio riformistico
del periodo precedente era scomparso ed i papi non furono più in prima linea per l’affermazione
della riforma ecclesiastica e si dedicarono invece a mantenere ed ampliare la loro posizione.
Dopo la morte di Callisto II nel 1124 i cardinali riuscirono ad accordarsi su un candidato Onorio II,
alla sua morte nel 1130 le divergenze erano tali che un cardinale riuscì a far eleggere uno dei suoi
seguaci che si chiamò Innocenzo II. La maggioranza dei cardinali non era presente e questa elesse
Anacleto II. Entrambe i pontefici si dedicarono a guadagnare sostenitori e vinse Innocenzo II, ma il
caso volle che fu Anacleto II ad affermarsi a Roma mentre Innocenzo fu costretto a fermarsi in
Italia settentrionale e in Francia. Anche se Roma rimase il luogo nominale di residenza del papa era
più importante il riconoscimento al di fuori della città. Dopo la morte di Anacleto II nel 1138
Innocenzo ne depose i cardinali e i suoi successori vennero scelti fino al 1154 all’interno
dell’ambiente di quanti lo avevano eletto. Un allontanamento tra il papa e l’imperatore si ebbe nel
periodo di Adriano IV, Enrico II e Federico Barbarossa. Alla morte di Adriano IV vennero eletti
due pontefici, e Federico appoggiò Vittore IV, il candidato di minoranza, il re di Sicilia si schierò
dalla parte di Alessandro III. Alla morte di Vittore IV, il suo successore Pasquale III ottenne l’aiuto
del sovrano germanico. Alla morte di Pasquale i suoi successori furono solo figure marginali.
Intanto il Barbarossa cercava di assoggettare le città dell’Italia settentrionale che però gli inflissero
una sconfitta a Legnano nel 1176. Dopo un accordo ad Anagni nel 1176 il papa (Alessandro III) e
l’imperatore si riconciliarono a Venezia nel 1177. L’imperatore riconquistò Roma per il papa ma
guadagnò l’usufrutto dei beni matildini e una tregua con le città lombarde che riconobbero la sua
sovranità. Alessandro III celebrò la fine dello scisma (1159-1177) nel 1179 con il Terzo concilio
Lateranense, un concilio generale che riunì i rappresentanti di tutte le regioni occidentali attorno al
papa che veniva così indicato come capo della chiesa universale d’Occidente. Ora al pontefice
mancava solo l’affermazione del dominio sulla sua città episcopale e vi riuscì Clemente III con un
accordo con i romani nel 1188. Questo trattato riconsegnò al papa la sovranità sulla città e si
concluse così un conflitto durato quasi mezzo secolo. Per rendere sicura la città ed evitare che i
nobili ormai entrati a far parte del senato nonché molti cardinali presenti nel collegio cardinalizio
provenivano da queste famiglie, da allora il collegio cardinalizio fu reclutato tra i nobili di Roma e
dei territori circostanti i quali eressero delle torri nei pressi delle strade più importanti. Da Clemente
III fino a Gregorio IX solo membri di queste famiglie diventarono pontefici e il loro più importante
rappresentante, Innocenzo III, riuscì a trasformare il senatore romano in un incaricato del papa. La
lotta papale fu permeata dalla lotta per la conquista e mantenimento della supremazia a Roma e
anche dal riguardo per gli interessi romani. I papi tentarono di strappare ai sovrani tedeschi i beni
matildini e intrapresero tentativi per assoggettare i castelli e i monasteri in prossimità delle vie più
importanti. Innocenzo III riuscì nell’impresa. Nella donazione di Costantino il clero romano era
parificato al senato imperiale e nell’XI secolo i cardinali riuniti erano indicati come senato, nel XII
secolo divenne evidente che nei fatti questi ultimi prendevano parte in modo determinante al
governo papale. Questa dipendenza tra papa e cardinali si rafforzò durante i due scismi allorché i
contendenti dovettero assicurarsi l’appoggio del maggior numero di porporati. I cardinali
partecipavano alla concessione di nuovi privilegi e alla conferma dei vecchi e furono determinanti
anche nel III concilio lateranense del 1179 dove per evitare in futuro nuovi scismi, il concilio
decretò che avrebbe dovuto essere considerato papa chi fosse stato eletto da due terzi dei cardinali,
inoltre i cardinali erano legati papali. Intorno al 1140 un giurista realizzò Concordia discordantium
canonum conosciuto come Decretum Gratiani che venne utilizzata come raccolta normativa del
diritto ecclesiastico tradizionale. Dato che era incompleta ebbe delle aggiunte e delle appendici ed
infine nacquero raccolte di testi tradite indipendentemente dal Decretum. Le appendici erano
costituite nella maggior parte da decretali papali e dato che tali raccolte furono realizzate anche in
Spagna ed Inghilterra oltre che in Italia e Francia sono proprio esse a consentire di osservare che le
