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SOCRATE

VITA, MORTE, APOLOGIA


 

469 a.C. - Nasce in Atene.


432-429 - Partecipa alla campagna militare di Potidea.
424 - Partecipa alla campagna militare di Delio.
422 - Partecipa alla campagna militare di Anfipoli.
406 - Si oppone all'ingiusta condanna a morte degli strateghi della battaglia delle Arginuse.
399 - Al principio dell'anno, accusato di irreligiosità e di corruzione dei giovani, è processato ed è
condannato a bere la cicuta.

Atene - La prigione di Socrate (seduto l'autore di Storiologia)

a metà pagina
Socrate visto da WILL DURANT

a fondo pagina - "L'APOLOGIA"


Socrate visto da DIEGO FUSARO
 
Del pensiero di Socrate, il filosofo che forse ha segnato la svolta più decisiva nella storia della
filosofia greca e quindi dell'intera cultura occidentale, noi non abbiamo conoscenza diretta precisa.
Egli visse in Atene dal 469 al 399 a.C. e morì in seguito a una sentenza capitale emessa nei suoi
confronti.

LA VITA

Della sua vita sappiamo parecchie cose: che era sposato, che aveva dei figli e che era nato in Atene
da una famiglia, diremmo oggi, di ceto medio. Suo padre, Sofonisco, era scultore e sua madre,
Fenarete, era levatrice. Sappiamo che visse in semplicità, senza svolgere una determinata attività
pratica, tutto preso dalla sua missione di risvegliatore di anime. Non fu un filosofo nel senso
tradizionale del termine. Infatti non scrisse nulla e non diede forma sistematica al suo pensiero. Il
suo filosofare nasceva dal dialogo, dal colloquio vivo e diretto con i suoi concittadini.
Socrate, non lasciò mai la sua città se non per compiere, in tre diverse occasioni, il suo dovere di
soldato. Dimostrò sempre indipendenza e serena dignità di fronte al potere politico, sia all'epoca dei
trenta tiranni imposti agli Ateniesi dagli Spartani, dopo la sconfitta finale di Atene nella guerra del
Peloponneso, sia quando tornarono al potere i democratici nel 401. E fu proprio la restaurata
democrazia a essergli fatale. Con le sue mordenti allusioni e le sue critiche ironiche Socrate mise
certamente in risalto la vuotaggine, l'ignoranza, l'avidità, la disonestà di molti uomini politici.

Era certo per molti un personaggio scomodo con la sua mania di frugare nelle anime e di scoprire, al
di là delle belle apparenze, i veri moventi delle azioni umane.
Nel 399 Socrate venne accusato pubblicamente dal poeta tragico Meleto, dall'uomo politico Anito e
dall'oratore Licone di corrompere i giovani con i suoi discorsi e di non credere negli dei della città.
Socrate avrebbe potuto salvarsi. In fondo i suoi nemici si sarebbero accontentati di una sua
espulsione dalla città. Ma egli non volle piegarsi, non volle riconoscersi colpevole. La sua era stata
una missione morale ed egli non poteva ripudiarla. Egli anzi - proclamò a un certo punto - aveva
meritato dalla città di venire mantenuto a spese dello Stato. I giudici s'irritarono e lo condannarono a
morte. Queste sarebbero state, secondo Platone, le ultime parole pronunciate da Socrate al
processo: "E' ormai è tempo di andar via. E io vado a morire, voi continuerete a vivere. Chi di noi due
si volga, tuttavia, verso condizione migliore, è cosa oscura a tutti, meno che a Dio".
Gli amici cercarono di farlo fuggire dalla prigione ma egli rifiutò. Era vecchio, aveva vissuto
degnamente tutta la sua vita in Atene, non voleva andare peregrinando ìn terra straniera. Eppoi
aveva passato tutta la vita sotto la protezione delle leggi della città. Non gli pareva bello violarle ora
che si rivolgevano a suo danno. La sentenza non venne eseguita subito: per motivi religiosi
l'esecuzione venne rinviata d'un mese. Socrate poté ricevere i suoi amici e riprendere i suoi dialoghi
fino all'ultimo giorno.

Un ottimo testo su Socrate, è quello di WILL DURANT,


nella sua "Storia della Filosofia"
(New York, 1926 - Pubblicata poi in Italia dalla "Genio" con il titolo "Gli eroi del pensiero")

"Se giudichiamo dal busto rimasto tra i cimeli della scultura antica, Socrate fu tutt'altro che bello. La
testa calva, con un faccione rotondo, occhi infossati e sbarrati, il naso largo e bitorzoluto - vivente
testimonianza di numerosi simposii - quella testa pare più di un facchino che del filosofo famoso fra
tutti. Ma se noi osserviamo a lungo quel busto, vediamo, sotto l'asprezza della pietra, qualcosa della
umana grandezza e della modesta semplicità che resero questo pensatore alla buona uno dei maestri
più amati dalla gioventù ateniese. Sappiamo pochissimo di lui, eppure lo conosciamo assai più
intimamente dell'aristocratico Platone e del riservato e scolastico Aristotele. Dopo duemila anni
vediamo ancora la sua goffa persona avvolta sempre nella stessa tunica sgualcita, passeggiar calmo
per l'agora, insensibile alle chiacchiere politiche, tormentando di domande il suo paziente
ascoltatore, raccogliendo attorno a sè la gioventù e le persone colte, per poi attirarle in un angolo
ombroso del portico, dinanzi al tempio, e insistere perché chiariscano le loro parole.

Erano una folla multicolore tutti quei giovani che gli si serravano attorno e lo aiutavano a creare la
filosofia europea. V'erano giovani facoltosi, come Platone e Alcibiade, che gustavano la sua
sarcastica analisi della democrazia ateniese; v'erano socialisti, come Antistene, che amavano la
noncurante povertà del maestro; v'erano persino un paio di anarchici, come Aristippo, i quali
aspiravano a un mondo in cui non vi sarebbero stati né padroni ne schiavi, e tutti si fossero sentiti
liberi e senza fastidi di sorta, come Socrate.
Tùtti i problemi che agitano la società umana moderna e dànno luogo alle interminabili discussioni
della gioventù, animavano pure quella piccola coorte di pensatori e di conversatori, i quali sentivano,
col loro
maestro, che la vita senza raziocinio sarebbe indegna dell'uomo. Ogni scuola del pensiero umano
ebbe colà il proprio rappresentante e forse la propria origine.
Forse nessuno sapeva come il maestro vivesse. Non lavorava mai, né si preoccupava dell'indomani.
Mangiava, quando i suoi discepoli lo pregavano di onorar la loro tavola. Essi dovevano amare assai
la sua compagnia, poiché egli mostra palesi i segni della prosperità fisiologica. Non era altrettanto
bene accolto in casa sua, poiché trascurava moglie e figli; dal punto di vista di Santippe, egli era un
ozioso fannullone, che portava alla propria famiglia più fama che pane. Santippe amava parlare
quanto il suo Socrate, e sembra che i due abbiano avuto tra loro dialoghi, che Platone dimenticò di
tramandarci. Eppure anche Santippe lo amava non potè esser lieta di vederlo morire, anche se
settantenne.

Ma perché i suoi alunni gli erano tanto devoti? Forse perché egli era un uomo, oltre che un filosofo;
aveva salvato, in battaglia, la vita di Alcibiade, con grave rischio della propria; sapeva bere come un
gentiluomo, senza timore e senza eccessi. Ma non v'è dubbio, essi amavano più di tutto in lui la
modestia della sua saggezza: egli non pretendeva di esser saggio, ma di cercar la saggezza con
amore; egli era un dilettante della saggezza, non un professionista di essa. Si disse che l'oracolo di
Delfo, con un buon senso non comune, lo avesse proclamato il più saggio dei Greci; ed egli aveva
interpretato questo responso dell'oracolo come approvazione dell'agnosticismo, che fu il punto di
partenza della sua filosofia: «So una cosa sola, e cioè che non so nulla».
La filosofia incomincia là dove s'impara a dubitare - specialmente a dubitare delle proprie credenze
più inconcusse, de' propri dogmi e dei propri assiomi. Chi sa come queste credenze divennero
certezza in noi, se non le creò furtivamente qualche recondito desiderio, dando a se stesso la veste
del pensiero! Non esiste vera filosofia, fin che la mente non si volge attorno ad esaminare se
stessa. Gnothi seauton, diceva Socrate: «conosci te stesso».

