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PROSPETTIVA FILOSOFICA

” Ogni cosa mette in gioco tutta la potenza infinita della natura secondo la prospettiva determinata che essa esprime

Le teorie dei colori di Goethe, Kandinsky e Klee – 2


10 LUGLIO 2016 ~ GIULIANO ANTONELLO

2 – La concezione qualitativa della natura. Osservazioni sulle opere scientifiche di Goethe

Premessa

Il presente capitolo è dedicato a un’analisi generale della multiforme produzione scientifica di Goethe.

Al di là delle specifiche conquiste raggiunte da Goethe in campo scientifico, che, pur non essendo trascurabili, non costituiscono tuttavia la
parte più duratura della sua opera, tenteremo soprattutto di mettere in evidenza la sua visione globale della natura, il suo metodo, la sua
proposta per una riformulazione del concetto di scienza che non comporti il sacrificio di quello di uomo. Alla base di tutta la sua ricerca
scientifica sta una diretta e appassionata frequentazione della natura volta a coglierne la concreta vitalità delle manifestazioni e l’infinita varietà
delle forme. È il risultato di un’esperienza pregnante che va seguita nel suo farsi.

In forza di ciò, anziché iniziare con un’astratta discussione sui caratteri generali della sua epistemologia, affronteremo direttamente i vari
campi concreti in cui si è esplicata la sua ricerca al fine di rintracciarne le idee guida. Solo in seguito prenderemo in considerazione gli scritti
più generali e teorici che Goethe ha dedicato alla scienza e di essi ci serviremo per precisare aspetti peculiari della sua teoria della natura e per
istituire confronti con alcune idee emerse nel corso del precedente capitolo. Tutto ciò al fine di raccogliere un bagaglio di dati e di concetti che
sia coerentemente propedeutico a una lettura della Farbenlehre organicamente riferita a tutto il complesso dell’opera scientifica goethiana. Il
capitolo, pur avendo un andamento più specifico di quello precedente, conserverà un carattere di esposizione generale.

Per quanto riguarda i testi utilizzati, anche se ci riferiremo prevalentemente agli scritti che Goethe ha appositamente dedicato alle scienze
naturali, vi saranno brevi richiami ad alcune sue opere letterarie come indicazione di unitarietà e organicità del suo pensiero, solo
astrattamente divisibile in zone eterogenee. Difatti, tutta la sua opera è il risultato di una concreta esperienza di vita in cui, come sostiene Banfi,

Ogni atto, ogni pensiero, ogni evento emergeva naturalmente su un piano di eternità e di bellezza, così da poter concepire la sua
autobiografia come verità e poesia. (Antonio Banfi, Scritti letterari, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 41, cit., da Ernesto Guidorizzi, L’Italia,
Goethe e la natura.  La critica letteraria italiana, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1980, p. 58)

Gli studi botanici

È noto che Goethe riteneva il Faust e la Teoria dei colori le sue opere maggiori, quelle destinate a rendere il suo nome per sempre glorioso.
Eppure, accanto a questi due capolavori, vanno posti, in campo scientifico, i suoi studi sulla morfologia vegetale e animale.

Per quanto riguarda gli studi botanici, giustamente Bruno Maffi nota che essi accompagnano “in una continuità quasi ininterrotta tutta la sua
vita.” (Bruno Maffi, Nota a Morfologia delle piante, in Op5, 71). Dai primi interessamenti, risalenti al periodo di Weimar e coincidenti con il regalo
ricevuto da Carlo Augusto del giardino sul Rosenberg nel 1776, i suoi studi proseguono fino quasi alla morte. Il primo viaggio in Italia,
compiuto dal poeta nel 1786-7, riveste grande importanza per lo studio dei vegetali. In questa occasione, infatti, Goethe compie una lunga serie
di osservazioni botaniche, favorite dalla ricchezza e dalla novità della flora mediterranea, ma soprattutto elabora concretamente un concetto
centrale per la sua morfologia vegetale, quello di Urpflanze o pianta originaria. Tra i moltissimi riferimenti che si possono trovare alla botanica
nel Viaggio in Italia, molto importanti sono quelli riguardanti la Urpflanze. V. Padova, 27 settembre 1786:

Qui, fra tante varietà di piante che vedo per la prima volta mi si fa sempre più chiara e più viva l’ipotesi che in conclusione tutte le forme
delle piante si possono far derivare da un pianta sola. (Op2, 493)

Oppure, v. nel giardino pubblico di Palermo il 17 aprile 1787:

Alla presenza di tante forme nuove o rinnovellate, mi saltò in testa la mia antica fantasia: perché in tanta ricchezza di vegetazione, non
dovrei scoprire la Urpflanze, la pianta originaria? Una tale pianta ci deve pur essere; diversamente, come potrei riconoscere che questa o
quella figura è una pianta, se non fossero tutte formate sopra un solo modello? (Op2, 739)

L’opera più organica e compiuta in campo botanico è la Metamorfosi delle piante, scritta e pubblicata nel 1790 e riedita nel 1817 nel primo
quaderno di Morfologia. Indifferenza, scetticismo, furono le reazioni degli editori (v. Vicende del manoscritto, scritto nel 1817 e pubblicato nel
primo quaderno di Morfologia (Op5, 135-138)) e dei lettori (v. Vicende dell’opuscolo, scritto nel 1817 e pubblicato nel primo quaderno di Morfologia
(Op5, 139-147)) a questo importante lavoro di Goethe, il quale ha parole amare verso quel pregiudizio che “vuole che un ingegno distintosi in un
campo, e il cui modo e carattere è universalmente conosciuto e stimato, non si allontani mai dalla sua cerchia“. (Op5, 137). Per mostrare come scienza e
poesia non siano campi inconciliabili, Goethe accompagna l’edizione del 1817 della Metamorfosi delle piante con un’efficace elegia dal titolo
omonimo, scritta nel 1798, dove i concetti scientifici sono presentati in forma poetica. (Op5, 141-144)

Tutta l’opera si basa su due idee fondamentali, che per Goethe assumono il carattere di leggi naturali.
Il principio della versatilità della natura nella costanza delle sue leggi, secondo il quale formazione e metamorfosi della pianta avvengono
sulla base di un solo organo, la foglia.

