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Il libro

Sopravvivere alle prime quattro onde sembrava impossibile eppure Cassie


Sullivan e i suoi compagni ci sono riusciti. Ora si ritrovano in un mondo che non
riconoscono più, tutto è stato distrutto, anche quello che ci teneva uniti, che ci
rendeva umani: "Non c'è speranza senza fede, non c'è fede senza speranza, non c'è
amore senza fiducia, non c'è fiducia senza amore. Togli una sola di queste cose e
l'intero castello di carte umano crolla".
Con gli Altri alle costole, Cassie, Ben e Ringer si trovano di fronte a una
scelta difficile: prepararsi ad affrontare l'inverno sperando nel ritorno di Evan
Walker o partire alla ricerca di altri sopravvissuti. Perché il prossimo attacco è
inevitabile -- e imminente.
La Quinta Onda, infatti, continua implacabile la sua avanzata, e il nemico
non si fermerà fino a che la razza umana non sarà completamente annientata.
Dopo il successo di La Quinta Onda, diventato un film, Rick Yancey torna
con il secondo capitolo della saga, e ci mostra fin dove possa spingersi l'umanità
nella battaglia finale tra vita e morte, speranza e disperazione, amore e odio.

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L'autore
Rick Yancey è nato a Miami e ha iniziato ad amare la letteratura sin da piccolo,
grazie ai libri che riceveva in regalo da suo padre. Tra le sue letture preferite in
assoluto ci sono Le avventure di Sherlock Holmes e Il signore degli anelli.
Oltre a leggere molto, fin da bambino ha iniziato a scrivere storie, attività che
non ha più abbandonato.

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Rick Yancey
LA QUINTA ONDA
Il mare infinito
Traduzione di Elisabetta Spediacci

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IL MARE INFINITO

Per Sandy, guardiana dell'infinito

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Il mio cuore, come il mare, non ha limiti
e il mio amore è profondo quanto il mare:
più te ne concedo più ne possiedo, perché l'uno e l'altro sono infiniti.
WILLIAM SHAKESPEARE

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IL GRANO
Non ci sarebbe stata mietitura.
Le piogge primaverili avevano svegliato i semi dormienti e
dalla terra umida erano spuntati germogli verde acceso che si
erano allungati verso l'alto come chi si stiracchia dopo un bel
sonnellino. Man mano che la primavera lasciava il passo
all'estate, gli steli si erano scuriti, abbronzati, tinti di un bruno
dorato. Le giornate erano diventate lunghe e afose. Dense nubi
torreggianti dalle volute nere portavano frequenti rovesci e i
gambi bruni luccicavano nel crepuscolo perpetuo che regnava
sotto quella cappa. Il grano intanto cresceva e le spighe in via di
maturazione si piegavano al vento della prateria simili a una
tenda agitata dalla brezza, a un immenso mare increspato che si
perdeva all'orizzonte.
Al momento di mietere non c'erano agricoltori a staccare le
spighe dagli steli, a sfregarsele tra le mani callose e soffiarci
sopra per liberare la parte buona dalla lolla. Non c'erano
braccianti a mordicchiare i chicchi fino a romperne con i denti il
delicato involucro. L'agricoltore era morto nell'epidemia e chi, tra
i suoi familiari, era rimasto in vita era fuggito nella città più
vicina e lì, a sua volta, era morto, andando a sommarsi ai miliardi
di vittime della Terza Onda. La vecchia casa costruita dal nonno
dell'agricoltore era ormai un'isola deserta circondata da un
infinito mare bruno. Le giornate si erano accorciate e le notti si
erano fatte fresche, e le piante frusciavano nel vento secco.
Il grano era sopravvissuto alla grandine e ai fulmini dei
temporali estivi, ma non poteva sperare in un colpo di fortuna per
salvarsi dal freddo. Quando i profughi avevano trovato riparo
nella vecchia casa, ormai era morto, ucciso dalla stretta morsa di
un'intensa gelata.

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Cinque uomini e due donne, sconosciuti l'uno all'altro alla
vigilia di quell'ultima stagione agricola, erano adesso legati dal
tacito giuramento che anche uno solo di loro contava più di tutti
quanti messi insieme.
Gli uomini si avvicendavano sul portico per fare la guardia.
Di giorno il cielo sereno era di un vivido azzurro limpido e il sole
basso all'orizzonte accendeva di scintillanti riflessi dorati il
bruno spento del grano. Quando invece calava la notte, o meglio
piombava sulla Terra come infuriata, la luce delle stelle dava al
grano il colore dell'argento lucidato.
Il mondo meccanizzato era morto. Terremoti e tsunami
avevano distrutto le coste. L'epidemia aveva divorato miliardi di
vite.
E gli uomini sul portico scrutavano il grano e si chiedevano
cosa sarebbe seguito.
Un giorno, nel primo pomeriggio, l'uomo di guardia vide quel
mare di spighe morte aprirsi e capì subito che c'era qualcuno -- o
qualcosa -- che si faceva strada verso il vecchio casolare. Chiamò
i compagni; una delle donne uscì e, ferma accanto a lui, guardò
gli alti steli che scomparivano nel mare bruno come risucchiati
dalla Terra stessa. Chiunque fosse, era interamente nascosto dal
grano. L'uomo scese i gradini. Spianò il fucile in direzione del
campo. E rimase in attesa: lui in cortile, la donna sul portico e gli
altri dentro casa, con la faccia attaccata al vetro delle finestre. In
attesa, nel silenzio generale, che la tenda di grano si schiudesse.
Quando alla fine sbucò un bambino, l'immobilità di
quell'attesa andò in frantumi. La donna scese di corsa dal portico
e spinse giù la canna del fucile. "È solo un bambino. Non vorrai
mica sparare a un bambino?" Il volto dell'uomo era contratto in
una smorfia di indecisione e di rabbia, perché tutte le certezze di

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un tempo erano state tradite. "Come facciamo a saperlo?" le
chiese brusco. "Come facciamo a essere ancora sicuri di
qualcosa?" Uscendo dal grano, il bambino inciampò e cadde. La
donna si precipitò da lui, lo tirò su e si strinse al seno il suo
visetto sudicio. L'uomo armato le si piantò davanti. "Sta
congelando. Dobbiamo portarlo dentro." E l'uomo avvertì un forte
senso di oppressione al petto. Era schiacciato tra ciò che il
mondo era prima e ciò che il mondo era allora, tra il suo io
passato e il suo io presente, e gli gravava sul cuore il prezzo di
tutti i taciti giuramenti. "È solo un bambino. Non vorrai mica
sparare a un bambino?" La donna gli sfilò accanto, salì i gradini,
attraversò il portico ed entrò in casa, e l'uomo chinò la testa come
in una preghiera, poi la alzò come in una supplica. Aspettò
qualche minuto per vedere se dal grano sbucava qualcun altro,
perché non riusciva a credere che un bambino a malapena capace
di camminare potesse essere sopravvissuto così a lungo, solo e
indifeso, senza nessuno a proteggerlo. Com'era possibile?
Quando entrò nel soggiorno del vecchio casolare, vide che la
donna teneva il bambino in grembo. L'aveva avvolto in una
coperta e gli aveva dato un bicchiere d'acqua, bicchiere che il
piccolo stringeva con manine arrossate dal freddo. Gli altri si
erano raccolti nella stanza e lo fissavano sbalorditi senza dire una
parola. "Com'era possibile?" Il bambino piagnucolava. Passava lo
sguardo da un viso all'altro, in cerca di una faccia familiare, ma
per lui erano tutti estranei, così come loro erano stati estranei
l'uno all'altro prima che il mondo finisse. Piagnucolava e ripeteva
che aveva freddo e che gli faceva male la gola. Aveva tanta bua
alla gola.
La donna che lo teneva in grembo gli fece aprire la bocca. Si
accorse del tessuto infiammato in fondo al cavo orale, ma non del

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filo sottile come un capello fissato vicino alle tonsille. Non
poteva vedere né il filo né la minuscola capsula collegata all'altra
estremità. Non poteva sapere, mentre si chinava sul bambino per
guardare meglio, che il dispositivo dentro di lui era calibrato per
rilevare l'anidride carbonica del fiato umano.
Il fiato, l'innesco.
Il bambino, l'arma.
L'esplosione polverizzò il vecchio casolare all'istante.
Per il grano ci volle di più. Se del casolare o degli annessi o
del silo che anno dopo anno aveva ospitato un raccolto
abbondante non rimaneva niente, gli snelli steli secchi, consumati
dal fuoco, si trasformarono invece in cenere, che al tramonto,
quando un forte vento settentrionale spazzò la prateria, si sollevò
in aria e fu trasportata per centinaia di chilometri per poi cadere,
una neve grigia e nera, e posarsi indifferente sul terreno arido.

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PRIMO LIBRO

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Prima parte
IL PROBLEMA DEI RATTI

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1
Il mondo è un orologio sempre più scarico.
Lo sento nel rumore delle dita ghiacciate del vento che
grattano alla finestra. Nell'odore della moquette ammuffita e della
carta da parati marcia del vecchio albergo. E lo sento nel petto di
Teacup, addormentata accanto a me. Il martellio del suo cuore, il
ritmo del suo respiro, caldo nell'aria gelida, l'orologio sempre più
scarico.
Dall'altra parte della stanza, Cassie Sullivan è di guardia alla
finestra. La luce della luna filtra dal minuscolo spiraglio tra le
tende illuminando gli sbuffi di fiato condensato che le escono di
bocca. Suo fratello dorme nel letto più vicino a lei, un grumo
piccolo piccolo sotto un ammasso di coperte. Finestra, letto, di
nuovo finestra: Cassie muove la testa avanti e indietro come un
pendolo. Il movimento della sua testa, il ritmo del suo respiro, al
pari di quello del respiro di Nugget, di Teacup, mio, segna il
tempo dell'orologio sempre più scarico.
Scendo dal letto cercando di fare piano. Teacup geme nel
sonno e si rinsacca nelle coperte. Il freddo mi attanaglia
penetrandomi nelle ossa anche se sono completamente vestita: mi
mancano solo scarponi e parka, che recupero dai piedi del letto.
Sullivan mi segue con lo sguardo mentre mi infilo gli scarponi e
poi vado all'armadio a prendere zaino e fucile. La raggiungo alla
finestra. Sento che dovrei dire qualcosa prima di andarmene.
Potremmo non rivederci più.
«Ci siamo, quindi» fa. La sua pelle chiara risplende nella luce
biancastra. La spruzzata di lentiggini sembra sospesa su naso e
guance.
Mi sistemo il fucile in spalla. «Ci siamo.»
«Sai, a Dumbo ci arrivo. Le orecchie a sventola. E anche a

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Nugget: perché Sam è piccino. Teacup, uguale: minuta e delicata
come una tazza da tè. Con Zombi faccio già più fatica -- Ben non
me lo vuole dire -- e, a naso, Poundcake ha un nome da torta
visto che è cicciotto. Ma perché Ringer?»
Ho già capito dove vuole andare a parare. A eccezione di
Zombi e di suo fratello, non si fida più di nessuno. Il fatto che mi
chiami come quei fuoriclasse che vengono spacciati per altri e
infilati dove non dovrebbero stare risveglia la sua paranoia.
«Sono umana.»
«Certo.» Sbirciando dallo spiraglio tra le tende, guarda il
parcheggio che, un piano più in basso, luccica per via del
ghiaccio. «Questa l'ho già sentita. E, come una scema, me la sono
bevuta.»
«Non così scema, date le circostanze.»
«Non fingere, Ringer» sbotta. «Lo so che non mi credi su
Evan.»
«A te credo. È la sua storia che non sta in piedi.»
Vado verso la porta prima che mi salti addosso. Meglio non
stuzzicare Cassie Sullivan sulla questione Evan Walker. Non
gliene faccio una colpa. Evan è il rametto sulla parete del dirupo
a cui lei si aggrappa, e la sua scomparsa la spinge solo a tenersi
ancora più forte.
Teacup non fa il minimo rumore, ma mi sento i suoi occhi
puntati addosso e capisco che è sveglia. Torno al letto.
«Portami con te» sussurra.
Scuoto il capo. Questa scena si è già ripetuta centinaia di
volte. «Non starò via molto. Un paio di giorni.»
«Me lo prometti?»
Manco per sogno, Teacup. Le promesse sono l'unica moneta
rimasta. Vanno spese in maniera oculata. Ha il labbro inferiore

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che le trema, gli occhi lucidi. «Ehi» mormoro. «Cosa ti ho detto,
soldato?» Resisto all'impulso di toccarla. «Qual è la priorità
numero uno?»
«Niente brutti pensieri» risponde ubbidiente.
«Perché cosa fanno, i brutti pensieri?»
«Fiaccano.»
«E cosa succede a chi si lascia fiaccare?»
«Muore.»
«E noi vogliamo morire?»
Fa cenno di no. «Non ancora.»
Le sfioro il viso. Guancia fredda, lacrime calde. "Non
ancora." Considerato che il tempo dell'orologio umano è agli
sgoccioli, probabilmente questa bambina ha raggiunto la
mezz'età. Io e Sullivan, be', noi siamo vecchie. E Zombi?
Matusalemme.
Zombi mi aspetta nell'atrio. Porta una giacca da sci e una
felpa giallo acceso con il cappuccio, entrambe trovate rovistando
tra le cose abbandonate nell'albergo: è scappato da Camp Haven
con indosso solo una leggerissima divisa da inserviente. Il rossore
del suo viso sotto la barba incolta è un chiaro indicatore della
febbre. La ferita di proiettile della quale sono responsabile,
riapertasi nella fuga e rattoppata dal nostro medico dodicenne, si
dev'essere infettata. È appoggiato al bancone con una mano
premuta sul fianco, eppure cerca di far finta che sia tutto a posto.
«Cominciavo a pensare che avessi cambiato idea» dice, e gli
occhi scuri gli luccicano come se stesse scherzando, ma potrebbe
anche essere per via del suo stato.
Scrollo la testa. «Teacup.»
«Le passerà.» Per rassicurarmi sfodera il suo sorriso
assassino. Non ha piena consapevolezza della preziosità delle

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promesse o non le butterebbe qua e là con tanta nonchalance.
«Non è Teacup a preoccuparmi. Hai una gran brutta cera,
Zombi.»
«È questo tempo. Un disastro, per il mio colorito.» Fa seguire
la battuta da un secondo sorriso. Si sporge verso di me per
indurmi a contraccambiare. «Un giorno o l'altro, soldato Ringer,
sorriderai per qualcosa che ho detto e tutto quanto il pianeta
schiatterà di gioia.»
«Non sono pronta ad assumermi una responsabilità del
genere.»
Ride, e io ho l'impressione di sentirgli un ronco nel petto.
«Tieni.» Mi porge un'altra brochure delle grotte.
«Ce l'ho già» dico.
«Prendi anche questa, metti caso che la perdi.»
«Non la perdo, Zombi.»
«Poundcake viene con te» mi informa.
«No che non viene.»
«Comando io. Quindi viene.»
«Poundcake fa più comodo a voi qui che a me là fuori.»
Annuisce. Sapeva che avrei detto di no, ma ci ha comunque
provato un'ultima volta: non è riuscito a trattenersi. «Magari
dovremmo annullare la missione» dice. «Cioè, non si sta mica
così male qui. Un migliaio di cimici, qualche centinaio di ratti e
una ventina di cadaveri, ma la vista è fantastica...» Continua a
scherzare, continua a cercare di farmi sorridere. Guarda la
brochure che ha in mano. "Ventitré gradi tutto l'anno!"
«Sì, finché non restiamo bloccati dalla neve o finché non si
abbassa di nuovo la temperatura. È una situazione insostenibile,
Zombi. Ci siamo già fermati troppo.»
Non capisco. Ne abbiamo già parlato fino allo sfinimento e

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lui ha ancora voglia di questionare. Ogni tanto mi chiedo come
sta.
«Dobbiamo tentare e lo sai benissimo che non possiamo
entrare alla cieca» riprendo. «Molto probabilmente nascosti nelle
grotte ci sono altri superstiti e dubito che intendano srotolarci il
tappeto rosso, soprattutto se hanno incrociato uno dei
Silenziatori di Sullivan.»
«Oppure delle reclute come noi» aggiunge.
«Perciò ora ci do una bella controllata e tra un paio di giorni
sono di nuovo qui.»
«Vedi di mantenere la promessa.»
«Non era una promessa.»
Non c'è più niente da dire. C'è ancora un milione di cose da
dire. Potrebbe essere l'ultima volta che ci vediamo e se ne rende
conto anche lui, perché mi fa: «Grazie per avermi salvato la vita».
«Ti ho cacciato una pallottola nel fianco e ora rischi di
morire.»
Scrolla la testa. Ha lo sguardo febbricitante. Le labbra grigie.
Che bisogno c'era di soprannominarlo Zombi? È come se
portasse sfiga. La prima volta che l'ho visto stava facendo
flessioni sulle nocche nel cortile dove ci addestravamo, con una
smorfia di rabbia e dolore sul viso e macchie di sangue
sull'asfalto sotto i pugni. "Chi è quel tipo?" ho chiesto. "Si
chiama Zombi." Ha combattuto contro l'epidemia e ha vinto, mi
hanno detto, e io non ci ho creduto. Nessuno sconfigge
l'epidemia. L'epidemia è una condanna a morte. Il sergente
istruttore Reznik, chino su di lui, strillava con tutto il fiato che
aveva in gola e Zombi, nella sua informe tuta blu, si spingeva
oltre il punto passato il quale anche solo un'altra spinta è troppo.
Non so perché mi sono stupita quando mi ha ordinato di sparargli

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in modo che potesse mantenere la promessa immantenibile che
aveva fatto a Nugget. Quando guardi la morte in faccia e la morte
sbatte gli occhi per prima, non esiste più nulla che sembri
impossibile.
Neppure leggere nel pensiero. «Lo so a cosa stai pensando»
dice.
«No. Non lo sai.»
«Ti stai chiedendo se darmi o no un bacio d'addio.»
«Perché?» replico. «Perché ti ostini a flirtare con me?»
Si stringe nelle spalle. Il suo sorriso è sbilenco quanto il suo
corpo appoggiato al bancone.
«Perché è normale. Non ti manca la normalità?» risponde. Mi
fissa negli occhi, cercando come sempre qualcosa che mi sfugge.
«Sai, i fast food e il cinema di sabato sera e i biscotti gelato e
controllare i messaggi su Twitter?»
Scuoto la testa. «Non avevo Twitter.»
«Facebook?»
Comincio ad arrabbiarmi. A volte mi riesce difficile capire
come ha fatto, Zombi, ad arrivare fin qui. Struggersi per le cose
perse è uguale a sperare in cose irrealizzabili. Sono entrambi
vicoli ciechi che sfociano nella disperazione. «Non ha
importanza» dico. «È tutta roba che non conta un fico secco.»
Zombi si lascia andare a una risata di pancia che affiora
scoppiettando come l'aria surriscaldata di una fonte termale. E
l'arrabbiatura mi passa. So che sta facendo lo splendido eppure,
per qualche strana ragione, saperlo non attenua l'effetto. Un altro
dei motivi per cui Zombi mi rende un po' nervosa.
«È buffo» dice «quanto invece pensavamo che contasse. Sai
cos'è che conta davvero?» Aspetta che risponda. Ho l'impressione
che voglia attirarmi in una battuta, perciò sto zitta. «La

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campanella d'ingresso.»
Ormai mi ha messa all'angolo. Mi sento manovrata, ma non
riesco a oppormi. «La campanella d'ingresso?»
«Il suono più comune del mondo. E quando tutta questa
storia sarà finita, lo risentiremo.» Insiste sul punto. Forse ha
paura che non ci arrivi. «Riflettici! Quando suonerà di nuovo una
campanella d'ingresso, sarà tornata la normalità. Ragazzi che
corrono a lezione, che si annoiano seduti ai banchi, che aspettano
l'ora di uscire e pensano a cosa faranno quella sera, nel fine
settimana, nei cinquant'anni dopo. Proprio come noi, sentiranno
parlare di catastrofi naturali, epidemie e guerre mondiali.
"All'arrivo degli alieni, morirono sette miliardi di persone", e poi
inizierà la pausa pranzo e tutti andranno a mangiare e si
lamenteranno delle crocchette di patate rimaste mollicce. Tipo
"Uh, sette miliardi di persone sono parecchi. Che tristezza. Ma le
mangi tutte, quelle crocchette?". Ecco cos'è normale. Ecco cos'è
che conta.»
Allora non era una battuta. «Crocchette di patate rimaste
mollicce?»
«Okay, va bene. Tutte cavolate. Sono un deficiente.»
Sorride. Circondati dalla barba incolta, i suoi denti sembrano
bianchissimi e, visto che l'ha suggerito, mi chiedo come sarebbe
baciarlo e se i peli sopra il suo labbro superiore pungerebbero.
Scaccio il pensiero. Le promesse sono preziose e, in un certo
senso, anche un bacio è una promessa.

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Incontrastata, la luce delle stelle perfora il nero velando la
statale di un bianco perlaceo. L'erba secca risplende; gli alberi
spogli luccicano. Fatta eccezione per il vento che spazza la terra
morta, il mondo ha la calma dell'inverno.
Mi accovaccio di fianco a un SUV in panne per dare un'ultima
occhiata all'albergo. Un anonimo parallelepipedo bianco a due
piani in mezzo a un assembramento di altri anonimi
parallelepipedi bianchi. Si trova a poco più di cinque chilometri
dall'enorme cratere che un tempo era Camp Haven e l'abbiamo
soprannominato Hotel Walker in onore dell'architetto di
quell'enorme cratere. Sullivan ci ha detto che lei ed Evan avevano
prestabilito di ritrovarsi qui. Per me era un punto troppo vicino
alla scena del delitto e troppo difficile da difendere, e comunque
Evan Walker era morto: bisogna essere in due per ritrovarsi, ho
ricordato a Zombi. Ma la mia obiezione è stata respinta. Se
davvero Walker era uno di loro, poteva aver trovato il modo di
mettersi in salvo.
«Tipo?» ho chiesto.
«C'erano delle capsule d'emergenza» ha risposto Sullivan.
«E allora?»
Ha aggrottato le sopracciglia e ha fatto un respiro profondo.
«E allora può darsi che sia scappato con una di quelle.»
L'ho guardata. Lei mi ha restituito lo sguardo. Nessuna delle
due ha detto niente. Poi è intervenuto Zombi: «Be', tanto da
qualche parte dobbiamo rifugiarci, Ringer». Non aveva ancora
trovato la brochure delle grotte. «E dovremmo dargli il beneficio
del dubbio.»
«Il beneficio di che dubbio?»
«È possibile che sia realmente chi dice di essere.» Zombi ha

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lanciato un'occhiata a Sullivan, che continuava a guardarmi in
cagnesco. «Che mantenga la promessa.»
«Ha promesso che mi avrebbe trovata» ha spiegato lei.
«L'aereo, l'ho visto» ho detto. «La capsula d'emergenza, no.»
Sotto le lentiggini, Sullivan stava avvampando. «Non è che se
non l'hai visto te...»
Mi sono girata verso Zombi. «È assurdo. Una creatura
migliaia di anni più evoluta di noi che si rivolta contro la sua
specie... per cosa?»
«Sul perché non ho avuto ragguagli» ha risposto Zombi con
un sorrisetto.
«L'intera storia è strana» ho continuato. «Pura coscienza che
occupa un corpo umano: se non hanno bisogno di corpi, non
hanno bisogno di un pianeta.»
«Magari hanno bisogno del pianeta per qualcos'altro.» Zombi
le stava provando tutte.
«Tipo? Per allevare bestiame? Per farsi una vacanza?» Non
era l'unico aspetto a darmi da pensare. "C'è qualcosa che non
torna", mi diceva una vocetta insistente, ma non riuscivo a capire
cosa fosse. Ogni volta che provavo ad acchiapparlo, il problema
fuggiva via.
«Non avevo tempo di perdermi in dettagli» ha sbottato
Sullivan. «Ero, mettiamola così, concentrata a salvare il mio
fratellino da un campo di sterminio.»
Ho lasciato perdere. Avevo l'impressione che stesse per
caricarmi a testa bassa.
Testa di cui ora, mentre do un'ultima occhiata indietro,
intravedo i contorni dietro una delle finestre al primo piano
dell'albergo. Male, molto male: è un bersaglio facile per un
cecchino. Il prossimo Silenziatore in cui Sullivan si imbatterà

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potrebbe non spasimare d'amore come il primo.
Mi infilo tra gli alberi radi che delimitano la strada. Irrigidite
dal ghiaccio, le rovine dell'autunno mi scricchiolano sotto gli
scarponi. Foglie accartocciate come pugni, immondizia e ossa
umane sparpagliate dagli animali in cerca di cibo. Il vento freddo
porta con sé un leggero odore di fumo. Il mondo brucerà per
cent'anni. Il fuoco consumerà le cose fatte di legno e plastica e
gomma e stoffa, poi l'acqua e il vento e il tempo rosicchieranno
pietra e acciaio fino a ridurli in polvere. E pensare che ci
immaginavamo le città incenerite da bombe e raggi della morte
quando di fatto gli alieni avevano bisogno solo di madre natura e
di secoli.
E di corpi umani, secondo Sullivan, benché, sempre secondo
Sullivan, non abbiano bisogno di corpi.
Un'esistenza virtuale non richiede un pianeta fisico.
Quando ho accennato alla cosa, Sullivan non ha voluto starmi
a sentire e Zombi si è comportato come se non importasse.
Qualunque sia il motivo, ha detto, il punto è che ci vogliono tutti
morti. Il resto è solo aria fritta.
Forse. Io però la penso diversamente.
Per via dei ratti.
Mi sono scordata di parlare a Zombi dei ratti.

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All'alba raggiungo la periferia meridionale di Urbana. Sono a
metà strada, perfettamente in linea con la tabella di marcia.
Sono arrivati dei nuvoloni da nord; il sole sorge sotto quel
baldacchino e ne tinge il ventre di un lucente rosso cupo. Resterò
rintanata tra gli alberi fino al calare della notte, poi prenderò per i
campi a ovest della città e pregherò che la coltre di nubi resista
un altro po', almeno finché non mi rimetterò sulla statale
dall'altro lato. Girare intorno a Urbana vuol dire allungare di
qualche chilometro, ma l'unica cosa più rischiosa dell'attraversare
una città durante il giorno è provarci di notte.
Ed è tutta una questione di rischio.
Dal terreno gelato si alza un velo di foschia. Il freddo è
intenso. Mi artiglia le guance e mi causa dolori al petto ogni volta
che respiro. Sento l'arcaica voglia di fuoco iscritta nei miei geni.
Addomesticare il fuoco è stato il nostro primo grande balzo in
avanti: il fuoco ci ha protetti, scaldati, sostenuti nello sviluppo
cerebrale consentendoci di passare da un'alimentazione fondata
su bacche e noci a una dieta a base di carne e dunque ricca di
proteine. Ora il fuoco è un'altra delle armi nell'arsenale del nostro
nemico. Man mano che l'inverno avanza, ci ritroviamo stretti tra
due rischi inaccettabili: morire assiderati o tradire la nostra
posizione.
Seduta appoggiata a un albero, tiro fuori la brochure. "Le
grotte più colorate dell'Ohio!" Zombi ha ragione. Senza un riparo
non arriveremo a primavera e le grotte sono la nostra migliore --
se non unica -- possibilità. Può darsi che siano state conquistate
o distrutte dal nemico. Può darsi che siano occupate da superstiti
intenzionati a sparare a vista. Ma ogni giorno in più che passiamo
in quell'albergo il rischio si decuplica.

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Non abbiamo una seconda scelta se con le grotte ci va buca.
Non sappiamo dove altro andare, dove altro nasconderci, e l'idea
di combattere è ridicola. L'orologio è sempre più scarico.
Quando gliel'ho fatto notare, Zombi mi ha detto che penso
troppo. Stava sorridendo. Poi ha smesso di sorridere e ha
aggiunto: "Non lasciare che ti entrino in testa". Come se questa
fosse una partita di football e a me servisse un discorsetto di
incoraggiamento nell'intervallo. "Ignorate il punteggio di
cinquantasei a zero. Giocate per l'onore!" È in momenti del
genere che mi viene voglia di prenderlo a sberle: non che una
sberla sarebbe di qualche aiuto, ma perlomeno mi farebbe sentire
meglio.
Il vento si ferma. In aria c'è un silenzio carico di tensione, la
quiete prima della tempesta. Se nevica, resteremo intrappolati. Io,
nel bosco. Zombi, nell'albergo. Alle grotte mancano ancora più di
trenta chilometri: meglio rischiare passando per i campi di giorno
o scommettendo che il tempo regga se non altro fino a sera?
Siamo daccapo. È tutta una questione di rischio. Non solo
per noi. Anche per loro: inserirsi in corpi umani, allestire campi
di sterminio, addestrare ragazzini perché portino a termine il
genocidio, è tutto rischioso al limite dell'assurdo e della
stupidità. Come Evan Walker, contraddittorio, illogico e molto
ma molto strano. I primi attacchi sono stati brutali nella loro
efficienza -- hanno spazzato via il 98% della popolazione -- e
anche la Quarta Onda aveva un suo perché: è difficile mettere
insieme una resistenza significativa se non ci si può fidare l'uno
dell'altro. Poi, però, la loro brillante strategia ha cominciato a
fare acqua. Diecimila anni a progettare l'estirpazione degli umani
dalla Terra e questo è il meglio che sono stati capaci di farsi
venire in mente? Ecco cos'è che non riesco a levarmi di testa, il

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punto sul quale mi arrovello dalla notte in cui io e Teacup
abbiamo parlato dei ratti.
Nel profondo del bosco, alle mie spalle sulla sinistra, un
debole lamento lacera il silenzio. Riconosco quel rumore
all'istante; l'ho sentito migliaia di volte dall'arrivo degli alieni. I
primi tempi era quasi onnipresente, un sottofondo stabile, tipo il
ronzio del traffico su una strada a grande circolazione: il rumore
di un essere umano che soffre.
Prendo il visore dallo zaino e mi sistemo ben bene la lente
sull'occhio sinistro. Con calma. Senza panico. Il panico blocca i
neuroni. Mi alzo, controllo il fermo dell'otturatore del fucile e,
mentre avanzo furtiva tra gli alberi in direzione del rumore, passo
lo sguardo intorno in cerca della luce verde che segnala gli
"infestati". La foschia avvolge i tronchi; il mondo è nascosto da
un drappo bianco. I miei passi sul terreno gelato rimbombano
come tuoni. I miei respiri sono boati sonici.
La fine tenda bianca si apre e a una ventina di metri di
distanza vedo una figura abbandonata contro un albero, capo
all'indietro, mani in grembo. Non si illumina nel visore, il che
significa che non è un civile: fa parte della Quinta Onda.
Gli punto il fucile alla testa. «Le mani! Fammi vedere le
mani!»
Ha la bocca spalancata. Con sguardo assente fissa il cielo
grigio oltre i rami nudi luccicanti di ghiaccio. Mi avvicino.
Posato accanto a lui, c'è un fucile identico al mio. Non accenna a
prenderlo.
«Dov'è il resto della tua squadra?» chiedo. Non risponde.
Abbasso l'arma. Sono un'idiota. Con questo freddo dovrei
vedere la condensa del fiato, e non c'è. Il lamento che ho sentito
dev'essere stato l'ultimo. Giro pian piano su me stessa trattenendo

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il respiro, ma tutto ciò che vedo sono alberi e foschia, tutto ciò
che sento è lo scorrere impetuoso del mio stesso sangue. Poi
scavalco il corpo sforzandomi di non correre, di prestare
attenzione ai dettagli. Niente panico. Il panico uccide.
Il mio stesso fucile. La mia stessa mimetica. A terra lì vicino
c'è il visore. È di sicuro uno della Quinta Onda.
Gli esamino il viso. Ha un'aria vagamente familiare. Avrà
dodici o tredici anni, più o meno l'età di Dumbo. Mi inginocchio
al suo fianco e gli premo la punta delle dita sul collo. Non ha
battito. Gli apro la giacca e sollevo la camicia intrisa di sangue
per cercare la ferita. È stato colpito all'addome da un singolo
proiettile di grosso calibro.
Un proiettile di cui non ho sentito la detonazione. O è qui da
un po' o chi ha sparato ha usato un silenziatore.
"Un Silenziatore."
Secondo Sullivan, Evan Walker ha fatto fuori una squadra
intera senza l'aiuto di nessuno, di notte, ferito e in minoranza
numerica, una specie di riscaldamento per la liquidazione in
solitario di tutta una base militare. Prima mi veniva difficile
credere alla storia di Cassie. Ora ho davanti un soldato morto. I
suoi compagni sono scomparsi. E io sono sola con il silenzio del
bosco e lo schermo bianco latte della nebbia.
Quella storia non mi sembra più tanto tirata per le orecchie,
adesso.
"Pensa alla svelta. Non farti prendere dal panico. Come a
scacchi. Soppesa le probabilità. Misura il rischio."
Ho due alternative. Stare buona qui fino a nuovi sviluppi o al
calare della notte. Oppure andarmene da questo bosco, e in fretta.
Chi ha sparato potrebbe essere lontano chilometri o acquattato
dietro un albero, in attesa di avermi bene a tiro.

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Le possibilità si moltiplicano. Dov'è la sua squadra? È caduta
sul campo? Sta dando la caccia alla persona che ha premuto il
grilletto? E se la persona che ha premuto il grilletto fosse una
recluta che ha dato di Dorothy? Al diavolo la squadra. Che
succede se arrivano i rinforzi?
Tiro fuori il coltello. Sono trascorsi cinque minuti da quando
ho trovato il corpo. Se qualcuno sapesse che sono qui, sarei già
morta. Aspetterò che faccia buio, ma devo prepararmi
all'eventualità che mi stia per venire addosso un altro cavallone
della Quinta Onda.
Tasto il retro del collo del soldato fino a localizzare il
minuscolo rigonfiamento sotto la cicatrice. "Stai calma. È come a
scacchi. Mossa e contromossa."
Passo lentamente la lama sulla pelle ed estraggo il cilindretto
con la punta del coltello, alla quale rimane attaccato con una
gocciolina di sangue.
"Così sapremo sempre dove siete. Così potremo vigilare su di
voi."
Rischio. Da una parte, il rischio che mi illumini in un visore.
Dall'altra, il rischio che il nemico mi frigga il cervello
schiacciando un tasto.
L'impianto nel suo letto di sangue. La spaventosa immobilità
degli alberi, il freddo penetrante e la nebbia che si insinua tra i
rami come a intrecciare le dita con loro. E la voce di Zombi in
testa: "Pensi troppo".
Mi infilo il cilindretto tra la guancia e la gengiva. Che
stupida. Prima avrei dovuto pulirlo. Sento in bocca il sapore del
sangue del ragazzino morto.

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4
Non sono sola.
Non lo vedo né lo sento, ma ne avverto la presenza. Ogni
centimetro del mio corpo pizzica: qualcuno mi sta osservando.
Comparsa fin da subito, ormai è una sensazione sgradevolmente
familiare. È bastata la silenziosa presenza in orbita dell'astronave
in quei primi dieci giorni a causare crepe nell'edificio umano. Un
tipo di epidemia a sé stante: incertezza, paura, panico. Autostrade
intasate, aeroporti deserti, pronto soccorso straripanti, governi
barricati, emergenze cibo e benzina, di qua legge marziale, di là
anarchia. Il leone si acquatta nell'erba alta. La gazzella annusa
l'aria. La tremenda calma prima dell'attacco. Dopo dieci millenni
abbiamo riscoperto come ci si sente a essere prede.
Gli alberi sono pieni di corvi. Lucide teste nere, vitrei occhi
neri, con il loro profilo ingobbito ricordano dei vecchietti sulle
panchine del parco. Ce ne sono centinaia, alcuni appollaiati sui
rami e altri in giro che saltellano. Do un'occhiata al corpo accanto
a me, gli occhi vuoti e senz'anima come quelli dei corvi. So
perché sono arrivati. Hanno fame.
Ho fame anch'io perciò tiro fuori la bustina di carne essiccata
e gli orsetti gommosi, scaduti ma da poco. Mangiare è un rischio,
perché dovrò togliermi di bocca l'impianto, ma devo rimanere
vigile e per rimanere vigile ho bisogno di carburante. I corvi mi
guardano, inclinando il capo come se stessero cercando di
sentirmi masticare. "Brutti sfondati. Ma come fate a essere così
ingordi?" Gli attacchi hanno prodotto milioni di tonnellate di
carne. All'apice dell'epidemia il cielo veniva oscurato da stormi
giganteschi, la cui ombra passava rapida sul paesaggio fumante. I
corvi e gli altri uccelli necrofagi perpetuavano il ciclo della Terza
Onda. Si nutrivano di corpi infetti, poi diffondevano il virus

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portandolo là dove in seguito avrebbero trovato nuovo cibo.
Potrei sbagliarmi. Magari siamo soli, io e questo ragazzino
morto. A ogni secondo che passa, mi sento più sicura. Se davvero
qualcuno mi spia, può trattenere il colpo per un unico motivo:
vuole vedere se spunterà qualche altro idiota travestito da
soldato.
Finisco di fare colazione e mi infilo di nuovo l'impianto in
bocca. I minuti passano lenti. Una delle cose più sconvolgenti
dell'invasione -- dopo vedere tutti quelli che conosci e ami morire
in maniera orribile -- è il modo in cui il tempo ha rallentato man
mano che gli eventi acceleravano. Diecimila anni per costruire la
civiltà, dieci mesi per demolirla, e ogni giorno dieci volte più
lungo di quello prima, e la notte lunga dieci volte il giorno.
L'unica cosa più atroce della noia di quelle ore è la paura che
nasce dal sapere che potrebbero terminare da un momento
all'altro.
Metà mattina: la foschia si dirada e comincia a nevicare in
cristalli più piccoli degli occhi dei corvi. Non c'è un alito di
vento. Il bosco è avvolto in un irreale, luminoso biancore. Se la
neve resta così sottile, sarò a posto fino a sera.
Sempre che non mi addormenti. Non dormo da più di venti
ore e qui mi sento al caldo, comoda e leggermente intontita.
In questa immobilità di garza a poco a poco la mia paranoia
aumenta. Ha la mia testa al centro esatto del mirino. È su un
albero; è sdraiato immobile a terra come un leone tra la
sterpaglia. È disorientato dal mio comportamento. Dovrei essere
in preda al panico. È per questo che non spara, dando alla
situazione modo di svilupparsi. Ci dev'essere un motivo se
indugio accanto a un cadavere.
Io però non mi faccio prendere dal panico. Non scappo come

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una gazzella terrorizzata. Sono più della somma delle mie paure.
Non è con la paura che li sconfiggeremo. Né con la paura, né
con la fede, né con la speranza, e nemmeno con l'amore. Li
sconfiggeremo con la rabbia.
"Vaffanculo" ha detto Sullivan a Vosch. È l'unica parte della
sua storia che mi ha colpita. Non ha pianto. Non ha pregato. Non
ha implorato.
Pensava che fosse finita, e quando è finita, quando l'orologio
si scarica e arriva all'ultimo secondo, anche il tempo per piangere,
pregare e implorare finisce.
«Vaffanculo» mormoro. Dirlo mi fa sentire meglio. Lo ripeto,
più forte. La mia voce si spande nell'aria invernale.
Un frullio di ali nere nel fitto degli alberi alla mia destra, le
strida bizzose dei corvi e, attraverso il visore, un minuscolo
puntino che brilla verde tra il marrone e il bianco.
"Beccato."
Il colpo sarà difficile. Difficile, ma non impossibile. In vita
mia non avevo mai toccato un'arma da fuoco prima che il nemico
mi trovasse nascosta in un'area di sosta a due passi da Cincinnati,
mi portasse al campo e mi mettesse in mano un fucile, momento
in cui il sergente istruttore si è chiesto a voce alta se il comando
aveva sostituito di nascosto uno dei brocchi dell'unità con un
fuoriclasse. Sei mesi dopo ho piantato un proiettile nel cuore di
quello stesso sergente.
Ho un dono.
La luce verde fiammeggiante si sta avvicinando. Magari sa
che l'ho avvistata. Non importa. Accarezzo il metallo liscio del
grilletto e guardo la macchia luminosa ingrandirsi nel visore.
Magari pensa di essere fuori tiro e si sta mettendo in posizione
per poter sparare meglio.

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Non importa.
Può darsi che non sia uno dei silenziosi sicari di Sullivan.
Può darsi che sia solo un povero superstite spaesato che spera di
essere soccorso.
Non importa. Ormai importa una cosa sola.
Il rischio.

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5
All'albergo Sullivan mi ha raccontato di aver fatto fuoco
contro un soldato nascosto dietro dei frigoriferi per la birra e di
esserci poi stata malissimo.
«Non era un'arma» ha cercato di spiegare. «Era un
crocifisso.»
«E che importanza ha?» ho chiesto. «Poteva pure essere una
bambola di pezza o un sacchetto di M&M's. Che scelta avevi?»
«Non ne avevo. È proprio questo il punto.»
Ho scosso la testa. «Capita che uno si trovi nel posto
sbagliato al momento sbagliato e se succede qualcosa non è colpa
di nessuno. Ci vuoi stare male solo per stare meglio.»
«Ci voglio stare male solo per stare meglio?» Dalla rabbia è
diventata tutta rossa sotto le lentiggini. «Dici cose che non
stanno né in cielo né in terra.»
«"Ho ucciso un innocente, ma guardate come mi sento in
colpa"» ho esplicitato. «Intanto però quel tipo è morto uguale.»
È rimasta a fissarmi per un po'. «Bene. Ora capisco perché
Vosch ti voleva dalla sua parte.»
La macchia verde che indica la testa avanza verso di me
zigzagando fra gli alberi e adesso, oltre la neve fiacca, vedo il
luccichio di un'arma. Sono sicurissima che non si tratti di un
crocifisso.
Imbracciando il fucile, appoggio la nuca al tronco come se
stessi sonnecchiando o guardando i fiocchi danzare tra i
luccicanti rami spogli, una leonessa tra l'erba alta.
Cinquanta metri. La velocità iniziale di un proiettile sparato
da un M16 è mille metri al secondo. Dunque, cinquanta diviso
mille, gli restano da vivere cinque centesimi di secondo.
Mi auguro che li spenda saggiamente.

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Ruoto il fucile, raddrizzo le spalle e libero il proiettile che
completa il cerchio.
I corvi assembrati tutt'intorno spiccano il volo all'istante, una
confusione di ali nere e roche grida di rimprovero. Il puntino di
luce verde cade e non si rialza.
Aspetto. Meglio aspettare e vedere cosa succede. Cinque
minuti. Dieci. Nessun movimento. Nessun rumore. Niente se non
il silenzio assordante della neve. Il bosco dà una sensazione di
grande vuoto senza la compagnia degli uccelli. Con la schiena
appiattita contro il tronco, mi tiro su e rimango ferma un altro
paio di minuti. Da qui vedo di nuovo la luce verde: è a terra e non
si muove. Scavalco il corpo della recluta morta. Foglie ghiacciate
mi crepitano sotto gli scarponi.
Ogni passo segna il tempo agli sgoccioli. A metà strada mi
rendo conto di cosa ho fatto.
Appallottolata vicino a un albero caduto c'è Teacup, il viso
coperto di frammenti di foglie della primavera scorsa.
Dietro una fila di frigoriferi vuoti, un ragazzo moribondo si
stringeva al petto un crocifisso insanguinato. La sua assassina
non aveva scelta. Non gliel'avevano data. Per via del rischio. Per
lei. Per loro.
Mi inginocchio accanto a Teacup. Ha gli occhi spalancati per
il dolore. Nella luce grigia allunga verso di me mani cremisi
scuro.
«Teacup» sussurro. «Teacup, che ci fai qui? Dov'è Zombi?»
Passo lo sguardo intorno, ma non vedo, e nemmeno sento, né
lui né altri. Teacup ansima e sulle sue labbra ribolle del sangue
schiumoso. Sta soffocando. Le giro con delicatezza il viso verso
terra per liberarle la bocca.
Deve avermi sentita inveire. È così che mi ha trovata: con la

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voce.
Teacup grida. Il suono lacera il silenzio, rimbalza e riecheggia
tra gli alberi. "Inaccettabile." Le premo la mano sulle labbra
insanguinate e le ordino di smettere. Non so chi ha sparato a quel
ragazzino, ma in ogni caso non può essere lontano. Se il mio
colpo di fucile non è sufficiente a farlo tornare indietro a
indagare, le sue grida lo saranno di sicuro.
"Zitta, cazzo. Stai zitta. Che cavolo sei venuta a fare, brutta
mocciosa, perdipiù arrivandomi alle spalle di soppiatto? Stupida.
Stupida, stupida, stupida."
Sento i suoi denti grattare freneticamente contro il mio
palmo. Dita minute mi cercano il viso. Ho le guance tinte di
rosso. Con la mano libera le apro la giacca. Devo comprimere la
ferita o non le resterà una goccia di sangue.
Le afferro il colletto della camicia e tiro verso il basso,
scoprendole il torso. Appallottolo un lembo di stoffa e lo premo
sul foro di proiettile subito sotto la cassa toracica. Come la tocco,
sussulta con un singhiozzo strozzato.
«Cosa ti ho detto, soldato?» sussurro. «Qual è la priorità
numero uno?»
Le sue labbra mi scivolano viscide sul palmo. Non ne escono
parole.
«Niente brutti pensieri» le ricordo. «Niente brutti pensieri.
Niente brutti pensieri. Perché i brutti pensieri fiaccano. Fiaccano.
E noi non possiamo lasciarci fiaccare. Non possiamo. Cosa
succede a chi si lascia fiaccare?»
Il bosco trabocca di ombre minacciose. Dal folto degli alberi
arriva una specie di schiocco. Il terreno gelato che scricchiola
sotto uno scarpone? O un ramo incrostato di ghiaccio che si
spezza? Potremmo essere circondate da centinaia di nemici.

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Oppure potremmo essere sole.
Passo rapidamente in rassegna le alternative. Non ce ne sono
molte. E fanno tutte schifo.
Prima alternativa: rimaniamo. Il punto è a che pro. L'unità
della recluta morta è irreperibile. Altrettanto chiunque abbia
ucciso il ragazzino. E senza cure mediche Teacup non ha nessuna
probabilità di farcela. Le restano minuti, non ore.
Seconda alternativa: scappiamo. In questo caso, il punto è
dove. L'albergo? Teacup morirebbe dissanguata prima di arrivarci,
e in più c'è la possibilità che se la sia filata per un buon motivo.
Le grotte? Non possiamo arrischiarci ad attraversare Urbana
quindi dovremmo passare per i campi aggiungendo chilometri e
ore a un viaggio che termina in un posto probabilmente nemmeno
sicuro.
C'è una terza alternativa. Quella a cui non posso neanche
pensare. E l'unica che abbia senso.
Ora la neve cade più fitta, il grigio si scurisce. Le metto una
mano a coppa sul viso e premo l'altra sulla ferita, ma so che è
inutile. Il mio proiettile le ha perforato il ventre: il danno è
disastroso.
Teacup è fregata.
Dovrei abbandonarla. Subito.
Ma non lo faccio. Non ci riesco. Come ho detto a Zombi la
notte in cui Camp Haven è saltato in aria, nell'istante in cui
decideremo che una persona non conta, avranno vinto, e ora le
mie parole sono la catena che mi lega a lei.
La stringo tra le braccia nello spaventoso silenzio di tomba
del bosco innevato.

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La appoggio delicatamente sul terreno. Ormai privo di
qualsiasi traccia di colore, il suo viso è appena più scuro della
neve. La bocca è aperta, le palpebre sono agitate da spasmi. Ha
perso conoscenza. Non credo che si risveglierà.
Mi tremano le mani. Fatico a controllarmi. Sono furiosa con
lei, con me stessa, con i sette miliardi di dilemmi irrisolvibili
sorti con l'arrivo degli alieni, con le bugie, le esasperanti
incongruenze e tutte le ridicole, insensate, sciocche promesse
tacite che sono state infrante dall'inizio dell'invasione.
"Non lasciarti fiaccare. Pensa a ciò che conta, qui, ora: ti
riesce bene."
Decido di aspettare. Non può mancare molto. Magari, quando
sarà morta, la fiacchezza che sento in questo momento passerà e
tornerò lucida. Ogni minuto senza brutte sorprese mi dice che ho
ancora tempo.
Ma il mondo è un orologio sempre più scarico e i minuti
senza brutte sorprese non esistono più.
Tutto d'un tratto il ronzio ritmico dei rotori manda in frantumi
il silenzio. Il rumore degli elicotteri spezza l'incanto. Sapere ciò
che conta: oltre a sparare, la cosa che mi riesce meglio.
Non posso lasciare che prendano Teacup viva.
Se la prendono, c'è il caso che riescano a salvarla. E se la
salvano, la analizzeranno con Mnemolandia. Esiste la remota
possibilità che Zombi sia ancora al sicuro nell'albergo. Che
Teacup non stesse scappando da niente e che sia sgattaiolata via
soltanto per cercare me. Una gita nella tana del Bianconiglio,
tocchi all'una o all'altra, e sono tutti condannati.
Estraggo la pistola dalla fondina sul fianco.
"Nell'istante in cui decideremo..." Magari avessi qualche

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istante per decidere. Magari avessi trenta secondi. Trenta secondi
sarebbero una vita. Un minuto, un'eternità.
Spiano la pistola mirando alla testa di Teacup e alzo lo
sguardo verso il grigio. La neve mi si posa sulla pelle e lì tremola
per un attimo prima di sciogliersi.
Sullivan ha avuto il suo soldato con il crocifisso e ora io ho il
mio.
No. Il soldato sono io. Teacup è la croce.

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7
In quel momento mi rendo conto che, immobile in mezzo agli
alberi, c'è qualcuno che mi osserva. Giro lo sguardo e lo vedo,
un'ombra chiara dal profilo umano fra i tronchi scuri. Per un
attimo nessuno dei due si muove. So, senza capire come, che è la
persona che ha sparato al ragazzino e agli altri membri della
squadra. E so che non può essere una recluta. La sua testa non si
illumina nel visore.
La neve scende vorticando, il freddo stringe la morsa. Sbatto
gli occhi e l'ombra scompare. Se c'è mai stata.
Mi stanno cedendo i nervi. Troppe variabili. Troppi rischi.
Scossa da tremiti incontrollabili, mi chiedo se alla fine non
abbiano avuto la meglio su di me: dopo essere sopravvissuta allo
tsunami che si è preso la mia casa, all'epidemia che si è presa la
mia famiglia, al campo di sterminio che si è preso la mia
speranza, alla ragazzina innocente che si è presa il mio proiettile,
sono al capolinea, spacciata, finita, ma poi c'era davvero la
possibilità che andasse diversamente, oppure è sempre stata una
questione di quando e non di se?
Gli elicotteri avanzano. Devo portare a termine quello che ho
iniziato con Teacup o mi ritroverò come lei.
Seguendo la canna della pistola, guardo il pallido viso
angelico ai miei piedi, la mia vittima, la mia croce.
E il ruggito dei Black Hawk sempre più vicini fa sembrare i
miei pensieri deboli lamenti striduli di un roditore in fin di vita.
"È come con i ratti, vero, Cup? Proprio come con i ratti."

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Il vecchio albergo brulicava di bestiacce. Il freddo aveva
ucciso gli scarafaggi, ma altri insetti erano sopravvissuti, in
particolare cimici dei letti e coleotteri dei tappeti. E avevano
fame. Tempo un giorno, eravamo tutti coperti di punture. Il
seminterrato, dove durante l'epidemia erano stati portati i
cadaveri, era il regno delle mosche. Al nostro arrivo moltissime
erano già morte. La prima volta che siamo scesi, ce n'erano così
tante stecchite a terra che i loro corpi neri formavano uno strato
crocchiante. La prima volta, e l'ultima.
L'intera struttura puzzava di marcio. Ho detto a Zombi che
aprire le finestre avrebbe aiutato a disperdere l'odore e uccidere
parte degli insetti. Lui ha risposto che preferiva farsi venire il
vomito e grattarsi che morire congelato. E intanto sorrideva per
irradiarmi con il suo fascino irresistibile. "Tranquilla, Ringer. È
solo un giorno come tanti nel selvaggio mondo alieno."
Gli insetti e l'odore non infastidivano Teacup. Erano i ratti
che la facevano diventare matta. Rosicchiando rosicchiando, si
erano aperti un varco nei muri, e di notte il loro grattare con denti
e unghie la (e di conseguenza mi) teneva sveglia. Si girava e
rigirava, piagnucolava e mugugnava e in generale smaniava perché
in pratica, comunque la si guardasse, la nostra situazione
appariva condannata a un finale tragico. Nel vano tentativo di
distrarla, ho deciso di insegnarle a giocare a scacchi usando un
asciugamano come tavola e degli spiccioli come pezzi.
«Gli scacchi sono un gioco stupido per gente stupida» mi ha
informata.
«Non è vero» ho ribattuto. «Sono molto democratici. Ci gioca
anche gente sveglia.»
Teacup ha alzato gli occhi al cielo. «Ci vuoi giocare solo per

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potermi battere.»
«No, ci voglio giocare perché mi manca.»
È rimasta a bocca aperta. «È questo che ti manca?»
Ho steso l'asciugamano sul letto e ho sistemato le monete.
«Fai un tentativo prima di dare giudizi.» Avevo più o meno la sua
età quando ho cominciato. Il bel tavolino da scacchi in legno
nello studio di mio padre. I pezzi d'avorio luccicante. Il severo re.
L'altezzosa regina. L'elaborato cavallo. Il sobrio alfiere. E il gioco
in sé, il modo in cui ogni figura contribuiva all'insieme con le
proprie capacità. Era semplice. Era complesso. Era brutale; era
elegante. Era una danza; era una guerra. Era finito ed eterno. Era
la vita.
«Le monete da un centesimo sono i pedoni» ho detto. «Quelle
da cinque le torri, quelle da dieci cavalli e alfieri, quelle da
venticinque re e regine.»
Ha scosso la testa. Ringer è un'idiota. «Come fanno le monete
da dieci e da venticinque a essere due cose
contemporaneamente?»
«Testa: cavalli e re. Croce: alfieri e regine.»
La freschezza dell'avorio. Il modo in cui le basi rivestite di
feltro scivolavano sul legno lucido, simili a boati di tuono
sommessi. Il viso di mio padre chino sulla scacchiera, magro e
ispido di barba, con gli occhi arrossati e le labbra contratte,
incrostato di ombre. Lo stomachevole odore dolciastro dell'alcol
e le dita che andavano su e giù frenetiche come ali di colibrì.
"Lo chiamano 'gioco dei re', Marika. Ti va di imparare a
giocarci?"
«È il gioco dei re» ho detto a Teacup.
«Be', io non sono un re.» Ha incrociato le braccia. Così
altera. «A me piace la dama.»

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«Allora impazzirai per gli scacchi. Gli scacchi sono la dama
sotto steroidi.»
Mio padre che tamburellava con le unghie scheggiate sul
tavolo. I ratti che grattavano all'interno dei muri.
«L'alfiere si muove così, Teacup.»
"Il cavallo si muove così, Marika."
Si è ficcata in bocca una gomma stantia che, ormai secca, si è
sbriciolata sotto i suoi morsi rabbiosi. Alito alla menta. Alito al
whisky. E tutto quel grattare e grattare, quel tamburellare e
tamburellare.
«Provaci una volta» l'ho scongiurata. «Ti piacerà. Te lo
assicuro.»
Ha afferrato l'asciugamano per un angolo. «Ecco qua il mio
giudizio.» Ho capito subito cosa stava per fare, eppure ho avuto
un sussulto quando ha tirato via tutto mandando per aria gli
spiccioli. Un pezzo da cinque l'ha presa in fronte e lei non ha
battuto ciglio.
«Là!» ha gridato. «Mi sa tanto che questo è scacco matto,
stronza!»
Reagendo senza pensare, le ho dato uno schiaffo. «Non mi
chiamare mai più così. Mai più.»
Il freddo ha reso la pacca più dolorosa. Le è venuto il broncio
e gli occhi le si sono riempiti di lacrime, ma non ha pianto.
«Ti odio» ha detto.
«Pazienza.»
«No, Ringer, ti odio sul serio. Cazzo, quanto ti odio.»
«Le parolacce non fanno di te un'adulta, sai.»
«Allora vorrà dire che sono una bambina. Merda, merda,
merda! Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo!» Ha cominciato a
massaggiarsi la guancia. Si è bloccata. «Non sono tenuta ad

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ascoltarti. Non sei né mia madre né mia sorella: non sei
nessuno.»
«Allora perché mi stai attaccata come una cozza da quando
abbiamo lasciato il campo?»
A quel punto una lacrima è caduta, un'unica goccia che le è
scesa giù per la guancia infuocata. Era così pallida ed esile, con
la carnagione luminescente come i pezzi degli scacchi di mio
padre. Mi stupiva che lo schiaffo non l'avesse mandata in mille
pezzi. Non sapevo cosa dire né come rimangiarmi quello che
avevo detto, perciò sono rimasta zitta. Le ho appoggiato una
mano sul ginocchio. Mano che lei ha spinto via.
«Rivoglio il mio fucile» ha sbottato.
«Perché?»
«Per spararti.»
«In questo caso te lo puoi senz'altro scordare.»
«E per sparare ai ratti, posso riaverlo?»
Ho sospirato. «Non abbiamo abbastanza proiettili.»
«Allora avveleniamoli.»
«Con cosa?»
Ha fatto un gesto esasperato. «Okay, allora diamo fuoco
all'albergo e bruciamoli tutti!»
«Ottima idea, peccato solo che viviamo qui anche noi.»
«Allora vinceranno loro. Contro di noi. Una massa di ratti.»
Ho scosso la testa. Non la seguivo. «"Vinceranno" in che
senso?»
Ha spalancato gli occhi incredula. Ringer l'imbecille. «Non li
senti? Stanno mangiando tutto. E tra poco non vivremo più qui
perché non ci sarà più nessun qui dove vivere!»
«Questo non è vincere» le ho fatto notare. «Resteranno senza
casa anche loro.»

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«Sono ratti, Ringer. Non sono capaci di pensare tanto in là.»
"Non solo i ratti" mi sono detta quella notte dopo che
finalmente lei si era addormentata al mio fianco. Li ho ascoltati
rosicchiare, grattare, squittire all'interno dei muri. Prima o poi,
con l'aiuto degli agenti atmosferici, degli insetti e del tempo, il
vecchio albergo sarebbe crollato. Altri cento anni e sarebbero
rimaste solo le fondamenta. Altri mille e non sarebbe
sopravvissuto niente di niente. Né qui né altrove. Come se non
fossimo mai esistiti. Che bisogno c'è delle bombe usate a Camp
Haven quando basta scatenarci contro gli elementi?
Teacup si stringeva a me. Anche sotto montagne di coperte,
faceva un freddo cane. L'inverno: un'ondata che non si erano
neppure dovuti prendere la briga di progettare. Il gelo avrebbe
ucciso migliaia di persone.
"Nulla di ciò che succede è insignificante, Marika", mi aveva
detto mio padre durante una delle sue lezioni di scacchi. "Ogni
mossa conta. La maestria sta nel capire, sempre e comunque,
quanto."
Mi assillava. Il problema dei ratti. Non il problema di Teacup.
Non il problema con i ratti. Il problema dei ratti.

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9
Fra i rami senza foglie vestiti di bianco vedo gli elicotteri
avvicinarsi sempre di più, tre puntini neri su sfondo grigio. Ho
pochi secondi.
Alternative: finire Teacup e giocarmela contro tre Black Hawk
equipaggiati di missili Hellfire; abbandonare Teacup perché la
finiscano loro o, peggio ancora, la salvino; oppure, da ultimo,
finire tutte e due. Un proiettile per lei. Un proiettile per me.
Non so se Zombi sta bene. Non so per quale motivo -- se un
motivo c'è -- Teacup ha lasciato l'albergo. Quello che so è che la
nostra morte potrebbe essere la sua unica chance di
sopravvivenza.
Cerco di convincermi a premere il grilletto. Se riesco a
sparare il primo colpo, il secondo sarà molto più semplice. Mi
dico che ormai è troppo tardi: troppo tardi per lei e troppo tardi
per me. Non abbiamo comunque modo di evitare la morte. Non è
forse questa la lezione che hanno provato a inculcarci in testa
martellandoci per mesi? Alla morte non c'è modo di sottrarsi, non
c'è modo di sfuggire. Rimandala pure di un giorno, ma stai sicuro
che quello dopo ti troverà.
Protetta da un frascato di neve, Teacup è così bella che non
sembra nemmeno vera, con i capelli neri che scintillano come
onice e, nel sonno, l'espressione di indescrivibile serenità di una
statua antica.
So che uccidere entrambe è l'alternativa con il minor grado di
rischio per il maggior numero di persone. E poi ripenso ai ratti e
a come, ogni tanto, per far passare le ore interminabili, io e
Teacup macchinavamo la nostra campagna contro di loro,
stratagemmi e tattiche, ondate di attacchi man mano più ridicole,
tanto che alla fine lei scoppiava a ridere come una pazza e io le

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facevo lo stesso discorsetto che avevo fatto a Zombi al poligono
di tiro, una lezione che mi torna in mente ora, sulla paura che
accomuna il cacciatore alla preda e sul proiettile che li collega
come un cordoncino argentato. Adesso sono sia cacciatore che
preda, è un cerchio di tutt'altro tipo, e mi sento la bocca secca
come quest'aria sterile e il cuore ugualmente freddo: la
temperatura della rabbia autentica è lo zero assoluto e la mia, di
rabbia, è più profonda dell'oceano, più vasta dell'universo.
Perciò non è la speranza a spingermi a rimettere la pistola
nella fondina. Non è la fede e di sicuro non è l'amore.
È la rabbia.
La rabbia, e il fatto che in bocca, infilato tra la guancia e la
gengiva, ho ancora l'impianto di una recluta morta.

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La sollevo da terra. La sua testa mi finisce contro la spalla.
Mi infilo tra gli alberi. Sopra di noi passa rombando un Black
Hawk. Gli altri due elicotteri si sono staccati, uno è andato a est,
l'altro a ovest, tagliando ogni possibile via di fuga. I rami più alti
e sottili si piegano. La neve mi arriva in faccia di traverso. Teacup
non pesa niente: è come portare in braccio una pila di vestiti da
dare via.
Usciamo dagli alberi proprio mentre da nord sopraggiunge un
altro Black Hawk. Lo spostamento d'aria mi scompiglia i capelli
con furia ciclonica. L'elicottero resta sospeso su di noi, che ora
siamo immobili in mezzo alla strada. Basta scappare. Basta.
Poso Teacup sull'asfalto. L'elicottero è così vicino che riesco
a vedere la visiera nera del pilota e, dal portellone spalancato, i
corpi stretti all'interno, dal che intuisco di essere al centro di una
mezza dozzina di mirini, io e la bambina ai miei piedi. Ogni
secondo che passa mi dice che sono sopravvissuta a quel secondo
e che via via aumenta la probabilità che io sopravviva anche a
quello dopo. Può darsi che non sia troppo tardi, non per me, non
per lei, non ancora.
Non mi illumino nei visori. Sono una di loro. Non può essere
altrimenti, no?
Mi tolgo di spalla il fucile e infilo il dito nel guardamano.

