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Questione III

Il mistero trinitario nella Chiesa dei primi tre secoli

Le parole e le azioni di Gesù Cristo, i diversi testi del N.T. sono un fondamento per la
riflessione sulla Trinità. Tale riflessione ha portato la Chiesa a una dottrina trinitaria ben
sviluppata con i diversi concetti sottili e precisi. Nel N.T. le Persone divine sono caratterizzate
soprattutto storicamente e dinamicamente. Poi, attraverso i secoli è stato fatto un passaggio
dalla teologia narrativa a quella speculativa, cioè dal Dio della storia di Gesù al Dio in sé
stesso, cioè dalla Trinità economica alla Trinità immanente (ontologica). Questo processo lo
vedremo riflettendo sulla storia della dottrina trinitaria.

La fede neotestamentaria doveva confrontarsi con il mondo esterno, con la filosofia greca, e
soprattutto con la propria auto-comprensione, cioè con le diverse interpretazioni che gli stessi
cristiani davano ai testi del N.T.
La teologia trinitaria non è nata dalle ambizioni dei filosofi e teologi di complicare le cose, ma
dal bisogno di rispondere alle sfide delle diverse epoche e delle diverse culture.
Si deve notare che l’ortodossia non consiste in un’ortofonia, cioè nel ripetere sempre le
stesse formule, ma nel cercare come esprimere la fede per farsi capire bene dalle diverse
culture e dalle diverse generazioni.
“La Chiesa non si può semplicemente accontentare di ripetere le enunciazioni
neotestamentarie; ella con l’aiuto concessole dallo Spirito Santo, deve interpretarle ed
annunciarle in modo tale che possono essere comprese dagli uomini di ogni epoca”.
Perciò la Chiesa da due mila anni confessa e predica la fede in uno solo Dio: Padre e Figlio e
Spirito Santo, e cerca di esprimere questa fede in diversi linguaggi e termini.

Vogliamo presentare brevemente le concezioni e le discussioni trinitarie dei primi tre secoli.
Non dimentichiamo che i primi cristiani non avevano una tradizione del linguaggio che li
permetterebbe di parlare univocamente della Trinità, discutere con ebrei e pagani, e
rispondere alle tendenze eterodosse. I primi cristiani hanno avuto le parole del Signore:
Andate e battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Credevano nel Dio
uno, Creatore del mondo, credevano che Gesù Cristo era il Messia e il Figlio di Dio,
sperimentavano la forza dello Spirito Santo. Sapevano che non esisteva la salvezza senza
questi Tre. Ma per rispondere alle sfide esterne e quelle interne, dovevano riflettere, pensare
per esprimere sempre più adeguatamente la fede nell’unico Dio senza negare la divinità di
Gesù. Il cristianesimo doveva confrontarci con le culture, le filosofie e le credenze del tempo.
Il linguaggio della Bibbia non era sufficiente. Vediamo dunque come si cercava di esprimere
il mistero trinitario nei primi tre secoli.

1. I Padri apostolici sul mistero trinitario

I Padri apostolici sono quei vescovi che succedono agli Apostoli (Clemente Romano, Ignazio
di Antiochia, Policarpo ecc.). Il più antico documento letterario della religione cristiana che
possa essere datato, immediatamente posteriore al tempo degli apostoli, è la lettera di
Clemente Romano ai Corinzi scritta nell’ultima decade del primo secolo (circa 96). Secondo
2

Ireneo, Clemente sarebbe stato il terzo successore di Pietro sulla cattedra di Roma: Pietro,
Lino, Cleto e Clemente.

Nella sua lettera ai Corinzi Clemente fa una domanda retorica:


“Non abbiamo un solo Dio [Padre!], un solo Cristo e un solo spirito di grazia effuso su di noi
e una sola vocazione in Cristo?” (46,6), e poi scrive:
“Vive Dio [Padre!], vive il Signore Gesù Cristo e lo Spirito Santo, la fede e la speranza degli
eletti” (58,2).

Clemente lo scrive per chiamare i Corinzi all’unione. Qui posiamo notare che lo Spirito viene
indicato come distinto dal Padre e dal Cristo. Clemente dice che ciascuno dei Tre è unico,
allora sottolinea una distinzione tra di loro, ma anche esprime la convinzione che i tre vanno
nominati insieme, perché sono uniti.
Però, Clemente non va oltre ciò che troviamo in Paolo 1 Cor 12,4-6.

Ignazio di Antiochia (morto circa 110)


Condannato sotto la persecuzione dell'imperatore Traiano, fu imprigionato e condotto da
Antiochia a Roma. Durante questo viaggio scrisse le famose sette lettere alle chiese che
incontrava sul cammino o vicino ad esso.
Nella lettera alla comunità di Magnesia Ignazio dice:
“Cercate di tenervi ben saldi […] nella fede e nella carità nel Figlio, nel Padre e nello Spirito
Santo, al principio e alla fine […]. Siate sottomessi al vescovo e anche gli uni agli altri, come
Gesù Cristo al Padre, nella carne, e gli apostoli a Cristo e al Padre e allo Spirito” (Mag. 13,1-
2).

Ecco i parallelismi tra le persone divine e le persone umane.

Nella stessa lettera Ignazio tocca la questione delle processioni:


“è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito” (Magn. 7,2).

Lo Spirito invece, che era presente nella generazione umana e all’unzione di Gesù, “è da Dio”
e perciò non può ingannare.

Nella Lettera agli Efesini Ignazio scrive direttamente che Gesù è Dio:
“Il nostro Dio, Gesù Cristo è stato portato nel seno di Maria, secondo l’economia di Dio, del
seme di David e dello Spirito Santo” (18,2). 

Da notare che la parola Dio non era univoca. Si parlava a volte del Dio supremo (vero) e di un
Dio minore.

In un altro brano di questa lettera leggiamo:


“Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate
con l'argano (l’elevatore) di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito
Santo. La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni
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di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in
tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo” (Ignazio di Antiochia, Lettera ai Efesini, 9,1).

Allora il Padre è il muratore (ingegnere), Cristo viene rappresentato come macchina che serve
a tirar su le pietre, e lo Spirito in questa analogia metaforica sarebbe la corda, la fune. Le tre
persone collaborano quindi nell’edificazione della Chiesa.
E noi siamo le pietre.

Un bel testo trinitario troviamo in una lettera scritta nell’anno 156 da un cristiano di Smirne
chiamato Marcione. In essa viene descritto il martirio di san Policarpo, avvenuto qualche
mese prima. Policarpo fu discepolo dell’apostolo Giovanni e vescovo di Smirne. Marcione
mette sulle labbra di Policarpo una dossologia trinitaria:

“Signore Dio onnipotente: Padre del tuo amato e benedetto servo Gesù Cristo, per mezzo
del quale ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli e delle potestà e di tutta la creazione, e di
tutto il popolo dei santi che vivono alla tua presenza: Io ti benedico per avermi giudicato
degno, in questo giorno, di appartenere al numero dei martiri, nel calice di Cristo, per la
risurrezione della vita eterna dell’anima e del corpo, nell’incorruttibilità dello Spirito Santo
[…]. Io ti benedico e ti glorifico per mezzo del Sommo sacerdote eterno e celeste Gesù Cristo,
tuo amatissimo Figlio, per mezzo del quale sia resa gloria a Te insieme a Lui e allo Spirito
Santo” (cit. da G. Lobo Méndez, Dio uno e trino, Milano 2005, 112)

Abbiamo qui a che fare con isotimìa, cioè uguaglianza di onori dovuti a Dio (isos – uguale)
Non abbiamo un sistema trinitario elaborato, ma la fede trinitaria è chiara.

