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Sono, invece, pochissimi i Farmacisti attenti anche al benessere dei collaboratori e quindi
concentrati anche su obiettivi di crescita e di cura dei membri del proprio gruppo di lavoro.
Com’è possibile che la maggior parte dei farmacisti non abbia ancora compreso che le
persone, i collaboratori, sono la risorsa più importante per un’azienda, tanto da poterne
decretare successo o fallimento?
Avere una bella Farmacia in cui i clienti si sentano bene, applicare strategie di marketing,
vendita, fidelizzazione è importantissimo per fare impresa ed essere un azienda di
successo ma senza una buona squadra di persone felici di lavorare per l’azienda
quest’obiettivo sarà più difficile da realizzare o comunque sarà realizzato ad un prezzo
altissimo, questo prezzo si chiama stress lavorativo o bournout.
sovraccarico di lavoro
mancanza di controllo
gratificazioni insufficienti
crollo del senso di appartenenza, conflittualità marcata o latente tra colleghi
assenza di equità
valori contrastanti
scarsa remunerazione.
Rispondi con estrema onestà: come stanno i tuoi collaboratori? Sei attento al clima
emotivo che si respira nel tuo staff? quanti dei tuoi collaboratori mostrano stanchezza,
esaurimento, apatia, nervosismo, rabbia, risentimento, aggressività, negativismo,
indifferenza, atteggiamento ipercritico nei confronti dei colleghi o difficoltà nella relazione
con i clienti? Queste domande dovresti fartele frequentemente, sarebbe opportuno che tu
monitorassi il tuo team per verificare il livello di benessere se ci tieni ad avere un gruppo
performante, solidale, vincente.
Quando gli individui che ne fanno parte riescono ad ottenere risultati superiori alla somma
dei contributi individuali, generando sinergie che permettono performance sempre migliori
con la soddisfazione di tutti. Una squadra efficace e ben gestita può migliorare
la prestazione dei singoli individui sensibilmente, è lo strumento principale attraverso il
quale l’azienda può raggiungere i suoi obiettivi di business.
Per costituire un team efficace, i suoi membri devono condividere un obiettivo comune,
avere fiducia e rispetto reciproco ed essere motivati a utilizzare i punti di forza di ogni
singolo membro per raggiungere la meta prefissata.
Attraverso un percorso di Team Coaching si guida il Team nel passaggio da una visione
dei singoli membri, centrata sulle proprie competenze e modi di pensare, ad una
visione globale di sviluppo delle competenze utili al gruppo, quali ad esempio la capacità
di ascolto reciproco, la capacità di creare rapporti interpersonali armonici e di
definire regole e ruoli.
Ricordati che per avere successo nella vita in genere e nell’ambito lavorativo in
particolare, non è sufficiente disporre di un elevato Quoziente Intellettivo o essere
competenti da un punto di vista professionale; occorre anche poter disporre di intelligenza
emotiva perché al centro dell’azienda ci sono le persone.
Eppure qualche domanda io me la pongo quando scopro che, per contro, ad esempio la
stessa Amazon ha recentemente acquisito un’importante catena del food, con l’obiettivo
dichiarato di proporre una shopping experience che si differenzia da tutti gli altri punti
vendita della grande distribuzione.
Ancora, anche Coop si sta organizzando, evolvendo con punti vendita denominati
Extracoop ove si cerca di instaurare un rapporto più vicino al cliente (come vi
presenterò al Master Capsula di Roma).
E come loro, anche altri grandi marchi stanno riscoprendo la necessità del contatto
personale, l’emozione di un’esperienza d’acquisto basata su accoglienza e dialogo.
Allora penso a noi, alle nostre farmacie, a quante opportunità ci siamo lasciati sfuggire nel
passato per dare forza e valore al contatto personale che da sempre abbiamo avuto
occasione di erogare quotidianamente.
Cerco di farmi un’idea di come oggi possiamo interpretare questa nuova importante
tendenza, per trasformarla in un’irripetibile occasione di efficace competizione.
Professionisti lo siamo sempre stati, professionali nella stragrande maggioranza dei casi.
Abbiamo rivoluzionato, in questi anni di crisi, i nostri ambienti con un design veramente in
grado di evidenziare le nostre unicità, specializzazioni, scelte e selezioni di proposte?