Naturalmente, v'erano stati altri filosofi prima di lui; uomini forti come Talete ed Eraclito, ingegnosi
come Parmenide e Zenone ed Elea, profeti come Pitagora ed Empedocle; ma, per la maggior parte,
erano stati dei filosofi fisici: essi avevano ricercato la phisis, o natura delle cose esterne, le leggi e la
sostanza del mondo materiale e mensurabile. Sta bene - diceva Socrate ma c'è un soggetto assai più
degno per i filosofi, di tutti i vostri alberi e le vostre pietre e persino delle vostre stelle; c'è la mente
umana. Che cos'è l'uomo e che cosa può egli divenire?
Così egli continuò a scrutare l'anima umana, facendo ipotesi e discutendo certezze. Se l'uomo parla
troppo facilmente di giustizia, egli osserva calmo, to tí? - che cosa vuol dire? Che cosa volete dire
con le vostre parole astratte, che tanto facilmente vi servono a risolvere i problemi della vita e della
morte? Che cosa intendete per onore, virtù, morale, patriottismo? E che cosa vedete in voi stessi?
Questi erano i problemi morali e psicologici che Socrate preferiva discutere. Qualcuno che non
sopportava questo «metodo socratico», e non voleva saperne di definizioni precise, di concetti chiari
e di analisi esatte, osservava che egli domandava più di quel che non rispondesse e lasciava la
mente umana più confusa di prima. Ad ogni modo, egli lasciò alla filosofia due risposte ben definite a
due dei nostri problemi più difficili: Qual è il concetto della virtù? E qual è lo stato migliore?

Non vi erano argomenti più vitali di questi per la gioventù ateniese di quella generazione. I Sofisti
avevano distrutto la fede di quei giovani negli dèi e nelle dee dell'Olimpo, e nel codice morale,
sanzionato dal timore degli uomini per quelle innumerevoli deità onnipresenti: non c'era alcuna
ragione apparente per cui un uomo potesse agire come voleva, fin che si mantenesse nei limiti
stabiliti dalle leggi. Un individualismo disgregatore aveva svigorito il carattere ateniese e lasciato
infine la città in preda agli Spartani, educati severamente. E quanto allo Stato, che cosa poteva
esservi di più ridicolo di quella democrazia retta dalla folla sotto l'impero della passione, di quel
governo dominato da una società agitata da continue discussioni, di quei sommari procedimenti con
cui i condottieri venivano eletti, licenziati e giustiziati? Di quel superficiale avvicendamento
alfabetico di semplici contadini e mercanti nella suprema corte dello Stato? Come poteva svilupparsi
in Atene una nuova morale secondo natura, e in qual modo si poteva salvare lo Stato?
Le due risposte a queste domande diedero appunto a Socrate la morte e l'immortalità. Gli anziani lo
avrebbero onorato, se avesse tentato di restaurare l'antica fede politeista; se avesse condotto il suo
seguito di anime libere ai templi e ai boschetti sacri e le avesse indotte a offrir ancora sacrifici agli
dèi de' loro padri.
Ma egli sapeva che quella era una politica senza scopo e suicida, un regresso, invece di un
progresso, verso e non «oltre le tombe». Aveva la propria fede religiosa, credeva in un Dio solo e
sperava, nel suo modesto modo di vedere, che la morte non distruggesse completamente il suo
essere; ma sentiva che un codice morale duraturo non poteva basarsi su una teologia tanto incerta.
Se si era capaci di erigere un sistema morale assolutamente indipendente dalle dottrine religiose,
che potesse valere tanto per l'ateo che per il teista, le diverse teologie potevano avvicendarsi senza
disgregare quel cemento morale, il quale fa di individui voltivi, cittadini pacifici di una comunità.

Se, per esempo, buono voleva dire intelligente, e virtù significava saggezza; se si poteva insegnare


agli uomini a vedere chiaramente i propri interessi, a prevedere da lontano i risultati delle proprie
azioni, a criticare e coordinare i propri desideri, sottraendoli ad un caos annientatore, per disporli in
un ordine armonico, fattivo e creatore - tutto questo, forse, avrebbe dato all'uomo coltivato e lontano
dallo stato di natura quella morale che per l'ignorante si basa su precetti consueti e sul controllo
esteriore. Forse ogni colpa è errore, visione parziale, assurdità? L'uomo intelligente può avere i
medesimi impulsi violenti e antisociali come l'ignorante, ma senza dubbio avrà un maggior controllo
e meno spesso correrà il rischio d'imitare la bestia. E in una società governata con intelligenza - la
quale rendesse all'individuo, in ampiezza di poteri, più di quello ch'essa gli togliesse in libertà
limitata - il benessere del singolo individuo dipenderebbe da un retto regime sociale, e sarebbe solo
necessaria una chiara visione delle cose per assicurar la pace, l'ordine e la buona volontà.

Ma' se il governo è di per se stesso un caos e un'assurdità, se ordina senza aiutare e comanda senza
guidare, com'è possibile persuadere un individuo, in un simile reggimento, a obbedire alle leggi e
confinare il proprio egoismo entro la cerchia del bene comune? Non c'è da meravigliarsi se un
Alcibiade si erge contro uno Stato che non ha fiducia nel valore dei cittadini e onora il numero più
della sapienza. Nessuna meraviglia che esista il caos dove non esiste il pensiero, e che la folla
decida precipitosamente e senza discernimento, per pentirsi poi delle proprie decisioni e
desolarsene.

Non è volgare superstizione credere che nel mero numero sia la saggezza? Non è, invece,
universalmente accertato che le folle sono più sciocche, più violente e più crudeli degli individui
presi separatamente? Non è una vergogna che gli uomini debbano essere governati da retori, i quali
«continuano le loro lunghe arringhe, come pentole di rame che, appena percosse, seguitano a
risuonare, fin che una mano vi si posi sopra?" (Platone, Protagora, par.329).
Certamente, governare uno Stato è cosa a cui l'intelligenza umana non basta mai e per la quale è
necessario il libero contributo delle menti più sottili. Come può una società salvarsi ed esser forte,
se non è retta dagli uomini più saggi?
Immaginate la reazione del partito popolare di Atene a questo vangelo aristocratico, in un tempo in
cui la guerra pareva esigere che ogni critica tacesse, mentre la minoranza benestante e colta stava
preparando una rivoluzione. Immaginate che cosa ne pensasse Anito, il capo democratico, il cui
figlio si era fatto alunno di Socrate, ribellandosi agli dèi di suo padre e dileggiando il padre stesso.
Non aveva Aristofane predetto proprio questo riubltato dalla speciosa sostituzione di un'intelligenza
antisociale alle antiche virtù? (Nelle Nuvole (423 av. Cr.) Aristofane aveva satireggiato Socrate e la
sua «Bottega del pensiero», dove s'imparava l'arte di provare il proprio diritto, quantunque sbagliato.
Fidippide batte suo padre, adducendo la ragione che il padre batte lui ed ogni debito va pagato. La
satira dev'essere stata però abbastanza benevola, se troviamo spesso Aristofane in compagnia di
Socrate. Essi eran d'accordo nel disprezzare la democrazia; e Platone raccomandò le  Nuvole a
Dionisio. Quando la commedia fu rappresentata, ventiquattr'anni prima della condanna di Socrate,
non poteva aver avuto gran parte nel tragico dénouement della vita del filosofo).