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Seconda parte
IL CUORE

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Da prima ancora che imparassi a camminare per bene, mio
padre mi chiedeva: "Cassie, ti va di volare?". E io, con le braccia
già tese verso l'alto, gridavo: "Mi prendi in giro, papà? Sì che mi
va di volare!".
Al che lui mi afferrava per la vita e mi lanciava in aria. Con la
testa rovesciata indietro, sfrecciavo verso il cielo come un razzo.
Per un istante che durava mille anni, avevo l'impressione che sarei
arrivata alle stelle. Urlavo di gioia, di quella paura folle che si
prova sulle montagne russe, e intanto cercavo di aggrapparmi alle
nuvole.
"Vola, Cassie, vola!"
Anche mio fratello conosceva quella sensazione. Meglio di
me, perché il ricordo era più fresco. Papà lo lanciava in orbita
anche dopo l'Arrivo. Gliel'ho visto fare al campo profughi
qualche giorno prima che Vosch spuntasse e lo uccidesse tra la
polvere.
"Sam, piccolo mio, ti va di volare?" Nel dirlo scendeva
sempre di tono passando da baritono a basso come un imbonitore
d'altri tempi, benché il giro di giostra che proponeva fosse gratis,
e impagabile. Papà la piattaforma di lancio. Papà l'area di
atterraggio. Papà la fune che impediva a Sams -- e a me -- di
finire nel nulla dello spazio siderale, lui stesso ora ridotto a un
nulla.
Aspettavo che Sam me lo chiedesse. È il modo più semplice
di dare brutte notizie. E anche il più vile. Lui, però, non me l'ha
chiesto. Me l'ha detto.
«Papà è morto.»
Un grumo piccolo piccolo sotto un ammasso di coperte,
occhioni castani rotondi e vuoti come quelli dell'orsacchiotto

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premuto contro la sua guancia. "Gli orsacchiotti sono per i
bambini", mi ha reso noto la notte in cui siamo arrivati in
quell'albergo infernale. "Io ora sono un soldato."
Non era l'unico a fissarmi. Rannicchiato nel letto accanto al
suo, c'era un altro austero soldato alto un soldo di cacio: la
bambina di sette anni soprannominata Teacup. Quella con
l'adorabile visino da bambola e lo sguardo spiritato, che
dormendo non teneva di fianco a sé un peluche, ma un fucile.
Benvenuti nell'era post-umana.
«Oh, Sam.» Ho lasciato la mia postazione vicino alla finestra
e mi sono seduta accanto al bozzolo di coperte in cui era fasciato.
«Sammy, non sapevo come...»
Mi ha colpita allo zigomo con un pugno bello stretto grande
quanto una mela. Mi ha presa, in senso figurato e non, con la
guardia abbassata. Un'esplosione di stelle mi ha offuscato la
vista. Per un attimo ho avuto paura che mi avesse staccato la
retina.
"Okay." Mi sono strofinata la guancia. "Me lo meritavo."
«Perché l'hai fatto morire?» mi ha chiesto autoritario. Non ha
né pianto né strillato. Aveva la voce bassa e decisa, vibrante di
rabbia. «In teoria lo dovevi tenere d'occhio.»
«Non l'ho fatto morire, Sams.»
Mio padre insanguinato che strisciava a terra -- "Dove stai
andando, papà?" -- e Vosch che, torreggiando su di lui, lo
guardava strisciare come un ragazzino sadico potrebbe guardare
una mosca a cui ha strappato le ali: con sinistra soddisfazione.
«Dalle un altro cazzotto» l'ha incitato Teacup.
«Tu stai zitta» ha ringhiato Sam.
«Non è stata colpa mia» ho sussurrato.
«Si è lasciato fiaccare» ha detto Teacup. «Ed è questo che

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succede a chi si lascia...»
In due secondi Sam le si è gettato addosso. Poi è stato tutto
un caos di pugni e ginocchia e piedi e polvere che si alzava dalle
coperte finché -- "Sant'Iddio, lì sopra c'è un fucile!" -- non ho
spinto Teacup da una parte, non ho tirato su Sam e non l'ho
tenuto stretto a me mentre lui agitava le braccia e tirava calci,
sputando e digrignando i denti, e Teacup urlava oscenità e gli
prometteva che l'avrebbe accoppato come un cane se si fosse
riazzardato a sfiorarla. A quel punto la porta si è spalancata e Ben
ha fatto irruzione nella stanza con indosso quella ridicola felpa
gialla.
«Va tutto bene!» ho gridato per superare il baccano. «Me ne
occupo io!»
«Cup! Nugget! Ordine!»
Quasi avesse premuto un interruttore, appena Ben li ha
richiamati, entrambi hanno fatto silenzio. Sam si è afflosciato.
Teacup si è lasciata andare contro la testiera del letto e ha
incrociato le braccia.
«Ha iniziato lei» ha bofonchiato Sam. Poi ha messo il
broncio.
«Stavo giusto pensando di dipingere una crociona rossa sul
tetto» ha commentato Ben infilando la pistola nella fondina.
«Grazie, ragazzi, per avermi risparmiato il disturbo.» Mi ha
sorriso. «Finché non torna Ringer, magari è meglio se Teacup
dorme in camera mia.»
«Ottimo!» ha esclamato Teacup. È saltata giù dal letto, è
andata difilato alla porta, ha fatto inversione di marcia, è tornata
indietro, ha agguantato il fucile e ha tirato Ben per il polso.
«Vieni, Zombi.»
«Tra un attimo» ha risposto lui con gentilezza. «Dumbo è di

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guardia. Prendi il suo posto.»
«Il mio, ora.» Non è riuscita a trattenere una stoccata finale:
«Imbecilli».
«Imbecille sarai te!» le ha urlato dietro Sammy. La porta si è
chiusa sbattendo con violenza così come si chiudono tutte le
porte d'albergo. «Imbecille.»
Ben mi ha guardata con il sopracciglio destro alzato. «Che ti
è successo alla faccia?»
«Niente.»
«Le ho dato un pugno» ha detto Sammy.
«Le hai dato un pugno?»
«Sì, perché ha fatto morire papà.»
A quel punto Sam ha ceduto. Alle lacrime, non alla violenza,
e prima che io me ne rendessi conto Ben si era inginocchiato e,
stringendo tra le braccia mio fratello che piangeva, diceva: «Ehi,
si sistemerà tutto, soldato. Vedrai che si sistemerà tutto». E gli
accarezzava la testa dal taglio militare a cui io non mi ero ancora
abituata -- Sammy non sembrava Sammy senza la sua zazzera --
ripetendo all'infinito lo stupidissimo soprannome che gli avevano
dato al campo. "Nugget, Nugget." Sapevo che non era il caso, ma
mi infastidiva essere l'unica senza un nome di battaglia. A me
sarebbe piaciuto "Defiance", sfida.
Ben l'ha preso in braccio e l'ha riportato al suo letto. Poi ha
visto Orso sul pavimento e gliel'ha sistemato sul cuscino. Sam
l'ha spinto via. Ben l'ha raccolto di nuovo.
«Davvero vuoi congedare Winnie?» ha chiesto.
«Non si chiama Winnie.»
«Il soldato Orso» ha tentato Ben.
«Solo Orso, e non lo voglio più vedere!» Sam si è tirato le
coperte fin sopra la testa. «Ora andatevene! Tutti e due. An-da-te-

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ve-ne!»
Ho fatto un passo verso di lui. Ben ha dato un colpetto di
tosse e mi ha indicato la porta con un cenno del capo. L'ho
seguito fuori dalla camera. Vicino alla finestra in fondo al
corridoio si profilava una grossa sagoma scura. Era Poundcake, il
ragazzino massiccio e taciturno il cui silenzio non rientrava però
nella categoria "inquietante": somigliava piuttosto alla calma
profonda di un lago di montagna. Ben si è appoggiato al muro
stringendo Orso; teneva la bocca leggermente aperta e sudava
malgrado si gelasse. Esausto dopo una discussione con due
bambini, era nei pasticci, e di conseguenza c'eravamo anche noi.
«Quindi non sapeva di vostro padre...» ha detto.
Ho scosso la testa. «Lo sapeva e non lo sapeva. Sai, quelle
cose così.»
«Già» ha sospirato Ben. «Quelle cose così.»
Tra noi è piombato un silenzio pesante come un macigno, o
una palla di piombo grossa quanto una casa. Ben si è messo ad
accarezzare il capoccione di Orso con l'aria assente di un vecchio
che liscia un gatto mentre legge il giornale.
«Forse è meglio se torno da lui» ho detto.
Ben si è piazzato davanti alla porta bloccandomi la strada. «O
forse no.»
«Forse tu invece non dovresti ficcare il naso in cose che...»
«Non è la prima persona a lui vicina che muore. La supererà.»
«Wow. Ci andiamo giù duri.» "Parliamo di uno che era anche
mio padre, Zombi caro."
«Lo sai cosa intendo.»
«Perché la gente dice sempre così dopo essersene uscita con
le robe più spietate?» Poi ho aggiunto, perché potrei avere un
problemino con le precisazioni: «Si dà il caso che sappia cosa

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vuol dire "superare" la morte da soli. Completamente da soli, con
nient'altro che un grande vuoto dove prima c'era tutto. Sarebbe
stato bello, proprio, proprio bello, avere qualcuno lì con me...».
«Ehi» ha detto Ben sottovoce. «Ehi, Cassie, non volevo...»
«No, non volevi. Certo che non volevi.» "Zombi." Forse
perché non aveva sentimenti, perché dentro era morto al pari di
un cadavere? Al campo profughi ce n'erano, di individui del
genere. "Strasciconi", li chiamavo, sacchi di polvere a forma
d'uomo. In loro era andato in frantumi qualcosa di insostituibile.
Troppe perdite. Troppo dolore. Sguardo vacuo e bocca mezza
aperta, si aggiravano borbottando e strascicando i piedi. Anche
Ben era così? Era uno strascicone? Allora perché aveva rischiato
tutto per salvare Sam?
«Qualunque cosa tu abbia passato» ha ribattuto lentamente
«l'abbiamo passata anche noi.»
Quelle parole bruciavano. Perché erano vere e perché, in
pratica, già qualcun altro mi aveva fatto lo stesso discorso: "Non
sei l'unica che ha perso tutto". Quel qualcun altro aveva poi perso
l'ultima cosa che gli restava. Tutto per amor mio, la cretina a cui
andava ricordato, ancora una volta, che non era la sola. La vita è
segnata da ironie, molte piccole e alcune grandi come
quell'enorme monolite australiano.
Era ora di cambiare argomento. «Ringer è partita?»
Ben ha annuito. E ha continuato con le carezze.
Quell'orsacchiotto mi stava infastidendo. Gliel'ho strappato dalle
braccia.
«Ho provato a mandare con lei anche Poundcake, ma niente»
ha detto. Si è fatto una risatina. «Ringer.» Chissà se si rendeva
conto di come ne aveva pronunciato il nome. Sottovoce, tipo
preghiera.

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«Lo sai, vero, che se non torna non abbiamo piani di riserva?»
«Tornerà» ha replicato fermo.
«Perché ne sei tanto convinto?»
«Perché non abbiamo piani di riserva.» Poi un sorriso pieno,
senza maschere, e fa impressione vedere il vecchio sorriso che
illuminava le aule e i corridoi e gli scuolabus gialli sovrapposto
alla sua nuova faccia, rimodellata da malattia, proiettili e fame.
Come girare un angolo in una città mai visitata prima e imbattersi
in uno che conosci.
«È un ragionamento circolare» gli ho fatto presente.
«Sai, c'è chi si sente minacciato quando ha intorno gente più
sveglia. Io invece mi sento ancora più sicuro di me.»
Mi ha stretto il braccio e poi, zoppicando, è andato in camera
sua. E io sono rimasta sola con l'orsacchiotto e il ragazzino in
fondo al corridoio e la porta chiusa e me stessa di fronte alla
porta chiusa. Ho fatto un bel respiro e sono entrata. Mi sono
seduta accanto alla montagna di coperte. Non lo vedevo, ma
sapevo che c'era. Allo stesso modo, lui non vedeva me, ma sapeva
che c'ero.
«Come è morto?» Voce sepolta e attutita.
«Gli hanno sparato.»
«L'hai visto?»
«Sì.»
Nostro padre che strisciava, le mani che artigliavano il
terreno.
«Chi è stato a sparargli?»
«Vosch.» Ho chiuso gli occhi. Pessima idea. Nel buio la
scena è tornata a fuoco all'istante.
«E tu dov'eri in quel momento?»
«Nascosta.»

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Mi sono allungata con l'intenzione di tirare giù le coperte.
Poi però non ci sono riuscita. "Qualunque cosa tu abbia passato."
In un bosco poco distante da una statale vuota, una ragazzina si
chiudeva nel sacco a pelo e rivedeva di continuo suo padre che
moriva. Nascosta prima, nascosta dopo, lo rivedeva di continuo
che moriva.
«Ha lottato?»
«Sì, Sam. Ha lottato con tutte le sue forze. Mi ha salvato la
vita.»
«Ma tu ti sei nascosta.»
«Sì» ho risposto stringendomi Orso alla pancia.
«Come un coniglio.»
«No» ho mormorato. «Non è andata così.»
Ha strappato via le coperte e si è tirato su di scatto. Non lo
riconoscevo. Non avevo mai visto quel bambino. Faccia
imbruttita e deformata dalla rabbia e dall'odio.
«Lo ammazzo. Gli faccio saltare la testa!»
Ho sorriso. O, se non altro, ci ho provato. «Scusa, Sams. Ci
sono prima io.»
Ci siamo guardati e il tempo è collassato su se stesso -- il
tempo che nel sangue avevamo perso e il tempo che nel sangue
avevamo guadagnato, il tempo di quando io ero solo la sorellona
prepotente e lui il fratellino rompiscatole, il tempo di quando io
ero ciò per cui valeva la pena vivere e lui ciò per cui valeva la
pena morire -- e poi Sam mi è crollato tra le braccia,
l'orsacchiotto schiacciato in mezzo a noi così come noi eravamo
intrappolati tra il prima e il dopo.
Mi sono stesa al suo fianco e insieme abbiamo detto la
preghiera: "Angelo di Dio, che sei il mio custode...". E poi gli ho
raccontato come è morto papà. Come ha rubato la pistola a uno

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dei cattivi e, senza l'aiuto di nessuno, ha ucciso dodici
Silenziatori. Come ha tenuto testa a Vosch e gli ha detto: "Puoi
distruggere il nostro corpo, ma non il nostro spirito". Come si è
sacrificato perché io potessi fuggire e strappare lui, Sam, alla
malvagia orda galattica. Per dargli modo, un giorno, di
raccogliere i resti sgangherati dell'umanità e salvare il mondo.
Così, almeno, il suo ricordo degli ultimi attimi di nostro padre
non sarà quello di un uomo vinto e insanguinato che striscia a
terra.
Quando si è addormentato, sono scesa pian piano dal letto e
sono tornata alla finestra. Una striscia di parcheggio, una tavola
calda fatiscente ("Tutti i mercoledì buffet a volontà!") e un tratto
di statale grigia che sfumava nel nero. La Terra buia e silenziosa,
com'era prima che comparissimo noi a riempirla di luce e rumore.
Qualcosa finisce. Qualcosa inizia. Quello era il momento di
passaggio. La pausa.
Sulla statale, accanto a un SUV bloccato sull'aiuola
spartitraffico, la luce delle stelle si è riflessa sulla forma
inconfondibile di una canna di fucile. Per un secondo mi si è
fermato il cuore. Quando la sagoma che aveva con sé l'arma si è
infilata rapida tra gli alberi, ho visto lo scintillio dei capelli nero
corvino, lucidi e perfettamente, fastidiosamente lisci, e ho capito
che quella sagoma era Ringer.
Io e Ringer siamo partite con il piede sbagliato e da lì il
nostro rapporto non ha fatto che peggiorare. Trattava ogni cosa
che dicevo con una specie di disprezzo glaciale, come se stessi
raccontando balle o fossi scema se non semplicemente matta.
Soprattutto quando si toccava l'argomento Evan Walker. "Sei
sicura? Non ha senso. Come faceva a essere sia umano che
alieno?" Più io mi accaloravo, più lei si raffreddava, tanto che alla

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fine ci annullavamo a vicenda come i due membri di
un'equazione. Tipo E=mc 2, l'equazione che entra in gioco nelle
esplosioni nucleari.
Le parole con cui ci siamo salutate ne sono un ottimo
esempio.
«Sai, a Dumbo ci arrivo» le ho detto. «Le orecchie a sventola.
E anche a Nugget: perché Sam è piccino. Teacup, uguale: minuta
e delicata come una tazza da tè. Con Zombi faccio già più fatica -
- Ben non me lo vuole dire -- e, a naso, Poundcake ha un nome da
torta visto che è cicciotto. Ma perché Ringer?»
La sua risposta è stata uno sguardo gelido.
«Mi fa sentire un po' esclusa. Cioè, l'unica del gruppo senza
un nome di fantasia.»
«Un nome di battaglia» mi ha corretta.
L'ho fissata per qualche istante. «Fammi indovinare, borsa di
studio, club di scacchi, gare di matematica, prima della classe? E
suoni uno strumento, forse il violino o il violoncello, qualcosa a
corda. Tuo padre lavorava nella Silicon Valley e tua mamma
insegnava al college, direi fisica o chimica.»
È rimasta in silenzio per un tempo interminabile. Poi: «C'è
altro?».
Sapevo che avrei fatto meglio a fermarmi. Ma ormai avevo
cominciato, e quando cominci vai fino in fondo. È lo stile
Sullivan. «Sei la più grande... no, anzi, sei figlia unica. Tuo padre
era buddista e tua mamma invece atea. A dieci mesi camminavi
già. Ti ha tirata su tua nonna perché i tuoi erano sempre al lavoro.
Ti ha insegnato il Tai Chi. Non hai mai giocato con le bambole.
Parli tre lingue, una delle quali è il francese. Eri nella squadra
che si allenava per le Olimpiadi giovanili. Ginnastica. Una volta
hai portato a casa una B e i tuoi ti hanno tolto il kit del piccolo

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chimico e ti hanno tenuta chiusa in camera per una settimana,
settimana durante cui ti sei letta tutte le opere di Shakespeare.»
Stava scuotendo la testa. «Okay, le commedie no. Non le trovavi
per niente spiritose.»
«Perfetto» ha commentato. «Strabiliante.» Aveva la voce
piatta e uniforme come un foglio di carta d'alluminio appena
laminato. «Ora ci posso provare io con te?»
Mi sono irrigidita un po' preparandomi al peggio. «Sì, sì,
provaci pure.»
«Sei sempre stata insicura riguardo al tuo aspetto, per prima
cosa ai capelli. Seconde, staccate di poco, le lentiggini. In mezzo
alla gente ti senti a disagio perciò leggi un sacco e tieni un diario
da quando eri alle medie. Avevi solo una buona amica e la vostra
relazione era di codipendenza, vale a dire che se per caso
litigavate tu ti deprimevi. Eri la cocca di papà e non hai mai avuto
molta confidenza con tua mamma, cui sembrava non andasse mai
bene niente di quello che facevi. E il fatto che fosse più bella di
te non aiutava. Quando è morta, ti sei sentita in colpa perché,
sotto sotto, la odiavi e perché, sempre sotto sotto, eri sollevata.
Sei testarda, impulsiva e un po' scalpitante, perciò i tuoi ti
avevano iscritta a un corso che ti aiutasse con la coordinazione e
la concentrazione, tipo danza classica o karate, probabilmente
karate. Vuoi che vada avanti?»
Be', cosa potevo fare? Vedevo solo due alternative: ridere o
darle un pugno in faccia. Okay, tre: ridere, darle un pugno in
faccia o restituirle uno dei suoi lunghi sguardi impassibili. Ho
optato per l'alternativa numero tre.
Pessima idea.
«Okay» ha detto Ringer. «Non sei un maschiaccio, ma
neanche una tutta fru fru. Sei nell'area grigia tra i due poli.

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Essendo una via di mezzo, hai sempre segretamente invidiato le
ragazze meglio definite, ma hai riservato il grosso del tuo rancore
a quelle carine. Ti sei presa delle cotte, ma non hai mai avuto
storie. Fai finta di odiare quelli che ti piacciono e che ti
piacciano quelli che odi. Ogni volta che ti capita vicino qualcuno
migliore di te per aspetto, intelligenza o qualsiasi altra cosa, ti
arrabbi e diventi sarcastica perché ti ricorda quanto, dentro di te,
ti senti ordinaria. Continuo?»
E io, con una vocetta acuta: «Prego. Come ti pare».
«Finché non è comparso Evan Walker, non avevi mai tenuto
per mano un ragazzo, tranne durante le gite delle elementari.
Evan era gentile e senza pretese; in più, come bonus extra, così
bello che quasi non si poteva guardare. Ti si è offerto come una
tela bianca, che tu hai potuto dipingere con la tua voglia di un
rapporto perfetto con un ragazzo perfetto in grado di placare le
tue paure grazie alla sua capacità di non ferirti mai. Ti ha dato
tutto quello che, nella tua immaginazione, le ragazze carine
avevano sempre avuto e tu no, perciò stare con lui -- l'idea stessa
di lui -- aveva a che fare principalmente con la vendetta.»
Mi stavo mordendo il labbro inferiore. Mi bruciavano gli
occhi. Ho stretto i pugni così forte da conficcarmi le unghie nei
palmi. Perché, oh, perché non avevo optato per l'alternativa
numero due? «Vuoi che la pianti» ha detto. Non era una
domanda.
Ho alzato il mento con aria di sfida. "E che Defiance sia il
mio nome di battaglia!" «Qual è il mio colore preferito?»
«Il verde.»
«Sbagliato. Il giallo» ho mentito.
Ha scrollato le spalle. Sapeva che era una bugia. Ringer:
Mnemolandia in versione umana.

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«No, dài, sul serio, perché "Ringer"?» Ecco fatto. L'avevo
rimessa sulla difensiva. Be', in realtà lei sulla difensiva non c'era
mai stata. Quella ero io.
«Sono umana» ha detto.
«Certo.» Sbirciando dallo spiraglio tra le tende, ho guardato
il parcheggio un piano più in basso. Perché poi? Pensavo davvero
che l'avrei visto lì, appostato come al suo solito, con la faccia in
su e un sorriso sulle labbra? "Visto? Te l'avevo detto che ti avrei
trovata." «Questa l'ho già sentita. E, come una scema, me la sono
bevuta.»
«Non così scema, date le circostanze.»
Oh, ora faceva quella gentile? Ora mi dava un po' di tregua?
Non sapevo cosa fosse peggio: Ringer la principessa dei ghiacci
o Ringer la regina della compassione.
«Non fingere, Ringer» ho sbottato. «Lo so che non mi credi
su Evan.»
«A te credo. È la sua storia che non sta in piedi.»
Poi ha preso la porta e se n'è andata. Così, di punto in bianco.
Nel bel mezzo della discussione, prima che avessimo risolto
alcunché. Chi, oltre a qualsiasi individuo di sesso maschile mai
venuto al mondo, fa una cosa del genere?
"Un'esistenza virtuale non richiede un pianeta fisico..."
Chi era Evan Walker? Passo lo sguardo dalla statale a mio
fratello e poi di nuovo alla statale. Chi eri, Evan Walker?
Io ero un'idiota, visto che mi sono fidata di lui, ma ero ferita e
sola (così sola che mi credevo l'ultimo essere umano
dell'universo), nonché in un grave stato confusionale dal
momento che avevo ammazzato un innocente e che lui, invece,
questo Evan Walker, non solo pur avendone avuto l'occasione
non aveva messo fine alla mia vita ma, anzi, mi aveva salvata.

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Perciò quando i campanelli di allarme hanno preso a suonare, io
li ho ignorati. In più non guastava (non aiutava?) che fosse
incredibilmente meraviglioso e altrettanto incredibilmente votato
a farmi sentire che teneva a me più che a se stesso in ogni modo
possibile, dall'aiutarmi con il bagno al darmi da mangiare,
dall'insegnarmi a uccidere al dichiararsi pronto a morire per me,
cosa che poi ha dimostrato con i fatti.
Era nato come Evan, tredici anni dopo si era svegliato e aveva
scoperto di non esserlo più, poi si era svegliato un'altra volta,
così mi aveva detto, quando si era visto nei miei occhi. Si era
trovato in me e poi, in me, io avevo trovato lui e gli ero stata
dentro e in quel momento tra noi non c'erano confini. All'inizio
mi aveva detto le cose che volevo sentire e alla fine quelle che
avevo bisogno di sentire: l'arma principale per eliminare gli
umani che ancora resistevano erano gli umani stessi. E quando
l'ultimo degli "infestati" fosse morto, Vosch e compagnia
avrebbero staccato la spina alla Quinta Onda. Epurazione finita.
Casa pulita e pronta per il trasloco.
Quando ho raccontato tutto a Ben e Ringer -- meno la parte
su Evan dentro di me, un po' troppo ricca di sfumature per Parish
-- ci sono stati parecchi sguardi dubbiosi e scambi di occhiate
eloquenti da cui, con mio dispiacere, sono stata esclusa.
«Uno di loro era innamorato di te?» ha chiesto Ringer dopo
che ho finito. «Non è come se noi ci innamorassimo di uno
scarafaggio?»
«Oppure di un'efemera» ho ribattuto. «Magari hanno una
passione per gli insetti.»
Ci trovavamo in camera di Ben. Era la nostra prima notte
all'Hotel Walker, come Ringer -- credo fondamentalmente per
irritarmi -- l'ha soprannominato.

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«Cos'altro ti ha detto?» ha incalzato Ben. Era steso a braccia
e gambe larghe sul letto. Tra Camp Haven e l'albergo c'erano poco
più di cinque chilometri e pareva che lui avesse appena corso una
maratona. Dumbo, il ragazzino che aveva rattoppato me e Sam,
non si era voluto pronunciare quando gli avevo chiesto di Ben.
Non aveva voluto dire se sarebbe migliorato. Non aveva voluto
dire se sarebbe peggiorato. Certo, Dumbo aveva solo dodici anni.
«Risorse? Punti deboli?»
«Non hanno più il corpo» ho risposto. «Evan mi ha detto che
sennò non potevano affrontare il viaggio. Alcuni sono stati
scaricati -- lui, Vosch, il resto dei Silenziatori -- e altri sono
ancora sull'astronave, in attesa che ci leviamo di mezzo.»
Ben si è passato il dorso della mano sulla bocca. «I campi
sono stati allestiti per selezionare chi si prestava meglio al
lavaggio del cervello...»
«E per eliminare i candidati scartati» ho concluso. «Una volta
partita la Quinta Onda, non dovevano fare altro che mettersi
comodi e lasciare che quegli stupidi degli umani facessero il
lavoro sporco per loro.»
Ringer era seduta accanto alla finestra, silenziosa come
un'ombra.
«Sì, ma perché usare noi?» si è chiesto Ben. «Perché non
scaricare in corpi umani tutti i soldati che servivano per finirci?»
«Magari non ne hanno abbastanza» ho ipotizzato. «Oppure
organizzare la Quinta Onda era il rischio minore.»
«Che rischio?» ha detto Ringer-Ombra infrangendo il suo
silenzio.
Ho deciso di ignorarla. Per diverse ragioni, ma in primo luogo
perché misurarsi con lei equivaleva a esporsi volontariamente a
un pericolo. Era capace di umiliarti con una sola parola.

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«C'eri» ho ricordato a Ben. «L'hai sentito, Vosch. Ci
osservavano da secoli e secoli. Ma Evan è la prova che,
nonostante le migliaia di anni di pianificazione, qualcosa può
comunque andare storto. A quanto pare, non sono mai stati
sfiorati dall'idea che, diventando noi, potessero davvero diventare
noi.»
«Okay» ha detto Ben. «Quindi come possiamo
approfittarne?»
«Non possiamo» ha risposto Ringer. «Niente di quello che ha
detto Sullivan ci sarà d'aiuto, a meno che questo Evan non sia in
qualche modo sopravvissuto all'esplosione e possa darci le
informazioni che ci mancano.»
Ben stava scuotendo la testa. «Era impossibile
sopravvivere...»
«C'erano delle capsule d'emergenza» ho detto, aggrappandomi
al filo verso cui mi allungavo da quando mi aveva salutata.
«Ah sì?» Ringer non suonava convinta. «Allora perché non ti
ci ha messo su?»
«Senti» ho replicato «probabilmente farei meglio a non dirlo
a una persona che ha in mano un fucile semiautomatico a lunga
gittata, ma stai proprio cominciando a darmi sui nervi.»
Ha fatto una faccia sorpresa. «Perché?»
«Dobbiamo arrivare a un punto» è intervenuto brusco Ben
impedendomi di ribattere, il che era un bene: Ringer aveva
davvero in mano un M16 e, stando a Ben, al campo era quella che
sparava meglio. «Qual è il piano? Aspettiamo che Evan si faccia
vivo o alziamo i tacchi? E in tal caso, dove andiamo?» Guance
infiammate per la febbre, occhi luccicanti. A pochi secondi dalla
fine del quarto down mancavano ancora troppe iarde. «Non c'è
nient'altro, tra le cose che ti ha raccontato Evan, che potrebbe

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tornarci utile? Cos'hanno intenzione di fare con le città?»
«Di certo non le faranno saltare in aria» ha detto Ringer. Non
mi ha lasciato il tempo di rispondere. E poi non mi ha lasciato il
tempo di chiedere cosa cavolo ne sapeva lei. «Se avessero voluto,
l'avrebbero fatto subito. Più di metà della popolazione mondiale
viveva in aree urbane.»
«Quindi le vogliono usare» ha concluso Ben. «Perché stanno
usando corpi umani?»
«Non ci possiamo nascondere in una città, Zombi» ha detto
Ringer. «Qualunque sia.»
«Perché?»
«Perché non è sicuro. Incendi, liquami, malattie causate dai
cadaveri in decomposizione, altri superstiti che ormai avranno
capito che usano corpi umani. Se vogliamo sopravvivere un altro
po', dobbiamo muoverci di continuo. Muoverci di continuo e
rimanere soli il più a lungo possibile.»
Oddio. Dov'è che avevo già sentito quella regola? Mi girava la
testa. Avevo un male cane al ginocchio. Il ginocchio ferito dal
proiettile di un Silenziatore. Il mio Silenziatore. "Ti troverò,
Cassie. Non ti trovo ogni volta?" Questa no, Evan. Mi sento di
escluderlo. Mi sono seduta sul letto accanto a Ben.
«Ha ragione» ho ammesso. «Indipendentemente da dove,
fermarsi più di qualche giorno non è una buona idea.»
«E nemmeno restare insieme.»
Le parole di Ringer sono rimaste sospese nell'aria gelida. Al
mio fianco, Ben si è irrigidito. Ho chiuso gli occhi. Avevo già
sentito anche quella, di regola: "Non fidarti di nessuno".
«Scordatelo, Ringer» ha detto Ben.
«Io prendo Teacup e Poundcake. Tu gli altri. Le nostre chance
si raddoppiano.»

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«Perché fermarsi lì?» le ho chiesto. «Perché non ci dividiamo
tutti? Le nostre chance si quadruplicano.»
«Si settuplicano» mi ha corretta.
«Be', non sono un genio della matematica» ha ripreso Ben
«ma ho l'impressione che dividersi vada solo incontro alla loro
strategia. Isolare, poi annientare.» Ha lanciato un'occhiataccia a
Ringer. «E poi l'idea di avere qualcuno che mi copre le spalle a
me piace.»
Si è alzato dal letto e ha vacillato un istante. Ringer gli ha
ordinato di rimettersi giù. Lui l'ha ignorata.
«Non possiamo rimanere, ma non sappiamo dove andare.
Visto che però saperlo ci serve, dove andiamo?» ha chiesto.
«A sud» ha spiegato Ringer. «Più a sud possibile.» Stava
guardando fuori dalla finestra. Chiaro: una nevicata un minimo
seria e uno resta bloccato finché non si scioglie. Ergo, meglio
spostarsi dove non nevica.
«In Texas?» ha detto Ben.
«In Messico» ha risposto Ringer. «O in America Centrale,
quando l'acqua si ritira. Ci si può nascondere nella foresta
pluviale per anni.»
«Bello» ha commentato Ben. «Un ritorno alla natura. C'è solo
un piccolo problema.» Ha allargato le braccia. «Non abbiamo il
passaporto.»
È rimasto a guardarla fermo in quella posizione come se
stesse aspettando qualcosa. Ringer l'ha guardato a sua volta,
inespressiva. Al che lui ha lasciato cadere le mani con una
scrollata di spalle.
«Stai scherzando» ho detto. Quella conversazione stava
diventando ridicola. «In America Centrale? Nel bel mezzo
dell'inverno, a piedi, con Ben ferito e due bambini piccoli. Ci

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andrà bene se arriveremo in Kentucky.»
«Sempre meglio che restare qui ad aspettare che spunti il tuo
principe alieno.»
Quando è troppo è troppo. Non mi interessava se aveva in
mano un M16. L'avrei agguantata per quella sua chioma setosa e
l'avrei buttata giù dalla finestra. Ben ha intuito il pericolo e mi si
è parato davanti.
«Giochiamo tutti nella stessa squadra, Sullivan. Vediamo di
stare calmi, okay?» Si è girato verso Ringer. «Hai ragione.
Probabilmente Evan non ce l'ha fatta, ma gli daremo la possibilità
di mantenere la sua promessa. Io tanto non sono in condizione di
mettermi in strada.»
«Non sono tornata indietro a recuperare te e Nugget perché
potessimo, tutti insieme, fare da bersaglio al tiro a segno» ha
replicato Ringer. «Fai quello che ti sembra più giusto, Zombi, ma
se le cose si mettono male io me ne vado.»
«Questo sì che è gioco di squadra» ho detto rivolta a Ben.
«Forse stai dimenticando chi ti ha salvato la vita» ha ribattuto
Ringer.
«Ma vai a cagare.»
«Basta!» ha tuonato Ben con la sua miglior voce da
quarterback, per la serie "sono io che comando, qui". «Non so
come usciremo da questo casino, ma so per certo che non è
questo il modo. Piantatela con le stronzate, tutte e due. È un
ordine.»
Si è lasciato andare sul letto, ansimando, con una mano
premuta sul fianco. Ringer è uscita per andare a chiamare Dumbo
e, di conseguenza, io e Ben siamo rimasti soli per la prima volta
da quando ci eravamo rincontrati nelle viscere di Camp Haven.
«Da non credere» ha detto Ben. «Con il novantanove per

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cento dell'umanità all'altro mondo verrebbe da aspettarsi che il
due per cento rimasto andasse un po' più d'accordo.»
"Ehm, sarebbe l'un per cento, Parish." Ero lì lì per farglielo
notare quando l'ho visto sorridere in attesa che lo correggessi,
sicuro che non avrei saputo resistere. Giocava con lo stereotipo
dello sportivo demente come un bimbo dell'età di Sammy avrebbe
potuto giocare con i gessetti: in maniera approssimativa e
maldestra.
«È una psicopatica» ho detto. «Sul serio, ha qualcosa che non
va. La guardi negli occhi e dentro non ci vedi niente.»
Non era d'accordo. «Per me, là dentro, roba ce n'è parecchia.
Solo che è... in fondo in fondo.»
Si è lasciato sfuggire una smorfia mentre, con la mano infilata
nella tasca di quella felpa oscena quasi stesse facendo
l'imitazione di Napoleone, comprimeva la ferita di proiettile
opera di Ringer. Una ferita che aveva voluto lui. Una ferita con
cui aveva rischiato il tutto per tutto pur di salvare mio fratello.
Una ferita che ora poteva costargli la vita.
«Non si può fare» ho sussurrato.
«Certo che si può» ha ribattuto. Ha appoggiato la mano sulla
mia.
Ho scosso la testa. Non capiva. Non parlavo di noi due.
L'ombra dell'Arrivo era caduta su di noi e nel buio pesto di
quell'ombra avevamo perso di vista una cosa fondamentale. Ma il
semplice fatto che non riuscissimo a vederla non significava che
non ci fosse. Mio padre che muovendo appena le labbra mi
diceva di scappare quando lui non poteva. Evan che mi tirava
fuori dal ventre del mostro prima di arrendersi alla sua furia. Ben
che si tuffava nelle fauci dell'inferno per mettere in salvo Sam.
C'erano cose incontaminate dall'ombra, anzi, probabilmente ce

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n'era una sola. Incomprensibile. Instancabile. Invincibile.
Possono ucciderci, anche tutti, uno dopo l'altro fino all'ultimo
che resiste, ma non possono -- e mai potranno -- uccidere quello
che resiste in noi.
"Cassie, ti va di volare?"
"Mi prendi in giro, papà? Sì che mi va di volare!"

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La statale argento che sfumava nel nero. Il nero perforato
dall'incontrastata luce delle stelle. Gli alberi spogli con le braccia
alzate come ladri colti sul fatto. Il respiro di mio fratello che
condensava nell'aria gelida mentre lui dormiva. La finestra che si
appannava mentre io respiravo. E, oltre il vetro coperto di
ghiaccio, accanto alla statale argento inondata dalla perforante
luce delle stelle, una figuretta che sfrecciava sotto le braccia
alzate degli alberi.
"Oh, merda."
Ho attraversato di corsa la stanza e sono sbucata in corridoio,
al che Poundcake si è voltato di scatto con il fucile spianato --
"Tranquillizzati, ciccio" -- poi ho fatto irruzione in camera di
Ben, dove Dumbo se ne stava appoggiato al davanzale e Ben
riverso sul letto più vicino alla porta. Dumbo si è raddrizzato.
Ben si è tirato su. E io ho ruggito: «Dov'è Teacup?».
Dumbo ha indicato il letto accanto a quello di Ben. «Lì.» E
mi ha dato un'occhiata del tipo "questa qua è impazzita".
Sono andata al letto e ho strappato via il cumulo di coperte.
Ben ha imprecato e Dumbo, tutto rosso, ha fatto un passo
indietro finendo contro il muro.
«Era lì, lo giuro su Dio!»
«L'ho vista» ho detto a Ben. «Fuori...»
«Fuori?» Ha buttato le gambe giù dal letto grugnendo per lo
sforzo.
«Sulla statale.»
Poi ha capito. «Ringer. Sta seguendo Ringer.» Ha dato uno
schiaffo al materasso. «Porco cane!»
«Vado io» si è offerto Dumbo.
Ben ha alzato una mano. «Poundcake!» ha urlato. Stava

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arrivando, e si sentiva. Il pavimento protestava al suo passaggio.
Come si è affacciato, Ben gli ha detto: «Teacup se l'è svignata.
Dietro a Ringer. Valla a cercare e falle riportare qui le chiappe
così gliele riempio di sculaccioni».
Pesante come prima, Poundcake si è allontanato e dal
pavimento è giunto un: "Grazie!".
Ben si stava mettendo la fondina. «Che stai facendo?» ho
chiesto.
«Prendo la postazione di Poundcake finché lui non torna con
quella mocciosetta. Tu stai con Nugget. Sam, cioè. Sì, insomma.
Dobbiamo scegliere un nome e stare fissi su quello.»
Gli tremavano le dita. Febbre. Paura. Un po' di entrambe le
cose.
Dumbo ha aperto e chiuso la bocca senza però emettere
suono. Ben se n'è accorto. «Riposo, Bo. Non è stata colpa tua.»
«Vado io in corridoio» ha proposto lui. «Tu rimani qui,
sergente. È meglio se non stai in piedi.»
È uscito dalla camera di volata, prima che Ben potesse
fermarlo. Ben, che ora mi guardava con occhi lucidi e
febbricitanti. «Mi sa che non te l'ho detto, ma, dopo che a Dayton
abbiamo preso a fare di testa nostra, Vosch ci ha sguinzagliato
dietro due squadre. Se erano ancora fuori quando il campo è
saltato in aria...»
Non ha finito il concetto. O non gli sembrava necessario o
non ci riusciva. Si è alzato. Ha barcollato. L'ho raggiunto e lui mi
ha messo un braccio sulle spalle senza imbarazzo. Non c'è una
maniera carina di dirlo: Ben Parish puzzava. L'odore acre
dell'infezione e di sudore vecchio di giorni. Per la prima volta da
quando avevo scoperto che non era un cadavere, ho pensato che
sarebbe potuto diventarlo presto.

70
«Torna a letto» gli ho ordinato. Lui ha fatto cenno di no, poi
gli è sfuggita la mano dalla mia spalla ed è caduto all'indietro,
picchiando il sedere contro il bordo del materasso e poi
scivolando a terra.
«Un capogiro» ha mormorato. «Vai a prendere Nugget e
portalo qui con noi.»
«Sam. Possiamo fare "Sam"? Ogni volta che sento "Nugget",
mi tornano in mente il McDonald's, le patatine fritte belle calde, i
frullati banana-fragola e i maxicappuccini con sopra la panna e
una spruzzata di cioccolato.»
Ben ha sorriso. E mi ha spezzato il cuore, quel sorriso
luminoso su quella faccia macilenta. «Okay, andata» ha risposto.
Sam ha fatto appena un sospiro quando l'ho preso e l'ho
portato in camera di Ben. L'ho messo nel letto lasciato vuoto da
Teacup, ho rimboccato le coperte e gli ho sfiorato la guancia con
il dorso della mano, una vecchia abitudine risalente ai giorni
dell'epidemia. Ben, ancora seduto sul pavimento, fissava il
soffitto con la testa rovesciata all'indietro. Come mi sono mossa
verso di lui, mi ha rispedita indietro con un cenno.
«La finestra» ha detto con voce strozzata. «Ora siamo ciechi
da un lato. Grazie tante, Teacup.»
«Perché se l'è filata così?»
«È da Dayton che sta attaccata a Ringer come una cozza.»
«Io le ho sempre e solo viste litigare.» Stavo pensando alla
baruffa sugli scacchi, alla moneta che aveva colpito Teacup in
fronte e a quel "Cazzo, quanto ti odio!".
Ben ha ridacchiato. «È una linea sottile.»
Ho guardato giù nel parcheggio. L'asfalto brillava come onice.
"Attaccata a Ringer come una cozza." Mi è venuto in mente Evan
appostato dietro porte e angoli. Mi è venuta in mente la cosa

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incontaminata, la cosa che resiste, e ho capito che quell'unica
cosa con il potere di salvarci ha anche il potere di ucciderci.
«Non dovresti startene sul pavimento» l'ho rimproverato. «Sul
letto c'è più caldo.»
«Sì, di metà della metà di metà grado. È una roba da niente,
Sullivan. Un raffreddore rispetto all'epidemia.»
«Ti sei ammalato?»
«Già. Al campo profughi fuori dalla Wright-Patterson.
Quando hanno preso il controllo della base, mi hanno,
nell'ordine, portato dentro, imbottito di antivirali, messo in mano
un fucile e mandato ad ammazzare un po' di gente. Tu, invece?»
Un crocifisso stretto nel pugno insanguinato. "Puoi finirmi o
aiutarmi." Il soldato dietro i frigoriferi era stato il primo. No. Il
primo era stato il tipo che aveva sparato a Crisco alla fossa
cineraria. Facevano già due, e poi c'erano i Silenziatori, uno
subito prima che trovassi Sam e l'altro subito prima che Evan
trovasse me. Quattro, quindi. Mi stavo dimenticando qualcuno? I
corpi si accumulano e uno perde il conto. "Oddio, uno perde il
conto."
«Anch'io ho ammazzato un po' di gente» ho risposto piano.
«Mi riferivo all'epidemia.»
«Ah. No. Mia mamma...»
«E tuo padre?»
«Un flagello diverso» ho detto. Ha girato la testa per
lanciarmi un'occhiata. «Vosch. L'ha ucciso Vosch.»
Gli ho raccontato del campo profughi. Dei fuoristrada e del
grosso autocarro pieno di soldati. Dell'apparizione surreale degli
scuolabus. "Solo i bambini. C'è spazio soltanto per i più piccoli."
Dell'adunata generale nella baracca e di quando papà mi ha
mandata a cercare Crisco con la mia prima vittima. Poi di papà a

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terra che mi diceva di scappare e di come Vosch torreggiasse su di
lui mentre io mi nascondevo nel bosco.
«Strano che non ti abbiano fatta salire su uno degli
scuolabus» ha detto Ben. «Se il loro scopo era mettere su un
esercito con tutti quelli che si prestavano al lavaggio del
cervello.»
«C'erano soprattutto bambini dell'età di Sam, altri persino più
piccoli.»
«Al campo quelli con meno di cinque anni li separavano e li
tenevano nel bunker...»
Ho annuito. «Li ho visti.» Nella camera blindata, con i visi
rivolti in su mentre io andavo in cerca di Sam.
«Quindi viene da chiedersi perché» ha continuato Ben. «A
meno che Vosch non preveda una guerra molto lunga.» Dal modo
in cui l'aveva detto sembrava dubitasse che il motivo era quello.
Ha tamburellato con le dita sul materasso. «Che sta succedendo
con Teacup? Dovrebbero essere già tornati.»
«Vado a controllare» ho proposto.
«Col cavolo. Questa storia si sta trasformando nel classico
film dell'orrore. Sai, no? I personaggi fatti secchi uno alla volta.
Uh-uh. Aspettiamo altri cinque minuti.»
Siamo rimasti zitti con l'orecchio teso. Ma si sentiva solo il
fischio leggero del vento che entrava dalla finestra male isolata e
il lavorio incessante dei ratti che grattavano nei muri. Teacup ne
era ossessionata. L'avevo sentita fantasticare con Ringer su come
sbarazzarsene per ore e ore. E che irritante tono da maestrina
aveva Ringer, mentre spiegava che la popolazione era fuori
controllo: il numero dei ratti nell'albergo superava quello dei
proiettili a nostra disposizione.
«Ratti» ha detto Ben come se mi stesse leggendo nel

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pensiero. «Ratti, ratti, ratti. Centinaia di ratti. Migliaia di ratti.
Ormai ci sono più ratti che esseri umani. È il pianeta dei ratti.» È
scoppiato in una risata roca. Magari stava delirando. «Sai cos'è
che mi ossessiona? Che a dare retta a Vosch ci hanno osservati
per secoli. Cioè, ma com'è possibile? Nel senso, com'è possibile
lo capisco: quello che non capisco è perché non ci hanno
attaccati prima. Quanta gente c'era sulla Terra quando abbiamo
costruito le piramidi? Perché aspettare che ci fossero sette
miliardi di persone sparse su tutti i continenti e con una
tecnologia sempre primitiva ma comunque più avanzata di clave e
lance? Amano le sfide? Se vuoi sterminare i parassiti che ti
infestano la casa nuova lo fai prima di essere in minoranza. Evan?
Su questo non ti ha detto niente?»
Mi sono schiarita la gola. «Che erano divisi perché non tutti
erano dell'idea di ucciderci.»
«Uh. Allora forse hanno dibattuto la questione per seimila
anni. Sono stati lì a cincischiare nell'indecisione generale finché
uno non ha sbottato: "Oh, e che cavolo, ammazziamoli e via!".»
«Non lo so. Non sono un indovino.» Ero un po' sulla
difensiva. Come se, visto che conoscevo Evan, avessi dovuto
conoscere tutto.
«Può anche darsi che Vosch abbia mentito» ha continuato
Ben parlando tra sé e sé. «Che ne so, magari per condizionarci
con giochetti mentali, per mandarci in confusione. Con me ci ha
provato fin dall'inizio.» Mi ha guardata, poi ha distolto lo
sguardo. «Non lo dovrei ammettere, ma era il mio idolo. Pensavo
che fosse, tipo...» Ha agitato una mano in aria, cercando le
parole. «Il migliore in assoluto.»
Hanno preso a tremargli le spalle. Lì per lì ho pensato che
fosse per la febbre, poi mi è venuto il sospetto che ci fosse sotto

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dell'altro così ho lasciato la finestra e sono andata da lui.
Per i maschi le crisi sono una cosa privata. Nessuno mai deve
vederli piangere, perché se piangi sei un debole, sei un
rammollito, un bamboccio, un cacasotto. Non è da uomini e
stronzate simili. Non riuscivo a immaginarmi il Ben Parish pre-
Arrivo piangere di fronte a qualcuno, lui, il ragazzo che aveva
tutto, quello nei cui panni chiunque avrebbe voluto essere, quello
che spezzava i cuori altrui senza che nessuno spezzasse mai il
suo.
Mi sono seduta al suo fianco. Non l'ho toccato. Non ho
aperto bocca. Lui era dov'era e io uguale.
«Scusa.»
Ho scosso la testa. «Di che?»
Si è passato il dorso della mano prima su una guancia e poi
sull'altra. «Sai cosa mi ha detto? Anzi, cosa mi ha promesso. Mi
ha promesso che mi avrebbe svuotato. Che mi avrebbe svuotato e
poi riempito di odio. Ma ha infranto la promessa. Non mi ha
riempito di odio. Mi ha riempito di speranza.»
Lo capivo. Nella camera blindata, una distesa persa
all'infinito di visi rivolti in su, di occhi che cercavano i miei, e in
quegli occhi una domanda troppo orribile da tradurre in parole:
"Me la caverò?". È tutto collegato. Gli Altri se n'erano resi conto,
se n'erano resi conto meglio della maggior parte di noi. Non c'è
speranza senza fede, non c'è fede senza speranza, non c'è amore
senza fiducia, non c'è fiducia senza amore. Togli una sola di
queste cose e l'intero castello di carte umano crolla.
Era come se Vosch volesse che Ben scoprisse la verità. Come
se volesse insegnargli quanto è senza speranza la speranza. Ma a
che pro fare una cosa del genere? Se volevano annientarci, perché
non ci hanno annientati senza tante storie? Ci dev'essere almeno

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una decina di modi per spazzarci via in fretta; loro però l'hanno
tirata per le lunghe con cinque ondate di atrocità crescente.
Perché?
Fino a quel momento avevo sempre pensato che gli Altri non
provassero per noi nulla se non disprezzo, magari misto a una
punta di disgusto, quello che noi proviamo per ratti, scarafaggi,
cimici e altre sgradevoli forme di vita inferiori. "Niente di
personale, umani, ma dovete sparire." Non mi era mai venuto in
mente che potesse invece essere proprio una questione personale.
Che ucciderci e basta non fosse sufficiente.
«Ci odiano» ho detto, rivolta quasi più a me stessa che a lui.
Ben mi ha guardata allarmato. E io l'ho guardato a mia volta,
impaurita. «Non c'è altra spiegazione.»
«Non ci odiano, Cassie» ha risposto in tono dolce, come si
parla a un bambino spaventato. «È solo che abbiamo quello che
vogliono.»
«No.» Ora avevo le guance bagnate di lacrime. La Quinta
Onda aveva solo e soltanto una spiegazione. Qualunque altra
ipotesi era assurda.
«Qui non si tratta di strapparci il pianeta, Ben. Qui si tratta di
strapparci il cuore.»

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13
«Basta così» ha detto Ben. «Tempo scaduto.»
E si è alzato, ma non è andato molto lontano. Non ha fatto in
tempo a tirarsi su che già era ripiombato sul sedere. Gli ho messo
una mano sulla spalla.
«Vado io.»
Si è dato una gran pacca sulla coscia. «Non ci sto» ha
borbottato mentre aprivo la porta e mi affacciavo fuori. A far che,
non ci stava? A perdere Teacup e Poundcake? A perdere pezzo
dopo pezzo tutta la squadra? A perdere la battaglia contro le sue
ferite? Oppure a perdere la guerra in generale?
Il corridoio era vuoto.
Prima Teacup. Poi Poundcake. Ora Dumbo. Stavamo davvero
scomparendo più velocemente di campeggiatori in un film
splatter.
«Dumbo!» ho chiamato piano. Quel nome ridicolo ha
echeggiato nell'aria fredda e stagnante. La mia mente ha passato
in rapida rassegna le possibilità. Dalla meno alla più probabile:
l'avevano neutralizzato nel più totale silenzio e avevano nascosto
il corpo; l'avevano catturato; aveva visto o sentito qualcosa ed era
andato a indagare; gli scappava la pipì.
Ho indugiato sulla soglia un paio di secondi, giusto in caso
fosse stata vera l'ultima possibilità. Poi, siccome non tornava,
sono rientrata in camera. Ben era in piedi che controllava il
caricatore del suo M16.
«Non costringermi a indovinare» ha detto. «Non importa.
Tanto non mi serve.»
«Stai qui con Sam. Ci penso io.»
Mi si è avvicinato strascicando i piedi e, a un centimetro dal
mio naso, ha risposto: «Mi dispiace, Sullivan. Il fratello è tuo».

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Mi sono irrigidita. La camera era gelida; il mio sangue di più.
Aveva la voce dura, piatta, priva di qualsiasi emozione. "Zombi.
Com'è che ti chiamano Zombi, Ben?"
Poi ha sorriso, un sorriso del tutto sincero, alla Ben Parish. «I
ragazzi là fuori invece sono i miei, di fratelli.»
Mi ha girato intorno e si è diretto alla porta zoppicando. In
un attimo la situazione era passata da inverosimilmente
pericolosa a pericolosamente inverosimile. Non vedevo altra
soluzione: ho superato alla bell'e meglio il letto di Ben, ho preso
Sam per le spalle e gli ho dato uno scrollone. Lui si è svegliato
con un gemito. Gli ho tappato la bocca per soffocare il rumore.
«Sams! Stammi a sentire! C'è qualcosa che non va.» Ho
estratto la Luger dalla fondina e gliel'ho messa in mano. Lui ha
spalancato gli occhi per la paura e per qualcosa che somigliava in
modo inquietante alla gioia. «Io e Ben dobbiamo controllare. Tu
metti il chiavistello... sai cos'è il chiavistello?» Sbigottito fece
cenno di sì. «E sistema una sedia sotto la maniglia. Guarda dal
buco della serratura. Non fare...» C'era davvero bisogno che
spiegassi tutto quanto per filo e per segno? «Ascolta una cosa,
Sams: è importante, molto importante. Molto, molto importante.
Sai come si fa a distinguere i buoni dai cattivi? I cattivi ci
sparano.» La lezione migliore che mio padre mi avesse mai
insegnato. Ho dato a Sam un bacio sui capelli e l'ho lasciato lì.
La porta mi si è chiusa alle spalle con uno scatto. Ho sentito
il chiavistello scorrere ed entrare nel fermo. "Bravo, piccolo."
Ben era a metà corridoio. Mi ha fatto segno di raggiungerlo. Mi
ha appoggiato all'orecchio le labbra roventi per la febbre.
«Assicuriamoci che le stanze siano vuote, poi scendiamo.»
Abbiamo proceduto insieme. Io davanti e Ben dietro, a
coprirmi le spalle. L'Hotel Walker aveva una politica "porte

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aperte": non c'era serratura che, man mano che arrivavano
superstiti in cerca di riparo dalle ondate, non fosse stata fatta
saltare. D'aiuto era anche la conformazione dell'albergo,
progettato per le famiglie al risparmio. Le camere erano grandi
suppergiù quanto la casa di Barbie. Trenta secondi per
controllarne una. Quattro minuti per controllarle tutte.
Quando siamo tornati in corridoio, Ben mi ha riappiccicato le
labbra all'orecchio.
«La tromba dell'ascensore.»
Si è inginocchiato davanti alle porte. Mi ha mostrato l'accesso
alle scale perché lo tenessi sotto tiro, poi ha preso il coltello da
combattimento e ha cacciato la lama da trenta centimetri nella
fessura. "Ah," ho pensato "il vecchio trucco del nascondersi in
ascensore!" Allora perché io stavo tenendo sotto tiro le scale?
Ben ha forzato le porte e mi ha chiamata a gesti.
Ho visto dei cavi arrugginiti in mezzo a una marea di polvere
e ho sentito l'odore di quello che presumevo fosse un ratto morto.
O, almeno, speravo. Quando Ben ha indicato il buio che si
addensava in basso, ho capito. Non dovevamo controllare la
tromba dell'ascensore: la dovevamo usare.
«Io do un'occhiata alle scale» mi ha alitato nell'orecchio. «Tu
rimani in ascensore. Aspetta il mio segnale.»
Ha messo il piede contro una delle porte e si è appoggiato di
schiena all'altra per tenerle aperte. Ha battuto la mano sul
minuscolo spazio tra il suo fianco e il ciglio. "Forza", ha scandito
muto. L'ho scavalcato con cautela, mi sono seduta su quello
spazietto e ho buttato giù le gambe. Il tettuccio dell'ascensore
sembrava lontano chilometri. Ben ha sorriso con aria
rassicurante: "Tranquilla, Sullivan. Non ho intenzione di farti
cadere".

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Centimetro dopo centimetro, sono andata avanti fino a
sporgere il sedere. No, così non poteva funzionare. Ho ritirato su
le gambe e poi, con un'attenta manovra, sono passata in
ginocchio. Ben mi ha presa per un polso e ha alzato il pollice
della mano libera. Tenendomi al bordo e puntellandomi con le
ginocchia contro il muro, mi sono calata giù fino a ritrovarmi con
le braccia completamente distese. "Okay, Cassie. È ora di mollare
la presa. Ti tiene Ben. Già, zucca vuota, solo che Ben è ferito e
avrà sì e no la forza di un bambino di tre anni. Vedrai che, come
tu ti lasci andare, il tuo peso lo sbilancerà e cadrete tutti e due.
Lui ti finirà addosso spezzandoti l'osso del collo e poi morirà
dissanguandosi pian piano sopra il tuo corpo paralizzato..."
Oh, che cavolo!
Mi sono lasciata andare. Ben ha grugnito piano, ma non mi
ha fatta cadere né mi è capitombolato addosso. Piegandosi a
livello della vita mi ha calata giù: ormai vedevo solo la sua testa
in controluce nell'apertura, la faccia avvolta nell'ombra. Con le
punte dei piedi sfioravo il tettuccio dell'ascensore. Per quanto
dubitassi che sarebbe risultato visibile, ho tirato su il pollice in
segno di ok. Tre secondi. Quattro. E poi mi ha mollata.
In ginocchio, ho cominciato a cercare a tastoni la botola di
soccorso. C'era dell'unto, dello sporco e parecchio sporco unto.
Prima dell'elettricità, misuravano la luce in candele. Lì sotto
c'era all'incirca l'equivalente di metà di metà candela.
Poi le porte sopra di me si sono chiuse e l'intensità di quella
luce è scesa a zero.
"Grazie, Parish. Potevi almeno aspettare che trovassi la
botola."
Quando alla fine ci sono riuscita, ho scoperto che il
chiavaccio era bloccato, probabilmente per via della ruggine. Ho

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fatto per prendere la Luger con l'intenzione di usarne il calcio
come martello, ma poi mi sono ricordata di aver affidato la mia
pistola semiautomatica alle cure di un bambino di cinque anni.
Allora ho estratto il coltello dal fodero alla caviglia e ho dato al
chiavaccio tre bei colpi con l'impugnatura. Dal metallo si è levato
un gemito stridulo. E assordante. "Tanti saluti alla furtività." La
chiusura però ha ceduto. Come ho aperto la botola, è partito un
altro gemito assordante, stavolta dal cardine arrugginito. "Be', per
te che ci sei vicina certo che è assordante. Ma da fuori sembrerà
giusto un topo che squittisce. Non essere paranoica!" Mio padre
faceva sempre una battuta, a proposito della paranoia. Non
l'avevo mai trovata molto divertente, soprattutto dopo averla
sentita duemila volte: "Sono paranoico soltanto perché ho tutti
contro". Solo una spiritosaggine, pensavo all'epoca. Non un
presagio.
Sono piombata nel buio fitto della cabina dell'ascensore.
"Aspetta il mio segnale." Che segnale? Ben aveva tralasciato un
dettaglio. Ho appoggiato l'orecchio alla fessura tra le fredde porte
di metallo e ho trattenuto il respiro. Ho contato fino a dieci. Ho
fatto un bel respiro. Ho contato di nuovo fino a dieci. Ho fatto un
altro bel respiro. Dopo sei conte e cinque respiri senza sentire
niente, ho cominciato ad agitarmi un po'. Che stava succedendo?
Dov'era Ben? Dov'era Dumbo? Il nostro gruppetto si assottigliava
una persona alla volta. Grosso errore dividersi, ma in nessuno dei
casi avevamo scelta. La persona là fuori stava giocando molto
meglio di noi. E lo faceva anche sembrare una sciocchezza.
La persona o le persone: "Dopo che a Dayton abbiamo preso
a fare di testa nostra, Vosch ci ha sguinzagliato dietro due
squadre".
Ecco. Non poteva essere altrimenti. Una o magari tutte e due

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le squadre avevano trovato il nostro nascondiglio. Avevamo
aspettato troppo.
"Esatto, e perché hai aspettato, Cassiopea 'Defiance' Sullivan?
Oh, già, perché uno ormai bello che morto ha promesso che ti
avrebbe trovata. Quindi tu hai chiuso gli occhi e ti sei buttata nel
vuoto saltando dal ciglio del dirupo, e adesso ti stupisci perché
sul fondo non c'è un bel materassone? Colpa tua. Qualunque cosa
capiti ora. Sei tu la responsabile."
L'ascensore non era grande, ma in quel buio pesto sembrava
delle dimensioni di uno stadio da football. Mi trovavo in
un'enorme fossa sotterranea, un posto dove non si vedeva né si
sentiva niente, un vuoto privo di vita e luce, inchiodata a terra,
paralizzata dalla paura e dal dubbio. Sapendo -- senza intuire
come -- che il segnale di Ben non sarebbe arrivato. E intuendo --
senza sapere come -- che non sarebbe arrivato neppure Evan.
È impossibile prevedere quando cadrà il velo. Non puoi
scegliere il momento. È il momento che sceglie te. Avevo avuto
giorni per prendere di petto la verità che adesso prendeva di petto
me, in quel buco freddo e tetro, e mi ero rifiutata di farlo. Non la
volevo affrontare. Così era stata la verità a pararmisi di fronte.
Quando Evan mi aveva toccata durante la nostra ultima notte
insieme, tra noi si era annullato qualsiasi tipo di distanza,
qualsiasi tipo di confine, una sensazione che ora mi dava anche
l'oscurità della fossa. Aveva promesso che mi avrebbe trovata.
"Non ti trovo ogni volta?" E io gli avevo creduto. Dopo aver
dubitato di tutto quello che mi aveva detto dall'istante in cui ci
eravamo presentati, gli avevo creduto per la prima volta davanti
alle sue ultime parole.
Ho appoggiato il viso al metallo freddo delle porte. Mi
sentivo cadere, con chilometri e chilometri di aria sotto di me.

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Non avrei mai smesso di cadere. "Sei un'efemera. Qui per un
giorno e poi svanita." No. Io ero ancora lì. A svanire era stato lui.
«Sapevi cosa sarebbe successo dal momento in cui abbiamo
lasciato la fattoria» ho sussurrato al nulla intorno a me. «Sapevi
che saresti morto. E sei venuto lo stesso.»
Non riuscivo più a stare in piedi. Non avevo scelta. Sono
scivolata in ginocchio. Cadevo. Cadevo. Non avrei mai smesso di
cadere.
"Lascia andare, Cassie. Lascia andare."
«Lasciar andare? Sto cadendo. Sto cadendo, Evan.»
Ma sapevo cosa voleva dire.
Non l'avrei mai lasciato andare. Non davvero. Mi dicevo che
era impossibile fosse sopravvissuto un migliaio di volte al giorno.
Mi ripetevo che starcene rintanati in quel pulciosissimo albergo
era inutile, rischioso, assurdo, suicida. Ma mi aggrappavo alla
sua promessa perché lasciarla andare significava lasciar andare
lui.
«Ti odio, Evan Walker» ho mormorato rivolgendomi al vuoto.
Da dentro il vuoto -- e dal vuoto dentro -- silenzio.
"Non posso tornare indietro. Non posso andare avanti. Non
posso restare aggrappata. Non posso lasciar andare. Non posso,
non posso, non posso, non posso. C'è qualcosa che posso fare?"
Ho alzato la testa. "Okay. Quello lo posso fare."
Mi sono rimessa in piedi. "Anche quello."
Ho raddrizzato le spalle e ho infilato le dita nel punto in cui
le porte si toccavano.
"Sto uscendo" ho detto alle profondità silenziose. "Sto
lasciando andare."
Ho aperto l'ascensore a forza. La luce ha inondato il vuoto
divorando fino all'ultima e alla più piccola ombra.

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Sono sbucata nell'atrio, il nostro mondo nuovo in miniatura.
Vetri frantumati. Rifiuti ammonticchiati negli angoli come foglie
autunnali accumulate dal vento. Insetti morti distesi sul dorso, le
zampe rattrappite. Un freddo pungente. E un silenzio così
assoluto che quello del mio respiro era l'unico rumore: svanito il
ronzio, solo quiete.
Di Ben, nessuna traccia. Tra il primo piano e lo sbocco al
pianoterra doveva essergli successo qualcosa, e non poteva
trattarsi di nulla di buono. Mi sono avvicinata cauta alla porta
delle scale, combattendo l'istinto di tornare di corsa da Sam
prima che scomparisse come Ben, Dumbo, Poundcake e Teacup,
e come il 99,9% della popolazione terrestre.
Macerie scricchiolanti sotto gli scarponi. Aria fredda su viso
e mani. Dita strette intorno al fucile e occhi pressoché sbarrati
nella luce delle stelle, debole ma simile a un faro dopo il buio
pesto dell'ascensore.
"Piano. Piano. Niente errori."
Porta delle scale. Per trenta secondi buoni, mentre stringevo
la maniglia di metallo, ho tenuto l'orecchio appoggiato al legno,
ma non ho sentito che il battito del mio cuore. Poco alla volta ho
abbassato l'impugnatura e ho tirato il battente verso di me per
creare uno spiraglio sufficiente a sbirciare dall'altra parte. Buio e
silenzio assoluti. "Accidenti a te, Parish. Dove cavolo sei?"
Si poteva solo salire. Mi sono infilata nel vano scale. Clic: la
porta mi si è chiusa alle spalle. Ero ripiombata nell'oscurità, ma
stavolta ero determinata a tenerla al di fuori, là dove doveva stare.
All'odore di chiuso si mescolava quello acre della morte. Un
ratto, mi sono detta. Oppure un procione o qualche altra creatura
del bosco rimasta intrappolata lì dentro. Ho posato lo scarpone su

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qualcosa di molliccio. Ossa minuscole hanno crocchiato. Mi
sono pulita i resti appiccicosi sul bordo di un gradino: non
volevo scivolare, ruzzolare giù, rompermi l'osso del collo e restare
inerme ad aspettare che qualcuno mi trovasse e mi piantasse una
pallottola in testa. Sarebbe stata una gran brutta fine.
Appena sono arrivata sul minipianerottolo, "Un'altra rampa,
un bel respiro, ci sono quasi", è risuonato uno sparo, seguito da
un secondo colpo, poi da un terzo e infine da un'intera scarica,
mentre la persona che faceva fuoco svuotava il caricatore. Sono
partita a razzo su per i gradini che restavano, sono sbucata in
corridoio e mi sono fiondata verso la stanza a cui ora mancava la
porta, la stanza dove si trovava mio fratello, inciampando così in
qualcosa -- qualcosa di morbido che nel mio folle sprint verso
Sam non avevo notato -- e atterrando dopo un gran volo sulla
moquette inesistente con una violenza tale che mi è schioccata la
mandibola, poi sono balzata in piedi, ho girato la testa e ho visto
Ben Parish disteso a terra inerte, con le braccia in fuori e una
chiazza di sangue scuro che filtrava da quella ridicola felpa
gialla, momento in cui Sam ha lanciato un grido e io pensando
"Non è troppo tardi, non è troppo tardi" e "Ora arrivo, gran figlio
di puttana, ora arrivo" sono corsa in camera, dove un'alta sagoma
incombeva sulla figura minuta che con dita minute premeva e
premeva impotente il grilletto di una pistola scarica.
Ho fatto fuoco. La sagoma si è voltata di scatto, poi è caduta
in avanti allungandosi verso di me.
Le ho bloccato il collo con un piede e le ho conficcato la
bocca del fucile nella nuca.
«Mi spiace» ho detto senza più fiato. «Ma hai sbagliato
stanza.»

