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PAROLE PER “LA CITTÀ ASTRATTA”

Sul numero 4-5 del Marcatrè, l’ultimo della sua breve esistenza genovese, del marzo-
aprile 1964, Eugenio Battisti descriveva le “Difficoltà delle arti” nella nostra città in
termini che non lasciano adito a dubbi:

Queste malattie, a Genova, sono la mancanza di iniziative in sede ufficiale da parte dei
vari enti pubblici, l’assenza, a memoria d’uomo, di mostre d’arte contemporanea di
rilievo nazionale, il numero limitato dei pittori, ed il loro isolamento, non avendo a
disposizione né una rivista d’arte locale, né una critica giornalistica solerte (tranne
l’eccezione di Germano Beringheli), né rappresentanti a Roma o Milano, in grado di
poterli appoggiare per mostre, convegni, premi; la diffidenza generale verso qualsiasi
cosa odori di contemporaneo, come si vede dal tono generale delle insegne, delle
vetrine, della pubblicità e, come ho dovuto constatare in sede ben significativa,
nell’ambiente studentesco. Ritornerò su alcuni di questi problemi ma vorrei intanto dire
che i difetti che si riscontrano a Genova, se pur comuni alle altre città, se pur giustificati
dalla relativa lontananza dalle due capitali, indiziano peraltro una gravissima inerzia
morale.

È, però, proprio in quel torno di tempo che una reazione a questa inerzia si stava
manifestando. Per opera di pochi: artisti, galleristi, critici, editori, che – pur
muovendosi autonomamente, senza sponde finanziarie o politiche, rischiando in
proprio – tentavano di avanzare proposte nuove e in linea con i tempi. In questo fronte
frastagliato e non unitario, ma in qualche modo concorrente, si muovevano gli autori
della Scrittura visuale (gli Oberto, Carrega, D’Ottavi, Mignani e, con altra intonazione,
Tola, Vitone, Ziveri) con le loro riviste (Ana Eccetera, Tre Rosso, Tool), una rivista già
consolidata come Nuova Corrente di Mario Boselli e Giovanni Sechi, che iniziava a
misurarsi con la novità portata dal Gruppo 63, Umberto Silva con le sue edizioni, gli
astrattisti di Tempo 3 (Bargoni, Carreri, Esposto, Guarneri, Stirone) e Rocco Borella.
Dietro le quinte l’azione propulsiva di Eugenio Battisti, primo direttore del già ricordato
Marcatrè, fondatore del Museo Sperimentale d’arte contemporanea, fiancheggiato da
Beringheli, da Ezia Gavazza e da un Germano Celant allora nel ruolo di giovanissimo
apprendista.
Questo fervore, la cui intensità non arrivava a incrinare l’indifferenza dell’ambiente,
trovava i suoi spazi di risonanza nell’attività espositiva di tre gallerie appena sorte, la
Polena di Edoardo Manzoni e Rosa Leonardi, il Deposito animato in prima persona da
Eugenio Carmi, la Carabaga legata al Gruppo di Studio di Sampierdarena (la Bertesca di
Masnata e Trentalance, verrà qualche tempo dopo con la proposta della Pop Art
americana e il primo lancio dell’Arte Povera). Mentre l’attenzione della Carabaga si
incentra sul versante della Poesia Visiva, Polena e Deposito scelgono (seppure con
qualche occasionale deviazione) di far proprio l’ambito di un astrattismo di seconda e
terza generazione, in evoluzione verso forme di ricerca analitica, cinetica e persino
ambientale.
Tra le due gallerie, relativamente ad alcuni artisti (Fontana, Bill, Vasarely, Gaul, Lohse,
Alviani, Morandini) si registrano sovrapposizioni; tuttavia mentre il Deposito si
caratterizza maggiormente per il suo impegno di democratizzazione dell’arte
attraverso la produzione dei suoi celebri “multipli” è la Polena a seguire con
ammirevole tempestività e costanza alcuni snodi fondamentali della vicenda
dell’astrattismo internazionale (il Gruppo Zero, con le personali di Piene e Mack; l’arte
cinetica con la mostra “Proposte strutturali plastiche e sonore” nel 1964, il Gruppo N e
Cruz Diez nel 1965, poi Chiggio, Le Parc, Gianni Colombo ecc.) e riservando specifica
attenzione sia ad autori faro delle generazioni pregresse (Radice, Reggiani, Magnelli,
Delaunay, Mansouroff, Herbin, Calderara), sia ad esperienze evolutive (Accardi,
Mangold, Denny, Noland, Smith, Tornquist, Verna), sia - ancora – alle ricerche prodotte
in loco, con i già ricordati artisti di Tempo 3, Borella, Pino De Luca, Zappettini.
Se, a distanza di tempo, è invalsa la consuetudine di considerare la lunga vicenda
dell’arte astratta nei termini meramente formali di un’arte non rappresentativa, un
esercizio statico fine a se stesso, è invece importante recuperare il significato profondo
di quell’esperienza, che si concreta in una sorta di utopia: una dimensione che, nelle
parole di Filiberto Menna (“Profezia di una società estetica”, 1969), “non è uno spazio
irreale, così com’è plasmato e guardato dal presente; ma non è nemmeno uno spazio
esattamente reale: è piuttosto uno spazio immaginario in cui si sposta e cambia la
vita”. In questo senso, nella ricerca di un ambiente armonico, l’attività artistica si
dispiega come operazione estetica, sì, ma nel contempo socialmente impegnata e
vitale.
“La città astratta” si prospetta allora, in uno scenario dove la produzione culturale
sempre più si appiattisce sull’entertainment e viene identificata da Goffredo Fofi come
il nuovo “oppio dei popoli”, come una lezione su cui riflettere per tentare il recupero,
al di là della perfezione esteriore, “di una spazialità unitaria, continua, avvolgente, ricca
di stimoli” e tuttavia “aperta all’aleatorietà dell’esistenza”, capace di rispondere alla
mutevolezza delle situazioni, non meramente formale ma organicamente formativa.

Sandro Ricaldone

8 ottobre 2019

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