Abbiamo davvero compreso cosa il cliente ci chiede e si aspetta da un punto vendita come
la nostra piccola (o grande…ma comunque piccola) farmacia, per preferirci rispetto ad altri
fornitori e arrivare perfino a parlare bene di noi?
Perché preoccuparsi significa occuparsene prima, mentre il lamento che spesso corre tra i
corridoi della nostra categoria è tutta altra cosa.
Non è questo il momento di pensare di essere troppo bravi per non aver paura o, al
contrario, troppo insignificanti per riuscire a competere. Questo è il momento
per progettare idee semplici ma coerenti con le aspettative del cliente moderno,
dobbiamo porci obiettivi chiari di costante miglioramento, da perseguire con entusiasmo.
Dobbiamo imparare a scrivere dove vogliamo arrivare e coinvolgere efficacemente tutta la
squadra.
E’ importante cominciare a conferire valore a quello che finora è stato il solo prezzo di
un prodotto.
Ascoltiamo con attenzione la voce del cliente, anche quando non ci parla
direttamente. Osserviamo come si muove, anche quando non è all’interno della nostra
farmacia.
Facciamo scoprire che la nostra piccola farmacia è tutt’altro che un comune punto
vendita.
Paolo Piovesan
LEADER E SQUADRA
Se esiste in azienda un cartello di verifica per il conseguimento degli obiettivi, significa che non
dovrai dimenticarlo e dovrà essere periodicamente aggiornato.
Allora va costantemente riportato anche il punto della situazione con riunioni pubbliche ove
coinvolgerai necessariamente tutto lo staff.
Questi incontri, settimanali o mensili, sono importanti. Non devi essere superficiale nei temi
trattati, non devi perdere tempo, non ci devono essere discorsi troppo prolissi perché bisogna
parlare poco per essere capiti meglio.
Se esistono coinvolgimento e condivisione, già si conoscono bene i perché. Troppi giri di parole
allora non servono, quando occorre piuttosto rimanere concentrati su cosa fare e come
realizzarlo.
Al termine di ciascuna riunione è importante che vi sia un rendiconto degli impegni presi, va
eventualmente aggiornamento o rivisto il tabellone in funzione dei punteggi (risultati) ottenuti
fino a quel momento, infine va stabilita per scritto una pianificazione dei nuovi impegni con la
suddivisione dei compiti.
Nelle nostre farmacie si scrive molto poco ma, come ben si sa, le parole non lasciano traccia.
Queste riunioni servono a mantenere la concentrazione nonostante la routine quotidiana,
ma servono anche perché permettono gli scambi tra i membri dell’organizzazione e quindi
offrono gli strumenti per imparare l’uno dall’altro.
Inoltre, tali incontri ripristinano le energie che altrimenti tenderebbero ad affievolirsi, stimolano
le collaborazioni per una soluzione collettiva dei problemi e aiutano a chiarire le
incomprensioni.
Gli impegni che ciascuno si assume non dovranno mai essere ripetuti, magari perché non
raggiunti nella sessione precedente, altrimenti si determina un precedente pericoloso e
ciascuno potrebbe sentirsi comunque autorizzato a rimandare quanto prefissato.
Conseguentemente, secondo tale principio, gli impegni non mantenuti da qualcuno non vanno
nemmeno accettati, piuttosto è preferibile sviscerare con severità le ragioni di un insuccesso in
qualche partita per non ritrovarsi poi a dover costatare la perdita dell’intero campionato.
Nelle riunioni, il leader lascia spazio anche agli altri, affinché possano esprimersi e
possibilmente insegnare a loro volta qualcosa.
Se una persona riesce a insegnare, significa che sa, che ha approfondito e soprattutto crede in
ciò che sta facendo.
Fai in modo che i tuoi collaboratori abbiano la soddisfazione di esporre ciò che hanno imparato
e in cui si sono impegnati, mettili alla prova sulla capacità di trasmettere ai colleghi conoscenze
ed entusiasmo, fai loro sperimentare cosa significa saper coinvolgere chi ti sta a fianco.