Inquadrare la metamorfosi nella regolarità di un tipo è, per Goethe, non soltanto una necessità razionale; è l’adeguamento del pensiero alla
legge unitaria della natura, che evolve ma non si disperde, che è infinitamente varia, ma sovranamente una. (Bruno Maffi, op. cit., in Op5,
71)

L’operare anche in campo botanico di una generale legge di natura, quella della polarità, secondo cui tutto il divenire è ritmato dall’azione
di due forze o tendenze contrapposte, attraverso le quali la metamorfosi vegetale viene a concretizzarsi in sei fasi, tre contrazioni e tre
dilatazioni. Grazie a ciò, la pianta si sviluppa in tutte le sue possibilità (entelechia)

La comune origine di tutti gli organi della pianta dalla foglia svela quel principio di unità organica che richiede che tutte le forme delle piante
si debbano poter derivare da un unico tipo. Da qui deriva l’esigenza di verificare concretamente l’esistenza della pianta originaria, se non come
realtà empirica, cosa a cui Goethe per un certo periodo credette, sicuramente come realtà ideale e operativa. La Urpflanze viene a definirsi come
l’idea, l’essenza della pianta, ma non nel senso di una vuota astrazione del pensiero, bensì come realtà ideale immanente a ogni organismo
vegetale, come concreto strumento razionale attraverso il quale è possibile anche inventare nuove piante che possono esistere.

Tutta questa vasta tematica connessa allo studio del mondo vegetale si fonda su una considerazione della natura organica come realtà in
continuo divenire, concepibile solo all’interno di una visione che non ne fissi il continuo sviluppo delle forme in fasi statiche e artificiali. A
questo proposito, nella Formazione e trasformazione delle nature organiche, scritto a Jena nel 1807 e pubblicato nel 1817 nel primo quaderno di
Morfologia, Goethe discute sull’esigenza di “conoscere il vivente in quanto tale” cogliendolo con una visione intuitiva e propone una distinzione
molto importante tra il concetto di Gestalt e quello di Bildung.

Per indicare il complesso dell’esistenza di un essere reale, il tedesco si serve della parola Gestalt, forma; termine nel quale si astrae ciò che è
mobile, e si ammette stabilito, concluso e fissato nei suoi caratteri, un tutto unico. Ora, se esaminiamo le forme esistenti, ma in particolar
modo le organiche, ci accorgiamo che in esse non v’è mai nulla di immobile, di fisso, di concluso, ma ogni cosa ondeggia in un continuo
moto. Perciò il tedesco si serve opportunamente della parola Bildung, formazione, per indicare sia ciò che è già prodotto, sia ciò che sta
producendosi. (Op5, 77-78)

In Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna. IV: Il problema della conoscenza nei sistemi posthegeliani, Einaudi, Torino, 1961, vi è un interessante
capitolo, intitolato L’idea della metamorfosi e la ‘morfologia idealistica’, dedicato alla concezione goethiana delle forme naturali organiche.
Importante è la messa a punto del concetto di tipo in Goethe, di cui si sottolineano i tratti dinamici in opposizione al modello puramente
stereometrico proposto da Cuvier. “Ciò che egli (Cuvier) cerca è la statica dei fenomeni biologici. Perciò le forme naturali sono per lui forme
‘stereometriche’ d’una struttura fissa e invariabile. […] I diversi gruppi di organismi sono rigorosamente separati” (p. 232). “(Goethe) non pensa a forme
situate nello spazio, ma nel ‘tempo’ ” (p. 234). “Il tipo stesso è un ‘essere’, che si avverte solo nel divenire, è qualche cosa di stabile che si può percepire solo
nell’azione” (p. 235).

Sorretto da queste grandi idee generali, l’opuscolo del 1790 affronta, con uno stile piano e gradevolmente didascalico, lo svolgersi della
metamorfosi della pianta dal seme fino al frutto, distinguendo tre tipi di trasformazione: una regolare o progressiva dal seme al frutto, un’altra
irregolare o regressiva con la quale la natura “indietreggia di uno o più passi” e infine un’altra accidentale provocata da cause esterne e
produttrice di “escrescenze mostruose“.

Prendendo le mosse dai cotiledoni, in cui già si riconosce la forma delle foglie, Goethe passa poi ad analizzare lo sviluppo delle foglie
caulinarie, le quali si diversificano esteriormente in svariate forme fino a che, su un nodo del fusto, alcune di esse si riuniscono attorno a un
unico asse per formare il calice, i cui sepali manifestano chiaramente la loro natura di foglie metamorfosate. La successiva trasformazione del
calice dà luogo alla corolla, nella quale un’ulteriore modificazione produce gli organi sessuali maschili, stami, e femminili, pistilli. Il ciclo si
conclude, infine, con la fruttificazione, ultima metamorfosi del pistillo nel frutto, dove si trovano celati i semi e con essi la possibilità dello
sviluppo di un nuovo organismo. In tal modo, come osserva Goethe, tutto il ciclo vivente della pianta risulta ritmato da sei fasi.