Poi è da menzionare “Didaché” (la fine del I sec.) dove troviamo le formule battesimali di Mt
28,19:
“In quanto al Battesimo, battezzate in questo modo: dopo aver insegnato tutto ciò che
precede, battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, in acqua corrente”
(VII,1)

Generalmente possiamo dire che nei scritti dei Padri apostolici troviamo alcuni passi trinitari,
formule trinitarie, ma tutto ciò non va molto oltre le formule battesimali. Si parla dei Tre nel
contesto liturgico e per chiamare i fedeli all’unità.

2. Il contributo degli Apologisti allo sviluppo della dottrina trinitaria

Un passo avanti fu fatto dagli Apologisti (II e III sec.) che volevano mostrare la coerenza
della fede cristiana ai pagani e anche agli ebrei.
Gli apologisti sapevano che nelle discussioni con i pagani e gli ebrei non potevano limitarsi a
ripetere le formule della Sacra Scrittura. La questione più importante era la relazione tra Dio e
Gesù Cristo nella prospettiva della missione salvifica di Gesù. Il punto di partenza era la
domanda: Cosa vuol dire che Gesù è salvatore?
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2.1 San Giustino – il contemplatore del Logos

Filosofo e martire, (morto a Roma verso il 165) è tra gli Apologisti più importante per noi.
Lui è stato chiamato il contemplatore del Logos.

Giustino trova proprio nel Logos quella verità comune che gli permette di fare un ponte tra la
filosofia greca e la filosofia cristiana. Logos è infatti il titolo che conosciamo dal vangelo di
Giovanni, ma Logos è anche il principio razionale di tutte le cose nella filosofia greca.
Giustino perciò riconosce i semi della verità nella filosofia greca, e nello stesso tempo cerca
di convincere che Logos totale è proprio il Cristo predicato dal cristianesimo. Possiamo dire
che Giustino inizia il processo che conosciamo come ellenizzazione del cristianesimo.
Giustino difende i cristiani dall’accusa dell’ateismo dicendo che essi adorano Dio, creatore
dell’universo, ineffabile e ingenerato (agénnetos). Questo Dio ha un Figlio, il suo Logos, per
mezzo del quale ha creato il mondo. Rispetto al Padre che è ingenerato, il Verbo è “generato”,
ma non come le creature.

Nel “Dialogo con Trifone” Giustino discute del cristianesimo con un interlocutore ebreo
fittizio, tale Trifone, per dimostrare in particolare che il culto di Gesù non mette in
discussione il monoteismo.
Leggiamo in questa opera che Figlio “è generato da Dio in modo speciale e diverso dalla
creazione comune” (61). Si tratta della generazione intellettuale, non fisica.
“Come principio prima di tutte le creature Dio ha generato da se stesso una potenza
razionale (logiken dynamin), che lo Spirito Santo chiama ora Gloria del Signore, ora Figlio.
[…] I vari appellativi infatti le vengono dal fatto di essere al servizio della volontà del Padre e
di essere stata generata dalla volontà del Padre” (61).

Allora, il processo di questa generazione intellettuale, razionale non è un processo cieco in


quanto deriva dal volere del Padre. Però in questa espressione è una equivocità. Cosa vuol
dire “dalla volontà”? Dio Padre avrebbe potuto non voler generare Figlio? Manca qui una
chiara affermazione che la generazione del Figlio appartiene all’essenza del Padre e come tale
non è una decisione contingente.
Si potrebbe dire che il Dio Padre vuole da sempre il Figlio e da sempre lo genera. L’amore del
Padre è libero. Poi, in Dio non c’è nessuna contraddizione tra libertà e necessità.
Dio è come vuole essere, e vuole essere come è.

Giustino cerca qualche analogia con la nostra esperienza:


“Quando infatti proferiamo una parola, noi generiamo una parola, ma non per amputazione,
sì che ne risulti sminuita la facoltà intellettiva che è in noi. Parimenti vediamo che da un
fuoco se ne produce un altro senza che ne abbia detrimento quello di cui si è operata
l’accensione. […] Me ne darà testimonianza il Verbo della Sapienza, poiché è lui questo Dio
generato dal Padre di tutte le cose” (61).

Nell’ultima frase la potenza razionale generata da Dio viene identificata con la sua Sapienza.
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Poi, con la metafora del fuoco Giustino indica l’unità del Padre e del Figlio, ma d’altra parte
sottolinea la loro diversità (il Figlio non si confonde con il Padre che lo genera):
“questa potenza […] non si distingua solo dal nome, come la luce del sole, ma sia
numericamente distinta”.

In questo modo Giustino insiste sulla distinzione delle persone.

L’uso che Giustino fa del concetto di Logos lo apre al dialogo con il mondo pagano, ma
d’altra parte crea un rischio di portare alla rilettura di Cristo nella chiave platonica del Logos
demiurgo, secondo e mezzo Dio. Demiurgo era infatti un mediatore cosmogonico tra il mondo
mutevole e Dio immutabile. Per Giustino l’epifania del Padre in persona è impossibile perché
il Padre è ineffabile e infinito. E da qui non è lontano ad una certa subordinazione del Logos
rispetto al Padre, in quanto suo strumento (mediatore).

Per quanto riguarda lo Spirito Santo Giustino non sviluppa una teologia come al riguardo di
Cristo. Parla dello Spirito nella prospettiva economica. Lo Spirito ha agito nella vita dei
profeti e soprattutto nella vita di Gesù (incarnazione, battesimo), e poi agisce come effuso sui
cristiani.

Nei scritti di Giustino troviamo le diverse formule trinitarie, tra i quali da notare sarebbe
questa dalla prima Apologia 13,1-3:
“Noi onoriamo il Creatore di tutte le cose. […] onoriamo Gesù Cristo che è per noi maestro di
queste cose e che per questo motivo è stato generato, […] riconosciuto che è Figlio di colui
che è Dio e lo poniamo al secondo posto, mentre al terzo poniamo lo Spirito profetico”.

Ecco, di nuovo isotimìa – uguaglianza degli onori e nello stesso tempo un ordine. Questo
ordine, però, provocava le diverse interpretazioni sbagliate.
Non è cronologico, non diminuisce la divinità del Figlio e dello Spirito.

Guardando gli sforzi dei primi secoli per mantenere la divinità del Figlio e nello stesso tempo
il monoteismo si deve notare che – come abbiamo già menzionato – il termine stesso “Dio”
non era univoco, non soltanto nella filosofia greca, ma anche nella Bibbia. Abbiamo già
notato che nel N.T. “Dio” (Theos) viene scritto con articolo “ho” oppure senza di esso.
Nel Prologo di Giovanni del Dio Padre si dice “ho Theos”, e del Verbo invece che è Dio si
dice senza articolo “Theos”.