In una squadra affiatata non si lavora unicamente per non deludere il capo, ma per
gratificazione personale e per non deludere i propri colleghi.
Leader e team devono impegnarsi per alzare sempre l’asticella, senza mai adagiarsi sui risultati
ottenuti.
Il leader deve fidarsi della propria squadra, incoraggiare le nuove idee, e a volte può essere
anche utile ascoltare un input proveniente da una prospettiva esterna o diversa.
In questo modo, ottenendo risultati il team diventa più propositivo e i giocatori imparano
ad assaporare il piacere di giocare per vincere.
L’ottenimento degli obiettivi va allora sempre festeggiato e premiato, per motivare tutti a porsi
un nuovo traguardo da raggiungere.
Paolo Previsan
Quali sono le categorie lavorative più a rischio? Sono quelle legate ai servizi sociosanitari
ed educativi, dove il coinvolgimento emotivo è più forte, e dove il proprio lavoro non è
sempre accompagnato da risultati verificabili entro un determinato tempo. La mancanza del
risultato del proprio operato sviluppa il sentimento della propria inutilità. Per esempio, un
insegnante di ragazzini che non studiano e non ottengono risultati positivi percepirà vano il
suo operare ed infine lo valuterà inutile; in questo caso, il soggetto, per difesa tenderà ad
assume atteggiamenti di eccessivo distacco fino ad arrivare al cinismo. Quando si fa più
forte la dissociazione tra fatica (energia impiegata) e percezione del significato del proprio
operato, il soggetto si smarrisce in un senso di vuoto. L’uomo non può stare senza un
significato, se lo percepisce può sopportare anche enormi difficoltà. Non é quindi il burn-out
una sindrome psicofisica, ma un segnale della crisi tra prassi (l’agire) ed il significato di
quell’agire. Per sottolineare questo concetto prendo spunto dal raffronto tra chi svolge un
ruolo di assistenza come volontario e chi come lavoratore. Tra i volontari il burnout è
statisticamente inferiore; ciò può essere spiegato dal fatto che in questi l’idealità è più alta,
ma minore responsabilità; mentre per chi svolge un’attività d’aiuto come professione
l’idealità tende a scendere col tempo, ma permane la forte responsabilità. Questo vuol dire
proprio che a fronte di altre variabili (quali orario, stipendio, ecc.) il livello di idealità
svolge un ruolo significativo.
Come si può prevenire? Dagli studi condotti negli ultimi anni sappiamo che il sostegno
sociale e soprattutto il recupero dell’idealità della professione svolta, hanno un forte valore
protettivo rispetto alla sindrome. Ma a questi aspetti devono essere aggiunti elementi
organizzativi del lavoro quali un certo grado di coinvolgimento nelle decisioni e di
autonomia. Infatti spesso la sindrome è riscontrata dopo circa 3-4 anni di lavoro in soggetti
giovani che vivono la frustrazione di non vedere realizzate nel concreto le proprie
aspettative. Quindi, se è presente più coinvolgimento ed autonomia è chiaro che la persona
mette in atto le proprie risorse e affronta la situazione lavorativa non in modo passivo ma
attivo. Come spiegato prima, è fondamentale che il proprio ruolo lavorativo sia inserito in
una visione etica del proprio operato.
Cosa è consigliabile fare qualora ci si riconosca nei sintomi? Bisogna tener presente che il
livello del burnout rimane tendenzialmente stabile nel tempo, in quanto la sindrome è una
risposta ad uno stress cronico e non acuto. Questo rende la sintomatologia a volte difficile
da considerare con il giusto peso. Sicuramente qualora un operatore percepisca un forte
aumento dei sintomi descritti sopra, che perdurano nel tempo, è bene ricerchi aiuto per
valutare la propria condizione psicologica nell’esercizio del proprio lavoro, senza aspettare
che la sintomatologia trovi come luogo di espressione il corpo e quindi emergano
problematiche fisiche.