Dal seme fino al punto massimo di sviluppo della foglia caulinaria, avevamo dapprima notato un’espansione; poi, avevamo visto il calice
nascere per contrazione, i petali ancora per espansione, gli organi riproduttivi, invece, per una nuova contrazione; ben presto la massima
espansione ci si rivelerà nel frutto e la massima concentrazione nel seme. (Op5, 118)

Per la semplicità e la bellezza delle leggi su cui si basa, per l’armonica visione del mondo organico che propone, la Metamorfosi delle piante
rappresenta un modello di studio qualitativo della natura, attraverso il quale quella legge occulta per cui “tutte le forme sono affini, e niuna
somiglia all’altra” viene svelata e lo spirito può finalmente rivolgersi al “variopinto giardino“, al suo “brulichio sgargiante” senza più sentirsi
turbato.

Gli studi zoologici

Lo stesso fervore, la stessa appassionata ricerca di principi unitari che abbiamo visto esplicarsi negli studi botanici, li troviamo anche nel
campo della morfologia e dell’anatomia animale. Goethe prosegue i suoi studi di scienze naturali fino quasi alla morte: nel 1830 lo troviamo,
infatti, attento osservatore della polemica scoppiata in Francia tra Cuvier e Geoffroy de St. Hilaire. Quest’ultimo, ritenendo che esistesse un
unico piano costitutivo comune a tutti gli animali e che esso coincidesse con quello dei vertebrati, tentò nel 1830 di applicare questa teoria
anche ai molluschi, trovando però un radicale dissenso in Cuvier, il quale riteneva vertebrati e molluschi tipi fondamentali qualitativamente
distinti. Per l’analogia con le sue teorie, Goethe si schierò con St. Hilaire.

Piante ed animali, in quanto organismi viventi, devono essere compresi sulla base di principi uguali, all’interno di una visione armonica della
realtà. Nella già citata Formazione e trasformazione delle nature organiche, Goethe afferma che il confine tra piante ed animali, nel loro stadio più
incompleto, non è chiaramente tracciato. Solo in un momento successivo dell’evoluzione si può affermare che

le creature a poco a poco emergenti da un’affinità quasi indistinguibile come piante o come animali si perfezionano in due direzioni
opposte, finché la pianta trova il suo coronamento nella rigidezza e durata dell’albero, e l’animale si nobilita raggiungendo il massimo di
libertà e mobilità nell’uomo. (Op5, 80)
La pianta, afferma Steiner (Rudolf Steiner, Le opere scientifiche di Goethe, Bocca, Milano, 1944, p. 58-64), si realizza completamente nell’esteriorità,
nella “figura”; ogni organo è identico a tutti gli altri e ogni stadio della metamorfosi è idealmente (secondo il principio formativo) uguale a
quello precedente, anche se esteriormente se ne diversifica. Non così avviene negli animali, la cui caratteristica è quella di apparire come
microcosmi e per i quali la “figura” è nel suo complesso determinata dall’interno e non in ogni organo, analiticamente, come nella pianta. Ma
queste differenze non eliminano una sostanziale affinità nei principi costitutivi per cui, anche nello studio degli organismi animali, è necessario
ricercare il tipo originario, l’Urbild che sta a fondamento ideale dell’animale reale.

Anche tra uomo e animali è possibile stabilire chiare differenze esteriori. È ciò che Goethe fa, ad esempio, nel suo contributo ai Frammenti
fisiognomici di Lavater, scritto nel 1775-6 al tempo della sua collaborazione con lo scienziato svizzero, dove la differenza tra uomo ed animali è
colta già nello scheletro: nell’uomo, la testa poggia sopra il midollo spinale e rappresenta il momento riassuntivo e conclusivo della figura
umana; nell’animale, invece, il cranio è solo applicato alla colonna vertebrale, è una testa “che esiste soprattutto per fiutare, masticare, deglutire”
(Op5, 163-164). Negli animali, gli organi si sviluppano obbedendo a leggi particolari, determinati dai compiti che devono svolgere e che molto
spesso sono unilaterali; nell’uomo, invece, dominante nello sviluppo fisico è la coerenza dell’intero organismo, il continuo riferimento al
concetto di totalità (Rudolf Steiner, op. cit., p. 31-32). Questa situazione potrebbe essere descritta affermando che, mentre negli animali
preponderanti sono le leggi della funzione, negli uomini grande importanza assumono le leggi della forma.

Sulla base della convinzione dell’unità di fondo delle leggi costitutive degli organismi animali e della loro successiva diversificazione
funzionale, Goethe affronta il problema dell’esistenza dell’os intermaxillare nell’uomo. Questo osso, situato nella parte anteriore del palato,
porta infissi gli incisivi superiori. Esso è visibile in tutti gli animali, scimmie comprese, mentre nell’uomo è apparentemente assente. Molti, a
quel tempo, utilizzavano questa assenza per sottolineare la specificità dell’uomo nei confronti degli animali. Goethe, in collaborazione con
Loder, scopre anche nell’uomo la presenza di quest’osso e il 27 marzo 1784 ne dà l’annuncio con parole piene di emozione a Herder (“Ho
scoperto – non oro né argento, ma ciò che mi procura una gioia inesprimibile – l’osso intermascellare nell’uomo!“) e alla signora Stein (“Tale è la mia gioia,
che tutti i visceri mi si commuovono“). Sull’argomento scrive, tra il marzo e il maggio dello stesso anno, un breve saggio intitolato All’uomo non
meno che agli animali dev’essere attribuito un osso intermedio del mascellare superiore, con testo latino e tedesco e corredato dalle tavole di Waitz. Il
saggio viene pubblicato nel 1820 nel secondo quaderno di Morfologia, senza le tavole, ma completato con un breve testo di carattere
autobiografico, che nell’edizione italiana delle opere compare con il titolo Trentasei anni dopo il saggio sull’osso intermascellare. Sulla scorta di
molte e accurate osservazioni comparate di crani animali ed umani, Goethe arriva alla conclusione che