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Terza parte
L'ULTIMA STELLA

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Da piccolo sognava spesso gufi.
Erano anni che non ci pensava. Ora, mentre la sua vita
scivolava via, il ricordo riaffiorò.
Non era un ricordo piacevole.
L'uccello, appollaiato sul davanzale della finestra, fissava
dentro camera sua con occhi giallo acceso. Di tanto in tanto,
lentamente, ritmicamente, sbatteva le palpebre; per il resto, era
immobile.
Lui guardava il gufo che lo guardava, paralizzato dalla paura
senza capire perché e incapace di chiamare la madre. Ogni volta
al sogno seguivano una fase di malessere generale, con nausea,
capogiri e agitazione febbrile, e giorni con l'ansiogena e snervante
sensazione di essere osservato.
Quando aveva compiuto tredici anni, i sogni erano scomparsi.
Si era svegliato: non c'era più bisogno di nascondergli la verità.
Al momento opportuno il suo sé ridesto avrebbe sfruttato i doni
ricevuti dal "gufo". Ora che gli era stato svelato il suo, capiva
anche lo scopo dei sogni.
"Prepara. Spiana la strada."
Il gufo era una menzogna necessaria a proteggere la fragile
psiche del corpo ospite. Al suo risveglio a quella menzogna se
n'era sostituita un'altra: la sua vita. La sua umanità era una
finzione, una maschera, come il sogno del gufo nel buio.
Adesso stava morendo. E la menzogna stava morendo insieme
a lui.
Non sentiva alcun male. Non avvertiva il freddo pungente.
Aveva l'impressione di galleggiare in uno sconfinato mare tiepido.
I segnali di allarme normalmente inviati dai nervi ai centri
cerebrali del dolore erano stati bloccati. La dolcezza priva di

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tormenti con cui il suo corpo scivolava nell'incoscienza sarebbe
stata il dono finale.
E poi, dopo la morte dell'ultimo essere umano, la rinascita.
Un corpo nuovo sgravato dal ricordo della propria umanità. E
lui non avrebbe conservato memoria degli ultimi diciotto anni. I
ricordi e le emozioni a questi associate sarebbero andati perduti
per sempre... e non c'era niente che si potesse fare per la
sofferenza legata a quella consapevolezza.
"Perduti. Tutti perduti."
Il viso di lei. Perduto. Il tempo con lei. Perduto. La guerra
dichiarata tra chi era e chi fingeva di essere. Perduta.
Nella quiete del bosco velato dall'inverno, mentre galleggiava
in un mare sconfinato, si allungò verso di lei, che fuggì via.
Sapeva come sarebbe andata a finire. L'aveva sempre saputo.
Avrebbe pagato con la vita la decisione di portarla in salvo e
rimetterla in sesto dopo averla trovata imprigionata nella neve. La
virtù era un vizio, ormai, e la morte il prezzo dell'amore. Non la
morte del suo corpo. Il suo corpo era una menzogna. La morte
vera. La morte della sua umanità. La morte della sua anima.
Nel bosco, nel freddo pungente, sulla superficie di un mare
sconfinato, sussurrò il suo nome affidandone il ricordo al vento,
all'abbraccio degli alberi erti a mute sentinelle e alle cure dei fidi
astri e della sua omonima, pura ed eterna, l'incontenibile universo
contenuto in lei.
Cassiopea.

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16
Si svegliò in preda al dolore.
Un dolore lancinante alla testa, al petto, alle mani, alla
caviglia. Un bruciore fortissimo ovunque. Si sentiva come se
l'avessero immerso in acqua bollente.
Un uccello appollaiato sul ramo di un albero, un corvo, lo
guardava con regale indifferenza. Ormai il mondo apparteneva ai
corvi, pensò. Gli altri erano intrusi, creature con i giorni contati.
Un filo di fumo si attorcigliava intorno ai rami spogli sopra di
lui: un falò. C'era anche odore di carne rosolata in padella.
Era appoggiato a un albero, avvolto in una pesante coperta di
lana e con un parka arrotolato come cuscino. Sollevò la testa pian
piano, giusto di due o tre centimetri, e si rese subito conto che
qualsiasi movimento era una pessima idea.
Nel suo campo visivo ora c'era una ragazza alta con una
fascina di legna, che svanì un istante quando si chinò ad
alimentare il fuoco.
«Buongiorno.» La sua voce, bassa e melodiosa, gli era
vagamente familiare.
La ragazza gli si sedette accanto, si portò le ginocchia al petto
e si abbracciò le gambe. Anche il suo viso gli era familiare.
Carnagione chiara, capelli biondi, lineamenti nordici: ricordava
una principessa vichinga.
«Ti conosco» mormorò. Gli bruciava la gola. Lei gli appoggiò
l'imboccatura della borraccia alle labbra spellate e lui bevve un
lungo sorso.
«Bene» disse la ragazza. «Ieri notte stavi delirando. Temevo
che avessi qualcosa di più grave di una commozione cerebrale.»
Si alzò e scomparve di nuovo. Tornò reggendo una padella. Si
rimise seduta e la posò a terra in mezzo a loro. Lo studiava con la

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stessa altezzosa indifferenza del corvo.
«Non ho fame» disse lui.
«Devi mangiare.» Non lo stava pregando. Enunciava un fatto.
«Coniglio fresco. Ho preparato uno stufato.»
«È il caso che mi preoccupi?»
«No. Cucino bene.»
Lui scosse la testa e si sforzò di sorridere. Sapeva cosa
intendeva.
«Forse un po'» disse lei. «Sedici ossa rotte, frattura del
cranio, ustioni di secondo grado su buona parte del corpo. I
capelli però si sono salvati. Ce li hai ancora. È la buona notizia.»
La ragazza affondò un cucchiaio nello stufato, se lo avvicinò
alle labbra, ci soffiò leggermente sopra e passò pian piano la
lingua sul bordo.
«E qual è la cattiva notizia?» chiese lui.
«Hai una caviglia fratturata. È messa maluccio. Ci vorrà del
tempo perché si sistemi. Per il resto...» Scrollò le spalle, poi
assaggiò lo stufato e storse le labbra. «Manca il sale.»
La guardò frugare nello zaino in cerca del condimento.
«Grace» sussurrò. «Ti chiami Grace.»
«Anche» rispose lei. Poi disse il suo nome vero, quello che
portava da diecimila anni. «Devo essere sincera, però. Mi piace di
più Grace. È così facile da pronunciare!»
Girò lo stufato. Gliene offrì un po'. Lui strinse le labbra. Il
pensiero del cibo... Al che, con un'alzata di spalle, lei si portò il
cucchiaio alla bocca. «Pensavo fossero detriti dell'esplosione»
riprese. «Non mi sarei mai immaginata di trovare una delle
capsule d'emergenza, tanto meno con te dentro. Cos'è successo al
sistema di guida? L'hai disattivato?»
Lui rifletté attentamente prima di rispondere. «Un

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malfunzionamento.»
«Un malfunzionamento?»
«Sì, un malfunzionamento» ripeté più forte. Gli stava
andando a fuoco la gola. Di nuovo, lei gli tenne la borraccia per
farlo bere.
«Non troppa» lo ammonì. «Se no poi ti senti male.»
Dell'acqua gli colò sul mento. Lei lo asciugò.
«La base era compromessa.»
Sembrava sorpresa. «In che modo?»
Lui scosse la testa. «Non lo so.»
«Tu che ci facevi lì? È questo che mi pare strano.»
«Stavo seguendo una persona.» La conversazione stava
prendendo una brutta piega. Considerato che tutta la sua vita era
stata una menzogna, mentire non gli veniva per niente facile.
Sapeva che Grace non avrebbe esitato a sopprimere il corpo che
lo ospitava se avesse sospettato che la "compromissione" si
estendeva a lui. Erano tutti ben consapevoli del rischio insito
nell'indossare il mantello umano. A condividere il corpo con una
mente terrestre c'era il pericolo di prendere i vizi degli uomini,
oltre che le virtù. E ancora più pericoloso dell'avarizia, della
lussuria, dell'invidia o di qualsiasi altra cosa era l'amore.
«Tu cosa? Stavi seguendo una persona? Un essere umano?»
«Non avevo scelta.» Quello, perlomeno, era vero.
«La base era compromessa. Da un essere umano.» La ragazza
scrollò il capo per lo stupore. «E tu hai piantato il servizio di
pattuglia per fermarlo.»
Lui chiuse gli occhi. Magari avrebbe pensato che era svenuto.
L'odore dello stufato gli dava il voltastomaco.
«Certo che è curioso» disse Grace. «C'è sempre stato il
rischio di compromissione, ma dall'interno del centro operativo.

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Come faceva un essere umano del tuo settore a sapere
dell'epurazione?»
Fingersi privo di sensi non serviva a molto. Aprì gli occhi. Il
corvo non si era mosso. Stava lì e lo fissava, il che gli fece
tornare in mente il gufo sul davanzale, se stesso bambino a letto e
la paura che provava. «Per me è entrata senza saperlo...»
«Entrata?»
«Sì. Era... una femmina.»
«Cassiopea.»
Non riuscì a trattenersi e la squadrò. «E tu come...?»
«Te l'ho sentito dire diverse volte, negli ultimi tre giorni.»
«Tre giorni?»
Il suo cuore accelerò. Doveva chiederglielo. Ma in che modo?
C'era il rischio di insospettirla ancora di più. Fare domande
dirette sarebbe stato sciocco. Perciò disse: «Mi sa che è
scappata».
Grace sorrise. «Be', in tal caso sono sicura che la troveremo.»
Lui tirò un lungo sospiro di sollievo. Grace non aveva motivo
di mentire. Se avesse trovato Cassie, l'avrebbe uccisa e non
avrebbe avuto problemi a dirglielo. Il fatto che non l'avesse
trovata non bastava però a dimostrare che Cassie era viva: era
comunque possibile che non ce l'avesse fatta.
Grace frugò di nuovo nello zaino e prese un flacone di crema.
«Per le ustioni» spiegò. Tirò giù la coperta con cautela,
esponendo all'aria gelida il corpo nudo di lui. Sopra di loro, il
corvo inclinò il lucido capo nero e osservò la scena.
La crema era fredda. Le mani, calde. Grace aveva salvato lui
dal fuoco; lui aveva salvato Cassie dal ghiaccio. Attraversando un
increspato mare bianco, l'aveva portata alla fattoria e lì le aveva
tolto i vestiti e l'aveva immersa semicongelata nell'acqua calda.

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Come le mani di Grace, untuose di pomata, vagavano sul suo
corpo, così le sue dita si erano fatte strada fra il ghiaccio
incrostato nei folti capelli di Cassie. Mentre lei galleggiava
nell'acqua tinta di rosa dal suo stesso sangue, lui le aveva estratto
il proiettile. Il proiettile indirizzato al cuore. Il proiettile di cui
era unico responsabile. Poi, dopo averla tirata fuori dall'acqua e
averle bendato la ferita, l'aveva portata al letto della sorella e,
distogliendo lo sguardo, le aveva infilato una camicia da notte,
sempre della sorella: Cassie si sarebbe vergognata da morire nel
rendersi conto che lui l'aveva vista senza niente addosso.
Gli occhi di Grace fissi su di lui. Gli occhi di lui fissi
sull'orsacchiotto sul cuscino. Lui aveva coperto bene Cassie.
Grace stava coprendo bene lui.
"Te la caverai", aveva detto a Cassie. Più una preghiera che
una promessa.
«Te la caverai» gli disse Grace.
"Devi", aveva aggiunto rivolto a Cassie. «Devo» rispose
rivolto a Grace.
Il modo in cui inclinava la testa mentre lo guardava: come il
corvo sull'albero, come il gufo sul davanzale.
«Come tutti» confermò Grace annuendo lentamente. «Siamo
qui per questo.»
Si sporse in avanti e gli diede un leggero bacio sulla guancia.
Fiato caldo, labbra fresche, e il lieve odore di fumo proveniente
dalla legna. Le labbra di lei scivolarono verso la bocca. Lui si
voltò.
«Come facevi a sapere come si chiamava?» gli sussurrò
all'orecchio. «Cassiopea. Dove l'hai incontrata?»
«Ho trovato il suo accampamento. Abbandonato. Teneva un
diario...»

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«Ah. Quindi è così che hai scoperto che voleva attaccare la
base.»
«Sì.»
«Be', ma allora è tutto chiaro. E nel diario diceva anche
perché?»
«Per via di suo fratello... tipo che l'avevano portato alla
Wright-Patterson da un campo profughi... e lei invece era
scappata...»
«Però, niente male. Poi supera le nostre difese e distrugge
l'intero centro di comando. Davvero niente male. Rasenta
l'incredibile.»
Prese la padella, lanciò gli avanzi tra gli sterpi e si alzò in
piedi. Da quella posizione torreggiava su di lui, un colosso
biondo da un metro e ottanta. Aveva le guance arrossate, forse per
il freddo, forse per il bacio.
«Riposati» disse. «Ormai sei abbastanza in forze per
viaggiare. Partiamo stanotte.»
«Per andare dove?» chiese Evan Walker.
Grace sorrise. «A casa mia.»

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17
Al tramonto Grace spense il fuoco, si mise in spalla zaino e
fucile, poi sollevò Evan da terra per i venticinque chilometri di
cammino che li separavano dalla sua base nella periferia
meridionale di Urbana. Per fare prima, si sarebbe tenuta sulla
statale. A quel punto della partita il rischio era minimo: erano
settimane che non vedeva esseri umani. Quelli che non aveva
ucciso erano stati portati via dagli scuolabus o si erano messi al
riparo dall'assalto dell'inverno. Era un periodo di passaggio.
Tempo un anno, forse due, comunque non più di cinque, e non ci
sarebbe più stato bisogno di agire di nascosto perché non ci
sarebbero più state prede a cui tendere agguati.
Con il sole calò anche la temperatura. Nuvole sfilacciate
correvano nel cielo indaco, sospinte da un vento settentrionale
che si divertiva con la frangia di Grace e le alzava giocosamente il
bavero della giacca. Comparvero le prime stelle, si levò la luna e
la strada davanti a loro prese a brillare, un nastro d'argento che
serpeggiava sullo sfondo nero dei campi morti, degli
appezzamenti vuoti e degli scheletri sventrati di case abbandonate
da tempo.
Grace si fermò una volta per riposarsi, bere e spalmare altra
pomata sulle ustioni di Evan.
«C'è qualcosa di diverso in te» disse riflettendo a voce alta.
«Non riesco a metterlo a fuoco.» E intanto gli metteva le mani
dappertutto.
«Non ho avuto un risveglio semplice» buttò lì lui. «Lo sai.»
Lei fece un verso ironico. «Tu rimugini troppo, Evan, e non
sai perdere.» Lo riavvolse nella coperta. Gli passò le lunghe dita
tra i capelli. Lo guardò nel profondo degli occhi. «Mi stai
nascondendo qualcosa.»

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Lui non rispose.
«L'ho sentito» continuò. «La prima notte, quando ti ho tirato
fuori dai rottami. C'è una...» Cercò le parole giuste. «Una stanza
segreta che prima non c'era.»
«Macché stanza segreta.» La sua stessa voce gli suonò falsa,
infida come il vento.
Grace rise. «Non ti avrebbero mai dovuto inserire in un corpo,
Evan Walker. Ce li hai troppo a cuore per essere uno di loro.»
Lo tirò su con la stessa facilità con cui una madre tira su il
figlio appena nato. Alzò lo sguardo verso il cielo notturno e per
un istante le mancò il fiato. «Eccola lì! Cassiopea, la regina della
notte.» Posò la guancia sulla testa di lui. «La caccia è finita,
Evan.»

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La base di Grace era una vecchia casa a un piano e con
struttura in legno sulla Statale 68, perfettamente al centro del
settore di quindici chilometri quadrati a lei assegnato per il
servizio di pattuglia. A parte chiudere con assi le finestre rotte e
riparare le porte esterne, aveva lasciato la casa come l'aveva
trovata. C'erano ancora foto di famiglia alle pareti e, in giro,
cimeli e ricordi troppo grandi per essere portati via, più mobili
sfasciati, cassetti aperti e i tanti pezzi delle vite degli occupanti
ritenuti privi di valore dai saccheggiatori. Grace non si era
disturbata a mettere in ordine. All'arrivo della primavera e
all'esaurirsi della Quinta Onda, se ne sarebbe andata.
Portò Evan nella cameretta sul retro dell'abitazione, la stanza
dei bambini, con una carta da parati azzurro vivido, giocattoli
sparsi sul pavimento e un modellino del sistema solare che
pendeva triste dal soffitto. Lo sistemò in uno dei due letti
identici. Un bambino aveva inciso le proprie iniziali nella
testiera: K.M. Kevin? Kyle? Si sentiva odore di epidemia. Non
c'era molta luce -- Grace aveva chiuso la finestra anche lì -- ma,
dato che la sua vista era molto più acuta di quella di un normale
essere umano, Evan riusciva a vedere le macchioline scure del
sangue schizzato sui muri azzurri durante gli ultimi spasimi di
qualcuno.
Grace uscì e tornò qualche minuto dopo con altra pomata e
un rotolo di garza. Fasciò le ustioni in fretta, come se avesse
impegni urgenti altrove. Nessuno dei due parlò finché lei non lo
ebbe coperto di nuovo.
«Cosa ti serve?» chiese Grace. «Qualcosa da mangiare? Il
bagno?»
«Dei vestiti.»

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Lei scosse la testa. «Non è una buona idea. Per le ustioni ci
vorrà una settimana. Per la caviglia, due o anche tre.»
"Non ho tre settimane. Tre giorni sono troppi."
Per la prima volta pensò che forse sarebbe stato necessario
neutralizzare Grace.
Lei gli sfiorò la guancia. «Chiamami, se hai bisogno di
qualcosa. Lascia in pace quella caviglia. Io devo rimpolpare le
scorte: non aspettavo visite.»
«Quanto starai via?»
«Un paio d'ore al massimo. Cerca di dormire.»
«Mi serve un'arma.»
«Evan, non c'è nessuno nel raggio di cento chilometri.»
Sorrise. «Oh, hai paura della sabotatrice.»
Lui annuì. «Esatto.»
Grace gli mise in mano la sua pistola. «Non mi sparare.»
Lui strinse le dita sull'impugnatura. «Stai tranquilla.»
«Prima busso.»
Lui annuì di nuovo. «Mi sembra un'ottima idea.» Grace si
fermò vicino alla porta. «Quando la base è caduta, abbiamo perso
i droni.»
«Lo so.»
«Perciò siamo irrintracciabili. Dovesse capitare qualcosa a
uno dei due, oppure a tutti e due...»
«Che importa ormai? Siamo praticamente alla fine.»
Grace convenne con un cenno del capo, l'espressione
pensierosa. «Secondo te, ci mancheranno?»
«Gli umani?» Si chiese se non fosse una battuta. Non gliene
aveva mai sentite fare: scherzare non era nella sua natura.
«Non quelli là fuori.» Grace fece un gesto a indicare il più
vasto mondo oltre le pareti. «Quelli qui dentro.» Mano sul petto.

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«Non ti può mancare quello di cui non hai memoria» rispose
lui.
«Oh, io credo che i suoi ricordi li terrò» disse Grace. «Era
una ragazzina felice.»
«Allora non potrà mancarti niente, no?»
Lei incrociò le braccia. Prima stava per andarsene e ora invece
indugiava. Perché non si levava di torno?
«Sì, ma non tutti» puntualizzò, sottintendendo i ricordi.
«Terrò solo quelli belli.»
«È questo che mi ha sempre dato da pensare, Grace: più
giochiamo a fare gli umani, più umani diventiamo.»
Lei lo guardò con aria interrogativa e, per un attimo molto
lungo e molto imbarazzante, non disse nulla.
«Chi è che gioca a fare l'umano?» chiese.

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19
Aspettò che il rumore dei passi si affievolisse. Il vento
fischiava dalle fessure tra il compensato e il telaio della finestra;
a parte quello, non si sentiva niente. Così come la sua vista, il
suo udito era estremamente acuto. Se Grace fosse stata seduta sul
portico a pettinarsi, se ne sarebbe accorto.
Prima la pistola. Estrasse il caricatore. Proprio come
sospettava: non c'erano proiettili. Gli era parso che fosse troppo
leggera. Si lasciò andare a una risata sommessa. Ironia della
sorte. Il loro obiettivo principale non era uccidere, bensì seminare
diffidenza tra i sopravvissuti in modo da spingerli come pecore
impaurite in macelli tipo la Wright-Patterson. Che succede
quando chi semina diffidenza si ritrova a mieterne i frutti? Si
immaginò con una falce stile Morte. Soffocò un attacco di
ridarella isterica.
Prese un bel respiro. Avrebbe sentito parecchio male. Si mise
seduto. La stanza girava. Chiuse gli occhi. No. Era anche peggio.
Li riaprì e si augurò di rimanere dritto. Il suo corpo era stato
potenziato in vista del risveglio. Era quella la realtà mascherata
dal sogno del gufo. Il segreto che il ricordo di copertura gli
impediva di vedere e dunque di rammentare: una notte, mentre
dormivano, lui, Grace e decine di migliaia di bambini come loro
avevano ricevuto dei doni. Doni che sarebbero tornati utili negli
anni a venire. Doni che avrebbero trasformato i loro corpi in armi
finemente regolate, perché i progettisti dell'invasione avevano
capito una semplice, sebbene controintuitiva, verità: se il corpo
andava da una parte, la mente lo seguiva.
Dai a qualcuno il potere degli dei e diventerà indifferente
come loro.
Il dolore si attenuò. Il capogiro diminuì. Evan mise le gambe

100
giù dal letto. Doveva testare la caviglia. La caviglia era la chiave.
Le altre ferite erano gravi ma trascurabili: le poteva gestire. Fece
delicatamente pressione sull'avampiede e una fitta terribile gli
risalì per la gamba. Ricadde sulla schiena ansimando. Appesi in
alto, i pianeti polverosi erano congelati in orbita intorno a un sole
ammaccato.
Si rimise seduto e aspettò che gli si schiarisse la testa. Non
sarebbe riuscito a evitare il dolore. Avrebbe dovuto trovare il
modo di affrontarlo.
Si calò sul pavimento usando il bordo del letto per sostenere
il suo peso. Poi si costrinse a riposare. Non c'era bisogno di
correre. Se fosse tornata Grace, le avrebbe spiegato che era
caduto. Lentamente, un centimetro alla volta, spostò il sedere
sulla moquette fino a mettersi lungo disteso sulla schiena,
posizione da cui vedeva il sistema solare dietro una pioggia di
meteore incandescenti. La stanza era gelida, ma lui grondava di
sudore. Fiato corto. Battito accelerato. Pelle a fuoco. Si
concentrò sul modellino, sull'azzurro scolorito della Terra, sul
rosso polveroso di Marte. Il dolore arrivava a ondate: ora
galleggiava in un tipo di mare diverso.
Le assi sotto il letto erano fissate con chiodi e gravate dalla
pesante struttura e dal materasso. Amen. Si infilò in quello
spazio ristretto facendo scricchiolare i corpi degli insetti in via di
putrefazione, in mezzo ai quali spiccavano una macchinina
giocattolo cappottata e gli arti contorti di un pupazzetto di
plastica del tempo in cui le fantasticherie dei bambini erano
popolate di eroi. Liberò una delle assi sferrandole tre colpi con la
parte bassa del palmo, poi tornò indietro e liberò l'altra estremità.
Gli finì in bocca della polvere. Tossì: un altro tsunami di dolore
gli attraversò il petto, gli scese lungo il fianco e gli si strinse

101
come un'anaconda intorno allo stomaco.
Dieci minuti dopo stava di nuovo contemplando il sistema
solare, preoccupato all'idea che Grace lo trovasse svenuto con
un'asse di quasi un metro e mezzo stretta al petto. Spiegare quello
sarebbe stato forse un po' più difficile.
Il mondo prillava. I pianeti stavano immobili.
"C'è una stanza segreta..." Lui ormai c'era entrato, in quella
stanza, e lì dentro una semplice promessa vincolava con mille
catene: "Ti troverò". Quella promessa, come tutte le promesse,
creava una morale a sé stante. Per mantenerla, avrebbe dovuto
attraversare un mare di sangue.
Il mondo fuori controllo. I pianeti in ceppi.

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20
Era ormai scesa la notte quando Grace rientrò, il suo arrivo
annunciato da un chiarore crescente in corridoio. Appena posò la
lampada sul comodino, il suo viso fu avviluppato dalle ombre
proiettate dalla fiamma. Evan non protestò quando lei tirò giù le
coperte e sciolse le bende che gli coprivano le ferite, lasciandolo
nudo nonostante il freddo.
«Ti sono mancata, Evan?» mormorò mentre gli faceva
scivolare sulla pelle le dita cosparse di pomata. «Non intendo
oggi. Quanti anni avevamo, all'epoca? Quindici?»
«Sedici» rispose lui.
«Hmm. Mi hai chiesto se avevo paura del futuro. Te lo
ricordi?»
«Sì.»
«Una domanda così... umana.»
Con le dita di una mano lo massaggiava mentre con quelle
dell'altra si sbottonava lentamente la camicia.
«Sempre meno dell'altra.»
Lei inclinò la testa con aria interrogativa. I capelli le caddero
sulla spalla. Viso perso nell'ombra; camicia scesa da un lato,
simile a una tenda scostata.
«Che domanda era?» sussurrò.
«Se non ti eri sentita, per tantissimo tempo, indicibilmente
sola.»
La freschezza delle dita di lei. Il calore della carne bruciata di
lui.
«Hai il cuore che ti batte all'impazzata» disse Grace
sottovoce.
Si alzò. Evan chiuse gli occhi. "Per la promessa." Poco oltre
l'alone di luce, Grace sfilò i piedi dai pantaloni che si era lasciata

103
cadere alle caviglie. Lui non guardò.
«Sola? No, non tanto» disse Grace, solleticandogli l'orecchio
con il fiato. «Essere rinchiusi in questi corpi ha i suoi vantaggi.»
"Per la promessa." E Cassie l'isola, affiorante da un mare
pieno di sangue, verso cui nuotava.
«No, non tanto, Evan» ripeté Grace. Gli sfiorò la bocca con le
dita, il collo con le labbra.
Non aveva scelta. La promessa che aveva fatto non gliene
lasciava. Grace non l'avrebbe mai mollato, né avrebbe esitato a
ucciderlo se lui avesse provato a mollare lei. Sfuggirle
seminandola o nascondendosi era impossibile. Non aveva scelta.
Aprì gli occhi, allungò la mano destra e le passò le dita tra i
capelli. Poi infilò la sinistra sotto il cuscino. In alto vedeva il sole
che, spogliato della sua progenie, brillava solitario nella luce
della lampada. Credeva che Grace si sarebbe accorta della
sparizione dei pianeti. Si aspettava che gli chiedesse che bisogno
aveva di toglierli, anche se in realtà non era dei pianeti che aveva
bisogno.
Aveva bisogno del filo.
Ma Grace non si era accorta di niente. Stava pensando ad
altro. «Toccami, Evan» mormorò.
Lui si girò di scatto sul fianco destro e le diede un colpo sulla
mandibola con l'avambraccio opposto. Mentre lei indietreggiava
barcollando, lui si alzò dal letto piantandole la spalla nel tronco.
Lei gli conficcò le unghie nelle ustioni sulla schiena e tirò. Per
un attimo la stanza diventò nera, ma a Evan non serviva la vista:
gli serviva solo la vicinanza.
Forse Grace gli aveva scorto in mano l'aggeggio improvvisato
con due pezzi di legno e il filo del modellino, oppure era stata
semplicemente fortunata, ma il suo pugno ci si chiuse intorno e

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lo respinse mentre lui stringeva. Evan le diede un calcio alla
gamba con l'esterno della caviglia buona e la gettò a terra, dove la
seguì ficcandole, nel momento dell'impatto, il ginocchio nella
parte bassa della schiena.
Non aveva scelta.
Chiamò a sé ogni briciolo della forza potenziata che gli
restava per stringere il filo, finché questo non le tagliò il palmo
arrivando all'osso.
Grace scalciava sotto di lui. Evan portò su di slancio il
ginocchio destro e glielo premette sulla testa. Più stretto. Ancora
più stretto. Sentiva odore di sangue. Il proprio. Quello di lei.
La stanza girava.
Mentre sprofondava nel sangue, il proprio, quello di lei, Evan
Walker resistette immobile.

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A cose fatte, si trascinò fino al letto e tirò fuori l'asse rotta.
Un po' lunga come stampella -- la doveva tenere a un angolo
scomodo -- ma si sarebbe dovuto accontentare. Zoppicando andò
nell'altra camera, dove trovò dei vestiti da uomo: un paio di jeans,
una camicia a quadrettoni, un maglione fatto a mano e un
giubbotto di pelle con il nome della squadra di bowling del
proprietario, Le teste di serie di Urbana, ricamato sulla schiena.
La stoffa sfregava e strusciava contro la sua carne viva rendendo
ogni movimento una dimostrazione di cosa fosse il dolore. Poi
passò in soggiorno, dove trovò lo zaino e il fucile di Grace. Se li
mise in spalla entrambi.
Ore dopo, mentre si riposava lungo la Statale 68 in un
bozzolo di lamiere contorte al centro di un maxitamponamento di
otto macchine, aprì lo zaino per fare l'inventario e trovò decine di
piccole buste di plastica etichettate con un pennarello nero,
ciascuna delle quali conteneva ciuffetti di capelli. Lì per lì rimase
perplesso. Di chi erano quei capelli e perché si trovavano dentro
delle bustine, tutte accuratamente contrassegnate da una data?
Poi ci arrivò: Grace prendeva trofei dalle sue vittime.
"Se il corpo andava da una parte, la mente lo seguiva."
Con due pezzi di metallo rotto e quello che avanzava del
rotolo di garza si fabbricò una stecca per la caviglia. Bevve
qualche sorso d'acqua. Il suo corpo aveva un disperato bisogno di
sonno, ma Evan non aveva intenzione di dormire finché non
avesse mantenuto la promessa. Alzò lo sguardo verso i puntini di
luce pura fermi su di lui nel buio illimitato. "Non ti trovo ogni
volta?"
Il fanale anteriore dell'auto accanto esplose in una pioggia di
vetro e plastica polverizzati. Evan si tuffò sotto il veicolo più

106
vicino portandosi dietro il fucile.
Grace. Doveva essere lei. Grace era viva.
Se n'era andato troppo in fretta. Aveva fatto troppo
affidamento sulle supposizioni, sulle speranze. E adesso era in
trappola, inchiodato senza via d'uscita. In quel momento si rese
conto che a volte le promesse vengono mantenute nei modi più
inaspettati: aveva trovato Cassie diventando lei.
Ferito, bloccato sotto una macchina, incapace di correre,
incapace di alzarsi, alla mercé di un cacciatore senza volto e
senza pietà, un Silenziatore progettato per far cessare il rumore
degli uomini.

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Aveva incontrato -- o, più precisamente, ritrovato -- Grace
l'estate in cui entrambi avevano compiuto sedici anni, alla fiera
della contea di Hamilton. Lui era fuori dal tendone che ospitava il
serraglio insieme a Val, la sua sorellina, che voleva vedere la tigre
bianca da quando erano arrivati di primo mattino. Era agosto. La
fila era lunga. Val era stanca, imbronciata e appiccicosa di
sudore. Lui aveva rimandato fino a quel momento. Non gli
piacevano gli animali in cattività. Aveva l'impressione che,
quando li guardava negli occhi, qualcosa nei loro occhi guardasse
lui.
Fu Evan a notare Grace, ferma accanto al camioncino delle
frittelle con una gocciolante fetta di cocomero in mano. Capelli
biondi lunghi fino a metà schiena e lineamenti dalla freddezza
quasi artica, in particolare gli occhi azzurro ghiaccio e la piega
cinica della bocca luccicante di succo. Quando lei si voltò, lui si
affrettò a distogliere lo sguardo e riportarlo sul viso della sorella,
che sarebbe morta da lì a due anni scarsi. Un fatto che Evan si
portava sempre dietro, chiuso in un'altra stanza segreta. A volte
gli era difficile scrollarsi di dosso la consapevolezza che qualsiasi
faccia vedesse era la faccia di un futuro cadavere. Il suo mondo
era popolato di morti viventi.
«Che c'è?» chiese Val.
Lui scosse la testa. "Niente." Prese un bel respiro e lanciò
un'altra occhiata verso il camioncino. L'alta ragazza bionda era
sparita.
All'interno, oltre la rete in acciaio che fungeva da recinzione,
la tigre bianca ansimava per il caldo. I bambini le si accalcavano
davanti. Alle loro spalle risuonavano scatti di macchine
fotografiche e cellulari. La tigre rimaneva regalmente indifferente

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all'attenzione.
«Bella» mormorò una voce roca all'orecchio di Evan. Lui non
si voltò. Sapeva, senza bisogno di guardare, che era la ragazza dai
lunghi capelli biondi e dalle labbra luccicanti di succo di
cocomero. Il tendone era pieno zeppo; il braccio nudo di lei
sfiorò quello di lui.
«E triste» disse Evan.
«No» ribatté Grace. «Potrebbe squarciare quella recinzione in
due secondi. Strappare il viso a un bambino in tre. Stare lì è una
sua scelta. È questa la cosa bella.»
Lui la guardò. Da vicino i suoi occhi erano ancora più
impressionanti. Grace rispose allo sguardo e, in un istante che per
poco non lo fece stramazzare a terra, Evan riconobbe l'entità
nascosta dentro di lei.
«Dovremmo parlare» sussurrò Grace.

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23
Al crepuscolo le luci della ruota panoramica si accesero, la
musichetta aumentò di volume e la folla nel viale centrale si
ingrossò: pantaloncini strappati, infradito, profumo di crema
solare al cocco e ondeggiare di uomini panciuti con il berretto
della John Deere Macchine Agricole, le mani indurite dai calli e
il portafoglio rigonfio attaccato con una catenella a un passante
della cintura e infilato nella tasca posteriore dei calzoni. Evan
consegnò Val alla madre, poi andò alla ruota ad aspettare
nervosamente Grace. Lei sbucò dalla ressa all'improvviso,
portando con sé un maxipeluche: una tigre del Bengala bianca
con occhi di plastica di un azzurro vivido solo di poco più scuro
di quello dei suoi.
«Evan, piacere.»
«Grace.»
Guardarono l'enorme ruota girare sullo sfondo violaceo del
cielo.
«Pensi che ci mancherà, tutto questo, quando non ci sarà
più?» chiese lui.
«A me no.» Grace arricciò il naso. «Hanno un odore terribile.
Non riesco a farci l'abitudine.»
«Finora non mi era mai capitato di incontrare...»
Lei annuì. «Nemmeno a me. Credi che sia una coincidenza?»
«No.»
«Oggi non dovevo venire, ma stamattina, quando mi sono
svegliata, ho sentito una voce. "Vai." L'hai sentita anche tu?
«Sì» rispose lui con un cenno del capo.
«Bene.» Sembrava sollevata. «Sono tre anni che mi chiedo se
sono pazza.»
«Ma figurati.»

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«Tu non te lo chiedi?»
«Non più.»
Gli sorrise con aria maliziosa. «Ti va di andare a fare una
passeggiata?»
Girovagando arrivarono all'arena per le gare e le esposizioni,
in quel momento deserta, e si sedettero sulle gradinate.
Spuntarono le prime stelle. La notte era calda, l'aria umida. Grace
portava un paio di pantaloncini e una camicetta bianca sbracciata
con il colletto di pizzo. Standole seduto accanto, Evan sentiva
odore di liquirizia.
«Eccolo lì» le disse indicando con il mento il recinto vuoto
impiastricciato di segatura e letame.
«Cosa?»
«Il futuro.»
Lei rise come se Evan avesse fatto una battuta. «Il mondo
finisce. Il mondo finisce e poi ricomincia. È così da sempre.»
«Non hai mai paura di quello che ci aspetta? Sincera.»
«No, mai.» Stava abbracciando la tigre di peluche posata
sulle sue gambe. Sembrava che i suoi occhi prendessero il colore
di ciò che guardava. In quel momento, mentre osservava il cielo
che si scuriva, erano di un nero senza fondo.
Per qualche minuto parlarono nella loro lingua madre, ma era
difficile e ci rinunciarono quasi subito. Tantissime parole erano
impronunciabili. Evan notò che, dopo, lei era molto più calma e
si rese conto che a spaventarla non era il futuro, bensì il passato,
il pensiero che l'entità al suo interno potesse essere l'invenzione
della mente danneggiata di una ragazzina. Incontrare Evan aveva
confermato la sua esistenza.
«Non sei sola» le disse. Abbassò lo sguardo e si vide in mano
la mano di lei. Una per lui, una per la tigre.

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«È stato l'aspetto peggiore» convenne Grace. «Avere la
sensazione di essere soli nell'universo. Che fosse tutto qui» disse
toccandosi il petto «e da nessun'altra parte.»
Anni dopo Evan avrebbe letto qualcosa di molto simile sul
diario di un'altra sedicenne, quella che trovò e perse, che ritrovò e
perse di nuovo.
"Forse, penso a volte, sono l'ultimo essere umano sulla Terra."

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24
Il telaio della macchina contro la schiena. L'asfalto freddo
contro la guancia. L'inutile fucile stretto in mano. Era in trappola.
Grace aveva diverse alternative. Lui ne aveva due.
No. Se voleva che gli restasse qualche chance di mantenere la
promessa, ne aveva solo una: la scelta di Cassie.
Anche lei aveva fatto una promessa. Una promessa insensata e
suicida all'unica persona sulla Terra che ancora contasse per lei, e
più della sua stessa vita. Quel giorno si era alzata per affrontare il
cacciatore senza volto perché la sua morte era nulla rispetto alla
morte di quella promessa. Se c'era ancora una speranza, stava
nelle promesse senza speranza dell'amore.
Strisciando, oltrepassò il paraurti anteriore e uscì allo
scoperto; poi, come Cassie Sullivan, Evan Walker si alzò.
Si irrigidì in attesa del colpo finale. Quando Cassie si era
alzata quel terso pomeriggio d'autunno, lui, il suo Silenziatore,
era scappato. Non pensava che Grace avrebbe fatto altrettanto.
Grace avrebbe portato a termine ciò che aveva iniziato.
Ma non arrivò nessun colpo finale. Nessun proiettile che lo
riducesse al silenzio, che lo collegasse a Grace come un
cordoncino argentato. Sapeva che era lì. Sapeva che lo vedeva in
piedi sbilenco davanti alla macchina. E si rese conto che non
c'era modo di sfuggire al passato, di sottrarsi alle sue inevitabili
conseguenze: la paura, l'incertezza e il dolore di Cassie ora gli
appartenevano.
In alto, le stelle. Dritto di fronte a lui, la strada che brillava
alla luce di quelle stelle. La morsa impietosa dell'aria gelida e
l'odore medicinale dell'unguento che Grace gli aveva spalmato
sulle ustioni. "Hai il cuore che ti batte all'impazzata."
"Non ha intenzione di ucciderti" si disse. "Non è a questo che

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mira. Altrimenti non ti avrebbe mancato."
Poteva esserci una sola spiegazione: Grace voleva seguirlo.
Per lei era un mistero e seguirlo era l'unico modo di risolvere quel
mistero. Era sfuggito alla trappola soltanto per finire in un guaio
peggiore. Adesso mantenere la promessa non era più un gesto di
fedeltà: era un atto di tradimento.
Non poteva seminarla, non con la caviglia in quello stato.
Non ci poteva ragionare: ormai riusciva a malapena ad articolare i
propri pensieri. Poteva aspettare che si stufasse. Rimanere lì, non
fare niente... e rischiare che Cassie venisse sorpresa da soldati
della Quinta Onda o abbandonasse l'albergo prima che la
situazione tra lui e Grace si fosse sbloccata. Poteva cercare un
confronto, ma aveva già fallito una volta ed era probabile che
succedesse di nuovo. Era troppo debole, troppo malandato. Aveva
bisogno di tempo per guarire, ma tempo non ce n'era.
Si appoggiò al cofano dell'auto e alzò lo sguardo verso il
cielo tempestato di stelle, non più offuscato dalle luci degli
uomini e dalla patina dell'inquinamento. Quelle erano le stesse
stelle che brillavano sul mondo prima che ci mettessero piede gli
esseri umani. Le stesse identiche stelle, lì da miliardi di anni: che
cos'era per loro il tempo?
«Efemera» sussurrò Evan. «Efemera.»
Si mise in spalla il fucile e si fece strada fra i rottami per
tornare allo zaino con le scorte, che poi si buttò sull'altra spalla.
Si infilò la stampella di fortuna sotto il braccio. Il cammino
sarebbe stato lento, penosamente lento, ma avrebbe costretto
Grace a scegliere tra lasciarlo andare e seguirlo, abbandonando
così il territorio che le era stato assegnato in un momento in cui
una diserzione poteva comportare una grave battuta d'arresto
rispetto a tempistiche ben definite. Avrebbe piegato a nord

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dell'albergo, cioè verso la base più vicina. Dove il nemico era
riparato, si era nuovamente trincerato e avrebbe atteso la
primavera in vista dell'ultimo, definitivo assalto.
Era lì che era riposta la speranza, lì dove si trovava fin
dall'inizio: sulle spalle degli ignari bambini soldato che
formavano la Quinta Onda.

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25
Più tardi, quella sera d'estate di due anni prima, Evan e Grace
passeggiarono lungo il viale centrale illuminato a giorno,
zigzagando tra la gente in mezzo a due file di baracconi dove si
potevano lanciare anelli, tirare freccette e tentare canestri. La
musica usciva a tutto volume dalle casse montate sui pali
dell'elettricità, sotto le quali ribolliva il suono di mille
conversazioni, una specie di corrente a livello del fondale, e
anche il flusso della folla ricordava un fiume che mulinava e
vorticava, rapido qui, languido là. Slanciati, atletici e belli da
lasciare a bocca aperta, Evan e Grace attiravano l'attenzione dei
passanti, il che metteva lui a disagio. Non gli era mai piaciuta la
calca: preferiva la solitudine del bosco e dei campi della fattoria
di famiglia, un'inclinazione che gli sarebbe tornata utile a tempo
debito, con l'avvio della fase di epurazione.
Già, il tempo. Seppure con una gradualità impercettibile
all'occhio umano, le stelle sopra la loro testa si erano accese e
ormai erano identiche alle lucine della ruota panoramica che
incombeva sul luna park, lancette dell'orologio universale che
aveva cominciato a scaricarsi nell'istante in cui era partito. A
segnare il tempo insieme a loro c'erano i volti della gente di
passaggio. Gli unici a non essere prigionieri degli anni erano
Evan e Grace, che avevano conquistato l'inconquistabile, negato
l'innegabile. L'ultima stella sarebbe morta, l'universo stesso
sarebbe scomparso, ma loro avrebbero continuato a vivere per
sempre.
«A cosa stai pensando?» chiese Grace.
«"Il mio spirito non resterà sempre nell'uomo, perché egli è
carne."»
«Come?» Intanto sorrideva.

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«Viene dalla Bibbia.»
Lei spostò la tigre di peluche sull'altro lato in modo da
potergli prendere la mano. «Non essere lugubre. È una notte
bellissima e non ci rivedremo finché non sarà tutto finito. Il tuo
problema è che non sai vivere nel presente.»
Tirandolo, lo portò dalla via principale alla zona in ombra tra
due tendoni e lì lo baciò, spingendosi forte contro il suo corpo.
Qualcosa dentro Evan si schiuse. Lei entrò in lui e il terribile
senso di solitudine che l'aveva accompagnato fin dal suo risveglio
si attenuò.
Grace si ritrasse. Aveva le guance arrossate, gli occhi accesi
da un fuoco pallido. «Ogni tanto mi capita di pensarci. Alla
prima volta che ucciderò qualcuno. A come sarà.»
Lui annuì. «Anche a me. Di solito, però, mi capita di pensare
all'ultima.»

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Lasciò la statale e tagliò per i campi, attraversando desolati
viottoli di campagna, fermandosi a riempire la borraccia con
l'acqua di un ruscello gelido e orientandosi con la Stella Polare
alla maniera degli antichi. Le ferite lo costringevano a riposarsi
spesso e ogni volta la vedeva in lontananza. Grace non si
prendeva la briga di nascondersi: voleva sapesse che era lì,
appena oltre la portata del fucile. All'alba aveva già raggiunto la
Statale 68, la più importante fra le strade che collegavano Huber
Heights e Urbana. In una piccola macchia di alberi lungo la via,
raccolse la legna necessaria ad accendere un fuoco. Gli tremavano
le mani. Si sentiva la febbre. Aveva paura che gli si fossero
infettate le ustioni. Il suo organismo era stato potenziato, ma c'era
comunque il rischio che raggiungesse il punto di non ritorno. La
caviglia si era gonfiata fino a diventare il doppio del normale, la
pelle scottava e il punto lesionato pulsava a ogni battito del
cuore. Decise di passare lì un giorno, magari due, e tenere acceso
il fuoco.
Un faro per attirarli e usarli. Se c'erano. Se potevano essere
attirati.
Davanti a lui, la strada. Dietro di lui, il bosco. Sarebbe
rimasto allo scoperto. Grace si sarebbe tenuta tra gli alberi.
Avrebbe aspettato con lui. Fuori dal territorio a lei assegnato,
ormai pienamente coinvolta, senza modo di fare retromarcia.
Si scaldò davanti al fuoco. Grace non lo accese. A lui, luce e
calore. A lei, buio e freddo. Evan si scrollò di dosso il giubbotto,
si sfilò il maglione, si tolse la camicia. Le ustioni stavano già
facendo la crosta, ma avevano cominciato a prudergli
terribilmente. Per distrarsi, si fabbricò una stampella nuova con
un ramo recuperato nel bosco.

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Chissà se Grace si sarebbe arrischiata a dormire. Sapeva che
le forze di lui aumentavano di ora in ora e che più aspettava più le
sue probabilità di avere la meglio calavano.
La vide a metà pomeriggio del secondo giorno, un'ombra tra
le ombre, mentre raccoglieva altra legna per il fuoco. Ferma in
mezzo agli alberi a una cinquantina di metri di distanza, reggeva
un fucile di precisione a lunga gittata, con una benda
insanguinata avvolta intorno alla mano e un'altra intorno al collo.
Nell'aria sottozero sembrava che la sua voce potesse propagarsi in
tutto l'universo.
«Perché non mi hai finita, Evan?»
Lì per lì lui non rispose. Continuò a raccogliere rametti per il
faro. «Pensavo di averlo fatto» disse dopo un po'.
«No. Non ci credo.»
«Magari sono stanco di uccidere.»
«Che significa?»
Lui scosse la testa. «Non capiresti.»
«Chi è Cassiopea?»
Evan si alzò in piedi. Lì in mezzo agli alberi e sotto una
coltre di nuvole grigio ferro, la luce era debole. Ciò nonostante,
vedeva la posa cinica delle labbra di Grace e il fuoco azzurro
chiaro dei suoi occhi.
«Una che si è alzata quando chiunque altro sarebbe rimasto a
terra» disse. «Una a cui non riuscivo a smettere di pensare
nemmeno quando ancora non sapevo chi fosse. L'ultima, Grace.
L'ultimo essere umano sulla Terra.»
Seguì un lungo silenzio. Lui rimase dov'era. Lei rimase
dov'era.
«Sei innamorato di un'umana.» La voce di Grace traboccava
di stupore. E poi l'ovvio: «Non è possibile».

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«Pensavamo la stessa cosa dell'immortalità.»
«È come se uno di loro si innamorasse di una lumaca di
mare.» Ora sorrideva. «Sei pazzo. Ti sei bevuto il cervello.»
«Sì.»
Le voltò la schiena, invitando il proiettile. Era pazzo,
d'accordo, e la pazzia aveva in dotazione un'armatura.
«Non può essere!» gli gridò dietro Grace. «Perché non mi dici
cosa succede davvero?»
Evan si fermò. I rami finirono sul suolo ghiacciato. La
stampella vacillò e cadde. Lui ruotò il capo senza però girarsi del
tutto.
«Mettiti al riparo, Grace» mormorò.
Le dita di lei si contrassero sul grilletto. A dei normali occhi
umani sarebbe potuto sfuggire. A quelli di Evan no.
«Altrimenti?» chiese Grace. «Mi aggredisci di nuovo?»
Lui fece cenno di no. «Non ho nessuna intenzione di
aggredirti, io. Loro sì.»
Grace lo guardò inclinando la testa come l'uccello che lo
osservava dall'albero quando si era risvegliato nell'accampamento.
«Sono arrivati» disse Evan.
Il primo proiettile la centrò nella parte alta della coscia. Grace
barcollò all'indietro, ma rimase in piedi. Il colpo successivo le si
conficcò nella spalla sinistra facendole sfuggire di mano il fucile.
La terza pallottola, molto probabilmente sparata da un'altra
persona, finì nell'albero accanto a Evan, mancandogli la testa di
pochi millimetri.
Grace si tuffò a terra.
Evan cominciò a correre.

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27
"Correre" era una parola grossa. Più che altro cominciò a
saltellare in maniera frenetica, facendo fare un giro ampio alla
gamba andata in modo da appoggiare la maggior parte del peso su
quella buona, e ogni volta che il tallone toccava terra gli
esplodevano davanti girandole di luce accecante. Superò il fuoco
ormai ridotto a brace, il faro rimasto acceso per due giorni, il
cartello "Siamo qui!" appeso nel bosco. Non si fermò nemmeno a
recuperare il fucile; non aveva intenzione di difendere il
territorio. Sarebbe stata Grace il bersaglio di quella pattuglia di
due, o forse più, reclute. Sperava fossero di più. Così avrebbero
tenuto Grace occupata per un bel pezzo.
Quanto mancava? Quindici chilometri? Trenta? Non sarebbe
riuscito a mantenere quella velocità, ma, a patto che continuasse a
muoversi, sarebbe dovuto arrivare nei pressi dell'albergo entro
l'alba del giorno dopo.
Alle sue spalle, intanto, sentiva risuonare gli spari. Colpi
sporadici, non raffiche, dunque Grace stava procedendo con
metodo. Probabilmente i soldati indossavano il visore, il che
riequilibrava un po' le forze in campo. Non molto, ma un po'.
Lasciò perdere ogni cautela e, presa la statale, si affrettò
restando nel bel mezzo della strada, una figura solitaria sotto
l'immensità di un cielo di piombo. Uno spaventoso stormo di
corvi da un migliaio di esemplari gli sfrecciò sopra la testa e
cambiò rotta, dirigendosi a nord. Evan continuò a camminare,
grugnendo per il dolore, ogni passo una lezione, ogni fitta un
promemoria. La febbre gli era schizzata alle stelle, i polmoni gli
bruciavano, il cuore gli martellava nel petto. Lo sfregamento dei
vestiti fece aprire le croste, ancora fragili, e ben presto Evan
iniziò a sanguinare. Il sangue gli appiccicò la camicia alla

121
schiena, gli inzuppò i jeans. Stava spingendo troppo, lo sapeva.
Rischiava di mandare in tilt il sistema installato per garantire al
suo fisico una resistenza sovrumana.
Collassò quando, sotto la cupola del cielo, collassò il sole.
Fu una specie di caduta al rallentatore: prima incespicò, poi
piombò giù sulla spalla e infine rotolò sul bordo della strada,
dove si fermò disteso sulla schiena, a braccia aperte, intorpidito
dalla vita in giù, in preda a un tremore incontrollabile, rovente
nell'aria gelida. L'oscurità si srotolava sulla superficie terrestre ed
Evan Walker precipitò nelle viscere tenebrose del globo finendo
in una stanza segreta inondata di luce, e la fonte di quella luce
era il viso di Cassie, e lui non sapeva spiegarselo, non sapeva
spiegarsi come facesse il viso di Cassie a illuminare quel posto
tetro dentro di lui. "Sei pazzo. Ti sei bevuto il cervello." Il dubbio
in effetti gli era venuto. Aveva combattuto per tenerla in vita
anche se poi ogni notte la lasciava per uccidere gli altri. Che
senso aveva salvare una persona quando il mondo sarebbe morto?
Cassie illuminava il buio: la sua vita era la lampada, l'ultima
stella in un universo morente.
"Sono l'umanità" aveva scritto. Egocentrica, testarda,
sentimentale, infantile, vanesia. "Sono l'umanità." Cinica,
ingenua, gentile, crudele, morbida come velluto, dura come
acciaio al tungsteno.
Si doveva rialzare. Se non ci fosse riuscito, quella luce si
sarebbe spenta. Il mondo sarebbe stato inghiottito da un buio
opprimente. Ma l'atmosfera nella sua interezza lo schiacciava e lo
teneva giù, cinque biliardi di tonnellate di forza spezzaossa.
Il sistema era andato in tilt. Sollecitata oltre il limite, la
tecnologia aliena che era stata installata nel suo corpo umano
quando aveva tredici anni aveva ceduto. Ora non c'era più niente a

122
sostenerlo o proteggerlo. Pieno di ustioni e fratture, il suo
organismo non era diverso da quello della sua preda di un tempo.
Fragile. Delicato. Vulnerabile. Solo.
Non era uno di loro. Era in tutto e per tutto uno di loro.
Interamente Altro. Pienamente umano.
Si girò su un fianco. Aveva i crampi alla schiena. Gli finì in
bocca del sangue. Lo sputò.
Sullo stomaco. Poi sulle ginocchia. Poi ancora sulle mani. I
gomiti tremarono, i polsi minacciarono di piegarsi sotto il suo
peso. Egocentrica, testarda, sentimentale, infantile, vanesia.
"Sono l'umanità." Cinica, ingenua, gentile, crudele, morbida come
velluto, dura come acciaio al tungsteno.
"Sono l'umanità."
Avanzò carponi.
"Sono l'umanità."
Cadde.
"Sono l'umanità."
Si rialzò.

123
28
Un'eternità dopo, dal suo nascondiglio sotto il cavalcavia
della statale, Evan osservò la ragazza dai capelli scuri attraversare
svelta il parcheggio dell'albergo, imboccare la rampa di accesso
della Statale 68, percorrere qualche centinaio di metri in
direzione nord, poi fermarsi accanto a un SUV per guardare
l'edificio alle sue spalle. Seguì il suo sguardo: puntava a una
finestra del primo piano, dove per un istante si intravide una
sagoma.
"Efemera."
La ragazza dai capelli scuri svanì tra gli alberi che
fiancheggiavano la strada. Dire perché se ne fosse andata e dove
fosse diretta era impossibile. Forse il gruppo si stava dividendo --
avrebbe aumentato leggermente le probabilità di sopravvivenza --
o forse aveva mandato lei alla ricerca di un nascondiglio più
sicuro in cui passare l'inverno. In ogni caso, aveva la sensazione
di averli trovati giusto in tempo.
La ragazza dai capelli scuri era sola, quindi dentro c'erano
almeno altre quattro persone, quelle che aveva visto di guardia
alle finestre. Non sapeva se erano reduci dall'esplosione. Non era
nemmeno sicuro che fosse di Cassie la sagoma che aveva visto
oltre il vetro.
Comunque non aveva importanza. Aveva fatto una promessa.
Doveva entrare.
Non poteva andare da loro come se nulla fosse. La situazione
era complicata da troppe incognite. E se, anziché Cassie, ci fosse
stata una squadra di soldati della Quinta Onda rimasta isolata
quando era esplosa la base, tipo quella che aveva lasciato alle
cure di Grace? Sarebbe morto senza aver avuto il tempo di fare
cinque passi. D'altronde, se anche Cassie fosse stata con un

124
gruppo di superstiti, non sarebbe cambiato molto: probabilmente
l'avrebbero eliminato prima di rendersi conto di chi era.
Entrare in quel momento poneva una serie di rischi. Non
sapeva quante persone ci fossero. Non sapeva se sarebbe riuscito
a gestire quattro, ma forse neanche due, ragazzini armati di tutto
punto e dal grilletto facile carichi di adrenalina e pronti a far
fuori qualunque cosa si muovesse. Il sistema che potenziava il
suo corpo era andato in tilt. "Io sono umano" aveva detto a
Cassie. Adesso era più che mai vero.
Stava ancora soppesando le alternative quando nel parcheggio
comparve una figuretta. Una recluta con indosso la mimetica
della Quinta Onda. Non Sam -- Sam portava la tuta bianca dei
nuovi arrivati e di chi non aveva l'età per combattere -- ma
comunque piccola. A occhio e croce, sei o sette anni. Fece la
stessa strada della ragazza dai capelli scuri, compresa la sosta
accanto al SUV per guardare l'albergo. Stavolta alla finestra non si
intravide nessuna sagoma: chiunque fosse, la persona di prima
non c'era più.
Erano già due. Stavano abbandonando l'albergo uno alla
volta? Dal punto di vista tattico, poteva avere senso. Doveva
quindi limitarsi ad aspettare che Cassie uscisse anziché rischiare
la vita entrando?
Intanto, alte nel cielo, le stelle giravano segnando il tempo
agli sgoccioli.
Fece per alzarsi, poi si ributtò giù. Dall'albergo uscì una terza
figura, piazzata molto meglio di quella precedente, un ragazzino
con il testone e un fucile in spalla. Tre, dunque, e nessuno di loro
era Cassie, Sam o il compagno di liceo di Cassie... com'era che si
chiamava? Ken? A ogni nuova uscita le probabilità che Cassie
non facesse parte di quel gruppo aumentavano. Doveva entrare

125
oppure no?
Il suo istinto gli diceva di sì. Era senza risposte, senza armi e,
in pratica, senza forze. L'istinto era l'unica cosa che gli rimaneva.
Entrò.

126
29
Per più di cinque anni aveva potuto contare su doni che lo
rendevano superiore agli umani praticamente sotto ogni aspetto.
Udito. Vista. Riflessi. Agilità. Forza. Quei doni l'avevano viziato.
Si era scordato cosa volesse dire essere normali.
Gli toccò un corso accelerato in quel momento.
Si infilò in una delle camere al pianoterra passando per una
finestra con il vetro rotto. Zoppiconi, andò alla porta e ci
appoggiò l'orecchio, ma non sentì altro che il battito assordante
del suo cuore. Aprì con cautela, sgattaiolò fuori e si mise in
ascolto, aspettando invano che i suoi occhi si abituassero al buio.
Percorse il corridoio e sbucò nell'atrio. Il suo respiro che
condensava nell'aria gelida; per il resto, silenzio. A quanto
pareva, il pianoterra era deserto. Sopra, però, di guardia alla
finestrella del corridoio qualcuno c'era: l'aveva intravisto mentre
si avvicinava di soppiatto all'edificio.
Scale. Due rampe. Arrivò sul secondo pianerottolo senza fiato
per lo sforzo e con la testa che gli girava dal dolore. In bocca
sentiva il gusto del sangue. Non c'era luce. Era intrappolato
nell'oscurità più assoluta.
Se dall'altra parte della porta c'era solo una persona, aveva
qualche secondo. Se ce n'era più di una, il tempo non faceva
differenza: era morto. L'istinto gli diceva di aspettare.
Non gli diede retta.
Davanti a lui in corridoio c'era un ragazzino dalle orecchie
gigantesche che spalancò la bocca per lo stupore l'attimo prima
che Evan, premendogli l'avambraccio sulla carotide per bloccare
l'afflusso di sangue al cervello, lo imprigionasse in una morsa e
poi lo trascinasse, mentre si dibatteva, nel pozzo nero delle scale.
Il ragazzino si afflosciò prima che la porta si richiudesse.

127
Evan attese qualche secondo. In corridoio non aveva visto
nessun altro e la cattura era stata rapida e relativamente
silenziosa. Poteva volerci un po' perché gli altri -- se ce n'erano --
si accorgessero che la sentinella era scomparsa. Trascinò il corpo
privo di conoscenza del ragazzino giù per le scale e lo infilò nello
spazietto tra i gradini e il muro. Poi tornò su. Scostò appena il
battente. A metà corridoio si aprì una porta e ne sbucarono due
figure indistinte. Le vide attraversare il passaggio ed entrare in
un'altra camera. Dopo un attimo ricomparvero e andarono a una
nuova porta.
Stavano controllando le stanze. Poi sarebbe stato il turno
delle scale. O dell'ascensore: si era dimenticato dell'ascensore. Si
sarebbero lasciate cadere giù per la tromba per poi prendere le
scale dal basso?
"No. Se sono sole, si divideranno. Una di qua, l'altra di là, e
poi si rincontreranno nell'atrio."
Le guardò uscire dall'ultima camera e andare all'ascensore,
dove la prima tenne aperte le porte e la seconda si calò giù
scomparendo. Quella rimasta faceva fatica a stare in piedi: si
teneva la mano sullo stomaco e grugniva piano per lo sforzo
mentre zoppicava verso le scale cercando di non caricare troppo
sul fianco.
Evan aspettò. Cinque metri. Tre. Due. Con la destra la figura
stringeva il fucile, con la sinistra si comprimeva il fianco. Fermo
dietro la porta, Evan sorrise. "Ben. Non Ken. Ben."
"Trovato."
Limitarsi a sperare che Ben lo riconoscesse e non gli sparasse
all'istante era troppo pericoloso. Uscì di scatto e gli diede un
pugno allo stomaco con tutta la forza che aveva. Pur senza fiato
per la botta, Ben si rifiutò di andare a terra. Barcollando

128
all'indietro, sollevò il fucile. Evan scagliò via l'arma e lo colpì di
nuovo, nello stesso punto, e stavolta a terra Ben ci andò eccome,
piombando in ginocchio di fronte a lui. Rovesciò la testa
all'indietro e i loro sguardi si incrociarono.
«Lo sapevo che eri un bugiardo» disse con voce strozzata.
«Dov'è Cassie?»
Evan si inginocchiò, lo agguantò per la felpa con due mani e
avvicinò il viso al suo.
«Dov'è Cassie?»
Se fosse stato il suo vecchio sé, se il sistema non fosse andato
in tilt, avrebbe visto la forma sfocata della lama in arrivo, ne
avrebbe sentito il fischio sottilissimo mentre fendeva l'aria. Invece
non si rese conto del coltello finché Ben non glielo conficcò
nella coscia.
Cadde all'indietro trascinando con sé Ben. Mentre
quest'ultimo estraeva la lama, Evan lo spinse via, poi gli bloccò il
polso con il ginocchio in modo da neutralizzare la minaccia e gli
premette forte le mani sul viso tappando naso e bocca. Il tempo
scorreva. Sotto di lui, Ben si dibatteva, tirava calci, girava la testa
da una parte all'altra e, intanto, con le unghie della mano libera
cercava di agganciare il fucile a meno di un centimetro dalla
punta delle sue dita. Alla fine il tempo si fermò.
Ben restò immobile ed Evan si lasciò cadere al suo fianco
boccheggiando, fradicio di sangue e sudore, con la sensazione
che gli stesse per andare a fuoco il corpo. Non ebbe tempo di
riprendersi, però: lungo il corridoio, dallo spiraglio di una porta,
un visino a forma di cuore si affacciò a guardarlo.
Sam.
Si alzò in piedi, perse l'equilibrio, andò a sbattere contro il
muro, cadde. Si ritirò su, ormai certo che fosse Cassie la persona

129
che si era calata nella tromba dell'ascensore, ma prima doveva
mettere al sicuro Sam, che però aveva chiuso la porta e gli stava
urlando parolacce. L'attimo dopo, mentre lui afferrava la
maniglia, aprì il fuoco.
Evan si buttò contro la parete lì accanto aspettando che Sam
svuotasse il caricatore. Quando ci fu una pausa, non ebbe
esitazioni. Doveva bloccarlo prima che ricaricasse l'arma.
Aveva due possibilità: aprire la porta dandole un calcio con il
piede malmesso o appoggiare tutto il peso su quest'ultimo e tirare
il calcio con l'altro. Nessuna delle due alternative era il top.
Decise di calciare con il piede rotto: non poteva rischiare di
perdere l'equilibrio.
Tre calci forti e secchi. Tre calci che gli causarono un dolore
mai provato prima. Ma la serratura cedette di schianto e la porta
si spalancò sbattendo dal lato interno. Sbilanciato, Evan piombò
in camera e vide il fratellino di Cassie che, muovendosi
all'indietro come un gambero, andava verso la finestra. In qualche
modo riuscì a restare in piedi; qualcosa lo sostenne e lo spinse
verso il bambino con le mani tese in avanti: "Sono qui, ti ricordi
di me? Ti ho già salvato, ti salverò ancora...".
E poi, alle sue spalle, l'ultimo essere umano, l'ultima stella, la
ragazza che aveva portato in braccio per un infinito mare bianco,
la cosa per cui era pronto a morire, fece fuoco.
E quando andò a segno, il proiettile li collegò come un
cordoncino argentato.