notificazioni papali avevano conseguito un valore di ampia portata per la dottrina del diritto
ecclesiastico. Per la concreta affermazione del diritto pontificio in tutta la cristianità occidentale il
papato dovette ringraziare non tanto se stesso, bensì i molti compilatori e commentatori che
trasformarono testi disparati in diritto unitario. I rapporti tra impero e papato: il papato ed il suo
seguito intesero ora la teoria gelasiana dei due poteri come se il potere spirituale fosse sovraordinato
rispetto a quello secolare, questa interpretazione si acutizzò attraverso la dottrina delle due spade
che fu presentata dai sostenitori dei papi Bernardo di Clairvaux e Giovanni di Salisbury e da
canonisti. Prendendo spunto da un passo del Vangelo di Luca (22,38) la nuova teoria affermava che
Cristo avrebbe affidato a Pietro e quindi alla chiesa da lui diretta due spade. Una brandita dalla
chiesa significava la giustizia ecclesiastica, l’altra, simbolo della giustizia laica, era utilizzata dal
braccio secolare ovvero dai sovrani dietro incarico della chiesa. Ciò significava che i sovrani
esercitavano le loro prerogative solo su mandato della chiesa e potevano essere deposti. L’ultima
teoria è quella della traslazione formulata negli anni di Alessandro III e Innocenzo III afferma che
Leone III avrebbe sottratto la dignità imperiale ai greci per consegnarla ai franchi i cui successori
sarebbero stati i tedeschi. Durante il XII secolo queste dottrine furono dei meri spassi teorici, in vari
regni i sovrani controllavano le chiese locali, avevano potere giudiziario sul clero e decidevano fino
dove potesse giungere il braccio del papa. I pontefici mal sopportavano la loro posizione di
debolezza rispetto all’imperatore, la situazione peggiorò dopo la morte di Guglielmo II di Sicilia,
Enrico VI incoronato imperatore guadagnò il dominio sul regno meridionale mentre i papi
avrebbero preferito come vertice feudale dei normanni Tancredi di Lecce. Alla morte di Tancredi,
Enrico divenne padrone della situazione e volle estorcere al papa la Sicilia e la Germania. Il caso
volle però che nel 1197 Enrico VI morì.
CAPITOLO 8: All’apice del potere (1198-1303)
Il contrasto tra Innocenzo III e Bonifacio VIII manifesta le trasformazioni avvenute nel corso della
fine del Duecento. Innocenzo con la sua linea politica ebbe spesso successo e fu ammirato,
Bonifacio fallì in quasi tutti gli ambiti della sua attività. Innocenzo III dovette contenere gli sforzi
espansionistici dei sovrani, alla fine del XIII secolo Francia ed Inghilterra miravano al
consolidamento interno della loro autorità, parte integrante del loro progetto era sottomettere il clero
alla loro giurisdizione e tassarlo. Il nuovo rapporto tra Papato e Roma e lo stato della chiesa. Punto
di partenza fu il trattato del 1188 tra Clemente III e il senato. Tuttavia con Gregorio IX la situazione
peggiorò. Da Innocenzo III in poi i pontefici si adoperarono per ottenere l’Italia
centrale, il papa riuscì ad affermare la sua autonomia nei territori circostanti Roma e nella Toscana
meridionale e viene considerato il fondatore dello stato della chiesa. Dopo la morte di Federico II i
papi riuscirono ad estendere la loro autorità sul ducato di Spoleto, sulle Marche e sulla Romagna
che furono sottoposti a rettori che erano o cardinali o cappellani papali. Non bisogna pensare al
dominio papale come troppo intensivo, di solito il pontefice era solo nominalmente riconosciuto
come signore, i regimi tradizionali continuavano ad esistere. Lo Stato della Chiesa però era fonte di
svantaggio al ruolo del papato nella chiesa. A causa dei frequenti conflitti con Roma e anche con
altri comuni e signori locali, la politica ecclesiastica complessiva dei papi fu ricalcata sulle loro
ambizioni centroitaliane. Furono anche criticati i mezzi politici di cui i pontefici si avvalsero per
affermare o ampliare i loro domini territoriali (nepotismo, vennero bandite crociate per avere la
meglio su nemici personali o città ribelli). La situazione divenne problematica per il fatto che i papi
entrarono in conflitto prima con gli Svevi poi con i sovrani aragonesi per rendere più sicuri i beni
matildini e i confini con l’Italia meridionale. Tale combinazione si palesò con Innocenzo III che
seppe fondare le sue intenzioni con argomenti teologici e di diritto ecclesiastico. Risulta dalla sua
posizione nel merito della successione al trono germanico favorevole ad Ottone IV e contraria a
Filippo di Svevia che era incorso nella scomunica. Prima dell’incoronazione del 1209 Ottone IV fu
costretto a rinunciare ai beni matildini e agli interventi in Italia Meridionale. Nel momento in cui