Poi venne la rivoluzione e gli uomini combatterono per essa o contro di essa, strenuamente, fino alla
morte. Quando la democrazia vinse, il fato di Socrate fu deciso: egli era il capo spirituale del partito
ribelle, quantunque fosse stato personalmente pacifico; era la fonte dell'odiata filosofia aristocratica,
il corruttore dei giovani, ebbri di diatribe. Come dicevano Anito e Mileto, era meglio che Socrate
morisse.
Il mondo sa il resto della storia, poiché Platone la scrisse in una prosa più bella della poesia. Noi
abbiamo la fortuna di poter leggere per nostro conto quella semplice e coraggiosa, se non
leggendaria «apologia», o difesa, in cui il primo martire della filosofia proclamò i diritti e la necessità
del libero pensiero, sostenne il valore di esso nei confronti dello Stato e non volle chieder grazia a
una folla che aveva sempre disprezzato. La folla aveva pieni poteri di perdonargli; egli disdegnò di
appellarsi ad essa. Fu una singolare conferma delle sue teorie il fatto che i giudici desiderassero di
metterlo in libertà, mentre la folla sdegnata votò la sua morte. Non aveva egli rinnegato gli dèi? Guai
a chi insegna agli uomini più di quanto essi possano imparare!
Così fu decretato ch'egli dovesse bere la cicuta. I suoi amici andarono a trovarlo in prigione e gli
offrirono il mezzo di salvarsi: facilmente essi avevano corrotto tutti gli ufficiali che si interponevano
tra lui e la libertà. Egli rifiutò. Aveva settant'anni (399 av. Cr.); forse pensò ch'era giunta la sua ora di
morire e che mai avrebbe potuto morire si utilmente. «Fatevi coraggio -egli disse agli amici
addolorati - e pensate che seppellite soltanto il mio corpo». «Appena pronunziate queste parole -
dice Platone in una delle più grandi pagine della letteratura mondiale (Fedone, par. 116-118,) egli si
alzò ed entrò nel bagno con Critone, che ci «ordinò di aspettare; e noi aspettammo, parlando... della
immensità del nostro dolore; egli era per noi come un padre, di cui venivamo orbati, ed eravamo sul
punto di passare il resto dei nostri giorni come orfani... Era prossima l'ora del tramonto, e molto
tempo era già trascorso da quando egli era entrato nel bagno. Quando ne uscì, si sedette tra noi...
ma non parlò molto. Subito dopo, il carceriere... entrò, si fermò accanto a lui, e gli disse : - A te,
Socrate, che so essere l'uomo più nobile, più gentile e migliore di tutti coloro che mai passarono da
questo luogo, non voglio imputare gli irati sentimenti di altri, che s'infuriano e mi coprono
d'improperi, quando io, obbedendo alle autorità, li costringo a bere il veleno: sono anzi certo che non
me ne vorrai; altri sono i colpevoli della tua morte, non io, come tu ben sai. Addio, dunque, e cerca di
sopportare serenamente ciò che deve essere; tu conosci il dovere mio. - Scoppiò in lacrime, si volse
ed uscì.
Socrate lo guardò e disse: - Ti ricambio l'augurio e farò quel che tu comandi. - Poi, voltandosi a noi,
seguitò: Quant'è simpatico quell'uomo! Dacchè sono in prigione, è venuto a trovarmi sempre, ed ora
guardate con quanta umanità e gentilezza egli soffre per me. Ma noi, Critone, dobbiamo fare ciò
ch'egli dice: fammi portare la coppa, se il veleno è pronto; se non fosse pronto, prega il servo di
prepararlo. - E Critone: -- Eppure il sole è ancora sulla cima dei colli, e molti han bevuto il veleno a
tarda ora; e dopo che fu loro dato l'annuncio di morte, han goduto i piaceri del senso: non aver fretta,
dunque, c'è tempo ancora.

Socrate replicò: - Si, Critone, e coloro che hanno fatto così, hanno avuto ragione, poichè hanno
pensato di trarre vantaggio dalla dilazione; io, però, ho ragione di non fare lo stesso, poichè credo di
non guadagnarci nulla bevendo il veleno un po' più tardi; prolungherei una vita che non conta più
nulla per me; non potrei che ridere di me stesso. Ti prego, dunque, di fare quello che ti ho detto e di
non rifiutarmi questo favore. -
A queste parole, Critone fece un segno al servo; questi uscì per qualche tempo e ritornò col
carceriere, che portava la coppa di veleno. Socrate disse : - Tu, mio buon amico, che sei pratico di
queste cose, mi dirai come devo fare. - L'uomo rispose: - Dopo bevuto, bisogna camminare finchè le
gambe si fanno pesanti, poi coricarsi, e il veleno agirà. - Così dicendo, egli porse la coppa a Socrate,
il quale la prese con la maggiore semplicità, e senza minimamente cambiar di colore o alterare i
propri lineamenti, guardando il carceriere diritto negli occhi, com'era suo costume, disse : - Che cosa
diresti se libassi da questa coppa a un dio qualunque? Posso farlo o no? - L'uomo rispose : - Ne
prepariamo, Socrate, appena quanto crediamo necessario al suo effetto. - Ho capito - egli disse -
eppure debbo pregare gli dèi che mi concedano un buon viaggio da questo all'altro mondo. Mi sia,
dunque, concessa questa preghiera. - Poi, portò la coppa alle labbra e serenamente, senza esitare,
bevve il veleno.

Fino allora molti di noi avevano dominato il proprio dolore, ma quando lo vedemmo bere e ci
accorgemmo, poi, che aveva bevuto il veleno fino all'ultima goccia, non potemmo resistere più a
lungo; io stesso piangevo a calde lacrime, mio malgrado; mi coprii la faccia e piansi per me stesso,
ché certo, io non piangevo per lui, ma al pensiero della mia disgrazia, per aver perduto un simile
amico. E nemmeno fui io il primo, che Critone stesso, incapace di dominarsi, si era alzato e se ne era
andato. Io lo seguii. Allora Apollodoro, che aveva lagrimato fino a quel momento, scoppiò in un
grido, che ci avvilì. Socrate solo mantenne la sua calma: -- Che cos'è questo grido? - egli chiese. -
Mandai via le donne, perchè non disturbassero così: ho sentito dire che un uomo dovrebbe morire in
pace. State, dunque, tranquilli e abbiate pazienza. - A queste parole noi ci vergognammo e
cessammo di piangere; egli continuò a camminare finchè le sue gambe cominciarono a mancargli,
com'egli disse; allora si coricò supino, secondo quanto gli avevano suggerito.
Colui che gli aveva pòrto il veleno gli guardava ora i piedi, ora le gambe; dopo qualche minuto, gli
premette forte un piede, chiedendogli se sentisse dolore, e Socrate rispose: - No. - Poi l'altro
premette la gamba, e sempre più su, facendoci sentire che era fredda e irrigidita. Socrate si toccò e
disse: - Quando il veleno arriverà al cuore, sarà finita. - Egli cominciava già a sentire il gelo della
morte all'inguine, quando si scoprì la faccia (che aveva coperto) e disse: e queste furono le sue
ultime parole: - Critone, guarda che son debitore di un gallo ad Esculapio; ti ricorderai di pagare
questo mio debito? - Il debito sarà pagato -rispose Critone; - hai altro da dirmi? - La risposta non
venne; ma due minuti dopo si notò sotto il lenzuolo un lieve tremito; il servo lo scopri: aveva gli
occhi fissi; Critone gli chiuse gli occhi e la bocca.
Così finì l'amico nostro, che posso proprio chiamare il più savio, giusto e buono fra quante umane
creature io abbia mai conosciuto".

ancora sulla vita e il pensiero di


SOCRATE
("L'APOLOGIA")

il testo è di Diego Fusaro


Socrate nacque nel 470 / 469 a.c. da Sofronisco , scultore , e Fenarete , levatrice . Dapprima esercitò
forse il mestiere del padre , ma successivamente l'abbandonò per dedicarsi esclusivamente
all'indagine filosofica . Non di rado dovette quindi ricorrere all'aiuto economico di amici . Sposò
Santippe , che una certa tradizione tende a presentare come donna bisbetica e insopportabile : si è
arrivati a pensare che Socrate stesse sempre in piazza non tanto per filosofare quanto piuttosto per
stare lontano da Santippe e dalle sue romanzine continue: pare che Socrate sia riuscito a far
ragionare tutti tranne Santippe . Da lei ebbe tre figli .

Socrate non lasciò mai Atene se non per brevi spedizioni militari : partecipò infatti nel 432 alla
spedizione contro Potidea , traendo in salvo Alcibiade ferito , e nel 424 combattè a Delio a fianco di
Lachete durante la ritirata degli Ateniesi di fronte ai Beoti . Successivamente nel 421 combattè ad
Anfipoli . Nel 406 in conformità al principio della rotazione delle cariche , fece parte dei pritani , ossia
del gruppo del Consiglio al quale spettava decidere quali problemi sottoporre all'Assemblea e si
oppose alla proposta illegale di processare tutti insieme i generali vincitori nello scontro navale
avvenuto al largo Arginuse , perchè non avevano raccolto i naufraghi .
Con questa presa di posizione egli si poneva in contrasto con i democratici , ma nel 404 , passato il
potere in mano all'oligarchia capeggiata dai Trenta , rifiutò di obbedire all'ordine di arrestare un loro
avversario , Leone di Salamina . Nel 403 la democrazia restaurata , pur concedendo un'amnistia ,
continuò a ravvisare in Socrate una figura ostile al nuovo ordine , anche per i rapporti da lui
intrattenuti in passato con figure come Alcibiade e Crizia .