130
Quarta parte
MILIONI

131
30
Smise di parlare l'estate dell'epidemia.
Suo padre era scomparso. La loro scorta di candele si stava
assottigliando e una mattina lui uscì per cercarne altre. Non tornò
più.
Sua madre non stava bene. Le faceva male la testa. Aveva
dolori dappertutto. Anche ai denti, gli diceva. La notte era il
momento peggiore. La febbre le schizzava alle stelle. Era un
continuo vomitare. La mattina si sentiva sempre meglio. Magari
mi sta passando, buttava là. Si rifiutava di andare in ospedale.
Avevano sentito troppe storie, storie terribili, sugli ospedali, gli
ambulatori e i ricoveri d'emergenza.
Uno alla volta, i loro vicini avevano levato le tende. I
saccheggi stavano aumentando e di notte le strade pullulavano di
bande. Il signore che viveva due case più in là era stato ucciso
con un colpo di arma da fuoco alla testa perché non aveva voluto
cedere parte dell'acqua potabile della sua famiglia. Ogni tanto
capitavano nel quartiere sconosciuti che raccontavano storie di
terremoti, muri d'acqua alti centocinquanta metri e allagamenti
fino a Las Vegas. I morti erano migliaia. Milioni.
Quando sua madre diventò troppo debole per scendere dal
letto, il piccolino divenne responsabilità sua. Lo chiamavano
così, ma in realtà aveva quasi tre anni. Non lo portare qui, diceva
sua madre. Sennò si ammala. Non dava molto da fare. Dormiva
un sacco. Giocava poco. Era solo un bambino: non capiva. A
volte chiedeva dov'era papà o cosa aveva mamma. Ma perlopiù
chiedeva da mangiare.
Stavano esaurendo le provviste di cibo. Ma sua madre non gli
permetteva di uscire. È troppo pericoloso. Finisce che ti perdi.
Che ti rapiscono. Che ti sparano. Lui controbatteva. Aveva otto

132
anni ed era ben messo per la sua età, tanto che a scuola lo
prendevano di mira con sfottò e insulti crudeli da quando di anni
ne aveva sei. Era in grado di cavarsela. Sapeva badare a se stesso.
Ma lei non lo lasciava andare. Io tanto vomito tutto e tu puoi
anche buttare giù un po' di peso. Non lo diceva con cattiveria:
cercava di metterla sul ridere. Lui, però, non ci trovava niente da
ridere.
E così arrivarono alla loro ultima lattina di zuppa condensata
e al loro ultimo pacchetto di cracker stantii. Scaldò la zuppa nel
camino con un fuoco alimentato da pezzi di mobili rotti e da
vecchi numeri della rivista di caccia del padre. Il piccolino si
spazzolò i cracker, ma disse che non voleva la zuppa. Voleva la
pasta al formaggio. Non ce l'abbiamo, la pasta al formaggio.
Abbiamo zuppa e cracker, nient'altro. Il piccolino iniziò a
piangere e rotolarsi per terra davanti al camino gridando che
voleva la pasta al formaggio.
Lui portò una scodella di zuppa alla madre. Aveva la febbre
alta. La notte prima aveva cominciato a vomitare una roba nera e
grumosa formata dal rivestimento dello stomaco misto a sangue,
cosa che però all'epoca lui non sapeva. Lei lo guardò entrare in
camera con occhi vitrei, inespressivi, lo sguardo fisso della Morte
Rossa.
Ma che stai facendo? Come se la potessi mangiare. Portala
via.
Lui la portò via e la mangiò in piedi al lavandino di cucina
mentre suo fratello si rotolava per terra gridando e, adesso che il
virus le invadeva il cervello, sua madre sprofondava sempre più
nell'alienazione. Nelle ultime ore sarebbe scomparsa. La sua
personalità, i suoi ricordi, la sua coscienza di sé si sarebbero
arresi al corpo. Finì la zuppa ormai tiepida e poi leccò ben bene

133
la scodella. Il giorno dopo sarebbe uscito. Non c'era più cibo.
Avrebbe detto a suo fratello di non muoversi per nessuna ragione
e non sarebbe rientrato finché non avesse trovato da mangiare per
tutti.
Sgattaiolò fuori di mattina. Cercò in negozi e supermercati in
stato di abbandono. Cercò in ristoranti e fast food depredati.
Trovò cassonetti puzzolenti di frutta e verdura marce e
traboccanti di sacchi della spazzatura strappati in cui, prima delle
sue, avevano già rovistato molte altre mani. A pomeriggio ormai
inoltrato l'unica cosa commestibile che era riuscito a scovare
bastava giusto per un boccone: una merendina grande quanto un
palmo, ancora nell'involucro di plastica, sotto uno scaffale vuoto
presso un distributore di benzina. Era già tardi; il sole stava
calando. Decise di tornare indietro e riprovare la mattina dopo.
Magari, merendine o no, nascosto o perso c'era dell'altro: doveva
guardare meglio.
Quando arrivò a casa, trovò la porta d'ingresso accostata. Si
ricordava di essersela chiusa alle spalle perciò capì subito che
c'era qualcosa che non andava. Corse dentro. Chiamò il fratello.
Andò di stanza in stanza. Guardò sotto i letti, dentro gli armadi e
nelle macchine parcheggiate fredde e inutili in garage. Sua madre
lo costrinse a raggiungerla in camera. Dov'era andato? Il
piccolino non la smetteva di piangere. Lui le chiese dov'era e lei,
brusca, rispose: non lo senti?
Ma lui non sentiva niente.
Uscì e si mise a chiamarlo per nome. Controllò in giardino,
andò alla casa dei vicini e bussò alla porta. Bussò a ogni porta
lungo la strada. Non rispose nessuno. O erano troppo spaventati
per affacciarsi, o erano malati, morti o anche solo partiti.
Percorse diversi isolati prima in una direzione e poi nell'altra,

134
gridando il nome del fratello fino a diventare rauco. Un'anziana
uscì barcollante sul portico e gli strillò di andarsene; aveva
un'arma. Tornò a casa.
Il piccolino era sparito. Decise di non dirlo alla madre. Tanto
cosa poteva farci? Non voleva che desse la colpa a lui. Avrebbe
potuto portarlo con sé, ma pensava che lasciarlo a casa fosse più
sicuro. Casa è il posto più sicuro del mondo.
Quella notte sua madre lo chiamò. Dov'è il mio piccolino? Le
disse che stava dormendo. Era la notte peggiore in assoluto.
Fazzoletti intrisi di sangue appallottolati sul letto. Altri
ammassati sul comodino, sparsi sul pavimento.
Portami il mio piccolino.
Sta dormendo.
Voglio vedere il mio piccolino.
Rischi di farlo ammalare.
Lo maledisse. Gli urlò di andare all'inferno. Gli sputò
addosso muco sanguinolento. Lui rimase sulla soglia, muovendo
nervosamente le mani in tasca, e l'involucro della merendina
scricchiolò, la plastica danneggiata dal caldo.
Dove sei stato?
A cercare da mangiare.
Ebbe un conato. Non pronunciare quella parola!
Lo guardò con occhi rossi e iniettati di sangue.
E perché sei stato a cercare da mangiare? Non hai bisogno di
mangiare. Sei la più disgustosa palla di lardo che abbia mai visto.
Potresti arrivare fino all'inverno solo con il grasso che hai sulla
pancia.
Lui rimase in silenzio. Sapeva che era la malattia a parlare,
non sua madre. Sua madre gli voleva bene. Quando le prese in
giro dei compagni erano peggiorate, era andata dal direttore per

135
dirgli che, se non avesse messo fine a quelle angherie, avrebbe
fatto causa alla scuola.
Cos'è questo rumore? Questo rumore terribile?
Lui rispose che non sentiva niente. Lei si arrabbiò
moltissimo. Ricominciò a maledirlo e gli schizzi di saliva e
sangue arrivarono fino alla testiera del letto.
Sei tu che lo fai. Con cosa stai giocherellando lì in tasca?
Non aveva modo di evitarlo. Doveva fargliela vedere. Quando
estrasse la merendina, lei gli urlò di metterla via e non tirarla mai
più fuori. Non c'era da stupirsi che fosse così grasso. Non c'era da
stupirsi che suo fratello morisse di fame mentre lui si ingozzava
di merendine e caramelle e pasta al formaggio. Che razza di
mostro era a mangiare tutta la pasta al formaggio di suo fratello?
Cercò di difendersi. Ma ogni volta che apriva bocca, lei gli
strillava di stare zitto, zitto, zitto. La sua voce le dava il
voltastomaco. Lui le dava il voltastomaco. Era stato lui. Era stato
lui a fare del male al padre, lui a fare del male al fratello e sempre
lui a fare del male a lei, a farla ammalare, ad avvelenarla: ecco, sì,
la stava avvelenando.
E ogni volta che lui cercava di rispondere, lei gli gridava
contro. Zitto, zitto, zitto.
Morì due giorni dopo.
Lui la avvolse in un lenzuolo pulito e la portò in giardino.
Annaffiò il corpo con il liquido che un tempo il padre usava per
accendere la carbonella e gli diede fuoco. Finito con quello,
bruciò tutta la biancheria del letto. Per una settimana aspettò che
il fratello tornasse, cosa che non avvenne. Lo cercò, e cercò anche
da mangiare. Trovò da mangiare, ma non il fratello. Smise di
chiamarlo. Smise di parlare. Restò, semplicemente, zitto.
Un mese e mezzo dopo stava camminando lungo una statale

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punteggiata di veicoli in panne e rottami di macchine, camion e
moto quando vide in lontananza del fumo nero e, dopo pochi
minuti, la fonte di quel fumo, uno scuolabus giallo pieno di
bambini. A bordo c'erano dei soldati e i soldati gli chiesero come
si chiamava e di dov'era e quanti anni aveva, e poi si ricordava di
essersi messo le mani in tasca per l'agitazione e di aver trovato la
vecchia merendina, ancora nell'involucro.
Palla di lardo. Fino all'inverno solo con il grasso che hai sulla
pancia.
Che cos'hai, ragazzo? Non sei buono a parlare?
Al sergente istruttore giunse voce del suo arrivo al campo con
solo i vestiti che aveva indosso e una merendina in tasca. Prima
di sentire quella storia, lo chiamava Cicciobombo. Dopo aver
sentito quella storia, lo ribattezzò Poundcake, come la torta.
Mi piaci, Poundcake. Mi piaci perché sei un talento naturale,
a sparare. Scommetto che sei schizzato fuori da mammina
tenendo di qua una pistola e di là una ciambella. Mi piaci perché
hai la faccia di Taddeo e il cuore di Mufasa, porca vacca. E,
soprattutto, mi piaci perché non parli. Nessuno sa da dove vieni,
che hai fatto, cosa pensi e come stai. Non lo so e me ne sbatto,
cazzo, e mi sa che te ne sbatti pure te. Sei un assassino muto e
freddo come il ghiaccio, uscito dalle tenebre con un cuore di
tenebra, non è così, soldato Poundcake?
No, non era così.
Non ancora.

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Quinta parte
IL PREZZO

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31
La prima cosa che volevo fare quando si fosse svegliato era
ucciderlo.
Se si fosse svegliato.
Dumbo aveva i suoi dubbi. «È messo male» ha detto dopo
avermi aiutata a spogliarlo e aver dato una bella occhiata al
danno. Ferita da taglio a una gamba, ferita da arma da fuoco
all'altra, ustioni dappertutto, ossa rotte, febbre alta e tremori:
nonostante la montagna di coperte, Evan era scosso da brividi
così violenti che pareva stesse vibrando il letto.
«Setticemia» ha mormorato Dumbo. Poi, vedendo che lo
fissavo come un'ebete, ha aggiunto: «È quando l'infezione ti
passa nel sangue».
«Cosa facciamo?» ho chiesto.
«Antibiotici.»
«Che non abbiamo.»
Mi sono seduta sull'altro letto. Sam si è spostato verso il
fondo stringendo la pistola scarica. Si rifiutava di lasciarla. Ben,
appoggiato al muro, teneva in braccio il fucile e guardava Evan
circospetto, come se fosse sicuro che da un momento all'altro
sarebbe saltato su e avrebbe nuovamente tentato di ucciderci.
«Non aveva scelta» gli ho detto. «Non poteva mica presentarsi
in piena notte contando sul fatto che nessuno gli sparasse...»
«Voglio sapere dove sono Poundcake e Teacup» ha sibilato
lui digrignando i denti.
Dumbo gli ha suggerito di mettersi seduto. Aveva cambiato la
fasciatura, ma la perdita di sangue era stata notevole. Ben l'ha
zittito con un gesto. Si è spinto via dal muro, è andato
zoppicando al letto di Evan e gli ha rifilato un manrovescio.
«Svegliati!» Ciaf. «Svegliati, figlio di puttana!»

139
Mi sono alzata di scatto e l'ho afferrato per il polso prima che
lo colpisse ancora.
«Ben, non serve a...»
«D'accordo.» Si è liberato con uno strattone e si è diretto alla
porta. «Li trovo da solo.»
«Zombi!» ha strillato Sam. È balzato in piedi e l'ha raggiunto.
«Vengo anch'io!»
«Piantatela, tutti e due» ho sbottato. «Nessuno va da nessuna
parte finché non...»
«Cosa, Cassie?» ha gridato Ben. «Finché non cosa?»
Ho aperto la bocca, ma non sono riuscita a spiccicare parola.
Sam stava tirando Ben per il braccio: "Andiamo, Zombi!". Un
bambino di cinque anni che brandisce una pistola scarica: ecco
una bella metafora.
«Ben, stammi a sentire. Mi stai a sentire sì o no? Esci ora...»
«Io sto uscendo ora...»
«... e c'è il caso che perdiamo anche te!» ho finito alzando il
volume. «Non sai cos'è successo là fuori. Magari Evan li ha stesi
come ha fatto con te e con Dumbo, ma magari no, magari stanno
tornando in questo istante e uscire è solo un rischio stupido...»
«Risparmiami le lezioncine sui rischi stupidi. So già tutto
sui...»
A quel punto ha ondeggiato. È sbiancato ed è caduto in
ginocchio mentre Sam lo teneva inutilmente per la manica. Io e
Dumbo l'abbiamo tirato su e portato al letto vuoto, dove si è
lasciato andare inveendo contro di noi, contro Evan Walker e
contro tutta quanta quella situazione di merda. Dumbo mi
guardava come un cerbiatto davanti ai fari di un'auto in corsa,
un'espressione tipo "Tu hai una soluzione, vero? Tu sai cosa fare,
vero?".

140
Sbagliato.

141
32
Ho tirato su il fucile di Dumbo e gliel'ho sbattuto sul petto.
«Siamo ciechi. Scale, le due finestre del corridoio, stanze a
est, stanze a ovest, spostati da un punto all'altro e tieni gli occhi
aperti» ho detto. «Io rimango qui con i maschi alfa a cercare di
impedire che si ammazzino a vicenda.»
Dumbo annuiva come se capisse, ma non si schiodava. Gli ho
messo le mani sulle spalle e l'ho guardato fisso negli occhi
tremolanti. «Muoversi, Dumbo. Ricevuto? Muoversi.»
Ha fatto un sì secco con la testa, tipo sparacaramelle PEZ
umano, ed è uscito di camera tutto mogio. Andarsene era l'ultima
cosa che aveva voglia di fare, ma ormai era da parecchio che si
trovava in quella condizione, la condizione di fare l'ultima cosa
che aveva voglia di fare.
Alle mie spalle, Ben stava mugugnando: «Perché non l'hai
preso in testa? Perché al ginocchio?».
«Per la legge del contrappasso» ho mormorato. Mi sono
seduta accanto a Evan. Gli vedevo guizzare gli occhi dietro le
palpebre. L'avevo creduto morto. Gli avevo detto addio. Adesso
era lì vivo e c'era il rischio che non riuscissi nemmeno a dirgli
ciao. "Siamo solo a cinque chilometri da Camp Haven, Evan.
Perché ci hai messo così tanto?"
«Non possiamo rimanere qui» ha decretato Ben. «Ho fatto
male a mandare avanti Ringer da sola. Lo sapevo che non ci
dovevamo dividere. Domattina alziamo i tacchi.»
«In che modo?» ho chiesto. «Sei ferito. Ed Evan è...»
«La cosa non lo riguarda» ha ribattuto. «Be', per te sì,
immagino...»
«È grazie a lui che sei qui libero di rompere, Parish.»
«Non sto rompendo.»

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«Sì invece. Stai rompendo come la principessa sul pisello.»
Sammy è scoppiato a ridere. Che ricordassi, non succedeva da
quando era morta mamma. Mi ha fatto fare un balzo, quasi mi
fossi imbattuta in un lago in mezzo al deserto.
«Cassie ti ha dato della principessa sul pisello» l'ha informato
Sam nel caso gli fosse sfuggito.
Ben l'ha ignorato. «Prima non c'era e dovevamo aspettarlo,
ora c'è e siamo comunque intrappolati qui. Fai quello che ti pare,
Sullivan. Domattina io me ne vado.»
«Anch'io!» ha gridato Sams.
Ben si è alzato, è rimasto un attimo fermo sbilenco accanto al
letto per riprendere fiato e poi si è avviato alla porta. Sam l'ha
seguito. Non ho nemmeno provato a trattenerli. A che pro? Ben
ha scostato il battente e a mezza voce ha urlato a Dumbo di non
sparargli: stava uscendo per aiutarlo. Poi io ed Evan ci siamo
ritrovati soli.
Mi sono spostata sul letto appena lasciato da Ben.
Conservava ancora il calore del suo corpo. Ho preso
l'orsacchiotto di Sam e me lo sono messo in grembo.
«Mi senti?» gli ho chiesto. A Evan, non all'orsacchiotto.
«Direi che adesso siamo pari, no? Tu mi hai sparato al ginocchio,
io ti ho sparato al ginocchio. Tu mi hai vista a culo nudo, io ti ho
visto a culo nudo. Tu hai pregato per me, io...»
La camera si è sfocata. Ho afferrato Orso e l'ho usato per dare
una botta sul petto a Evan.
«E poi cos'era quel giubbotto ridicolo che avevi indosso? Le
teste di serie, come no. Le teste di rapa, semmai.» L'ho colpito di
nuovo. «Testa di rapa.» Ancora. «Testa di rapa.» Ancora. «E
adesso hai intenzione di schiattarmi davanti? Eh?»
Le sue labbra si sono mosse e ne è uscita lentamente una

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parola, come aria che esce da una gomma.
«Efemera.»

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33
Ha aperto gli occhi. Quando mi è tornato in mente che
scrivendo li avevo paragonati a caldo cioccolato fuso, dentro di
me è partito un "oddio". Perché mi faceva quell'effetto? Non ero
io, quella. Perché avevo lasciato che mi baciasse e coccolasse e
più in generale mi gironzolasse intorno come un cucciolo alieno
triste e smarrito? Chi cavolo era? Da che versione distorta della
realtà si era trasportato nella mia personale versione distorta della
realtà? Non c'era niente che quadrasse. Niente che avesse senso.
Okay, forse il suo ipotetico amore per me era paragonabile al mio
ipotetico amore per uno scarafaggio, ma come definire le reazioni
che mi scatenava? Come?
«Se non stessi morendo e bla bla bla, ti direi di andare al
diavolo.»
«Non sto morendo, Cassie.» Palpebre sfarfallanti. Faccia
sudata. Voce tremante.
«Okay, allora vai al diavolo. Mi hai lasciata, Evan. Al buio, di
colpo, e poi mi hai fatto saltare in aria la terra sotto i piedi.
Avresti potuto ucciderci tutti quanti. Mi hai abbandonata proprio
quando...»
«Sono tornato.»
Ha allungato la mano. «Non mi toccare.» "Ora basta con i
tuoi inquietanti trucchetti fondimente da vulcaniano."
«Ho mantenuto la promessa» ha sussurrato.
Be', che rispostaccia avevo per quello? Era stata proprio una
promessa a portarmi da lui all'inizio. Certo che era davvero strano
ritrovarsi a ruoli invertiti. La sua promessa al posto della mia. Il
mio proiettile al posto del suo. Persino lo spogliarci a vicenda
perché non c'era altra scelta: aggrapparsi al pudore dopo l'avvento
degli Altri era come sacrificare una capra per far piovere.

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«Per poco non ti beccavi una pallottola in testa, imbecille» gli
ho detto. «Non ti è venuto in mente che potevi gridare su per le
scale: "Ehi, sono io! Non sparate!"?»
Ha scosso il capo. «Troppo pericoloso.»
«Oh, giusto. Molto più pericoloso che rischiare un buco in
fronte. Dov'è Teacup? E Poundcake?»
Ha scosso di nuovo il capo. "Chi?"
«La bambina che se l'è svignata per la statale. Il ragazzino che
le è corso dietro. Devi averli visti per forza.»
A quel punto ha annuito. «Sono andati a nord.»
«Be', lo so anch'io da che parte sono andati...»
«Non li seguire.»
Al che mi sono bloccata. «Scusa?»
«Non è sicuro.»
«Non esistono posti sicuri, Evan.»
Aveva gli occhi mezzi rovesciati all'indietro. Stava per
svenire. «C'è Grace.»
«Che hai detto? Grace? Grace chi? Che significa "C'è
Grace"?»
«Grace» ha mormorato, e poi ha perso i sensi.

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Sono rimasta con lui fino all'alba, seduta al suo fianco come
lui sedeva al mio alla fattoria. Mi ci aveva portata contro la mia
volontà e poi la mia volontà aveva portato lui lì, il che forse
voleva dire che eravamo l'uno dell'altra. Oppure che eravamo, più
semplicemente, in debito l'uno con l'altra. A ogni modo, i debiti
non si ripagano mai del tutto, non per davvero, non quelli che
contano sul serio. "Sei stata tu a salvare me" mi aveva detto, e
all'epoca non avevo capito a cosa alludesse. Era stato prima che
mi raccontasse chi era realmente, e poi avevo pensato che
intendesse che l'avevo salvato dalla storiaccia delle stragi e del
genocidio umano. Ora invece cominciavo a pensare che
intendesse che l'avevo salvato non da qualcosa, bensì per
qualcosa. La parte difficile, quella senza risposta, quella che mi
spaventava a morte, era cosa mai fosse quel qualcosa.
Si lamentava nel sonno. Conficcava le unghie nelle coperte.
Delirava. "Ci sono passata anch'io, Evan." Gli ho preso la mano.
Piena di ustioni, lividi e fratture, e io mi ero chiesta perché ci
avesse messo così tanto a trovarmi? Probabilmente era arrivato
strisciando. Scottava e aveva il viso lucido di sudore. Per la prima
volta mi sono resa conto che poteva morire, e per giunta di lì a
poco, dopo essere tornato dal mondo dei morti.
«Te la caverai» gli ho detto. «Devi. Promettimelo, Evan.
Promettimi che te la caverai. Promettimelo.»
Poi ho un tantino esagerato. Ho cercato di trattenermi. Non ci
sono riuscita.
«Così si completerà il cerchio e ne saremo fuori; ne saremo
fuori tutti e due, sia io che te. Tu hai sparato a me e io sono
sopravvissuta. Io ho sparato a te e tu sopravvivi. Capito? È così
che funziona. Chiedilo a chi vuoi. In più considera che sei Mister

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Diecimillenni, il supereroe scelto dal destino per salvare noi
poveri umani dall'orda intergalattica. È il tuo compito. La cosa
per cui sei nato. O sei stato allevato. Quel che è, insomma. Sai,
come piano per la conquista del mondo il vostro fa piuttosto
schifo. È passato quasi un anno e noi siamo ancora qui, e chi è
quello cappottato come un insetto con la bava sul mento?»
In effetti un filino di bava sul mento ce l'aveva. Gliel'ho
asciugato tamponandolo con un angolo della coperta.
La porta si è aperta ed è entrato il buon vecchio Poundcake.
Dietro di lui, Dumbo, con un sorriso da orecchio a sventola a
orecchio a sventola, poi Ben e infine Sam. "Infine" nel senso che
Teacup non c'era.
«Come sta?» ha chiesto Ben.
«Scotta» ho risposto. «Prima delirava. Continuava a parlare di
una certa Grace.»
Ben ha aggrottato le sopracciglia. «Grace chi?»
«Magari è sua parente» ha suggerito Dumbo. «Sarà morta.»
Poundcake è andato alla finestra e si è messo a fissare il
parcheggio ghiacciato. L'ho seguito con lo sguardo mentre
attraversava la camera con la sua andatura da Ih-Oh, poi mi sono
girata verso Ben. «Cos'è successo?»
«Non vuole parlare.»
«Allora costringilo. Sei il sergente, no?»
«Secondo me, non è capace.»
«Quindi Teacup è scomparsa e noi non sappiamo né dove è
andata né per quale motivo.»
«Avrà raggiunto Ringer» ha ipotizzato Dumbo. «E Ringer
avrà deciso di portarla alle grotte senza sprecare tempo a
riaccompagnarla qui.»
Ho indicato Poundcake con la testa. «E lui dov'era?»

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«L'ho trovato fuori» ha detto Ben.
«A far che?»
«Niente... gironzolava.»
«Gironzolava? Davvero? Vi siete mai chiesti per che squadra
gioca Poundcake?»
Ben ha scosso il capo con aria stanca. «Sullivan, non
iniziare...»
«Sul serio. Questa del mutismo potrebbe essere tutta scena.
Per non dover rispondere a domande scomode. E poi calcola che
sarebbe furbo piazzare qualcuno in ogni squadra, metti che dopo
il lavaggio del cervello una recluta cominci ad aprire gli occhi...»
«Certo, e prima di Poundcake questo qualcuno era Ringer.»
Ben stava perdendo la pazienza. «Il prossimo sarà Dumbo.
Oppure sarò io. Quando il tipo che ha ammesso di essere il
nemico se ne sta lì a tenerti la mano.»
«Per la precisione, sono io a tenergli la mano. E lui non è il
nemico, Parish. Mi sembrava che ne avessimo già parlato.»
«Come facciamo a sapere che non ha ucciso Teacup? Oppure
Ringer? Eh, come facciamo?»
«Oh, santo cielo, guardalo. Non potrebbe uccidere una...
una...» Ho cercato di pensare a cosa avrebbe avuto la forza di
uccidere, ma l'unica parola che il mio cervello affamato e
bisognoso di sonno è riuscita a partorire è stata "efemera", e
sarebbe stata una scelta davvero pessima. Una specie di
malaugurio involontario, se un malaugurio può essere
involontario.
Ben si è girato di scatto verso Dumbo, che ha sussultato.
Credo preferisse che l'ira di Ben fosse diretta ad altri. «Si
riprenderà?»
Con la punta delle orecchie che virava al rosa shocking,

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Dumbo ha scrollato la testa. «È ridotto male.»
«Appunto. Quanto male? Quanto ci vorrà perché possa
viaggiare?»
«Un po'.»
«Porco cane, Dumbo, quanto?»
«Un paio di settimane? Un mese? Ha una caviglia rotta, ma
non è quello il problema. C'è l'infezione, poi il rischio di
cancrena...»
«Un mese? Un mese!» Ben è scoppiato in una risata per nulla
divertita. «Prende d'assalto questo posto, mette te fuori gioco,
suona me come un tamburo e un paio di ore dopo non si può
muovere per un mese!»
«Allora vattene!» gli ho gridato dall'altro capo della stanza.
«Andatevene tutti. Di lui mi occupo io. Vi seguiremo appena
possibile.»
La bocca di Ben, fino a quel momento spalancata, si è chiusa
di botto. Sam stazionava accanto a lui, un ditino agganciato a un
passante della cintura del suo amico grande e grosso. Di fronte a
quella scena qualcosa nel mio cuore ha avuto un piccolo
cedimento. Ben mi aveva detto che al campo chiamavano mio
fratello "il cane di Zombi" perché gli era sempre fedele al fianco.
Dumbo stava annuendo. «A me pare ragionevole, sergente.»
«Avevamo un piano» ha detto Ben senza muovere le labbra o
quasi. «E lo rispetteremo. Se Ringer non torna entro domani a
quest'ora, sloggiamo.» Mi ha guardata truce. «Tutti quanti.» Ha
indicato Poundcake e Dumbo con il pollice. «Se ce n'è bisogno,
il tuo ragazzo lo portano loro.»
Poi si è girato, è andato a sbattere contro il muro, è
rimbalzato tipo pallina da flipper, ha preso la porta ed è uscito
barcollando in corridoio.

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Dumbo l'ha seguito. «Sergente, dove stai...?»
«A letto, Dumbo, a letto! Mi devo stendere o finisco in terra.
Fai tu il primo turno di guardia. Nugget... cioè, Sam... comunque
ti chiami, che stai facendo?»
«Vengo con te.»
«Resta con tua sorella. Aspetta. Hai ragione. Ha le mani
occupate. Letteralmente. Poundcake! Qui ci pensa Sullivan. Tu
fatti una dormita, brutto muto che non sei...»
La sua voce si è spenta. Dumbo è tornato indietro e si è
fermato ai piedi del letto di Evan.
«Il sergente è teso» ha spiegato come se ce ne fosse bisogno.
«Di solito è piuttosto calmo.»
«Anch'io sono un tipo tranquillo» ho detto. «Non c'è
problema.»
Non se ne voleva andare. Mi guardava con le guance
infuocate come le orecchie. «Ma davvero è il tuo ragazzo?»
«Chi? No, Dumbo. È solo uno che un giorno ha cercato di
uccidermi. Ci siamo conosciuti così.»
«Oh. Meno male.» Sembrava sollevato. «Sai, è uguale a
Vosch...»
«Non è affatto uguale a Vosch.»
«Nel senso che è uno di loro.» Ora parlava sottovoce, quasi
mi stesse confidando un oscuro segreto. «Zombi dice che non
sono degli esserini nel nostro cervello, ma che, non si sa bene
come, si sono scaricati in noi tipo virus del computer.»
«Già. All'incirca.»
«Che strano.»
«Be', immagino che avrebbero potuto scaricarsi in gatti
domestici, ma prendendo quella strada ci avrebbero messo di più,
a sterminarci.»

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«Mah, forse un mese o due» ha detto Dumbo, e io ho riso. Il
che mi sorprendeva al pari della risata di Sammy. Per privare gli
umani dell'umanità, pensavo, uccidere le risate sarebbe stato un
buon punto di partenza. Non sono mai stata una cima in storia,
ma sono abbastanza sicura che i tiranni del passato non ridessero
molto.
«Io però ancora non capisco» ha continuato lui. «Perché uno
di loro dovrebbe stare dalla nostra parte?»
«Credo che nemmeno lui capisca del tutto la risposta a questa
domanda.»
Dumbo ha annuito, ha raddrizzato le spalle e ha fatto un bel
respiro. Era stanco morto. Lo eravamo tutti. L'attimo prima che
uscisse, l'ho chiamato piano.
«Dumbo.» La domanda di Ben, ancora senza risposta. «Se la
caverà?»
È rimasto a lungo in silenzio. «Se fossi un alieno e potessi
scegliere qualsiasi corpo» ha detto lentamente «ne sceglierei uno
bello forte. E poi, giusto per assicurarmi di sopravvivere alla
guerra, lo immunizzerei da ogni virus e batterio terrestre. O
perlomeno lo renderei resistente alle malattie. Un po' come
vaccinare il cane contro la rabbia.»
Ho sorriso. «Lo sai, Dumbo, che sei proprio sveglio?»
Lui è arrossito. «"Dumbo" è solo un soprannome dovuto alle
orecchie.»
Se n'è andato. Avevo l'inquietante sensazione di essere
osservata. Perché di fatto lo ero: Poundcake mi fissava dalla sua
postazione accanto alla finestra.
«E tu?» ho detto. «Che mi racconti? Perché non parli?»
Si è voltato e il suo fiato ha appannato la finestra.

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«Cassie! Cassie, svegliati!»
Sono scattata a sedere. Testa contro testa, mano nella mano,
mi ero raggomitolata vicino a Evan... com'era potuto succedere?
Sam, in piedi accanto al letto, mi tirava per un braccio.
«Alzati, Sullivan!»
«Non mi chiamare così, Sams» ho borbottato. La luce stava
scomparendo dalla stanza: era tardo pomeriggio. Avevo dormito
tutto il giorno. «Che...?»
Si è messo un dito sulle labbra e con un altro ha indicato il
soffitto. "Ascolta."
L'ho sentito: il rumore inconfondibile dei rotori di un
elicottero, debole ma in aumento. Sono saltata giù dal letto, ho
afferrato il fucile e ho seguito Sam in corridoio, dove Poundcake
e Dumbo si stringevano intorno a Ben, accovacciato come un
quarterback che chiama il gioco.
«Può darsi che sia solo una pattuglia» stava sussurrando. «E
che non stia neppure cercando noi. Quando è saltato in aria il
campo, c'erano due squadre fuori. Potrebbe essere una missione
di soccorso.»
«Ci rileveranno con il termografo» ha fatto notare, in preda al
panico, Dumbo. «Siamo spacciati, sergente.»
«Non è detto» ha risposto Ben fiducioso. Aveva recuperato un
po' del suo carisma. «Sentito? Sta diminuendo...»
Non se lo stava immaginando: il rumore era davvero meno
intenso. Bisognava trattenere il respiro per avvertirlo. Siamo
rimasti lì in corridoio per dieci minuti, passati i quali era
scomparso del tutto. Poi altri dieci, e non è tornato. Ben ha
gonfiato le guance e buttato fuori l'aria.
«Siamo salvi, direi...»

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«Fino a quando?» ha chiesto Dumbo. «Non dovremmo
passare la notte qui, sergente. Io dico che è meglio andare subito
alle grotte.»
«E rischiare così di mancare Ringer che rientra?» Ben ha
scosso la testa. «Oppure che l'elicottero torni mentre siamo allo
scoperto? No, Dumbo. Atteniamoci al piano.»
Si è alzato in piedi. Gli è caduto l'occhio su di me. «Come va
con Buzz Lightyear? Nessun cambiamento?»
«Si chiama Evan e no, nessun cambiamento.»
Ha sorriso. Non lo so, forse il pericolo imminente lo faceva
sentire più vivo, ragion per cui gli zombi sono carnivori con
un'unica portata sul menu. Non si è mai sentito di morti viventi
vegetariani. Che divertimento c'è ad attaccare un piatto di
asparagi?
Sams ha ridacchiato. «Zombi ha dato al tuo ragazzo dello
space ranger.»
«Non è uno space ranger, e poi perché dite che è il mio
ragazzo?»
Il sorriso di Ben si è allargato. «Come, non è il tuo ragazzo?
Ma se ti ha baciata...»
«Baciata baciata?» ha chiesto Dumbo.
«Oh, sì. Due volte. Davanti ai miei occhi.»
«Con la lingua?»
«Uh.» Sammy ha contratto le labbra come se avesse dato un
morso a un limone.
«Sono armata» ho comunicato, scherzando ma non del tutto.
«Io, lingue, non ne ho viste» ha continuato Ben.
«Ti andrebbe?» E l'ho tirata fuori a mo' di sberleffo. Dumbo
ha sghignazzato. Persino Poundcake ha sorriso.
È stato allora che è spuntata la bambina, arrivando in

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corridoio dalle scale, e da lì ogni cosa è diventata molto strana
molto in fretta.

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Maglietta rosa di Hello Kitty sbrindellata e macchiata di
fango (ma poteva anche essere sangue). Calzoncini un tempo
beige, forse, e ormai di un bianco sporco. Infradito chiare tutte
rovinate, con un paio di strass testardi ancora attaccati alle
fascette. Visino da folletto dominato da occhi enormi e
sormontato da una massa di capelli scuri aggrovigliati. Piccola,
all'incirca dell'età di Sam, anche se, da tanto era magra, pareva
una vecchina.
Nessuno ha detto niente. Eravamo sotto shock. Vederla in
fondo al corridoio con quelle ginocchia ossute, che batteva i
denti e tremava per il freddo, è stato come veder arrivare al campo
profughi gli scuolabus gialli quando ormai era chiaro che non
sarebbero più esistite scuole. Qualcosa di semplicemente
assurdo.
Poi Sammy ha sussurrato: «Megan?».
E Ben ha detto: «Chi diavolo è Megan?». Ovvero
pressappoco quello che pensavano tutti quanti.
Sam è partito così a razzo che nessuno ha avuto il tempo di
bloccarlo. A metà strada ha rallentato. La bambina non si è
mossa. Non ha quasi battuto ciglio. Nella luce calante sembrava
che i suoi occhi risplendessero, brillanti e da uccello, simili a
quelli di un gufo rinsecchito.
Sam si è voltato a guardarci e ha esclamato: «Megan!». Come
se stesse dicendo una cosa ovvia. «È Megan, Zombi. Era sullo
scuolabus con me!» Si è rigirato verso di lei. «Ciao, Megan.»
Con naturalezza, come se si fossero dati appuntamento al parco
giochi.
«Poundcake» ha detto Ben sottovoce «controlla le scale.
Dumbo, occupati delle finestre. Poi perlustrate il pianoterra

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insieme. È impossibile che sia sola.»
A quel punto la bambina ha parlato con una vocetta acuta,
lamentosa e stridula che ricordava il rumore delle unghie su una
lavagna.
«Mi fa male la gola.»
Ha rovesciato gli occhioni all'indietro. Le hanno ceduto le
ginocchia. Sam è corso da lei, ma è arrivato troppo tardi: è
piombata giù, picchiando la fronte sulla moquette ultrasottile, un
secondo prima che lui la raggiungesse. Siamo andati anche io e
Ben, che si è subito chinato per tirarla su. L'ho spinto via.
«Non devi sollevare pesi» l'ho redarguito.
«Ma lei non pesa niente» ha protestato.
L'ho tirata su io. Non aveva tutti i torti. Megan pesava poco
più di un sacco di farina: oltre a ossa, pelle, capelli e denti, c'era
ben poco. L'ho portata in camera di Evan, l'ho adagiata sul letto
vuoto e ho messo sei strati di coperte sul suo corpicino tremante.
Poi ho chiesto a Sam di andarmi a prendere il fucile in corridoio.
«Sullivan» ha detto Ben dalla porta. «Questa storia non
quadra.»
Ho annuito. Che potesse essere capitata nell'albergo per puro
caso era decisamente improbabile, ma che potesse essere
sopravvissuta a quel clima con indosso una simile tenuta estiva
era assolutamente impossibile. Io e Ben stavamo pensando la
stessa cosa: venti minuti dopo il passaggio dell'elicottero, ecco
apparire sulla nostra soglia la piccola miss Megan.
Non era arrivata lì da sola. Era stata consegnata.
«Sanno che siamo qui» ho detto.
«Ma invece di bombardare l'edificio, mandano lei. Perché?»
Sam è tornato con il fucile. «Cassie, ti presento Megan. Ci
siamo conosciuti sullo scuolabus mentre andavamo a Camp

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Haven.»
«Piccolo il mondo, eh?» L'ho allontanato dal letto
spingendolo verso Ben. «Idee?»
Lui si è grattato il mento. Io mi sono grattata il collo. Ci
frullavano in testa troppi pensieri. Io ho fissato lui che si grattava
il mento e lui ha fissato me che mi grattavo il collo, dopodiché ha
risposto: «Un dispositivo di localizzazione. Le hanno messo un
impianto».
Certo. Dev'essere per questo che è lui il capo. È l'uomo dei
colpi di genio. Ho passato la mano sul retro del collo a stecchino
di Megan in cerca del rigonfiamento rivelatore. Niente. Ho
guardato Ben e ho scosso la testa.
«Sapevano che l'avremmo cercato lì» ha detto spazientito.
«Controllala. Dappertutto, Sullivan. Sam, tu vieni con me.»
«Perché non posso restare?» ha piagnucolato lui. Dopotutto
aveva appena ritrovato un'amica persa da tempo.
«Vuoi vedere una ragazza nuda?» gli ha chiesto Ben con una
smorfia. «Che orrore.»
Ha spinto Sam fuori dalla porta ed è uscito camminando
all'indietro. Mi sono stropicciata gli occhi. Santo cielo.
Santissimo cielo. Ho tirato giù le coperte esponendo il suo corpo
emaciato alla luce morente di quella sera di metà inverno.
Coperta di croste e lividi e piaghe e strati di sporcizia, ridotta a
pelle e ossa dalla tremenda crudeltà dell'indifferenza e dalla
brutale indifferenza della crudeltà, era una di noi ed era tutti noi.
Era il capolavoro degli Altri, il loro magnum opus, il passato e il
futuro dell'umanità, ciò che avevano fatto e ciò che promettevano
di fare, e ho pianto. Ho pianto per lei e ho pianto per me e ho
pianto per mio fratello e ho pianto per tutti quelli troppo stupidi
o sfortunati per non essere già morti.

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"Fattene una ragione, Sullivan. Ora qui e l'attimo dopo no, ma
era così anche prima. È così da sempre. Gli Altri non hanno
inventato la morte: l'hanno solo perfezionata. Le hanno dato un
volto da mettere al posto del nostro perché sapevano che era
l'unico modo per schiacciarci. Non finirà su un continente o su
un oceano, su una montagna o su una piana, in una giungla o in
un deserto. Finirà dove è iniziata, dove è stata fin dal principio,
sul campo di battaglia dell'ultimo cuore umano in grado di
battere."
Le ho tolto i vestiti sudici e logori. Le ho aperto braccia e
gambe mettendola come quel tizio nudo iscritto nel quadrato e
nel cerchio del disegno di Leonardo. Mi sono sforzata di
procedere lentamente, metodicamente, partendo dalla testa e poi
scendendo lungo il corpo. Le sussurravo: «Scusami, per favore
scusami» e intanto premevo, tastavo, sondavo.
Non ero più triste. Pensavo al dito di Vosch che calava sul
tasto che avrebbe fulminato il cervello di Sam e avevo una tale
voglia di assaggiare il suo sangue che mi è venuta l'acquolina in
bocca.
"Dici di sapere come pensiamo, no? Allora saprai anche cosa
ho intenzione di fare. Ti strapperò la faccia con un paio di
pinzette. Ti tirerò via il cuore con un ago da cucito. Ti lascerò
morire dissanguato dopo averti fatto sette miliardi di taglietti,
uno per ciascuno di noi.
"È il costo. È il prezzo. Preparati, perché se a forza di colpi
elimini l'umanità dagli umani, resti con umani privi di umanità.
"In altre parole, avrai quello che volevi, grandissimo
bastardo."

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Ho chiamato Ben.
«Niente» ho detto. «E ho controllato... ovunque.»
«Anche in gola? » ha chiesto in tono calmo. Sentiva la rabbia
residua nella mia voce. Aveva capito che stava parlando con una
schizzata e che doveva muoversi con delicatezza. «Subito prima
di svenire ha detto che le faceva male la gola.»
Ho annuito. «Ci ho guardato. Non ha impianti, Ben.»
«Ne sei proprio sicura? È molto strano che una bambina
denutrita e mezza assiderata se ne esca con "mi fa male la gola"
nel momento stesso in cui arriva.»
Si è avvicinato al letto con grande cautela. Non lo so, magari
aveva paura che gli saltassi addosso in un attimo di furia male
indirizzata. Non che sia mai successo nulla del genere. Le ha
posato una mano sulla fronte e con l'altra le ha aperto la bocca. Si
è chinato aguzzando la vista. «Non si vede niente» ha borbottato.
«Ragion per cui ho usato questa» ho detto porgendogli la
minitorcia elettrica che Sam aveva ricevuto in dotazione al
campo.
Gliel'ha puntata in gola. «È parecchio rossa» ha commentato.
«Esatto. Appunto per questo ha detto che le faceva male.»
Ben si è grattato il mento ispido, riflettendo sulla questione.
«Non "aiuto" o "ho freddo", e nemmeno "ogni resistenza è vana".
Solo "mi fa male la gola".»
Ho incrociato le braccia. «"Ogni resistenza è vana"? Ma sei
serio?»
Sam gironzolava sulla soglia. Occhioni castani sgranati. «Sta
bene, Cassie?» ha chiesto.
«È viva» ho risposto.
«L'ha ingoiato!» ha esclamato Ben. Rieccolo, l'uomo dei colpi

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di genio. «Non l'hai trovato perché ce l'ha nello stomaco!»
«Quei dispositivi di localizzazione sono grandi quanto un
chicco di riso» gli ho ricordato. «Perché ingoiarne uno dovrebbe
far male alla gola?»
«Non sto dicendo che è colpa del dispositivo se le fa male la
gola. La gola non c'entra niente.»
«Allora perché ti preoccupa tanto che sia infiammata?»
«Ecco cos'è che mi preoccupa, Sullivan.» Ce la stava
mettendo tutta per rimanere calmo perché qualcuno doveva
provarci. «Il fatto che sia comparsa all'improvviso in questo modo
potrebbe voler dire un sacco di cose, e non ce n'è una bella. Anzi,
sono tutte pessime. Pessime e ancora più pessime perché non
sappiamo il motivo per cui l'hanno mandata qui.»
«"Più pessime"?»
«Ah ah. Lo sportivo idiota che non sa parlare. Lo giuro su
Dio, il prossimo che mi corregge la grammatica si prende un
pugno in faccia.»
Ho sospirato. La rabbia stava scivolando via: di me non
restava che un guscio vuoto ed esangue dalle fattezze umane.
Ben ha guardato Megan. «La dobbiamo svegliare» ha deciso
dopo un po'.
In quell'istante sono arrivati Dumbo e Poundcake. «Non mi
dire» ha detto Ben rivolto a Poundcake, che ovviamente non
aveva nessuna intenzione di farlo. «Immagino che non avete
trovato niente.»
«Che non abbiate» l'ha corretto Dumbo.
Ben non gli ha mollato pugni. Ma ha comunque teso la mano.
«Dammi la borraccia.» Ha svitato il tappo e ha inclinato il
contenitore sulla fronte di Megan. Una goccia d'acqua è rimasta
appesa tremolante all'imboccatura per un'eternità.

161
Prima che l'eternità finisse, si è udita una voce roca alle
nostre spalle. «Se fossi in te, non lo farei.»
Evan Walker si era svegliato.

162
38
Ci siamo immobilizzati tutti. Anche la goccia d'acqua è
rimasta ferma dov'era. Dal suo letto Evan ci guardava con occhi
rossi e febbricitanti, in attesa che qualcuno facesse la domanda
più ovvia. Quel qualcuno è stato Ben: «Perché?».
«Se la svegliate così, c'è il rischio che risucchi aria, e non è il
caso.»
Ben si è voltato. L'acqua è gocciolata sulla moquette. «Di che
cavolo stai parlando?»
Evan ha deglutito facendo una smorfia per lo sforzo. Aveva il
viso bianco come il cuscino. «Ha un impianto, ma non è un
dispositivo di localizzazione.»
Le labbra di Ben si sono strette a formare una linea dura e
cerea. Aveva capito prima di noi. Si è girato di scatto verso
Dumbo e Poundcake. «Fuori. Sullivan, anche tu e Sam.»
«Io non vado da nessuna parte» ho replicato.
«Invece dovresti» è intervenuto Evan. «Non so a che livello
sia calibrato.»
«Livello? E calibrato cosa?» ho chiesto secca.
«L'ordigno incendiario attivato dall'anidride carbonica.» Ha
distolto lo sguardo. Quello che seguiva non era facile da dire.
«Dal nostro fiato, Cassie.»
A quel punto avevamo capito tutti. Ma c'è una differenza tra
capire e accettare. E l'idea era inaccettabile. Malgrado quello che
avevamo passato, esistevano ancora cose che le nostre menti si
rifiutavano di prendere in considerazione.
«Scendete subito, tutti quanti» ha ringhiato Ben.
Evan ha scosso la testa. «Non basta. Dovreste andarvene.»
Ben ha agguantato Dumbo da una parte e Poundcake
dall'altra e li ha scagliati verso la porta. Sam è indietreggiato,

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finendo in bagno con un pugnetto premuto sulla bocca.
«E poi qualcuno dovrebbe aprire quella finestra» ha aggiunto
Evan in un rantolo.
Ho spinto Sam in corridoio, sono corsa alla finestra e ho
cominciato a fare pressione per tirarla su, ma probabilmente era
bloccata dal ghiaccio perché non si muoveva di un millimetro.
Ben mi ha scostata senza tanti complimenti e ha frantumato il
vetro con il calcio del fucile. La camera è stata invasa all'istante
da aria gelida. Poi è tornato al letto di Evan e dopo averlo
studiato un secondo l'ha preso per i capelli e l'ha sollevato.
«Figlio di puttana...»
«Ben!» Gli ho messo una mano sul braccio. «Mollalo. Non
ha...»
«Oh, giusto. Dimenticavo. È un perfido alieno buono.» L'ha
lasciato andare. Evan è ricaduto giù: non aveva la forza di stare
dritto. Poi Ben l'ha invitato a fare una cosa anatomicamente
impossibile.
Evan ha cercato il mio sguardo. «L'ordigno è in gola.
Attaccato appena sopra l'epiglottide.»
«È una bomba» ha detto Evan con la voce che gli tremava per
la rabbia e l'incredulità. «Hanno preso una bambina e ci hanno
improvvisato una bomba.»
«Lo possiamo togliere?» ho domandato.
Evan ha scosso la testa. «E come?»
«È quello che ti ha chiesto, deficiente» ha abbaiato Ben.
«L'esplosivo è collegato a un rilevatore di anidride carbonica
fissato alla gola. Se si interrompe il collegamento, scoppia tutto.»
«Okay, però non mi hai risposto» gli ho fatto notare. «Lo
possiamo o no togliere senza saltare in aria?»
«È fattibile...»

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«Fattibile. Fattibile.» E poi Ben ha cominciato a ridere: una
risata strana, simile a un singhiozzo. Temevo che stesse per dare i
proverbiali numeri.
«Evan» ho detto cercando di usare un tono dolce e pacato.
«Lo possiamo fare senza...» Non riuscivo a finire la frase ed Evan
mi ha tolta dall'impaccio.
«Le probabilità che non esploda sarebbero molto più alte se
lo faceste.»
«Se facessimo cosa?» Ben faticava a seguirci. Non era colpa
sua. Si stava ancora dibattendo in quella realtà inconcepibile
come un nuotatore maldestro risucchiato dalla corrente.
«Se la uccideste» ha spiegato Evan.

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39
Io e Ben abbiamo convocato in corridoio un'assemblea per
decidere come affrontare quell'ennesima situazione disperata.
Ben ha ordinato a tutti di andare alla tavola calda dall'altra parte
del parcheggio e restare nascosti lì finché lui non avesse dato il
via libera oppure, a seconda del caso, finché l'albergo non fosse
saltato in aria. Sam si è rifiutato. Ben si è fatto serio. Sam, a cui
erano già venuti i lucciconi agli occhi, ha messo il broncio. Ben
gli ha ricordato che era un soldato e che i bravi soldati eseguono
gli ordini. E poi, se fosse rimasto lì, chi avrebbe protetto
Poundcake e Dumbo?
Prima di andarsene, Dumbo ha detto: «Sono il medico».
Aveva intuito cosa aveva in mente Ben. «Dovrei occuparmene io,
sergente.»
Ben ha scosso la testa. «Pussa via» ha tagliato corto.
E così siamo rimasti soli. Ben non riusciva a tenere gli occhi
fermi. Uno scarafaggio in trappola. Un ratto all'angolo. Un uomo
in caduta libera, precipitato nel dirupo e senza nemmeno un
cespuglietto striminzito a cui aggrapparsi.
«Be', direi che abbiamo la soluzione del grande enigma, no?»
ha commentato. «Solo che non capisco perché non ci hanno
semplicemente fatti fuori con un paio di missili Hellfire. Lo
sanno che siamo qui.»
«Non è nel loro stile» ho risposto.
«Che stile?»
«Non hai notato quanto è personale? È così fin dall'inizio. Ci
godono proprio, a ucciderci.»
Ben mi ha guardata con stupore disgustato. «Già. Bene. Ora
capisco perché ti va di stare con uno di loro.» Non era la cosa
giusta da dire. Se n'è reso conto subito e ha fatto rapidamente

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marcia indietro. «Chi stiamo prendendo in giro, Cassie? Non c'è
niente da decidere se non chi lo farà. Magari dovremmo lanciare
una monetina.»
«Magari dovrebbe essere Dumbo. Non mi hai detto che al
campo l'hanno addestrato come chirurgo?»
Ha aggrottato la fronte. «Chirurgo? Stai scherzando, vero?»
«Sennò com'è che...?» Poi ho capito. Non riuscivo ad
accettarlo, ma l'avevo capito. Mi sbagliavo su Ben. Era
sprofondato in quella realtà inconcepibile molto più di me. Era
diecimila metri sotto di me.
Ha decifrato l'espressione sul mio viso e ha chinato la testa.
Era diventato tutto rosso. Non tanto per l'imbarazzo quanto per la
rabbia, una rabbia tremenda, impossibile da esprimere a parole.
«No, Ben. Non possiamo.»
Ha rialzato il capo. Gli luccicavano gli occhi. Gli tremavano
le mani. «Io sì, posso.»
«No, non puoi.» Ben Parish stava annegando. Era andato così
sotto che non ero sicura di poterlo raggiungere, di avere la forza
di riportarlo in superficie.
«Non l'ho chiesto io» ha detto. «Non l'ho chiesto io!»
«Nemmeno lei, Ben.»
Si è sporto in avanti e nei suoi occhi ho visto ardere una
febbre diversa. «Me ne frego, di lei. Un'ora fa per me non
esisteva. Capito? Non era niente, niente di niente. Avevo te, e
avevo tuo fratello, e avevo Poundcake e Dumbo. Lei era affare
loro. Appartiene a loro. Non sono stato io a prenderla. Non sono
stato io a farla salire con l'inganno su quello scuolabus, a dirle
che era perfettamente al sicuro e poi a cacciarle una bomba giù
per la gola. Non è mia la colpa. Non è mia la responsabilità. Di
mio c'è solo il dovere di tenere in vita me e te il più a lungo

167
possibile, e se per questo qualcuno che mi è indifferente muore,
be', pace.»
Non lo stavo aiutando molto. Era troppo in basso, c'era
troppa pressione, non riuscivo a respirare.
«È deciso» ha detto in tono aspro. «Piangi, Cassie. Piangi per
lei. Piangi per tutti i bambini. Non ti sentono, non ti vedono e
non sanno quanto ci stai male, ma tu piangi pure per loro. Una
lacrima per ognuno di loro, riempi tutto l'oceano, su.»
E poi: «Lo sai che ho ragione. Lo sai che non ho scelta. E sai
anche che Ringer ci aveva visto giusto. È tutta una questione di
rischio. È sempre stato così. E se una persona, fosse pure una
bambina, deve morire perché altre sei possano vivere, è il prezzo.
È il prezzo».
Mi ha spinta da parte e, zoppicando, è andato verso la porta
sfondata. Io non riuscivo a muovermi, non riuscivo a parlare. Non
ho sollevato un dito né ho provato ad argomentare per fermarlo.
Ero rimasta senza parole e i gesti sembravano inutili.
"Fermalo tu, Evan. Per favore, fermalo tu, perché io non sono
capace."
Nella camera blindata sotto terra, tutti quei visi rivolti in su e
la mia preghiera silenziosa, la mia promessa insensata: "Salite in
groppa, salite in groppa, salite in groppa".
Non le avrebbe sparato. Per via del rischio. L'avrebbe
soffocata. Le avrebbe messo un cuscino sulla faccia e l'avrebbe
tenuto fermo fino a quando non ce ne fosse stato più bisogno.
Non avrebbe lasciato il corpo lì in camera: il rischio. L'avrebbe
tolto di mezzo, ma non l'avrebbe seppellito né bruciato: il rischio.
L'avrebbe portato nel folto del bosco e gettato sul terreno indurito
dal ghiaccio come un sacco di spazzatura, per la gioia di avvoltoi,
corvi e insetti. Il rischio.

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Spalle al muro, mi sono lasciata andare in terra e ho tirato le
ginocchia al petto, poi ho chinato la testa e l'ho coperta con le
braccia. Mi sono tappata le orecchie. Ho chiuso gli occhi. E ho
visto il dito di Vosch che calava sul tasto, le mani di Ben che
stringevano il cuscino, il mio indice sul grilletto. Sam, Megan. Il
soldato con il crocifisso. E la voce di Ringer che da un posto
buio e silenzioso diceva: "Capita che uno si trovi nel posto
sbagliato al momento sbagliato e se succede qualcosa non è colpa
di nessuno".
E quando Ben fosse uscito, distrutto e svuotato, mi sarei
alzata e sarei andata da lui e l'avrei consolato. Avrei preso le mani
che avevano ucciso una bambina e avrei pianto con lui per noi e
per le scelte non scelte che eravamo costretti a fare.
Poi Ben è uscito per davvero. Si è seduto con la schiena
appoggiata alla parete qualche porta più in là. Dopo un attimo mi
sono alzata e sono andata da lui. Non ha sollevato lo sguardo. Ha
posato gli avambracci sulle ginocchia piegate e ha abbassato il
capo. Mi sono seduta al suo fianco.
«Ti sbagli» ho detto. Lui ha fatto un gesto come a dire:
"Vabbè". «Apparteneva a noi. Ci appartengono tutti.»
Ha appoggiato la testa al muro. «Li senti? Ratti del cazzo.»
«Ben, è meglio se vai. Subito. Non aspettare domattina.
Prendi Dumbo e Poundcake e raggiungi le grotte più in fretta che
puoi.» Magari Ringer sarebbe riuscita ad aiutarlo. A lei dava
retta; in sua presenza sembrava sempre un po' intimidito, se non
addirittura in soggezione.
È esploso in una risata di pancia. «In questo momento mi
sento un po' sottosopra. A pezzi. Sono a pezzi, Sullivan.» Mi ha
guardata. «E Walker non è in condizione di farcela.»
«In condizione di fare cosa?»

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«Di estrarre quel cavolo di aggeggio. Sei l'unica qui che ha
mezza possibilità.»
«Non l'hai...?»
«Non ce l'ho fatta.»
Ha riso di nuovo. È riemerso in superficie e ha preso una
boccata d'aria che gli ha ridato vita.
«Non ce l'ho fatta.»

170
40
La stanza era più fredda di una cella frigorifera. Evan si era
tirato su, e mi guardava. Sul pavimento, là dove Ben l'aveva
lasciato cadere, c'era un cuscino. L'ho raccolto e mi sono seduta
ai piedi del letto di Evan. Intanto il nostro fiato congelava e i
nostri cuori battevano e il silenzio si addensava.
Fino a quando non ho detto: «Perché?».
E lui non ha risposto: «Per mandare in frantumi ciò che resta.
Per distruggere l'ultimo, indistruttibile legame».
Stringendomi il cuscino al petto, mi sono dondolata
lentamente avanti e indietro. "Fa freddo. Fa tanto freddo."
«Non ci si può fidare di nessuno» ho ripreso. «Nemmeno di
un bambino.» Il gelo mi è penetrato nelle ossa e si è accoccolato
nel midollo. «Cosa sei, Evan Walker? Cosa sei?»
Non voleva guardarmi. «Te l'ho detto.»
Ho annuito. «Sì, certo. Mister Grande Squalo Bianco. Io però
non sono uno squalo. Non ancora. Non la uccideremo, Evan.
Tirerò fuori quell'arnese e tu mi aiuterai.»
Non ha ribattuto. Se n'è guardato bene.
Ben mi ha dato una mano a mettere insieme l'occorrente e poi
è uscito per raggiungere gli altri nella tavola calda dall'altra parte
del parcheggio. Pezzuola di spugna. Asciugamani. Una
bomboletta di deodorante per ambienti. Il kit di pronto soccorso
di Dumbo. Ci siamo salutati davanti alla porta delle scale. Gli ho
detto di stare attento a non scivolare: scendendo avrebbe trovato
delle budella di ratto.
«Prima ho svalvolato» ha detto abbassando gli occhi e
passando il piede sulla moquette, imbarazzato come un bambino
sorpreso a dire una bugia. «Non è stato un bel vedere.»
«Con me il tuo segreto è al sicuro.»

171
Ha sorriso. «Sullivan... Cassie... se per caso non... volevo
dirti...»
Ho aspettato. Non gli ho messo fretta.
«Hanno fatto un errore madornale, quei bastardi ottusi, a non
ucciderti all'istante» ha detto tutto d'un fiato.
«Benjamin Thomas Parish, questo è il complimento più dolce
e bizzarro che abbia mai ricevuto.»
Gli ho dato un bacio sulla guancia. Lui me l'ha dato sulla
bocca.
«Sai» ho sussurrato «un anno fa avrei venduto l'anima per una
cosa del genere.»
Ha scosso la testa. «Non ne sarebbe valsa la pena.» E, per un
decimillesimo di secondo, è svanito tutto -- sconforto, tristezza,
rabbia, dolore, fame -- e il vecchio Ben Parish è tornato dal regno
dei morti. Gli occhi che trapassavano. Il sorriso che stendeva.
Ancora un attimo e sarebbe sfumato, riassorbito nel nuovo Ben,
quello che di nome faceva Zombi, e ho capito una cosa che fino a
quel momento mi era sfuggita: era davvero morto, l'oggetto dei
miei desideri di scolaretta, così come era morta la scolaretta che
lo desiderava.
«Su, vai» l'ho esortato. «Ma sappi che, se succede qualcosa a
mio fratello per colpa tua, ti darò la caccia fino in capo al
mondo.»
«Sarò anche tardo, ma non fino a questo punto.»
È scomparso nel buio pesto delle scale.
Sono tornata in camera. Non potevo farlo. Dovevo farlo. Evan
si è tirato indietro fino ad appoggiare il sedere alla testiera del
letto. Ho infilato le braccia sotto Megan e l'ho sollevata pian
piano, poi mi sono girata e l'ho messa giù con cautela
sistemandole la testa in grembo a Evan. Ho preso la bomboletta

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("Un delicato mix di essenze!") e ho impregnato la pezzuola di
deodorante. Mi tremavano le mani. Non ce la potevo fare. Non ce
la potevo non fare.
«Un uncino a cinque punte» ha detto Evan con voce pacata.
«Fissato sotto la tonsilla destra. Non cercare di tirarlo via. Afferra
bene il filo e taglialo il più vicino possibile all'uncino, poi estrai
l'uncino. Con calma. Se il filo si stacca dalla capsula...»
Ho annuito impaziente. «Badaboom! Lo so. Me l'hai già
detto.»
Ho aperto il kit medico e ho preso un paio di pinzette e uno
di forbici chirurgiche. Piccole, ma sembravano enormi. Ho acceso
la minitorcia e me la sono infilata tra i denti.
Ho passato a Evan la pezzuola al fetore di pino. Lui l'ha
premuta sul viso di Megan coprendo naso e bocca. Il corpo di lei
ha avuto una serie di spasmi. Le palpebre si sono schiuse, gli
occhi hanno ruotato all'indietro. Le mani, posate con garbo sul
ventre, si sono irrigidite e poi immobilizzate. A quel punto Evan
ha lasciato andare la pezzuola, che è caduta giù.
«Se si sveglia mentre sono all'opera...» ho detto senza
togliermi di bocca la torcia. Sembravo un pessimo ventriloquo:
"Se si seia...".
Evan ha fatto un cenno con il capo. «Può andare male in
cento modi diversi, Cassie.»
Le ha rovesciato la testa e le ha aperto la bocca. Di fronte a
me c'era un luccicante tunnel rosso largo quanto un rasoio e
lungo un chilometro. Pinzette nella sinistra. Forbici nella destra.
Mani grandi come palloni da football.
«Gliela puoi aprire un altro po'?»
«Se gliela apro un altro po', le slogo la mandibola.»
Be', nel grande schema del mondo, una mandibola slogata era

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meglio di due corpi in frammenti raccoglibili con quello stesso
paio di pinzette. Ma comunque...
«Questa?» ho chiesto toccando leggermente una tonsilla con
la punta.
«Non ci vedo.»
«Quando hai detto "tonsilla destra", intendevi la sua destra,
non la mia, vero?»
«Esatto. La sua destra. La tua sinistra.»
«Okay» ho sospirato. «Volevo giusto essere sicura.»
Non vedevo quello che facevo. Le avevo infilato in gola le
pinzette ma non le forbici, e non avevo idea di come avrei fatto a
ficcare sia le une che le altre nella boccuccia di quella bambina.
«Aggancia il filo con le pinzette» mi ha consigliato Evan.
«Poi sollevalo pian piano in modo da avere la visuale libera. Non
dare strattoni. Se il filo si scollega dalla capsula...»
«Mamma mia, Walker, non serve che mi ricordi ogni due
secondi cosa succede se questo cavolo di filo si scollega da
questa cavolo di capsula!» Ho sentito la punta delle pinzette
sbattere contro qualcosa. «Okay, mi sa che ci sono.»
«È finissimo. Nero. Lucido. Ci si dovrebbe riflettere la
luce...»
«Ti prego, stai zitto.» O in lingua ventriloqua: "Ti pego, sai
sitto".
Tremavo tutta, ma le mie mani, miracolosamente, erano
diventate salde come rocce. Le ho infilato in bocca anche la
destra e, facendo forza contro l'interno della guancia, ho portato
le forbici in posizione. Era quello? L'avevo trovato davvero? Il
filo, se a rilucere era proprio il filo in questione, era sottile come
un capello.
«Piano, Cassie.»