egli avesse infranto la promessa e si fosse diretto contro l’Italia meridionale sarebbe stato
scomunicato come nemico della chiesa. In seguito il papa promosse l’incoronazione di Federico II
prima re di Sicilia poi nel 1212 anche di Germania. Il papa gli fece giurare che la corona di Sicilia
sarebbe stata quanto prima affidata a suo figlio Enrico VII. Quando Federico iniziò a sottomettere la
Lombardia e intervenne nello Stato della chiesa egli minacciò di mandare in rovina la sovranità
secolare del papa. Fu perciò continuamente scomunicato da Gregorio IX e deposto da Innocenzo IV
nel I concilio di Lione del 1245 in quanto nemico della chiesa e quindi eretico, contro di lui fu
anche bandita una crociata. L’atto all’inizio non sortì alcun effetto in Italia visto che un re come
Luigi IX di Francia rifiutò di collaborare con il papa. Solo in Germania si ebbe il cosiddetto
interregno. Per il regno di Sicilia, del quale il papa era signore feudale, il papa cercò altri candidati
che potessero frantumare il potere di Federico e del suo erede Manfredi. Ad avere successo fu Carlo
I d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia che fu investito del feudo di Sicilia nel 1265, e fu
condottiero di una crociata papale durante la quale sconfisse prima Manfredi poi Corradino.
L’intento di Carlo era di dominare tutta l’Italia e la situazione peggiorò dopo il Vespro siciliano del
1282, il potere di Carlo fu confinato a Napoli e ai territori circostanti mentre a governare la Sicilia
furono dei re aragonesi. Gli interessi centro italiani determinarono il rapporto dei pontefici con i
sovrani e lo rivelò la politica nei riguardi della Germania orientata al consolidamento del papato a
Roma e nello Stato della chiesa, politica che ebbe gravi conseguenze per la Germania stessa.
Durante le contese per il trono germanico Innocenzo III definì il suo ruolo nei riguardi dell’elezione
del re nella decretale Venerabilem del 1202. Concesse ai principi elettori di eleggere il sovrano ma
riservò al papa un diritto d’esame che includeva la possibilità di un rifiuto. Affermò inoltre che la
candidatura di un re tedesco alla corona imperiale dipendeva dal fatto che quest’ultima fosse
assegnata dal pontefice. Il papato disponeva così di sufficienti possibilità per intromettersi nella
successione al trono. Recepita nelle raccolte ufficiali di diritto ecclesiastico la Venerabilem fu
osservata fino al XVI secolo e rimase in vigore fino al 1917. E anche l’elezione stessa del re venne
sempre più perfezionata in base alle consuetudini delle elezioni ecclesiastiche. Gli interessi politici
del papato indussero una battaglia con gli svevi, una delle conseguenze fu che dopo il 1220
(incoronazione di Fede) non vi fu più alcuna incoronazione imperiale e l’Italia si distanziò dalla
Germania mentre il legame con la Francia si rafforzò. Il comportamento del papato nei riguardi di
Bisanzio fu ambivalente. Dopo un’iniziale esitazione Innocenzo III approvò la conquista di
Costantinopoli del 1204 ad opera dei partecipanti della IV Crociata, sia la costituzione dell’Impero
latino d’Oriente. Il trionfo fu però di breve durata perché nel 1261 Michele VIII Paleologo
riconquistò Costantinopoli con la conseguenza che la carica patriarcale fu riassegnata ad un greco il
quale respinse le pretese papali. Papa Gregorio X ebbe il merito di porre fine allo scisma del 1054
con la riunificazione ecclesiastica tra greci e latini nel II Concilio di Lione del 1274. Questa unione
per non ebbe alcuna stabilità perché irrinunciabile per l’Occidente era il riconoscimento in Oriente
del Filoque. Così la riunione delle due chiese ebbe termine nel 1282. L’Europa occidentale e
meridionale rimasero tuttavia il centro della politica sia estera sia ecclesiastica dei pontefici. Fu di
rilievo la dottrina dell’ufficio papale sviluppatasi prima di questo periodo. Fino alla metà del secolo
venne formulata nelle arenghe di lettere papali e nei commenti canonistici a decretali e costituzioni,
a partire dalla fine del XIII secolo furono teologi a comporre dei trattati che indagavano questioni di
costituzione ecclesiastica e con tali scritti nacque una disciplina teologica particolare
l’ecclesiologia. Questa mostra che almeno qualche erudito riconosceva la problematicità di alcuni
ambiti costituzionali ecclesiastici soprattutto del rapporto tra chiesa e stato. E questi trattati ebbero
rilievo per il papato perché contenevano modelli per le sue prese di posizione, un esempio famoso è
l’accoglimento nella costituzione Unam Sanctam di Bonifacio VIII di tesi provenienti da un trattato