Nel 399 fu presentato da Meleto un atto di accusa contro Socrate , ma tra i suoi accusatori erano
anche Licone e soprattutto Anito , uno dei personaggi più influenti della democrazia restaurata .
L'atto di accusa è il seguente : "Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei
riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità . Inoltre è colpevole di avere corrotto
i giovani . Si richiede la pena di morte" . Gli accusatori contavano probabilmente in un esilio
volontario da parte di Socrate , com'era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora , ma egli
non abbandonò la città e si sottopose al processo . A maggioranza i giudici votarono per la
condanna a morte la quale fu eseguita in carcere mediante la somministrazione di cicuta .

Possiamo inserire Socrate nell'era sofistica (sebbene lui si schierò contro i sofisti) perchè come i
sofisti si interessò di problemi etici ed antropologici , mettendo da parte la ricerca del principio e
della cosmogonia . Socrate non scrisse mai nulla e così per ricostruire il suo pensiero dobbiamo
ricorrere ad altri autori . Le fonti principali sulla vita di Socrate sono quattro 1) Platone 2) Senofonte
3) Aristotele 4) Aristofane .

1) Platone è senz'altro la fonte più attendibile : egli fu discepolo diretto di Socrate e con lui condivise
sempre l'idea della filosofia come ricerca continua .

2) Senofonte è la fonte più banale e meno interessante : il Socrate degli scritti di Senofonte è un
cittadino ligio alla tradizione , il vero interprete dei valori correnti , il saggio che mira al bene dei suoi
concittadini ed è ossequioso verso la città e le sue divinità . Va subito precisato che Senofonte era
un grande generale , coraggioso e valoroso , ma non era certo un'aquila : i suoi scritti stessi non
sono certo esempi eclatanti della letteratura greca : sono ridondanti e ripetitivi . Senofonte fece
anche campagne militari con Socrate e nei suoi scritti ne esalta il valore dicendo che non stava mai
fermo , era sempre in azione , non soffriva niente (camminava addirittura a piedi nudi sul ghiaccio) .
A Senofonte della filosofia non gliene importava nulla e con Socrate , di cui era grande amico , non
trattava mai argomenti filosofici , ma solo militari : questo ci consente di capire che Socrate
modulava il discorso a seconda del personaggio che aveva di fronte : con un filosofo parlava di
filosofia , con un generale di guerra .

3) La testimonianza di Aristotele è stata a lungo ritenuta la più attendibile perchè Socrate non viene
caricato di significati simbolici : Aristotele ce ne parla in modo oggettivo . Tuttavia la testimonianza
aristotelica ha dei limiti : in primis , è la meno " artistica " delle 4 ed è l'unica di un non-
contemporaneo . Va poi detto che in Aristotele Socrate ci viene presentato quasi come un " robot " :
la filosofia socratica viene presentata come un susseguirsi di ragionamenti e non viene dato spazio
al filosofare in pubblico , al dialogo aperto .<

4) Aristofane è il personaggio più vicino a Socrate come età : ci presenta un Socrate relativamente
giovane (circa 40 anni) . Va ricordato che Aristofane era un commediografo e ne risulta che
l'immagine che lui ci dà di Socrate è fortemente impregnata di tratti sarcastici . Ne " Le nuvole " ce lo
presenta come un sofista studioso della natura (il contrario di ciò che era in realtà) , con la testa fra
le nuvole . Insomma Aristofane è l'unico a darci di Socrate un'immagine fortemente negativa (non a
caso Aristofane era stato uno dei primi accusatori di Socrate) . In realtà non dobbiamo pensare che
Aristofane volesse gettar discredito su Socrate o lo prendesse in giro per cattiveria : in fondo lui
faceva solo il suo lavoro di commediografo , che consisteva nel far ridere . In realtà con la figura di
Socrate vuole prendere in giro non Socrate , ma l'intera categoria dei filosofi .

La testimonianza di Platone resta la migliore e le altre tre vanno sfruttate come appoggio . Platone lo
conosceva davvero bene ed era lui stesso un gran filosofo: il grosso limite è che trattandosi di un
filosofo , Platone avrebbe potuto rimaneggiare i discorsi di Socrate , ed è proprio quel che fa man
mano che invecchia. " L'apologia " (vedi in fondo), per fortuna , resta un dialogo giovanile nel quale
Platone descrive il processo che decretò la condanna a morte di Socrate . E' proprio in questo
dialogo che emerge fortemente la differenza tra Socrate ed i sofisti : i sofisti pronunciavano discorsi
raffinati ed eleganti , ma totalmente privi di verità : per loro l'importante era parlar bene , avere un
buon effetto sulle orecchie degli ascoltatori . Per Socrate invece quel che più conta è la verità : lui si
proclama incapace di controbattere a discorsi così eleganti e ben formulati (ma falsi) . Socrate , pur
non tenendo un'orazione raffinata , dice il vero : la critica ai sofisti verrà poi ripresa da Platone
stesso . I sofisti puntavano a stupire l'ascoltatore , dal momento che erano convinti che la verità non
esistesse (soprattutto Gorgia ).

Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti) , ma imposta un
dialogo botta e risposta : è proprio dal discorso che viene a galla la verità (Platone dirà che il
discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della
conoscenza) . Lo stile oratorio di Socrate è scarno , secco e quasi familiare , modulato a seconda
dell'interlocutore . Il punto di partenza del discorso socratico è la cosiddetta " ironia socratica " ,
ossia la totale autodiminuzione , " io non so , tu sai " . Così inizia anche " L'apologia" : si pone la
domanda "che cosa è x ?" e l'interlocutore cade nel tranello e risponde , sentendosi superiore a
Socrate .

Socrate , come abbiamo detto parlando di Senofonte , parla di argomenti noti all'interlocutore : se ad
esempio parla con un generale gli chiederà " che cosa è il coraggio ? " . Quello risponderà , per
esempio , dicendo che il coraggio è il non indietreggiare mai . Allora Socrate interverrà dicendo che
quello non è coraggio , bensì pazzia . La critica diventa stimolo per l'interlocutore a fornire una
seconda risposta meglio articolata : il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto .
Questo metodo viene detto "maieutico" : Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre , la quale
era ostetrica : lei faceva partorire le donne , lui le anime . Come le ostetriche valutano se il neonato è
" buono " , così Socrate valuta se le idee , le definizioni sono buone . Non tutti gli interlocutori erano
intelligenti e riconoscevano i propri errori : spesso preferivano evitare Socrate . Da un interlocutore
Socrate fu anche denominato " torpedine " in quanto l'incontro con Socrate risulta scioccante perchè
ribalta le concezioni di chi era convinto di sapere e dimostrava che in realtà non sapeva . Socrate
stesso si paragonava ad un moscone che stimola il cavallo : lui stimolava gli uomini a ragionare .

Socrate con il processo dell'autodiminuzione afferma di non sapere nulla , mentre sostiene che i
sofisti sappiano tutto : dice che forse l'educazione che impartisce lui è inutile rispetto a quella
sofistica , ma senz'altro è più importante . Le calunnie nei confronti di Socrate hanno avuto inizio
quando lui si definiva sapiente in quanto l'oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più sapiente tra
gli uomini . Lui era rimasto sconvolto da tale affermazione e non riusciva a crederci: allora cominciò
a girare per Atene per vedere se trovava persone effettivamente più sapienti di lui . Dunque si recò
da coloro che si ritenevano sapienti : politici , poeti , artigiani . Socrate si accorse che tutte e tre le
categorie erano convinte di sapere , ma in realtà non sapevano niente : i politici erano i peggiori di
tutti non in quanto politici (Socrate stesso , se vogliamo , era un politico perchè svolgeva la sua
attività in pubblico) ma in quanto non capaci di insegnare il loro sapere : un vero sapiente deve
spiegare ciò che sa : anche i politici migliori (Pericle) non sanno trasmettere il loro sapere .