Come possiamo invece riconoscere i segnali della sindrome su un collega o una persona
che è vicino a noi? Sicuramente se osserviamo in un operatore, che ha precedentemente
dimostrato un certo entusiasmo nel proprio lavoro, la presenza significativa di cinismo e un
conseguente abbassamento del proprio impegno nel lavoro, è probabile che ciò sia il segnale
di una problematiche di questo tipo. Certamente vanno anche valutate le possibili
problematiche della vita personale, in quanto il logoramento delle relazioni interpersonali
deve essere un sintomo e non una causa della sindrome del burnout. Bisogna cioè stabilire se
la difficoltà ha origine per la mansione svolta o se deriva dalla propria vita personale,
l’intervento sarà di conseguenza.
La sindrome del burn-out è stata identificata come specifica malattia professionale degli operatori dell’aiuto da C.
Maslach nel 1975. In questi venti anni molti ricercatori hanno dato alla sindrome diversi significati che tuttavia
possono essere sintetizzati come segue: la burning-out syndrome è un insieme di sintomi che testimoniano la evenienza
di una patologia comportamentale a carico di tutte le professioni ad elevata implicazione relazionale. Essa si distingue
dallo stress, che può eventualmente essere una concausa del burn-out; così come si distingue dalle diverse forme di
nevrosi, in quanto disturbo non della personalità ma del ruolo lavorativo.
Allo stadio conclamato essa di manifesta attraverso tre categorie di sintomi a volte sequenziali a volte combinati tra
loro:
2) eventi autodistruttivi (disturbi di carattere psicosomatico o del comportamento, diminuzione delle difese
immunitarie, aumento della propensione agli incidenti, ecc.):
La sindrome si presenta in significativa correlazione con la esposizione a utenti con maggior disagio, ruoli di basso
prestigio e scarsa formazione professionale.
Le cause principali della sindrome indicata sono essenzialmente riconducibili a tre variabili principali, spesso fra loro
intrecciate:
Queste concause evidenziano due nodi principali nelle professioni dell’aiuto, il cui superamento avrebbe la funzione di
prevenire e curare il burn-out oltre che dare Qualità ai servizi d’aiuto.
La prima è quella del reclutamento, della formazione, della selezione degli operatori. La seconda riguarda la
organizzazione del lavoro nei sistemi d’aiuto.
2) I LAVORATORI DELL’AIUTO
Ancora oggi il lavoro dell’aiuto sconta il peccato di una ideologia assistenziale, per la quale il lavoro sociale non è altro
che una forma, indebitamente retribuita, di beneficenza. Medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri, educatori,
insegnanti sono ancora immersi nella mistica del missionariato.
I servizi sanitari, sociali e culturali sono considerati una prova della munificenza statale. L’utente non è un cliente, ma
un postulante cui viene fatta l’elemosina di una prestazione d’aiuto.
Le conseguenze di questa ideologia, solo da poco in via di estinzione ma ancora molto diffusa a livello emotivo,
toccano gli utenti, gli operatori e le organizzazioni.
Gli utenti non hanno diritti, non hanno potere: più che coinvolti vengono asserviti alle necessità del professionista
dell’aiuto.
Gli operatori sono animati da un forte spirito oblativo e salvifico e si sentono collocati automaticamente dalla parte del
bene (salute, sapienza, potenza, bontà).
Le organizzazioni si considerano utili per il solo fatto di esistere e non hanno alcuna spinta al risultato, che si identifica
con l’aiuto prestato.
In sintesi il lavoro d’aiuto non è stato finora considerato un lavoro, ma piuttosto una vocazione, una missione, un
dovere, un atto di solidarietà, una strada per la santità.
La scelta di un lavoro risponde sempre ad una motivazione psicologica e si fonda su aspettative ragionate.
Queste ultime sono legate all’immagine sociale di una professione, alle informazioni realistiche che la riguardano, alla
appetibilità sul mercato del lavoro, ai livelli di remunerazione, alle possibilità di carriera. Le professioni d’aiuto,
almeno negli ultimi trenta anni, hanno accumulato in tutte queste voci un pesante passivo: immagine sociale sfuocata o
dequalificata quando non addirittura negativa, progressivo rifiuto del mercato cl lavoro, basse remunerazioni, quasi
nessuna possibilità di carriera.
La domanda può trovare una risposta non dunque nelle aspettative, quanto nelle motivazioni psicologiche cioè nei
bisogni profondi che attraversano coloro che desiderano diventare professionisti dell’aiuto.