di Egidio Romano. I pontefici e i loro seguaci non produssero nuove teorie ma approfondirono e
ampliarono decisioni sviluppate a partire dalla lotta per le investiture. Innocenzo III sottolineò il suo
ruolo di vicarius Christi con forza maggiore rispetto a chi lo aveva preceduto e l’estensione del
potere propria della carica papale. La funzione del papa come rappresentante di Cristo ebbe
ripercussione sul rapporto con i poteri secolari. Nella sua Venerabilem Innocenzo III non intaccò il
diritto di elezione regia spettante ai principi tedeschi, l’anno prima in un’altra decretale Per
Venerabilem aveva evidenziato che i sovrani ricevevano il potere direttamente da Dio così che il
papa non aveva autorità alcuna su di loro. Ciò nonostante, questo pontefice si riservò delle
possibilità di azione: nei riguardi del sovrano tedesco poggiavano sul diritto di incoronazione
imperiale e sulla teoria della traslazione, per tutti i sovrani in genere, sulla dottrina delle due spade e
su quella del peccato originale. Innocenzo III fu il primo papa a volere una collezione delle sue
decretali Compilatio Tertia realizzata da Pietro da Benevento, pubblicata nel 1210 come raccolta
ufficiale, lo stesso fece Onorio III con la Compilatio Quinta. Entrambe risultano superate e
deprivate del carattere di ufficialità quando Gregorio IX pubblicò nel 1234 il Liber Extra
compilato da Raimondo di Penafort e ritenuto fino al 1917 raccolta ufficiale. Le decretali e le
decisioni conciliari seguenti vennero riunite in compilazioni ufficiali e in altre private e infine
pubblicate da Bonifacio VIII nel 1298 Liber Sextus e da Giovanni XXII nel 1317 Clementinae.
Queste tre compilazioni (Liber extra, sextus e Clementinae) permearono la prassi giuridica
ecclesiastica e funsero da modello per le raccolte di diritto secolare. Tale diffusione dimostra quanto
ampia fu l’affermazione del diritto pontificio ma ciò non significa che la realtà fosse sempre
determinata dalle norme papali. Un problema spesso affrontato nel diritto e nella prassi era il modo
in cui il vescovo dovesse ricevere la sua carica. In teoria l’atto più importante era l’elezione, si
dibatteva però su chi avesse titolo a parteciparvi e su come questa dovesse essere perfezionata. Per
quanto riguarda le elezioni papali, il III Concilio lateranense del 1179 aveva stabilito che solo i
cardinali con la maggioranza di 2 terzi avrebbero potuto eleggere un pontefice. Nel II Concilio di
Lione del 1274 Gregorio X regolamentò la forma dell’elezione in conclave, poi ulteriormente
perfezionata da Clemente V. Nel IV Concilio lateranense si stabilì che solo il capitolo cattedrale
avrebbe dovuto fungere da collegio elettorale. Innocenzo III e Gregorio IX definirono delle linee
guida per regolamentare la forma dell’elezione e le pretese dei gruppi di elettori. Nulla cambiò
neanche quando il voto di maggioranza fu considerato decisivo anche per le elezioni episcopali
perché, era divenuto normale che pure un vescovo eletto in modo ineccepibile dovesse essere
nominato dal pontefice. Il papato aveva guadagnato un influsso determinante sull’occupazione delle
sedi episcopali, in seguito si riservò l’insediamento dei vescovi in caso di elezione controversa. La
legislazione e la prassi di governo papali fanno spesso riferimento alle crociate. Il diritto
ecclesiastico regolamentò la protezione dei crociati e delle loro famiglie; i commentatori
svilupparono un diritto internazionale. Innocenzo III, Onorio III, Innocenzo IV e Gregorio X si
impegnarono a bandire crociate e anche i concili del 1215 e del 1274 servirono a tale scopo. In
seguito gli ordini cavallereschi furono privilegiati per questo stesso fine, tuttavia scemò sempre più
l’entusiasmo per la terra santa. Ne era responsabile non solo l’insuccesso delle crociate ma anche
l’abuso da parte dei pontefici dell’idea di crociata. I papi intrapresero o diedero il loro appoggio a
crociate contro avversari politici, nemici personali e anche contro veri eretici o presunti tali, si
avvalsero della decima destinata alla crociata per finanziare le loro guerre e per aiutare sovrani
alleati. Ad essere in discussione sono le crociate contro gli eretici, sicuramente vi furono tentativi
per ricondurre gli eretici nel seno della chiesa mediante il dialogo. Ma tutto ciò non modificò il fatto
che ad essere preferita fosse la forza dapprima nella forma delle crociate e poi per mezzo
dell’inquisizione. Quest’ultima si basava sulle decretali di Lucio III e di Innocenzo III e anche su
decreti di sovrani. A fungere da inquisitori erano vescovi, loro incaricati e legati papali, membri dei
nuovi ordini mendicanti tra i quali si distinsero i domenicani. Per la sua linea politica al riguardo