Filone di Alessandria (morto ca 50) poteva dire che Logos è Dio ma non nel senso assoluto,
Logos sarebbe Dio in modo relativo. Filone aggiunge che si può descrivere Logos come Dio,
perché a Dio Altissimo nel senso stretto non quadra nessun termine – Lui è senza nome.
Allora se poi i pensatori cristiani dicevano che il Verbo era Dio questo non doveva significare
in maniera univoca che il Verbo è uguale e coeterno al Dio Padre. Con questo problema
avremo a che fare nella nostra rassegna dei primi teologi cristiani.
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2.2 La generazione del Logos secondo Taziano

Nato in Siria verso il 120, ebbe l'educazione di un filosofo o di un retore greco. Intorno


al 150, attratto dalla religione cristiana si convertì unendosi alla comunità di Roma, dove
divenne un seguace di Giustino. Più tardi (circa 172) cadde nell’apostasia e divenne
uno gnostico. Mori dopo il 172.

Giustino sottolineava che il Padre non si è diminuito generando il Figlio. Taziano riprende
questo pensiero e cerca anche dimostrare che la generazione non vuol dire una separazione in
Dio (cioè Cristo non è un altro Dio).

Il testo principale sul mistero trinitario lo troviamo nell’apologia “Ai greci” (5):

“Per volere della semplicità della natura di Dio, ebbe origine il Logos. Il Logos che non è
venuto invano, è l’opera primigenia del Padre. Questo sappiamo essere il principio del cosmo
che esistette secondo distribuzione, non secondo scissione. Ciò che è stato scisso è separato
dal primo, ma ciò che è distribuito e che ha procurato la distribuzione dell’economia non ha
causato imperfezioni a colui dal quale deriva. Come da una sola torcia si accendono molti
fuochi e la prima torcia non è scemata di luce a causa dell’accensione di molte torce, così
anche il Logos originato dalla potenza del Padre, non rende privo di Logos colui che lo
ha originato”.

La metafora del fuoco già conosciamo da Giustino. Taziano usa il concetto di “distribuzione”
(partecipazione) – in opposizione al concetto di “scissione” – per sottolineare che non si tratta
di una divisione fisica e che il Padre non rimane mai senza ragione, e che d’altra parte il
Logos non è mai separato dal Padre.

Taziano parla anche dello Spirito di Dio. Lo Spirito abita negli uomini, ma Taziano non parla
del ruolo dello Spirito nella vita intradivina.

2.3 Atenagora - l’unità e la distinzione in Dio

Atenagora fu un filosofo cristiano ateniese di cui non si conosce la storia della vita. Si
suppone sia stato decapitato alla fine del II secolo.

All'imperatore Marco Aurelio e a suo figlio Commodo, Atenagora indirizzò, nel 177,
un'apologia del cristianesimo intitolata Supplica per i cristiani, considerata tra le migliori
apologie per purezza ed eleganza di stile, chiarezza e ortodossia di idee.
In essa scrive chiaramente (n. 10):

“… noi non siamo atei, poiché ammettiamo un Dio unico, increato, eterno, invisibile,
impassibile, incomprensibile, immenso […]; da lui l’universo intero è stato creato per mezzo
del suo Verbo ed è ordinato e governato. Riconosciamo anche un Figlio di Dio. E non mi si
reputi cosa ridicola che Dio abbia un Figlio. Infatti ben diversamente da come favoleggiano
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i poeti che mettono in scena degli déi per nulla migliori degli uomini, noi la pensiamo
riguardo a Dio Padre e riguardo al Figlio. E il Figlio di Dio è il Verbo del Padre in idea e atto,
perché a sua immagine e per mezzo suo tutto fu fatto, essendo il Padre e il Figlio una cosa
sola. Il Figlio invero è nel Padre e il Padre è nel Figlio per unità e potenza di spirito, per cui
veramente il Figlio di Dio è Mente e Verbo del Padre. E se, per l’eminente vostra intelligenza,
voi desiderate indagare che cosa significhi la parola “Figlio”, ve lo dirò brevemente. E’ il
primo che ha origine dal Padre, non nel senso che sia prodotto (dal principio infatti Dio,
essendo mente eterna, aveva in se stesso il Verbo, poiché egli è eternamente razionale), ma
nel senso che, mentre tutte le cose materiali erano simili a materia informe e terra immota,
mescolate le cose più dense con quelle più leggere, egli procedette per essere su di esse
modello e operazione. […] In verità noi diciamo che anche lo stesso Spirito santo che
opera nei profeti è un effluvio di Dio; egli emana e ritorna come raggio di sole. E chi non
rimarrebbe stupito nel sentire chiamare atei coloro che professano Dio Padre e Dio Figlio e lo
Spirito Santo, dimostrando non solo la potenza dell’unità ma anche la distinzione
nell’ordine” (Atenagora, Supplica per i cristiani, a cura di G. Pierangelo, Edizioni Paoline,
1965, n. 10).

E da sottolineare una prova di distinguere i piani del parlare dell’unità di Dio e della
distinzione dei Tre. L’unità è vista nella prospettiva della potenza; la distinzione nell’ordine
(taxis).
Il Padre e il Figlio vengono chiamati Dio, lo Spirito invece no.

Sull’unione e distinzione leggiamo anche in “Supplica per i cristiani”, 12:

“A noi invece, uomini per i quali la vita presente è di breve durata e di poco conto, uomini che
siamo trascinati dal solo desiderio di vedere il vero Dio e il verbo che procede da lui, di
contemplare quale sia l’unità del Figlio con il Padre, quale la comunicazione del Padre con il
Figlio, che cosa sia lo Spirito, quale sia l’unione di così grandi realtà e la distinzione di essere
così uniti, dello Spirito, del Figlio e del Padre; […] a noi dunque che siamo tali e che viviamo
una tale vita per sfuggire la condanna del giudizio, non si dà credito di essere pii?”

Ecco, si vede in questo brano la fede che fa dei sforzi per trovare le parole giuste.
Atenagora espone le questioni principali – unione e distinzione – è qui che nasce la dottrina
trinitaria.
E’ da sottolineare il desiderio di contemplare i Tre nella loro unione e distinzione. Il desiderio
dell’amore. Voglio conoscere per amare.

2.4 Teofilo di Antiochia – distinzione tra due stadi del Logos preesistente

Teofilo nacque, forse intorno all’anno 120. Si convertì al cristianesimo in età adulta. Nel 169
fu eletto vescovo di Antiochia e governò la chiesa fin dopo il 180, cioè dopo la morte di
Marco Aurelio, e probabilmente fino al 185.
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L’unica sua opera pervenutaci è Ad Autolico (o I tre libri ad Autolico), in cui Teofilo
riferisce tre colloqui con il pagano Autolico che lo aveva rimproverato di essersi convertito
al cristianesimo.

Teofilo è il primo fra gli scrittori ecclesiastici ad usare nei confronti della divinità la
parola Τριας (poi tradotto in lat. trinitas) per designare il Padre, il Figlio e lo Spirito
E’ da precisare che il primo ad usare il termine “trias” era probabilmente Teodoto di Bisanzio,
però in un suo testo gnostico:

“I tre giorni che precedono la creazione dei luminari sono simbolo della Trinità, di Dio, del
suo Verbo e della sua Sapienza” (Ad Aut., 2,15).

Sapienza qui si riferisce non al Figlio, ma allo Spirito.