La prima motivazione riguarda il fatto che chi sceglie questa professione ha un forte bisogno di aiutare. Aver bisogno
di aiutare significa anzitutto mettersi al di qua della soglia del bisogno di essere aiutati. Essere preposti alla cura dei
malati significa postulare la propria salute come inattaccabile. Dedicarsi alla psicoterapia implica una certificazione
permanente di salute mentale. Assistere un soggetto in stato di bisogno offusca la consapevolezza del proprio bisogno.
La seconda motivazione è legata alla prima. Porsi in un ruolo di bonificatore, benefattore, salvatore, non solo esorcizza
la paura del male esterno, ma garantisce una buona immagine di sé, cioè dedica la vita agli altri, non può che essere
buono chi lavora per l’aiuto: chi lotta contro il male e per di più il male degli altri è un "cavaliere bianco".
La terza motivazione riguarda il potere. Chi ha bisogno di aiuto è sempre in stato di inferiorità, posseduto dal male e da
esso depotenziato, come un bambino cattivo o malato. Il professionista dell’aiuto si pone come grande madre
accogliente e grande padre onnipotente. Esso può fare da contenitore di ogni male del paziente, controllarlo col suo
potere ed espungerlo.
Da queste tre riflessioni emerge un immaginario dell’aspirante professionista che si fonda su tre pilastri: la salute, la
bontà e il potere.
Naturalmente queste motivazioni sono legittime, come tante altre, e possono essere utili alla professione, ove siano
consapevoli e controllate. Il fatto è che spesso non lo sono affatto. La non consapevolezza e l’assenza di controllo di
questi bisogni profondi, si trasformano facilmente in una serie di vissuti molto dannosi per l’operatore e per l’utente.
L’incontro con il bisogno, il disagio, il dolore e la morte attacca l’immagine del potente salvatore e produce
depressione e sentimenti di impotenza. L’impossibilità ad aiutare facilita l’insorgenza del dubbio circa la propria bontà
fino a trasformarsi nel vissuto di malvagità. Infine, la scoperta dell’impotenza fa vivere come diabolico e persecutorio il
potere maligno di cui il paziente è portatore.
Questo groviglio di possibili vissuti che colgono l’operatore che è partito da una enorme idealizzazione della
professione, lo portano alla frustrazione prima ed al burn-out poi.
Su questo tema entrano in gioco i meccanismi di reclutamento formazione di base e selezione degli operatori dell’aiuto.
Finora è bastato l’elemento volontaristico. Molti sono coloro che iniziano a diventare operatori d’aiuto a partire da
esperienze giovanili di volontariato o di obiezione di coscienza. In quale scuola professionale o università viene fatta
una selezione psicologica per l’ammissione? E in base a quale giustificazione non ne viene fatta alcuna? E in base a
quale giustificazione di un permissivismo falsamente democratico chiunque è ammesso a scuole per operatori
dell’aiuto, col risultato di carriere infelici, servizi dannosi e utenti danneggiati.
Una volta che un allievo è ammesso ad una scuola per una professione dell’aiuto, ci dovremmo almeno aspettare che il
curriculum preveda una formazione delle skills psicologiche minime (un po’ di consapevolezza e di autocontrollo), e
invece nulla, neppure nelle Facoltà di Psicologia che preparano gli allievi a sviluppare consapevolezza e autocontrollo,
quando non cura e guarigione, nei futuri utenti, ma non negli psicologi. Lo stesso dicasi per i medici, anche psichiatri.
Ancora, i meccanismi di selezione per una qualsiasi tecnica industriale prevedono dei colloqui e tests attitudinali,
mentre l’ammissione ad un servizio dell’aiuto si basa, quando non su cooptazioni amicali, su concorsi di tipo
amministrativo e teorico cognitivo.
La prevenzione del burn-out richiede una revisione completa del sistemi di reclutamento, formazione di base e
ammissione in servizio. Essi devono basarsi sulla analisi delle motivazioni e puntare sulla promozione dei livelli di
consapevolezza e controllo del mondo interno. Una volta inseriti nella organizzazione d’aiuto, l’operatore dovrebbe
essere aiutato in modo permanente con una apposita supervisione relativa ai suoi vissuti professionali.