dell’eresia, Innocenzo III cercò di impiegare i vecchi ordini della riforma, come i cistercensi, ma il
risultato fu fallimentare poiché tali ordini a causa della loro struttura monastica non erano adatti alla
cura d’anime. Così nel Lateranense IV furono utili solo come modello per l’organizzazione
regionale dei benedettini. Necessitava di nuovi collaboratori. Gli ordini mendicanti avevano un’alta
valutazione di sé come salvatori della chiesa. Fu il papa stesso ad appoggiare e promuovere
Francesco a patto che si fossero integrati nel clero. Promosse anche fondazioni di Domenico. Inoltre
i francescani prima e poi i domenicani ebbero un cardinale protettore attivo presso la corte papale il
quale curava i loro interessi e riferiva le direttive pontificie. E se il papato si avvalse soprattutto dei
domenicani come inquisitori, i francescani servirono alla diffusione della liturgia romana. Le
molteplici attività dei papi imposero una riorganizzazione e ampliamento della curia romana che
durò per tutto il 200. Certo il papato fu criticato, pietra dello scandalo era la subordinazione dei
concili al papa. Proprio i concili erano serviti all’affermazione degli obiettivi papali all’interno della
chiesa. La critica si trasformò in crisi durante il pontificato di Bonifacio VIII. Nel 1294 venne
nominato papa Pietro del Morrone con il nome di Celestino V che fu il primo pontefice ad abdicare
di sua volontà. Undici giorni dopo fu eletto pontefice il cardinale Caetani ovvero Bonifacio VIII.
Numerosi furono gli attacchi contro di lui, Bonifacio revocò le decisioni del suo predecessore,
ampliò il potere della sua famiglia a danno dei Colonna, contro i quali procedette anche avvalendosi
di mezzi d’azione ecclesiastici soprattutto per il conflitto con Filippo il bello di Francia ed Edoardo
I d’Inghilterra. Nei loro regni avevano tassato il clero senza il permesso del papa. Contro di loro
Bonifacio pubblicò la bolla Clericis laicos nella quale sottolineò quanto il clero avesse sofferto sotto
i laici e stabilì la pena per qualsiasi violazione in merito. Il papa però dopo varie accuse reciproche
fu costretto a revocare la validità della Clericis laicos in Francia. Il conflitto con la Francia si riaprì
nel 1301, quando il primo vescovo della diocesi di Pamiers, Bernardo Saisset, si scontrò con Filippo
per il patronato della sua città episcopale. Il re dopo averlo fatto processare e giudicare lo fece
incarcerare a Narbona. Bonifacio richiese la liberazione di Saisset e revocò al sovrano tutti i
privilegi papali e lo invitò ad un sinodo romano per la fine del 1302. Nella bolla Ausculta fili il papa
non solo incolpò Filippo di aver oppresso il clero e ingannato il suo popolo, ma sottolineò che la
sottomissione dei re cristiani al papa era voluta da Dio. Così Bonifacio trasformò il conflitto in una
battaglia di principio sui diritti di chiesa e stato. La bolla venne bruciata alla presenza del re e in
Francia la tesi generale contenuta in questa venne diffusa con un documento papale falsificato
Deum time. Bonifacio continuò il conflitto pubblicando nel 1302 Unam Sanctam dove sottolineò
con forza il ruolo del papa e decretò che la necessità di salvezza implicava la subordinazione di ogni
creatura umana al vescovo di Roma. La costituzione bonifaciana fu contestata e non entrò a far
parte del diritto ecclesiastico ufficiale fino alla fine del medioevo. Il cancelliere di Filippo,
Guglielmo di Nogaret si alleò con i Colonna e fece proprie le accuse contro Bonifacio che voleva
scomunicare il re e sciogliere i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. Nogarer e Sciarra Colonna
assaltarono però il palazzo papale ad Anagni e chiesero al papa di abdicare. Bonifacio rifiutò, venne
imprigionato per essere condotto in Francia e condannato. Ma gli abitanti della cittadina lo
liberarono ma morì un mese dopo a Roma.
CAPITOLO 9: Il papato ad Avignone (1303-1378) VEDI VITOLO
Successore di Bonifacio fu Benedetto XI che ebbe come alleato Carlo II di Napoli, Filippo di
Francia gli era contro visto che il suo cancelliere Nogaret appoggiava anche i Colonna e
promuoveva un concilio che avrebbe dovuto giudicare eretico Bonifacio. In questa situazione il
papa venne incontro al re ma scomunicò Nogaret. Benedetto XI fuggì a Perugia e vi morì dopo un
pontificato che durò solo 8 mesi. Al decesso seguì un conclave di undici mesi perché i due partiti
del collegio cardinalizio non riuscirono ad esprimere alcun candidato comune, si accordarono per
l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrando de Got, che accettò l’elezione e volle chiamarsi Clemente V.