La cosa più interessante in Teofilo è la distinzione tra due stadi del Logos preesistente: il
Logos endiáthetos (il Verbo immanente, nel seno del Padre) e il Logos prophoricós (il Verbo
pronunciato, quando Dio lo genera per creare il mondo per mezzo suo):

“Il Verbo è sempre immanente nel cuore di Dio. […] E quando Dio volle creare quanto
aveva deliberato, generò questo Verbo come proferito, primogenito di tutta la creazione,
senza privarsi del suo Verbo e conversando sempre con lui” (Ad Aut, 2,22).

L’idea già presente in altri apologeti – la generazione vista nella prospettiva della creazione.

Ladaria scrive che in questo modo Teofilo salva l’eternità del Logos divino e nello stesso
tempo elimina la difficoltà che prima della generazione Dio fosse senza ragione.

Antonio Staglianò e più scettico.


“Anche per lui [Teofilo] – scrive Staglianò – si deve dire che non è affermata senza equivoci
subordinazionisti [il Figlio è minore del Padre] il rapporto tra Verbo interiore e Verbo
pronunciato, la relazione tra il procedere immanente ed eterno del Figlio dal Padre e la sua
«fuoriuscita» esterna «quando» il Padre volle creare il mondo. In generale si deve annotare
cha la teoria dei due modi di esistenza del Logos ha un legame particolare con il
subordinazionismo” (Il Mistero del Dio vivente, Bologna 1996, p. 227, nota 18).

George Prestige nel libro “Dio nel pensiero dei Padri”, p. 141 scrive:
“Si pensava che nell’eternità egli [il Figlio] fosse inespresso e immanente nell’essere del
Padre così come il pensiero e la ragione sono nella mente; ma nell’atto della creazione, di cui
egli è l’agente, egli sarebbe promanato dalla mente divina acquistando una forma
d’espressione esteriore, come quando un pensiero si manifesta in parole. Questa speculazione
ha un importanza rilevante per il subordinazionismo poiché, se veniva usata da pensatori non
ortodossi, poteva facilmente servire per sostenere l’opinione che il Lógos fosse stato
impersonale (semplice attributo di Dio) fino a quell’istante del tempo storico in cui era
proceduto dal Padre nell’atto della creazione”.
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Facciamo un breve sommario del contributo degli Apologisti alla dottrina trinitaria.
1. Gli apologisti hanno sviluppato soprattutto la dottrina del Logos andando al di là del
prologo di Giovanni.

2. Cercavano di spiegare la generazione del Logos in modo spirituale (intelettuale) evitando le


immagini troppo antropomorfiche.

3. Il problema consiste in poca chiarezza per quanto riguarda l’eternità della generazione
(rischio di subordinazionismo). La generazione viene vista nella prospettiva della creazione.
Prima sembrava di “non esssere necessaria”.

4. Non sviluppano tanto la teologia dello Spirito Santo (Atenagora pone lo Spirito accanto al
Padre e al Figlio nella vita divina-trinitaria).

3. “Due mani di Dio” nell’insegnamento di Ireneo di Lione

Ireneo di Lione naque tra il 135 e il 140 a Smirne, fu discepolo di Policarpo. Si trasferì nella
Gallia, a Lione di cui divenne vescovo. Morì tra il 202 e il 203. Egli è considerato il
fondatore della teologia cristiana. Il suo programma, però, è pratico: difendere la verità contro
la falsa gnosi. Alle speculazioni gnostiche Ireneo oppone ciò che chiama regula veritatis e
che poi sarà chiamato “simbolo della fede”.

Nella “Dimostrazione della predicazione apostolica” (n. 6-7) Ireneo sviluppa i primi tre
articoli della fede:

“Ecco l’ordine della nostra fede, il fondamento dell’edificio e la base della nostra condotta.
Dio Padre, increato, incircoscritto, invisibile, unico Dio, creatore dell’universo. Tale è primo
e principale articolo della nostra fede.
[tale affermazione è contro gli gnostici e la loro idea di una contrapposizione tra Dio buono
del N.T. e Dio severo del A.T. – Marcione di Sinope, e poi Mani].
Il secondo è: il Verbo di Dio, Figlio di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, è apparso ai profeti
secondo il disegno della loro profezia e secondo il modo disposto dal Padre; per suo mezzo è
stato creato l’universo. Inoltre «alla fine dei tempi» per ricapitolare ogni cosa si è fatto uomo
tra gli uomini […].
Come terzo articolo: lo Spirito santo, per virtù del quale i profeti hanno pronunciato le loro
profezie […]; alla fine dei tempi è stato effuso in modo nuovo sull’umanità per tutta la terra
rinnovando l’uomo per Iddio. […]
Senza lo Spirito santo non si può vedere il Verbo di Dio e senza il Figlio nessuno può
accostarsi al Padre, perché il Figlio è la conoscenza del Padre e la conoscenza del Figlio
avviene tramite lo Spirito santo”
(a cura di E. Peretto, Borla, Roma 1981, pp. 72-78).
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Ecco, il fatto che non possiamo conoscere il Padre senza il Figlio e il Figlio senza lo Spirito
implica unità dei Tre.

Nonostante tali affermazioni Ireneo non è arrivato a una consostanzialità ben espressa tra
entrambi. Si vede da lui una certa “subordinazione” del Figlio al Padre, ma a quell’epoca
nessuno ancora ha proposto una terminologia che potrebbe evitare questo dubbio.
Ireneo è troppo legato alla prospettiva puramente economica e questo non gli permette di
arrivare a una espressione adeguata dell’uguaglianza nella divinità dei Tre.
Ireneo non segue gli Apologisti negli sforzi di esprimere le relazioni dei Tre, soprattutto del
Padre e del Figlio, all’interno della vita divina.

Ireneo legge in chiave trinitaria sia la redenzione dell’uomo, sia la creazione del mondo.

Facendo un riferimento al Gen 1,26 (Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra


somiglianza) Ireneo in Adversus Haereses (Contro le eresie, IV) parla del Padre e delle sue
due mani – il Figlio e lo Spirito (famosa espressione di Ireneo).

Questa espressione viene ripresa dal CCC (n. 292) nel capitolo intitolato: La creazione –
opera della Santissima Trinità:
“Non esiste che un solo Dio…: egli è il Padre, è Dio, Il Creatore, l’Autore, l’Ordinatore. Egli
ha fatto ogni cosa da se stesso, cioè con il suo Verbo e la sua Sapienza, per mezzo del Figlio e
dello Spirito, che sono come le sue mani”.

Le funzioni di queste due mani sono diverse. Lo Spirito si riferisce alla somiglianza, cioè la
sua opera è quella di assimilare a Dio Padre. Il Figlio invece è immagine, paradigma della
creazione. Lo Spirito perfeziona nell’ordine della grazia l’opera del Figlio. Il Figlio realizza
l’economia del Padre in modo diretto, lo Spirito invece porta l’uomo creato a immagine di
Dio al suo compimento, cioè alla somiglianza divina.
D’altra parte – come leggiamo in Adversus Haereses, IV: lo Spirito
“prepara l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà
l’incorruttibilità per la vita eterna”.