Il lavoro d’aiuto ha per sua natura la necessità della libertà. Anche un lavoratore dipendente deve avere lo statuto del
professionale: con il diritto alla ricerca ed alla formazione permanente, al segreto professionale, alla discrezionalità dei
mezzi impiegati. In genere purtroppo, questo statuto è riconosciuto, e non sempre solo ai lavoratori laureati, mentre i
diplomati sono più spesso coartati nei loro diritti professionali.
Ciò detto, è pure vero che spesso le mansioni affidate al lavoratore dell’aiuto contengono elementi fortemente
dequalificanti, molto stressanti, sovente lontani dalle aspettative. Basta pensare al carico buro-amministrativo che grava
sui medici; o alla condizione mista di operatore dell’aiuto e della repressione cui sono costretti infermieri ed educatori a
contatto coi pazienti psichiatrici, ex-tossicodipendenti, carcerati; o ancora alle situazioni di pazienti con gravi handicap,
non autosufficienti o terminali, dove la terapia consiste solo nel prendersi cura senza alcuna speranza di risultati.
Orbene, in questi casi la prevenzione del burn-out dovrebbe vedere il lavoro organizzato con tempi non stressanti,
magari con periodi part-time o mansioni a rotazione, per periodi non lunghissimi; con la suddivisione del carico di
lavoro meno gradevole su diversi operatori.
Un altro problema relativo al lavoro è quello che riguarda retribuzioni e carriera. Il lavoro sociale non è gratificante per
il primo aspetto, né per il secondo. Può sembrare paradossale, ma retribuzione e carriera, prestigio e potere sono
inversamente proporzionali alla vicinanza coi soggetti bisognosi d’aiuto, con la sola eccezione dei medici chirurghi. Il
medico di guardia guadagna meno del primario che guadagna meno dell’accademico. L’educatore di un servizio
territoriale che vede ogni giorno l’utente, guadagna meno dell’assistente sociale che lo vede una volta al mese, la quale
guadagna meno del capo-servizio che lo vede una volta l’anno. L’unica possibilità di carriera, nel settore dell’aiuto,
consiste nell’allontanarsi dall’aiuto stesso. La continuativa vicinanza all’utente va inoltre di pari passo, per i ruoli di
frontiera, con la diminuzione delle opportunità di ricerca e formazione permanente.
Una seria prevenzione del burn-out dovrebbe compensare con maggiori retribuzioni gli operatori front-line, offrendo
loro maggiore potere e maggiore libertà. Non essendo questo possibile per motivi economici, occorre allora trovare
sistemi compensatori come la formazione e la supervisione permanenti, l’istituzione dell’anno sabbatico, il
coinvolgimento attivo in attività di ricerca e di confronto professionale e scientifico, la possibilità di carriere orizzontali
(spostamenti premio, sia pure temporanei, in servizi più gratificanti), l’uso di strumenti di incentivazione legati alla
qualità delle prestazioni.
La terza causa possibile dell’insorgenza del burn-out è il modo stesso col quale sono organizzati i sistemi nei quali i
lavoratori dell’aiuto devono operare. Malgrado gli "helpers" siano professionali, i sistemi di aiuto che li contengono
sono modellati sui principi organizzativi delle tradizionali organizzazioni burocratiche e tayloristiche. I principi dei
livelli gerarchici e della divisione del lavoro, della prevalenza delle procedure e della impersonalità delle prestazioni
ormai messi in discussione persino nelle più tradizionali imprese produttrici di beni materiali, producono paradossi se
applicati nei sistemi di aiuto.
Il lavoro dell’aiuto si fonda infatti sulla discrezionalità, la personalizzazione del rapporto, la integrazione delle
competenze, il predominio del risultato. La contraddizione fra questi caratteri peculiari delle professioni dell’aiuto e il
modo con cui sono organizzati i sistemi "contenitore" (servizi sociosanitari, scuole, case di riposo, ospedali, ecc.), è
palese.
