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Relazione - XXVII CONVEGNO ANNUALE DELLA SIDM Siena, Università degli Studi di Siena -

Accademia Musicale Chigiana/16-18 ottobre 2020

Nuove prospettive della world music


L’etno-elettronica di Clap! Clap!

Si può parlare di world music oggi? O meglio, la world music è ancora lo stesso genere musicale nato
nella seconda metà degli anni 80?

Dalla famosa riunione del 1987 in cui discografici, promoter e addetti ai lavori si riunirono per discutere le
potenzialità commerciali dei dischi di musica extra-occidentale accumulanti nei loro magazzini, ideando
l’etichetta “world music”, sono cambiate molte cose e le problematicità legate a questo termine sono emerse
in maniera prepotente. La scelta di utilizzare un’unica espressione, evocativa ma generica, per catalogare
musiche provenienti da ogni parte del mondo, si è presto rivelata perdente perché da un lato è stata creata
una maxi-categoria, definita ex negativo (“è world music tutto ciò che non è musica classica, leggera e
jazz”); dall’altro perché si sono assimilati prodotti musicali profondamente diversi solo in nome di una
comune componente “esotica”, dando nuova linfa al modello centro-periferia di matrice occidentale. I limiti
di questo genere musicale nel corso degli anni sono diventati ancora più labili a causa della tendenza a
etichettare come world music qualunque prodotto musicale non-occidentale ed occidentale marginale,
incluse musiche che venivano precedentemente definite “internazionali” o “folk”.
In Italia stiamo assistendo ad una vera e propria esplosione di questo fenomeno. Il numero di musicisti
che hanno fatto proprie le sonorità tipiche di altre tradizioni culturali è cresciuto in maniera vertiginosa negli
ultimi anni. L’accesso apparentemente illimitato a produzioni, archivi e forme musicali che Internet
garantisce ha generato una situazione abbastanza insolita: le influenze e le ibridazioni sono talmente
numerose che spesso cercare di inquadrare la produzione musicale di questi artisti all’interno dei generi e
delle categorie alle quali l’industria discografica ci ha abituati risulta difficile.
Gli appassionati, i giornalisti e soprattutto i musicisti evidenziano molte difficoltà a riconoscersi nella
cosiddetta world music. Quindi, in virtù di tutte le problematicità che questo termine solleva, bisogna
riconsiderare il suo status di genere musicale.