Allora vediamo in Ireneo – come lo indica Nicola Ciola –


“doppio movimento trinitario, uno discendente che inizia dal Padre, attraverso il Figlio per
raggiungere lo Spirito Santo comunicato a noi e un movimento ascendente che dallo Spirito
che abita in noi, attraverso il Figlio ritorna al Padre. Le funzioni salvifiche della Trinità non
furono per lui soltanto descrizione ma anche sforzo di spiegazione riflessa della Trinità, la sua
dottrina delle due mani di Dio (Figlio e Spirito) ne è una riprova. Pur non rilevando in lui una
riflessione sull’origine eterna del Figlio e dello Spirito, ha sempre presente la loro distinzione
rispetto alla creazione e alla storia” (N. Ciola, Teologia trinitaria, 54-55).
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4. I primi sistemi delle eresie trinitarie: adozionismo e modalismo

Abbiamo parlato del pericolo del subordinazionismo. Si accentuava molto l’unità di Dio e
questo va bene, ma a volte si faceva questo in modo tale da indebolire la verità sui Tre
distinti, ma uguali, in Dio. In conseguenza, il Padre veniva presentato come Dio vero ed
eterno e gli altri Due come in qualche modo subordinati.

I diversi esponenti di questa tendenza sono stati chiamati “monarchiani” (da mónos – unico,
solo, e arché – origine, signioria).
E’ stato Tertuliano a usare per primo questo concetto.
Attenzione! Il principio senza principio (monarca) sarebbe il Padre, e questo è vero (un
monarchianismo ortodosso), ma si sviluppava questa verità nelle direzioni eterodosse
negando la vera divinità del Figlio.

Le correnti eretiche del monarchianismo si sono sviluppate in due direzioni: adozionista e


modalista.

La prima corrente, l’adozionismo, chiamata anche monarchianismo dinamistico (dynamis –


energia) ispirandosi sostanzialmente alla filosofia platonica dell’epoca, interpretava la
seconda persona della Trinità in chiave demiurgica. Alcuni consideravano la persona di
Gesù Cristo un angelo, altri un uomo, comunque adottato da Dio, mediante la discesa dello
Spirito in lui al momento del battesimo. In altre parole, Gesù di Nazareth era dotato di una
particolare energia divina, era stato adottato come Figlio di Dio, diventando un uomo
superiore senza però diventare Dio.
In questo modo si negava la divinità di Gesù, perché si diceva che non ci potevano essere due
déi o due divinità.

Gli esponenti del monarchianismo dinamistico (adozionismo) sono p.es. Teodoto di Bisanzio
che insegna a Roma (intorno al 190), a poi – più tardi – il vescovo Paolo di Samosata che
insegna nell’Oriente greco (verso il 260) che il Logos come energia divina è entrato con
l’uomo Gesù in una connessione esteriore. Paolo chiamò il Logos-energia homousios (della
stessa sostanza) con Dio Padre. Concetto rigettato dal sinodo di Antiochia nel 269 – poi
accettato ma con altro significato dal Concilio di Nicea.

La seconda eresia, il modalismo (modus – genere e modo), riduceva Gesù Cristo ad un


modo diverso di manifestarsi dello stesso Dio, per cui in Dio non c’erano tre persone, ma
modi diversi di apparire dell’unico Dio. Allora i Tre sarebbero soltanto i modi di apparire
(maschere) dell’unico solo Dio.

Alcuni sostenevano che a soffrire sulla croce non fosse stata la seconda persona della Trinità,
ma lo stesso Dio Padre.
Perciò questa eresia fu chiamata patripassianismo (il Padre ha sofferto – non nel senso
presentato p.es. dalla Trinità di Masaccio, ma che il Padre in persona è stato crocifisso).
12

Il Papa Zefrino (198-217) respinse il patripassianismo affermando chiaramente che “non è


morto il Padre, ma il Figlio” (DH 105).
In questa corrente del modalismo possiamo elencare i pensatori come Noeto (insegnva a
Smirne nel II/III sec.), Prassea (Roma, l’inizio del III sec.) e Sabellio (Roma, l’inizio del III
sec.).

Dal nome di Sabellio si parla del sabellianismo e dei sabelliani che affermavano:
“Padre, Figlio e Spirito Santo sono soltanto differenti caratterizzazioni (onomasíai) e modi
diversi di apparire (prósopa – [persona, ma qui maschera]) della divinità, ma non differenti
persone. La divinità […] è Padre in quanto legislatore nell’Antico Testamento, è Figlio in
quanto redentore dall’incarnazione fino all’ascensione e, a partire da questa, è Spirito Santo
nella santificazione delle anime. I modi di manifestarsi sono transitori: La Divinità smette di
essere Padre con l’incarnazione, e smette di essere Figlio con l’ascensione. Di conseguenza
non c’è in lei una trinità simultanea: è trina solo per noi, cioè solo nell’ordine della
oikonomía” (H. Vorgrimler, Dottrina teologica su Dio, Brescia 1989, 112n).

Sabellio chiamava Dio “Padre-Figlio” (hyiopator).


Il Papa san Dionisio (259-268) condannò Sabbelio affermando:
“Questi infatti bestemmia dicendo che il Figlio stesso e il Padre e viceversa” (DH 112).

E’ un particolare interessante che secondo san Ireneo la gnosi monarchiana (del tipo
modalista) prende il suo inizio dal Simone il mago conosciuto dal cap. 8 degli Atti degli
Apostoli. Secondo Ireneo, Simone avrebbe insegnato:
“tra gli Ebrei appare Dio Padre, ma in Samaria lui è sceso dal cielo come il Figlio di Dio, alle
altre nazioni invece è arrivato come Spirito Santo. In realtà Dio è un solo e lo stesso Potere
Altissimo”.

5. La concezione trinitaria di Tertulliano

Tertulliano nacque a Cartagine  intorno al 155.  Avendo quasi 40 anni si convertì al


cristianesimo. Nell’ultimo periodo della sua vita adottò posizioni religiose molto intransigenti
e nel 213 aderì alla setta religiosa dei montanisti. Morì dopo il 220.

La questione della Trinità è presente nei diversi scritti di Tertulliano ma nel modo più
approfondito essa viene trattata in “Adversus Praxean [Prassea]” (citiamo dall’edizione a cura
di G. Scarpat), opera scritta già nel periodo montanista di Tertulliano, cioè quando ha già
lasciato la Chiesa cattolica.
Però per quanto riguarda il mistero trinitario il montanismo non aveva nessuna influenza su
Tertulliano e la sua dottrina trinitaria è ortodossa, anzi aveva un gran importanza per lo
sviluppo del dogma trinitario. In polemica con Prassea Tertulliano introduce un serie di
termini filosofici nella riflessione trinitaria.

Nella teologia di Tertuliano appare in modo maturo, elaborato (non come in Teofilo di
Antiochia) il termine trinitas.
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“trinitas unius divinitatis, Pater et Filius er Spiritus sanctus” (trinità del Dio uno…) – De
pudicitia, 21.

Tertulliano conferma chiaramente la regola della fede cristiana che parla dell’unità del Padre,
del Figlio e dello Spirito, tra loro distinti. Allora parla della Trinità di una unica sola divinità.