non v’è dubbio che l’osso intermascellare si riscontri nell’uomo non meno che negli animali, sebbene vi si possa distinguere esattamente
solo una parte dei margini, il resto essendo obliterato e intimamente concresciuto col mascellare superiore. […] La causa di ciò va cercata, a
mio parere, nel fatto che quest’osso, tanto prominente negli animali, nell’uomo si contrae a una misura molto modesta. (Op5, 171)

Il metodo comparativo, che ha reso possibile questa scoperta, viene da Goethe assunto come centrale nei suoi studi anatomici e, nel 1795,
dedica a questo problema un saggio molto importante, Primo abbozzo di una introduzione generale all’anatomia comparata fondata sull’osteologia,
pubblicato nel secondo quaderno di Morfologia nel 1820 e seguito, lo stesso anno, nel terzo quaderno da Letture sui primi tre capitoli dell’abbozzo
di una Introduzione generale all’anatomia comparata, dove l’argomento viene ulteriormente approfondito. Goethe avverte l’esigenza di affrontare
l’anatomia con un metodo che permetta di organizzare in una visione unitaria tutte le osservazioni e i dati raccolti, in modo da superare il
disordine e l’unilateralità della terminologia e delle classificazioni dell’epoca.

Per assolvere a questo compito è necessario elaborare un modello universale, un tipo originario cui riferire tutti gli animali e, su questa base,
cogliere di ognuno di essi le rispettive specificità. La costruzione del tipo non deve avvenire assumendo a paradigma un animale reale,
empirico, o addirittura l’uomo, ma individuando ciò che è comune in ciascuno degli organi viventi e che Goethe ritiene di aver trovato nella
triplice divisione della struttura esterna: testa, torace, addome. (È bene notare che in Goethe mai nulla che riguardi la natura organica è in
realtà fisso, nemmeno il Tipo che, come fondamento dell’organismo vivente, ha in sé i caratteri dinamici e evolutivi).

Elaborata la rappresentazione generale del tipo, Goethe passa ad applicarla ai casi particolari: qui, il saggio si fa denso di osservazioni su ogni
genere di animali, insetti, rane, serpenti, uccelli, pesci e grandi mammiferi. Queste osservazioni danno l’occasione per scoprire interessanti
regolarità o leggi di natura. Si osserva, ad esempio, che “a nessuna parte si può aggiungere nulla senza che qualcosa si tolga a un’altra“: è per questo
che “la natura non può mai indebitarsi né far bancarotta” (Op5, 185). Si distinguono, inoltre, due tipi di metamorfosi, una successiva, di parti
identiche l’una di seguito all’altra, e una simultanea, che riguarda la modificazione di uno stesso elemento morfologico in un unico o in più
individui. (V. Felice Mondella, La scienza tedesca nel periodo romantico e la Naturphilosophie, in, Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e
scientifico. L’Ottocento, volume IV, Garzanti, Milano, 1971, p. 264-303).

Di grande importanza è anche la polemica condotta contro l’influenza della “mentalità pietistica” nella scienza, il cui difetto è quello di
introdurre dall’esterno svianti e ingiustificate considerazioni teologiche nello studio della natura: ciò conduce a fissarsi su falsi problemi, come
le “vane speculazioni sull’anima delle bestie” (Op5, 208), o a procedere sulla base di errate impostazioni. (“Non si sosterrà che al toro siano state date le
corna perché cozzi, ma si studierà come possa disporre di corna per cozzare“) (Op5, 186). In un breve scritto risalente all’ultimo decennio del secolo
diciottesimo, Saggio di una teoria generale dei confronti (Op5, 174-178), Goethe definisce triviale la concezione che assegna alla natura una finalità
esterna:

Ci abitueremo a non vedere nelle condizioni e nei rapporti né delle predeterminazioni né dei fini, e solo così proseguiremo nella conoscenza
del modo come la natura plasmatrice si esprime da tutti i lati e verso tutti i lati. (Op5, 178)

Il saggio sull’anatomia comparata si conclude con un’attenta analisi del tipo osteologico in particolare, rilevando che lo scheletro costituisce
l’impalcatura di tutte le forme. Dell’intero sistema osseo viene studiata la genesi e la costanza o l’incostanza dei suoi elementi. Si colgono le
diversità di compenetrazione e di saldatura tra osso e osso, al fine di scoprirne le leggi sottostanti, si osservano le diversità di limite, di
grandezza, di numero e di forma. Anche negli studi anatomici e zoologici Goethe trova lo spunto per esprimere in forma poetica le sue teorie
scientifiche e lo fa con una lirica intitolata Metamorfosi degli animali, scritta nel 1806 e pubblicata a conclusione del saggio sull’anatomia
comparata nel 1820.