In particolare, se facciamo riferimento all’analisi dei generi musicali effettuata da Franco Fabbri (generi
musicali da lui intesi come “sistemi” di fatti musicali), e al triangolo assiomatico teorizzato da Philip Tagg
potremmo considerare la world music un genere solo in contrapposizione ai generi interni dei sistemi
popular music e folk music; potremmo invece considerarla un sistema in relazione ai suoi sottoinsiemi. Una
suddivisione del genere consente di dare ai generi nati in seno alla world music una rilevanza commisurata al
ruolo che hanno (o che hanno avuto) nel panorama musicale, usando una terminologia adeguata, non
percepita come svilente o semplicistica.
La maggior parte delle manifestazioni musicali che sono entrate a far parte del sistema world music negli
ultimi 20 anni sono forme in cui il legame con le musiche tradizionali e con le strumentazioni elettroniche è
essenziale. Un caso emblematico è costituito da tutta quella serie di produzioni di musica elettronica popular
che sono state ricondotte al genere world music perché contengono al loro interno dei campionamenti di
musiche tradizionali. Per questi casi si è cercata un’alternativa all’utilizzo del termine world music,
considerato eurocentrico e disfunzionale, ricorrendo al termine etno-elettronica. All’etno-elettronica si
riconducono produzioni nate dall’intersezione tra una vasta gamma di generi di musica elettronica popular e
sonorità tradizionali nel senso più ampio del termine; musiche che fanno uso di ritmi, suoni, espressioni
tipiche della musica tradizionale extra-occidentale selezionati dagli archivi dell’etnomusicologia, oggi
facilmente accessibili attraverso dischi e campionamenti.
Il termine è attestato in ambito accademico anglo-americano nella versione ethno-electro, ma in riferimento a
prodotti musicali di commistione tra musica elettroacustica ed etnica. Per quanto concerne la sua
applicazione in ambito popular invece l’espressione etno-elettronica è attestata nell’“Enciclopedia della
musica New Age, elettronica, ambientale e pan-etnica” di Piero Scaruffi e in numerosi forum e blog dedicati
alla musica elettronica. Questa pratica di definizione bottom-up è diventata estremamente comune per
riuscire ad organizzare in maniera coerente l’immenso archivio del web: molte delle categorie che
attualmente sono utilizzate nascono infatti da processi di folksonomy e convergenza, sfruttando la
partecipazione nei processi di significazione ad opera della collettività, la cui autorità è potenziata dalla
condivisione di conoscenza.
Cercando di realizzare una storia della musica etno-elettronica, possiamo cronologicamente partire dalla
produzione di Jon Hassel. Il suo primo disco, Vernal Equinox del 1977, riassume tutti gli elementi della
definizione: Hassel e i suoi collaboratori utilizzarono sintetizzatori per tentare di riprodurre l’atmosfera
evocata dallo stile vocale del maestro pakistano Pandit Pran Nath. L’idea di commistione tra elettronica e
sonorità tratte dalle musiche tradizionali resterà una costante nella produzione di Hassell, tanto che
successivamente deciderà, in collaborazione con Brian Eno, di utilizzare l’espressione “musiche del Quarto
Mondo” per riferirsi ai prodotti musicali nati da questa unione. Dalle riflessioni dei due musicisti nasceranno
due album, Fourth Music, Vol.1: Possible Musics e Dream Theory in Malaya: Fourth World Volume Two
considerati comunemente espressioni di altissima qualità dell’etno-elettronica.
Un altro gruppo fondamentale, cui va riconosciuto il merito di aver contribuito alla nascita dell’etno-
elettronica, è sicuramente “Deep Forest”, in attività dai primi anni ’90 con una produzione elettronica sempre
contaminata da sonorità etniche estranee alla musica mainstream angloamericana. Basti pensare a Sweet
Lullaby, grande successo del gruppo e primo singolo della band francese, che contiene al suo interno il
campionamento di giochi d’acqua dei Baka del Cameroon e una ninna nanna, chiamata Rorogwela, tratta
dalle musiche tradizionali delle Isole Salomon. Il brano fu a sua volta ripreso in altri contesti musicali dando
luogo a un ampio dibattito, sollecitato da Steven Feld, sul tema del diritto d’autore delle musiche
tradizionali. Queste prime esperienze sono state d’ispirazione per moltissimi artisti, tanto da creare quel
terreno fertile in cui si sono sviluppate le successive declinazioni di questo genere.
Negli ultimi anni la diffusione di produzioni musicali riconducibili al genere dell’etno-elettronica è stata
favorita dall’impegno di discografici e promoter. Tra questi meritano sicuramente di essere menzionati il dj
inglese Gilles Peterson e Brian Shimkovitz ed il suo blog Awesome Tapes From Africa. Grazie alla loro
dedizione e ad una nuova tendenza alla retromania, un numero sempre crescente di artisti ha cominciato a
dedicarsi alle produzioni elettroniche ibridate con elementi tratti da musiche tradizionali ed è grazie a questi
impulsi che oggi assistiamo al successo della musica etno-elettronica. A livello internazionale tra i prodotti
più interessanti di questo genere bisogna segnalare i lavori di Auntie Flo, Chassol, Romare, Dengue Dengue
Dengue, Susso, Debruit, Photay..
Ritroviamo questa stessa vivacità di produzioni anche in Italia, con i lavori di Clap! Clap!, Dj Khalab, Go
Dugong e i Nu Guinea (per citare i più rilevanti) che hanno dato nuovo impulso all’etno-elettronica nel
nostro paese.