Su questa base generale si innesta un elemento specifico che facilita ulteriormente il burn-out: la difficoltà di verificare
e valutare i risultati. In una impresa profit, sia materiale che immateriale, il risultato è il profitto. In un sistema d’aiuto il
risultato è il benessere. Mentre il primo è facilmente quantificabile, il secondo non lo è affatto. Chi lavora in una
impresa profit dispone di parametri di conferma o disconferma della propria prestazione, abbastanza chiari e di facile
applicazione. Chi lavora in un sistema d’aiuto, lavora al buio, in un regime di risultati invisibili e di responsabilità
distribuite. La carenza di confronto individuale con i risultati delle proprie azioni produce da una parte uno stato
d’incertezza continua e dall’altra facilita la produzione di allucinazioni.
I sistemi d’aiuto richiedono un diverso modo di interpretare il ruolo gerarchico. Questo, nelle imprese tradizionali ad
impianto burocratico e tayloristico, si esprime essenzialmente su due interventi: il comando ed il controllo
dell’esecuzione.
Nei sistemo d’aiuto, il comando è possibile solo riguardo a fattori marginali (orario di lavoro, assegnazione di utenze,
mansioni transitorie), mentre è impossibile sul contenuto del lavoro: il professional dell’aiuto opera con discrezionalità
e non può essere comandato a fare o non fare un intervento. L’origine dl questo diritto alla discrezionalità risiede nel
fatto che l’operatore dell’aiuto e in certo modo "comandato" dai bisogni dell’utente. Anche il controllo dell’esecuzione
non è uno strumento utile e possibile per l’autorità operante nei sistemi d’aiuto. Da una parte perché l’operatore d’aiuto
non è controllabile a vista, dall’altra perché l’esecuzione del comando è discrezionale.
L’autorità nei sistemi di aiuto deve essere esercitata attraverso interventi specifici: il contenimento dell’ansia, il
supporto, la consulenza, la stimolazione della qualità, la distribuzione di incentivi immateriali, la creazione di strumenti
di controllo dei risultati. Un’azione preventiva del burn-out da parte del ruolo di autorità si esprime mediante l’uso
articolato e combinato di questi interventi.
Il lavoro dell’aiuto si svolge di necessità in équipe. Il principio della discrezionalità esclude il comando e richiede il
consenso nella gestione ordinaria del sistema d’aiuto. L’équipe è lo strumento della gestione ordinaria consensuale di
un sistema d’aiuto. D’altro canto un utente richiede la cooperazione di competenze diverse, che apportino differenti
informazioni, molteplici punti di vista interpretativi del bisogno, e strategie di intervento combinate. L’équipe è un
"operatore plurale" dell’aiuto, che si articola via via nelle azioni sequenziali o parallele dei singoli professional.
Infine, l’équipe fornisce all’operatore uno spazio di appartenenza e confronto, di supporto emotivo e di controllo: essa è
un contenitore delle dimensioni affettivo-razionali che sono implicate nel lavoro dell’aiuto.
Naturalmente le tre funzioni indicate per l’équipe dell’aiuto (produzione del consenso, operatore plurale e contenitore)
hanno una valenza positiva per l’efficienza e possono prevenire il burn-out, a condizione che l’équipe funzioni.
Laddove il gruppo di lavoro è attraversato da processi disfunzionali o da dinamiche patologiche, invece della
prevenzione, esso offre una accelerazione della emergenza del burn-out. Rovesciando il concetto, possiamo dire che
l’équipe svolge un forte ruolo preventivo del burn-out a patto che riesca a costruire un consenso, funzionare come
operatore plurale e agire come contenitore emotivo-razionale.
I sistemi di aiuto producono benessere per i clienti attraverso il benessere degli operatori d’aiuto. O meglio i sistemi di
aiuto producono benessere solo se sanno prevenire il malessere o il burn-out degli operatori. Salute, benessere, disagio
sono concetti di tipo essenzialmente soggettivo. Un individuo sente di stare bene o male, ed il suo stato è soprattutto
uno stato d’animo. Anche i sistemi hanno uno stato d’animo che la psicologia chiama "clima".
Il clima di una organizzazione d’aiuto è insieme causa ed effetto degli stati d’animo degli individui che ne fanno parte e
delle loro relazioni. Un clima depressivo o conflittuale o disgregato è insieme spia e causa di una situazione generale
che può facilmente esitare in u burn-out diffuso. Il controllo e l’azione di miglioramento del clima organizzativo è
dunque una delle possibili leve di prevenzione del burn-out.