Un cenno, infine, va riservato alla teoria sull’origine vertebrale del cranio, intuita da Goethe in occasione del ritrovamento sul Lido di Venezia,
nel 1790, di un cranio di capra spezzato e mostrato alla signora Von Kalb con le parole: “Dica a Herder che mi sono avvicinato di un intero stadio alla
figura animale e alle sue svariate trasformazioni” (V. Rudolf Steiner, op. cit., p. 43). L’importanza di questa teoria è costituita dal fatto che, entro
l’unità del tipo, “si può individuare un elemento costitutivo (la vertebra) alla cui molteplice variazione può essere ricondotta la complessità di strutture
apparentemente dissimili” (Felice Mondella, op. cit., p. 277-278).
Geologia e meteorologia. La teoria dei suoni

Se si esclude la Teoria dei colori, gli studi dedicati al mondo inorganico danno l’impressione di giocare un ruolo di secondo piano nell’ambito
dell’attività scientifica di Goethe. Ciò è dovuto al fatto che a essi non è dedicata una trattazione sistematica, per cui si presentano nello stato di
abbozzi, di frammenti contenenti mere annotazioni empiriche frammiste a folgoranti intuizioni.

Geologia e mineralogia, discipline alle quali Goethe era legato fin dal 1777, anno in cui incominciò a interessarsi alla riattivazione delle miniere
di Ilmenau, e che molta importanza rivestirono anche nel suo primo viaggio in Italia, non devono essere trattate come scienze dell’inorganico
che studiano la materia inerte, morta. Già dall’inizio del Viaggio in Italia (v. Passo del Brennero, 8 settembre sera) si possono trovare attente
osservazioni sulla conformazione delle Alpi e particolareggiate descrizioni sui tipi di roccia. (V. Op2, 441-442). Da ricordare, tra molti altri, gli
accurati appunti di geologia presi durante l’itinerario da Girgenti a Caltanissetta (v. Caltanissetta, sabato 28 aprile) (Op2, 757-758)

La terra è un organismo vivente e come tale ha uno sviluppo, un’evoluzione che deve essere colta nel suo divenire concreto. È bene ricordare
che Hegel inserisce la trattazione della geologia nella terza sezione della Filosofia della natura, dedicata alla Fisica organica. V. G. W. F. Hegel,
Enciclopedia, cit. p. 336-338.

Anche qui bisogna risalire all’elemento originario, all’idea che fonda e unifica tutta la molteplicità del mondo empirico. In questo contesto si
inserisce il bellissimo frammento sul Granito, scritto nel 1784 e pubblicato per la prima volta postumo nel 1861, nel quale Goethe raggiunge
momenti di lirica intimità con la natura e dove il suo pensiero oggettivo si esplica con tutta la sua efficacia. È l’esempio di un’espressione che si
vivifica al contatto con le cose, che da esse, dalla loro concretezza sa trarre alimento e pregnanza e che, in tal modo, apre all’uomo zone di
realtà nuove e affascinanti, ne dilata le possibilità, quelle stesse che, a suo dire, una mera visione meccanico-matematica mortifica e
impoverisce.

I sensi non sono più ostacoli, contraddizioni al pensiero puro, ma momenti di formazione e di verifica dell’esperienza, luoghi in cui il
fenomeno, lungi dal presentarsi come inganno e mistificazione, si costituisce come realtà per l’uomo. Una realtà cui ben si addicono queste
parole di Goethe:

Sono pochi, invero, quelli che si entusiasmano di ciò che appare soltanto allo spirito. I sensi, il sentimento, la passione, esercitano su di noi
un potere ben più forte; e non a caso, poiché siamo nati non già per osservare e meditare, ma per vivere. (Op5, 76)

Il granito, utilizzato dagli antichi egizi per costruire i loro grandiosi monumenti,

è il vertice dell’altezza e della profondità, […] giace incrollabile nelle viscere più segrete della terra, e alte si levano le sue spalle, la cui
sommità il mare che tutto avvolgeva non ha mai raggiunto. (Op5, 248)

Esso si presenta differenziato da luogo a luogo, anche se nella sua struttura intima rimane sempre uguale, elemento primigenio per mezzo del
quale si entra in contatto col “cuore profondo della terra“. Sulla vetta spoglia, sulla roccia nuda, il poeta si eleva a una “considerazione superiore
della natura” che lo porta direttamente al senso originario delle cose. È un’esperienza umana profonda, solitaria eppure universale, radicata nel
divenire naturale e storico eppure così originaria nel suo diretto contatto con “l’essenza di tutte le essenze“. Ma non è un’esperienza che si
esaurisce in un esito puramente mistico, in quanto ha uno spontaneo sbocco nell’indagine naturale che porta Goethe a osservare nel granito

la sua massa incrinata da bizzarre fratture, qui diritte, là inclinate, ora regolarmente sovrapposte, ora come buttate alla rinfusa in blocchi
informi. (Op5, 250)

La natura che emerge da questo frammento è quella stessa che illumina lo sguardo di Goethe nel mondo organico e che ritroveremo
analizzando la teoria dei colori: una natura viva e pulsante con le sue leggi di polarità e la sua spinta all’elevazione (Steigerung). Questa natura
non può tollerare che nel suo seno si agitino principi contraddittori e casuali, che le sue leggi siano sovvertitrici anziché formatrici: è questo il
motivo per cui Goethe, nella controversia tra nettunisti e plutonisti in campo geologico, si schiera, anche se con qualche riserva, con i primi.

I nettunisti, […] vedevano in tutte le rocce il prodotto di una lenta sedimentazione dei depositi chimici contenuti nelle acque del mare
primigenio, i plutonisti o vulcanisti, a quella concezione opponevano la teoria dell’origine eruttiva delle formazioni geologiche. (Bruno
Maffi, Nota a Intermezzo geologico-meteorologico, in Op5, 244)

Su tale argomento scrive un breve saggio tra il 1829 e il 1831, Confessioni di un vecchio nettunista, dove si rileva chiaramente come la sua
adesione al nettunismo sia motivata, oltre che da osservazioni empiriche, soprattutto dall’impostazione generale del suo pensiero.