Anche in questo caso possiamo identificare dei precursori in Daniele Baldelli e soprattutto nel progetto di
Walter Maioli e Riccardo Sinigallia, Futuro Antico. Al duo può essere attribuita la paternità di questo genere
in Italia grazie alla pubblicazione di dischi come Futuro Antico del 1980 o Dai primitivi all’elettronica
(1990). Lo stesso Walter Maioli nel 2005 usò per altro il termine “etno-elettronica” per riferirsi a tali
esperimenti musicali.
Le manifestazioni artistiche a cui oggi assistiamo sono dirette eredi di queste prime sperimentazioni. Nel
caleidoscopio di espressioni musicali che ci separano da Dai primitivi all’elettronica, le suggestioni che
avevano nutrito i Futuro Antico sono state assimilate da una generazione di musicisti, che imparando la
lezione è andata oltre facendo incontrare le musiche tradizionali con i generi di musica elettronica popular
più disparati. Non sempre gli esiti di questa commistione sono stati e sono di buona qualità e non sempre
l’incontro avviene nel rispetto reciproco, soprattutto in un momento come quello attuale in cui il fascino
dell’esotico sembra essere tornato di moda. In virtù dell’evidenza di questo fenomeno, è necessario chiedersi
quale sia lo stato della situazione in Italia e non sarebbe possibile farlo senza sottolineare il ruolo
fondamentale svolto dal producer fiorentino Cristiano Crisci, in arte Clap! Clap!, l’artista che con il suo
disco Tayi Bebba (2014) ha condizionato e sdoganato la produzione di etno-elettronica nel nostro paese. Non
a caso Gilles Peterson riconosce nel primo disco del musicista italiano uno spartiacque nel mondo della
musica elettronica.
Il producer italiano, classe 1981, con lo pseudonimo Clap! Clap!, ha dato vita ad un progetto colmo di
richiami alle musiche del mondo dalle connotazioni etiche molto chiare. La sua carriera iniziò nel 1996 come
MC, ma Crisci si avvicinò alla musica elettronica con il progetto A Smile for Timbuctu del 2007, e solo dopo
quattro anni e un tour internazionale alle spalle, iniziò la carriera solista con lo pseudonimo Digi G’Alessio,
dedicandosi con interesse sempre crescente a sample e field recording provenienti da varie zone del mondo,
con particolare interesse per i luoghi della diaspora.
Come Digi G’Alessio ha firmato una vasta produzione di EP e album. Nel 2008 dopo aver realizzato l’album
Ivory, composto da campionamenti provenienti da centro e nord Africa, rielaborati con drum machine e
synth, la sua musica assunse i tratti inconfondibili che lo hanno portato al successo. La carica innovativa di
questo disco è stata tale da indurre Crisci a iniziare un nuovo progetto: Clap! Clap!. Usando il nuovo nome
d’arte, nel 2013 Crisci pubblicò l’EP Gwidingwi Dema e cominciò a lavorare al disco Tayi Bebba che poi
pubblicò nel 2014. Diversamente da Ivory, che è concentrato su sample originari solo del continente
africano, questa volta Crisci studiò e rielaborò campioni provenienti da tutto il mondo riuscendo comunque
ad ottenere un album dalle poliritmie di chiara ispirazione africana. L’apprezzamento dei critici e del
pubblico, testimoniato da una serie di riconoscimenti tra cui il Best Albums of 2014 di Okay Africa's, ha
consacrato questo disco tra i migliori prodotti degli ultimi anni. Un’ulteriore prova del consenso generato da
questo primo LP di Crisci è stato l’invito a partecipare ad un concerto organizzato dalla piattaforma Boiler
Room.
Gilles Peterson nella sua trasmissione su BBC6 Music ha parlato dell’esistenza di un vero e proprio
genere musicale “post Clap!Clap!”, a dimostrazione dell’importanza che nel mondo della musica ha avuto la
pubblicazione di Tayi Bebba. Questa presa di posizione di Peterson ha un grande valore, non solo in quanto
attestato di stima da parte di una delle figure più autorevoli nel mondo della world music, ma anche come
testimonianza dell’influenza che la musica di Clap! Clap! ha avuto su tanti musicisti contemporanei. Paul
Simon ad esempio in varie interviste ha definito Tayi Bebba un autentico capolavoro e ha fortemente voluto
che il musicista collaborasse con lui per la realizzazione del suo ultimo album Stranger to Stranger.
Dopo queste esperienze, nel 2016 Crisci firmò con la Warp Publishing e iniziò a partecipare al progetto
patrocinato dalla label Beating Heart Project Ltd per realizzare una serie di dischi dedicati a varie nazioni
africane le cui comunità furono studiate e registrate dell’etnomusicologo Hugh Tracy, allo scopo di
diffonderne il patrimonio culturale e devolvere loro i proventi delle vendite dei dischi. A distanza di un anno
pubblicò il suo secondo disco, A Thousand Skies, continuando quel percorso intrapreso con Tayi Bebba.
Sempre nel 2017 collaborò inoltre alla realizzazione della soundtrack del documentario Liyana di Aaron e
Amanda Kopp e, assieme al pianista Vittorio Cosma, produsse la colonna sonora del docu-film I Am The
Revolution (2018) di Benedetta Argentieri. Il suo ultimo album, Liquid Portraits, è uscito lo scorso 12
giugno.