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«Ta. Ci.»
«Se lo ingoia...»
«Ora ti ammazzo, Evan. Sul serio.» Stretto tra le punte delle
pinzette, avevo il filo. Tirandolo appena, vedevo il minuscolo
uncino fissato alla carne infiammata. "Piano, piano, piano.
Assicurati di tagliare il capo giusto del filo. Quello ad artiglio."
«Sei troppo vicina» mi ha ammonita. «Smetti di parlare e non
respirarle dritto in faccia...»
"D'accordo. Quasi quasi, dritto in faccia, do anzi un pugno a
te."
Poteva andare male in cento modi diversi, mi aveva detto. Ma
c'è male, molto male e molto ma molto male. Quando Megan ha
aperto gli occhi e si è messa a scalciare sotto di me, ho capito
subito che avevamo preso la terza strada.
«È sveglia!» ho strillato, benché non ce ne fosse alcun
bisogno.
«Non lasciare il filo!» ha gridato a sua volta Evan, e in quel
caso il bisogno c'era eccome.
Megan mi ha conficcato i denti nella mano e si è messa ad
agitare la testa di qua e di là. Avevo le dita intrappolate nella sua
bocca. Cercavo di non muovere le pinzette, ma uno strattone un
po' più forte e la capsula si sarebbe staccata...
«Evan, fai qualcosa!»
Ha provato a recuperare la pezzuola intrisa di deodorante.
«No, bloccale la testa, deficiente!» ho urlato. «Non farla...»
«Lascia il filo.» Non aveva più fiato.
«Cosa? Mi hai appena detto di non lasciarlo...»
Le ha tappato il naso. Lasciare? Non lasciare? Se lo lasciavo,
c'era il rischio che il filo si attorcigliasse intorno alle pinzette e si
staccasse. Se non lo lasciavo, quello che venisse via con tutto

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quel girarsi e contorcersi e dibattersi. Megan roteava
disperatamente gli occhi. Dolore, spavento e confusione: il mix
collaudato che gli Altri non mancavano mai di provocare. Quando
alla fine ha aperto la bocca, le ho ricacciato in gola le forbici.
«Non sai quanto ti odio in questo momento» ho sibilato
rivolta a Evan. «Ti odio più di chiunque altro al mondo.» Mi
sembrava che dovesse esserne informato prima che io procedessi.
In caso venissimo disintegrati.
«Ce l'hai?» ha chiesto.
«Non ne ho la più pallida idea!»
«Avanti» ha detto. Poi ha sorriso. Sorriso! «Taglia il filo,
efemera.»
E io l'ho tagliato.

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«È un test» ha detto Evan.
L'aggeggio, simile a un medicinale in capsula molle verde, era
al sicuro sulla scrivania -- o così speravamo -- sigillato in una
bustina di plastica trasparente di quelle che, nei bei tempi andati,
le mamme usavano per mantenere freschi fino all'ora di pranzo il
sandwich e le patatine fritte dei figli.
«Cos'è, in quanto a bombe umane sono ancora nella fase di
ricerca e sviluppo?» ha chiesto Ben. Era appoggiato al davanzale
della finestra rotta; tremava, ma qualcuno doveva tenere d'occhio
il parcheggio, e non voleva che nessun altro corresse il rischio.
Perlomeno si era tolto quella schifosa felpa gialla intrisa di
sangue (schifosa già prima di essere intrisa di sangue) e se n'era
messa una nera che lo riportava quasi al suo periodo di splendore
precedente all'Arrivo.
Sam, seduto sul letto vuoto, ha ridacchiato esitante, non del
tutto sicuro che il suo amato capo Zombi stesse facendo una
battuta. Non sono uno strizzacervelli, ma credo che in lui fosse
scattato un qualche transfert a causa di gravi problemi irrisolti
con papà.
«Un test, sì, ma non per la bomba» ha risposto Evan. «Per
noi.»
«Ottimo» ha bofonchiato Ben. «È il primo che passo in tre
anni.»
«Dacci un taglio, Parish» ho detto. Dove stava scritto che gli
sportivi dovevano per forza comportarsi da stupidi per essere
fighi? «So per certo che l'anno scorso sei arrivato tra i finalisti di
una borsa di studio per cervelloni.»
«Sul serio?» Dumbo ha drizzato le orecchie. Okay, dovrei
evitare di fare commenti in proposito, ma lui sembrava davvero

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tutt'orecchi.
«Sì, sul serio» ha confermato Ben con un sorriso alla Parish
cento per cento originale. «Ma è stato un anno decisamente
scarso. Abbiamo avuto un'invasione aliena.» Ha guardato Evan. Il
suo sorriso si è spento, il che capitava spesso quando guardava
Evan. «E per cosa ci starebbero testando?»
«Per sapere.»
«Sì, in genere è quello lo scopo di un test. Sai cosa sarebbe
davvero di aiuto in questo momento? Se la piantassi con questa
farsa dell'alieno enigmatico e fossi un po' più concreto. Perché a
ogni secondo che passa senza che quell'affare esploda» faccio un
cenno verso la bustina di plastica «il rischio raddoppia. Presto o
tardi, e inclino verso il presto, torneranno e qua andrà tutto a
ramengo.»
«Ramengo?» ha squittito Dumbo. Non aveva capito e la cosa
lo agitava. «Quale Ramengo?»
«È solo un paesino dei paraggi, Dumbo» ha risposto Ben.
«Dicevo così per dire.»
Evan stava annuendo. Ho dato un'occhiata a Poundcake:
fermo sulla soglia in tutta la sua stazza, seguiva la conversazione
a bocca leggermente aperta girando il testone ora a destra ora a
sinistra come se guardasse una partita di ping-pong.
«Torneranno» ha detto Evan. «A meno che non possano
risparmiarselo perché abbiamo cannato il test.»
«Cannato? Ma noi l'abbiamo passato, no?» ha chiesto Ben
rivolgendosi a me. «Io dico che l'abbiamo passato. Tu?»
«"Cannato" nel senso che abbiamo accolto Megan a braccia
aperte» ho risposto «e poi siamo partiti felici e contenti alla volta
di Ramengo.»
«Ramengo» ha ripetuto Dumbo perplesso.

178
«L'assenza di esplosioni si può spiegare solo in tre modi» ha
ripreso Evan. «Uno, l'ordigno era difettoso. Due, l'ordigno era
calibrato male. Tre...»
Ben ha alzato la mano. «Tre, qualcuno nell'albergo sa dei
bambini-bomba ed è riuscito a rimuovere l'ordigno, metterlo in
una bustina di plastica e condurre un seminario su come si fa a
instillare panico e paranoia in quegli allocchi degli umani. Il test
serve a scoprire se tra noi c'è un Silenziatore.»
«Sì, c'è!» ha strillato Sam puntando il dito contro Evan. «Sei
tu il Silenziatore!»
«Cosa di cui non potrebbero mai avere la certezza radendo al
suolo questa stamberga con un paio di missili Hellfire ben mirati»
ha concluso Ben.
«Il che fa sorgere una domanda» ha detto Evan a bassa voce.
«Perché dovrebbero sospettare una cosa del genere?»
In camera è calato il silenzio. Ben si è messo a tamburellare
con le dita sul suo avambraccio. Poundcake ha chiuso la bocca.
Dumbo ha cominciato a tirarsi un lobo. Io ho preso a dondolarmi
avanti e indietro sulla sedia tormentando una zampa di Orso. Non
sapevo come me l'ero ritrovato in mano. Magari l'avevo
agguantato mentre Poundcake portava Megan nella stanza
accanto. Mi ricordavo di averlo visto cadere per terra, ma non di
averlo raccolto.
«Ma è ovvio» ha detto Ben. «In un modo o nell'altro devono
pur sapere che sei qui. No? Altrimenti rischierebbero di far fuori
chi gioca per loro.»
«Se lo sapessero, non ci sarebbe stato bisogno di test. Lo
sospettano e basta» ha replicato Evan.
Poi mi si è accesa la lampadina. E la cosa non mi è stata di
nessun conforto.

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«Ringer.»
Ben si è girato di scatto verso di me. Un alito di vento e
sarebbe caduto dal suo trespolo.
«L'hanno catturata» ho detto. «Lei o Teacup. Oppure tutte e
due.» Ho cercato lo sguardo di Evan, perché l'espressione sul viso
di Ben era troppo da sostenere.
«Mi sembra l'ipotesi più plausibile» ha convenuto.
«Stronzate! Ringer non ci tradirebbe mai» gli ha urlato Ben.
«Non volontariamente» ha detto Evan.
«Mnemolandia» ho sussurrato. «Hanno scaricato i suoi
ricordi...»
A quel punto Ben si è staccato dal davanzale, ha perso
l'equilibrio e, barcollando in avanti, è andato a sbattere contro il
letto di Sammy. Stava tremando, e non per il freddo. «Oh, no. No,
no, no. Ringer non è stata affatto catturata. È al sicuro e Teacup è
al sicuro, e io di questo non voglio nemmeno sentir parlare...»
«Be'» ha detto Evan «ormai è tardi.»
Mi sono alzata e ho raggiunto Ben. Era uno di quei momenti
in cui sai che devi fare qualcosa ma non sai minimamente cosa.
«Evan ha ragione. Il motivo per cui siamo vivi è lo stesso per cui
hanno mandato Megan.»
«Ma che cos'hai in testa?» mi ha chiesto lui. «Ti bevi tutto
quello che dice manco fosse Mosè sceso dalla montagna. Se
pensano che è qui, a prescindere dal perché, sanno anche che è
un traditore e quindi, comunque, preparati perché finiremo a
Ramengo.»
Ci siamo voltati tutti verso Dumbo, in attesa.
«Non vogliono uccidere me» ha detto Evan dopo un po'.
Aveva un'aria triste e sbattuta.
«Giusto, dimenticavo» ha commentato Ben. «A voler uccidere

180
te sono io.» Mi ha piantata in asso ed è tornato alla finestra; da lì,
con le mani appoggiate sul davanzale, ha studiato il cielo
notturno. «Se restiamo, siamo spacciati. Se tagliamo la corda,
siamo spacciati. Sembriamo dei bambini di cinque anni che
giocano a scacchi contro Bobby Fischer.» Si è rigirato verso
Evan. «Magari, mentre venivi qui, una pattuglia ti ha visto e ti ha
seguito.» Ha indicato la bustina. «Quell'affare non significa che
hanno Ringer o Cup. Significa solo che non abbiamo più tempo.
Non possiamo nasconderci e non possiamo scappare, perciò gira
che ti rigira il punto è quello di sempre: non se moriremo, ma
come. Come abbiamo intenzione di morire? Dumbo, tu come vuoi
morire?»
Imbaldanzito, Dumbo ha raddrizzato le spalle e tirato su il
mento. «In piedi, signore.»
Ben ha guardato Poundcake. «E a te, Cake, va di morire in
piedi?»
Già sull'attenti, Poundcake ha annuito pronto.
A Sam, Ben non l'ha neanche dovuto chiedere. Mio fratello si
è alzato e, con un movimento lento e controllato, ha fatto il saluto
al suo ufficiale in comando.

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42
Oh, ma fatemi il piacere. Tutti quanti.
Ho lanciato Orso sulla scrivania. «Ci sono già passata» ho
detto alla Brigata Macho. «Scappare equivale a morire. Restare
anche. Perciò prima di precipitarci all'O.K. Corral, consideriamo
una terza possibilità: far esplodere noi l'ordigno.»
Il suggerimento ha risucchiato via l'aria dalla stanza. Evan,
che aveva capito al volo, stava annuendo piano, ma chiaramente
non impazziva di gioia all'idea. Troppe variabili. Poteva andare
male in mille modi diversi, bene in uno solo.
Ben è andato dritto al cuore pulsante del problema: «In che
modo? Chi si assume l'incarico di respirarci sopra e farsi
disintegrare?»
«Ci penso io, sergente» ha detto Dumbo. Aveva le orecchie
rosse, come se fosse stato in imbarazzo per il suo stesso coraggio.
Sorrideva timido. Ci era finalmente arrivato: «Ho sempre voluto
vedere Ramengo».
«Il fiato umano non è l'unica fonte di anidride carbonica» ho
fatto presente al finalista della borsa di studio per cervelloni.
«La Coca-Cola!» ha gridato a buon diritto Dumbo.
«In bocca al lupo a chi deve cercarla» ha detto Ben. Aveva
ragione. Insieme agli alcolici di qualsiasi genere, le bevande
gassate erano state tra le prime vittime dell'invasione.
«In lattina o in bottiglia, sì, in effetti» è intervenuto Evan. «Tu
però, Cassie, non mi hai detto che qui vicino c'è una tavola
calda?»
«Le bombole di anidride carbonica per le bibite alla spina...»
ho iniziato io.
«Probabilmente sono ancora lì» ha finito lui.
«Basta attaccare l'ordigno alla bombola...»

182
«Manomettere l'erogatore in modo che rilasci il gas...»
«In modo lento...»
«In uno spazio ristretto...»
«L'ascensore!» abbiamo esclamato all'unisono.
«Wow» ha mormorato Ben. «Geniale. Ma non ho ben capito
com'è che questo risolva il problema.»
«Ci crederanno morti, Zombi» ha detto Sam. Ci era arrivato a
soli cinque anni, ma gli mancava l'esperienza accumulata da Ben
nel fregare Vosch e compagni.
«Sì, poi però controllano, non trovano corpi e siamo
daccapo» ha ribattuto Ben.
«Ma intanto avremo guadagnato tempo» ha fatto notare Evan.
«E secondo me quando si renderanno conto della verità, sarà
ormai troppo tardi.»
«Perché ovviamente siamo troppo svegli per loro?» ha chiesto
Ben.
Evan ha sorriso cupo. «No. Perché ci nasconderemo
nell'ultimo posto in cui gli verrà in mente di cercare.»

183
43
Non c'era tempo di discutere oltre: dovevamo far scattare
l'operazione Check-out Anticipato e dare l'addio all'albergo prima
che la Quinta Onda desse l'addio a noi. Ben e Poundcake sono
usciti per andare a prendere una bombola alla tavola calda.
Dumbo si è accollato la guardia in corridoio. Ho detto a Sam di
tenere d'occhio Megan, visto che era una sua vecchia amica dei
tempi dello scuolabus. Mi ha chiesto se potevo ridargli la pistola.
Gli ho ricordato che l'ultima volta era servita a poco: aveva
svuotato il caricatore senza nemmeno scalfire l'obiettivo. Ho
cercato di dargli anzi Orso. Lui ha alzato gli occhi al cielo. Orso
era roba di sei mesi prima.
Poi io ed Evan siamo rimasti soli. Io, lui e il terzo incomodo
della piccola bomba verde.
«Sputalo» gli ho ordinato.
«Cosa?» Occhioni innocenti come quelli di Orso.
«Il rospo, Walker. Stai nascondendo qualcosa.»
«Perché pensi...?»
«Perché è il tuo stile. Il tuo modus operandi. Come un
iceberg, tre quarti sotto la superficie. Ma non ti illudere: non ti
permetterò di trasformare questo albergo nel Titanic.»
Ha sospirato evitando il mio sguardo. «Carta e penna?»
«Scusa? È l'ora di una bella poesia d'amore?» Anche quello
era il suo stile: ogni volta che mi avvicinavo troppo a qualcosa,
sviava il discorso dicendomi quanto mi amava o ringraziandomi
per come l'avevo salvato o uscendosene con qualche altra
osservazione svenevole e pseudoprofonda sulla natura del mio
splendore. Ma ho preso comunque un blocco e una penna dalla
scrivania e glieli ho passati perché, in fin dei conti, a chi è che
dispiace ricevere una bella poesia d'amore?

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Lui, invece, ha disegnato una cartina.
«Un piano solo, bianca -- o perlomeno prima lo era --
struttura in legno; non mi ricordo l'indirizzo, ma è proprio sulla
Statale 68. Vicino a una stazione di servizio. Appesa sulla
facciata c'è una di quelle vecchie insegne di metallo, Havoline Oil
o giù di lì.»
Ha staccato il foglio e me l'ha messo in mano.
«Perché è l'ultimo posto in cui gli verrà in mente di cercare?»
Stavo per ricaderci e lasciarmi distrarre, per quanto la Havoline
Oil non avesse niente di eccessivamente poetico. «E poi perché
disegni una cartina quando verrai con noi?»
«In caso succeda qualcosa.»
«A te. E se invece succede a tutti e due?»
«Hai ragione. Ne faccio altre cinque.»
Si è rimesso a disegnare. L'ho guardato per due secondi,
dopodiché gli ho strappato di mano il blocco e gliel'ho tirato in
testa.
«Brutto bastardo. Ho capito, sai, cosa stai facendo.»
«Sto disegnando una cartina, Cassie.»
«Quindi, tipo Mission: Impossible, improvvisiamo un
detonatore con una bombola, vero? E intanto corriamo tutti
quanti a rotta di collo verso l'insegna della Havoline Oil, con te in
testa con la caviglia rotta e la gamba pugnalata, più la febbre a
quarantuno...»
«Se avessi la febbre a quarantuno, sarei morto...» ha
osservato.
«No, invece, e vuoi sapere perché? Perché i morti non hanno
la febbre!»
Stava annuendo pensieroso. «Dio, quanto mi sei mancata.»
«Oh, là! Rieccoci! La stessa identica cosa che hai fatto alla

185
tenuta Walker, al campo profughi e a Camp Haven. Ogni volta
che ti metto alle strette...»
«Mi hai messo alle strette nell'istante in cui ti ho posato...»
«Piantala.»
L'ha piantata. Mi sono seduta accanto a lui sul letto. Magari
affrontavo la questione nel modo sbagliato. Si prendono più
mosche con una goccia di miele che con un barile d'aceto, diceva
sempre mia nonna. Il problema era che le astuzie femminili non
facevano parte del mio armamentario. Gli ho stretto la mano. L'ho
guardato nel profondo degli occhi. Ho valutato l'idea di
sbottonarmi un pochino la camicia, ma poi ho pensato che
avrebbe potuto scorgere la mia astuta macchinazione. Non che le
mie macchinazioni fossero così astute.
«Non mi farai scherzi come a Camp Haven» ho detto con un
tono sommesso che speravo risultasse seducente. «Scordatelo.
Verrai con noi. Ti possono portare Poundcake e Dumbo.»
Ha allungato la mano libera e mi ha toccato la guancia.
Conoscevo quel tocco. Mi era mancato. «Lo so» ha risposto. Nei
suoi occhi cioccolatosi ("oddio") c'era un'espressione
infinitamente triste. Conoscevo anche quella. L'avevo già vista nel
bosco, quando mi aveva confessato chi era realmente. «Tu però
non sai tutto. Non sai di Grace.»
«Grace» gli ho fatto eco mentre spingevo via la mano, già
dimentica della storia del miele. Ero giunta alla conclusione che
il suo tocco mi piaceva troppo. Dovevo impegnarmi a far sì che
non mi piacesse più così tanto. E che non mi piacesse neppure il
modo in cui mi guardava, e cioè quasi fossi stata l'unica persona
sulla Terra, cosa che in effetti prima che mi trovasse pensavo. È
una cosa terribile, un carico tremendo da rovesciare addosso a
qualcuno. Legare tutta la propria esistenza a un altro essere

186
umano equivale a cercare guai. Basti pensare alle tante storie
d'amore dal finale tragico che sono state scritte. E io non volevo
essere la Giulietta di qualche Romeo, non se potevo evitarlo.
Anche se il candidato disponibile, l'unico, era pronto a morire per
me e, seduto al mio fianco, mi teneva la mano e mi fissava con
occhi color cioccolato fuso, in quel momento già meno "oddio".
E anche se sotto quelle coperte era praticamente nudo e aveva il
fisico di un modello della Hollister... ma non mi addentrerò
nell'argomento.
«Di nuovo questa Grace. Continuavi a nominarla dopo che ti
ho sparato» ho detto.
«Non è una come le altre.»
Quelle parole bruciavano. Non lo facevo tanto passionale... o
donnaiolo. Sono due cose che spesso vanno a braccetto, eppure...
«Cassie, ti devo dire una cosa.»
«State insieme?»
«Quel giorno, sulla statale, dopo che ti ho lasciata andare, mi
ha preso il panico. Non capivo cos'era successo, perché non ero
riuscito a... fare quello che ero venuto a fare. Quello per cui sono
nato. Non ci trovavo un senso. E, per certi versi, è ancora così.
Uno pensa di sapere chi è. Di conoscere la persona che vede nello
specchio. Io ho trovato te e, nello stesso istante, ho perso me
stesso. Non c'era più niente di chiaro. Non c'era più niente di
semplice.»
Ho annuito. «Ah, la semplicità. Me la ricordo.»
«All'inizio, subito dopo che ti avevo portata da me, non ero
per niente sicuro che ce l'avresti fatta. Ti stavo seduto vicino e
pensavo: "Magari è meglio se muore".»
«Mamma mia, Evan. Quanto sei romantico.»
«Conoscevo i loro piani» ha detto, e quello sì che era chiaro e

187
semplice. Mi ha presa per le mani e mi ha tirata verso di lui, e io
sono precipitata in quegli accidenti di occhi, ragion per cui la
tecnica del miele non è adatta a me: quando c'è lui, la mosca sono
io. «Già, conosco i loro piani, Cassie, e ho sempre pensato che i
più fortunati fossero i morti. Ma ora lo vedo. Lo vedo.»
«Cosa? Cosa vedi, Evan?» Mi tremava la voce. Mi stava
spaventando. Magari era la febbre a parlare, ma quel
comportamento non era affatto da lui.
«Il modo di uscirne. Il modo di chiudere la partita. Il
problema è Grace. Grace è troppo per te... e anche per gli altri.
Grace è la via d'accesso e io sono l'unico che sa come imboccarla.
Te lo posso spiegare. E posso darti tempo. Due cose, Grace e
tempo, e poi avrai la possibilità di chiudere la partita.»

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In quell'istante, con un tempismo perfetto, Dumbo ha fatto
capolino in camera. «Sono tornati, Sullivan. Zombi ha detto...»
Si è zittito. Era evidente che aveva interrotto un momento privato.
Grazie al cielo non mi ero sbottonata la camicia. Ho sfilato le
mani da quelle di Evan e mi sono alzata.
«Hanno trovato la bombola?»
Dumbo ha annuito. «La stanno mettendo in ascensore.» Ha
dato un'occhiata a Evan. «Quando vuoi, noi ci siamo.»
Evan ha fatto un cenno con il capo. «Okay.» Ma non si è
mosso. Io non mi sono mossa. Dumbo è rimasto lì qualche
secondo.
«Ottimo» ha detto alla fine. Evan non ha risposto. Io non ho
risposto. Allora ha aggiunto: «Ci vediamo dopo, ragazzi... a
Ramengo! Eh eh». Ed è uscito indietreggiando.
Mi sono girata di scatto verso Evan. «Bene. Ti ricordi quello
che ti ha suggerito Ben riguardo a questi modi da alieno
enigmatico?»
A quel punto Evan Walker ha fatto una cosa che non gli avevo
mai visto fare o, per essere precisi, ha detto una cosa che non gli
avevo mai sentito dire.
«Merda.»
Dumbo era di nuovo sulla porta. Faccia ebete e orecchie
paonazze, era tenuto fermo da una stangona con una cascata di
capelli biondo miele, splendidi lineamenti da modella norvegese,
penetranti occhi azzurri e labbra carnose dall'aria rifatta e
dall'espressione imbronciata, nonché il fisico flessuoso di una
regina delle passerelle.
«Ciao, Evan» ha detto la ragazza Cosmo. E, com'è naturale,
aveva la voce profonda e leggermente graffiata delle più perfide

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maliarde di hollywoodiana concezione.
«Ciao, Grace» ha risposto Evan.

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45
Eccola, dunque: non era no come le altre. Neppure a livello di
armi: oltre all'M16 di Dumbo, aveva a tracolla un potente fucile di
precisione. Ha spinto Dumbo in camera e poi mi ha abbagliata
con il suo sorriso a un milione di watt.
«E tu devi essere Cassiopea, la regina del cielo notturno.
Sono sorpresa, Evan. È completamente diversa da come me l'ero
immaginata. Quei capelli rossicci... Non sapevo che ti
piacessero.»
Ho guardato Evan. «Ma chi cavolo è?»
«Una come me» ha risposto.
«Ci conosciamo da sempre. Dieci millenni, anno più anno
meno. Prima che mi scordi...» Grace ha indicato il mio fucile.
Gliel'ho buttato ai piedi. «Anche la pistola. E il coltello legato
alla caviglia, sotto la mimetica.»
«Lasciali andare, Grace» ha detto Evan. «Non ci servono.»
Lei l'ha ignorato. Ha dato un leggero calcio al fucile e mi ha
detto di gettarlo dalla finestra insieme alla Luger e al coltello.
Evan mi ha fatto un cenno come a dire: "Meglio assecondarla".
Perciò ho ubbidito. Mi girava la testa. Non riuscivo a formulare
pensieri coerenti. Grace era un Silenziatore come Evan: su quello
non ci pioveva. Ma perché conosceva il mio nome e per quale
motivo era lì e come faceva Evan a sapere che stava arrivando e
cosa intendeva con "Grace è la via d'accesso"? La via d'accesso a
cosa?
«Che era umana, lo sapevo.» Era tornata al suo argomento
preferito. «Ma non immaginavo quanto.»
Prevedendo la mia reazione, Evan ha tentato di frenarmi.
«Cassie...»
«Fanculo a te e a tutti i tuoi simili, stronza aliena dei miei

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stivali.»
«Colorito. Fantasioso. Caruccio.» Mi ha invitata a sedermi
facendo un gesto con il fucile di Dumbo.
Evan mi ha lanciato un'altra occhiata: "Fai come dice". Così
mi sono seduta sul letto accanto al suo, di fianco a Dumbo, che
respirava dalla bocca tipo malato d'asma. Grace è rimasta sulla
soglia in modo da poter tenere d'occhio il corridoio. Magari non
sapeva di Sam e Megan nella camera accanto, o di Ben e
Poundcake in attesa nell'ascensore fermo al pianoterra. Lì ho
capito la strategia di Evan: "Tergiversa. Prendi tempo". Quando
Ben e Poundcake fossero saliti per vedere cosa stava succedendo,
avremmo avuto la nostra chance. Poi però, ricordandomi che nel
buio più completo Evan aveva liquidato un'intera squadra di
soldati della Quinta Onda pur avendo meno armi ed essendo in
inferiorità numerica, ho concluso: "No, quando arriveranno, avrà
lei la sua chance".
L'ho osservata -- il modo in cui si appoggiava allo stipite con
una caviglia buttata con noncuranza sull'altra, la fluente chioma
dai toni dorati su una spalla, la testa di tre quarti per consentirci
di ammirare il suo meraviglioso profilo nordico -- e ho pensato:
"Certo, non fa una piega. Se uno ha la possibilità di scaricarsi in
qualsiasi corpo umano, perché non dovrebbe sceglierne uno
impeccabile? Lo stesso per Evan". Da questo punto di vista non
era nient'altro che un tarocco. A pensarci, faceva ben strano.
Sotto sotto, il tipo che trasformava le mie ginocchia in gelatina
era un falso, una maschera su un volto senza volto che
probabilmente diecimila anni prima somigliava a un calamaro.
«Be', in effetti ce l'avevano detto che era rischioso vivere così
a lungo come umani tra gli umani» ha ripreso Grace. «Dimmi una
cosa, Cassiopea: non pensi che a letto sia la perfezione

192
assoluta?»
«Perché non me lo dici tu» ho ribattuto. «Grandissima
zoccola extraterrestre.»
«Che bisbetica» ha commentato Grace rivolgendosi a Evan
con un sorriso. «Proprio come la sua omonima.»
«Loro non c'entrano niente» le ha detto lui. «Lasciali andare.»
«Evan, non sono nemmeno sicura di capire in cosa
dovrebbero o no entrare.» Ha lasciato la sua postazione e
fluttuando -- non c'è altro termine per descrivere il suo modo di
muoversi -- gli si è avvicinata. «Comunque nessuno va da nessuna
parte finché non ci vado io.» Si è sporta in avanti e, tenendogli il
viso con entrambe le mani, gli ha dato un lungo bacio voluttuoso
sulla bocca. Lui ha fatto resistenza -- si vedeva -- ma lei l'ha
immobilizzato con le überastuzie marziane di cui, a differenza del
mio, il suo armamentario era stracolmo. «Gliel'hai detto?» ha
mormorato senza staccare le labbra dalla guancia di lui ma
assicurandosi che sentissi. «Sa come andrà a finire?»
«Così» ho urlato, e mi sono avventata su di lei lanciandomi,
come mia abitudine, di testa, con l'intenzione di darle una
craniata secca nella morbida zona della tempia. L'impatto l'ha
mandata a sbattere contro le porte dell'armadio. Io sono finita
scomposta in braccio a Evan. "La perfezione assoluta" ho pensato
in modo vagamente sconnesso.
Appena mi sono sollevata, lui mi ha stretta per la vita e mi ha
risbattuta giù. «No, Cassie.»
Ma era debole e io invece forte perciò mi sono liberata senza
problemi e dal letto sono saltata addosso a Grace, ancora di
spalle. Grosso errore: mi ha presa per il braccio e mi ha scagliata
dall'altra parte della stanza. Ho cozzato contro il muro vicino alla
finestra e sono piombata a terra sul sedere. Da lì mi è partita su

193
per la schiena una fitta dolorosissima. Ho sentito una porta che si
spalancava in corridoio e ho gridato: «Scappa, Sam! Vai a
chiamare Zombi! Vai...».
Grace è scomparsa prima che io avessi il tempo di finire la
frase. L'ultima volta che avevo visto qualcuno muoversi in modo
così fulmineo era stato al campo profughi, quando i finti soldati
della Wright-Patterson mi avevano individuata nel bosco.
Fulmineo come nei cartoni animati e, non fosse stato per il
motivo, in un certo senso buffo.
"Oh, no, stronza. Il mio fratellino no."
Passando davanti a Dumbo ed Evan, che si era strappato di
dosso le coperte e cercava di mettere giù dal letto il suo corpo
malconcio, mi sono precipitata in corridoio, che era vuoto, male,
molto male, e in due balzi ho raggiunto la camera di Sam. Come
ho appoggiato le dita sulla maniglia, mi è arrivata sulla nuca una
specie di sfera per demolizioni che mi ha sbattuta contro la porta
di naso. Qualcosa ha fatto crac, e non era il legno. Sono
indietreggiata con il sangue che mi colava sulla faccia. Me lo
sentivo in bocca e in qualche modo era proprio quello a tenermi
in piedi: prima d'allora non mi ero mai resa conto che la rabbia
avesse un sapore, un sapore identico a quello del sangue che
scorre in noi.
Dita fredde si sono strette intorno al mio collo. Ho visto i
miei piedi staccarsi da terra oltre una pioggia di gocce rosse e,
dopo aver percorso in volo tutto il corridoio, sono atterrata su
una spalla per poi rotolare e fermarmi a trenta centimetri dalla
finestra in fondo.
«Resta lì» mi ha intimato Grace.
Era in piedi davanti alla porta di Sammy, una sagoma
slanciata in un tunnel male illuminato ma scintillante dietro il

194
velo delle lacrime che, mio malgrado, mi erano salite agli occhi e
mi scendevano per le guance mescolandosi al sangue.
«Lascia in pace mio fratello.»
«Quel bambino adorabile? Tuo fratello? Mi dispiace, Cassie,
non lo sapevo.» Ha scosso la testa fingendosi rattristata,
l'atteggiamento di scherno con cui trattavano tutto ciò che di
sacro esisteva al mondo.
«È già morto.»

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46
In quell'istante sono successe tre cose contemporaneamente.
Quattro, calcolando anche il mio cuore che andava in pezzi.
Sono partita di corsa, e non per scappare. Le avrei tirato via
quella sua faccia da top model. Le avrei strappato quel suo cuore
pseudoumano da sotto quelle tette umane dalla forma perfetta.
L'avrei aperta a metà con le unghie.
E questa è una.
Due. La porta che dava sulle scale si è spalancata ed è
comparso Poundcake con la sua aria da Ih-Oh, che con un
braccio mi ha spinta indietro e con l'altro ha spianato il fucile.
Colpire Grace non sarebbe stato per niente facile, ma, a sentire
Ben, Poundcake era il miglior tiratore della squadra dopo Ringer.
Tre. Un Evan Walker vestito solo di un paio di boxer è
sbucato di soppiatto alle spalle di Grace. Bravo o no a sparare, se
Poundcake sbagliava... o se Grace si tuffava a terra all'ultimo
secondo...
Perciò mi sono tuffata io, bloccando Poundcake per le
caviglie. Lui è caduto lasciando partire il colpo. A quel punto ho
sentito la porta delle scale che sbatteva di nuovo e Ben che
gridava: «Fermi dove siete!» come una volta si usava nei film, ma
nessuno gli ha dato retta, né io, né Poundcake, né Evan, e tanto
meno Grace, che è sparita. L'attimo prima era lì e quello dopo
non c'era più. Ben ha scavalcato me e Poundcake e, con il suo
passo da sciancato, si è diretto alla stanza davanti a quella di
Sam.
"Sam."
Mi sono tirata su e sono corsa alla sua camera. Ben, intanto,
gesticolando diceva a Poundcake: «È qui dentro».
Ho dato uno strattone alla maniglia. Chiusa. "Dio, ti

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ringrazio!" Ho battuto sulla porta. «Sam! Sam, apri! Sono io!»
E dall'altro lato una voce non più forte dello squittio di un
topo ha risposto: «È un trucco! Mi vuoi imbrogliare!».
Non ho retto. Ho appoggiato la guancia insanguinata alla
porta e ho avuto un minicrollo in piena regola che mi ha fatta
stare molto meglio. Avevo abbassato la guardia. Mi ero scordata
quanto potessero essere crudeli gli Altri. Non si accontentavano
di trapassarti il cuore con un proiettile. No, prima dovevano
calpestarlo, prenderlo a pugni e spappolarlo fino a vedere il
tessuto filtrare tra le loro dita come plastilina.
«Okay, okay, okay» ho piagnucolato. «Rimani lì, va bene?
Qualsiasi cosa succeda, Sam. Non uscire finché non torno.»
Poundcake era a fianco della porta davanti. Ben stava
aiutando Evan a rimettersi in piedi, o perlomeno ci provava. Ogni
volta che allentava la presa, le ginocchia di Evan cedevano. Alla
fine Ben ha deciso di metterlo appoggiato al muro, dove Evan è
rimasto a boccheggiare traballante, la pelle grigia come le ceneri
del campo in cui era morto mio padre.
Ha girato gli occhi dalla mia parte e con il poco fiato che gli
restava ha detto: «Andatevene da questo corridoio. Ora».
La paretina in cartongesso di fronte a Poundcake si è
sbriciolata in una pioggia di fine polvere bianca e pezzetti di
carta da parati ammuffita. Lui ha barcollato all'indietro perdendo
il fucile. È andato a sbattere contro Ben, che l'ha afferrato per una
spalla e l'ha buttato nella stanza in cui si trovava Dumbo. Poi si è
allungato verso di me, ma io l'ho scacciato e, dopo avergli detto di
prendere Evan, ho recuperato il fucile di Poundcake e ho aperto il
fuoco contro la porta della camera di Grace. In quel corridoio
angusto il rumore era assordante. Ho avuto giusto il tempo di
svuotare il caricatore che Ben mi ha acciuffata e tirata dentro.

197
«Non fare l'idiota!» ha gridato. Mi ha messo in mano un
caricatore pieno e mi ha ordinato di sorvegliare l'uscita ma stando
bassa.
Ho seguito la scena successiva come se passasse in TV in
un'altra stanza: solo con le voci. Sdraiata in terra a pancia in giù,
con il busto sorretto dai gomiti, tenevo il fucile puntato contro la
porta di fronte. "Forza, principessa dei ghiacci. Ho un regalino
per te." Intanto mi passavo la lingua sulle labbra insanguinate,
odiando e amando quel sapore. "Forza, svedese degenere."
Ben: Dumbo, com'è messo? Dumbo!
Dumbo: Male, sergente.
Ben: Male quanto?
Dumbo: Abbastanza...
Ben: Oh, santo cielo. Questo lo vedo anch'io!
Evan: Ben, stammi a sentire, è importante. Ce ne dobbiamo
andare. Subito.
Ben: Perché? L'abbiamo bloccata...
Evan: Non per molto.
Ben: Sullivan è perfettamente in grado di occuparsi di lei.
Che poi chi cavolo è?
Evan: (incomprensibile)
Ben: Sì, vabbè, ciao. Comunque più siamo meglio è. Direi
che è ora di passare al piano B. Con te me la sbrigo io, Walker.
Dumbo, tu prendi Poundcake. Sullivan penserà ai bambini.
Ben si è abbassato e mi ha messo una mano sull'incavo della
schiena. Ha indicato la porta con il mento.
«Non ce ne possiamo andare finché la minaccia non è stata
neutralizzata» ha sussurrato. «Ehi, che ti è successo al naso?»
Ho scrollato le spalle. Una passata di lingua in un verso, una
nell'altro. «Come ci muoviamo?» Dalla mia voce sembrava che

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avessi un brutto raffreddore.
«Niente di complicato. Qualcuno sfonda la porta, uno sta a
terra, uno in piedi, uno a destra, uno a sinistra. La parte peggiore
sono i primi due secondi.»
«E quella migliore?»
«Gli ultimi. Pronta?»
«Cassie, aspetta.» Evan, in ginocchio alle nostre spalle come
un pellegrino su un altare. «Ben non sa con chi ha a che fare, ma
tu sì. Diglielo. Digli di cosa è capa...»
«Zitto, Casanova» ha ringhiato Ben. Mi ha tirata per la
camicia. «Sbrighiamoci.»
«Guarda che non c'è più, te lo garantisco» ha detto Evan
alzando il volume.
«Cos'è, ha fatto un salto di quattro metri?» ha ribattuto Ben
ridendo. «Ottimo. Così ora che ha le gambe rotte basta che
scenda e le spari.»
«Sì, è probabile che sia saltata giù, ma stai certo che non si è
rotta niente. Grace è come me.» Evan parlava a tutti e due, ma
guardava fisso dalla mia parte con aria disperata. «Come me,
Cassie.»
«Ma tu sei umano... nel senso, il tuo corpo lo è» ha insistito
Ben. «E nessun corpo umano può...»
«Il suo sì. Il mio non più. Il mio è... andato in tilt.»
«Tu lo capisci?» mi ha chiesto Ben. «Perché io ho
l'impressione che stia sparando altre delle sue stronzate da Mister
E.T.»
«Secondo te, Evan, cosa dovremmo fare?» ho detto.
Nonostante il forte sapore di sangue che avevo in bocca, la mia
rabbia stava scemando, rimpiazzata dalla spiacevolissima e ormai
familiarissima sensazione di avere diecimila metri d'acqua sopra

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la testa.
«Andatevene. Ora. Non è voi che vuole.»
«Una vittima sacrificale» ha detto Ben con un sorriso
maligno. «L'idea mi piace.»
«E lei ci lascerà andare via così?» ho chiesto perplessa. La
sensazione di annegamento si stava acutizzando. E se Ben avesse
avuto ragione? Cosa pensavo di ottenere, affidando a Evan
Walker la vita mia e di mio fratello? C'era qualcosa che puzzava.
Qualcosa di sbagliato.
«Non lo so» ha risposto lui, il che era un punto a suo favore.
Avrebbe potuto dire: "Certo, è una persona a modo, fatta
eccezione per il problemino del sadismo". «Ma so cosa succederà
se restate.»
«Per me è più che sufficiente» ha annunciato Ben tornando
indietro. «Cambiamento di piani, ragazzi. Poundcake lo porto io.
Dumbo, tu prendi Megan. Sullivan ha suo fratello. Piantate tutto
e tirate fuori le palle: sta per iniziare la festa!»
«Cassie.» Evan mi si è avvicinato. Mi ha costretta a girare il
viso e mi ha passato il pollice sulla guancia insanguinata. «È
l'unico sistema.»
«Io non ti lascio, Evan. E non permetto a te di lasciare me.
Non di nuovo.»
«E Sam? Hai fatto una promessa anche a lui. Non le puoi
mantenere tutte e due. Grace è un problema mio. Spetta a me
occuparmene. Non nel modo in cui a te spetta occuparti di Sam,
non è questo che intendo...»
«Davvero? Mi sorprendi, Evan. Di solito sei così chiaro.»
Mi sono messa seduta, ho preso un bel respiro e gli ho
mollato un ceffone su quel viso bellissimo. Avrei potuto sparargli,
ma ho deciso di essere clemente.

200
È stato allora che lo abbiamo sentito, come se quello schiaffo
fosse stato il segnale atteso: il rumore di un elicottero da
combattimento che ci piombava addosso.

201
47
Poi è stata la volta del proiettore: una luce fortissima ha
inondato il corridoio, si è riversata in camera, ha gettato ombre
nette sui muri e sul pavimento. Ben si è precipitato da me e mi ha
obbligata ad alzarmi; io ho afferrato Evan per il braccio e gli ho
dato uno strattone. Lui si è liberato scuotendo il capo.
«Lasciatemi solo un'arma.»
«Eccotela, amico» ha detto Ben allungandogli la sua pistola.
«Sullivan, vai a prendere tuo fratello.»
«Ma che avete in testa?» ho replicato incredula. «Non
possiamo scappare ora.»
«Tu cosa suggerisci?» ha gridato Ben. Doveva gridare per
forza. Il rombo dell'elicottero copriva qualsiasi cosa: a giudicare
dall'angolazione della luce e dal rumore, era proprio sopra
l'albergo.
Evan si è aggrappato allo stipite irto di schegge e si è issato
in piedi, o meglio su un piede, visto che non poteva mettere peso
sull'altro. «Dimmi una cosa e per una volta, nei tuoi diecimila
anni di vita, sii sincero» gli ho urlato all'orecchio. «Non hai mai
avuto intenzione di fabbricare una bomba e scappare con noi.
Sapevi che stava arrivando Grace e volevi farti saltare in aria
con...»
In quel momento Sammy è schizzato fuori dalla sua stanza
tenendo Megan stretta per il polso. A un certo punto Orso era
passato a lei. Probabilmente gliel'aveva dato Sams: faceva sempre
così quando vedeva qualcuno in difficoltà. «Cassie!» Mi è corso
incontro e mi ha piantato la testa nello stomaco. L'ho tirato su per
appoggiarmelo su un'anca -- "Mamma mia, sta diventando
pesante" -- e, appena ho ritrovato l'equilibrio, ho preso per mano
Megan.

202
Tra gli ululati del vento gelido che entrava turbinando dalla
finestra rotta, ho sentito Dumbo che strillava: «Stanno atterrando
sul tetto!».
L'ho sentito solo perché mi si stava praticamente
arrampicando addosso nel tentativo di andare in corridoio. Subito
dietro di lui c'era Ben che sorreggeva Poundcake con il fianco
tenendosi il suo braccio sulle spalle.
«Sullivan!» ha urlato. «Spicciati!»
Evan mi ha afferrata per il gomito. «Aspetta.» Ha alzato lo
sguardo in alto. Ha mosso le labbra senza emettere suono, o forse
ero solo io che non riuscivo a sentirlo.
«Cosa?» ho gridato. Il generico senso di panico era diventato
piuttosto specifico. «Aspetta cosa?»
Occhi ancora al cielo: «Grace».
Un gemito che non preannunciava nulla di buono si è levato
sopra il frastuono dei rotori, aumentando di volume e altezza fino
a diventare un grido sinistro così acuto da spaccare i timpani.
L'intero edificio ha tremato. Sul soffitto si è formata una crepa.
Le orrende stampe dell'albergo nelle loro cornici da quattro soldi
si sono staccate dai muri. La luce del proiettore ha sfarfallato e si
è spenta. Un attimo dopo c'è stata un'esplosione ed è entrato in
camera un getto di aria surriscaldata.
«Si è sbarazzata del pilota» ha detto Evan con un cenno del
capo. Mi ha tirata in corridoio insieme a Sams e Megan,
dopodiché girando appena la testa ha urlato a Ben: «Ora!». Poi,
rivolto a me: «La casa sulla cartina. Adesso è di Grace, ma dopo
stanotte non lo sarà più. Non uscite. Ci sono cibo, acqua e scorte
a sufficienza per tutto l'inverno». Parlava molto in fretta, come se
il tempo stesse per finire: magari la Quinta Onda non sarebbe
arrivata, ma Grace sì. «Là dentro sarete al sicuro, Cassie.

203
All'equinozio...»
Dumbo, Ben e Poundcake avevano già raggiunto le scale. Ben
si sbracciava per chiamarci: "Forza!".
«Cassie! Mi ascolti? All'equinozio l'astronave manderà una
capsula per prelevare Grace dalla sua base...»
«Sullivan! Vieni subito qui!» ha sbraitato Ben.
«Se riesci a trovare il modo di manometterla...» Mi stava
spingendo addosso qualcosa, ma avevo le mani occupate. A occhi
sbarrati ho visto mio fratello strappargli la bustina di plastica con
dentro la bomba.
Poi Evan Walker mi ha preso il viso tra le mani e ha premuto
le labbra sulle mie.
«Puoi chiudere la partita, Cassie. Tu. E sarebbe giusto così.
Dovresti essere tu. Tu.»
Mi ha baciata di nuovo, e il mio sangue si è stampato sul suo
viso, le sue lacrime si sono stampate sul mio.
«Stavolta io non posso fare promesse» ha continuato rapido.
«Ma tu sì. Promettimelo, Cassie. Promettimi che chiuderai la
partita.»
Ho annuito. «Chiuderò la partita.» E con quella promessa ho
emesso la mia condanna, mi sono chiusa alle spalle la porta della
cella e mi sono appesa al collo la pietra che mi avrebbe trascinata
sul fondo di un mare infinito.

204
48
Mi sono fermata mezzo secondo sulla porta delle scale
sapendo che con ogni probabilità quella era l'ultima volta, o più
precisamente la seconda ultima volta, che lo vedevo. Poi, un po'
come la prima ultima volta, mi sono tuffata nel buio pesto e,
sussurrando a Megan di stare attenta a non scivolare sulle budella
di ratto, sono sbucata nell'atrio, dove i ragazzi che mi avevano
trascinata a quella festa mi aspettavano davanti all'uscita, i loro
corpi stampati in controluce sullo sfondo dei bagliori arancio
spento dell'elicottero in fiamme. Scappare dall'ingresso principale
era una mossa così contraria a ogni aspettativa da risultare
geniale. Grace probabilmente immaginava che fossimo barricati
in una delle stanze al piano di sopra e sarebbe entrata dalla
finestra frantumata sull'altro lato dell'albergo camminando sul
muro stile Matrix.
«Cassie» mi ha detto Sam all'orecchio. Hai un naso
gigantesco.»
«Perché è rotto.» "Come il mio cuore, piccolo. Fanno
pendant."
Ben non sorreggeva più Poundcake con il fianco. Lo portava
sulle spalle tipo pompiere. E non aveva l'aria di uno che si
diverte.
«Guarda che così è impossibile» l'ho informato. «Non farai
cento metri.»
Lui mi ha ignorata. «Bo, occupati di Megan. Sam, tu devi
scendere: tua sorella ora si mette in testa. Io sto in coda.»
«Mi serve una pistola!» ha strillato Sam.
Ben ha ignorato anche lui. «Procediamo a tappe. Prima tappa:
il cavalcavia. Seconda: gli alberi sull'altro lato del cavalcavia.
Terza...»

205
«Est» ho detto. Ho messo giù Sammy e ho tirato fuori dalla
tasca la cartina stropicciata. Ben mi guardava come se avessi
perso la ragione. «Andiamo qui.» Ho indicato il quadratino che
rappresentava la base di Grace.
«Nooo, Sullivan. Andiamo alle grotte da Ringer e Teacup.»
«A me non interessa dove andiamo: basta che non sia
Ramengo!» ha gridato Dumbo.
Ben ha scosso la testa. «Ora hai rotto, Dumbo. Ora hai
proprio rotto. Okay, andiamo dove volete.»
Ci siamo messi in marcia. Nevicava leggermente: i minuscoli
cristalli vorticavano infiammati dalla luce arancione. Insieme alla
puzza di grasso del carburante che bruciava, si sentiva un intenso
calore proveniente dall'alto. Sono passata alla guida come
suggerito -- be', ordinato -- da Ben, con Sammy aggrappato a un
passante della cintura e Dumbo subito dietro con Megan, che non
aveva detto una parola, e chi poteva fargliene una colpa?
Probabilmente era sotto shock. Arrivata a metà parcheggio, poco
distante dalla striscia di terra che delimitava la rampa di accesso
alla statale, ho dato un'occhiata dietro in tempo per vedere Ben
che crollava sotto il peso del suo carico. Ho spinto Sammy verso
Dumbo e, slittando sull'asfalto scivoloso, sono corsa da Ben. Sul
tetto dell'albergo vedevo i resti di lamiera contorta del Black
Hawk.
«Te l'avevo detto che così era impossibile!» gli ho urlato a
mezza voce.
«Non lo abbandono...» Ben era carponi, senza fiato e in preda
a conati di vomito. Nella luce dell'incendio le sue labbra
scintillavano di un rosso vivo: tossiva e sputava sangue.
Mi è comparso accanto Dumbo. «Sergente. Ehi, sergente...?»
Qualcosa nel suo tono ha attirato l'attenzione di Ben, che ha

206
alzato lo sguardo. Dumbo ha scosso piano la testa come a dire:
"Non ce la farà".
E Ben Parish ha preso a battere la mano sull'asfalto
ghiacciato, inarcando la schiena e gridando cose incomprensibili,
al che ho pensato: "Oddio, no, non è il momento per una crisi
esistenziale. Se crolla, siamo spacciati. Spacciati".
Mi sono inginocchiata vicino a lui. Aveva il viso contorto in
una smorfia di dolore, paura e rabbia, una collera radicata nel
passato immutabile e sempre presente in cui sua sorella lo
chiamava e lui la abbandonava al suo destino di morte. Lui aveva
abbandonato lei, ma lei non avrebbe abbandonato lui. Gli sarebbe
stata accanto per sempre. Gli sarebbe stata accanto finché non
avesse esalato l'ultimo respiro. Gli era accanto sanguinante anche
in quel momento, e non c'era niente che lui potesse fare per
salvarla.
«Ben» ho detto accarezzandogli la nuca. Punteggiati di
cristalli di neve, i suoi capelli scintillavano. «È finita.»
Un'ombra ci è sfrecciata di fianco puntando verso l'albergo.
Sono balzata in piedi e ho cominciato a rincorrerla perché a
gettare quell'ombra diretta alle porte d'ingresso era mio fratello.
L'ho acciuffato e sollevato da terra, al che lui ha preso a scalciare,
a divincolarsi e, più in generale, a fare il matto. Ero certa che da
un momento all'altro avrebbe sbarellato anche Dumbo, e tre pazzi
erano troppi da gestire per chiunque.
Mi preoccupavo per niente, però. Tenendo Megan per mano,
Dumbo ha rimesso Ben in piedi e ha spronato entrambi a correre
verso la strada, cavandosela molto meglio di me con Sammy
infilato sotto il braccio a faccia in giù che si agitava e strillava:
«Dobbiamo tornare indietro, Cassie! Dobbiamo tornare
indietro!».

207
Abbiamo imboccato la rampa e siamo scesi per il ripido
terrapieno che portava sotto il cavalcavia. Solo a quel punto,
completata la prima tappa, ho messo giù Sammy e gli ho dato un
bello sculaccione dicendogli di piantarla o ci avrebbe fatti
ammazzare tutti quanti.
«Ma poi si può sapere che ti prende?» ho chiesto.
«Stavo cercando di dirtelo!» ha singhiozzato. «Tu però non
mi hai voluto ascoltare. Non mi ascolti mai! Mi è caduta!»
«Ti è caduta...?»
«La bustina, Cassie. Mentre correvo... mi è caduta!»
Mi sono girata a guardare Ben. Schiena curva, testa china,
avambracci sulle ginocchia piegate. Ho lanciato un'occhiata a
Dumbo. Spalle cadenti e occhi sbarrati, continuava a tenere per
mano Megan.
«Ho una brutta sensazione» ha sussurrato.
Il mondo ha trattenuto il fiato. Persino la neve sembrava
sospesa immobile in aria.
L'albergo è esploso in un'accecante palla di fuoco color verde
neon. Il suolo ha tremato. Lo spostamento d'aria causato dal
risucchio del vuoto ci ha gettati a terra. Poi, con un boato, sono
arrivati i detriti, e io mi sono buttata su Sammy. Un'ondata di
frammenti di cemento, vetro, legno e metallo (nonché, ebbene sì,
di quei ratti del cavolo) non più grandi di granelli di sabbia ci è
piombata addosso dal terrapieno, una caldissima massa grigia che
ci ha completamente avviluppati.
Benvenuti a Ramengo.

208
Sesta parte
IL GRILLETTO

209
49
Al campo non gli piaceva stare con i bambini. Gli ricordavano
il fratellino, quello che aveva perso. Quello che la mattina in cui
era uscito per cercare da mangiare era lì e, al suo rientro, non
c'era più. Quello che non aveva mai ritrovato. Durante
l'addestramento, quando non doveva esercitarsi, mangiare,
dormire, passare lo straccio in caserma, lucidare gli scarponi,
pulire il fucile, prestare servizio in cucina o lavorare nell'Hangar
C&S, dava una mano come volontario negli alloggi dei più
piccoli o all'arrivo degli scuolabus. Non gli piaceva stare con i
bambini, ma lo faceva lo stesso. Sperava ancora di potere, un
giorno, rincontrare il fratello. Quel giorno sarebbe entrato
nell'hangar adibito alla prima accoglienza e l'avrebbe trovato
seduto in uno dei grandi cerchi rossi dipinti in terra, o l'avrebbe
visto dondolarsi sul vecchio copertone appeso all'albero nel
campo giochi allestito alla bell'e meglio accanto alla piazza
d'armi.
Ma non era mai successo.
All'albergo, quando aveva scoperto che il nemico impiantava
bombe nei bambini, si era chiesto se era quella la fine fatta dal
fratello. Se l'avevano trovato, preso, costretto a ingoiare la
capsula verde e rimandato fuori perché lo trovasse qualcun altro.
Probabilmente no. Moltissimi bambini erano morti. Solo pochi,
una manciata, erano stati tratti in salvo e portati al campo.
Verosimilmente, dopo la scomparsa, suo fratello non era
sopravvissuto che qualche giorno.
Ma era comunque possibile che l'avessero preso. Che
l'avessero obbligato a mandare giù la capsula verde. Che
l'avessero rispedito fuori e lasciato a vagare finché non si era
imbattuto in un gruppo di superstiti che gli aveva dato da

210
mangiare e aveva poi saturato di fiato il riparo in cui l'aveva
accolto. Poteva essere andata così.
Cos'è che ti tormenta?, gli aveva chiesto Zombi. Avevano
appena attraversato il parcheggio per cercare una bombola di
anidride carbonica nella vecchia tavola calda. Zombi ormai aveva
rinunciato a rivolgergli la parola se non per dargli ordini, e ancor
più a tentare di strapparlo al suo mutismo. Quando gli aveva fatto
quella domanda, non si aspettava una risposta.
Si vede quando c'è qualcosa che ti tormenta. Ti viene un'aria
costipata. Come se stessi cercando di cagare un mattone.
La bombola non era molto pesante, ma Zombi era ferito e per
tornare indietro si era messo davanti. Era nervoso, sobbalzava a
ogni ombra. Continuava a dire che c'era qualcosa che non andava.
Qualcosa che non andava in quell'Evan Walker e qualcosa che
non andava nella situazione in generale. Sentiva puzza di
fregatura.
Una volta in albergo, Zombi aveva mandato Dumbo di sopra a
chiamare Evan. Poi avevano aspettato che scendesse nascosti in
ascensore.
Capisci, Cake, questo ci riporta dritti dritti al mio punto.
Impulsi elettromagnetici, tsunami, epidemie, alieni mascherati,
ragazzini rincretiniti e adesso bambini bomba. Perché cazzo la
fanno tanto complicata? È come se volessero lo scontro. Oppure
come se volessero che lo scontro fosse interessante. Ehi. Magari
è proprio così. Magari con l'evoluzione si arriva a uno stadio in
cui la noia è la minaccia più grande alla sopravvivenza. Magari
non vogliono assolutamente impossessarsi del pianeta: vogliono
giocare. Come quando i bambini strappano le ali alle mosche.
Via via che i minuti passavano, Zombi diventava più nervoso.
E ora che c'è? Dove cavolo è finito? Oh, porco cane, non sarà

211
mica...? Meglio se sali, Poundcake. Se ce n'è bisogno, caricatelo
in spalla e portalo giù.
A metà scale aveva sentito una gran botta al piano di sopra,
poi un colpo più leggero e poi ancora delle grida. Era arrivato alla
porta giusto in tempo per vedere il corpo di Cassie passare in
volo e piombare in terra. Dopodiché, ripercorsa la traiettoria
all'indietro, aveva visto la spilungona in piedi vicino alla stanza
con la porta sfondata. E non aveva esitato: era uscito in corridoio
con la certezza che quella tipa non sarebbe sopravvissuta. Era
bravo a sparare, il migliore della squadra fino all'arrivo di Ringer,
e sapeva che non avrebbe fallito il bersaglio.
Solo che Cassie l'aveva placcato e la ragazza si era
volatilizzata. Non fosse stato per lei, l'avrebbe uccisa. Ne era
sicuro.
Poi la ragazza gli aveva sparato attraverso la parete.
Dumbo gli aveva aperto la camicia e gli aveva compresso la
ferita con un lenzuolo appallottolato. Gli aveva detto che non era
grave, che se la sarebbe cavata, ma non era vero, e lui lo sapeva
benissimo. Aveva avuto a che fare con la morte troppe volte. Ne
conosceva l'odore, il gusto, l'effetto. La portava dentro di sé nel
ricordo della madre, delle pire funerarie alte tre metri, delle ossa
lungo la strada e del nastro trasportatore che, al campo,
convogliava centinaia di corpi nell'inceneritore della centrale
elettrica, dove i morti venivano bruciati per illuminare le caserme,
scaldare l'acqua e combattere il freddo. Morire non era un grosso
problema. Morire senza sapere che fine avesse fatto suo fratello,
sì.
Mentre moriva, era stato portato di sotto. Mentre moriva, era
finito sulle spalle di Zombi. E poi nel parcheggio Zombi era
caduto e gli altri si erano raccolti lì intorno e Zombi aveva battuto

212
la mano sull'asfalto coperto di ghiaccio fino a lacerarsi la pelle
del palmo.
Dopodiché l'avevano lasciato. Non se l'era presa. Capiva.
Stava morendo.
E lui si era alzato.
Non subito. Prima si era trascinato.
La ragazza si trovava nell'atrio quando lui entrò strisciando.
Ferma accanto alla porta che dava sulle scale, impugnava una
pistola con entrambe le mani e teneva la testa china come se
stesse cercando di sentire qualcosa.
Si alzò in quel momento.
La ragazza si irrigidì. E si voltò. Sollevò l'arma, ma quando si
rese conto di avere davanti un moribondo la riabbassò. Sorrise e
gli disse ciao. E così, nel guardare lui vicino all'ingresso, le
sfuggì l'ascensore, e anche Evan che ci saltava dentro dalla botola
di soccorso. Appena lo vide, Evan restò bloccato, come indeciso
sul da farsi.
Ti conosco. La ragazza andò verso di lui. Se si fosse girata, se
avesse dato anche solo un'occhiata alle sue spalle, si sarebbe
accorta di Evan, perciò lui tirò fuori la pistola per distrarla,
pistola che però gli cadde finendo in terra. Aveva perso un sacco
di sangue. La sua pressione stava precipitando. Il cuore non
pompava a sufficienza e la sensibilità degli arti diminuiva.
Si buttò in ginocchio allungandosi a riprendere l'arma. Lei gli
sparò alla mano, ferendolo. Mentre piombava sul sedere, lui se la
mise in tasca come a proteggerla.
Accipicchia, sei proprio un ragazzone forte, vero? Quanti
anni hai?
Attese la risposta.
Che c'è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?

213
Gli sparò a una gamba. Poi rimase ad aspettare che gridasse,
piangesse o dicesse qualcosa. Siccome non lo faceva, gli sparò
anche all'altra.
Alle sue spalle, intanto, Evan si era sdraiato a pancia in giù e
aveva cominciato ad avanzare. Ansimante, lui cercò di
dissuaderlo scuotendo la testa. Non sentiva più niente. Non c'era
dolore: gli era semplicemente calata sugli occhi una tenda grigia.
La ragazza si avvicinava. Ormai era a metà strada. Gli puntò
contro la pistola mirando in mezzo alla fronte.
Parla o ti spappolo il cervello. Dov'è Evan?
Poi fece per girarsi. Forse aveva sentito Evan che strisciava.
Allora lui si alzò un'altra volta per distrarla. Non ci riuscì subito.
Ci mise più di un minuto, tra gli scarponi che scivolavano sulle
mattonelle bagnate per via della neve sciolta, i mezzi successi, le
ricadute, il fatto che continuava a tenere la mano in tasca
rendendo tutto più complicato. La ragazza lo guardava e
ridacchiava, proprio come un tempo facevano i suoi compagni di
scuola. Era grasso. Era goffo. Era stupido. Era una palla di lardo.
Quando alla fine fu in piedi, lei gli sparò di nuovo.
Spicciati, per favore. Sto sprecando munizioni.
La plastica che avvolgeva la merendina era rigida e
scricchiolante; faceva sempre rumore quando ci giocherellava.
Era così che sua mamma aveva scoperto quello che aveva in tasca
il giorno in cui il fratello era scomparso. E così che se n'erano
resi conto i soldati sullo scuolabus. Il sergente istruttore l'aveva
ribattezzato Poundcake perché adorava la storia del ragazzino in
carne arrivato al campo con nient'altro che i vestiti che aveva
indosso e una vecchia merendina ormai in briciole ma ancora
nell'involucro.
La plastica della bustina trasparente che aveva trovato davanti

214
all'ingresso dell'albergo invece non scricchiolava. Era molto più
molle. Non fece rumore quando la tirò fuori dalla tasca. Uscì in
silenzio, lo stesso silenzio in cui era rimasto chiuso lui dopo che
la madre gli aveva ordinato di stare zitto, zitto, zitto.
Il sorriso della ragazza svanì.
E Poundcake ricominciò a muoversi. Non verso di lei e non
verso l'ascensore, bensì verso la porta laterale in fondo al
corridoio.
Ehi, cos'hai lì, ragazzone? Allora? Che roba è? Non mi
sembra un antidolorifico.
Il sorriso della ragazza tornò al suo posto. Era cambiato, però.
Era un sorriso gentile. Era proprio bella quando sorrideva così.
Probabilmente era la ragazza più bella che avesse mai visto.
Devi stare molto attento con quell'aggeggio. Mi capisci? Ehi.
Ehi, sai una cosa? Voglio fare un patto con te. Io metto giù la
pistola se tu metti giù quello. Okay? Che te ne pare?
E poi lo fece davvero. Posò la pistola sul pavimento.
Dopodiché si tolse di spalla il fucile e posò anche quello. Per
finire, tirò su le mani.
Ti posso aiutare. Mettilo giù e io ti aiuto. Non devi morire per
forza. So come rimetterti in sesto. Sono... sono diversa da te. Di
certo poi non ho la tua forza e il tuo coraggio, questo è sicuro. È
incredibile che tu sia ancora in piedi.
Stava prendendo tempo. Avrebbe aspettato che svenisse o
stramazzasse a terra morto. Non doveva far altro che continuare a
parlare e sorridere e fingere di trovarlo simpatico.
Lui aprì la bustina.
Ora la ragazza non sorrideva più. Gli si stava avventando
contro, e in vita sua lui non aveva mai visto nessuno correre così
veloce. Il velo grigio tremolava. Quando gli fu vicina, spiccò un

215
salto e lo colpì a gamba tesa in uno dei punti in cui l'aveva ferito,
scaraventandolo indietro e mandandolo a sbattere contro il telaio
metallico della porta. Per un istante il velo da grigio diventò nero.
La bustina gli scappò dalle dita mezzo addormentate e scivolò
sulle mattonelle come un disco da hockey. La ragazza si girò da
quella parte con l'eleganza di una ballerina. Lui le fece lo
sgambetto e la spedì lunga distesa a terra.
Lei era troppo rapida e lui era troppo malmesso. Ci sarebbe
comunque arrivata prima. Perciò raccolse la pistola che gli era
sfuggita di mano in precedenza e le sparò alla schiena.
Poi si alzò per l'ultima volta. Gettò via l'arma. Scavalcò il
corpo in preda agli spasmi della ragazza e subito ricadde.
Si trascinò verso la bustina. Lei fece altrettanto. Non riusciva
a sollevarsi. Il proiettile le aveva trapassato la colonna vertebrale.
Era paralizzata dalla vita in giù. Ma era più forte di lui e aveva
perso molto meno sangue.
Lui raccolse la bustina. Lei lo afferrò per il braccio e lo tirò
verso di sé come se non pesasse niente. L'avrebbe finito con un
pugno a quel suo cuore già agonizzante.
Ma lui doveva semplicemente respirare.
Con un gesto deciso si portò l'apertura della bustina alla
bocca.
E respirò.