Nel cap. 9 di Adversus Praxean troviamo le distinzioni abbastanza precise:

“Ecco, infatti, che io affermo essere altro (alius) il Padre e altro (alius) il Figlio e altro (alius)
lo Spirito – affermazione che mal intende chiunque, incompetente o disonesto, che ciò
comporti una diversità (diversitas) e che dalla diversità derivi una separazione (separatio)
del Padre e del Figlio e dello Spirito, mentre io devo necessariamente farla, perché questi (i
modalisti) sostengono che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono la stessa cosa […]; e
tuttavia altro il Figlio dal Padre, non sulla base di una diversità (diversitas), ma di una
distribuzione (distributio) [Taziano], altro non sulla base di una divisione (divisio) ma di una
distinzione (distinctio)…”.

Ecco, Tertulliano cerca dei concetti adatti per evitare due estremi – modalismo e triteismo. In
ogni caso, i concetti che usava non erano ben definiti e chiari. Si può dire che oggi non è tanto
diversamente.

I Tre in Dio Tertulliano li definisce come persone e ci dà una formula trinitaria che rimane
nella teologia successiva:
tre persone di una sola divinità (tres personae unius divinitatis).

Tre persone sono tre soggetti e non solo tre modi del manifestarsi. Allora l’unità di Dio viene
con successo legata al concetto di sostanza e la pluralità divina al concetto di persona.

Tertuliano dunque introduce il termine “persona” alla dottrina trinitaria


E’ da notare che il concetto di “persona” non era per niente univoco.
Il significato originario del greco prósopon e del suo equivalente latino persona è “ciò che
capita sotto gli occhi”, e da questo deriva volto, figura visibile dell’uomo. Con questa parola
si indicava il ruolo di un attore, la maschera nel teatro. Poi, in epoca ellenistica prosopon
designa l’individuum che è inserito in una comunità. Nei LXX (Septuaginta) prosopon
ricorre più di 850 volte come traduzione dell’ebraico panim, cioè volto, e in particolare il
volto di Dio (cfr. G. Greshake, Il Dio Unitrino, Brescia 200, p. 81).
Seneca usava il termine “persona” nel senso di un uomo concreto in distinzione dal
significato generale della parola latina “homo”. Però il termine “persona” sembrava di essere
troppo debole per poter indicare “personalità”.

Nonostante ciò Tertulliano ha preso questo termine e l’ha riempito con un significato
teologico dando una spinta alla stupenda carriera di esso. In “Contro Praxean” Tertulliano usa
il termine “persona” 33 volte, in altri scritti invece più di 100 volte.
14

Tertulliano difende la Trinità (tre persone distinte).


Come invece spiega l’unità e l’unicità di Dio?

Da un lato Tertuliano dice che il Figlio è Dio ex unitate Patris, dall’unità del Padre.
D’altra parte dice che il Figlio è Dio ex unitate substantiae, dall’unità della sostanza.

E da notare, però, che quando Tertuliano parlava del Figlio ex unitate substantiae pensava
probabilmente della sostanza del Padre. Allora il Padre è il fondamento dell’unità.

Poi, Tertulliano scrive:


tres unum sunt, non unus – si potrebbe tradurre: “i tre sono una sola cosa, non una sola
persona” (Adversus Praxean, 25,1).

Qui comincia un problema.


Appare una cosa, come se fosse un quarto elemento, apersonale. Anzi, in questo elemento
partecipano 3 persone.

Questa “sola cosa” viene chiamata sostanza. Da dove viene il concetto di sostanza
(substantia)? Seneca usava questo termine come traduzione del concetto greco “hypostasis”
nel senso di un fondamento. In comune si usava “sostanza” per indicare una proprietà, una
eredità. Nel II sec. “sostanza” veniva usato per tradurre non soltanto il termine greco
“hypostasis”, ma anche “ousia”, che a sua volta venivano trattate come sinonimi. “Sostanza”
significava anche: un contenuto di un libro, una verità oggettiva, l’essenza delle cose.

E’ da notare che le parole greche “hypostasis” e “ousia” avevano significato sia generale sia
individuale. In latino invece il termine “substantia” ha fissato il suo significato generale. Poi
questa mescolanza dei diversi significati delle parole greche e latine darà l’inizio alle
incomprensioni grandi.

Tertuliano dimostra l’unità e la distinzione in Dio facendo le diverse analogie trinitarie: Padre,
Figlio e Spirito sono come radice-arbusto-frutto oppure sorgente-ruscello-irrigazione oppure
sole-raggio-irradiazione (questa terza analogia avrà più successo).

L’approccio metafisico di Tertulliano non era sufficiente per non cadere nel pericolo del
subordinazionismo. Tertuliano rimane legato all’economia. Per lui il Figlio e lo Spirito si
distinguono dal Padre, ma ricevono una sussistenza propria per la loro missione in rapporto
alla creazione e alla storia della salvezza, non grazie a una loro specifica esistenza eterna. In
altre parole, la generazione del Figlio e la spirazione dello Spirito rimangono in Tertuliano
legate alla creazione del mondo e non alla vita eterna della Trinità.

In “Adersus Praxean” 5,2 leggiamo che prima della creazione Dio era solo, era il mondo per
se stesso, il posto, il tutto. Era solo poiché non esisteva niente altro, esterno. Ma anche in
quel momento non era completamente solo; era con Lui la Ragione, che aveva in se
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stesso, ovviamente la sua Ragione. Poiché Dio è razionale e la Ragione era in Lui prima. In
questo modo tutto proviene da Lui.
Però, è da sottolineare che non siamo soli, se di fronte abbiamo un tu reale. La Ragione in
Dio, invece, non aveva delle caratteristiche di un Tu.

Il ragionamento di Origene ci fa vedere la vecchia difficoltà. Il Logos viene visto nella


prospettiva della creazione. Prima della creazione in Dio esiste eternamente la possibilità di
generare il Verbo, cioè la razionalità, però la razionalità non si distingue dalla persona
razionale. Allora non si può parlare dei due soggetti (il Dio Padre e il Verbo) prima della
creazione. Da tutto ciò risulta che Dio era solo e la Trinità come tre soggetti distinti della
divinità doveva avere un inizio.
Ipoteticamente se il mondo non fosse stato creato la Trinità non avrebbe esistito. La
posteriorità del Figlio assume nel pensiero dei primi tre secoli una connotazione temporale.
D’altra parte, non si capiva perché il Figlio avrebbe dovuto esistere dall’eternità, prima della
creazione, se allora non avesse avuto nessuna missione da compiere.
Tertulliano dice esplicitamente che il Figlio e lo Spirito sono “inferiori” al Padre, in quanto
non sono né a lui coeterni né uguali.
Dunque, la sua formula, tre persone, una sostanza, non significava esattamente lo stesso che
oggi.

Battista Mondin fa notare che alcuni teologi cercano di giustificare Tertulliano e dimostrano
che lui non entra nel subordinazionismo. Lo fanno riportando la creazione sul piano
dell’eternità (una creazione ab aterno). Il Figlio è generato in prospettiva della creazione, ma
la creazione è eterna.
In questo caso la processione del Figlio avrebbe il suo luogo nell’eternità, dunque il Figlio
sarebbe eterno nella stessa misura come Dio Padre. Tertulliano stesso però nega l’eternità
della creazione.

Si pongono qui delle domande:


Il tempo ha o no un inizio? Quale è la relazione tra l’eternità e l’idea del tempo infinito?
Dio comincia ad essere il Creatore soltanto con la creazione del mondo?