Lo stesso era per i poeti , che a partire da Omero erano considerati sapienti ed educatori : Socrate li
biasima sia perchè dicono assurdità , sia perchè il loro non è un sapere , ma una forma di " follia
ispirata " : era la divinità che parlava per bocca loro . I meno peggio risultarono essere gli artigiani ,
che almeno sapevano fare diverse cose di utilità pubblica : la loro è una " tecnè " , ossia una
sapienza pratica . Però anche gli artigiani avevano i loro difetti : erano sì competenti nel loro settore ,
ma peccavano di presunzione perchè erano convinti che la loro conoscenza fosse universale ed
illimitata , anzichè limitata . Inoltre essi agivano senza pensare e ponderare . Socrate arrivò alla
conclusione che l'oracolo di Delfi aveva ragione : lui stesso è il più sapiente , pur sapendo di non
sapere . Il suo non va interpretato come atteggiamento di rinuncia alla ricerca della verità , ma come
segno di modestia intellettuale : è proprio il fatto di essere consapevoli della propria conoscenza che
spinge l'uomo a sforzarsi di raggiungere la conoscenza ; se si è convinti di sapere già tutto non ci si
sforzerà di migliorare .

Tra le varie accuse che vengono mosse a Socrate c'è anche quella di corrompere i giovani nella
piazza rendendoli peggiori : lui ribatte a questa accusa dicendo che non avrebbe motivo di fare ciò .
Infatti se corrompesse i giovani finirebbe per vivere in una città di giovani corrotti , il che si
ritorcerebbe contro lui stesso .
Va senz'altro ricordato il cosiddetto " intellettualismo etico " di Socrate : secondo lui nessuno può
compiere il male sapendo effettivamente di compierlo : nessuno potrebbe mai fare del male
volontariamente . Un rapinatore rapaccuseina non pensando di fare del male , ma di fare del bene : è
un errore intellettuale ritenere bene ciò che è male . E' un atteggiamento tipicamente cristiano-
cattolico che si possa scegliere tra bene e male indistintamente . Dunque Socrate introducendo
l'intellettualismo etico dimostra di aver agito per il bene della sua città . E' Socrate che ha scoperto il
concetto moderno di anima ( yuch ) : in precedenza significava " soffio vitale " , ciò che fa vivere le
cose ; il termine yuch assunse poi il significato di " immagine nell'Ade " , un'esistenza depotenziata .
Per gli Orfici significava " demone " .

A partire da Socrate fino al giorno d'oggi l'anima è diventata il nostro io : ci identifichiamo con
l'anima . Secondo Socrate possiamo dividere i beni ed i mali in tre categorie a) dell'anima b) del
corpo c) dell'esterno . Il corpo è lo strumento nonchè la prigione dell'anima . Il denaro , per esempio ,
è un bene esterno . In alcuni frangenti sembra che Socrate (e anche Platone ) rifiuti i beni materiali e
del corpo , scegliendo quelli dell'anima ; in altre occasioni pare che possano essere accettati
entrambe . Socrate , per esempio , pare che non disprezzasse il vino . Quest'ambiguità tra beni del
corpo e beni dell'anima può essere spiegata affermando che i beni son tutti beni finchè non entrano
in conflitto con altri : la ricerca del piacere fisico diventa un male quando la si antepone alla ricerca
di quello intellettuale .

Questo non vale solo per i beni , ma anche per il rapporto tra anima e corpo : il corpo per Socrate e
Platone non va disprezzato , anzi va apprezzato perchè serve all'anima . Per il Cristianesimo la
ricchezza è un male , per Socrate e Platone è un bene finchè non entra in conflitto con gli altri beni .
Interessante è il concetto socratico di ingiustizia : essa non danneggia chi la subisce , ma chi la
commette . La giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è ingiusto perde questo piacere ,
mentre chi subisce l'ingiustizia continua a provarlo . Questo vale anche per Platone .

Tra le cose che Socrate dice di non sapere vi è la conoscenza dell'aldilà , di cosa c'è dopo la morte
( Platone dirà di essere in grado di dimostrare l'esistenza di un aldilà) . Per lui non è che se si vive
una vita giusta si sarà premiati : si è già appagati dal vivere giustamente , la felicità che si prova
perchè si è giusti è già una sorta di premio : Socrate dice che magari potrebbe esserci una vita
ultraterrena , ma lui non lo sa . Tra le varie accuse rivolte c'era anche quella di ateismo e di empietà :
Socrate infatti credeva nei demoni , che lui proclamava " figli delle divinità " . Lui dimostra che è
un'accusa sbagliata dicendo che se crede nei demoni che sono figli delle divinità , è ovvio che creda
anche nelle divinità : perchè ci sia il figlio (demone) , ci devono anche essere il padre e la madre (le
altre divinità) .
Ma che cosa era questo demone ? Abbiamo due testimonianze divergenti : per Platone era una sorta
di angelo custode - coscienza personale che interveniva ogni qual volta Socrate stesse per
sbagliare : si tratterebbe di una sorta di " aiuto privilegiato " che non tutti hanno : solo le persone per
bene . E' un dono divino per i buoni . E' come se la divinità partecipasse alla vita umana . Per
Senofonte invece il demone è un'entità che lo spinge ad agire in determinati modi : Senofonte
intende ancorare fortemente Socrate alla credenza in un ordine divino e in un intervento divino nella
vita umana . Per Socrate l'importante non è vivere, ma vivere bene : quando la nostra anima è sana ,
giusta , allora anche noi stiamo bene .

Sempre Senofonte nei " Detti memorabili " riassume la prova dell'esistenza di Dio formulata da
Socrate in questi termini : ciò che non è opera del caso postula una causa intelligente , con
particolare riguardo al corpo umano che ha una struttura organizzata non casuale . Per questa sua
origine l'uomo è ritenuto superiore a tutti gli altri animali ed è oggetto dell'interesse di Dio , come si
deduce anche dalla possibilità di conoscere i suoi progetti sull'uomo ricorrendo all'arte della
divinazione . Va notato che il Dio socratico (inteso come intelligenza finalizzatrice) è una sorta di
elevazione a entità assoluta della psychè umana . Molti hanno notato che gli accusatori non volevano
in realtà condannarlo a morte , ma semplicemente zittirlo . Ma Socrate non può accettare di essere
zittito : il suo destino è andare in giro a colloquiare con la gente . Vivere bene per Socrate significa
svolgere quest'attività e non rifiutare di essere colpevole significava non far perdere significato alla
sua vita . Dal momento che era già vecchio e gli restavano pochi anni di vita , tanto valeva farla finita
lì , ma non rinunciare ai suoi ideali .

Prima dell'esecuzione della pena capitale , a Socrate era stata presentata la possibilità di evadere dal
carcere, ma lui si era rifiutato : in lui infatti vi era il massimo rispetto per la legge , che non si deve
infrangere in nessun caso . La legge può essee criticata , ma non infranta : di fronte ad una legge
ingiusta non bisogna infrangerla , ma bisogna battersi per farla cambiare . Socrate afferma che
sarebbe stato suo dovere far cambiare la legge e che non essendoci riuscito è giusto che lui muoia .
Gli Ateniesi son convinti di essersi liberati di Socrate avendolo eliminato fisicamente , ma in realtà
per liberarsene completamente avrebbero dovuto " ucciderlo filosoficamente " , batterlo a parole . In
realtà volevano farlo tacere , ma han sortito l'effetto opposto : Platone infatti , che era intenzionato a
dedicarsi alla vita politica , resterà sconvolto per condanna del maestro e si dedicherà alla filosofia .

In Socrate vi è una vaga idea di provvidenza divina , ma non collettiva , bensì individuale : la divinità
aiuta solo i migliori . Celeberrima è la conclusione dell' Apologia , in cui Socrate si rivolge ai suoi
discepoli prima di essere giustiziato : " Ma ormai è ora di partire : io verso la morte , voi verso la
vita . Chi di noi cammini a una meta superiore è oscuro a chiunque : non al mio dio." Nel " Simposio
" di Platone (vedi in fondo), Alcibiade afferma che Socrate non assomiglia a nessuno degli uomini del
passato e del presente : è una figura nuova . Non si interessa di politica , ma non la disprezza , non
rifiuta i festini , ma non vi si identifica ( nel " Simposio " tutti i convitati si addormentano , Socrate
no ) .