Venne incoronato a Lione e manifestò il desiderio di trasferirsi in Italia tuttavia si fermò nella
Francia meridionale e centrale. Clemente V fu soggetto all’influsso del sovrano francese alla sua
morte nel 1314 l’elezione di un successore risultò difficile. Il candidato comune era Giacomo Dueze
da Cahors che assunse il nome di Giovanni XXII, vescovo di Avignone dal 1310 al 1312 dopo la
sua incoronazione si trasferì in quella che era stata la sua sede episcopale trasformandola in
residenza papale. Da allora Avignone fu sede del Papato per 60 anni. Vari erano i vantaggi di
Avignone rispetto a Roma: mancava l’opposizione da parte di gruppi nobiliari, la città era collocata
in una posizione strategica per i traffici commerciali, era circondata dalla contea di Venaissin
soggetta al papato fin dalla seconda metà del XIII secolo. A partire dalla lotta per le investiture i
papi erano spesso stati costretti a risiedere fuori Roma e ciò aveva ostacolato l’organizzazione di
una comunità amministrativa, adesso ad Avignone si offriva al papato l’occasione di realizzare
un’amministrazione effettiva e costante anche da un punto di vista locale, seppur con alcuni
inconvenienti. Come l’impostazione del palazzo papale esprimeva il nuovo stile di vita e di governo
dei papi, così l’organizzazione curiale corrispondeva alle occupazioni della curia. Il nuovo ambiente
e i vincoli politici indussero un amento dell’importanza dei cardinali. Per il superamento delle
fazioni cardinalizie italiane, già Clemente V accolse nel collegio personaggi che provenivano dalla
Francia meridionale tra i quali numerosi suoi nipoti consolidando così la sua posizione. Se nel
passato erano stati gli esponenti della nobiltà romana a costituire il collegio cardinalizio, spesso
determinandone la linea politica, adesso erano in maggioranza gli ecclesiastici della Francia
meridionale e centrale a partire da Clemente VI. Queste origini regionali non solo indussero rivalità
nelle elezioni papali, ma comportarono anche dei tentativi per guadagnare un maggior influsso sul
papato stesso. Nel 1313 morirono Filippo IV e Clemente V, dal momento che i figli del sovrano
francese regnarono per breve tempo, fu il papato a rappresentare la potenza di maggior rilievo. Solo
con la nuova dinastia dei Valois il regno di Francia poté esercitare di nuovo un forte influsso sul
papato. Volse a loro vantaggio il fatto che due pontefici Clemente VI ed Innocenzo VI fossero in
precedenza stati cancelliere e consigliere del re. Per il papato in quegli anni due furono i maggiori
problemi: la guerra dei cent’anni (1338-1453) e il conflitto tra la curia e il re tedesco Ludovico il
Bavaro. Per quanto riguarda la Guerra dei cent’anni furono gli inglesi a dichiarare guerra perché
Edoardo III nipote di Filippo IV contestò ai Valois la corona di Francia, egli mirava a salvaguardare
e a recuperare i possedimenti inglesi sulla terraferma in quanto eredità dei Plantageneti. Una delle
conseguenze fu la devastazione dei territori francesi, numerose chiese e monasteri si impoverirono e
la peste fece il resto dal 1348. Il papato appoggiò i sovrani francesi che a loro volta dotarono con
l’approvazione papale ecclesiastici del loro regno con prebende molto redditizie, ovvero
rivendicarono il diritto del papato di conferire benefici, inoltre a partire da Clemente VI furono
messe a loro disposizione le decime per la crociata. La guerra tra Inghilterra e Francia gravò anche
sulle relazioni tra papato e la Germania, anche se ad appesantirle contribuì la politica italiana. Il
papato puntava a tutelare Roma e lo stato della chiesa e ad evitare che risultasse compromesso il
regno degli Angiò a Napoli.