Assieme a tutto ciò, non è possibile dimenticare le ricerche sull’età glaciale, in cui “il genio di Goethe fu veramente profetico” (Bruno Maffi, Nota a
Intermezzo ecc., in Op5, 245) e alle quali sono dedicati tre Frammenti sulle glaciazioni, tutti composti verso la fine del 1829 e pubblicati postumi.
L’ipotesi sull’era glaciale era stata avanzata da Goethe per spiegare la presenza di massi erratici nel Bassopiano settentrionale tedesco: essi vi
sarebbero stati trasportati da un’avanzata dei ghiacciai dalle Alpi verso l’Europa del Nord. (Bruno Maffi, Note a Tre frammenti sulle glaciazioni, in
Op5, 263)

Gli studi meteorologici di Goethe (solo con il 1815, anno in cui Weimar fu dotata di un osservatorio astronomico, Goethe inizia studi sistematici
di meteorologia), molto più frammentari, risentono fortemente dell’influenza dello studioso inglese Luke Howard il quale, nel 1802 aveva
pubblicato un saggio sulle nuvole, intitolato On the modifications of clouds, che il poeta lesse con grande interesse. Oltre a un saggio
meteorologico del 1825, Versuch einer Witterungslehre, frutto di questi studi è un breve scritto del 1820, La forma delle nubi secondo Howard
(pubblicato nel terzo quaderno di Morfologia) in cui, oltre all’accettazione della terminologia sulle nubi proposta dal fisico inglese (strati,
cumuli, cirri, nembi) si trova anche la teoria della divisione dell’atmosfera in tre zone: una superiore, in cui domina l’elemento secco, una
inferiore, dove preponderante è l’umido, una mediana, in cui “si prepara la decisione se debba vincere la parte superiore dell’atmosfera o la terra“.
(Op5, 274)

A conclusione del discorso sulle opere scientifiche di Goethe merita un accenno il saggio tabellare dedicato alla Teoria dei suoni, scritto verso il
1810 ed inviato al poeta ed amico Zelter il 9 settembre 1826 (V. J. W. von Goethe, Teoria della natura (antologia di scritti a cura di Mazzino
Montinari), Boringhieri, Torino, 1958, p. 284-289). Il suono viene studiato in tre sezioni, a seconda che sia considerato da un punto di vista
organico (o soggettivo) e abbia nell’uomo la sua origine e la sua destinazione, oppure meccanico (o misto) e si riferisca particolarmente agli
strumenti, oppure infine matematico (od oggettivo) e prenda in considerazione i rapporti meramente quantitativi. Anche qui Goethe nota
l’impossibilità di considerare spiegazione effettiva un punto di vista (quello meccanico o matematico) che, come prima cosa, distrugge certi
essenziali nessi del suo oggetto. (Renato Troncon, Goethe e la filosofia del colore. Appendice a TC, 247)

Abbiamo visto nella sua completezza il lavoro di Goethe in campo scientifico, ne abbiamo apprezzato la vivacità delle intuizioni, la duttilità del
metodo, l’efficacia del pensiero. Abbiamo colto il formarsi di un concetto di natura ed esperienza che ha il suo punto focale nella salvaguardia
di un rapporto non unidimensionante tra soggetto ed oggetto. In tal modo, lo studio scientifico conserva alla natura tutte le sue qualità, ai
fenomeni tutta la loro significatività. A questo punto è interessante considerare testi più generali, dove la problematica epistemologica si
presenta direttamente, fornendoci così non solo la possibilità di penetrare ancor più a fondo nel mondo di Goethe scienziato, ma anche gli
strumenti indispensabili per affrontare una lettura della Farbenlehre che sappia sottrarsi alle molte interpretazioni riduttive che, nel tentativo di
salvarla almeno in parte, di essa sono state proposte.

Nel prossimo paragrafo tenteremo di far emergere come linfa vitale di tutta la problematica goethiana il senso di profondo umanesimo che l’ha
sempre guidata. In una realtà come quella che stiamo vivendo, dove la verità dei sistemi, speculativi o emancipatori che siano, non è più
legittimata, dove la molteplicità e l’impermeabilità dei “discorsi” spiazza l’uomo da qualunque Discorso sul Senso, l’umanesimo di Goethe,
tutto rivolto a valorizzare luoghi eretici e pericolosi dell’esperienza e della realtà, ad avvalorare come ineliminabile la dimensione estetica e
qualitativa dell’uomo, in palese trasgressione al progetto sociale dominante, assume il carattere di una proposta altamente sovvertitrice.

Il pensiero intuitivo. Conclusioni su Goethe scienziato

Nel saggio Il giudizio intuitivo, scritto nel 1817 e pubblicato nel 1820 nel secondo quaderno di Morfologia, Goethe rivela la sua impostazione
nello studio della natura e lo fa riferendosi alla distinzione introdotta da Kant nella Critica del giudizio tra intelletto discorsivo ed intelletto
archetipo. La posizione di Goethe è inequivocabile: all’uomo, e non solo a Dio, compete l’intelletto intuitivo e con esso la possibilità di cogliere
nella concretezza del fenomeno un inseparabile contenuto ideale. In ciò sta il fondamento della scienza intuitiva, quell’affascinante “avventura
della ragione” tanto temuta da Kant quanto amata da Goethe (Op5, 47-48). In ciò sta anche l’eterna aspirazione dell’uomo a eliminare lo iato, la
frattura che sembra esistere fra idea ed esperienza, usando qualunque mezzo a sua disposizione, dalla ragione all’intelletto, alla fantasia, alla
fede o all’illusione e, se necessario, persino alla follia. (Op5, 45-46)