In termini operativi è essenziale la periodica rilevazione del clima dell’organizzazione complessiva e l’intervento per la
sua tenuta a livelli soddisfacenti.
Esiste infine l’ipotesi di una insorgenza del burn-out a livello dell’intero sistema di aiuto. Una simile eventualità è
certamente foriera di molteplici burn-out individuali.
Questo fenomeno si può riscontrare in quelle organizzazioni d’aiuto che nascono sulla spinta di una forte
idealizzazione, poi entrano in una routine frustrante e mettono in atto una organizzazione disfunzionale o patologica.
Frequente è il presentarsi di questa eventualità nelle comunità per tossicodipendenti; nei servizi per handicappati gravi,
per anziani dementi o per malati terminali di AIDS; nei centri di accoglienza per nomadi o extracomunitari. In questi
casi assistiamo a fenomeni collettivi di disinvestimento emotivo, di depressione o di sadismo molti dei quali arrivano
alla ribalta dei quotidiani.
La prevenzione di questo burn-out istituzionale è possibile solo attraverso il monitoraggio periodico delle principali
funzioni organizzative: clima, appartenenza e soddisfazione degli operatori, risultati, percezione dei clienti. In sostanza,
come afferma M. Jahoda, l’organizzazione, si garantisce la salute solo attraverso una permanente ricerca su se stessa.
BIBLIOGRAFIA
La sindrome del burn-out
Alcuni autori lo identificano con lo stress lavorativo specifico delle helping professions, altri
affermano che il burn-out si discosta dallo stress per la depersonalizzazione, cui esso dà luogo, che
è caratterizzata da un atteggiamento di indifferenza, malevolenza e di cinismo verso i destinatari
della propria attività lavorativa.
Il burn-out può anche essere inteso come una strategia particolare adottata dagli operatori per
contrastare la condizione di stress lavorativo determinata da uno squilibrio tra richieste/esigenze
lavorative e risorse disponibili. Comunque esso va inteso come un processo multifattoriale che
riguarda sia i soggetti che la sfera organizzativa e sociale nella quale operano.
Il concetto di burn-out (alla lettera essere bruciati, esauriti, scoppiati) è stato introdotto per indicare
una serie di fenomeni di affaticamento, logoramento e improduttività lavorativa registrati nei
lavoratori inseriti in attività professionali a carattere sociale. Questa sindrome è stata osservata per
la prima volta negli Stati Uniti in persone che svolgevano diverse professioni d’aiuto: infermieri,
medici, insegnanti, assistenti sociali, poliziotti, operatori di ospedali psichiatrici, operatori per
l’infanzia.
Attualmente non esiste una definizione universalmente condivisa del termine burn-out.
Freudenberger è stato il primo studioso a usare il termine “burn-out” per indicare un complesso di
sintomi, quali logoramento, esaurimento e depressione riscontrati in operatori sociali americani.
Successivamente Cherniss con “burn-out syndrome” definiva la risposta individuale ad una
situazione lavorativa percepita come stressante e nella quale l’individuo non dispone di risorse e di
strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiarla.
I risultati sembrano quindi indicare una polarizzazione tra “specialità a più alto burn-out”, dove
spesso ci si occupa di pazienti cronici, incurabili o morenti, e “specialità a più basso burn-out”, ove
i malati hanno prognosi più favorevole.L’insorgenza della sindrome di burn-out negli operatori
sanitari segue generalmente quattro fasi. La prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle
motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale: ovvero
motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro
meno manuale e di maggiore prestigio) e motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la
conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono
spesso accompagnate da aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo
generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora.
Nella seconda fase (stagnazione) l’operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non
soddisfa del tutto i suoi bisogni. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale
disimpegno. La fase più critica del burn-out è la terza (frustrazione). Il pensiero dominante
dell’operatore è di non essere più in grado di aiutare alcuno, con profonda sensazione di inutilità e
di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza; come fattori di frustrazione aggiuntivi
intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori che da parte degli utenti, nonché la
convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto. Il soggetto frustrato può
assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto
comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti
assenze per malattia.
Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia alla
apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte
professionale.