CAPITOLO 10: Scisma e Riforma (1378-1447) VEDI VITOLO
Anche Gregorio XI ebbe l’intenzione di tornare ad Avignone al termine del suo pontificato tanto
che ad una settimana dalla morte promulgò una costituzione nella quale si prevedeva la cessazione
dei relativi decreti di Alessandro III e Gregorio X. Egli intendeva ridurre la pressione dei romani e
assicurare una rapida successione. Il progetto non giunse a compimento perché il camerario
trattenne il testo perciò l’elezione avvenne secondo le formalità previste. La maggior parte dei
cardinali si accordò sull’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignani, ma la folla protestò prendendo
d’assalto il palazzo e pretese l’elezione di un romano, i cardinali intimoriti fuggirono dal palazzo. Il
giorno seguente i cardinali fecero ritorno e intronizzò Bartolomeo che si chiamò Urbano VI. La
rottura si ebbe in estate quando gran parte dei cardinali si riunì di Anagni, inviarono un legato al
papa che gli comunicò di non avere alcun diritto al titolo papale, ma che forse avrebbe potuto essere
scelto nel corso di un’altra elezione. I cardinali elessero il cardinale Roberto di Ginevra che si
chiamò Clemente VII. Da ora in poi vi furono due pontefici stabilire chi fosse il legittimo
successore di Pietro procurò difficoltà oltre che ai cardinali non francesi anche ai contemporanei
sovrani, prelati, teologi e giuristi. In favore di Urbano è che egli fu eletto secondo la legislazione
tradizionale e che per 3 mesi i cardinali dimoranti a Roma furono suoi collaboratori. A causa della
situazione giuridica controversa lo storico può solo constatare che dalla fine del 1378 vi furono due
pontefici, ognuno dei quali aveva dalla sua parte seguaci esperti in diritto ecclesiastico. È
comprensibile che la duplicazione del papato e della curia si ripercuotesse sui fedeli lacerati dalle
rivendicazioni avanzate dalle due parti, la reputazione del papato non poté certo risultare rafforzata
e con il perdurare dello scisma aumentò l’incertezza sulla validità di consacrazioni e sacramenti. La
scissione si approfondì anche perché i successori di Urbano e Clemente erano convinti della loro
legittimità e non presero in seria considerazione di abdicare. Per porre fine allo scisma fu necessario
percorrere altre vie. Dopo inutili trattative il governo francese e l’università di Parigi nel 1395
negarono l’obbedienza al loro papa. La risoluzione era stata preparata nel corso di un sinodo
parigino contro l’opposizione del cancelliere Pietro d’Ailly appartenuto alla famiglia di Benedetto
XIII. Benedetto rifiutò le richieste di questo primo incontro e anche quelle del secondo. Più gravido
di conseguenze fu un terzo sinodo del 1398. Intanto i regni di Francia ed Inghilterra avevano aderito
al negare l’obbedienza al loro papa, così che dalla parte di Benedetto rimase solo l’Aragona. Nel
1403 Benedetto fuggì e riguadagnò l’appoggio dei cardinali e del governo francese e ciò dipese
soprattutto dal duca Luigi d’Orleans. Il papa tentò di pervenire ad un’intesa con i pontefici romani,
già nel 107 poi nel 1408 Benedetto e Gregorio si incontrarono a Savona poi in Toscana per giungere
ad una risoluzione dello scisma. Quando in tentativi fallirono a causa di Gregorio costui fu
abbandonato da gran parte dei cardinali. La Francia sottrasse di nuovo l’obbedienza a questo nel
1408, e profilatosi il pericolo di una sua cattura Benedetto convocò un concilio in Aragona. Però la
maggior parte dei suoi cardinali si riunì ora con i colleghi romani che subito dopo convocarono un
concilio a Pisa, Gregorio XII che invece fissò un conclave a Cividale. I concili di Cividale e di
Aragona avrebbero dovuto consolidare le rivendicazioni dei rispettivi papi ma scarso fu il successo
di Gregorio XII infine costretto alla fuga, Benedetto XIII ottenne ancora l’appoggio dell’Aragona e
di una parte del clero provenzale. Obiettivo del concilio di Pisa era la deposizione di entrambi i
pontefici e l’elezione di uno nuovo e si affrontarono questioni relative alla riforma della chiesa. Il
concilio ebbe come conseguenza che da allora i papi furono 3 perché le chiese ed i sovrani spagnoli
non riconobbero Alessandro V (il nuovo papa pisano) e anche il re tedesco Roberto restò dalla parte
del pontefice romano. Nel 1412 alla morte di Alessandro V, venne eletto come successore Giovanni
XXIII che inaugurò a Roma un concilio per la riforma ma tutto fu rinviato ad un altro incontro
conciliare per il 1413. Giovanni venne cacciato da Roma. Importante fu il concilio di Costanza del
1414 convocato da Sigismondo di Lussemburgo e per la prima volta fu un sovrano a realizzare un
raduno dell’intera chiesa. Aperto da Giovanni XXIII il concilio doveva occuparsi della riforma
ecclesiastica e di questioni di fede ma soprattutto dell’unità della chiesa. Per raggiungerla era