216
SECONDO LIBRO

217
Settima parte
LA SOMMA DI TUTTE LE COSE

218
50
Sono seduta da sola in un'aula senza finestre. Moquette
azzurra, pareti bianche, lunghi tavoli bianchi. Monitor bianchi e
tastiere bianche. Ho indosso la tuta bianca delle nuove reclute.
Campo diverso, addestramento identico, fino all'impianto nel
collo e al viaggio in Mnemolandia. Lo sto ancora scontando, quel
viaggio. Dopo che ti hanno risucchiato i ricordi, non senti un
vuoto. Senti un male cane dappertutto. Anche i muscoli
conservano la memoria. È per questo che per un simile giro di
giostra ti devono legare.
La porta si apre ed entra il comandante Alexander Vosch. Ha
con sé una cassetta di legno, che poi mi posa davanti sul tavolo.
«Ti vedo bene, Marika» dice. «Molto meglio di quanto
pensassi.»
«Mi chiamo Ringer.»
Annuisce. Capisce benissimo cosa intendo. Mi è capitato più
volte di chiedermi se le informazioni raccolte da Mnemolandia
vadano in entrambe le direzioni. Se si può scaricare il vissuto di
qualcuno, perché non dovrebbe essere possibile caricarlo in
qualcun altro? Forse la persona che mi sta sorridendo contiene i
ricordi di ogni singolo essere umano analizzato dal programma.
Può darsi che non sia umano -- io ho i miei dubbi al riguardo --
ma può anche darsi che sia la somma di tutti gli umani che hanno
varcato i cancelli di Mnemolandia.
«Certo. Marika è morta.» Si siede dall'altra parte del tavolo.
«E ora eccoti qui, risorta come una fenice dalle sue ceneri.»
Sa cosa sto per domandargli. Lo vedo dal luccichio nei suoi
occhi azzurri. Perché non me lo dice e basta? Perché glielo devo
chiedere?
«È viva Teacup?»

219
«Di che risposta ti fideresti di più? "Sì" o "no"?»
Rifletti prima di controbattere. Gli scacchi insegnano.
«"No".»
«Perché?»
«"Sì" potrebbe essere una bugia per manipolarmi.»
Annuisce: è d'accordo. «Per darti false speranze.»
«Per tenermi in pugno.»
Inclina la testa e mi guarda da sopra il naso affilato. «E
perché uno come me dovrebbe avere bisogno di tenere in pugno
una come te?»
«Non lo so. Evidentemente vuoi qualcosa.»
«Altrimenti...?»
«Altrimenti sarei morta.»
Rimane in silenzio per un po'. Il suo sguardo penetrante mi
arriva fino alle ossa. Indica la scatola di legno.
«Ti ho portato una cosa. Aprila.»
Guardo in basso. Poi di nuovo lui. «Non mi va.»
«È solo una scatola.»
«Qualunque cosa tu voglia, non ho intenzione di farla. Stai
sprecando tempo.»
«E il tempo è l'unica valuta rimasta, vero? Il tempo e le
promesse.» Picchia sul coperchio con il dito. «Mi c'è voluto un
sacco di quel primo prezioso bene per trovare una di queste.»
Spinge la scatola verso di me. «Aprila.»
La apro. Lui va avanti. «Ben non voleva giocare con te. E
nemmeno la piccola Allison... Teacup, cioè. Anche Allison è
morta. Non fai una partita a scacchi da quando se n'è andato tuo
padre.»
Scuoto la testa. Non in risposta alla sua domanda. Scuoto la
testa perché non capisco. Il sommo artefice del genocidio vuole

220
giocare a scacchi con me?
Rabbrividisco. La tuta è sottile come un foglio di carta e la
stanza è freddissima. Vosch mi guarda sorridendo. No. Non si
limita a guardarmi. "Non è come Mnemolandia. Non è al corrente
solo dei ricordi. È al corrente anche dei pensieri." Mnemolandia è
un apparecchio. Registra, mentre invece Vosch interpreta.
«Se ne sono andati» dico di getto. «Hanno lasciato l'albergo.
E tu non sai dove sono.» Dev'essere questo. Non mi viene in
mente nessun'altra ragione che spieghi perché non mi ha uccisa.
Una ragione pietosa, comunque. Con questo clima e con le
sue risorse, quanto mai sarà difficile trovarli? Mi infilo le mani
gelate tra le ginocchia e mi sforzo di fare respiri lenti e profondi.
Lui solleva il coperchio, tira fuori la tavola e prende la regina
bianca. «Bianco? Preferisci il bianco.»
Dita lunghe e sciolte preparano la scacchiera. Dita da
musicista, scultore, pittore. Appoggia i gomiti sul tavolo e
intreccia quelle dita a formare un ripiano per il mento, come
faceva mio padre ogni volta che giocava.
«Cosa vuoi?» chiedo.
Alza un sopracciglio. «Voglio fare una partita a scacchi.»
Mi fissa in silenzio. Cinque secondi diventano dieci. Dieci
diventano venti. Dopo trenta, mi sembra che sia passata
un'eternità. Credo di sapere cosa sta facendo: un gioco all'interno
del gioco. Solo che non capisco perché.
Opto per un'apertura spagnola. Non è la mossa più originale
della storia, ma mi sento un po' sotto pressione. Per tutto il tempo
lui canticchia stonato a bocca chiusa: lo fa apposta per
scimmiottare mio padre. Ho il voltastomaco dal disgusto. Per
sopravvivere ho costruito dei muri, una fortezza emotiva che mi
ha protetta e mi ha permesso di conservare la salute mentale in un

221
mondo pericolosamente uscito di senno, ma anche la persona più
aperta ha in sé un luogo privato sacro a cui non vuole che nessun
altro acceda.
Ora capisco il gioco all'interno del gioco: non c'è niente di
privato, niente di sacro. Non c'è nessuna parte di me che lui non
conosca. Il voltastomaco peggiora. Ha violato più dei miei
ricordi. Mi sta molestando l'anima.
Il mouse e la tastiera alla mia destra sono senza fili. Ma il
monitor accanto a lui, no. Un balzo dall'altra parte del tavolo, un
colpo secco alla nuca e una passata di cavo intorno al collo.
Esecuzione in quattro secondi, fine in quattro minuti. A meno che
non ci osservino, e probabilmente è così. Vosch vivrà, io e Teacup
moriremo. E, supponendo che quanto sosteneva Evan Walker sia
vero, se anche riuscissi a eliminarlo, sarebbe una vittoria di Pirro.
All'albergo l'ho fatto notare a Sullivan quando ha detto che Evan
si era sacrificato per far saltare in aria la base: se si possono
scaricare in corpi umani, possono anche fare copie di loro stessi.
In tal caso la serie di "Evan" e di "Vosch" sarebbe potenzialmente
infinita. Evan poteva uccidersi. Io potrei uccidere Vosch. Non
avrebbe alcuna importanza. Le entità al loro interno sarebbero,
per definizione, immortali.
"Fai molta attenzione a quello che sto per dirti" ha risposto
Sullivan con finto tono paziente. "C'è un essere umano che si è
fuso con la coscienza aliena. Evan non è né l'una né l'altra cosa: è
l'insieme delle due. Perciò può morire."
"Comunque non morirebbe la parte che conta."
"Giusto", ha ribattuto acida. "Morirebbe solo l'insignificante
parte umana."
Vosch è sporto sulla scacchiera. Ha l'alito cha sa di mela. Mi
premo le mani in grembo. Alza un sopracciglio. "Problemi?"

222
«Perderò» dico.
Lui si finge sorpreso. «Cosa te lo fa pensare?»
«Sai che mossa farò prima che la faccia.»
«Lo credi per via di Mnemolandia. Ma ti dimentichi che
siamo più della somma delle nostre esperienze. Gli umani
possono essere meravigliosamente imprevedibili. Guarda, per
esempio, il modo in cui hai salvato Ben Parish mentre Camp
Haven collassava. Un gesto contrario a ogni logica e al primo
istinto di tutti gli esseri viventi: continuare a vivere. Oppure la
tua decisione di ieri, quando ti sei arresa perché hai capito che la
bambina avrebbe avuto la possibilità di cavarsela solo se ti fossi
fatta catturare.»
«E se l'è cavata?»
«Conosci già la risposta a questa domanda.» Tono
spazientito, da insegnante severo a un alunno promettente. Fa un
gesto verso la scacchiera: "Gioca".
Chiudo una mano sull'altra serrata a pugno e stringo più forte
che posso immaginando che quel pugno sia il suo collo. Quattro
minuti per soffocarlo e ucciderlo. Solo quattro minuti.
«Teacup è viva» dico. «Minacciare me servirebbe a poco:
preferirei farmi fulminare il cervello che ubbidirti. Ma sai che per
lei mi convincerei.»
«Ormai siete una cosa sola, vero? È come se foste collegate
da un cordoncino argentato.» Sorride. «A ogni modo, oltre a
diverse lesioni gravi da cui potrebbe o no essersi ripresa, ti deve
un'altra cosa: il dono inestimabile del tempo. C'è un proverbio
latino che dice: Vincit qui patitur. Sai che significa?»
Ho passato lo stadio del freddo. Ho raggiunto lo zero
assoluto. «No, e lo sai.»
«"Chi la dura la vince." Pensa ai ratti della povera Teacup.

223
Cosa ci insegnano? Te l'ho detto la prima volta che ci siamo visti:
si tratta di distruggere non tanto la possibilità dell'avversario di
contrattaccare quanto la sua volontà di farlo.»
Di nuovo i ratti. «Un ratto senza speranza è un ratto morto.»
«I ratti non sanno cosa sia, la speranza. O la fede. O l'amore.
Avevi ragione in proposito, soldato Ringer. Non saranno queste
cose a salvare l'umanità dalla tempesta. Sulla rabbia però ti
sbagliavi. Nemmeno la rabbia è la risposta.»
«E qual è la risposta?» Non voglio fare domande, non voglio
dargli questa soddisfazione, ma non riesco a trattenermi.
«Ci sei vicina» dice. «Credo che ti sorprenderebbe sapere
quanto.»
«Ovvero?» Ho la voce acuta, da ratto.
Scuote la testa, nuovamente spazientito. «Gioca.»
«È inutile.»
«Un mondo in cui gli scacchi non contano è un mondo in cui
non mi interessa vivere.»
«Smettila. Smettila di fare il verso a mio padre.»
«Tuo padre era un brav'uomo in balia di un problema terribile.
Non dovresti essere così dura nel giudicarlo. E neppure nel
giudicare te stessa per averlo abbandonato.»
"Per favore, non te ne andare. Non mi lasciare, Marika."
Dita lunghe e sciolte che mi ghermiscono la maglietta, dita da
artista. Viso segnato dallo scalpello impietoso della fame, il
maestro infuriato con l'argilla indifesa, e occhi rossi bordati di
nero.
"Poi torno. Te lo prometto. Senza, morirai. Te lo prometto.
Poi torno."
Vosch sorride senza partecipazione, un sorriso da squalo o un
ghigno da teschio, e se la risposta non è la rabbia, allora cos'è?

224
Stringo il pugno così forte da conficcarmi le unghie nel palmo.
"Ecco, è così che me l'ha descritto Evan" ha detto Sullivan
chiudendo la mano intorno al pugno. "Questa è Evan. E questo è
l'essere all'interno." La mia mano è la rabbia, ma cos'è il mio
pugno? Che c'è sotto lo strato di rabbia?
«Una mossa allo scacco matto» annuncia Vosch sottovoce.
«Perché non la fai?»
Le mie labbra si muovono a stento. «Perché non mi piace
perdere.»
Tira fuori dal taschino un apparecchio argenteo grande quanto
un cellulare. Ne ho già visto uno simile. So a cosa serve.
Comincio a sentire un prurito al collo, tutt'intorno al minuscolo
cerotto che copre il punto d'inserimento del cilindretto.
«Questo ormai conta poco» dice.
Sangue sul palmo del pugno che è dentro la mano che stringe
il pugno. «Premi pure il tasto. Non me ne frega niente.»
Annuisce in segno di approvazione. «Ora sei vicinissima alla
risposta. Ma non è tuo l'impianto collegato. Vuoi ancora che lo
prema?»
"Teacup." Abbasso lo sguardo sulla tavola. "Una mossa allo
scacco matto." La partita era finita prima di iniziare. Quando un
incontro è truccato, come si fa a evitare la sconfitta?
A suggerirmi la risposta è stata una bambina di sette anni.
Infilo la mano sotto la scacchiera e gli scaravento tutto in faccia.
"Mi sa tanto che questo è scacco matto, stronza!"
Lui lo capisce in tempo e si scosta senza fatica. I pezzi
ricadono sul tavolo sbattendo, rotolano pigri sul ripiano e alla
fine cadono in terra. Non avrebbe dovuto dirmi che l'apparecchio
è collegato all'impianto di Teacup: se preme il tasto, perde il
potere che ha su di me.

225
Vosch preme il tasto.

226
51
La mia reazione è lentissima. E istantanea.
Scavalco il tavolo e gli do una ginocchiata al petto che lo
manda a terra sulla schiena. Gli finisco addosso e gli sbatto la
base del palmo insanguinato su quel naso aristocratico. Nel farlo
ruoto le spalle in modo da massimizzare l'impatto: un colpo da
manuale, proprio come mi hanno insegnato a Camp Haven.
Allenamento dopo allenamento dopo allenamento, alla fine non
c'è più bisogno di pensare: anche i muscoli conservano la
memoria. Il naso gli si rompe con uno scrocchio appagante. A
questo punto, dicevano gli istruttori, un soldato saggio batte in
ritirata. Il corpo a corpo è imprevedibile e ogni secondo di
scontro aumenta il rischio. Meglio, amavano ripetere, "tagliare la
corda". Vincit qui patitur.
Ma qui non c'è modo di tagliare la corda. L'orologio si
avvicina all'ultimo tic: è finito il tempo. La porta si spalanca e la
stanza viene invasa da soldati. In un lampo mi afferrano, mi
strappano da Vosch e mi gettano a faccia in giù sul pavimento. Ho
uno stinco premuto sul collo. Sento l'odore del sangue. Non il
mio. Quello di Vosch.
«Mi deludi» mi sussurra all'orecchio. «Te l'avevo detto che la
risposta non era la rabbia.»
Mi rimettono in piedi. La metà inferiore del viso di Vosch è
coperta di sangue. Gli imbratta le guance come una pittura di
guerra. Gli occhi, già un po' gonfi, gli danno un bizzarro aspetto
da maiale.
Si gira verso il capo della squadra fermo lì accanto, una
recluta slanciata dalla pelle chiara con capelli biondi ed
espressivi occhi scuri.
«Preparala.»

227
52
Corridoio: soffitti bassi, neon che sfarfallano, pareti a blocchi
di cemento. La pressione dei corpi intorno a me, uno davanti, uno
dietro, due ai lati a tenermi per le braccia. Lo stridere delle scarpe
dalle suole di gomma sul pavimento grigio in calcestruzzo, una
leggera puzza di sudore e l'aroma dolciastro dell'aria riciclata.
Scale: ringhiera dipinta dello stesso grigio dei pavimenti,
ragnatele che tremolano negli angoli, polverose lampadine gialle
dentro gabbie di filo di ferro e, via via che scendiamo, sempre più
caldo e odore di chiuso. Un altro corridoio: porte non
contrassegnate, larghe strisce rosse che corrono lungo i muri grigi
e cartelli che dicono VIETATO L'ACCESSO e SOLO PERSONALE
AUTORIZZATO. Stanza: piccola, senza finestre. Armadietti lungo
una parete, un letto da ospedale al centro e, accanto, un monitor
per i parametri vitali con lo schermo nero. Ai lati del letto, due
persone con indosso un camice bianco. Un uomo di mezz'età e
una donna più giovane, entrambi con un sorriso forzato.
La porta si chiude con un rumore metallico. Sono sola con i
Camici Bianchi, fatta eccezione per la recluta bionda ferma alle
mie spalle vicino all'ingresso.
«Con le buone o con le cattive» dice l'uomo. «A te la scelta.»
«Con le cattive» rispondo. In un attimo mi volto e stendo il
ragazzo con un pugno alla gola. La pistola gli cade sulle
mattonelle. La tiro su e mi rigiro verso i Camici Bianchi.
«Non puoi fuggire» dice l'uomo calmo. «Lo sai.»
Sì, lo so. Ma non è per fuggire che mi serve la pistola. Non
nel senso in cui lo intende lui. Non ho intenzione di fare ostaggi
né di uccidere nessuno. Uccidere esseri umani è l'obiettivo del
nemico. Dietro di me, il ragazzo si contorce emettendo suoni a
metà tra singhiozzi e gorgoglii. Potrei avergli danneggiato la

228
laringe.
Lancio un'occhiata alla telecamera montata nell'angolo al
capo opposto della stanza. Mi sta guardando? Grazie a
Mnemolandia mi conosce meglio di chiunque altro al mondo.
Sono certa che sa per quale motivo ho preso la pistola.
Sono sotto scacco. Ed è troppo tardi per abbandonare la
partita.
Mi punto l'arma fredda alla tempia. La donna spalanca la
bocca, incredula. Fa un passo verso di me.
«Marika.» Occhi gentili. Voce dolce. «È viva perché lo sei tu.
Se muori, morirà anche lei.»
Ecco, ora ci sono. Mi ha detto che la risposta non è la rabbia,
e la rabbia è l'unica cosa che può spiegare il fatto che ha premuto
il tasto del soppressore quando ho rovesciato la scacchiera. O
perlomeno è questo che ho pensato sul momento. Non ho
neppure considerato l'idea che potesse essere un bluff.
E invece avrei dovuto. Non avrebbe mai rinunciato al suo
strumento di potere. Perché non l'ho capito? Sono io quella
accecata dalla rabbia, non lui.
Mi gira la testa; la stanza non vuole stare ferma. Bluff dentro
bluff, finte dentro controfinte. Sono in un gioco di cui non
conosco le regole e nemmeno lo scopo. Teacup è viva perché lo
sono io. Io sono viva perché lo è lei.
«Portami da lei» dico alla donna. Voglio la prova che
quell'assunto fondamentale sia vero.
«Scordatelo» interviene l'uomo. «Quindi?»
Bella domanda. Ma devo insistere, insistere con più forza, la
stessa con cui mi premo la pistola alla tempia. «Portami da lei o
giuro su Dio che lo faccio.»
«Non puoi» dice la donna. Voce dolce. Occhi gentili. Mano

229
tesa.
Ha ragione. Non posso. Potrebbe essere una bugia: Teacup
potrebbe essere morta. Ma resta comunque una possibilità che sia
viva, e se io muoio non hanno motivo di risparmiarla. Il rischio è
inaccettabile.
È questo il pasticcio. È questa la trappola. È qui che la strada
delle promesse impossibili si trasforma in un vicolo cieco. È qui
che porta l'antiquata convinzione che la vita insignificante di una
bambina di sette anni conti ancora.
"Mi dispiace, Teacup. Avrei dovuto mettere fine a questa
situazione nel bosco."
Abbasso la pistola.

230
53
Il computer si accende. Battito, pressione sanguigna, respiro,
temperatura. Il ragazzo che ho messo al tappeto è di nuovo in
piedi; appoggiato alla porta, con una mano si massaggia il collo e
con l'altra tiene la pistola. Mi guarda torvo. Io sono a letto.
«Una cosa per farti rilassare» mormora la donna con la voce
dolce e gli occhi gentili. «Una piccola iniezione.»
La puntura dell'ago. Le pareti scompaiono in un nulla
incolore. Passano mille anni. Vengo ridotta in polvere sotto il
tacco del tempo. Le loro voci si fanno strascicate, le loro facce si
dilatano. Il materassino di gommapiuma su cui sono sdraiata si
dissolve. Galleggio in uno sconfinato oceano bianco.
Dalla nebbia filtra una voce senza corpo. «E ora torniamo al
problema dei ratti, ti va?»
Vosch. Non lo vedo. La sua voce non ha fonte. Arriva da ogni
parte e da nessuna, come se fosse dentro di me.
«Hai perso casa tua. Ne hai trovata un'altra, una sola, che è
bella ma è infestata da ratti. Cosa puoi fare? Che scelte hai? Puoi
rassegnarti a vivere in pace con quelle bestiacce in grado solo di
far danni, o sterminarle prima che distruggano tutto. Ti dici: "I
ratti sono creature disgustose, ma pur sempre esseri viventi con i
miei stessi diritti"? Oppure: "Siamo incompatibili, io e questi
ratti. Se voglio vivere qui, devono morire"?»
Da migliaia di chilometri di distanza sento il bip bip del
monitor che controlla il battito del mio cuore. Il mare si increspa.
Mi alzo e mi abbasso a ogni movimento della superficie.
«Ma il punto non sono i ratti.» La sua voce mi martella,
pastosa, cupa come un tuono. «Non lo sono mai stati. Che sia
necessario sterminarli è un dato di fatto. È il metodo che ti
tormenta. La questione vera, il nodo fondamentale, riguarda la

231
roccia.»
La tenda bianca si scosta. Sto ancora galleggiando, ma ora mi
trovo sopra la Terra in un vuoto nero inondato di stelle e il sole
che bacia l'orizzonte tinge la superficie del pianeta di uno
scintillante colore oro. Il bip bip del monitor diventa frenetico.
Sento una voce che esclama: «Oh, merda» e poi quella di Vosch
che dice: «Respira, Marika. Sei perfettamente al sicuro».
"Perfettamente al sicuro." Allora è per questo che mi hanno
sedata. Altrimenti, con ogni probabilità, il mio cuore si sarebbe
fermato per lo shock. L'effetto è tridimensionale, indistinguibile
dalla realtà, solo che nello spazio vero non potrei respirare. Né
sentire la voce di Vosch là dove il suono non esiste.
«Questa è la Terra com'era sessantasei milioni di anni fa.
Bella, eh? Un eden incontaminato. L'aria prima che la
avvelenaste. L'acqua prima che la insozzaste. La terra
lussureggiante di vita prima che voi, roditori che non siete altro,
ne faceste scempio per nutrire i vostri voraci appetiti e costruire
le vostre luride tane. Si sarebbe potuta conservare intatta per altri
sessantasei milioni di anni, salva dalla vostra ingordigia di
mammiferi, non fosse stato per un incontro casuale con un
visitatore alieno grande un quarto di Manhattan.»
L'asteroide mi sfreccia accanto, rugoso e butterato, coprendo
le stelle nella sua corsa verso il pianeta. Quando entra
nell'atmosfera, la metà inferiore diventa incandescente. Giallo
acceso, poi bianco.
«E così il destino del mondo è deciso. Da una roccia.»
Ora mi trovo sulla riva di un mare poco profondo ma
immenso e guardo l'asteroide che cade, un puntino minuscolo, un
sassetto insignificante.
«Quando la polvere creata dall'impatto si è posata, delle

232
forme di vita presenti sulla Terra solo un quarto era
sopravvissuto. Il mondo finisce. Il mondo comincia di nuovo.
L'umanità deve la propria esistenza a un capriccio del cosmo. A
un macigno. Fa davvero specie, se ci pensi.»
Il suolo trema. Un'esplosione distante, poi un silenzio
innaturale.
«E qui sta il rompicapo, l'enigma che hai sempre evitato,
perché confrontarsi con il problema scuote le fondamenta stesse,
vero? Si sottrae a qualunque spiegazione. Rende tutto ciò che è
successo confuso, assurdo, insensato all'inverosimile.»
Il mare si agita e fuma. L'acqua ribolle ed evapora. Un'enorme
massa di polvere e pietra sbriciolata avanza verso di me tuonando
e offuscando il cielo. L'aria è piena di suoni acuti come le grida
di un animale morente.
«Non c'è bisogno che dica ovvietà, no? La questione ti
tormenta da tantissimo tempo.»
Non riesco a muovermi. Lo so che non è reale, ma il mio
panico sì, mentre la massa di vapore e frammenti mi piomba
addosso con un brontolio cupo. Un milione di anni di evoluzione
mi ha insegnato a fidarmi dei miei sensi e la parte primitiva del
mio cervello è sorda a quella razionale che le strilla: "Non è reale
non è reale non è reale non è reale".
«Impulsi elettromagnetici. Gigantesche barre di metallo che
piovono dal cielo. Epidemia virale...» A ogni parola la sua voce si
alza e le parole sono come rombi di tuono o colpi violenti
assestati dal tacco di uno scarpone. «Agenti inattivi inseriti in
corpi umani. Eserciti di bambini sottoposti al lavaggio del
cervello. Che razza di storia è? È questo il punto centrale. L'unico
che conti davvero: perché darsi tanta pena quando non serve altro
che una roccia molto, molto grossa?»

233
L'onda mi sommerge, e io annego.

234
54
Rimango sepolta per millenni.
Chilometri sopra di me, il mondo si sveglia. Nelle ombre
fresche che si raccolgono come pozze ai piedi degli alberi della
foresta pluviale, una creatura simile a un topo scava in cerca di
radici tenere. I suoi discendenti addomesticheranno il fuoco,
inventeranno la ruota, scopriranno le leggi della matematica,
creeranno la poesia, devieranno fiumi, spianeranno selve,
costruiranno città, esploreranno lo spazio. Ma per ora l'unica
cosa che conta è trovare da mangiare e rimanere in vita almeno
quanto basta a generare altre creature simili a topi.
Annientato dal fuoco e dalla polvere, il mondo rinasce sotto
forma di roditore affamato che scava nella terra.
L'orologio ticchetta. Nervosa, la creatura annusa l'aria calda e
umida. Il battito da metronomo dell'orologio accelera e io risalgo
verso la superficie. Quando spunto dalla polvere, la creatura si è
trasformata: è seduta su una sedia accanto al mio letto, con
indosso un paio di jeans irrigiditi dallo sporco e una maglietta
strappata. Con le spalle curve, la barba incolta e lo sguardo
assente, c'è l'inventore della ruota, colui che ha ereditato,
malgestito e dissipato le proprie ricchezze.
Mio padre.
Il bip bip del monitor. La flebo che gocciola e le lenzuola
rigide e il cuscino duro e i tubicini che mi escono serpeggiando
dalle braccia. E l'uomo seduto accanto al letto, sudato e
giallognolo, coperto da una patina di sudiciume, irrequieto, che si
tormenta la maglietta, con gli occhi iniettati di sangue e le labbra
umide e gonfie.
«Marika.»
Chiudo gli occhi. "Non è lui. È il farmaco che Vosch ti ha

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iniettato."
Di nuovo: «Marika».
«Stai zitto. Non sei reale.»
«Marika, devo dirti una cosa. Una cosa che è giusto tu
sappia.»
«Non capisco perché mi fai questo» dico rivolta a Vosch. Lo
so che mi guarda.
«Ti perdono» dice mio padre.
Non riesco a respirare. Sento un dolore acuto al petto, come
se mi ci avessero piantato un coltello.
«Per favore» imploro Vosch. «Per favore, smettila.»
«Dovevi andare» continua mio padre. «Non avevi altra scelta
e comunque quello che è successo è solo colpa mia. Non sei stata
tu a farmi diventare un ubriacone.»
Istintivamente mi tappo le orecchie con le mani. Ma la sua
voce non è nella stanza: è dentro di me.
«Non ho resistito molto, dopo che te ne sei andata» cerca di
consolarmi lui. «Solo un paio d'ore.»
Eravamo a Cincinnati. Avevamo fatto centocinquanta
chilometri abbondanti. Poi la sua scorta è finita. Mi ha pregata di
non lasciarlo, ma sapevo che se non avessi trovato subito
dell'alcol sarebbe morto. Ne ho rimediato un po' -- una bottiglia
di vodka infilata sotto un materasso -- dopo essermi intrufolata in
sedici case diverse, che poi "intrufolata" per modo di dire, visto
che erano tutte case abbandonate e che mi era bastato passare da
una finestra rotta. Ero così felice quando ho visto quella bottiglia
che l'ho baciata.
Ma era troppo tardi. Tempo di tornare all'accampamento e
mio padre era morto.
«So che te lo rimproveri, ma sarei morto comunque. Sarei

236
morto comunque. Hai fatto quello che credevi fosse necessario.»
Sottrarsi alla sua voce è impossibile. Altrettanto scappare.
Apro gli occhi e guardo dritto nei suoi. «È tutta una menzogna.
Non sei reale.»
Sorride. Lo stesso sorriso di quando, durante una partita,
facevo una mossa particolarmente bella. L'insegnante soddisfatto.
«È proprio questo che sono venuto a dirti!» Si passa le dita
affusolate sulle cosce, e io vedo lo sporco incrostato sotto le
unghie. «È questa la lezione, Marika. È questo che vogliono tu
capisca.»
Mano calda su pelle fredda: mi sta toccando il braccio.
L'ultima volta che ho sentito il contatto di quella mano è stato
sulla guancia, mentre mi schiaffeggiava e con l'altra mi teneva
ferma. "Stronza! Non mi lasciare. Non ci provare neanche,
stronza!" E ogni "stronza" era sottolineato da uno schiaffo. Aveva
perso la ragione. Nel buio assoluto che calava ogni notte, vedeva
cose che non esistevano. Oppure le udiva nel silenzio spaventoso
che ogni giorno minacciava di sopraffarci. La notte in cui è morto
si è svegliato gridando e cacciandosi le unghie negli occhi. Ci
sentiva brulicare dentro degli insetti.
Quegli stessi occhi gonfi mi fissano in questo momento. E i
graffi sulla pelle sottostante sono ancora freschi. Un altro
cerchio, un altro cordoncino argentato: ora sono io a vedere,
udire e sentire cose che non esistono nel silenzio spaventoso.
«Prima ci hanno insegnato a non fidarci di loro» sussurra.
«Poi ci hanno insegnato a non fidarci l'uno dell'altro. Ora ci
stanno insegnando a non fidarci nemmeno di noi stessi.»
«Non capisco» rispondo sussurrando a mia volta.
Sta scomparendo. Mentre io scivolo dentro profondità senza
luce, lui svanisce in una luce senza profondità. Mi bacia sulla

237
fronte. Una benedizione. Una maledizione.
«Adesso appartieni a loro.»

238
55
La sedia è tornata vuota. Sono sola. Poi ricordo a me stessa
che ero sola anche quando la sedia non era vuota. Aspetto che il
martellio del mio cuore si plachi. Mi impongo di mantenere la
calma, di controllare il respiro. Il farmaco terminerà il suo circolo
nell'organismo e poi starò bene. "Sei al sicuro" mi dico.
"Perfettamente al sicuro."
Entra la recluta bionda a cui ho dato il pugno alla gola. Ha in
mano un vassoio con del cibo: una fetta di carne grigiastra di
misteriosa provenienza, patate, una montagnola di fagioli
mollicci e un bicchierone di succo d'arancia. Appoggia il vassoio
accanto al letto, schiaccia un tasto per portarmi in posizione
seduta, ruota il supporto per sistemarmi davanti il piatto e poi
resta lì fermo in piedi a braccia incrociate, come se fosse in attesa
di qualcosa.
«Dimmi se è buono» mormora con voce roca. «Io non potrò
mangiare niente di solido per ben tre settimane.»
Ha la pelle chiara, il che fa sembrare i suoi profondi occhi
castani ancora più scuri. Non lo definirei "grosso": non è né
palestrato come Zombi né tozzo come Poundcake. È alto e
asciutto, un fisico da nuotatore. C'è un'intensità pacata in lui, nel
modo in cui si comporta, ma in particolare negli occhi, una forza
attentamente tenuta a freno appena sotto la superficie.
Non so di preciso cosa si aspetti che dica. «Scusa.»
«È stato un colpo basso.» Tamburella con le dita sul braccio.
«Non mangi?»
Faccio segno di no. «Non ho fame.»
È reale questo cibo? E il ragazzo che me l'ha portato? Questa
incertezza sulle mie sensazioni è sconfortante. Sto annegando in
un mare infinito. Sprofondo lentamente, trascinata giù dal peso

239
delle profondità senza luce, mentre la pressione mi svuota i
polmoni di aria e il cuore di sangue.
«Bevi il succo» mi sgrida. «Dicono che dovresti almeno bere
il succo.»
«Perché?» chiedo con voce strozzata. «Cosa c'è, nel succo?»
«Un po' paranoica?»
«Un po'.»
«Ti hanno appena tolto mezzo litro di sangue. Ecco perché si
sono raccomandati che almeno bevessi il succo.»
Io non me lo ricordo. È stato mentre "parlavo" con mio padre?
«Perché mi prelevano il sangue?»
Sguardo fisso e inespressivo. «Dammi un attimo che ci penso.
Di solito mi informano su tutto.»
«Cosa ti hanno detto? Che ci faccio qui?»
«In teoria non dovrei neanche rivolgerti la parola» risponde.
Poi: «Ci hanno detto che sei una prigioniera di riguardo. Una
specie di VIP». Scuote la testa. «Bah. Nei bei tempi andati chi
dava di Dorothy spariva e basta.»
«Io non ho dato di Dorothy.»
Scrolla le spalle. «Non mi interessa fare domande.»
A me, però, interessa ottenere risposte. «Sai cos'è successo a
Teacup?»
«TK? È un nome in codice?»
«No.»
«Era una battuta.»
«Non l'ho capita.»
«Okay. Vattene a fanculo.»
«La bambina che è arrivata in elicottero con me. Aveva una
brutta ferita. Ho bisogno di sapere se è viva.»
Annuisce serio. «Sì, sì, aspetta, ora te lo dico.»

240
Sono partita con il piede sbagliato. Non sono mai stata brava
con le persone. Alle medie il mio soprannome era Sua Maestà
Marika. Ne esisteva una decina di varianti. Magari dovrei cercare
di stabilire un rapporto che vada oltre il vaffanculo. «Io,
comunque, mi chiamo Ringer.»
«Stupendo. Ne andrai molto fiera, immagino.»
«Hai un'aria familiare. Eri a Camp Haven?»
Fa per rispondere. Poi si blocca. «Non sono autorizzato a
parlarti.»
Per poco non mi scappa detto: "E allora perché lo fai?". Ma
mi freno in tempo. «In effetti mi pare una buona idea. Non
vogliono che tu sappia cosa so.»
«Oh, lo so cosa sai: è tutta una balla, siamo stati infinocchiati
dal nemico, ci stanno usando per fare piazza pulita dei
sopravvissuti, bla bla bla. Tipiche stronzate alla Dorothy.»
«Sì, era quello che credevo» ammetto. «Ora non ne sono più
tanto sicura.»
«Ci salterai fuori.»
«Senz'altro.» Rocce e ratti e forme di vita così evolute da non
avere più bisogno di corpi. Ci salterò fuori, certo, ma
probabilmente troppo tardi. Anzi, probabilmente è già troppo
tardi. Perché mi hanno prelevato il sangue? Perché Vosch mi
tiene in vita? Cosa posso mai avere che gli faccia comodo?
Perché hanno bisogno di me, di questo ragazzo biondo o di
qualsiasi altro umano? Se con le loro manipolazioni genetiche
sono riusciti a mettere a punto un virus capace di uccidere nove
persone su dieci, perché non dovrebbero riuscire a metterne a
punto un secondo capace di ucciderne dieci su dieci? O, come ha
detto Vosch, perché darsi tanta pena quando non serve altro che
una roccia bella grossa?

241
Mi fa male la testa. Mi gira tutto. Ho la nausea. Mi manca la
capacità di pensare lucidamente. Era la cosa che mi piaceva di più
in assoluto.
«Bevi quel cavolo di succo così poi me ne vado» dice.
«Tu dimmi come ti chiami e io lo bevo.»
Esita, poi: «Razor».
Bevo il succo. Lui prende il vassoio ed esce. Se non altro, gli
ho strappato il nome. Una piccola vittoria.

242
56
Arriva la donna con il camice bianco. Si presenta come
dottoressa Claire. Capelli scuri e ondulati tirati indietro a lasciare
scoperto il viso. Occhi del colore del cielo autunnale. Sa di
mandorle amare, che è anche l'odore del cianuro.
«Perché mi avete prelevato il sangue?»
Sorride. «Perché sei così dolce, Ringer, che abbiamo deciso
di clonarti in almeno cento copie.» Nella sua voce non c'è traccia
di sarcasmo. Stacca la flebo e arretra in tutta fretta: sembra abbia
paura che io salti giù dal letto e la strangoli. Per un attimo, in
effetti, ho considerato l'idea, ma preferirei pugnalarla con un
temperino. Non so quante volte dovrei colpirla per ucciderla.
Parecchie, probabilmente.
«Ecco un'altra delle cose che non hanno senso» dico. «Perché
scaricare la vostra coscienza in un corpo umano quando potreste
ottenere tutti i cloni che volete standovene sulla vostra astronave?
Con zero rischi.» Soprattutto considerato che qualcuno dei vostri
compari può combinarvene una alla Evan Walker e innamorarsi di
una ragazza umana.
«È un'osservazione valida.» Annuisce seria. «Ne parlerò
durante la prossima riunione strategica. Magari dobbiamo
ripensare tutta questa storia della conquista ostile. Fa un cenno
verso la porta. «Cammina.»
«Per andare dove?»
«Lo scoprirai. Non ti preoccupare.» Poi aggiunge: «Ti
piacerà».
Non andiamo molto lontano. Due stanze più in là.
L'arredamento è sobrio. Un lavandino e un armadietto, un water e
una doccia.
«Da quant'è che non ti lavi come si deve?» chiede.

243
«Da Camp Haven. Dalla notte prima che sparassi al cuore del
mio sergente istruttore.»
«Ma dài?» risponde tutta tranquilla, come se le avessi detto
che un tempo abitavo a San Francisco. «L'asciugamano è lì.
Spazzolino, pettine e deodorante sono nell'armadietto. Mi trovi
subito fuori dalla porta. Se hai bisogno di qualcosa, bussa.»
Rimasta sola, apro l'armadietto. Deodorante roll-on con
antitraspiranti. Pettine. Tubetto di dentifricio mini taglia.
Spazzolino ancora chiuso nella plastica. Niente filo interdentale.
Uffa, ci avevo sperato. Spreco qualche istante a chiedermi quanto
ci vorrebbe a fare la punta al manico dello spazzolino in modo da
renderlo acuminato. Poi mi sfilo la tuta ed entro nella doccia, al
che mi viene in mente Zombi, non perché sono nuda nella doccia,
ma perché una volta ha attaccato a parlare di Facebook e fast
food e campanelle e di tutta una serie infinita di altre cose che
abbiamo perso, tipo le patatine unte e bisunte, le librerie con
l'odore di chiuso e le docce calde. Alzo la temperatura al mio
massimo e lascio che l'acqua mi piova addosso finché i
polpastrelli non mi si aggrinziscono. Saponetta alla lavanda.
Shampoo alla frutta. Il rigonfiamento duro del minuscolo
impianto mi si muove sotto le dita. "Adesso appartieni a loro."
Scaglio il flacone dello shampoo contro la parete della
doccia. Colpisco con il pugno le piastrelle finché non mi si
spellano le nocche. La mia rabbia è più grande della somma di
tutte le cose perse.
Vosch mi aspetta nella stanza di prima. Mentre Claire mi
benda la mano, non dice niente. Rimane in silenzio finché non
siamo soli.
«Cos'hai ottenuto?» chiede.
«Volevo dimostrare una cosa a me stessa.»

244
«Perché il dolore sarebbe la sola prova certa che sei viva?»
Accenno un no con la testa. «Lo so che sono viva.»
Annuisce pensieroso. «Ti andrebbe di vederla?»
«Teacup è morta.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Perché non c'è motivo di tenerla in vita.»
«È esatto se partiamo dall'assunto che l'unico motivo per farlo
sia manipolare te. Però, il narcisismo dei giovani d'oggi!»
Schiaccia un tasto sul muro. Dal soffitto si abbassa uno
schermo.
«Non mi puoi costringere ad aiutarti.» Soffoco un senso di
panico crescente: mi sembra di perdere il controllo su qualcosa
che però in realtà non ho mai controllato.
Vosch mi mostra la mano. Sul palmo ha un lucido oggetto
verde della forma e delle dimensioni di una grossa capsula di gel.
Da una delle estremità esce un filo sottile come un capello.
«Questo è il messaggio.»
Calano le luci. Lo schermo si accende. La telecamera passa
rapida su un campo di grano ucciso dall'inverno. In lontananza,
un casolare con un paio di annessi e un silo rugginoso. Una
figurina spunta inciampando dal filare di alberi che delimita il
campo e, a fatica, avanza tra gli steli secchi e spezzati verso il
gruppo di costruzioni.
«Quello è il messaggero.»
Da quell'altezza non riesco a dire se si tratta di un maschio o
di una femmina, ma di sicuro è un bambino. Dell'età di Nugget?
Più piccolo?
«Kansas centrale» prosegue Vosch. «Ieri, all'incirca ore
tredici.»
Sugli scalini del portico adesso si scorge un'altra figura.

245
Dopo un attimo, ne compare una terza. Il bambino comincia a
correre verso di loro.
«Non è Teacup» sussurro.
«No.»
Aprendosi un varco tra la lolla fragile, va incontro agli adulti
che lo guardano immobili, e uno di loro ha un fucile. Manca il
sonoro e questo, non so perché, rende la scena ancora più
terribile.
«È un istinto antico: in tempi di grande pericolo, sii prudente
con gli sconosciuti. Non fidarti di nessuno che non faccia parte
della tua cerchia.»
Mi irrigidisco. So già come va a finire la storia: l'ho vissuta in
prima persona. La figura con il fucile: io. Il bambino che gli corre
incontro: Teacup.
Il bambino cade. Si rialza. Si affretta. Cade di nuovo.
«Ma c'è un altro istinto, molto più antico, vecchio come la
vita stessa, quasi impossibile da reprimere per la mente umana:
proteggere i piccoli, costi quel che costi. Preservare il futuro.»
Mentre sbuca dal grano ed entra in cortile, il bambino cade di
nuovo. La prima figura non abbassa l'arma, ma la seconda corre
da lui e lo tira su dal terreno gelato. Quando si avvia verso casa,
si trova la strada bloccata dall'altra. Il confronto dura diversi
secondi.
«È tutta una questione di rischio» commenta Vosch. «L'hai
capito da un bel po'. Perciò saprai chi l'avrà vinta. Dopotutto, che
rischio potrà mai rappresentare un bambino? "Proteggere i
piccoli. Preservare il futuro."»
La persona che ha in braccio il piccolo si scosta per superare
quella armata e sale di corsa i gradini che portano in casa. L'altra
china la testa come in una preghiera, poi la alza come in una

246
supplica. Dopodiché si volta e va dentro. I minuti passano lenti.
Accanto a me, Vosch mormora: «Il mondo è un orologio».
Il casolare, gli annessi, il silo, i campi bruni e i numeri che si
sfocano mentre il display in basso sullo schermo mostra il tempo
che scorre a partire dai centesimi di secondo. So cosa sta per
succedere eppure sussulto quando il lampo silenzioso riempie di
bianco la scena. Poi vortici di polvere e detriti, e spire di fumo: il
grano brucia, foraggio tenero per il fuoco, consumandosi nel giro
di pochi secondi, e dove sorgevano le costruzioni ora c'è un
cratere, un buco nero scavato nella terra. La spia
dell'alimentazione si spegne. Lo schermo torna al suo posto. Le
luci rimangono basse.
«Volevo che capissi» dice Vosch in tono gentile. «Dato che ti
sei chiesta spesso per quale ragione tenevamo i bambini ancora
troppo piccoli per combattere.
«Io però non capisco.» La figurina tra acri di marrone, con
indosso una salopette di jeans, scalza, che corre in mezzo al
grano.
Lui fraintende la mia perplessità. «L'ordigno inserito nel
corpo del bambino è calibrato in modo da rilevare anche le più
minute fluttuazioni di anidride carbonica, il principale
componente del fiato dell'uomo. E quando l'anidride carbonica
raggiunge una certa soglia, il che indica la presenza di più
obiettivi, esplode.»
«No» sussurro. L'hanno portato dentro, l'hanno avvolto in una
coperta calda, gli hanno dato dell'acqua, gli hanno lavato il viso.
Si sono raccolti intorno a lui inondandolo del loro respiro.
«Sarebbero morti anche se gli avessi sganciato in testa una
bomba.»
«Non è questo il punto» scatta spazientito. «Non lo è mai

247
stato.»
Le luci si riaccendono, la porta si apre e Claire entra
spingendo un carrello di metallo. Dietro di lei vengono il suo
amico in camice bianco e Razor, che mi lancia un'occhiata e poi
distoglie lo sguardo. Mi spaventa più quel particolare che il
carrello con la sua gamma di siringhe: proprio non ce l'ha fatta a
guardarmi.
«Non cambia niente.» Ho la voce acuta. «Non mi interessa
cosa fai. Non mi interessa più nemmeno di Teacup. Anziché
aiutarti, mi ammazzo.»
Scuote la testa. «Non mi devi aiutare.»

248
57
Claire mi lega un laccetto di gomma intorno al braccio e mi
picchietta l'interno del gomito per far affiorare la vena. Razor è
dall'altra parte del letto. L'uomo in camice bianco -- non ho mai
capito come si chiami -- è accanto al monitor con un cronometro
in mano. Vosch mi guarda appoggiato al lavandino. I suoi occhi,
freddi e brillanti, luccicano come quelli dei corvi che affollavano
il bosco il giorno in cui ho sparato a Teacup, curiosi ma
curiosamente indifferenti, e lì capisco che ha ragione: la risposta
al loro arrivo non è la rabbia, ma il suo contrario. L'unica risposta
possibile è il contrario di tutto quanto, come la voragine là dove
una volta c'era il casolare: il nulla assoluto. Né odio, né rabbia,
né paura: niente di niente. Spazio vuoto. L'indifferenza
senz'anima degli occhi dello squalo.
«Tachicardica» mormora Signor Camice Bianco fissando il
monitor.
«Prima qualcosa per farti rilassare.» Claire mi infila l'ago nel
braccio. Mi giro verso Razor. Lui distoglie lo sguardo.
«Meglio» dice Camice Bianco.
«Non mi interessa cosa mi fai» informo Vosch. Mi sento la
lingua gonfia, impacciata nei movimenti.
«Poco male.» Fa un cenno a Claire, che prende un'altra
siringa.
«Pronta a inserire l'unità centrale nel punto contrassegnato»
annuncia lei.
"L'unità centrale?"
«Oh oh» dice Camice Bianco. «Attenta.» Osserva il monitor
mentre il mio battito cardiaco accelera.
«Non avere paura» interviene Vosch. «Non è pericoloso.»
Claire gli lancia un'occhiata stupita. Lui scrolla le spalle. «Be',

249
abbiamo fatto dei test.» Poi alza il pollice: "Avanti".
Peso dieci milioni di tonnellate. Le mie ossa sono di ferro; il
resto è di pietra. Non sento l'ago che mi penetra nel braccio.
Claire dice: «Mark» e Camice Bianco fa partire il cronometro. Il
mondo è un orologio.
«I morti si godono il meritato riposo» dice Vosch. «Sono i
vivi, quelli come me e te, che hanno ancora del lavoro da fare.
Chiamalo come ti pare: fato, caso, provvidenza. Mi sei capitata in
mano per diventare il mio strumento.»
«Fase di aggancio alla corteccia cerebrale.» È Claire che
parla. La sua voce suona attutita, come se qualcuno mi avesse
riempito le orecchie di cotone. Giro la testa verso di lei. Passano
secoli.
«Ne hai già visto uno» dice Vosch, e sembra lontano mille
chilometri. «Nella stanza delle esecuzioni, il giorno in cui sei
arrivata a Camp Haven. Ti abbiamo detto che era un'infestazione,
una forma di vita aliena abbarbicata a un cervello umano.
Abbiamo mentito.»
Sento il respiro di Razor, pesante, simile a quello di un sub
attraverso l'erogatore.
«In realtà è una microscopica unità di controllo fissata all'area
prefrontale del cervello» spiega Vosch. «Una CPU, se vuoi.»
«Si sta avviando» comunica Claire. «Sembra che vada tutto
bene.»
«Non per controllare te...» dice Vosch.
«Introduco il primo polielemento.» L'ago scintilla sotto la
luce dei neon. Puntolini neri sospesi in un liquido ambra. Non
sento niente mentre me lo inietta in vena.
«Ma per coordinare i quarantamila e più ospiti automatizzati
a cui darai alloggio.»

250
«Trentasette e mezzo di temperatura» dice Camice Bianco.
Al mio fianco Razor ha il respiro affannoso.
«Ai topi preistorici sono serviti milioni di anni e una miriade
di generazioni per raggiungere lo stadio attuale dell'evoluzione
umana» continua Vosch. «A te servirà solo qualche giorno per
conquistare quello successivo.»
«Allaccio con il primo polielemento completato» dice Claire
chinandosi di nuovo su di me. Alito alle mandorle amare.
«Introduco il secondo polielemento.»
La stanza è calda come una fornace. Sono fradicia di sudore.
Camice Bianco segnala che la mia temperatura è di trentanove
gradi.
«È una faccenda caotica, l'evoluzione» dice Vosch. «Molte
false partenze e tanti vicoli ciechi. Alcuni candidati non sono
adatti. Il loro sistema immunitario collassa, oppure sviluppano
una dissonanza cognitiva permanente. In parole semplici,
diventano matti.»
Sto bruciando. Nelle vene ho il fuoco. Dagli occhi mi
scendono rivoli che mi scivolano giù per le tempie e mi finiscono
nelle orecchie. Sulla superficie del mare increspato delle mie
lacrime vedo sporgersi il viso di Vosch.
«Ma confido in te, Marika. Non sei passata attraverso fiamme
e sangue solo per cadere ora. Sarai il ponte di raccordo tra quello
che era e quello che sarà.»
«La stiamo perdendo» grida Camice Bianco con la voce che
trema.
«No» mormora Vosch, la mano fresca sulla mia guancia
umida. «L'abbiamo salvata.»

251
58
Non esistono più né il giorno né la notte; c'è solo il chiarore
sterile delle luci al neon, luci che non si spengono mai. Misuro le
ore che passano con le visite di Razor, tre volte al giorno per
portarmi pasti che non mi stanno nello stomaco.
Non riescono ad abbassarmi la febbre. Non riescono a
stabilizzarmi la pressione. Non riescono a ridurmi la nausea. Il
mio corpo sta rigettando gli undici polielementi progettati per
potenziare i miei sistemi biologici e composti da quattromila
unità ciascuno: in totale, dunque, mi scorrono nel sangue
quarantaquattromila microscopici invasori robotici.
Mi sento uno schifo.
Ogni mattina, dopo colazione, Claire entra per visitarmi,
armeggia con i farmaci e fa commenti criptici tipo "È meglio se
cominci a dare segni di miglioramento. La finestra si sta
chiudendo". Oppure sarcastici come "Sai che forse l'idea di una
roccia bella grossa era davvero azzeccata?". Sembra risentita
perché ho reagito male al fatto che mi ha imbottita di congegni
alieni.
«Guarda che non ci puoi fare niente» mi ha detto una volta.
«La procedura è irreversibile.»
«Una cosa la posso fare.»
«Cioè? Oh. Certo. Ringer l'insostituibile.» Ha preso il
soppressore dalla tasca del camice e me l'ha mostrato. «Sei già
selezionata. Basta che io schiacci il tasto. Forza. Dimmi di
schiacciarlo.» E intanto sorrideva tutta tronfia.
«Schiaccialo.»
Si è fatta una risatina. «È strabiliante. Ogni volta che
comincio a chiedermi cosa vede in te, salti fuori con qualcosa del
genere.»

252
«Chi? Vosch?»
Il sorriso è svanito. Gli occhi hanno preso un'inespressività da
squalo. «Se non rispondi, interromperemo l'upgrade.»
"Interromperemo l'upgrade."
Mi ha tolto le bende dalle nocche. Né una crosta, né un
livido, né una cicatrice. Come se non fosse successo niente.
Come se non avessi preso a pugni il muro scarnificandomi fino
all'osso. Mi è venuto in mente Vosch, che è entrato in camera mia
completamente guarito pochi giorni dopo essersi ritrovato con il
naso rotto e gli occhi pesti. Ed Evan Walker, che, stando a quanto
aveva raccontato Sullivan, era stato trafitto da decine di schegge
eppure, non si sa come, a distanza di ore era riuscito a infiltrarsi
in una base militare e distruggerla agendo da solo.
Prima hanno preso Marika e l'hanno trasformata in Ringer.
Ora hanno preso Ringer e, con un upgrade, l'hanno resa una
persona completamente diversa. Una persona simile a loro.
O una cosa simile a loro.
Non esistono più né il giorno né la notte; c'è solo un costante
chiarore sterile.

253
59
«Cosa mi hanno fatto?» chiedo a Razor un giorno, quando mi
porta un altro pasto immangiabile. Non mi aspetto una risposta,
ma lui si aspetta la domanda. Deve sembrargli molto strano che
finora non gliel'abbia chiesto.
Scrolla le spalle evitando il mio sguardo. «Vediamo cosa
propone il menu oggi. Oooh. Polpettone! Che fanciulla
fortunata.»
«Sto per vomitare.»
Strabuzza gli occhi. «Davvero?» Si guarda intorno disperato
cercando la bacinella di plastica approntata per casi simili.
«Per favore, porta via il vassoio. Non ce la faccio.»
Si incupisce. «Sappi che ti piantano in asso se non ti ripigli.»
«L'avrebbero potuto fare a chiunque» dico. «Perché invece
proprio a me?»
«Magari sei speciale.»
Scuoto la testa e rispondo come se parlasse seriamente. «No.
Caso mai perché lo è qualcun altro. Sai giocare a scacchi?»
Allarmato: «Giocare a che?».
«Potremmo fare una partita. Quando mi sentirò meglio.»
«Sono più un tipo da baseball.»
«Davvero? Avrei detto da nuoto. Oppure da tennis.»
Inclina il capo e aggrotta le sopracciglia. «Mi sa che stai
male. Fai conversazione come se fossi per metà umana.»
«Io sono per metà umana. Letteralmente. L'altra metà...» Mi
stringo nelle spalle. E gli strappo un sorriso.
«Oh, il Dodicesimo Sistema è loro, su questo non ci piove»
dice.
"Il Dodicesimo Sistema?" Che significa di preciso? Non ne
sono sicura, ma sospetto che ci sia un nesso con gli undici

254
sistemi normalmente presenti nel corpo umano.
«Abbiamo trovato il modo di strapparlo dai corpi degli
infestati e...» Lascia la frase in sospeso e dà un'occhiata
mortificata alla telecamera. «Tu comunque devi mangiare.» Li ho
sentiti parlare di alimentazione via sonda gastrica.
«Quindi è questa la versione ufficiale? Come con
Mnemolandia: stiamo usando la loro tecnologia contro di loro. E
tu ci credi.»
Si appoggia al muro, incrocia le braccia e canticchia a bocca
chiusa il motivetto di un vecchio film tratto da Il mago di Oz.
Pfui. Pazzesco. Non è che le menzogne siano così belle da essere
irresistibili. È che la verità è così brutta da risultare
inaffrontabile.
«Il comandante Vosch sta impiantando delle bombe nelle
reclute. Sta trasformando dei bambini in ordigni esplosivi» dico.
Lui alza il volume. «I più piccoli. Quelli che sanno a malapena
camminare. Quando arrivano li separano, no? Almeno così
facevano a Camp Haven. Chi ha meno di cinque anni viene
portato via e svanisce nel nulla. Tu ne hai visti, in giro? Dove
sono, Razor? Dove?»
Smette di canticchiare giusto il tempo che basta a dire: «Stai
zitta, Dorothy».
«E ti sembra una cosa sensata equipaggiare una Dorothy con
il meglio della tecnologia aliena? Se il comando decidesse di
"potenziare" qualcuno per la guerra, credi davvero che
sceglierebbe i pazzi?»
«Non lo so. Ma hanno scelto te, no?» Prende il vassoio con il
cibo che non ho neanche toccato e si avvia alla porta.
«Non te ne andare.»
Si gira, sorpreso. Mi sento scottare la faccia. Dev'essere la

255
febbre che sale. Non c'è altra spiegazione.
«Perché?» chiede.
«Sei l'unica persona sincera con cui posso parlare.»
Ride. Una risata bella, autentica, spontanea: mi piace, ma è
anche vero che ho la febbre. «Chi ti assicura che sono sincero?»
ribatte. «Non eravamo tutti nemici sotto false spoglie?»
«Sai, mio padre raccontava sempre una storiella su sei uomini
ciechi e un elefante. Il primo uomo tocca una delle zampe e dice
che l'elefante somiglia a una colonna. Il secondo invece tocca la
proboscide: a me, fa, sembra un ramo. Il terzo, la coda: ma no,
esclama, semmai una fune. Il quarto, la pancia: macché, ricorda
proprio un muro. Il quinto, un orecchio: è a forma di ventaglio. Il
sesto, una zanna: ma se è fatto a tubo?»
Razor mi fissa inespressivo per qualche istante, poi sorride.
Un sorriso luminoso: mi piace anche questo.
«Bella. La dovresti usare alle feste.»
«Il punto» dico «è che, da quando è arrivata l'astronave, siamo
tutti uomini ciechi che tastano un elefante.»

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Nel costante chiarore sterile misuro i giorni che passano con i
pasti che mi porta e che io salto. Tre pasti, un giorno. Sei, due. Il
decimo giorno, dopo che mi ha posato davanti il vassoio, gli
chiedo: «Perché ti stai a sbattere?». Ormai ho la voce come la
sua, roca e gracchiante. Sono sudata fradicia, scotto per la febbre,
ho un mal di testa martellante e il battito accelerato. Lui non
risponde. Sono diciassette pasti che Razor non mi parla. Sembra
nervoso, assente, persino arrabbiato. Anche Claire è diventata
silenziosa. Viene due volte al giorno per cambiarmi la flebo,
guardarmi negli occhi con una lente, controllarmi i riflessi,
sostituirmi la sacca del catetere e svuotarmi la padella. Ogni sei
pasti mi lava con la spugna. Un giorno porta un metro da sarto e
me lo fa passare intorno al bicipite, immagino per controllare
quanto muscolo ho perso. Non vedo nessun altro. Né Signor
Camice Bianco, né Vosch, né padri morti ficcati nella mia testa
da quest'ultimo. Non sono così disorientata da non sapere cosa
stanno facendo: restano all'erta, in attesa di vedere se il
"potenziamento" mi uccide.
Una mattina Razor entra per portarmi la colazione mentre
Claire sciacqua la padella. Aspetta in silenzio che lei abbia finito
e poi sento che le chiede sottovoce: «Sta morendo?».
Claire scuote la testa. Un gesto ambivalente: potrebbe essere
sia "no" sia "ne so quanto te". Appena se ne va, dico: «Stai
sprecando tempo».
Lui lancia un'occhiata alla telecamera montata sul soffitto.
«Mi limito a seguire gli ordini.»
Prendo il vassoio e lo scaglio in terra. Lui stringe le labbra,
ma non dice niente. Zitto, pulisce quel disastro mentre io, esausta
per lo sforzo, ansimo grondando sudore da tutti i pori.

257
«Sì, tiralo su. Renditi utile.»
Quando la febbre mi schizza alle stelle, qualcosa nella mia
mente si allenta e io ho l'impressione di sentire i
quarantaquattromila microrobot che mi formicolano nel sangue e
l'unità centrale con la sua delicata trina di filamenti affondati
ovunque, al che capisco cosa provava mio padre durante le sue
ultime ore di vita, mentre si graffiava per fermare gli insetti che
immaginava gli brulicassero sotto pelle.
«Bastardo» dico senza fiato. Razor, dal pavimento, alza lo
sguardo sbigottito. «Vattene, bastardo.»
«Nessun problema» borbotta. A terra carponi, sta usando uno
straccio umido per tirare su il mio pasticcio. C'è un odore
pungente di disinfettante. «Subito.»
Si alza. Le sue guance d'avorio sono arrossate. Nel mio
delirio penso che quel colore gli mette in risalto i riflessi ramati
dei capelli biondi. «Non funzionerà» dice. «Lasciarti morire di
fame. Perciò è meglio se ti inventi qualcos'altro.»
Ci ho provato. Ma non c'è alternativa. Riesco a malapena a
sollevare la testa. "Adesso appartieni a loro." Vosch lo scultore, il
mio corpo l'argilla, ma il mio spirito no, la mia anima mai.
Impossibile da domare. Da schiacciare. Da controllare.
Non sono condannata; loro sì. Posso indebolirmi e morire,
oppure riprendermi, ma la partita è finita, scacco matto al grande
maestro Vosch.
«Sai, Razor, a mio padre piaceva ripetere: "Gli scacchi si
chiamano 'gioco dei re' perché, con gli scacchi, uno impara a
dominarli, i re".»
«Di nuovo con questi scacchi...»
Lascia andare il cencio sporco nel lavandino ed esce
sbattendo la porta. Quando torna con il pasto successivo, accanto

258
al vassoio c'è una scatola di legno dall'aria familiare. Senza dire
una parola, prende il cibo e lo getta nella spazzatura, poi butta il
vassoio di metallo nel lavandino. Il colpo è assordante. Con un
ronzio, il letto si piega portandomi in posizione seduta. A quel
punto Razor spinge la scatola verso di me.
«Hai detto che non ci sapevi giocare» sussurro.
«Allora insegnami.»
Scuoto la testa e, rivolta alla telecamera alle sue spalle, dico:
«Bel tentativo. Ma ficcatevelo in culo».
Razor ride. «Non è stata un'idea loro. Ma, a proposito di culi,
è ovvio che prima ho chiesto il permesso.»
Apre la scatola, tira fuori la scacchiera, armeggia con i pezzi.
«Abbiamo le regine e i re e i predoni e degli affari a torre di
guardia. Com'è che questi non sono a forma di persona?»
«"Pedoni", non "predoni". Un predone è un bandito.»
Annuisce. «Nella mia unità c'è uno che sia chiama così.»
«"Bandito?"»
«"Predone." Non ho mai capito perché.»
«Stai mettendo male i pezzi.»
«Magari perché non so minimamente come si gioca. Fallo
tu.»
«Non mi va.»
«Allora mi concedi la vittoria?»
«Allora "abbandoni". Si dice "abbandonare".»
«Buono a sapersi. Ho la sensazione che mi tornerà utile.» Sta
sorridendo. Non è il sorriso ad alta tensione di Zombi. È più
contenuto, più discreto, più ironico. Quando si siede accanto al
letto, sento odore di gomma da masticare alla frutta. «Bianco o
nero?»
«Razor, sono così debole che non riuscirei nemmeno a

259
sollevare i...»
«Allora indicami dove vuoi andare e poi ci penso io.»
Non si arrende. Non mi aspettavo davvero che lo facesse.
Ormai chi non ha carattere e idee chiare è stato eliminato. Non c'è
più traccia di pappamolle. Gli dico dove vanno sistemati e come
vanno mossi i pezzi. Gli spiego le regole base. Lui annuisce e fa
versi rassicuranti, ma io ho l'impressione che mi assecondi tanto e
mi capisca poco. Poi giochiamo e io lo sbaraglio in quattro
mosse. Nella partita successiva inizia a discutere e contestare:
"Non puoi! Ora dimmi se non è la regola più stupida di tutti i
tempi". Al terzo tentativo sono sicura che si è già pentito della
proposta. Il mio umore non è migliorato e il suo gli è finito sotto
i tacchi.
«È il gioco più cretino mai inventato» dice mettendo il
broncio.
«Gli scacchi non sono stati inventati. Sono stati scoperti.»
«Come l'America?»
«Come la matematica.»
«C'erano delle ragazze uguali spiccicate a te, nella mia
scuola.» E, senza finire il concetto, comincia a preparare di
nuovo la scacchiera.
«Lascia stare, Razor. Sono stanca.»
«Domani porto la dama.» Detto come una minaccia.
Non lo fa, però. Vassoio, scatola, tavola. Stavolta sistema i
pezzi in una strana configurazione: il re nero al centro rivolto
verso di lui, la regina sul bordo rivolta verso il re, tre pedoni
dietro il re rispettivamente a ore dieci, dodici e due, un cavallo
alla destra del re, un altro alla sinistra, un alfiere subito alle
spalle e, accanto a quest'ultimo, un altro pedone. Poi mi guarda
con il suo sorriso da angioletto.

260
«Okay.» Annuisco senza sapere perché.
«Ho inventato un gioco. Sei pronta? Si chiama...» Batte le
mani sulla sponda del letto per imitare un rullo di tamburi.
«Bascaball!»
«Bascaball?»
«Baseball e scacchi messi insieme. Ba-sca-ball. Capito?»
Lascia cadere una moneta accanto alla scacchiera.
«Cos'è?» chiedo.
«Un quarto di dollaro.»
«Questo lo vedo.»
«Ai fini del gioco, è la palla. Be', non è che sia proprio la
palla: la rappresenta. Anzi, rappresenta cosa succede con la palla.
Se stessi zitta un secondo, ti potrei spiegare le regole.»
«Non stavo parlando.»
«Ottimo. Mi fai venire il mal di testa quando parli. Offese di
tutti i tipi, massime sugli scacchi stile Yoda e storielle criptiche
sugli elefanti. Vuoi giocare o no?»
Non aspetta la risposta. Piazza un pedone bianco di fronte
alla regina nera dicendo che è lui, il battitore.
«Dovresti partire con la regina. È il pezzo più forte.»
«È proprio per questo che batte per quarta.» Scuote la testa. È
scioccato dalla mia ignoranza. «È molto semplice: la difesa, cioè
te, lancia la moneta per prima. Testa è strike. Croce, ball.»
«Una moneta non va bene» gli faccio notare. «Ci sono tre
possibilità: strike, ball e valida.»
«Quattro, in realtà, contando la palla mandata in territorio
foul. Tu continua a occuparti degli scacchi che al baseball ci
penso io.»
«Al bascaball» lo correggo.
«Vabbè. Se viene croce, è ball e lanci di nuovo. Se invece

261
viene testa, la moneta passa a me. Così, come vedi, ho la
possibilità di fare una valida. Con testa colpisco la palla, con
croce la manco. Se la manco, primo strike. Eccetera eccetera.»
«Capito. E se ti viene testa, mi ridai la moneta così io posso
ritirare la palla. Con testa ti elimino...»
«Sbagliato! Sbagliatissimo! No. Prima io lancio altre due
volte. Tre, se mi viene CC.»
«CC?»
«Croce croce. È l'equivalente di un triplo. Con CC puoi
lanciare una volta in più: testa è fuoricampo, croce solo triplo.
Testa testa è un singolo, testa croce un doppio.»
«Magari è meglio se cominciamo a giocare e tu man mano...»
«Solo a questo punto ti ridò la moneta e tu puoi provare a
ritirare il mio potenziale singolo, doppio, triplo o fuoricampo.
Con testa, sono eliminato. Con croce, arrivo in base.» Prende un
bel respiro. «A meno che non sia un fuoricampo, ovviamente.»
«Ovviamente.»
«Mi prendi in giro? Perché non so...»
«Sto solo cercando di assimilare...»
«Sì, a me pare proprio di sì. Non hai idea di quanto mi ci è
voluto per inventarmelo. È piuttosto complicato. Okay, non al
livello del gioco dei re, ma sai, no, come chiamano il baseball?
Non tanto "sport" quanto "passatempo" nazionale. Perché
giocando uno impara a gestire il tempo. Che passa.»
«Ora sei tu che mi prendi in giro.»
«Perché, prima chi ti ci ha preso?» Aspetta. So cosa aspetta.
«Non sorridi mai.»
«E allora?»
«Una volta, quando ero piccolo, ho riso così tanto che mi
sono fatto la pipì addosso. Eravamo in un parco divertimenti.