Soffermiamoci ora maggiormente sulla tecnica discorsiva di Socrate : la confutazione è la tecnica


che dimostra l'inconsistenza del sapere dei propri interlocutori . Ma per arrivare a questo risultato
bisogna partire dal metodo delle domande e delle risposte . " Che cosa è la giustizia ? " può essere il
punto di partenza per il dibattito : porre questa o qualsiasi altra domanda del genere significa
richiedere la definizione delle cose in questione , che però deve essere valida per tutti i casi
particolari . In questo senso la ricerca di Socrate è stata interpretata da Aristotele come ricerca
dell'universale , nell'ambito dei concetti e dei problemi morali . Gli interlocutori di Socrate si
dimostrano incapaci di rispondere correttamente alla domanda sia perchè sottovalutano Socrate
(che dice di essere inferiore) sia perchè rispondono citando casi particolari , anzichè la definizione
universale . Abbiamo già citato il caso della domanda " Che cosa è il coraggio ? " : rispondere " non
indietreggiare mai " è sbagliato , così come dire " assalire il nemico " : si può essere coraggiosi
anche nell'affrontare una malattia o un'interrogazione : una definizione corretta deve coprire tutti i
casi possibili .

Nella sua funzione negativa il metodo delle domande e risposte si caratterizza come confutazione ,
ossia dimostrazione della falsità o contradditorietà delle risposte date dall'interlocutore. Gli effetti
prodotti dall'esercizio di questo metodo sono paragonati a quelli della torpedine marina , che
intorpidisce coloro che tocca . Di fronte alla confutazione si può reagire rifiutandola , come fanno
vari interlocutori di Socrate . Ma , se la si accetta , essa può liberare dalle false opinioni che si hanno
sui vari argomenti e agire dunque come una forma di purificazione . La situazione , che risulta dalla
confutazione , è detta aporia , ossia letteralmente situazione senza vie di uscita . Essa consiste nel
rendersi conto che i tentativi sin qui percorsi di rispondere a un determinato problema , hanno
condotto a un vicolo cieco . Ma in questa nuova situazione , liberi dal falso sapere e soprattutto dalla
presunzione di sapere , ci si può accingere alla ricerca del vero sapere , tentando nuove stade che
possano condurre ad esso . In questo nuovo orientamento il metodo delle domande e risposte può
assolvere una funzione positiva . Essa è paragonata alla funzione svolta dalla maieutica , capace di
far partorire ad ognuno , mediante domande opportunamente indirizzate , la verità , di cui ciascuno è
gravido .

Socrate si ostina incessantemente a far convergere i propri interlocutori nell'ammissione di un punto


fondamentale : per saper agire bene , cioè virtuosamente , in un determinato ambito , occorre
possedere il sapere che renda capaci di ciò . A questo risultato egli perviene mediante l'analogia con
le tecniche : il buon artigiano che sa svolgere bene la propria attività possiede un sapere capace di
guidarlo a questo risultato . La stessa cosa deve valere in ambito etico-politico : questo è il nocciolo
della famosa tesi secondo cui la virtù è scienza . Questa tesi conduce ad alcune conseguenze . In
primo luogo , chi conosce che cosa è bene e quindi anche che cosa è buono per lui non può non
farlo . Il bene è dotato di un potere incontrastabile di attrazione . Ciò non significa che Socrate
disconosca l'importanza delle passioni e delle emozioni nella vita umana , ma soltanto che in ogni
ambito della vita umana l'unico strumento capace di orientare verso il comportamento corretto è
ravvisato nel sapere . La posizione etica di Socrate non va confusa con forme di rigorismo ascetico .
Essa è invece definibile come una forma di eudemonismo , perchè pone come obiettivo
fondamentale il perseguimento della felicità (in Greco eudaimonia ) . E' il sapere che è in grado di
effettuare un corretto calcolo degli stessi piaceri , misurando le conseguenze piacevoli o dolorose
che essi possono arrecare . Questo è il sapere , di cui Socrate dichiara di non essere in possesso ,
ma proprio per questo è il sapere che egli persegue . Non ha senso allora distinguere le varie virtù
nettamente le une dalle altre : la virtù è una , come uno solo è il sapere in cui esse si compendiano :
sapere che cosa è bene e che cosa è male .

APOLOGIA
A parlarci di Socrate sono in tanti , tuttavia la testimonianza di Platone resta la migliore e le altre
vanno sfruttate come appoggio . Platone conosceva davvero bene Socrate ed era lui stesso un gran
filosofo : il grosso limite è che trattandosi di un filosofo , Platone avrebbe potuto rimaneggiare i
discorsi di Socrate , ed è proprio quel che fa man mano che invecchia . " L'apologia " , per fortuna ,
resta un dialogo giovanile nel quale Platone descrive il processo che decretò la condanna a morte di
Socrate . E' proprio in questo dialogo che emerge fortemente la differenza tra Socrate ed i sofisti : i
sofisti pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti , ma totalmente privi di verità : per loro
l'importante era parlar bene , avere un buon effetto sulle orecchie degli ascoltatori . Per Socrate
invece quel che più conta è la verità : lui si proclama incapace di controbattere a discorsi così
eleganti e ben formulati (ma falsi) .

Socrate , pur non tenendo un'orazione raffinata , dice il vero : la critica ai sofisti verrà poi ripresa da
Platone stesso . I sofisti puntavano a stupire l'ascoltatore , dal momento che erano convinti che la
verità non esistesse (soprattutto Gorgia . Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un
discorso (come i sofisti) , ma imposta un dialogo botta e risposta : è proprio dal discorso che viene a
galla la verità (Platone dirà che il discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal
quale nasce la fiamma della conoscenza) . Lo stile oratorio di Socrate è scarno , secco e quasi
familiare , modulato a seconda dell'interlocutore . Il punto di partenza del discorso socratico è la
cosiddetta " ironia socratica " , ossia la totale autodiminuzione , " io non so , tu sai " .

Per il Cristianesimo la ricchezza è un male , per Socrate e Platone è un bene finchè non entra in
conflitto con gli altri beni . Interessante è il concetto socratico di ingiustizia : essa non danneggia chi
la subisce , ma chi la commette . La giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è ingiusto
perde questo piacere , mentre chi subisce l'ingiustizia continua a provarlo . Questo vale anche per
Platone, il moscone che stimola il cavallo : lui stimolava gli uomini a ragionare .

In Socrate vi è una vaga idea di provvidenza divina , ma non collettiva , bensì individuale : la divinità
aiuta solo i migliori . Celeberrima è la conclusione dell' Apologia , in cui Socrate si rivolge ai suoi
discepoli prima di essere giustiziato : " Ma ormai è ora di partire : io verso la morte , voi verso la
vita . Chi di noi cammini a una meta superiore è oscuro a chiunque : non al mio dio ."

VERSIONE INTEGRALE
PLATONE: L' APOLOGIA DI SOCRATE
"Io proprio non so quale impressione vi abbiano fatto, ateniesi, le parole dei miei accusatori; quanto
a me, credevo di non essere più io, tanto quei loro discorsi mi parvero persuasivi; e il bello è che non
c'era una parola che rispondesse al vero. Ma fra tutte le loro menzogne una sola, soprattutto, mi ha
stupito, cioè quella che voi dovete stare in guardia e non lasciarvi ingannare da me che sarei un abile
parlatore.

E il fatto che costoro non si siano vergognati pensando che io, presto, li avrei smentiti dimostrando
di non essere affatto quell'abile parlatore che essi sostenevano, mi è parsa la loro più grande
impudenza, a meno che costoro non chiamino buon oratore chi dice la verità, nel qual caso, io
stesso devo convenire di essere tale, ma non nel senso che dicono loro.

In ogni caso, ripeto, costoro non hanno detto nulla, o quasi, di vero; da me, invece, voi udrete tutta la
verità. Oh, non certo, cittadini, con discorsi ricercati, come han fatto costoro, abbelliti da frasi e
termini raffinati, ma con parole alla buona, come mi vengono, perché io so che quello che dico è
giusto: non vi aspettate altro da me.

E, d'altronde, sarebbe indecoroso, alla mia età, venirvi a raccontare fandonie, proprio a voi, come un
ragazzino. Io, però, vi chiedo una cosa e vi prego di concedermela: se nella mia difesa mi udrete
parlare al mio solito, come facevo in piazza, presso i banchi dei cambiavalute o altrove, dove molti di
voi si fermavano ad ascoltarmi, non vi scandalizzate, vi prego, e non protestate per questo.