Per Goethe è importante il rapporto tra Io e Mondo, un rapporto che ha saputo cogliere nella sua realtà più profonda con lo studio delle nature
organiche. Ed è forse il diretto contatto con la natura che gli rende inaccessibile l’astratta problematica della Critica della ragion pura, come egli
stesso afferma nel saggio Influenza della filosofia recente, scritto nel 1817 e apparso nel secondo quaderno di Morfologia (Op5, 51-56), e che lo fa
invece attento lettore della Critica del giudizio, dove natura e arte, unite da un fondamento comune, si aprono a considerazioni non
meccanicistiche. Tuttavia la grande influenza di quest’opera, gli stimoli da essa ricevuti, le profonde discussioni con Schiller non riescono a fare
di Goethe un kantiano. E le ragioni sono evidenti.

Ciò che in Kant era residuo, eccedenza da trattare autonomamente, ma sempre nella sfera non determinante del come se, diventa per Goethe
fondamento, base reale da cui partire per conoscere e vivere il mondo. In Goethe la ragione ha spodestato l’intelletto, ha aperto all’uomo la via
dell’incondizionato ma, e ciò va sottolineato, ha contemporaneamente riscattato la sensibilità e l’immaginazione del loro ruolo subordinato, dal
loro rango di “facoltà inferiori”. L’intuizione di una natura sempre creante e la partecipazione spirituale ai suoi prodotti, la stretta affinità tra
poesia e natura acquistano realtà effettiva, pratica concreta e con ciò restituiscono l’immagine di un uomo pienamente realizzato nel suo
rapporto con il mondo. Giustamente Jablonsky afferma che

È il fenomeno, l’immagine, che Goethe corteggia nel suo desiderio come l’Eros platonico fa per l’idea; ma non è mai ciò che si chiama cosa
in senso volgare. Nel fenomeno soggetto e oggetto partecipano ugualmente, nella loro funzione di esaminatore ed esaminato. (Walter
Jablonsky, Goethe e le scienze naturali, Laterza, Bari, 1938, p. 38)

Il fenomeno è il luogo dove tutte le facoltà umane (ma è ancora possibile ragionare in termini di facoltà parlando di Goethe?) collaborano
pariteticamente per stabilire una connessione attiva tra uomo e natura. È logico che per Goethe fine della conoscenza sia il fenomeno
originario, dove realtà e idealità coincidono sotto l’unica figura della verità e il cui nesso con “il caso più comune dell’esperienza quotidiana” non
ha soluzione di continuità (TC, ‘175’). Nel fenomeno originario si supera lo iato tra idea ed esperienza: in quanto conosciuto è effettivamente
reale, in quanto ultimo conoscibile è puramente ideale, è ciò che Goethe chiama “i limiti dell’umanità“, dove arrestarsi non è rassegnazione. (J.
W. von Goethe, Teoria della natura, cit., p. 304)

Nel fenomeno originario sta la risposta all’angosciata domanda di Faust “dove potrò afferrarti, o infinita natura” (Goethe, Faust e Urfaust, tr., intr.,
e note di Giovanni Vittorio Amoretti, 2 voll., Feltrinelli, Milano, 1980, p. 24-25: “Wo fass ich dich, unendliche Natur?), solo in esso è possibile
cogliere realmente e non attraverso complicati meccanismi o artificiosi congegni il suo senso profondo.

Piena di mistero anche nella luce del giorno, la natura non si lascia derubare del suo velo e tu non le strapperai con leve o con viti quello
che essa non vuole rivelare al tuo spirito (Geheimnisvoll am lichten, Tag, läßt sich Natur des Schleiers nicht berauben, und was sie deinem Geist
nicht offenbaren mag, das zwingst du ihr nicht ab mit Hebeln und mit Schrauben). (J. W. von Goethe, Faust e Urfaust, cit., p. 34-35)

Questa natura, che ammutolisce se si sottopone alla tortura, che si chiude a chi la vuole violentare, si concede completamente a chi le si
avvicina con sensibilità aperta e libera, facendolo partecipare del suo ritmo creativo (v. il saggio Invito alla benevolenza, scritto nel 1817 e apparso
in Morfologia, secondo quaderno, 1820). Il famoso Frammento sulla natura, perfettamente goethiano nella sua liricità anche se materialmente
composto da un oscuro teologo svizzero, Georg Christoph Tobler, nasce con questa pura disposizione d’animo.

È comunque un errore ritenere che Goethe avvalorasse un approccio esclusivamente sentimentale e poetico alla natura. Per comprendere le
caratteristiche del suo metodo scientifico è di fondamentale importanza il saggio L’esperimento come mediatore fra oggetto e soggetto, scritto nel
1792 e pubblicato nel 1823 nel primo quaderno del secondo volume di Morfologia. Qui, Goethe, dopo aver distinto la visione comune della
realtà, che è antropocentrica, da quella scientifica, sostiene la necessità di osservare la cosa da studiare con tranquilla attenzione e senza
pregiudizi e soprattutto sottolinea l’importanza del lavoro comunitario e della pubblicità delle scoperte e delle ipotesi scientifiche (anche se
sbagliate). Affronta quindi il tema dell’esperimento e del suo ruolo nella ricerca scientifica, e qui mette in guardia sia contro l’abitudine di
utilizzare come prove esperimenti isolati, sia contro la fretta eccessiva di trarre conclusioni.