262
Sulla ruota panoramica.»
«Cos'era successo?»
«Non me lo ricordo.» Mi infila una mano sotto il polso, mi
solleva il braccio e mi mette sul palmo il quarto di dollaro.
«Lancia questa cavolo di moneta così possiamo giocare.»
Non lo voglio offendere, ma come gioco non è poi tanto
complicato. Alla sua prima valida, tutto entusiasta, esulta con i
pugni al cielo, poi procede a muovere i pezzi neri sulla scacchiera
descrivendo la giocata con una voce roca e concitata da
telecronista sportivo, tipo un bambino che gioca con dei
pupazzetti.
«È una palla tesa al centro del campo esterno!» Il pedone
centrale si fionda verso la seconda base, l'alfiere in seconda base
e il pedone in interbase arretrano e il pedone sulla sinistra prende
la rincorsa, poi taglia verso il centro. Questo con una mano,
mentre con l'altra muove la moneta, facendosela girare tra le dita
come una palla a effetto e poi abbassandola al rallentatore fino a
posarla a centrosinistra. È così ridicolo e infantile che sorriderei,
se fossi ancora in grado di sorridere.
«Il corridore è salvo!» urla Razor.
No. Non infantile. Da bambino. Occhi accesi, voce acuta per
l'eccitazione, ha di nuovo dieci anni. Non tutto è andato perso,
non ciò che conta.
La sua valida successiva è una palla debole che cade tra la
prima base e la zona destra del campo esterno. Razor dà vita a
uno scontro teatrale tra il giocatore interno e quello esterno, con
il primo che si butta indietro e il secondo che si butta in avanti,
poi sbadabam! All'impatto Razor ridacchia.
«Ma non è un errore?» chiedo. «È una palla prendibile.»
«Una palla prendibile? Ringer, è solo un gioco scemo che ho

263
inventato in cinque minuti con qualche pezzo degli scacchi e un
quarto di dollaro.»
Altre due valide; è tre punti in vantaggio nella fase di attacco
della prima ripresa. Ho sempre fatto pena nei giochi di fortuna.
Ragion per cui li ho sempre odiati. Razor evidentemente si è
accorto che il mio entusiasmo sta calando perché alza il volume
della telecronaca mentre muove i pezzi di qua e di là (malgrado io
gli faccia notare che sono i miei, dato che sono alla difesa).
Un'altra palla tesa a centrosinistra. Un'altra palla debole dietro la
prima base. Un altro scontro tra il prima base e l'esterno. Non
capisco: si ripete perché lo crede spassoso o perché ha un grave
deficit di immaginazione? Una parte di me è convinta che dovrei
sentirmi profondamente oltraggiata per conto di tutti quelli che
amano gli scacchi.
Alla terza ripresa, sono esausta.
«Ricominciamo da qui stasera» suggerisco. «Oppure domani.
Meglio domani.»
«Che c'è? Non ti piace?»
«No. È divertente. Solo che sono stanca. Molto stanca.»
Alza le spalle come se non gli importasse, e invece gli
importa eccome sennò non alzerebbe le spalle. Si infila in tasca
la moneta e rimette tutto nella scatola borbottando. Colgo la
parola "scacchi".
«Cos'hai detto?»
«Niente.» Distoglie lo sguardo.
«Qualcosa sugli scacchi.»
«Scacchi, scacchi, scacchi. Sei proprio fissata. Scusa se il
bascaball non regge il confronto con il brivido assoluto degli
scacchi.»
Si ficca sottobraccio la scatola e va dritto alla porta. L'ultima

264
stoccata prima di andarsene: «Pensavo che ti avrebbe tirata un po'
su di morale, tutto qui. Grazie tante. Non siamo mica costretti a
giocarci».
«Sei arrabbiato con me?»
«Io agli scacchi una possibilità l'ho data, no? Mi hai sentito
per caso brontolare?»
«No. E sì. Parecchio.»
«Okay, tu però riflettici.»
«Su cosa?»
«Riflettici e basta!» grida dall'altra parte della stanza.
Ed esce sbattendo la porta. Sono senza fiato, tremo e non
riesco a capire perché.

265
61
Quella sera, quando la porta si apre, sono pronta a fargli le
mie scuse. Più ripenso a quella faccenda con la mia mente
febbricitante, più mi sento un bullo che in spiaggia ha distrutto a
calci il castello di sabbia di un bambino piccolo.
«Ehi, Razor, mi...»
Resto a bocca aperta. A tenere il vassoio c'è uno che non ho
mai visto, un ragazzino di dodici o tredici anni.
«Dov'è Razor?» Ho il tono di chi, più che chiedere, pretende
una spiegazione.
«Non lo so» squittisce lui. «Mi hanno dato il vassoio e mi
hanno detto di portartelo.»
«Di portarmelo» gli faccio eco come una scema.
«Sì. Di portartelo. Di portarti il vassoio.»
L'hanno sollevato dall'incarico. Magari il bascaball è contro il
regolamento. Magari Vosch si è incavolato: due ragazzi che si
comportano da ragazzi per un paio d'ore. La disperazione dopo
un po' non fa più effetto, né a chi la guarda né a chi la prova.
O magari quello incavolato è Razor. Magari ha chiesto di
essere riassegnato, ha preso il suo bascaball e se n'è andato a
casa.
Quella notte non dormo bene, se si può chiamare notte quel
costante chiarore sterile. La febbre mi schizza a quaranta mentre
il mio sistema immunitario lancia il suo ultimo, disperato assalto
ai polielementi. Vedo i numeri verdi sfocati sul monitor che
aumentano a poco a poco. Scivolo in un torpore semidelirante.
"Bastardo! Vattene. Sai, no, come chiamano il baseball? È
una palla tesa al centro del campo esterno! Io ho finito. Stammi
bene."
La sporca moneta color argento che gira tra le dita di Razor.

266
"È una palla tesa. Una palla tesa." Che scende al rallentatore
verso la scacchiera, dove gli esterni avanzano, il seconda base e
l'interbase indietreggiano, l'esterno sinistro va a destra. "Palla
debole sulla linea di prima base!" L'esterno corre in avanti,
l'interno indietro, sbadabam. Esterni avanti, interno indietro,
taglio a destra. Prima base indietro, esterno destro avanti,
sbadabam. Avanti, indietro, taglio. Indietro, avanti. Sbadabam.
Ancora e ancora, "rivediamolo alla moviola", avanti, indietro,
taglio. Indietro, avanti.
Sbadabam.
Ora sono completamente sveglia e ho lo sguardo fisso al
soffitto. No. Non lo vedo altrettanto bene. Meglio a occhi chiusi.
Gli esterni centro e sinistro si precipitano in avanti. Quello
sinistro taglia a novanta gradi:
H
L'esterno destro viene avanti. Il prima base corre indietro:
I
Oh, su. Ridicolo. "Sei fuori di testa."
Quella notte, quando sono tornata all'accampamento con la
vodka, ho trovato mio padre morto rannicchiato in posizione
fetale, con la faccia coperta di sangue nei punti in cui si era
graffiato per via degli insetti partoriti dalla sua immaginazione.
"Stronza", mi aveva detto prima che uscissi a cercare il veleno che
l'avrebbe salvato. Mi aveva chiamata anche in un altro modo, con
il nome della donna che ci ha lasciati quando avevo tre anni.
Pensava che fossi mia madre, che buffo. A quattordici anni ormai
ero più che altro sua madre: gli facevo da mangiare, gli lavavo i
vestiti, mi prendevo cura della casa, mi assicuravo che non si
facesse niente di irreparabilmente stupido. E ogni giorno andavo
a scuola con la mia uniforme perfettamente stirata e mi sentivo

267
definire Sua Maestà Marika e dire che me la tiravo perché mio
padre era un artista che aveva un po' di successo, il tipo genio
solitario, quando la verità era che di solito mio padre non sapeva
su che pianeta fosse. All'ora in cui tornavo da scuola era già del
tutto fuori di testa. E io lasciavo che la gente si tenesse le sue
convinzioni. Lasciavo che pensasse che me la tiravo, così come
ho lasciato che Sullivan credesse di avermi inquadrata. Non mi
limitavo a incoraggiare quelle convinzioni. Le vivevo. Ci sono
rimasta aggrappata anche quando il mondo intorno a noi è
crollato. Ma dopo la morte di mio padre, mi sono detta basta.
Basta mostrarsi intrepidi, nutrire false speranze e fare finta che
tutto vada bene quando invece non va bene niente. Pensavo di
essere forte mentendo, raccontandomi che il mio era un
atteggiamento ottimista, coraggioso, signorile o qualsiasi altra
stronzata sembrasse adatta al momento. Ma quella non è forza. È
la definizione stessa di debolezza. Mi vergognavo della sua
dipendenza ed ero furiosa con lui, ma mi sentivo anche in colpa.
Ho recitato fino alla fine: quando mi ha chiamata con il nome di
mia madre, non l'ho corretto.
Fuori di testa.
L'occhio vacuo e senz'anima della telecamera mi fissa
dall'angolo.
Cos'è che ha detto Razor? "Riflettici."
"Non è l'unica cosa che hai detto, vero?" gli chiedo,
restituendo uno sguardo vacuo al vacuo occhio nero. "C'è
dell'altro."

268
62
Trattengo il respiro quando la porta si apre la mattina dopo.
Per tutta la notte ho oscillato tra certezza e dubbio
rimuginando su ogni aspetto della nuova realtà.
Prima possibilità: Razor non ha inventato il bascaball più di
quanto io abbia inventato gli scacchi. A concepire il gioco è stato
Vosch, per ragioni talmente oscure da risultare imperscrutabili.
Seconda possibilità: Razor, per motivi chiari solo a lui, ha
deciso di mandarmi in confusione. Non sono solo le persone
resistenti e con il cuore di pietra ad aver passato la selezione
della razza umana. Sono sopravvissuti anche un sacco di stronzi
sadici. È così che va in ogni catastrofe. I bastardi sono
praticamente indistruttibili.
Terza possibilità: è tutto nella mia testa. Il bascaball è un
gioco sciocco ideato da un ragazzo per distrarmi dal pensiero che
forse morirò. Non ci sono secondi fini, né messaggi segreti
tracciati sulla scacchiera. Il fatto che io veda lettere inesistenti è
frutto della tendenza del cervello umano a trovare schemi anche
dove non ce ne sono.
E trattengo il respiro anche per un'altra ragione: e se c'è di
nuovo il ragazzino con la voce da topo? E se Razor non torna, né
oggi né mai? C'è la possibilità concreta che sia morto. Se stava
cercando di comunicare segretamente con me e Vosch l'ha capito,
il risultato non può che essere uno.
Quando Razor entra in camera, tiro un lungo sospiro di
sollievo. Il bip bip del monitor aumenta leggermente di
frequenza.
«Che c'è?» mi chiede guardandomi a occhi stretti. Si è accorto
subito che tira un'aria strana.
Lo dico. «Hi. Ciao.»

269
Lui gira lo sguardo a destra, poi a sinistra. «Hi.» Pronuncia
quella parolina lentamente, come se temesse di trovarsi in
compagnia di una squilibrata. «Hai fame?»
Faccio di no con la testa. «Non tanta.»
«Dovresti provare a mangiare. Sembri mia cugina Stacey. Era
tossicodipendente, prendeva metamfetamine. Non voglio dire che
sembri davvero tossicodipendente. Solo che...» Arrossisce. «Be',
è come se ci fosse qualcosa che ti divora da dentro.»
Preme il tasto accanto al letto. Mi sollevo. «Sai da cosa sono
dipendente io?» chiede. «Dalle caramelle gommose. Al lampone.
Quelle al limone invece non mi esaltano. Ne ho una scorta. Te ne
porto un po' se vuoi.»
Mi posa davanti il vassoio. Uova strapazzate fredde, patate
fritte, un affare duro e annerito che potrebbe, ma anche no, essere
bacon. Mi si chiude lo stomaco. Alzo gli occhi.
«Prova le uova» suggerisce. «Sono fresche. Da allevamento a
terra, biologiche, senza additivi. Le tiriamo su proprio qui al
campo. Le galline, non le uova.»
Espressivi occhi scuri e quel sorriso sereno, misterioso,
appena accennato. Che significa la sua reazione al mio hi? Era
sorpreso perché gli ho rivolto un saluto quasi umano o era
sorpreso perché ho capito il vero scopo del bascaball? Oppure
non era per niente sorpreso e io raccolgo indizi dove non ce ne
sono?
«Non vedo la scatola.»
«Che scatola? Oh. Era un gioco stupido.» Distoglie lo
sguardo e mormora tra sé e sé: «Mi manca il baseball».
Rimane in silenzio per qualche istante mentre io giocherello
con le uova fredde nel piatto. "Mi manca il baseball." Un
universo di nostalgia in poche sillabe.

270
«Ma a me piaceva» dico. «Era divertente.»
«Davvero?» Un'occhiata del tipo "parli sul serio?". Non sa che
lo faccio per il 99,99999 per cento del tempo. «Non sembravi
tanto entusiasta.»
«Non è che mi senta troppo bene ultimamente.»
Ride e poi sembra stupito della sua stessa reazione. «Okay.
Be', l'ho lasciato nel mio alloggio. Se non me lo fregano, uno di
questi giorni lo riporto.»
La conversazione cambia rotta. Scopro che Razor era il più
piccolo di cinque figli, che è cresciuto ad Ann Arbor, dove suo
padre faceva l'elettricista e sua madre la bibliotecaria in una
scuola media, che giocava a baseball e a calcio, e che adorava la
squadra di football dei Michigan Wolverines. Fino a dodici anni
la sua più grande aspirazione era aprire una partita come loro
quarterback. Ma crescendo era diventato alto, non grosso, e si era
appassionato al baseball.
«Mamma voleva che facessi il dottore o l'avvocato, ma mio
padre non mi credeva abbastanza intelligente...»
«Aspetta. Tuo padre non ti credeva intelligente?»
«Abbastanza intelligente. C'è differenza.» Difende suo padre
anche se non c'è più. Le persone muoiono; l'amore resiste.
«Voleva che facessi l'elettricista come lui. Era un pezzo grosso
del sindacato, il presidente della sezione locale o giù di lì. Era
questo il vero motivo per cui non voleva che diventassi avvocato.
"Burattini in giacca e cravatta" li chiamava.»
«Aveva un problema con l'autorità.»
Razor alza le spalle. «"Sii padrone di te stesso" diceva
sempre. "Non essere schiavo di nessuno."» Cambia posizione, a
disagio, come se stesse parlando troppo. «E tuo padre?»
«Era un artista.»

271
«Che figata.»
«Era anche un ubriacone. Passava più tempo a bere che a
dipingere.» Non era sempre stato così, però. Fotografie di mostre
ingiallite e appese storte in cornici impolverate, studenti che
ronzavano nervosi per il suo studio pulendo pennelli e il religioso
silenzio che scendeva quando entrava in una stanza piena di
gente.
«Che roba dipingeva?» chiede Razor.
«Perlopiù, appunto, roba.» Nemmeno quello era sempre stato
così. Non quando era giovane e io ero piccola e la mano che
teneva la mia era macchiata dei colori dell'arcobaleno.
Ride. «Ah, il tuo modo di scherzare. Come se non te ne
rendessi nemmeno conto.»
Scuoto la testa. «Non stavo scherzando.»
Annuisce. «Magari è per questo che non te ne rendi conto.»

272
63
Dopo la cena che non mangio, le battute forzate e i brevi
attimi di silenzio imbarazzato tra una frase e l'altra, dopo che la
scacchiera esce dalla scatola di legno e che lui sistema i pezzi,
dopo che tiriamo a sorte chi fa la squadra di casa e che lui vince,
dopo che gli dico che credo di poter muovere i miei giocatori da
sola e che lui sogghigna, "Sì, come no, andiamo, ragazza", dopo
che lui si siede accanto a me sul bordo del letto, dopo settimane
passate a cercare di scrollarmi di dosso la rabbia e abbracciare il
vuoto ululante, dopo anni spesi a innalzare mura intorno al
dolore, al senso di lutto e alla sensazione che non avrei più
provato emozioni, dopo aver perso mio padre e Teacup e Zombi e
tutto tranne il vuoto ululante, e dopo tante, tante altre cose, in
silenzio dico:
«HI»
Razor annuisce. «Okay.» Batte un dito sulla coperta. Sento i
colpetti sulla coscia. «Okay.» Colpetto. «Non male, però è più
figo fatto al rallentatore.» Me ne dà una dimostrazione.
«Capito?»
«Se proprio insisti» sospiro. «Okay.» Batto un dito sulla
sponda del letto. «Anche se, a essere sincera, non ne vedo la
necessità.»
«No?» Due colpetti sulla coperta.
«No.» Due colpetti sulla sponda.
Per tracciare la parola successiva ci vogliono più di venti
minuti.
AIUTO
Colpetto. «Ti ho mai raccontato del mio lavoretto estivo di
quando ancora c'erano lavoretti estivi?» chiede. «Facevo la
toelettatura ai cani. La parte peggiore? Spremere le ghiandole

273
perianali...»
Gli sta andando alla grande. Quattro punti e nemmeno
un'eliminazione.
COME
Ottengo la risposta quaranta minuti dopo. Sono un po' stanca
e più che un po' frustrata. È come scambiarsi messaggi con una
persona a mille chilometri di distanza usando un corriere con una
gamba sola. Il tempo rallenta; gli eventi accelerano.
PIANO
Non ho ben chiaro cosa intenda. Lo guardo, ma lui ha gli
occhi sulla tavola. Sta rimettendo i pezzi in posizione e intanto
parla, riempie gli attimi di silenzio, colma di chiacchiere gli spazi
vuoti.
«La chiamano proprio così: spremitura» dice riferendosi
sempre ai cani. «Bagnare, insaponare, sciacquare, spremere,
ripetere. Una noia mortale.»
E per tutto il tempo l'occhio nero e inespressivo della
telecamera ci fissa dall'alto senza battere ciglio.
«Non ho capito l'ultima giocata» dico.
«Il bascaball non è un gioco per imbranati come gli scacchi»
risponde in tono paziente. «Ci sono complessità. Complessità.
Per vincere, serve un piano.»
«E tu ce l'hai, immagino. Il piano.»
«Sì, ce l'ho.»
Colpetto.

274
64
Sono giorni che non vedo Vosch. La situazione cambia la
mattina dopo.
«Sentiamo» dice rivolto a Claire, che è in piedi accanto a
Signor Camice Bianco con l'aria di una ragazzina delle medie
trascinata nell'ufficio del preside per aver fatto la prepotente con
una compagna mingherlina.
«Ha perso quattro chili e il venti per cento della massa
muscolare. Prende il Diovan per la pressione alta, il Phenergan
per la nausea, l'amoxicillina e la streptomicina per tenere buono il
sistema linfatico, ma stiamo ancora lottando con la febbre»
riferisce.
«"Lottando con la febbre"?»
Claire abbassa lo sguardo. «L'aspetto positivo è che fegato e
reni funzionano ancora normalmente. C'è un po' di liquido nei
polmoni, ma stiamo...»
Vosch la zittisce con un cenno e si avvicina al letto. Nei suoi
brillanti occhi da uccello, un lampo.
«Vuoi vivere?»
Rispondo senza esitazioni. «Sì.»
«Perché?»
Per qualche strano motivo la domanda mi coglie alla
sprovvista. «Non lo so.»
«Non ci puoi battere. Non lo può fare nessuno. Non avreste
potuto nemmeno se all'inizio, anziché sette miliardi, foste stati
sette volte tanti. Il mondo è un orologio e l'orologio è arrivato
all'ultimo secondo... perché mai vorresti vivere?»
«Non voglio salvare il mondo. Spero solo che mi capiti
l'occasione di ucciderti.»
La sua espressione non cambia, ma i suoi occhi luccicano ed

275
esultano. "Ti conosco" dicono. "Ti conosco."
«Allora spera» sussurra. «Sì.» Annuisce: è soddisfatto di me.
«Spera, Marika. Aggrappati alla tua speranza.» Si gira verso
Claire e Signor Camice Bianco. «Levatele i farmaci.»
Signor Camice Bianco diventa del colore della sua tenuta.
Claire fa per replicare, poi distoglie lo sguardo. Vosch si rigira
verso di me.
«Qual è la risposta?» chiede. «Non è la rabbia. Qual è?»
«L'indifferenza.»
«Riprova.»
«Il distacco.»
«Di nuovo.»
«La speranza. La disperazione. L'amore. L'odio. La collera. Il
dispiacere.» Sto tremando: devo avere la febbre altissima. «Non
lo so. Non lo so. Non lo so.»
«Meglio» dice.

276
65
La sera sto così male che riesco a malapena ad arrivare in
fondo a quattro riprese di bascaball.
NOCURA
«Gira voce che ti abbiano levato i farmaci» dice Razor
agitando il quarto di dollaro nel pugno chiuso. «È vero?»
«L'unica cosa rimasta nella sacca della flebo è la soluzione
salina. Così evitano che mi si blocchino i reni.»
Dà un'occhiata ai miei parametri vitali sul monitor. Si
acciglia. Quando ha quell'espressione, mi ricorda un bambino che
ha sbattuto l'alluce ma si trattiene dal piangere perché pensa di
essere troppo grande.
«Allora vuol dire che ti stai riprendendo.»
«Immagino di sì.» Due colpetti sulla sponda del letto.
«Okay» sussurra. «La mia regina è pronta. Stai attenta.»
Mi si irrigidisce la schiena. Mi si sfoca tutto. Mi sporgo da
un lato e svuoto lo stomaco, quel poco che c'è dentro, sulle
mattonelle bianche. Con un grido disgustato Razor balza in piedi
rovesciando la scacchiera.
«Ehi!» grida. Non ce l'ha con me. Ce l'ha con l'occhio nero in
alto. «Ehi, qui serve aiuto!»
Non arriva nessuno. Razor guarda il monitor, guarda me e
dice: «Non so cosa fare».
«Sto bene.»
«Come no. Stai bene, proprio bene!» Va al lavandino, bagna
un asciugamano pulito e me lo mette sulla fronte. «Bene, un par
di palle! Perché cazzo ti hanno levato i farmaci?»
«Perché no?» Sto combattendo l'impulso di vomitare di
nuovo.
«Oh, non saprei. Magari perché senza farmaci morirai.»

277
Lancia un'occhiata torva alla telecamera.
«Magari dovresti darmi quella bacinella laggiù.»
Tampona lo schifo che mi è rimasto appiccicato al mento,
ripiega l'asciugamano, prende la bacinella e me la piazza sulle
gambe.
«Razor.»
«Cosa?»
«Non me lo rimettere in faccia, per favore.»
«Eh? Oh. Merda. Sì. Aspetta.» Agguanta un altro
asciugamano e lo passa sotto l'acqua. Gli tremano le mani. «Sai
qual è il problema? Ora ho capito. Chissà perché non ci ho
pensato prima. E tu uguale. Evidentemente i farmaci
interferiscono con il Sistema.»
«Che sistema?»
«Il Dodicesimo. Quello che ti hanno iniettato, Sherlock.
L'unità centrale e i suoi quarantamila e passa piccoli amici per
pompare gli altri undici.» Mi posa l'asciugamano fresco sulla
fronte. «Sei fredda. Vuoi che ti cerchi un'altra coperta?»
«No, sto andando a fuoco.»
«È una guerra» dice. Si batte la mano sul petto. «Qui dentro.
Devi concedergli una tregua, Ringer.»
Scuoto la testa. «Nessuna pace.»
Annuisce stringendomi il polso sotto la coperta leggera. Si
accovaccia per raccogliere i pezzi caduti. Impreca perché non
riesce a trovare la moneta. Decide che non può lasciare lì il
vomito. Prende l'asciugamano sporco che ha usato per pulirmi il
mento e lo passa in terra stando carponi. Sta ancora imprecando
quando si apre la porta ed entra Claire.
«Tempismo perfetto!» le urla contro Razor. «Ehi, non potete
almeno darle il siero contro la nausea?»

278
Claire gli mostra l'uscita con la testa. «Fuori.» Indica la
scatola. «E portati via quella.»
Razor la fulmina, ma ubbidisce. Vedo di nuovo la forza ben
tenuta a freno dietro i suoi lineamenti angelici. "Attento, Razor.
Non è questa la risposta."
Poi restiamo sole e Claire osserva il monitor in silenzio per
un istante interminabile.
«Dicevi la verità stamattina?» chiede. «Sul serio vuoi vivere
per uccidere il comandante Vosch? Non sei così stupida.» Ha il
tono di una madre che sgrida il figlioletto.
«Hai ragione» rispondo. «Non ne avrò mai l'opportunità. Ma
avrò l'opportunità di uccidere te.»
Sembra allarmata. «Uccidere me? Perché dovresti?» Siccome
resto zitta, aggiunge: «Non credo che passerai la notte».
Annuisco. «E tu non arriverai a fine mese.»
Ride. Il suono della sua risata mi fa salire in gola la bile. La
sento bruciare. E bruciare.
«Cosa pensi di fare?» dice sottovoce. Mi strappa
l'asciugamano dalla fronte. «Di soffocarmi con questo?»
«No. Di sbarazzarmi della guardia fracassandogli in testa
qualcosa di pesante e poi di prendergli la pistola e spararti in
faccia.»
Ride per tutto il tempo. «Be', buona fortuna.»
«Non si tratterà di fortuna.»

279
66
A quanto pare, Claire si sbagliava sul fatto che non avrei
passato la notte.
Quasi un mese dopo, stando ai miei calcoli basati sui tre pasti
al giorno, sono ancora qui.
Non mi ricordo molto. A un certo punto mi hanno scollegata
dalla flebo e dal monitor, e il silenzio che è piombato dopo il bip
bip costante avrebbe potuto incrinare una montagna. L'unica
persona che ho visto in questo periodo è stato Razor. Ormai si
prende cura di me a tempo pieno. Mi dà da mangiare, mi svuota la
padella, mi lava viso e mani, mi gira perché non mi vengano le
piaghe da decubito, gioca a bascaball con me quando non
vaneggio e parla senza sosta. Parla di tutto, che è un altro modo
di dire che non parla di niente. La sua famiglia morta, i suoi
amici morti, i membri della sua squadra, le fatiche del campo in
inverno, le discussioni che nascono per la noia, la stanchezza e la
paura (anzi, soprattutto la paura), nonché le voci sulla grande
offensiva che, sembra, gli infestati vogliono lanciare in primavera
come ultimo sforzo per liberare il mondo dal rumore degli
uomini, rumore a cui Razor contribuisce attivamente. Parla e
parla e parla. Stava con una ragazza che si chiamava Olivia, che
aveva la pelle scura come un fiume fangoso, che suonava il
clarinetto nella banda della scuola, che voleva diventare dottore e
che ce l'aveva con suo padre perché era convinto che lui, Razor,
non ce l'avrebbe fatta. Butta là che il suo nome vero è Alex, come
il giocatore di baseball Alexander Rodriguez, e che il suo
sergente istruttore l'ha chiamato Razor non perché era magro ma
perché una mattina nel farsi la barba si era tagliato con il rasoio.
"Ho la pelle molto sensibile." Le sue frasi sono senza punti, senza
virgole e senza capoversi o, per la precisione, in un unico lungo

280
capoverso privo di margini.
Si zittisce solo una volta dopo quasi un mese di diarrea
verbale. Mi sta raccontando di come, in quinta elementare, ha
vinto il primo premio nella gara di scienze con un progetto che
permetteva di trasformare una patata in una batteria quando si
blocca a metà frase. Il suo silenzio è inquietante, come la calma
dopo l'implosione di un edificio.
«Che c'è?» mi chiede guardandomi fisso negli occhi, e
nessuno guarda più fisso di Razor, nemmeno Vosch.
«Niente.» Giro la testa dall'altra parte.
«Stai piangendo, Ringer?»
«Mi lacrimano gli occhi.»
«Bugiarda.»
«Non darmi della bugiarda, Razor. Io non piango.»
«Stronzate.» Un colpetto sulla coperta.
Due colpetti sulla sponda del letto. «Funzionava?» chiedo
voltandomi di nuovo verso di lui. Che mi importa se vede che
piango? «La batteria patata.»
«Certo che funzionava. È scienza. Non ho mai avuto dubbi
sul fatto che avrebbe funzionato. Definisci un piano, segui i passi
e non può andare male.» Mi stringe la mano attraverso la coperta:
"Non avere paura. È tutto pronto. Non ti deluderò".
Comunque ormai è troppo tardi per tornare indietro: i suoi
occhi vanno al vassoio accanto al letto. «Ah, stasera hai mangiato
tutto il budino. Hai idea di come fanno a fare il budino al
cioccolato senza cioccolato? Non lo vuoi sapere.»
«Fammi indovinare. Ex-Lax.»
«Ex-Lax? Che roba è?»
«Dici sul serio? Non lo sai?»
«Oh, scusa tanto se non so che cacchio è l'Ex-Lax.»

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«È un lassativo al gusto di cioccolato.»
Fa una smorfia. «Bleah, farà cagare.»
«Appunto.»
Sorride. «Appunto? Oddio, hai mica fatto una battuta?»
«Comunque no, non ne ho idea. Tu però giura che nessuno mi
ci ha messo l'Ex-Lax.»
«Te lo giuro.» Colpetto.
Resisto per qualche ora dopo che se n'è andato. È il cuore di
una notte d'inverno, e ormai tutte le luci del campo sono spente
da un pezzo, quando la pressione si fa insopportabile. Non reggo
più: inizio a chiamare aiuto sbracciandomi verso la telecamera,
poi mi giro per appoggiare il petto alle fredde sbarre di metallo e
prendo a pugni il cuscino per la frustrazione e la rabbia finché la
porta non si spalanca e Claire si precipita dentro tallonata da una
recluta grossa quanto un orso che si tappa immediatamente il
naso.
«Cos'è successo?» chiede Claire, anche se l'odore dovrebbe
dirle tutto ciò che c'è bisogno sappia.
«Oh, merda!» farfuglia la recluta con la mano sulla bocca.
«Esatto» rantolo.
«Grandioso. Davvero grandioso» dice Claire buttando coperta
e lenzuolo in terra e chiamando a cenni la recluta perché la aiuti.
«Ottimo lavoro, madamigella. Spero tu sia orgogliosa di te
stessa.»
«Non ancora» piagnucolo.
«Che stai facendo?» grida Claire alla recluta. La voce dolce è
scomparsa. Svaniti anche gli occhi gentili. «Dammi una mano.»
«Una mano a fare cosa, signora?» Ha il naso camuso, gli
occhi piccoli piccoli e la fronte rigonfia al centro. La pancia gli
sporge sopra la cintura e i pantaloni sono un filino troppo corti. È

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enorme: peserà cinquanta chili più di me.
Tanto non cambia molto.
«Alzati» mi dice brusca Claire. «Forza. In piedi.» Mi prende
per un braccio, Jumbo mi prende per l'altro e insieme mi tirano
giù dal letto. Il muso schiacciato della maxi recluta è contratto in
una smorfia di disgusto.
«Oddio. È dappertutto!» geme sottovoce.
«Non credo di poter camminare» dico rivolta a Claire.
«Allora striscerai» ribatte secca. «Dovrei lasciarti così. È una
metafora perfetta.»
Mi portano nel bagno due porte più in là. Jumbo è in preda a
tosse e conati, Claire mugugna e io non faccio che scusarmi
mentre mi toglie la tuta e la lancia al gigante dicendogli di
aspettare fuori. «Non appoggiarti a me. Appoggiati al muro» mi
ordina imperiosa. Mi stanno cedendo le ginocchia. Mi aggrappo
alla tenda della doccia per stare su: è un mese che non uso le
gambe.
Con una mano stretta intorno al mio braccio sinistro, Claire
mi spinge sotto l'acqua piegandosi a livello della vita per evitare
di bagnarsi. Il getto è ghiacciato. Non si è scomodata a regolare la
temperatura. Lo schiaffo dell'acqua fredda mi fa l'effetto di una
sveglia e mi strappa da un lungo letargo invernale: mi allungo ad
afferrare il tubo con il soffione che sporge dal muro e dico a
Claire che ci sono, credo di farcela a reggermi in piedi, mi può
lasciare.
«Sei sicura?» chiede senza mollarmi.
«Sicurissima.»
Tiro verso il basso con tutta la forza che ho. Il tubo si spacca
con un gemito metallico nel punto di giuntura; dal moncone
erompe un getto di acqua fredda. Alzo il braccio sinistro per

283
liberarmi dalla presa, poi afferro Claire per il polso e, ruotando i
fianchi per massimizzare l'impatto, mi giro e le pianto nel collo
l'estremità seghettata dello spezzone.
Non ero del tutto sicura di poter rompere un tubo di acciaio a
mani nude, ma qualche speranza ce l'avevo.
Sono stata potenziata.

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Claire indietreggia malferma mentre il sangue sgorga dal foro
largo cinque centimetri che le ho fatto nel collo. Vederla ancora
in piedi non mi sorprende: avevo messo in conto che fosse stata
potenziata anche lei, ma speravo di avere un colpo di fortuna e
reciderle la carotide. Fruga nella tasca del camice in cerca del
soppressore. Me lo aspettavo. Scaglio via il tubo rotto, mi
aggrappo all'asta della tenda, la strappo dai sostegni imbullonati e
colpisco Claire su un lato della testa.
L'impatto quasi non la smuove. In un millisecondo, talmente
veloce che non riesco neppure a seguirne i movimenti con lo
sguardo, ha l'estremità dell'asta tra le grinfie. Altrettanto in fretta,
io lascio la presa così, quando tira, non trova niente a opporre
resistenza, si sbilancia all'indietro e finisce contro il muro,
sbattendo così forte da incrinare le piastrelle. Mi fiondo su di lei.
Brandendo l'asta, prova a colpirmi sul cranio, ma mi aspettavo
anche questo, o meglio ci contavo quando ripassavo le mie mosse
nelle centinaia di ore silenziose sotto il chiarore costante.
Afferro l'altro capo quando è ancora a metà arco, prima con la
destra, poi con la sinistra, e con le mani a distanza spalle porto
l'asta verso il collo di Claire, allargando le gambe per avere
l'equilibrio e la spinta necessari a schiacciarle la trachea.
Ho il suo viso a pochi centimetri dal mio. Sono così vicina
che sento l'odore di cianuro del fiato che le esce dalle labbra
dischiuse.
Anche lei ha le mani sull'asta, più esternamente rispetto alle
mie, e spinge in senso contrario. Il pavimento è scivoloso; io
sono a piedi scalzi, lei no. Finirò per perdere il vantaggio prima
che svenga. Devo metterla al tappeto, e alla svelta.
Le infilo un piede tra le gambe e le do un calcio a una

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caviglia. Perfetto: piomba a terra e io le vado dietro.
Cade sulla schiena. Io le cado sulla pancia. La blocco
stringendo le ginocchia e ricomincio a spingere giù l'asta.
Poi la porta alle mie spalle si spalanca e Jumbo entra con la
pistola spianata gridando in maniera incomprensibile. Tre minuti
dall'inizio di tutto e la luce negli occhi di Claire si va spegnendo,
ma è presto per cantar vittoria e so che devo correre un rischio. I
rischi non mi piacciono, non mi sono mai piaciuti, ma ho
imparato ad accettarli. Certe cose si possono scegliere e altre no,
per esempio la morte del soldato con il crocifisso per mano di
Sullivan, il ferimento di Teacup o il tornare indietro per Zombi e
Nugget perché non farlo avrebbe voluto dire non dare più valore a
niente, né alla vita, né al tempo, né alle promesse.
E io ho una promessa da mantenere.
La pistola di Jumbo: il Dodicesimo Sistema la punta e
migliaia di microscopici androidi si mettono all'opera per
potenziare cervello, occhi e mani a partire da muscoli, tendini e
nervi in modo da neutralizzare la minaccia. In una frazione di
secondo l'obiettivo è identificato, l'informazione elaborata, il
metodo stabilito.
Jumbo non ha speranza.
L'attacco è troppo rapido per il suo cervello ordinario. Dubito
persino che veda l'asta della tenda che sfreccia verso la sua mano.
La pistola vola via. Lui si butta da una parte, verso l'arma, io
dall'altra, verso il water.
Il coperchio del serbatoio è di ceramica spessa. E pesante.
Potrei ucciderlo, ma non lo faccio. In compenso gli do una gran
botta alla nuca così da metterlo fuori gioco per un bel po'.
Jumbo stramazza. Claire si risolleva. Lancio il coperchio
mirando alla testa. Il suo braccio si alza a parare il proiettile. Il

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mio udito potenziato coglie il rumore di un osso che si spezza
nell'urto. L'apparecchio argenteo che stringeva finisce sul
pavimento. Mentre lei si tuffa a prenderlo, io faccio un passo in
avanti: con un piede le pesto la mano tesa e con l'altro do un
calcio all'apparecchio gettandolo lontano.
Fatto.
E lei lo sa. Guarda oltre la canna della pistola che le ho
puntato in faccia -- oltre quel minuscolo foro pieno di un nulla
immenso -- e ora ha di nuovo gli occhi gentili e la voce dolce, la
stronza.
«Marika...»
No. Marika era lenta, debole, sentimentale, addormentata.
Marika era una ragazzina che si aggrappava a dita con i colori
dell'arcobaleno, che guardava impotente il tempo agli sgoccioli,
che vacillava sul ciglio sottile di un abisso senza fondo, nuda
oltre le mura protettive di fronte alle promesse che non era
riuscita a mantenere. Io però manterrò la sua ultima promessa a
Claire, il mostro che l'ha spogliata e battezzata con l'acqua fredda
che ancora scroscia nella doccia rotta. Manterrò la promessa di
Marika. Marika è morta e io manterrò la sua promessa.
«Mi chiamo Ringer.»
Premo il grilletto.

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Jumbo dovrebbe avere un coltello. Fa parte della dotazione
standard di tutte le reclute. Mi inginocchio e lo tiro fuori dal
fodero, dopodiché, mentre lui è ancora privo di conoscenza,
estraggo con cautela il cilindretto impiantato alla base del collo,
vicino alla spina dorsale. Me lo infilo tra la guancia e la gengiva.
Ora il mio. Non sento male quando mi taglio e dall'incisione
esce solo qualche goccia di sangue. Robot per attenuare il dolore.
Robot per riparare il danno. È per questo che Claire non è morta
quando le ho conficcato il tubo rotto nel collo e che, subito dopo
il fiotto iniziale, l'emorragia si è fermata.
Sempre per questo che, dopo sei settimane passate sdraiata
mangiando pochissimo e nonostante l'intenso sforzo improvviso,
non sono nemmeno a corto di fiato.
Inserisco il mio impianto nel collo di Jumbo. "Rintracciami
ora, coglione d'un comandante."
Tuta fresca di bucato dalla pila sotto il lavandino. Scarpe:
quelle di Claire sono troppo piccole, quelle di Jumbo troppo
grandi. Ci penserò più tardi. La giacca di pelle del gigante però
potrebbe tornarmi utile. Addosso a me sembra una coperta, ma mi
piace che le maniche siano belle comode.
Mi sto dimenticando qualcosa. Mi guardo intorno. Il
soppressore, ecco cos'era. Nella mischia il vetro si è incrinato, ma
l'apparecchio funziona ancora. C'è un numero illuminato sopra il
tasto verde lampeggiante. Il mio. Passo il pollice sul display e lo
schermo si riempie di cifre, centinaia di sequenze che
rappresentano le reclute della base. Torno indietro per
visualizzare di nuovo il mio numero, ci clicco sopra e si apre una
cartina che mostra la collocazione precisa dell'impianto. Allargo
l'immagine e lo schermo si riempie di luminosi puntini verdi: la

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posizione di tutti i soldati muniti di impianto della base. Bingo.
E scacco matto. Con un movimento del pollice e un clic
posso selezionare qualsiasi numero. Il tasto nella parte inferiore
dell'apparecchio si illuminerà. Un'ultima pressione e la recluta di
turno è neutralizzata, stecchita. In pratica posso andarmene
passeggiando.
Posso, a patto che io sia disposta a passare sopra centinaia di
cadaveri di esseri umani innocenti, ragazzini che sono vittime
quanto me e il cui unico misfatto è aver peccato di speranza. Se il
peccato si paga con la morte, allora la virtù è diventata un vizio.
Un bambino indifeso e affamato perso in un campo di grano trova
riparo. Un soldato moribondo grida aiuto dietro una fila di
frigoriferi. Una ragazzina ferita per errore viene consegnata al
nemico perché si possa salvare.
E non so cosa sia più disumano: gli esseri alieni che hanno
creato questo nuovo mondo o l'essere umano che considera,
anche se solo per un istante, di premere il tasto verde.
Tre grossi gruppi di puntini fermi sul lato destro dello
schermo: la gente che dorme. Una decina, isolati l'uno dall'altro,
lungo il contorno: le sentinelle. Due al centro: il mio impianto
nel collo di Jumbo, il suo nella mia bocca. Altri tre o quattro
molto vicini, su questo stesso piano: malati o feriti. Un piano
sotto, il reparto di terapia intensiva, dove brilla un unico puntino
verde. Dunque: caserme, postazioni di guardia, ospedale. Un paio
dei puntini sentinella presidiano il deposito di armi. Non dovrò
indovinare chi. Lo scoprirò tra pochi minuti.
"Forza, Razor, andiamo. Ho un'ultima promessa da
mantenere."
Intanto l'acqua sgorga dal tubo rotto.

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69
«Tu preghi?» mi ha chiesto Razor una volta, dopo
un'estenuante notte di bascaball, mentre metteva a posto
scacchiera e pezzi.
Ho fatto di no con la testa. «Tu?»
«Certo che prego» ha detto sottolineando la risposta con un
cenno del capo. «Non ci sono atei in trincea.»
«Mio padre lo era.»
«Una trincea?»
«Ateo.»
«Lo so, Ringer.»
«Come fai a saperlo?»
«Non lo sapevo.»
«Allora perché mi hai chiesto se era una trincea?»
«In realtà stavo solo...» Ha sorriso. «Okay, ho capito. So cosa
stai facendo. A inquietarmi è il perché. È come se stessi cercando
non di essere divertente, ma di dimostrare quanto sei superiore. O
perlomeno credi. Be', non sei né una cosa né l'altra. Né divertente
né superiore. Perché non preghi?»
«Non mi va di mettere Dio alle strette.»
Ha preso la regina e l'ha esaminata. «L'hai mai guardata bene?
Ha una faccia da stronza che fa paura.»
«Per me ha un'aria aristocratica.»
«Somiglia alla mia maestra di terza elementare, una iena che
la metà basta.»
«Come?»
«Sì, sai, molto bastone e poca carota.»
«È solo decisa. Una regina guerriera.»
«La mia maestra di terza elementare?» Mi ha guardata. Ha
aspettato. E aspettato. «Scusa, ci avevo già provato. Un disastro

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su tutta la linea.» Ha messo il pezzo nella scatola. «Comunque
mia nonna faceva parte di un gruppo di preghiera. Sai cos'è un
gruppo di preghiera?»
«Sì.»
«Davvero? Pensavo fossi atea.»
«Quello era mio padre. E poi perché un ateo non dovrebbe
sapere cos'è un gruppo di preghiera? I credenti sanno cos'è
l'evoluzione.»
«Certo. Ci sono» ha detto meditabondo, gli intensi occhi
scuri fissi sul mio viso. «Avevi, tipo, cinque o sei anni e qualche
tuo parente ha detto in tono ammirato che eri proprio una
bambina seria e tu da allora pensi che la serietà sia un pregio.»
«Che succedeva quindi nel gruppo di preghiera?» ho chiesto
tentando di riportarlo in carreggiata.
«Ah! Allora non è vero che sai cos'è!» Ha posato la scatola e
mi si è avvicinato. Ormai con il sedere mi toccava la coscia. Ho
spostato la gamba. Con discrezione, speravo. «Adesso te lo
spiego. Un giorno il cane di mia nonna si è ammalato. Uno di
quei cani da borsetta che mordono chiunque capiti a tiro e
campano venticinque anni, tutti passati a mordere. E mia nonna
voleva chiedere a Dio di salvare quel cagnetto malvagio, cosa che
gli avrebbe dato la possibilità di continuare a mordere. Metà delle
vecchie signore del gruppo ha acconsentito e metà no, non so
esattamente perché, cioè un Dio a cui non piacciono i cani non
sarebbe Dio, ma a ogni modo è partito un grosso dibattito sulle
preghiere sprecate, che poi è diventato un diverbio
sull'ammissibilità o meno del concetto di preghiera sprecata, che
a sua volta si è trasformato in un litigio sull'Olocausto. In poche
parole, in cinque minuti sono passate da un vecchio cagnolino
ringhioso all'Olocausto.»

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«E alla fine? Hanno pregato o no per il cane?»
«Hanno pregato per le anime delle vittime dell'Olocausto. E il
giorno dopo il cane è morto.» Stava annuendo pensieroso.
«Eppure mia nonna aveva pregato per lui. Aveva pregato per lui
tutte le notti. E aveva detto a noi nipoti di fare altrettanto. Perciò
io pregavo per un cane che mi odiava e mi terrorizzava, e che
perdipiù mi ha fatto questa.» Ha messo la gamba sul letto e si è
tirato su i pantaloni per scoprire il polpaccio. «Vedi la cicatrice?»
Ho scosso la testa. «No.»
«Be', c'è.» Ha rispinto giù la gamba dei pantaloni, ma ha
tenuto il piede sul letto. «Quindi dopo che è morto, io ho detto a
mia nonna: "Ho pregato tantissimo e Flubby è morto lo stesso.
Dio mi odia?".»
«E lei cosa ti ha risposto?»
«Ha sparato qualche stronzata sul fatto che Dio voleva
Flubby in cielo, una roba con cui il mio cervello di bambino di
sei anni non riusciva a raccapezzarsi. In paradiso ci sono vecchi
cagnolini ringhiosi? Ma il paradiso non dovrebbe essere un posto
piacevole? Questa cosa mi ha tormentato per un sacco di tempo.
Tipo, ogni notte, mentre recitavo le preghiere, non potevo fare a
meno di chiedermi se davvero volevo andare in paradiso e passare
l'eternità con Flubby. Perciò alla fine ho concluso che dev'essere
all'inferno. Altrimenti crolla l'intero sistema teologico.»
Si è stretto tra le braccia il ginocchio piegato, ci ha
appoggiato sopra il mento ed è rimasto a fissare nel vuoto. Era
tornato al tempo in cui le domande di un bambino sulle
preghiere, Dio e il paradiso contavano ancora.
«Una volta ho rotto una tazza» ha ripreso. «Stavo giocando
con le porcellane della vetrinetta di mamma. Quella era tanto
carina, faceva parte di un servizio da tè, un regalo di nozze. Non

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l'ho proprio rotta. Mi è caduta in terra e ci è venuta una crepa.»
«In terra?»
«No, non in terra. Sulla taz...» Ha sgranato gli occhi per lo
shock. «Non avrai mica appena fatto la stessa...?»
Ho negato. Lui mi ha puntato contro il dito. «Nooo, ti ho
beccata! Un attimo di spensieratezza da Ringer la regina
guerriera!»
«Io scherzo di continuo.»
«Giusto. Ma in maniera così sottile che uno ci arriva solo se è
sveglio.»
«La tazza» l'ho pungolato.
«Niente, quindi ho incrinato la preziosa porcellana di
mamma. L'ho rimessa nella vetrinetta con la crepa dietro sperando
che lei non se ne accorgesse, pur sapendo che era solo questione
di tempo perché prima o poi l'avrebbe vista e io sarei finito nei
guai. Sai a chi mi sono rivolto in cerca di aiuto?»
Non mi sono dovuta scervellare. Sapevo dove voleva andare a
parare. «A Dio.»
«Esatto. Ho chiesto a Dio di tenere mamma lontana dalla
vetrinetta. Tipo, per il resto della sua vita. O almeno finché non
partivo per il college. Poi gli ho chiesto di guarire la tazza. È Dio,
no? Può guarire le persone: che ci vorrà mai con una tazzetta
made in China? Sarebbe stata la soluzione ottimale ed è per
questo che c'è Dio, per le soluzioni ottimali.»
«Tua mamma ha scoperto tutto.»
«Ci puoi scommettere che ha scoperto tutto.»
«Mi sorprende che ancora preghi. Dopo Flubby e la tazza.»
Ha scosso la testa. «Non è questo il punto.»
«Perché, c'è un punto?»
«Se mi lasciassi finire... sì, un punto c'è. Eccolo: dopo che ha

293
trovato la tazza e prima che io lo venissi a sapere, l'ha sostituita.
Ne ha ordinata una nuova e ha buttato via quella vecchia. Un
sabato mattina -- quando ormai, mi sa, pregavo più o meno da un
mese -- sono andato alla vetrinetta per avere la prova che,
qualunque cosa ne pensassero le vecchiette del gruppo, le
preghiere sprecate esistevano eccome, e l'ho vista.»
«La tazza nuova» ho detto. Razor ha annuito. «Ma non sapevi
che tua mamma l'aveva sostituita.»
Ha alzato le mani al cielo. «Miracolo! La crepa non è più una
crepa! Ciò che era rotto ora è intatto! Dio esiste! Per poco non me
la faccio sotto.»
«La tazza da tè era guarita» ho detto lentamente.
Ha piantato gli occhi scuri nei miei. Mi ha messo una mano
sul ginocchio. Una stretta. E poi un colpetto.
"Sì."

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70
In bagno la cascata diventa un torrente, il torrente un
rigagnolo, il rigagnolo un gocciolio anemico. L'acqua rallenta e il
mio cuore accelera. La paranoia sta avendo la meglio su di me. Ci
vuole un secolo perché l'acqua si fermi del tutto: il segnale di via
libera da parte di Razor.
Fuori il corridoio è deserto. Lo sapevo già grazie
all'apparecchio di Claire. So anche esattamente dove sto andando.
Scale. Una rampa da scendere. Una promessa ancora da
mantenere. Mi fermo sul pianerottolo giusto il tempo necessario a
infilarmi la pistola di Jumbo nella tasca della giacca.
Poi esco di colpo e comincio a correre per il corridoio.
Davanti a me c'è la postazione delle infermiere. Ci vado dritta
incontro. L'infermiera si alza di scatto.
«Al riparo!» grido. «Sta per esplodere!»
Scarto il bancone e mi precipito verso le porte a spinta che
conducono al reparto.
«Ehi!» urla la donna. «Lì non si può entrare!»
"Quando sei in comodo, Razor."
Preme il tasto di blocco che ha sulla scrivania. Poco male.
Proseguo a tutta velocità e strappo i battenti dai cardini.
«Altolà!» grida.
Mi resta ancora tutto il corridoio: non ce la farò. Sono stata
potenziata, ma non posso correre più veloce di un proiettile.
Rallento e freno.
"Razor, dico sul serio. Questo sarebbe il momento giusto."
«Mani sulla testa! Subito.» Sta cercando di riprendere fiato.
«Bene così. Ora vieni verso di me, senza girarti. Piano. Molto
piano, o giuro su Dio che ti sparo.»
Ubbidisco arretrando verso il suono della sua voce. Mi ordina

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di fermarmi. Mi fermo. Io sono immobile, ma i meccanismi
dentro di me no. La sua posizione è fissa: non ho bisogno di
vederla per sapere esattamente dov'è. L'unità centrale ha inviato i
responsabili del sistema nervoso e muscolare a compiere il loro
dovere nell'istante in cui saranno chiamati a farlo. Quando sarà il
momento, non dovrò pensare. Al mio posto subentrerà l'unità
centrale.
Ma non dovrò la vita solo al Dodicesimo Sistema: fregare la
giacca a Jumbo è stata un'idea mia.
Il che mi ricorda una cosa.
«Le scarpe» mormoro.
«Cos'hai detto?» Le trema la voce.
«Mi servono delle scarpe. Tu che numero hai?»
«Eh?»
Il segnale dell'unità parte alla velocità della luce. Il mio corpo
non si muove altrettanto rapido, ma comunque probabilmente al
doppio della velocità necessaria.
Ficco la mano destra nella manica a fagotto di Jumbo,
recupero il coltello da trenta centimetri che ci ho infilato e, con
uno scatto verso sinistra, lo lancio.
E l'infermiera si accascia a terra.
Le estraggo la lama dal collo e la rimetto, ancora
insanguinata, nella manica sinistra della giacca. Poi controllo le
scarpe. Sono quelle bianche classiche, con la suola spessa.
Mezzo numero di troppo, ma andranno benissimo.
Arrivata in fondo al corridoio, entro nell'ultima camera a
destra. C'è buio, ma i miei occhi sono stati potenziati: la vedo
chiaramente nel letto, che dorme come un sasso. O magari
intontita dai sedativi. Dovrò stabilirlo.
«Teacup? Sono io. Ringer.»

296
Le sue folte ciglia scure hanno un fremito. A questo punto
sono così carica che potrei giurare di aver sentito il fruscio
dell'aria.
Sussurra qualcosa senza aprire gli occhi. Troppo piano perché
una persona normale possa capire, ma i robot progettati per
migliorare le prestazioni dell'orecchio trasmettono l'informazione
all'unità, che la riporta al collicolo inferiore, il centro dell'udito
del cervello.
«Sei morta.»
«Non più. E nemmeno tu.»

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71
La finestra accanto al letto vibra nel telaio. Il pavimento
trema. Una brillante luce arancione inonda la stanza e si spegne.
Segue un boato assordante. Dal soffitto si stacca una nebbiolina
di intonaco polverizzato. La sequenza si ripete. E ancora. E
ancora.
Razor ha attaccato il deposito di armi.
«Teacup, dobbiamo andare.» Le passo le dita sotto la nuca e
le sollevo leggermente la testa.
«Andare dove?»
«Il più lontano possibile.»
Sostenendole il capo con la mano, la colpisco in fronte con la
parte bassa dell'altra. La giusta quantità di forza, né più né meno.
Teacup si affloscia. La tiro su dal letto. Un altro scoppio mentre
le bombe del deposito continuano a esplodere. Apro la finestra
con un calcio. Nella stanza irrompe una folata di aria gelida. Mi
siedo sul davanzale rivolta verso l'interno stringendomi Teacup al
petto. La mia intenzione allerta l'unità centrale: mi trovo al primo
piano. I rinforzi corrono verso i tendini e le ossa di piedi,
caviglie, stinchi, ginocchia e bacino.
Mi metto in posizione.
Nella discesa faccio una capriola, come un gatto che cade da
un tavolo. Atterro sana e salva, proprio come un gatto, non fosse
che, quando tocco terra, la testa di Teacup mi va a sbattere di
rimbalzo contro il mento. Di fronte a me c'è l'ospedale. Dietro, il
magazzino delle munizioni in fiamme. E alla mia destra,
esattamente dove Razor ha detto che sarebbe stato, il Dodge
M882 nero.
Spalanco la portiera, spingo Teacup nel posto del passeggero,
in un lampo mi metto al volante e parto a razzo per il parcheggio,

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curvando brusca a sinistra per svoltare a nord in direzione
dell'aerodromo. C'è una sirena che ulula. Le fotoelettriche sono
accecanti. Negli specchietti retrovisori vedo dei mezzi
d'emergenza sfrecciare verso il deposito che brucia. I vigili del
fuoco dovranno penare parecchio dal momento che qualcuno ha
chiuso l'impianto di pompaggio.
Un'altra brusca curva a sinistra e ora dritto davanti a me ci
sono i corpi massicci dei Black Hawk, luccicanti come scarafaggi
nella luce violenta delle fotoelettriche. Stringo il volante e faccio
un bel respiro. Ora viene il difficile. Se Razor non è riuscito a
rapire un pilota, siamo spacciati.
Quando sono a cento metri di distanza, vedo una figura che
salta giù dalla pancia di uno degli elicotteri. Indossa un parka e
porta con sé un fucile d'assalto. Ha la faccia in parte oscurata dal
cappuccio, ma riconoscerei quel sorriso ovunque.
Salto giù dall'M882.
E Razor dice: «Ciao».
«Dov'è il pilota?» chiedo.
Con la testa indica la cabina. «Io la mia parte l'ho fatta. Tu?»
Recupero Teacup dal pick-up e salto sull'elicottero. Seduto di
fronte ai comandi c'è un tipo con indosso solo una maglietta
verde oliva e un paio di boxer in coordinato. Razor gli si siede
accanto nel posto del copilota.
«Metti in moto, tenente Bob.» Razor sorride al pilota. «Oh.
Che maniere. Ringer, il tenente Bob. Tenente Bob, Ringer.»
«Non funzionerà mai» dice lui. «Ci staranno attaccati dietro.»
«Sì? E questo cos'è?» Razor tira su un ammasso di fili
elettrici aggrovigliati.
Il pilota scuote la testa. Ha così freddo che le labbra gli
stanno diventando blu. «Non lo so.»

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«Nemmeno io, ma immagino che sia molto importante per il
corretto funzionamento di un elicottero.»
«Non capisci...»
Razor si inclina verso di lui: la sua aria giocosa è svanita. I
suoi occhi profondi brillano come se fossero illuminati da dentro
e la forza trattenuta che ho avvertito fin dal primo momento si
libera con una violenza tale da farmi trasalire.
«Stammi bene a sentire, gran figlio di puttana alieno, o
accendi questo cazzo di elicottero all'istante o io ti...»
Il tenente Bob si mette le mani in grembo e fissa il vuoto. La
mia più grande preoccupazione, dopo come portare a bordo un
pilota senza farsi scoprire, era come convincerlo a collaborare.
Mi sporgo in avanti, prendo Bob per il polso e gli piego il
mignolo all'indietro.
«Te lo spezzo» lo minaccio.
«Prego!»
Glielo spezzo davvero. Lui si morde con forza il labbro
inferiore. Agita le gambe. Gli occhi gli si riempiono di lacrime.
C'è qualcosa che non torna. Gli premo le dita sul retro del collo,
poi mi giro verso Razor.
«Ha l'impianto. Non è uno di loro.»
«Oh, be', e tu chi diavolo sei?» protesta il pilota.
Tiro fuori dalla tasca l'apparecchio. Ci sono l'ospedale e il
deposito circondato da uno stuolo di puntini verdi. E poi ci sono
tre puntini che brillano sulla pista dell'aerodromo.
«Tu il tuo te lo sei tolto?» chiedo a Razor.
Sta annuendo. «E l'ho lasciato sotto il cuscino. Era il piano.
Oppure no? Merda, Ringer, non era il piano?» Colgo un accenno
di panico.
Prendo il coltello facendolo scivolare giù dalla manica.

300
«Tienilo fermo.»
Razor capisce al volo. Afferra il tenente Bob e gli blocca la
testa cingendola con il braccio. Bob non oppone molta
resistenza. Non vorrei che entrasse in stato di shock. In tal caso,
sarebbe finita.
Non c'è molta luce e Razor non riesce a tenerlo perfettamente
immobile perciò invito Bob a calmarsi se non vuole che gli
danneggi la colonna vertebrale, aggiungendo la paralisi al
problema del dito rotto. Estraggo l'impianto, lo butto sull'asfalto,
tiro indietro la testa di Bob e gli sussurro all'orecchio: «Non sono
il nemico e non ho dato di Dorothy. Sono uguale a te...».
«Solo un po' meglio» conclude Razor. Poi dà un'occhiata
fuori dal finestrino e dice: «Uh, Ringer...».
Li vedo: le luci dei fanali si ingigantiscono come due stelle
che diventano supernove. «Stanno arrivando e una volta qui ci
uccideranno» dico a Bob. «Tutti, te compreso. Non ti crederanno
e ti uccideranno.»
Bob mi guarda con il viso rigato di lacrime di dolore.
«Ti devi fidare di me.»
«Se no ti spezza un altro dito» aggiunge Razor.
Un respiro profondo mentre, in preda a un tremore
incontrollabile, si stringe al petto la mano ferita e il sangue gli
gocciola giù per il collo inzuppandogli il bordo della maglietta.
«È inutile» sussurra. «Ci abbatteranno.»
D'istinto mi allungo e gli poso la mano sulla guancia. Lui non
si ritrae. Resta come impietrito. Non so perché l'ho toccato né
cosa stia succedendo ora che l'ho fatto, ma sento qualcosa che si
apre dentro di me, come un bocciolo che schiude i suoi petali
delicati al sole. Sto congelando. Ho il collo in fiamme. E il
mignolo della mano destra pulsa al ritmo del mio cuore. Il dolore

301
mi fa salire le lacrime agli occhi. Il suo dolore.
«Ringer!» tuona Razor. «Che cavolo stai facendo?»
Tramite quel contatto riverso il mio calore nel tenente.
Spengo il fuoco. Lenisco il dolore. Allevio la paura. Il suo
respiro si regolarizza. Il suo corpo si rilassa.
«Bob, dobbiamo proprio andare» dico.
E un attimo dopo, andiamo.

302
72
Mentre ci solleviamo, il pick-up inchioda facendo stridere le
ruote. Scende un uomo alto: il suo viso è una perfetta
illustrazione del gioco di fitte ombre creato dalle fotoelettriche,
ma grazie alla mia vista potenziata gli vedo gli occhi, brillanti e
duri come quelli dei corvi nel bosco, ma se quelli dei corvi erano
neri i suoi sono di un azzurro fulgido, e dev'essere uno scherzo
della luce o del buio ma sulle sue labbra mi sembra di cogliere
l'accenno di un sorriso.
«Restiamo bassi» ordino a Bob.
«Dove andiamo?»
«A sud.»
Virando l'elicottero si inclina; il terreno ci viene incontro
rapido. Vedo il deposito in fiamme, i lampeggianti dei camion dei
pompieri e le reclute che corrono di qua e di là come formiche.
Sorvoliamo un fiume; l'acqua nera scintilla nel chiarore diffuso
dalle fotoelettriche. Alle nostre spalle il campo ormai è un'oasi di
luce in un deserto di buio invernale. Ci tuffiamo in quel buio
passando a due metri dalla cima degli alberi.
Mi infilo nel sedile accanto a Teacup, mi appoggio la sua
testa sul petto e le scosto i capelli da una parte. Spero sia l'ultima
volta che mi tocca farlo. Quando ho finito, frantumo l'impianto
con la punta del manico del coltello.
Forte e stridula nelle cuffie, mi arriva la voce di Razor:
«Come sta?».
«Bene, direi.»
«E tu?»
«A posto.»
«Anomalie?»
«Niente di che. Lì?»