necessaria la rinuncia di Giovanni. Il papa sembrò cedere ma fuggì a Costanza nel 1415 e volle
sciogliere il concilio. Cominciò il processo contro Giovanni che venne catturato e ricondotto in
città, fu deposto come simoniaco e fautore dello scisma. Benedetto venne deposto nel 1417. A
novembre venne eletto come nuovo pontefice il romano Oddone Colonna che prese il nome di
Martino V e da allora diresse il concilio. Nel 1418 annunciò 7 decreti di riforma e concluse con le
nazioni conciliari 5 distinti trattati i quali avevano validità per 5 anni fino al concilio seguente e
dovevano assicurare l’applicazione delle decisioni nel merito della riforma soprattutto la riduzione
del diritto papale di conferimento delle cariche ecclesiastiche. Martino V si impegnò a tornare a
Roma e ad utilizzare lo stato della chiesa ma riuscì in quest’ultima impresa solo dal 1424. Poco
prima di morire Martino convocò un concilio a Basilea presieduto dal cardinale Cesarini, il nuovo
pontefice Eugenio IV confermò l’incarico di Cesarini che però fece aprire il concilio nel 1431 da un
suo collaboratore. Pochi mesi dopo il papa sciolse il concilio ma ebbe poco successo perché
Cesarini appoggiato dalla maggioranza dei cardinali rifiutò l‘incarico del pontefice. Da allora il
concilio e il papa furono avversari. Eugenio IV deve la sua vittoria successiva ai greci, perché dal
1433 si avviarono le trattative tra il concilio e il papa da una parte, e Costantinopoli dall’altra per
raggiungere un’unione con la chiesa orientale. Il papa nel 1437 riuscì a spostare la sede conciliare
da Basilea a Ferrara. Dato che molti dei conciliari restò a Basilea si ebbero due concili ossia vi fu un
altro scisma. Il tutto venne peggiorato dal fatto che il 25 giugno 1439 il concilio di Basilea depose
Eugenio IV ed elesse un nuovo pontefice Felice V. Intanto nel 1439 il concilio di Eugenio aveva
concluso l’unione con i greci. La situazione di Eugenio migliorò anche perché la Francia non
riconobbe la sua deposizione e altre nazioni gli si legarono. Il suo successore Niccolò V fu in grado
di unificare la chiesa e ad ottenere la rinuncia di Felice V e lo scioglimento del concilio di Basilea,
di conseguenza poté perseguire la restaurazione del potere papale. Fin dall’inizio dello scisma si
manifestò fino a che punto il prestigio dei papi in rivalità dipendesse dalla benevolenza dei poteri
secolari. Sia le rivendicazioni conciliari sia le ingerenze dei poteri secolari in questioni
ecclesiastiche furono fondate mediante una critica delle condizioni in cui verteva la chiesa e che
riteneva papato e curia come i maggiori responsabili della situazione. Con Niccolò V il dominio
papale venne riconsolidato a Roma e nello stato della chiesa e pose fine allo scisma di Basilea.
CAPITOLO 11: Restaurazione e rinascimento (1447-1534).
Niccolò V inaugurò l’epoca del papato rinascimentale. Da allora fino ad oggi i papi preferirono
come residenza il Vaticano. Niccolò V pianificò una costruzione del tutto nuova, venne demolita la
basilica di San Pietro e sostituita con una costruzione moderna. Però il papa poté realizzare solo in
parte i suoi progetti la basilica fu conservata, solo il palazzo venne ingrandito e abbellito e venne
costruita una torre a protezione. Il rinnovato potere papale si rivela anche nelle numerose
costruzioni di chiesa, promosse dai pontefici, dai cardinali e dai più ricchi curiali, e nei palazzi
cardinalizi. Niccolò V ed i suoi successori fino a Paolo II furono però ancora costretti a tollerare il
predominio del ceto superiore mercantile romano e a governare d’intesa con questo. Eugenio riuscì
ad ottenere che vi fosse un governatore da lui confermato al posto del prefetto della città. Solo Sisto
IV riuscì ad apportare delle modifiche all’amministrazione comunale a sottoporre al camerario
apostolico il magistrato cittadino così che da allora il vice-camerario fu contemporaneamente il
governatore della città. Il consolidamento del potere papale si palesò anche nel cerimoniale.
Modellato sugli sviluppi avignonesi il Vaticano divenne il centro dei riti pontifici a partire da Sisto
IV. Da Callisto III vi ebbe luogo l’elezione papale. Contemporaneamente aumentarono i segni della
secolarizzazione del papato, invece di celebrare personalmente la messa i papi lasciarono tale
compito ai cardinali e ai vescovi di curia. Di conseguenza la maggior parte dei papi di quest’epoca
corrispose all’immagine del principe rinascimentale. Lo stato della chiesa rimase nel prosieguo una
creazione instabile nella quale la sovranità papale necessitò continuamente di essere guadagnata con
armi e consolidata. Con Carlo V che venne incoronato prima come re d’Italia nel 1539 e poi
imperatore da papa Clemente VII ebbe inizio il declino del papato e dello stato della chiesa.

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