Lo stile di Clap! Clap! è eclettico e trae ispirazione da suggestioni differenti che nella loro combinazione
danno vita a uno dei prodotti musicali più interessanti del panorama contemporaneo. La componente
percussiva è la caratteristica preponderante nella composizione dei suoi brani. I ritmi ossessivi traggono
ispirazione non solo dalle cadenze tipiche della musica tradizionale, ma anche dai movimenti di musica
elettronica contemporanea, come testimonia il richiamo costante alle ritmiche del footwork di Chicago. Filo
conduttore del suo lavoro è una ricerca dettata dalla curiosità e dal rispetto per l’alterità culturale, come
testimonia la presenza di forme abbozzate di riflessione sulle musiche del mondo anche nella sua primissima
produzione.
Come spesso accade per i prodotti della world music, si potrebbe cadere in errore e accusare Clap! Clap!
di appropriazione culturale, ma il suo lavoro di ricerca continua, dettato proprio da ciò che di più distante c’è
dall’imperialismo, testimonia la volontà di questo musicista di rendere merito alle tradizioni culturali a cui è
debitore.
Più volte quando gli viene chiesto quale sia il genere al quale si sente più vicino, Crisci replica che
indubbiamente la sua produzione risente delle influenze della musica africana e afro-americana, nel senso
più ampio del termine. Questa prospettiva si riflette anche nelle musiche che fanno parte del suo bagaglio
musicale: Francis Bebey, Moondog, l’Orquestra Afro-Brasileira e tantissimi artisti contemporanei. È
significativo notare come le musiche prodotte da questi artisti comunemente vengano catalogate come world
music, come succede d'altronde anche per la musica di Clap! Clap!. Sorge spontaneo allora chiedersi perché
Crisci sia così riluttante a far classificare i suoi lavori come prodotti delle musiche del mondo. È vero che gli
artisti sono in genere restii a lasciar categorizzare le loro opere, ma nel caso di Crisci questo rifiuto è anche
conseguenza di un atteggiamento di insofferenza nei confronti di una classificazione superficiale. Nei
colloqui avuti con lui è emerso chiaramente come egli riconosca che la sua produzione musicale rientri a
pieno titolo nella categoria della musica etno-elettronica e non nel generico world music.
Clap! Clap! vuole distanziarsi nettamente dal lavoro di chi ha fatto della speculazione a svantaggio delle
realtà tradizionali la sua sigla distintiva. Se è vero che la globalizzazione ha definitivamente scardinato le
porte degli archivi, e li ha uniti in un'unica piattaforma accessibile, ha anche originato delle zone grigie in cui
è semplice sfruttare senza ritegno fonti che meriterebbero un approccio più consapevole. Oggi sta al singolo
artista decidere come rapportarsi con questa vastità di informazioni, possibilità e rischi, e questa scelta
individuale inevitabilmente condiziona l’attribuzione di valore estetico riconosciuta alla sua musica. Ciò che
differenzia veramente la produzione di Clap! Clap! è questa curiosità onesta nei confronti delle culture con le
quali entra in contatto. Quello portato avanti da Crisci è un progetto dai confini chiari dotato di un
immaginario specifico e potente che regola tutte le espressioni attraverso le quali Clap! Clap! si manifesta:
dal processo di produzione creativa alla realizzazione degli artwork. Il suo scopo è di rendere il progetto
facilmente identificabile sia dal punto di vista musicale che da quello visivo.
Lontano dall’atteggiamento etnocentrico di chi scopre l’altro per appropriarsi sterilmente del suo bagaglio
culturale, Clap! Clap! combina una produzione di musica elettronica popular estremamente variegata alle
musiche tradizionali, facendo il possibile per inserirle in un progetto compositivo ed estetico che valorizzi i
flussi di culture che modellano l’esperienza nella società multiculturale. La quantità di informazioni alle
quali siamo esposti quotidianamente si rintraccia nelle stratificazioni che compongono i brani dell’artista
fiorentino.

Un chiaro esempio del metodo creativo di Clap! Clap! è il brano Kuj Yato, tratto dall’album Tayi Bebba. La
traccia infatti esordisce con una sample dell’Orchestra degli Xilofoni di Sidi Mamadi Dioubaté che, oltre ad
essere il filo conduttore del brano, fa da guida per la complessa struttura percussiva d’ispirazione footwork.

Ascoltando questo brano di Clap! Clap! il meccanismo della stratificazione è evidente: la musica è
attraversata da stimoli di diversa provenienza rielaborati attraverso una personalissima reinterpretazione
basata sul massimo rispetto del materiale iniziale. Gli elementi che costituiscono la produzione musicale di
Clap! Clap! e il flusso del suo processo creativo mostrano chiaramente come Crisci non voglia in nessun
modo nascondere il patchwork di stili, musiche e influenze che strutturano la sua musica, ma anzi come sia
l’insieme di questi elementi a dare alla sua musica quella profondità tematica e strutturale che fa parlare a
ragione della nascita di una corrente musicale “post Clap! Clap!”.

Nel clima politico attuale sempre più propenso ad una visione isolazionista della società e della cultura, non
è semplice prevedere quali saranno gli sviluppi di questo genere musicale, ma il fermento e la volontà di
scoprire le realtà di popolazioni così distanti che ha portato alla nascita e al successo di fenomeni come
quello della musica etno-elettronica possono essere un segnale di speranza per noi integrati ottimisti ancora
convinti del potere della musica come mezzo di integrazione.

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