Non ci si guarderà mai abbastanza dal trarre da esperimenti conclusioni affrettate; giacché è appunto al passaggio dall’esperienza al
giudizio, dalla conoscenza all’applicazione, che, come a una stretta, tutti i nemici segreti dell’uomo stanno in agguato. (Op5, 31)
Rifiutato quindi l’impiego immediato dell’esperimento, quell’impiego che soggiace all’arbitraria tendenza dell’intelletto a unificare secondo le
sue leggi ciò che nella natura si presenta isolato, dove “una mente robusta impiega tanto più arte, quanto meno dati possiede” (Op5, 32), Goethe ne
promuove caldamente l’uso mediato, attraverso il quale le esperienze che ci appaiono frammentarie si scoprono unite secondo il loro nesso
reale. I criteri suggeriti sono quelli della diversificazione e della moltiplicazione dell’esperienza.

I risultati più fecondi furono raggiunti da coloro che non trascurarono mai, nei limiti delle possibilità, di studiare e svolgere tutti gli aspetti
e le modificazioni di una singola esperienza, di un esperimento isolato. (Op5, 33)

Negli studi naturalistici di Goethe, il metodo matematico non compare come applicazione, ma come analogia. Nel saggio Sulla matematica e il
suo abuso (Goethe, Teoria della natura, cit., p. 123-135), pur rivendicando il diritto di studiare la natura senza usare la matematica, Goethe non si
definisce un nemico di questa disciplina. Ciò che egli contesta è il cattivo uso che si fa della matematica, quella predilezione per l’uso delle
formule che diventa lo scopo principale.

La matematica deve ammettere di trattare solo un lato del reale. […] La natura non è solo quantità; e la matematica ha a che fare solo con il
“quanto”. La trattazione matematica e l’altra che guarda solo al qualitativo devono darsi la mano, e collaborare (Rudolf Steiner, op. cit., p.
171).

Cfr. anche queste parole di Bloch:

La prassi dimostra che è possibile ottenere un settore della natura dove vale e si verifica autorevolmente anche l’aspetto pitagorico
oggettivo non-qualitativo. Però, e questo è determinante, l’astrazione dalle qualità riguarda e tocca un settore e non quindi l’intero cerchio
colorato e ciò che appartiene alla dimensione futura della natura. (Ernst Bloch, L’arco utopia-materia, in “aut aut” 125, settembre-ottobre 1971,
p. 16-17.)

Considerando congiuntamente Hegel e Goethe come momenti centrali per la formazione dello spirito tedesco nel diciannovesimo secolo,
Löwith ne analizza le analogie e le discordanze con particolare attenzione al “fenomeno primordiale” in Goethe e all’assoluto in Hegel. (Karl
Lövith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo diciannovesimo, Einaudi, Torino, 1969, p. 23-62. V. anche i paragrafi Il
giudizio di Nietzsche su Goethe e Hegel a p. 289-296 e Tempo e storia in Goethe e Hegel a p. 338-377)

Importante è la seguente affermazione dello studioso:

Goethe coglie l’unità nel campo della natura intuita, Hegel invece nello spirito della storia. Ne deriva che Hegel riconosce un’astuzia della
ragione, Goethe un’astuzia della natura. In entrambi i casi quest’astuzia consiste nel fatto che le azioni degli uomini vengono, senza che essi
lo sappiano, messe al servizio di una totalità. (Karl Lövith, op. cit., p. 32)

Qui, il concetto di totalità è applicato a tutti e due gli autori, ma noi riteniamo che a esso si debbano attribuire significati diversi. La totalità di
Hegel richiede il sacrificio delle parti, il suo Spirito non tollera differenziazioni o autonomie, la ferrea logica del sistema si impone senza
residui. Ben diversa è la totalità naturale di Goethe: essa vive solo attraverso la vita individuale, per scoprirsi infinita deve percorrere il finito in
tutte le direzioni. È una totalità concreta, organica, che si verifica nella realtà e si contrappone perciò alla totalità logica hegeliana, che “toglie”
(aufheben) la realtà nello spirito.

Natura e poesia hanno ispirato  l’avventura della ragione in Goethe, natura e poesia le ritroviamo al termine del suo tragitto spirituale e con
esse ritroviamo, nella pienezza del suo significato, la bellezza, la sensibilità e l’immaginazione, cioè quella dimensione estetica confinata nel
soggettivo e nell’arbitrario dal meccanicismo, recuperata in modo puramente formale da Kant e definitivamente sottomessa dall’idealismo
hegeliano. Per questo è giusto dire con Banfi che “anzitutto Hegel è un pensiero; Goethe una vita, un’esperienza, una poesia“. (Antonio Banfi, Filosofia
dell’arte (a cura di Dino Formaggio), Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 227)

PUBBLICATO SU FILOSOFIA, TEMI, CONCETTI, PROBLEMI


BILDUNG BOTANICA CONTRAZIONE ESPANSIONE FENOMENO ORIGINARIO FOGLIA METAMORFOSI MINERALOGIA NETTUNISMO E
PLUTONISMO PENSIERO INTUITIVO PIANTA ORIGINARIA SCIENZA QUALITATIVA TIPO TOTALITÀ URPFLANZE ZOOLOGIA

Pubblicato da Giuliano Antonello

Alcune mie pubblicazioni - Prospettiva Deleuze. Filosofia, arte, politica, ombre corte, 2011 - Il problema dell’individuazione in “Differenza e
ripetizione”, "aut aut", 277-278/1997 - L'aver luogo dell'individuo, Chiasmi International, 7/2005 Molti dei materiali proposti sono testi di miei
seminari o corsi tenuti all'Università di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1986 al 2010 Mostra tutti gli articoli di Giuliano Antonello

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