Il fatto è che, a settant'anni, questa è la prima volta che entro in un tribunale e, così, sono del tutto
inesperto del linguaggio forense. Del resto, io penso che voi mi perdonereste se fossi straniero e
parlassi in quel dialetto e con quell'accento in cui fossi stato allevato; e, dunque, mi sembra giusto
chiedervi di non badare allo stile del mio discorso, bello o brutto che sia. Quel che importa è che voi
facciate attenzione se io dico cose giuste o meno perché questa è, in fin dei conti, la virtù del
giudice, mentre quella dell'oratore è di dire la verità.

II
Ebbene, cittadini, io devo, prima di tutto, difendermi dalle false accuse che mi furono mosse per il
passato e dai miei primi accusatori, poi risponderò a quelle più recenti e agli accusatori attuali.

Infatti, molti sono stati quelli che, per il passato, anzi fin da molti anni fa, mi hanno accusato davanti
a voi: costoro non dicevano che menzogne, ma sono proprio questi, per me, i più pericolosi, più di
Anito e compagni, che pure non scherzano, i più temibili, che cominciarono con voi, - da quei ragazzi
che eravate - a spargere calunnie nei miei riguardi e ad accusarmi, dicendovi che c'era un certo
Socrate, un sapientone, tutto intento a indagare sui fenomeni celesti e sui misteri che cela la terra e
capace di far passare per buona anche la causa peggiore. Costoro che, sul mio conto, hanno diffuso
una simile favola, sono gli accusatori più pericolosi, perché quelli che li sentono parlare in questo
modo si convincono che chi fa simili indagini non crede nemmeno in dio. Aggiungete poi che sono
numerosi e che vanno avanti da tanto tempo con simili accuse e che hanno incominciato a rivolgersi
a voi quando eravate ancora in quell'età in cui, di solito, si crede a tutto ciò che si sente dire, quando
cioè eravate ancora giovinetti, alcuni addirittura fanciulli e che, per di più, accusavano un assente,
che nessuno poteva difendere.

Ma la cosa più sconcertante è che non è possibile sapere nemmeno i loro nomi e riferirveli, salvo,
forse, quello di un certo scrittore di commedie. Ma gli altri, quelli che, per invidia o malvagità, vi
insinuavano simili calunnie o quelli che se ne persuadevano e, a loro volta, convincevano gli altri,
ebbene, costoro sono i più difficili da confutare. Infatti, non è possibile citarli in giudizio, né
convincerli, ed io, se voglio difendermi, devo proprio, come suol dirsi, combattere con delle ombre,
parlare senza che nessuno risponda.

Comunque, sappiate anche voi che i miei accusatori sono di due specie: quelli che mi hanno di
recente accusato e quelli di cui sto parlando, che l'han fatto in passato. Capirete bene che è da
questi ultimi che io, prima di tutto, devo difendermi, anche perché, tra tutti quelli che mi hanno
accusato, costoro sono stati i primi che voi avete udito e molto più degli altri, che son venuti dopo.

E sta bene, cittadini: è necessario che mi difenda, che cerchi di cancellare, nel poco tempo che ho a
disposizione, questa cattiva opinione nei miei riguardi che in voi s'è radicata in lunghi anni. Vorrei
proprio riuscirvi, se fosse un bene per me e per voi e concludere qualcosa con questa mia difesa; ma
so che non è una cosa da poco e non mi nascondo la difficoltà.
Sia, comunque, come piace a dio, io devo solo obbedire alla legge e difendermi.

III
Riprendiamo la cosa dal principio e vediamo un po' quale è stata l'accusa da cui, poi, è derivata
questa brutta fama nei miei riguardi per cui Meleto si è sentito in dovere di promuovere contro di me
questo processo. Vediamo un po': cosa dicevano i miei calunniatori? Leggiamo l'atto di accusa,
come se essi fossero degli accusatori in piena regola: «Socrate è colpevole; perde il suo tempo
scrutando i misteri della terra e del cielo, fa passare per buona anche la causa peggiore e insegna
agli altri queste cose.»

Presso a poco, questa è l'accusa. Del resto, voi stessi avete visto cose del genere nella commedia di
Aristofane: un certo Socrate che andava su e giù per la scena dicendo di camminare per aria e
spacciando altre simili stupidaggini, a proposito delle quali io non ho proprio nulla da spartire, né
poco né tanto. E sia chiaro che io non dico questo per disprezzare una simile scienza o chi si occupa
di queste cose, per carità!

Che Meleto, poi, non m'abbia ad accusare anche di questo. Ma il fatto è, ateniesi, che io di queste
cose non ne so nulla. E chiamo a testimoni la maggior parte di voi e vi prego di chiedervi, quanti
siete che mi avete ascoltato, ah, certo molti, vi chiedo di informarvi, dunque, se c'è stato mai uno
solo di voi che mi ha sentito discorrere di queste cose. Di qui vi renderete conto che anche tutto il
resto che si dice contro di me, ha lo stesso valore.

IV
In realtà, nulla di tutto questo è vero. E se, poi, avete udito qualcuno dire che io istruisco i giovani
pretendendone, in cambio, del denaro, neppure questo è vero. Anche se, a mio avviso, sarebbe una
bella cosa esser capaci di insegnare come Gorgia di Leontini o Prodico di Ceo oppure Ippia di Elide.
Costoro, Ateniesi, passano da una città all'altra e son capaci di persuadere i giovani (che potrebbero
gratuitamente e liberamente frequentare le scuole cittadine) ad abbandonarle e, pagando fior di
quattrini, a seguire, invece, il loro insegnamento e, per giunta, a dimostrarsene grati. E non sono i
soli: c'è anche uno di Paro, gran sapiente, che ora, a quanto mi han detto, è qui in città.

Ho incontrato, infatti, un tizio, un certo Callia, figlio di Ipponico, che ha pagato ai sofisti tanto denaro
quanto tutti gli altri messi insieme. «Callia,» gli chiesi, (voi sapete che ha due figli) «se i tuoi figlioli
fossero puledri o vitelli, bisognerebbe prendere e stipendiare una persona capace di metterne in
risalto le qualità naturali, per esempio un conoscitore di cavalli o un esperto in agricoltura, ma dato
che sono uomini, a chi intendi affidarli? Chi pensi sia capace di esaltare le loro virtù umane e civili?
Penso che tu te lo sia posto il problema, dato che hai figli. C'è qualcuno che fa al caso loro o no?»
«Sicuro che c'è,» mi rispose. «E chi è? Da dove viene? E a che prezzo insegna?» «È, Eveno, uno di
Paro, Socrate, e insegna per cinque mine.» Allora io pensai che questo Eveno era proprio una
persona in gamba se possedeva tutta questa scienza e sapeva così abilmente insegnarla. Io,
sinceramente, ne andrei fiero e tutto soddisfatto se sapessi fare una cosa simile ma davvero non ho
questa abilità, cittadini.

V
Ma, ora, qualcuno di voi, probabilmente, potrebbe obbiettarmi: «Ma allora, Socrate, com'è nato tutto
questo pasticcio? Da dove son venute fuori tutte queste accuse contro di te? Certo è che se tu non
avessi trafficato più degli altri, non sarebbe nata, nei tuoi riguardi, una simile diceria. Dicci, quindi,
come stanno le cose perché non sia avventato il nostro giudizio.»

Chi mi chiedesse questo, per conto mio, avrebbe ragione ed io, perciò, tenterò di mostrarvi come
siano nate queste calunnie. Statemi a sentire, dunque, e anche se qualcuno crederà che io prendo la
cosa per ischerzo, sappiate, invece, che vi dirò la pura verità.
Vedete, cittadini, questa bella reputazione io me la son fatta per nessun altro motivo che per la
sapienza. Ma quale sapienza, in effetti? Verisimilmente quella che è propria dell'uomo. Perché è
questa la sola che posseggo; quelli, invece, di cui parlavo poco fa - non so che dirvi - hanno forse
una sapienza superiore all'umana; certo è che io non la conosco e chi afferma il contrario mente e lo
fa per calunniarmi.

Non protestate ora, ateniesi, se quello che sto per dirvi vi sembrerà presuntuoso; non sono parole
mie ma di chi in tutto è degno di fede, voglio alludere al dio di Delfi, che prenderò a testimone della
mia sapienza, qualunque essa sia, se di sapienza si può parlare.