Notiamo che il mondo non è eterno come Dio, e che prima della creazione non esisteva il
tempo, allora il mondo è eterno in questo senso che esiste dall’inizio del tempo, anzi insieme
al tempo. Il tempo stesso è stato creato.
Però si può parlare della creazione nel senso dell’idee divine eterne.
Guarda Ef 1,3ss – Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo.

La nozione dell’eternità (gr. aion, lat. aeternitas, seaculum) non era univoca. Così che si
poteva parlare p.es. dell’eternità del Logos in Dio ma questo non doveva significare che
Logos è coeterno a Dio. L’espressione “dall’eternità” poteva essere compresa nel senso –
dalla creazione del mondo e del tempo.
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6. L’eternità del Logos secondo Ippolito di Roma.

Ippolito di Roma (II/III sec.) fu un teologo e scrittore cristiano. E’ stato il primo antipapa
della storia della Chiesa ma prima della morte si riconciliò col papa legittimo, Ponziano,
insieme al quale subì il martirio.

La sua opera principale che ci interessa è “Contra Noetum”. Anche Ippolito – come
Tertulliano – parla della solitudine di Dio, di un Dio solo:
“Non esisteva niente tranne Lui, Lui invece era solo, ma era molteplice. Non era privo né di
Logos, né di sapienza, né di potenza né di volontà”. Tutto era in lui, e Lui era il tutto”.

Per passare dall’unità di Dio compresa in questo modo alla Trinità si doveva avere delle
categorie per distinguere la sequenza degli avvenimenti: nell’eternità, all’inizio, nel tempo.

Secondo Ippolito – come scrive Ladaria -


“In origine Dio [Padre] è solo, nulla è a lui coevo, crea perché vuole e, ugualmente, genera
il Logos di sua volontà, anche se dalla propria sostanza.. In un primo momento il Logos vive
nel cuore del Padre; c’è un’unita di Dio e in Dio, una distinzione indivisa del Padre e del
Figlio. […] «Di sua volontà Dio proferisce il Logos personale e mediante il Logos crea poi il
mondo»”
(L. Ladaria, Il Dio vivo e vero, Cinisello Balsamo 2012,198).

Si potrebbe dire che in origine non esiste in Dio la vera relazione Io – Tu. Esiste solo Io. Il Tu
(Logos) esiste in un germe, nel seno del Padre.

Ippolito fa notare una relazione tra la processione eterna del Logos e la generazione umana
del Figlio, da Maria. La prima nascita è orientata alla seconda e tutte e due hanno luogo
quando Dio lo vuole. Questo volere del Padre non separa il Logos, e poi il Figlio dal Padre.
Dunque Dio e il Logos non sono due dèi ma si distinguono come luce dalla luce, il raggio dal
sole (le metafore già conosciute).

Ippolito applica il termine “prosopa” (scriveva in greco) al Padre e al Figlio. Ma non lo fa


nei confronti dello Spirito di cui generalmente parla poco. Menziona invece la “trias”. Il
concetto di “prosopon”, usato da Ippolito, non ha fatto una carriera all’Oriente come
“persona” all’Occidente.

7. Il mistero trinitario secondo Origene

Nato in Egitto nel 185 da genitori cristiani di lingua greca, morì nel 253 o 254.
Origene era il più famoso teologo cristiano prima del concilio di Nicea.

Origene è riuscito come primo nella Chiesa dimostrare che il Figlio è coeterno a Dio.
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Abbiamo visto che gli altri autori prima parlavano della generazione del Figlio, cioè della
paternità e della figliolanza in Dio, piuttosto in prospettiva della creazione del mondo e della
missione salvifica di Gesù.

Il ragionamento di Origene è semplice e nello stesso tempo convincente.


Se Dio è immutabile – dice Origene – allora non poteva diventare Padre in un momento del
passato. E’ dall’eternità che è il Padre. Ma cosa vuol dire che è il Padre dall’eternità. Questo
vuol dire che ha il Figlio dall’eternità, cioè il Figlio è coeterno, perché non c’è il Padre senza
un Figlio.

Poi, Origene scrive che il Figlio è la Sapienza sostanziale di Dio e Dio non può esistere senza
Sapienza.

Nell’opera “I principi” I,2,2 leggiamo:

“Crediamo che Dio è da sempre il Padre del suo unigenito Figlio, senza nessun inizio, né
l’inizio che si dà descrivere nel tempo né l’inizio che si può immaginare soltanto nella
ragione, per così dire, notare soltanto nella mente e nell’anima”.

E poi:
“E come uno, che abbia coscienza di pensare rettamente di Dio, può supporre che un tempo,
anche un solo istante, Dio sia stato privo della sapienza da lui generata? Infatti dovrebbe
dire o che Dio non l’ha potuta generare prima del momento in cui l’ha generata, sì che egli
avrebbe generato e tratto all’essere in un secondo tempo quella che prima non esisteva;
ovvero che Dio la poteva generare, ma – e neppure questo è lecito dire di lui – non ha
voluto. Ma a tutti è chiaro che ambedue le ipotesi sono insensate ed empie: cioè, o che Dio
da una condizione di impotenza abbia progredito fino a potere; o che, pur potendo, abbia
trascurato e differito di generare la sapienza. Perciò noi riconosciamo che Dio è sempre Padre
del Figlio suo unigenito, che da lui è nato ed e tratto il suo essere, tuttavia senza alcun
momento d’inizio, non solo quello che si può determinare cronologicamente, ma neppure
quello che la mente può immaginare da sé […] E Giovanni si esprime in forma più alta e
magnifica all’inizio del suo vangelo, definendo con proprietà e precisione la parola di Dio: E
la parola era Dio ed essa era all’inizio presso Dio (Io., I, I seg.). E allora guarda se colui che
attribuisce un inizio alla parola ed alla sapienza di Dio, non riversa ancor più la sua
empietà proprio sul Padre ingenerato, poiché nega che egli sempre sia stato padre ed
abbia generato la parola ed abbia avuto la sapienza in tutti i precedenti tempi e secoli e in
qualsiasi immaginabile realtà” (Origene, I Principi, I, 2-3, cit. dalla trad. it. a cura di M.
Simonetti, Torino 1968, pp. 143- 145).

Poi, Origene ci dà un altro bel argomento – l’argomento della gioia divina

Se ci fosse stato un tempo – dice Origene – in cui Dio era senza il Figlio, Dio non avrebbe
potuto esistere eternamente nella gioia [sic!].
E Dio non è solitario e triste. Dio sta nella gioia eterna.
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“Né è lecito né privo di pericoli che a causa della nostra debolezza noi cerchiamo di privare
Dio della parola unigenita che esiste sempre con lui e che è sapienza di cui Dio si rallegrava
(Prov., 8, 30): altrimenti si dovrebbe pensare che egli non si sia sempre rallegrato” (Origene, I
Principi, IV, 4, 1).

Allora Il Figlio è generato dall’eternità. Ma in che cosa consiste la generazione?


La generazione del Figlio non consiste – sottolinea Origene – in una divisione della sostanza
divina. Dio è il Padre del Figlio come intelletto è il “padre” degli atti della volontà. Il Figlio
generato eternamente dal Padre ha tutto dal Padre e perciò è uguale al Padre.
Però il Padre è la causa del Figlio e perciò è più grande di Lui (ma potremmo dire che anche
il Figlio è la “causa” del Padre, perché non c’è il Padre senza il Figlio).