303
«Tutto liscio come il culo di un neonato.»
Risistemo Teacup al suo posto, mi alzo e apro uno scomparto
dopo l'altro finché non trovo i paracadute. Mentre controllo i
componenti, Razor ciancia senza sosta.
«C'è niente che vuoi dirmi? Tipo, non lo so, "Grazie, Razor,
per avermi salvata da una vita di schiavitù in mano agli alieni
anche se ti ho dato un pugno al collo e più in generale mi sono
comportata da stronza"? Qualcosa del genere? Sai, non è proprio
una passeggiata inserire codici segreti in giochi fasulli, mettere
lassativi nel budino, far esplodere bombe, rubare pick-up, rapire
piloti con dita da spezzare... Magari: "Ehi, Razor, non ce l'avrei
mai fatta senza di te. Sei un grande". O giù di lì. Non devi
ripeterlo pari pari, basta qualcosa che renda il senso generale.»
«Perché?» chiedo. «Cos'è che ti ha convinto a fidarti di me?»
«Quello che hai detto un giorno sui bambini... che li
trasformavano in ordigni. Ho fatto qualche domanda in giro.
Tempo zero, mi ritrovo sulla poltrona di Mnemolandia e poi mi
trascinano dal comandante, che se la piglia con me per una cosa
che hai detto tu e mi ordina di smettere di parlarti perché non mi
può ordinare di smettere di ascoltarti, e più ci penso più mi
puzza. Ci addestrano a eliminare gli infestati e poi imbottiscono
di esplosivi di origine aliena bambini che tra un po' manco
camminano? Chi sono i buoni qui? E poi, mi dico, io chi sono? È
stato davvero angosciante, una crisi esistenziale bella e buona.
Decisiva, però, è stata la matematica.»
«La matematica?»
«Sì, la matematica. Voi asiatici non siete tutti bravi in
matematica?»
«Non essere razzista. E poi io sono asiatica per tre quarti.»
«"Tre quarti"? Vedi? Matematica. Basta fare due conti. E ti

304
accorgi che non tornano. Okay, magari abbiamo una botta di culo
e gli freghiamo Mnemolandia. Anche degli alieni supersuperiori
possono fare casini, nessuno è perfetto. Ma mica finisce lì.
Abbiamo le loro bombe, i loro impianti per rintracciare e uccidere
i soldati, il loro ultrasofisticato sistema di nanorobot... cioè,
cazzo, abbiamo persino la tecnologia per distinguerli! Ma ti pare?
Abbiamo più armi noi di loro! Ma la vera perla è venuta il giorno
in cui ti hanno fatto le iniezioni, quando Vosch ha detto che la
storia dell'organismo attaccato al cervello umano era una balla.
Incredibile!»
«Perché se non è vero quello...»
«... non è vero niente.»
Il paesaggio sotto di noi è coperto da un manto bianco. Al
buio l'orizzonte è indistinguibile, perso. "Non è vero niente." Mi
ritrovo a pensare a mio padre morto che mi dice che adesso
appartengo a loro. D'istinto prendo la mano di Teacup nella mia:
ecco la verità.
Sento in cuffia la voce di Bob: «Non so cosa devo fare».
«Rilassati, Bob» dice Razor. «Ehi, Bob. Non si chiamava così
anche il maggiore di Camp Haven? Com'è che tutti gli ufficiali
hanno lo stesso nome?»
Scatta un allarme. Lascio la mano di Teacup e mi avvicino
agli altri. «Che succede?»
«Abbiamo compagnia» risponde Bob. «Ore sei.»
«Elicotteri?»
«Negativo. F-15. Tre.»
«Quanto tempo abbiamo prima di essere a tiro?»
Scuote la testa. Nonostante il freddo, ha la maglietta fradicia
di sudore. E il viso che luccica. «Cinque, forse sette minuti.»
«Saliamo» ordino. «Quota massima.»

305
Prendo un paio di paracadute e ne getto uno sulle gambe di
Razor.
«Ci lanciamo?» chiede.
«Non li possiamo né affrontare né seminare. Tu stai con
Teacup. Buttatevi insieme.»
«Con Teacup? E tu con chi stai?»
Bob dà un'occhiata all'altro paracadute. «Io non mi lancio»
dice. E poi, in caso non abbia sentito o capito: «Io. Non. Mi.
Lancio».
Nessun piano è perfetto. Avevo preventivato un Bob
Silenziatore e quindi messo in conto di farlo secco prima di
abbandonare l'elicottero. Ora è complicato. Non voglio uccidere
Bob per la stessa ragione per cui non ho ucciso Jumbo. Ammazza
oggi un Jumbo e domani un Bob e cadi in basso come chi ficca
bombe in gola a bambini.
Alzo le spalle per nascondere la mia incertezza. Gli mollo il
paracadute in grembo. «Allora immagino che finirai incenerito.»
Siamo a millecinquecento metri. Cielo scuro, suolo scuro,
orizzonte assente, nero ovunque. Il fondo di un mare senza luce.
Razor sta guardando lo schermo del radar, ma dice: «Dov'è il tuo
paracadute, Ringer?».
Lo ignoro. «Mi puoi avvertire quando sono a sessanta secondi
dalla possibilità di tiro?» chiedo a Bob. Lui fa cenno di sì. Razor
mi ripete la domanda. «È matematica» rispondo. «Cosa in cui, per
tre quarti, sono bravissima. Se noi siamo in quattro e loro
individuano due paracadute, concluderanno che a bordo c'è
ancora minimo una persona. Uno, forse due di loro resteranno
con l'elicottero, se non altro finché non riusciranno ad abbatterlo.
Guadagneremo tempo.»
«Cosa ti fa pensare che resteranno con l'elicottero?»

306
Mi stringo nelle spalle. «È quello che farei io.»
«Comunque non hai ancora risposto alla mia domanda sul tuo
paracadute.»
«Ci stanno facendo dei segnali» comunica Bob. «Vogliono
che atterriamo.»
«Tu mandali a fanculo» dice Razor ficcandosi in bocca una
gomma da masticare. Si batte un dito sull'orecchio. «Per
stappare.» Si infila la carta in tasca. Quando si accorge che lo sto
guardando, sorride. «Non mi ero mai reso conto di quanto schifo
ci fosse nel mondo finché non è rimasto nessuno a raccoglierlo»
spiega. «La Terra è responsabilità mia.»
Poi Bob grida: «Sessanta secondi!».
Tiro Razor per il parka. "Ora."
Lui alza lo sguardo e, scandendo lentamente le parole,
insiste: «Dove cavolo è il tuo paracadute?».
Lo sollevo dal sedile con una mano sola. Lui caccia un urletto
per la sorpresa e si avvia con passo instabile verso il retro. Lo
seguo, mi accovaccio davanti a Teacup e le sgancio la cintura di
sicurezza.
«Quaranta secondi!»
«Come facciamo a trovarti?» strilla Razor, fermo accanto a
me.
«Andate verso il fuoco.»
«Che fuoco?»
«Trenta secondi!»
Spalanco il portellone. L'aria che invade l'interno tira giù il
cappuccio a Razor. Prendo Teacup e gliela spingo contro il petto.
«Non farla morire.»
Lui risponde con un cenno.
«Promettimelo.»

307
Altro cenno: «Te lo prometto».
«Grazie, Razor. Di tutto.»
Si sporge in avanti e mi bacia con forza sulla bocca.
«Non ci provare mai più» dico.
«Perché? Perché non ti è piaciuto o perché ti è piaciuto?»
«Tutte e due le cose.»
«Quindici secondi!»
Razor si carica Teacup in spalla, afferra il cavo di sicurezza e
indietreggia fino a portare i talloni sulla piattaforma di lancio.
Stagliati in controluce nell'apertura, il ragazzo e la bambina sulla
sua spalla, e millecinquecento metri sotto il buio infinito. "La
Terra è responsabilità mia."
Razor lascia il cavo. Non sembra che cada. È come
risucchiato dal vuoto famelico.

308
73
Torno alla cabina, dove trovo la portiera del pilota aperta e il
sedile vuoto. Di Bob, nessuna traccia.
Mi ero chiesta perché avesse interrotto il conto alla rovescia e
ora lo so: ha cambiato idea riguardo al lancio.
L'elicottero dev'essere a tiro, il che significa che non hanno
intenzione di abbatterlo. Hanno preso le coordinate del punto in
cui Razor si è lanciato e mi rimarranno attaccati finché non mi
butto, che sia per scelta o perché è finito il carburante. A questo
punto Vosch avrà ormai capito per quale motivo l'impianto di
Jumbo è qua sopra mentre il suo proprietario è in infermeria a
farsi curare un gran brutto mal di testa.
Con la punta della lingua mi tolgo di bocca il cilindretto e me
lo appoggio sul palmo.
"Vuoi vivere?"
"Sì, e anche tu vuoi che io viva" dico a Vosch. "Non so perché
e mi auguro di non scoprirlo mai."
Scrollo la mano lasciando cadere l'impianto.
La risposta dell'unità centrale è immediata. La mia intenzione
allerta il processore, che calcola l'altissima probabilità di un
collasso fatale e blocca tutte le funzioni dei miei muscoli che non
siano strettamente necessarie. Il Dodicesimo Sistema ha lo stesso
ordine che ho dato a Razor: "Non farla morire". La sua vita, come
quella di ogni parassita, dipende dalla continuazione della mia.
Nell'istante in cui ci ripenserò -- "Okay, d'accordo. Prendo il
paracadute" -- l'unità centrale mi rilascerà. Ma solo e soltanto
allora. Non posso né mentire né contrattare. Non posso
convincerla. Non posso costringerla. A meno che io non cambi
idea, non mi lascerà andare. A meno che non mi lasci andare, io
non cambierò idea.

309
Cuore in fiamme. Corpo di pietra.
Non c'è niente che l'unità centrale possa fare per il mio panico
che cresce e cresce a mo' di valanga. Può rispondere alle
emozioni; non le può controllare. Attiva il rilascio di endorfine.
Spinge neuroni e mastociti a liberare serotonina nel mio flusso
sanguigno. A parte queste correzioni a livello fisiologico, è
paralizzata quanto me.
"Ci dev'essere una risposta. Ci dev'essere una risposta. Ci
dev'essere una risposta. Qual è la risposta?" E vedo gli
aristocratici, brillanti occhi da uccello di Vosch fissi nei miei.
"Qual è la risposta? Non è la rabbia, non è la speranza, non è la
fede, non è l'amore, non è il distacco, non è resistere, non è
mollare, non è combattere, non è scappare, non è nascondersi,
non è arrendersi, non è cedere, non è niente di niente di niente."
Un attimo.
"Qual è la risposta?" chiede.
E io dico: "Il niente".

310
74
Sono ancora bloccata -- non posso nemmeno muovere gli
occhi -- ma ho una buona visuale sugli strumenti, compreso
l'altimetro e la spia del carburante. Sono a millecinquecento metri
di quota e il carburante non durerà per sempre. Indurre la paralisi
potrà impedirmi di saltare, ma non mi eviterà lo schianto. In quel
caso la probabilità di un collasso fatale è del cento per cento.
Non ha alternative: l'unità centrale mi rilascia e io ho la
sensazione di essere scagliata da una parte all'altra di un campo
da football. Vengo ricacciata dentro il mio corpo, con violenza.
"Okay, Ringer 2.0. Vediamo come te le cavi."
Afferro la maniglia della portiera del pilota e spengo i motori.
Parte un segnale di allarme. Spengo anche quello. Ora si
sente solo e soltanto il vento.
Per qualche istante la spinta residua mantiene l'elicottero alla
stessa altezza, poi è caduta libera.
Finisco contro il tettuccio e picchio la testa contro il vetro.
Mi esplodono davanti delle stelle bianche. Nel precipitare,
l'elicottero comincia a girare su se stesso e io perdo la presa sulla
maniglia. Mentre vengo scagliata di qua e di là come un dado in
un bussolotto, annaspo nel vuoto cercando un appiglio.
L'elicottero ruota, è a muso in giù, e io faccio un volo di quattro
metri verso il retro, poi, quando l'elicottero gira in posizione
opposta, verso la parte anteriore, dove sbatto di petto contro lo
schienale del sedile del pilota. Un coltello arroventato mi
trapassa il fianco: mi sono rotta una costola. La cintura di
sicurezza del pilota, sciolta, mi colpisce in faccia; la afferro prima
di essere nuovamente gettata indietro. Un'altra capriola
dell'elicottero e la forza centrifuga mi ributta nella cabina. Urto
contro la portiera, che si apre. Punto un piede sul sedile e,

311
facendo pressione sulla mia scarpa bianca da infermiera, mi isso
fuori per metà. Lascio andare la cintura, mi afferro alla maniglia e
spingo con tutte le mie forze.
Rollio, beccheggio, rotazione, salto mortale, lampi di grigio e
nero e bianco scintillante. Sono ancora aggrappata alla maniglia
quando l'elicottero finisce di nuovo a muso in giù: la portiera si
chiude con il mio polso in mezzo, spezzando l'osso e facendomi
perdere la presa. Rimbalzo scompostamente per tutta la
lunghezza del Black Hawk fino a picchiare sul sostegno dell'elica
posteriore e, quando la coda ruota, vengo lanciata verso
l'orizzonte come un sasso con una fionda.
Non ho la sensazione di cadere. Sono sostenuta da una
corrente ascensionale di aria calda, come un falco che veleggi nel
cielo notturno ad ali spiegate, e intanto dietro e sotto di me
l'elicottero precipita prigioniero della gravità che io nego. Non
sento l'esplosione quando si schianta. Ci sono solo il vento e il
sangue che mi romba nelle orecchie. Non avverto dolore per i
colpi presi. Sono vuota e in preda a una folle euforia. Sono il
niente. Il vento pesa più delle mie ossa.
La Terra mi viene incontro a tutta velocità. Non ho paura. Ho
mantenuto la mia promessa. Ho riscattato il tempo.
Spalanco le braccia. Allargo le dita. Sollevo il viso verso la
linea dove il cielo incontra la Terra.
La mia casa. La mia responsabilità.

312
75
Sto cadendo a velocità massima verso un paesaggio di un
bianco uniforme, un vasto nulla che inghiotte tutto ciò che
incrocia sul suo cammino, esplodendo all'orizzonte in ogni
direzione.
"È un lago. Un lago enorme."
Un lago enorme con la superficie ghiacciata.
Entrare di piedi è la mia unica chance. Se il ghiaccio è più
spesso di trenta centimetri, sono spacciata. Nessun grado di
potenziamento alieno basterà a proteggermi. Le ossa delle gambe
si sbricioleranno. La milza si spappolerà. I polmoni
collasseranno.
"Confido in te, Marika. Non sei passata attraverso fiamme e
sangue solo per cadere ora."
In realtà, comandante, sì.
Il mondo bianco sotto di me riluce come una perla, una tela
immacolata, un abisso di alabastro. Un muro di aria sibilante
preme sulle mie gambe mentre mi porto le ginocchia al petto per
eseguire la rotazione. Devo entrare a novanta gradi. Se mi
raddrizzo troppo presto, il vento mi farà perdere il giusto assetto.
Troppo tardi e sbatterò di petto o di sedere.
Chiudo gli occhi: non mi servono. Finora l'unità centrale ha
funzionato perfettamente; è ora che le dia tutta la mia fiducia.
La mia mente si svuota: tela immacolata, abisso di alabastro.
Sono il vascello, l'unità centrale è il pilota.
"Qual è la risposta?"
E io ho detto: "Il niente. La risposta è il niente".
Le mie gambe si allungano decise. Il mio corpo ruota
portandosi in posizione. Le mie braccia si flettono e si incrociano
sul torace. La mia testa si piega all'indietro, con il viso rivolto al

313
cielo. La mia bocca si apre. Inspiro a fondo, espiro. Inspiro a
fondo, espiro. Inspiro a fondo, trattengo.
Sono in verticale, senza la resistenza dell'aria vado più in
fretta. Colpisco il ghiaccio perpendicolarmente, di piedi, a
centocinquanta chilometri orari.
Non sento l'impatto.
Né l'acqua fredda che si chiude sopra di me.
Né la pressione di quell'acqua mentre piombo nell'oscurità di
inchiostro.
Non sento niente. Devo avere i nervi spenti, o i recettori del
dolore nel cervello disattivati.
Decine di metri sopra di me, una minuscola macchia di luce,
una capocchia di spillo, debole come la stella più lontana: il
punto di ingresso. E anche quello di uscita. Scalcio per risalire. Il
mio corpo è intorpidito. La mia mente, muta. Mi sono del tutto
abbandonata al Dodicesimo Sistema. Non è più parte di me. È
me. Siamo una cosa sola.
Sono umana. E non lo sono. Vado verso la stella che splende
nella volta incrostata di ghiaccio, un semidio che si innalza da
una profondità primordiale, pienamente umana, interamente
aliena, e ora capisco: conosco la risposta all'enigma impossibile
di Evan Walker.
Sfreccio verso il cuore della stella e mi slancio fuori, sulla
calotta ghiacciata. Un paio di costole rotte, un polso fratturato,
un brutto squarcio in fronte dovuto alla cintura di sicurezza del
pilota, totale assenza di sensibilità e mancanza di fiato, vuota,
intera, cosciente.
Viva.

314
76
Raggiungo i rottami fumanti dell'elicottero poco prima
dell'alba. Trovare il luogo dello schianto non è stato difficile: il
Black Hawk è caduto nel bel mezzo di un campo coperto di neve
fresca. Il chiarore del fuoco si vedeva a chilometri di distanza.
Mi avvicino lentamente da sud. Alla mia destra il sole sbuca
dall'orizzonte e inonda di luce il paesaggio invernale dando vita a
un inferno di cristallo: sembra che siano caduti dal cielo miliardi
di diamanti.
I miei vestiti fradici sono congelati e mentre mi muovo
crepitano come legna ardente. Mi è tornata la sensibilità. Il
Dodicesimo Sistema prolunga la mia esistenza per prolungare la
propria. Sta chiedendo a gran voce riposo, cibo, aiuto con il
processo di guarigione: è per questo che mi ha restituito il dolore.
"No. Niente riposo finché non li avrò trovati."
Il cielo è sgombro. Non c'è vento. Volute di fumo salgono dal
relitto straziato dell'elicottero, nere e grigie, simili alle colonne
che si alzavano sopra Camp Haven cariche dei resti inceneriti
degli uccisi.
"Dove sei, Razor?"
Il sole continua la sua ascesa e il riflesso sulla neve si fa
accecante. Il polielemento di rinforzo alla vista mi regola gli
occhi, velandoli con un filtro scuro indistinguibile, nella
sensazione, da un paio di occhiali neri. È così che noto un neo in
quel bianco perfetto, circa due chilometri a ovest del punto in cui
mi trovo. Mi stendo sul ventre e usando braccia e gambe scavo
una piccola trincea. Via via che si avvicina, l'imperfezione nera
prende forma umana. Alta, snella e imbacuccata in un parka, si
muove lentamente nella neve ad altezza caviglia stringendo un
fucile. Passano trenta interminabili minuti. Quando è a cento

315
metri, mi tiro su. Razor si butta a terra come se gli avessero
sparato. Lo chiamo per nome, ma senza alzare troppo la voce:
nell'aria invernale i rumori si propagano a grandi distanze.
Risponde in tono acuto per l'ansia. «Cazzarola!»
Si trascina per qualche passo, poi prende a correre alzando le
ginocchia e muovendo le braccia come un risoluto patito del
cardiofitness su un tapis roulant. Quando si ferma a mezzo metro
da me, dalla bocca aperta gli escono sbuffi di fiato caldo.
«Sei viva» sussurra. Nei suoi occhi vedo scritto:
"Impossibile".
«Dov'è Teacup?»
Indica con la testa un punto alle sue spalle. «Sta bene.
Insomma, forse si è rotta una gamba...»
Lo scarto e comincio a camminare nella direzione da cui è
venuto. Lui arranca per starmi dietro e protesta perché rallenti.
«Ti stavo quasi dando per morta» dice ansimando. «Senza
paracadute! Cos'è, ora sai volare? Che ti è successo alla fronte?»
«Ho preso un colpo.»
«Oh. Be', sembri un'apache. Sai, le pitture di guerra?»
«È l'altro quarto: apache.»
«Sul serio?»
«In che senso "forse si è rotta una gamba"?»
«Nel senso che mi sa che ha una gamba rotta. Con l'aiuto
della tua vista a raggi X, magari puoi fare la diagnosi
definitiva...»
«Che strano.» Cammino e intanto osservo il cielo. «Perché
non ci stanno cercando? È impossibile che non abbiano preso le
coordinate del lancio.»
«Io non ho visto niente. È come se avessero lasciato perdere.»
Scuoto il capo. «Non sono tipi che lasciano perdere. Quanto

316
manca, Razor?»
«Un paio di chilometri? Tranquilla, l'ho messa in un posto
bello sicuro.»
«Perché l'hai mollata lì da sola?»
Mi guarda male, ammutolito per un secondo. Ma solo per un
secondo. Razor non sta mai zitto a lungo. «Per cercarti. Mi hai
detto di "andare verso il fuoco". Un po' generica, come
indicazione. Potevi anzi dire: "Ci vediamo dove mi schianto
cercando di far atterrare questo elicottero. Quel fuoco".»
Camminiamo in silenzio per qualche minuto. Razor è a corto
di fiato. Io no. I polielementi mi sosterranno finché non avrò
raggiunto Teacup, ma ho la sensazione che, quando cederò,
cederò di brutto.
«Quindi ora che facciamo?» chiede.
«Ci riposiamo per qualche giorno... o finché possiamo.»
«E poi?»
«Sud.»
«Sud. Questo sarebbe il tuo piano? Sud. Un tantino
elaborato, non trovi?»
«Dobbiamo tornare in Ohio.»
Inchioda come se fosse andato a sbattere contro un muro
invisibile. Io continuo per un po', dopodiché mi giro. Razor mi
guarda scuotendo la testa.
«Ringer, hai presente dove siamo?»
Annuisco. «Circa trenta chilometri a nord di uno dei Grandi
Laghi. Direi l'Erie.»
«Che stai... Secondo te, come... Ti rendi conto che l'Ohio è a
più di centocinquanta chilometri da qui?» dice farfugliando per la
foga.
«Considerato dove dobbiamo andare noi, anche trecento. In

317
linea d'aria.»
«"In linea..." Be', è proprio un peccato che non abbiamo le ali!
Cosa c'è in Ohio?»
«I miei amici.»
Riprendo a camminare seguendo le impronte lasciate nella
neve dai suoi scarponi.
«Ringer, non per smontarti, ma...»
«Oh, tranquillo, sono tutta d'un pezzo.»
«Questa mi sapeva tanto di battuta.»
«Lo so che probabilmente sono morti. E so anche che, nel
caso non lo fossero, probabilmente morirò io ben prima di
raggiungerli. Ma ho fatto una promessa, Razor. Non pensavo che
lo fosse, all'epoca. Mi sono detta che non lo era. E l'ho pure detto
a lui. Ma c'è quello che noi diciamo a noi stessi sulla verità e
quello che la verità dice su di noi.»
«Stai farneticando. Ne sei cosciente, vero? Dev'essere la botta
in fronte. Di solito non lo fai.»
«Che botta in fronte?»
«Questa era una battuta di sicuro!» Si acciglia. «E poi a chi
l'hai fatta, questa promessa?»
«Al tipico sportivo immaturo e zuccone convinto di essere un
dono che Dio ha fatto al mondo quando non pensa che il mondo
è un dono che Dio ha fatto a lui.»
«Oh. Okay.» Si trattiene per qualche passo strascicato, poi:
«Da quant'è quindi che stai con mister Tipico Sportivo Immaturo
e Zuccone?».
Mi fermo. Mi giro. Gli immobilizzo il viso e gli do un bacio
sulla bocca. Ha gli occhi sgranati e pieni di qualcosa che somiglia
molto a paura.
«A cosa lo devo?»

318
Lo bacio di nuovo. I nostri corpi si toccano. Il suo viso freddo
tra le mie mani ancora più fredde. Sento l'odore di gomma da
masticare del suo alito. "La Terra è responsabilità mia." Siamo
due pilastri che si alzano da un mare increspato di un bianco
accecante. Un mare sterminato. Senza barriere, senza confini.
Mi ha tirata fuori dalla tomba. Mi ha riportata indietro dal
regno dei morti. Ha rischiato la vita perché io potessi riavere la
mia. Era più facile girarsi dall'altra parte. Era più facile lasciarmi
perdere. Era più facile credere a una bella bugia che a una brutta
verità. Alla morte di mio padre ho costruito intorno a me una
fortezza abbastanza sicura e solida da durare un migliaio di anni.
Una possente roccaforte che si sgretola con un bacio.
«Ora siamo pari» sussurro.
«Non proprio» dice roco. «Io ti ho baciata una volta sola.»

319
77
Via via che ci avviciniamo, il complesso sembra alzarsi dalla
neve come un leviatano dalle profondità marine. Silos, nastri
trasportatori, bidoni, miscelatori, costruzioni adibite a deposito e
a uffici, più un enorme magazzino grande quanto due hangar
messi insieme, il tutto circondato da una rete arrugginita. Ha un
qualcosa di simbolico e inquietante, in un certo senso
appropriato, che questa storia finisca in una fabbrica di cemento.
Il cemento è l'onnipresente firma dell'uomo, il nostro principale
mezzo artistico sulla tela bianca del mondo: ovunque abbiamo
messo piede, poco alla volta la terra ne è stata ricoperta.
Razor scosta un tratto della recinzione marcia per farmi
passare. Guance colorite, naso rosso acceso per il freddo, occhi
dolci ed espressivi che saettano di qua e di là. Magari all'aperto,
sotto questo luminoso cielo terso, si sente in pericolo come me,
un nano al confronto dei silos torreggianti e delle apparecchiature
imponenti.
Magari, ma ne dubito.
«Dammi il fucile» gli dico.
«Eh?» Tiene l'arma stretta a sé, con il dito che tamburella
nervoso sul grilletto.
«Sono più brava io a sparare.»
«Ringer, ho già controllato tutto. Non c'è nessuno. Siamo
perfettamente...»
«Al sicuro» finisco per lui. «Certo.» Tendo la mano.
«Dài, è subito lì nel magazzino...»
Non mi muovo. Lui fa una faccia esasperata, rovescia la testa
all'indietro per guardare un attimo il cielo sgombro, poi torna a
guardarmi.
«Se fossero qui, saremmo già morti, lo sai.»

320
«Il fucile.»
«E va bene.» Me lo passa con un gesto brusco. Lo prendo e
con il calcio gli do un colpo sul lato del viso. Lui piomba in
ginocchio senza staccare gli occhi dai miei, ma non c'è niente in
quegli occhi, niente di niente.
«Cadi» dico. Crolla a faccia in giù e resta immobile.
Non penso che sia nel magazzino. C'è un motivo se Razor
voleva farmici entrare, ma non credo abbia a che fare con Teacup.
Non sarà a meno di cento chilometri da qui. Non ho scelta, però.
Con il fucile e Razor fuori gioco ho un leggero vantaggio, ma è
tutto.
Si è tradito quando l'ho baciato. Non so come faccia il
potenziamento ad aprire un varco empatico in un altro essere
umano. Magari trasforma il vettore in una specie di macchina
della verità che raccoglie e accosta dati provenienti da una
miriade di sensori per poi incanalarli verso l'unità centrale
affinché questa li analizzi e interpreti. Comunque funzioni, ho
avvertito in Razor un punto cieco, un vuoto, una stanza segreta, e
ho capito di essere in guai molto seri.
Menzogne dentro menzogne dentro menzogne. Finte e
controfinte. Come un miraggio nel deserto, che resta sempre
lontano a prescindere da quanto uno si sforzi di raggiungerlo.
Cercare la verità equivale a inseguire l'orizzonte.
Quando sto per addentrarmi fra le ombre dell'edificio,
qualcosa in me si allenta. Cominciano a tremarmi le ginocchia. Il
petto mi fa male come se fossi stata colpita da un ariete. Non
riesco a respirare. Il Dodicesimo Sistema può sostenermi e
rafforzarmi, può velocizzare i miei riflessi e rendere i miei sensi
dieci volte più acuti, può guarirmi e proteggermi da ogni pericolo
fisico, ma non c'è niente che i miei quarantamila ospiti imbucati

321
possano fare per un cuore spezzato.
"Non posso, non posso. Non posso lasciarmi fiaccare. Cosa
succede a chi si lascia fiaccare? Cosa succede?"
Non posso entrare. Devo entrare.
Mi appoggio alla fredda parete di metallo del magazzino,
accanto alla porta aperta, oltre la quale regna l'oscurità, profonda
come una tomba.

322
78
Latte avariato.
Come supero la soglia, il tanfo dell'epidemia mi assale così
intenso da farmi venire il vomito. Il polielemento che agisce
sull'olfatto blocca all'istante tutti i recettori. Il mio stomaco si
placa. La mia vista si schiarisce. Il magazzino è grande il doppio
di un campo da football e diviso in tre livelli. Il pianoterra, quello
a cui mi trovo, è stato convertito in un ospedale d'emergenza.
Centinaia di letti, biancheria appallottolata, carrelli di forniture
mediche rovesciati. Sangue dappertutto. Scintilla nella luce che
entra dai buchi del tetto parzialmente crollato tre piani sopra di
me. Sangue in strati congelati sul pavimento. Sangue sbaffato sui
muri. Sangue su lenzuola e cuscini. Sangue, sangue, sangue
ovunque, ma niente corpi.
Salgo le scale fino al primo piano. Qui ci sono le scorte:
sacchi mezzi strappati di farina e altri alimenti secchi, il
contenuto disseminato in giro da topi e altri animali, pile di cibo
in scatola, grossi contenitori d'acqua, barili di cherosene. Roba
ammassata in previsione dell'inverno da persone che, però, prima
che questo arrivasse, sono state sorprese e affogate nel loro stesso
sangue dallo Tsunami Scarlatto.
Continuo a salire e passo al secondo piano. Una colonna di
luce simile al fascio di un riflettore taglia l'aria polverosa. Sono
arrivata in cima. È l'ultimo livello. Il pavimento è ingombro di
cadaveri: sono sistemati l'uno sull'altro, in certi punti in sei strati,
quelli in basso avvolti con cura in lenzuola, quelli più in alto
buttati là in fretta, a formare un caos di braccia e gambe, una
massa contorta di ossa, pelle disidratata e dita scheletriche
piegate nel vano tentativo di afferrare l'aria.
Un'area in mezzo allo stanzone è stata liberata. Al centro

323
della colonna di luce c'è un tavolo di legno. E, sul tavolo, una
scatola sempre di legno con accanto una scacchiera. I pochi pezzi
sono sistemati in una posizione finale che riconosco all'istante.
È allora che da ogni parte e da nessuna mi giunge la sua voce,
come il brusio di un tuono distante, impossibile da localizzare.
«Non abbiamo mai concluso la partita.»
Mi allungo a rovesciare il re bianco. Sento un sospiro simile
a una folata di vento tra gli alberi.
«Perché sei qui, Marika?»
«Era un test» mormoro. Il re bianco sulla schiena con lo
sguardo vacuo, gli occhi un abisso di alabastro fissi nei miei.
«Dovevi testare il Dodicesimo Sistema senza che io sapessi che
era un test. Dovevo credere che fosse reale. Era l'unico modo per
farmi collaborare.»
«E l'hai passato?»
«Sì. L'ho passato.»
Mi giro dando le spalle alla luce. È in cima alle scale, solo,
con la faccia in ombra, ma giurerei di poter vedere i suoi brillanti
occhi azzurri da uccello rifulgere nel buio dell'ossario.
«In realtà non ancora, ma ci sei quasi» dice.
Punto il fucile nello spazio tra quegli occhi luccicanti e
premo il grilletto. Dal caricatore vuoto esce riecheggiando una
serie di scatti: clic, clic, clic, clic, clic, clic.
«Hai fatto tanta strada, Marika. Non mi deludere adesso» dice
Vosch. «Dovevi sapere che non poteva essere carico.»
Lascio cadere il fucile e indietreggio lentamente finché non
vado a sbattere contro il tavolo. Appoggio le mani al ripiano per
stabilizzarmi.
«Chiedimelo» mi ordina.
«Perché "non ancora, ma ci sei quasi"?»

324
«Conosci già la risposta.»
Afferro il tavolo e lo scaglio nella sua direzione. Lui lo
respinge con un braccio, ma intanto io l'ho raggiunto saltandogli
addosso da due metri di distanza, l'ho colpito in pieno petto con
la spalla e l'ho immobilizzato in una stretta. Voliamo giù dal
secondo piano e atterriamo sul primo. Le assi sotto di noi
gemono disperate. Nell'impatto allento la presa. Lui mi serra sul
collo le lunghe dita di una mano e mi lancia contro una pila di
cibo in scatola che si trova a oltre cinque metri di distanza. Sono
in piedi in meno di un secondo, ma mi batte ancora. È così rapido
che vedo i suoi movimenti in ritardo.
«La povera recluta nel bagno» dice. «L'infermiera fuori dal
reparto di terapia intensiva, il pilota, Razor, persino Claire, la
sfortunata Claire, in netto svantaggio fin dall'inizio. Non basta,
non basta. Per passare davvero il test, devi superare ciò che non
può essere superato.»
Spalanca le braccia. Un invito. «Volevi un'occasione, Marika.
Bene. Eccola.»

325
79
C'è poca differenza tra quello che segue e la nostra partita a
scacchi. Sa come penso. Conosce i miei punti forti e i miei punti
deboli. Indovina ogni mossa prima che la faccia. Si concentra in
particolare sulle zone già lesionate: il polso, le costole, il viso. Il
sangue sgorga dalla ferita che mi si è riaperta sulla fronte e,
fumando nell'aria sottozero, mi finisce in bocca e negli occhi:
velato da quella cortina, il mondo diventa rosso vivo. Quando
cado per la terza volta, Vosch dice: «Basta. Resta lì, Marika».
Mi tiro su. Mi stende per la quarta volta.
«Sovraccaricherai il sistema» mi avverte. Carponi, guardo
intontita le gocce che dopo essersi staccate dal mio viso finiscono
a terra, una pioggia di sangue. «Potrebbe andare in tilt. In tal caso
potresti morire per le ferite.»
Sto gridando. La voce mi esce dal profondo dell'anima:
l'estremo lamento di sette miliardi di esseri umani massacrati. Il
grido echeggia nello spazio cavernoso.
Poi mi alzo per l'ultima volta. Pur potenziati, i miei occhi non
riescono a seguire i suoi pugni. Come particelle elementari, non
sono né in un punto né nell'altro, impossibili da localizzare,
impossibili da prevedere. Vosch getta il mio corpo floscio dal
ballatoio: ho l'impressione che il volo verso il pavimento di
cemento del pianoterra duri un'eternità e che ad attendermi ci sia
un'oscurità più densa di quella che avvolgeva l'universo prima
dell'inizio del tempo. Mi giro sulla pancia e spingendo sulle
braccia mi sollevo. Vosch mi pianta uno scarpone sul collo e mi
risbatte giù.
«Qual è la risposta, Marika?»
Non c'è bisogno che mi spieghi nulla. Finalmente ho capito la
domanda. Finalmente ho afferrato l'enigma: non mi sta chiedendo

326
qual è la nostra risposta al problema posto da loro. Non l'ha mai
fatto. Mi sta chiedendo qual è la loro risposta al problema posto
da noi.
«Il niente» dico. «La risposta è il niente. Non sono qui. Non
ci sono mai stati.»
«Chi? Chi non è qui?»
Ho la bocca piena di sangue. Deglutisco. «Il rischio...»
«Sì. Molto bene. Il rischio è la chiave.»
«Non sono qui. Non ci sono entità scaricate in corpi umani.
Non ci sono coscienze aliene dentro nessuno. Per via del rischio.
Il rischio. Il rischio è inaccettabile. È... un programma,
un'illusione. Un qualcosa di inserito nella mente prima della
nascita e attivato all'arrivo della pubertà... una menzogna, è una
menzogna. Sono umani. Potenziati come me, ma umani... umani
come me.»
«E me? Se tu sei umana, io cosa sono?»
«Non lo so...»
Lo scarpone spinge schiacciandomi la guancia contro il
cemento.
«Io cosa sono?»
«Non lo so. Quello che supervisiona. Che dirige. Non lo so.
Quello scelto per... Non lo so, non lo so.»
«Sono umano?»
«Non lo so!» E non lo so sul serio. Siamo arrivati a un punto
oltre il quale non posso andare. Un punto da cui è impossibile
tornare indietro. Sopra: lo scarpone. Sotto: l'abisso. «Ma se tu sei
umano...»
«Sì? Finisci. Se io sono umano... cosa?»
Sto annegando nel sangue. Non il mio. Il sangue dei miliardi
di persone morte prima di me, un mare infinito che mi avviluppa e

327
mi trascina verso il fondo senza luce.
«Se tu sei umano, non c'è speranza.»

328
80
Mi tira su. Mi porta a uno dei letti da campo e mi ci posa
delicatamente. «Sei piegata, ma non rotta. È necessario fondere
l'acciaio prima di farne una spada. Tu sei quella spada, Marika. Io
sono il fabbro e tu sei la spada.»
Mi prende il viso tra le mani. I suoi occhi brillano con un
fervore da fanatico religioso, lo sguardo di un folle che predica
per le strade, solo che questo folle ha in pugno il destino del
mondo.
Mi passa il pollice sulla guancia insanguinata. «Ora riposati.
Qui sei al sicuro. Perfettamente al sicuro. Lascio lui a prendersi
cura di te.»
Razor. Tutto, ma questo no. Scuoto la testa. «Per favore. No.
Per favore.»
«E tra una, massimo due settimane sarai pronta.»
Aspetta la domanda. È molto soddisfatto di sé. O di me. O di
quello che ha ottenuto. Io, però, resto zitta.
E lui se ne va.
Dopo un po' sento un elicottero che lo viene a prendere. Poi
compare Razor con una guancia così gonfia che sembra gli
abbiano ficcato sotto pelle una mela. Non dice una parola. Io
neppure. Mi lava il viso con acqua calda saponata. Mi benda le
ferite. Mi fascia le costole fratturate. Mi stecca il polso rotto.
Non si scomoda a offrirmi dell'acqua, eppure deve sapere che ho
sete. Mi infila una flebo nel braccio e ci collega una soluzione
salina. Poi se ne va e si piazza su una sedia pieghevole accanto
alla porta aperta, imbozzolato nel parka, con il fucile sulle
gambe. Al tramonto accende una lampada a cherosene e la posa
in terra ai suoi piedi. La luce sale e gli inonda il viso, ma da dove
mi trovo non gli vedo gli occhi.

329
«Dov'è Teacup?» In quello spazio vasto la mia voce echeggia.
Non risponde.
«Ho una teoria» dico. «Sui ratti. La vuoi sentire?»
Silenzio.
«Uccidere un ratto è semplice. Non serve altro che un pezzo
di formaggio stagionato e una trappola. Ma ucciderne mille, un
milione, un miliardo -- o sette miliardi -- è un po' più difficile.
Per quello serve un'esca. Un veleno. Non c'è bisogno di
avvelenare ogni singolo animale: basta avvelenarne alcuni, che
poi porteranno il veleno all'interno della colonia.»
Non si muove. Non so se mi ascolta; non so nemmeno se è
sveglio.
«Noi siamo i ratti. Il programma scaricato nei feti umani è
l'esca. Che differenza c'è tra un essere umano che ha in sé una
coscienza aliena e un essere umano che crede di averla? Nessuna,
ad eccezione del rischio. Il rischio è l'unica differenza. Non per
noi. Per loro. Cosa li obbliga a esporsi a un pericolo del genere?
La risposta è niente. Non sono qui, Razor. Non ci sono mai stati.
Ci siamo solo noi. Ci siamo sempre stati solo noi.»
Si china con deliberata lentezza e spegne la luce.
Sospiro. «Ma come tutte le teorie, anche questa ha dei buchi.
È impossibile da riconciliare con la questione della roccia.
Perché affannarsi tanto quando sarebbe bastato tirarci una roccia
bella grossa?»
Pianissimo, così piano che non lo sentirei se non avessi
l'udito potenziato: «Stai zitta».
«Perché l'hai fatto, Alex?» Se poi è vero che si chiama così.
Tutta la sua storia potrebbe essere una menzogna studiata da
Vosch per manipolarmi. È altamente probabile.
«Sono un soldato.»

330
«Ti sei limitato a seguire gli ordini.»
«Sono un soldato.»
«Ragionare non è compito tuo.»
«Sono. Un. Soldato!»
Chiudo gli occhi. «Il bascaball. Anche quello un'idea di
Vosch? Scusa. Domanda stupida.»
Silenzio.
«È Walker» dico riaprendo gli occhi di scatto. «Per forza. È
l'unica cosa che ha senso. È Evan, vero, Razor? Vuole Evan e io
sono la sola che può condurlo da lui.»
Silenzio.
L'implosione di Camp Haven e la pioggia di droni fuori uso: a
che servivano i droni? Me lo sono sempre chiesta. Quanto mai
poteva essere difficile trovare sacche di superstiti considerato che
erano ben poche e che per localizzarle avevano a disposizione
tecnologia umana a sfare? I sopravvissuti si riunivano in gruppi.
Si raccoglievano come api in un alveare. I droni non servivano per
tenere d'occhio noi. Servivano per tenere d'occhio loro, gli umani
come Evan Walker, solitari e pericolosamente potenziati, sparsi
su tutti i continenti, armati di una conoscenza capace di far
crollare l'intera struttura qualora il programma scaricato in loro
avesse funzionato male, come è chiaramente successo nel suo
caso.
Evan è fuori dai radar. Vosch non sa né dov'è né se è vivo o
morto. Ma se è vivo, Vosch ha bisogno di un infiltrato, di
qualcuno di cui Evan si fidi.
"Io sono il fabbro."
"Tu sei la spada."

331
81
Per una settimana è la mia unica compagnia. Piantone,
bambinaia, guardiano. Quando ho fame, mi porta da mangiare.
Quando sento male, mi allevia il dolore. Quando sono sporca, mi
lava. È assiduo. È fedele. È lì quando apro gli occhi e quando li
chiudo. Non lo sorprendo mai a dormire: è costante, a differenza
del mio sonno; di notte mi sveglio spesso e lui è sempre lì che mi
guarda dalla sua postazione vicino alla porta. È taciturno,
accigliato e stranamente nervoso, questo tizio che mi ha
ingannata senza il minimo sforzo spingendomi a credere alle sue
parole e in lui. Come se volessi provare a scappare, quando sa
benissimo che pur potendo non lo farò e che sono imprigionata
da una promessa più vincolante di mille catene.
Il pomeriggio del sesto giorno si lega uno straccio su naso e
bocca, sale al secondo piano e scende con un corpo in spalla. Lo
porta fuori. Poi torna su e la scena si ripete. Che sia a mani vuote
o gravato da un cadavere, il suo passo è ugualmente pesante.
Perdo il conto a centoventitré. Svuota il magazzino di tutti i
morti, ammassandoli in cortile, e al crepuscolo li dà alle fiamme.
I corpi si sono mummificati e il fuoco, caldo e brillante, prende in
fretta. La pira sarà visibile a chilometri di distanza, ammesso e
non concesso che ci siano occhi pronti a vedere qualcosa. La sua
luce illumina l'ingresso, lambisce il pavimento, trasforma il
cemento in un fondale marino fatto di piccole dune dorate. Fermo
sulla soglia, Razor osserva il fuoco, una sagoma snella circondata
da un alone come in un'eclissi di luna. Si scrolla di dosso il
parka, si toglie la camicia, si arrotola una manica della maglietta
per scoprire la spalla. La lama del coltello luccica nel bagliore
giallo mentre, con la punta, si incide qualcosa sulla pelle.
La notte avanza lenta, il fuoco si indebolisce, il vento gira e il

332
mio cuore si riempie di una dolorosa nostalgia: per i campeggi
estivi, la caccia alle lucciole e i cieli d'agosto inondati di stelle.
Per l'odore del deserto e i lunghi, malinconici sospiri del vento
che scende dalle montagne mentre il sole si tuffa dietro
l'orizzonte.
Razor accende la lampada a cherosene e mi si avvicina. Sa di
fumo, e anche un po' di morte.
«Perché l'hai fatto?» chiedo.
Sopra lo straccio, i suoi occhi sono pieni di lacrime. Chissà
se per il fumo o per altro. «Ordini» risponde.
Mi toglie la flebo dal braccio, avvolge il tubicino e lo fissa al
gancio del sostegno.
«Non ti credo» dico.
«Oh, che shock.»
È la prima volta che parla da quando Vosch se n'è andato. Il
sollievo che provo nel sentire di nuovo la sua voce mi stupisce.
Mi sta esaminando la ferita sulla fronte e, data la luce fioca, tiene
il viso vicinissimo al mio.
«Teacup» sussurro.
«Secondo te?» chiede contrariato.
«È viva. È l'unico modo che ha per farmi pressione.»
«Okay, allora. È viva.»
Spalma una pomata antibatterica sul taglio. Un essere umano
non potenziato avrebbe avuto bisogno di diversi punti, ma tra
qualche giorno nessuno sarà in grado di individuare il segno.
«Potrei costringerlo a mostrarmi che carte ha in mano» dico.
«Come fa a ucciderla ora?»
Razor scrolla le spalle. «Forse perché se ne sbatte altamente
di una bambina quando è in gioco il destino del mondo intero?
Così, tirando a indovinare.»

333
«Dopo tutto quello che è successo, dopo tutto quello che hai
sentito e visto, tu ancora gli credi.»
Mi guarda con qualcosa che somiglia tanto a compassione.
«Devo credergli, Ringer. Smetto e sono finito. Sono uno di loro.»
Fa un cenno verso il cortile, dove le ossa annerite finiscono di
bruciare.
Si siede sul letto accanto al mio e si tira giù la maschera
improvvisata. Ha la lanterna tra i piedi: la luce gli inonda il viso e
le ombre si addensano nei suoi occhi profondi.
«Se è per quello, troppo tardi» dico.
«Giusto. Siamo già belli che morti. Quindi non c'è modo di
farti pressione, no? Uccidimi, Ringer. Uccidimi ora e scappa.
Scappa.»
Potrei saltare giù dal letto così in fretta da non lasciargli il
tempo di sbattere gli occhi. Un solo pugno al petto e il colpo
potenziato gli conficcherebbe una costola rotta nel cuore. E poi
potrei uscire, andarmene, infilarmi nella foresta e nascondermici
per anni, decenni, fino a diventare troppo vecchia e malconcia
anche per il Dodicesimo Sistema. Potrei vivere più a lungo di
chiunque altro. Un giorno potrei svegliarmi ed essere l'ultima
persona sulla Terra.
E poi. E poi.
Avrà freddo, seduto lì con indosso nient'altro che una
maglietta. Noto una traccia di sangue secco sul bicipite.
«Cosa ti sei fatto al braccio?» chiedo.
Si tira su la manica. Le lettere sono tracciate un po' alla
buona, grandi e squadrate e incerte, con la grafia di un bambino
che sta imparando a scrivere.
VQP
«Latino» sussurra. «Vincit qui patitur. Vuol dire...»

334
«So cosa vuol dire» rispondo sussurrando a mia volta.
Scuote la testa. «Non credo proprio.» Non suona arrabbiato.
Suona triste.
Si gira verso la porta, oltre la quale i morti si sollevano nel
cielo indifferente.
«Ti chiami davvero Alex?» chiedo.
Mi guarda di nuovo e vedo spuntare il suo sorriso ironico e
giocoso. Come prima, quando ho risentito la sua voce, mi
sorprendo nel rendermi conto che mi è mancato. «Su quello sono
stato sincero. Ho mentito solo sulle cose che contavano.»
«E sul serio tua nonna aveva un cane di nome Flubby?»
Ride piano. «Sì.»
«Bene.»
«Perché?»
«Perché volevo che quella parte fosse vera.»
«Cos'è, ti piacciono i cagnolini ringhiosi e attaccabrighe?»
«Mi piace sapere che un tempo esistevano cagnolini ringhiosi
e attaccabrighe di nome Flubby. È bello. È una cosa che vale la
pena di ricordare.»
Prima che me ne accorga, si è alzato dal letto e mi sta
baciando, e io sprofondo in lui, dove più niente è segreto. Mi ha
aperto il suo intimo, la parte di lui che mi ha aiutata e quella che
mi ha tradita, quella che mi ha riportata in vita e quella che mi ha
riconsegnata alla morte. La rabbia non è la risposta, no, e
nemmeno l'odio. Strato dopo strato, ciò che ci separa cade e io
arrivo al centro, alla regione senza nome, alla roccaforte senza
difese, un dolore senza inizio né fine, la solitaria unicità della sua
anima, non guastata dal tempo né dall'esperienza, oltre il
pensiero, infinita.
E sono lì con lui: ci sono già. All'interno di quella unicità, ci

335
sono già.
«Non può essere vero» mormoro. Al centro di tutto, dove c'è
il niente, l'ho trovato stretto a me.
«Le tue cavolate non me le bevo» dice. «Ma su un punto hai
ragione: alcune cose, anche se sembrano insignificanti, valgono
quanto la somma di tutte le altre.»
Fuori, l'amaro raccolto brucia. Dentro, Alex tira giù le
lenzuola, e queste sono le stesse mani che mi hanno tenuta
stretta, che mi hanno lavata e nutrita e sollevata quando non
riuscivo a farlo da sola. Mi ha consegnata alla morte; mi sta
riportando in vita. È per questo che ha liberato l'ultimo piano dai
morti. Li ha banditi, rimessi al fuoco, non per dissacrare loro, ma
per consacrare noi.
L'ombra che lotta con la luce. Il gelo che combatte con il
fuoco. "È una guerra" mi ha detto una volta, e noi siamo i
conquistatori di un paese ancora da scoprire, un'isola di vita al
centro di uno sconfinato mare di sangue.
Il freddo pungente. Il calore bruciante. Le sue labbra mi
sfiorano il collo mentre io passo le dita sulla sua guancia segnata
dalla ferita che gli ho inferto e sulle ferite -- VQP -- che si è
inferto da solo sul braccio, poi lascio scivolare le mani lungo la
sua schiena. "Non mi lasciare. Per favore, non mi lasciare."
L'odore di gomma da masticare e l'odore di fumo e l'odore del suo
sangue, e il modo in cui il suo corpo si distende su di me e il
modo in cui la sua anima penetra nella mia come un rasoio. Il
battito dei nostri cuori e il ritmo del nostro respiro e le stelle che,
invisibili ai nostri occhi, girano segnando il tempo, misurando
l'intervallo sempre più breve che ci separa dalla fine, mia e sua e
di tutto il resto.
Il mondo è un orologio e l'orologio è sempre più scarico, e il

336
loro arrivo con questo non ha nulla a che fare. Il mondo è sempre
stato un orologio. Anche le stelle si spegneranno, a una a una, e
non ci sarà più né luce né calore, e questa è una guerra, la guerra
vana e perpetua contro il vuoto senza luce né calore che avanza
spedito verso di noi.
Alex intreccia le dita dietro la mia schiena e mi tira con forza
verso di sé. Tra noi non c'è distanza. Tra noi non ci sono confini.
Il vuoto riempito. Il nulla sconfitto.

337
82
Rimane al mio fianco finché il nostro respiro non si
regolarizza e i nostri cuori non rallentano, passandomi le dita tra
i capelli e fissandomi come se non potesse lasciarmi prima di aver
memorizzato ogni aspetto del mio viso. Mi sfiora le labbra, le
guance, le palpebre. Con la punta del dito segue il profilo del
naso, la curva dell'orecchio. Il suo volto è quasi del tutto in
ombra, il mio alla luce.
«Scappa» sussurra.
Scuoto la testa. «Non posso.»
Si alza dal letto e, nell'istante in cui resta fermo, io ho la
sensazione di cadere. Si riveste in fretta. Non riesco a decifrare la
sua espressione. Si è richiuso. Il vuoto è tornato ad assediarmi. È
insopportabile. Mi schiaccerà, l'assenza che ormai con l'abitudine
quasi non notavo più. Almeno fino a questo momento:
riempiendolo, mi ha mostrato quanto quel vuoto fosse enorme.
«Non ti prenderanno» insiste. «È impossibile che ci
riescano.»
«Vosch sa che non scapperò finché avrà Teacup.»
«Oh, Cristo santo. Ma chi è per te, quella bambina? Vale
quanto la tua vita? Come fa qualcuno a valere quanto tutta la tua
esistenza?» È una domanda di cui conosce già la risposta.
«D'accordo. Fai come ti pare. Tanto non mi interessa. Tanto non
conta niente.»
«Invece sì e ce l'hanno insegnato proprio loro, Razor. Cosa
conta e cosa no. L'unica verità in mezzo a tante bugie.»
Prende il fucile e se lo mette in spalla. Mi bacia sulla fronte.
Un viatico. Una benedizione. Poi raccoglie la lampada e si avvia a
passo incerto verso la porta, il guardiano, il custode, colui che
non si riposa, non si stanca, non tentenna. Si appoggia allo

338
stipite, rivolto verso la notte, e il cielo sopra di lui arde della luce
fredda di diecimila pire che segnano il tempo agli sgoccioli.
«Scappa» lo sento dire. Non credo che ce l'abbia con me.
«Scappa.»

339
83
L'ottavo giorno l'elicottero torna a prenderci. Lascio che
Razor mi aiuti a vestirmi, ma a parte un paio di costole doloranti
e un po' di debolezza alle gambe, i dodici polielementi
nell'insieme noti come Ringer sono operativi al cento per cento. Il
viso mi è guarito alla perfezione: non è rimasta neppure una
cicatrice. Durante il viaggio di ritorno alla base, Razor, seduto di
fronte a me, studia il pavimento e alza gli occhi solo una volta.
"Scappa", scandisce in silenzio. "Scappa."
Terra bianca, fiume nero, l'elicottero si inclina e gira intorno
alla torre di controllo dell'aerodromo: passiamo così vicino che,
dietro i vetri oscurati, intravedo una figura alta e solitaria.
Atterriamo nello stesso punto da cui siamo decollati, un altro
cerchio completo, dopodiché, spingendomi delicatamente per il
gomito, Razor mi guida dentro la torre. Mentre saliamo, mi
stringe la mano per un istante.
«Io lo so, cosa conta» dice.
Vosch è in piedi all'altro capo della stanza. Ci dà le spalle, ma
vedo il suo viso riflesso debolmente nel vetro. Al suo fianco c'è
una recluta corpulenta che si tiene il fucile al petto con la
disperazione di chi è appeso per una stringa su una gola profonda
diecimila metri. Seduta accanto alla recluta, con indosso la tuta
bianca standard, c'è la ragione per cui sono qui, la mia vittima, la
mia croce, la mia responsabilità.
Come mi vede, Teacup fa per alzarsi. La recluta le mette una
mano sulla spalla e la risbatte giù. Scuoto la testa e muovendo
solo le labbra dico: "No".
Nella stanza regna il silenzio. Razor è alla mia destra,
leggermente indietro rispetto a me. Non lo vedo, ma è così vicino
che lo sento respirare.

340
«Dunque.» Vosch strascica la parola: un preludio. «Hai
risolto l'enigma della roccia?»
«Sì.»
Lo vedo sorridere a labbra strette nel vetro scuro. «E?»
Lanciare una grossa roccia non avrebbe prodotto l'effetto voluto.
«E che effetto vogliamo?»
«Volete che qualcuno resti.»
«Il che non risponde alla mia domanda. Puoi fare di meglio.»
«Avreste potuto ucciderci tutti. Ma non l'avete fatto. State
dando fuoco al villaggio per salvarlo.»
«Un saggio. È così che mi vedi?» Si gira per guardarmi in
faccia. «Spiegati meglio. Dev'essere tutto o niente? Se l'obiettivo
è salvare il villaggio dai suoi abitanti, una roccia più piccola
avrebbe potuto dare lo stesso risultato. Perché una serie di
attacchi? Perché tanti trucchi e inganni? Perché dei burattini
come Evan Walker, potenziati artificialmente e convinti di essere
chi non sono? Una roccia è un metodo molto più semplice e
immediato.»
«Non ne sono sicura» ammetto. «Ma credo c'entri la fortuna.»
Mi fissa per un lungo istante. Poi annuisce. Sembra
compiaciuto. «E ora che succede, Marika?»
«Mi portate nel punto in cui avete localizzato Evan l'ultima
volta» rispondo. «Mi mollate lì e io lo devo trovare. È
un'anomalia, un'intollerabile falla del sistema.»
«Ah sì? E come farebbe un pedone umano qualunque a
costituire un pericolo?»
«Si è innamorato e l'amore è l'unico punto debole.»
«Perché?»
Di fianco a me, il respiro di Razor. Di fronte, il viso rivolto in
su di Teacup.

341
«Perché l'amore è irrazionale» spiego. «Non segue le regole.
Nemmeno le sue. L'amore è la sola cosa dell'universo a essere
imprevedibile.»
«Su questo punto devo rispettosamente dissentire» dice
Vosch. Guarda Teacup. «La traiettoria dell'amore è del tutto
prevedibile.»
Si avvicina, incombente, una statua fatta di carne e ossa, con
occhi chiari come un lago di montagna che mi penetrano fin nel
profondo dell'anima.
«Perché dovrei avere bisogno di te per trovarlo?»
«Hai perso i droni che monitoravano lui e tutti quelli come
lui. È una scheggia impazzita. Non conosce la verità, ma ne sa
abbastanza da causare guai seri se non verrà fermato.»
Vosch alza la mano. Sussulto, ma me la posa sulla spalla e
stringe forte, il viso raggiante di soddisfazione. «Molto bene,
Marika. Molto, molto bene.»
E, accanto a me, Razor sussurra: «Scappa».
Vicino al mio orecchio esplode un colpo di pistola. Vosch
indietreggia verso la finestra, ma non è ferito. La recluta si butta
in ginocchio mettendo in posizione il calcio antirinculo del
fucile, ma nemmeno lui è ferito.
L'obiettivo di Razor era ciò che, pur insignificante, per me
rappresentava la somma di tutte le cose, il suo proiettile la spada
che spezza la catena che mi teneva legata.
L'impatto scaglia Teacup all'indietro. La sua testa sbatte
contro il bancone retrostante; le sue braccia magroline volano in
aria. Mi volto di scatto a destra, verso Razor, giusto in tempo per
vedere il suo petto lacerarsi per il colpo della recluta
inginocchiata.
Si inclina in avanti e io, d'istinto, allungo le braccia, ma cade

342
troppo in fretta. Non riesco a prenderlo.
E i suoi occhi dolci ed espressivi si sollevano verso i miei,
alla fine di una traiettoria che nemmeno Vosch ha saputo
prevedere.
«Sei libera» sussurra Alex. «Scappa.»
La recluta gira il fucile verso di me. Vosch ci si piazza davanti
con un furioso grido gutturale.
Mentre l'unità centrale attiva il polielemento collegato ai
muscoli, io corro verso le finestre che danno sulla pista di
atterraggio e, a due metri di distanza dal vetro, spicco un balzo
portando avanti la spalla destra.
E poi sono all'aria aperta e cado, cado, cado.
"Sei libera."
Cado.

343
Ottava parte
RAMENGO

344
84
Coperti di cenere e polvere, cinque fantasmi grigi bivaccano
nel bosco all'alba.
Megan e Sam hanno finalmente preso sonno, anche se si è
trattato più di uno svenimento che di un abbandono graduale. Lei
si stringe Orso al petto. "Dove c'è qualcuno in difficoltà" dice
Orso "io vado."
Ben guarda il sole che sorge con il fucile sulle gambe, muto,
chiuso nella rabbia e nel dolore, ma soprattutto nel dolore.
Dumbo, il più pragmatico, fruga nello zaino in cerca di qualcosa
da mangiare. E poi ci sono io, ugualmente chiusa nella rabbia e
nel dolore, ma soprattutto nella rabbia. Ciao, addio. Ciao, addio.
Quante volte devo rivivere questo ciclo? Quello che è successo
non è difficile da immaginare: è solo impossibile da accettare.
Evan ha trovato la bustina caduta a Sam e, letteralmente in un
soffio, si è fatto saltare in aria con Grace condannandosi a un
oblio verde lime. Il che era il suo piano fin dall'inizio, deficiente
ibrido, mezzo umano e mezzo alieno, nonché idealista incline al
martirio.
Dumbo viene da me e mi chiede se voglio che mi dia
un'occhiata al naso. Gli rispondo come fa a non vederlo già. Lui
ride. «Occupati di Ben» dico.
«Non vuole.»
«Be'» sospiro «tanto i tuoi poteri medico-magici non possono
niente per la ferita vera.»
È lui a sentirlo per primo (magari grazie alle orecchie?): lo
scricchiolio del terreno gelato e delle foglie cadute. Solleva la
testa e guarda verso il fitto degli alberi oltre la mia spalla. Mi
alzo e punto il fucile in direzione del rumore. Tra le ombre dense
vedo muoversi un'ombra più chiara. Un superstite del disastro che

345
ci ha seguiti fin qui? Un altro Evan o un'altra Grace, un
Silenziatore che ci ha sorpresi nel suo territorio? No. Non può
essere. Nessun Silenziatore se ne andrebbe mai a spasso per il
bosco con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli. No,
non lo farebbe manco morto... o morirebbe nel farlo.
L'ombra porta le mani in alto e lì capisco -- ancor prima di
sentir pronunciare il mio nome -- che mi ha trovata di nuovo, che
ha mantenuto la promessa che non mi aveva potuto fare, dopo che
ci eravamo reciprocamente stampati sul viso sangue e lacrime, un
Silenziatore, d'accordo, ma il mio, che mi viene incontro
zoppicando nella luce incredibilmente pura di un'alba di fine
inverno che già promette la primavera.
Passo il fucile a Dumbo. E lo pianto lì. La luce dorata e gli
alberi scuri luccicanti di ghiaccio e l'odore dell'aria tipico delle
mattine fredde. Le cose che ci lasciamo alle spalle e le cose che
non ci lasciano mai. Il mondo è finito una volta. Finirà di nuovo.
Il mondo finisce, sì, ma poi risorge. Il mondo risorge sempre.
A pochi passi da lui mi fermo. Si ferma anche lui, e ci
guardiamo dai due capi di una distesa più ampia dell'universo,
all'interno di uno spazio più sottile della lama di un rasoio.
«Ho una frattura al naso» dico. Mannaggia a Dumbo. Colpa
sua, se ora mi sento a disagio.
«Io, alla caviglia» risponde lui.
«Allora vengo io.»

346
RINGRAZIAMENTI
Nell'infilarmi in questo progetto, non mi sono davvero reso
conto dei costi che la mia scelta poteva avere. Uno dei miei difetti
in quanto scrittore (uno dei tanti, come Dio solo sa) è che tendo a
calarmi troppo nei miei personaggi. Ignoro il saggio consiglio di
rimanere al di sopra della mischia e sviluppare l'indifferenza degli
dei nei confronti delle sofferenze all'interno della mia creazione.
Quando scrivi una storia in tre volumi che parla della fine del
mondo a noi conosciuto, probabilmente te la passeresti meglio
non prendendo la cosa troppo sul serio. Altrimenti ti aspetta più
d'una buia notte dell'anima, oltre a stanchezza, malessere,
improvvisi sbalzi d'umore, ipocondria, crisi di pianto e capricci
puerili. Dici a te stesso (e alle persone a te vicine) che
comportarsi come un bambino di quattro anni che frigna perché
non ha avuto quello che voleva per Natale è un modo
assolutamente normale di reagire, ma sotto sotto sai di non essere
sincero. Sotto sotto sai che, quando l'orologio si sarà scaricato e
il tempo sarà finito, non dovrai solo ringraziamenti: dovrai anche
scuse.
Alle anime pie della Putnam, in particolare a Don Weisberg,
Jennifer Besser e Ari Lewin: scusate se mi sono perso nel bosco,
se ho preso me stesso e i miei libri troppo sul serio, se ho dato ad
altri la colpa delle mie mancanze, se sono rimasto impantanato
nelle buche fangose di dilemmi impossibili dei quali io stesso ero
artefice. Siete stati generosi, pazienti e incredibilmente d'aiuto.
Al mio agente, Brian DeFiore: dieci anni fa non avevi idea
del guaio in cui ti stavi andando a cacciare. Per la verità,
neanch'io, ma grazie per aver tenuto duro. È bello sapere che c'è
qualcuno a cui posso telefonare a qualsiasi ora e con cui posso
prendermela senza averne nessunissima ragione.

347
A mio figlio, Jake: grazie per aver sempre risposto ai miei SMS
e per essere rimasto calmo mentre io davo di matto. Grazie per
aver interpretato i miei umori e per averli perdonati anche quando
non li comprendevi. Grazie per avermi ispirato, spronato e difeso
dalle cattiverie in ogni occasione. E grazie perché chiudi un
occhio sulla fastidiosa abitudine del sottoscritto di condire ogni
discorso con oscure citazioni tratte da libri che non hai letto e da
film che non hai visto.
Infine a Sandy, mia moglie da quasi vent'anni, che si è accorta
del mio sogno irrealizzato e ha capito meglio di me come
trasformarlo in realtà: amore mio, mi hai insegnato il coraggio a
dispetto dell'improbabilità e delle perdite incalcolabili. Mi hai
mostrato la fede malgrado lo sconforto, la forza d'animo nei
momenti di cupo smarrimento, la pazienza all'ombra del panico
imminente per il tempo e il lavoro buttati. Perdonami per le ore di
silenzio che hai dovuto subire, per la rabbia e la disperazione
espresse in maniera confusa, per il mio inspiegabile oscillare tra
attimi di euforia ("Sono un genio!") e attimi di angoscia ("Non
valgo niente!"). L'unico sciocco che ti ho vista sopportare
serenamente sono io. Vacanze rovinate, impegni dimenticati,
domande neppure sentite. Niente è più doloroso della solitudine
di chi si trova accanto una persona che non c'è mai del tutto. Ho
contratto un debito che non potrò mai ripagare, ma prometto di
provarci. Perché, alla fine, senza amore tutti i nostri sforzi sono
sprecati, tutte le nostre fatiche vane.
Vincit qui patitur.

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www.librimondadori.it
www.mondichrysalide.it

Il mare infinito
di Rick Yancey
Copyright © 2014 by Rick Yancey
© 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell'opera originale: The Infinite Sea
Ebook ISBN 9788852070662

COPERTINA || PROGETTO GRAFICO: ALLIED INTEGRATED MARKETING

349
Tavola dei Contenuti (TOC)
Copertina
Il libro
L'autore
Frontespizio
IL MARE INFINITO
IL GRANO
PRIMO LIBRO
Prima parte. IL PROBLEMA DEI RATTI
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Seconda parte. IL CUORE
11
12
13
14
Terza parte. L'ULTIMA STELLA
15
16
17

350
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
Quarta parte. MILIONI
30
Quinta parte. IL PREZZO
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45

351
46
47
48
Sesta parte. IL GRILLETTO
49
SECONDO LIBRO
Settima parte. LA SOMMA DI TUTTE LE COSE
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
71
72

352
73
74
75
76
77
78
79
80
81
82
83
Ottava parte. RAMENGO
84
RINGRAZIAMENTI
Copyright
Tavola dei Contenuti (TOC)

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