Origene dice che tutti e Tre in Dio sono uguali, ma dà una clausola che Dio Padre è la testa e
il principio della Trinità e come tale supera il Figlio e lo Spirito. Per Origene solo il Padre è
ho Theós, soggetto divino assoluto, autofondantesi. Però tali espressioni hanno un profumo
subordinazionista.

Per quanto riguarda lo Spirito Origene si poneva la domanda che ai suoi tempi rimaneva
aperta: (I Principi, 4) –
“non è chiaramente precisato se lo Spirito Santo sia generato o ingenerato; se anche lui
debba essere considerato figlio di Dio oppure no: tali questioni debbono essere approfondite,
per quanto è possibile sulla base della Sacra Scrittura”.

Qui tocchiamo la questione, quale è la differenza tra il Figlio e lo Spirito. Come questi Due si
distinguono nella vitta immanente di Dio?

La cosa certa è – dice Origene – che lo Spirito è increato:


“non c’è niente che non sia stato fatto tranne la natura del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo” (Principi IV,4,8).

Ecco, il modo del teologare di Origene (valido anche per noi) – prima si deve descrivere cosa
è stato già definito e chiarito, e cosa e in che misura è discutibile e aperto alle diverse ipotesi.
Nel discorso sulla Trinità Origene distingue i punti fermi, in qualche modo definiti dalla
Chiesa, da quelli tuttora oggetto delle discussioni.

Secondo Origene ciascuno dei Tre ha un suo campo proprio dell’agire:


I Padre è il creatore e il principio di tutte le cose, e governa tutto.
Il Logos è il principio di razionalità di tutti gli esseri spirituali.
Lo Spirito Santo che fa parte della Trinità avendo uguale dignità quanto al Padre e il Figlio,
opera la santificazione nelle creature (nei santi).
Queste sono appropriazioni, non riduzioni.
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Origene difende contro i modalisti la distinzione dei Tre in Dio. Scrive di tre “hypostasis”
(come Tertulliano delle tre persone):
“Quanto a noi, persuasi come siamo che esistono tre ipostasi, il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo, e crediamo che nessuna di esse, all’infuori del Padre, sia ingenita, riteniamo […] che
lo Spirito Santo abbia posizione preminente su tutto ciò che è stato fatto per mezzo del Logos
e sia appunto nell’ordine il primo degli esseri derivati dal Padre per mezzo di Cristo” (In Joh.,
II,10,75).

(ma rimane un profumo subordinazionista)

E’ proprio Origene a introdurre con successo “hypostasis” alle discussioni trinitarie. Il


termine “hypostasis” – come abbiamo già menzionato – non era univoco. Da un lato poteva
significare sostanza di una specie, p.es. umanità, dall’altro lato significava un uomo concreto.
Il doppio significato aveva anche il termine “ousia”.
Origene sottolineava che in Dio ci sono tre hypostasis distinti. L’unità di Dio la vedeva nel
Padre (nell’ousia del Padre data pienamente al Figlio e allo Spirito).

A. Staglianò scrive:
“Mancando della determinazione puntuale di un concetto ontologico specifico per dire
l’unità, l’affermazione antimodalista dei tre divini o delle tre ipostasi non poteva non
inoltrarsi sulle strade del subordinazionismo per non cadere nell’assurda eresia del triteismo”
(Il Mistero del Dio Vivente, Bologna 1996, p. 241).

8. La relazione tra il Padre e il Figlio secondo Novaziano

Vale la pena menzionare brevemente Novaziano (sacerdote romano, morto nel 260),
conosciuto come fondatore del movimento che si opponeva alla possibilità del perdonare ai
cosiddetti lapsi e di riceverli alla Chiesa)

Nel suo libro De Trinitate (XXX,192) Novaziano fa notare che il Figlio riceve la divinità dal
Padre, però poi il Figlio ridà tutto al Padre.
Novaziano parla di uno scambio reciproco. Allora il Figlio dipende dal Padre, ma anche il
Padre dipende in qualche modo dal Figlio.
Novaziano afferma che il Padre e il Figlio sono una cosa sola “per l’amore del Padre che ama
il Figlio, la concordia e la carità” (Trin 31, 184).
Allora abbiamo qui una traccia dell’idea che l’unione divina si spiega non in termini di
sostanza ma dell’amore reciproco.
Nel XX sec. si sono sviluppate delle metafisiche dell’amore che vedono il fondamento della
realtà non nell’essere, ma nell’Amore.

9. La controversia tra Dionigi di Roma e Dionigi d’Alessandria

Per concludere questa parte delle riflessioni storiche sulla storia del dogma trinitario vale la
pena riferirsi a una controversia che scoppiò tra il papa Dionigi (morto 268) e vescovo
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Dionigi d’Alessandria. Quell’ultimo era un discepolo di Origene, Dionigi di Roma invece si


ispirava di Tertulliano.

Dionigi d’Alessandria usava – come Origene – il termine “ipostasi” per parlare dei Tre in
Dio. Ma lo faceva in maniera tale che sembrava che negasse l’unità della Trinità e parlasse
delle tre divinità. La reazione all’insegnamento di lui è stato il Sinodo di Roma (ca. il 263) e
la lettera del papa Dionigi [DH 112ss].
Dionigi di Roma dice che c’è chi si trova al secondo estremo riguardo alle idee di Sabellio.
Mentre Sabellio dice che il Figlio è lo stesso che il Padre, e viceversa, c’è chi parla dei tre dei
e divide la santa Monade in tre ipostasi divise.
Ricordiamo che nel mondo latino ipostasi veniva a volte tradotta come sostanza.

Leggiamo un brano della lettera di Dionigi di Roma a Dionigi di Alessandria (DH 115):

“Dunque non si deve né dividere la mirabile e divina unità in tre divinità, né impedire
mediante una presunta produzione [creazione] il valore e la trascendente grandezza del
Signore [cioè, del Figlio]. Ma è necessario aver creduto in Dio Padre onnipotente, e in Cristo
Gesù suo Figlio, e nello Spirito Santo che il Verbo cioè è un’unità con il Dio di tutte le cose.
Egli dice infatti: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10, 30) […] Così infatti possono
venir mantenuti sia la divina Trinità sia il santo annuncio della monarchia”.

Il problema consiste qui nel fatto che per l’Occidente il termine greco “hypostasis” – tradotto
in latino come “substantia” – portava alla conclusione che abbiamo a che fare con il triteismo
che nega l’unità di Dio.
Dionigi d’Alessandria cercava di spiegare che indicava nei suoi scritti che Logos è generato
dall’eternità e che la sua esistenza la deve non a se stesso ma al Padre.
Possiamo dire che nella controversia tra due Dionigi tutti e due avevano ragione. Dionigi di
Roma difendeva la monarchia del Padre e l’unità della Trinità, Dionigi d’Alessandria invece
difendeva la distinzione delle Tre persone divine. Tutti e due difendevano la fede della
Chiesa.

La controversia riguardava piuttosto i termini, e non l’essenza della dottrina. Il problema del
linguaggio e delle nozioni continuerà nella storia del dogma trinitario.

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