Certamente lo conoscete Cherofonte; fin da ragazzo fu mio amico, sincero democratico, che
condivise con voi l'esilio e con voi fece ritorno in patria. E sapete, perciò, anche il suo carattere,
come ce la mettesse tutta nelle cose che faceva. Dunque, un giorno che era andato a Delfi, ebbe la
faccia tosta di chiedere questo al dio (vi prego, non protestate, cittadini, per questo che vi dico),
chiese, insomma, se ci fosse qualcuno più sapiente di me e la Pizia gli rispose che non c'era
nessuno. Di questa risposta può farsi garante suo fratello, che è qui presente, dato che lui è morto.

VI
Vi dico tutto questo perché desidero che voi sappiate da dove è nata la calunnia. Dunque, quando io
seppi la risposta dell'oracolo, mi chiesi: «Che cosa ha voluto dire il dio? E che cosa nasconde sotto i
suoi enigmi? Io, in coscienza, so bene di non essere sapiente, né tanto né poco. E allora, che cosa
ha voluto dire affermando che lo sono più di tutti? Certo lui non dice menzogne, non può dirle.»

E, per molto tempo, così, non riuscii a farmi una ragione su quello che avesse voluto intendere.
Finalmente mi decisi ad indagare sulla cosa in questo modo. Mi recai da uno che, in fatto di
sapienza, passava per la maggiore, sicuro che, in tal modo, avrei potuto smentire l'oracolo e
dimostrare la falsità del responso. «Ecco qui uno più sapiente di me, mentre tu dicevi che ero io»
avrei potuto ribattere.

Interrogando quest'uomo (è inutile dirvene il nome, sappiate solo che era uno dei nostri esponenti
politici), conversando con lui, ebbi questa impressione, ateniesi, che fossero gli altri a ritenerlo
sapiente e, soprattutto, che lui stesso si credesse tale ma che, in realtà, non lo fosse affatto. Io,
allora, tentai di dimostrargli che non era sapiente anche se credeva di esserlo, con il bel risultato che
mi tirai addosso il suo rancore e quello dei presenti. Andandomene, però, pensai: «Certo sono più
sapiente io di quest'uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel
niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono per lo
meno convinto, perciò, un tantino di più ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non
so, nemmeno credo di saperlo.»

Volli, comunque, recarmi da un altro, considerato altrettanto sapiente, ma ne ebbi la stessa


impressione e anche qui mi attirai il suo odio e quello di molti altri.

VII
Nonostante questi risultati, insistetti, anche se andavo riconoscendo, con rammarico e con una certa
apprensione, che mi stavo facendo dei nemici. Però dovevo venire a capo della faccenda e,
soprattutto, tener nel massimo conto il responso del dio, continuando a indagare presso quelli che si
ritenevano sapienti; ma, perbacco, cittadini, dato che devo dirvi la verità, ecco quello che mi
succedeva: nell'indagine che svolgevo per accertare il senso dell'oracolo, quelli che erano i più
celebrati, mi parevano, quasi quasi, i più sprovveduti, gli altri, invece, che non erano tenuti in alcun
pregio, mi sembravano i meglio dotati. Bisogna che ve lo racconti questo mio pellegrinaggio, come
quello di uno che sopportò un mucchio di fastidi pur di verificare l'infallibilità dell'oracolo.

Così, dopo i politici, mi recai dai poeti, scrittori di tragedie, di liriche o d'altre cose, sicuro com'ero,
questa volta, di toccare con mano quanto io fossi più ignorante di loro. Prendevo le loro opere,
quelle che mi parevano le più elaborate e gli chiedevo di spiegarmele anche perché, nello stesso
tempo, io potessi imparare qualcosa. Ebbene, ateniesi, mi vergogno di dirvi la verità, ma lo devo:
tutti quelli che erano lì presenti avrebbero parlato quasi meglio di loro che pure erano gli autori.
Insomma, capii ben presto che i poeti componevano le loro opere non facendo uso del cervello ma
per una certa disposizione naturale, per una sorta di ispirazione, come gli indovini e i profeti. Anche
costoro, infatti, dicono molte e belle cose, ma senza rendersene conto. Lo stesso accadeva ai poeti;
anzi, mi accorsi, nello stesso tempo, che in virtù del loro talento poetico, credevano di essere i più
sapienti di tutti, anche in tutto il resto, senza poi esserlo affatto.

E così li piantai, convinto di saperne più di loro, per quello stesso motivo per cui mi ero sentito già
superiore agli uomini politici

VIII
In ultimo, volli recarmi dagli artisti. Ero cosciente di non sapere, per così dire, nulla e quindi credevo
che, almeno costoro, ne sapessero molto di più. E, infatti, non mi ingannavo perché essi sapevano
molte cose che io non conoscevo e, in queste, erano più sapienti di me. Soltanto, cittadini, anche
questi valenti artisti, mi pareva che avessero lo stesso difetto dei poeti: per il fatto che sapevano
egregiamente il loro mestiere, si ritenevano gran sapienti in tutto il resto, anche nelle cose più difficili
e questa presunzione oscurava la loro reale e specifica capacità.

Stando così le cose io mi chiedevo, sempre per giustificare il responso dell'oracolo, se non era
meglio che rimanessi quello che ero, cioè, senza la loro sapienza ma anche senza quella loro
ignoranza o, piuttosto, che avessi anch'io ambedue le cose che essi possedevano. E finii per
rispondere all'oracolo e a me stesso che era meglio restare com'ero.

IX
Ateniesi, tutte le ostilità nei miei riguardi, le più accanite e malvage, tutte le calunnie, la stessa fama
di sapiente, sono nate da questa mia indagine.

Infatti tutti quelli che erano lì presenti ogni volta che io dimostravo a qualcuno la sua ignoranza, cre-
devano che io ero un pozzo di sapienza. Ma, in real-tà, ateniesi, soltanto dio è sapiente e in quel
responso egli ha voluto appunto dire che la sapienza umana è ben poca cosa, anzi, nulla addirittura.
Evidentemente, se il dio ha parlato di Socrate, lo ha fatto solo per servirsi del mio nome, come di un
esempio, quasi per dire: «O uomini, il più sapiente di voi è chi, come Socrate, sa che la sua sapienza
non conta proprio nulla.»

E ancora adesso io vado in giro a cercare e a indagare se qualche concittadino o anche qualche
forestiero sia sapiente, secondo il pensiero del dio e quando vedo che non lo è, solo per concordare
col dio, io glielo dimostro.

Per questa mia occupazione, non ho avuto mai il tempo di far qualcosa di importante nella vita
pubblica, né di curare i miei interessi privati e vivo in grande povertà, come sono tutto al servizio del
dio.

X
Aggiungete a quanto vi ho detto il fatto che sono i giovani, soprattutto quelli delle migliori famiglie,
che hanno più tempo libero, a seguirmi spontaneamente e a godersi un mondo nel vedere questi
uomini presi sotto il tiro delle mie domande; molte volte essi stessi mi imitano e s'industriano a
interrogare gli altri e, sapete, ne trovano anche loro di persone che credono di sapere e poi sanno
poco o nulla. E, così, succede che gli interrogati non se la pigliano mica con loro ma con me e vanno
a dire in giro che Socrate è un corrotto e ti guasta i giovani. E quando qualcuno gli chiede che cosa
fa costui e che cosa insegna per corromperli, non sanno che dire e tacciono; ma per non far vedere il
loro imbarazzo ti tiran fuori le solite sciocchezze che si usano dire contro chi ama il sapere, cioè che
Socrate scruta i misteri del cielo e quelli della terra, non crede negli dei e fa apparire per buona la
causa peggiore.

La verità è che essi non vogliono ammettere, con tutta quell'aria di sapientoni che si danno, di non
saper nulla. E poiché sono ambiziosi, ostinati, numerosi per giunta, e tutti d'accordo nel calunniarmi,
riescono anche persuasivi, riempiendovi, da un sacco di tempo, le orecchie con le loro violente
accuse.

Ecco come Meleto, Anito, Licone mi hanno dato addosso: Meleto in nome dei poeti, Anito per gli
artisti e per i politicanti, Licone per gli oratori, tutti arrabbiatissimi.

Per questo, come vi dicevo in principio, io sarei molto sorpreso se fossi ora capace, nel poco tempo
a mia disposizione, di dissipare questa calunnia che s'è così gonfiata.
Questa è la verità, cittadini, ed io vi ho parlato senza nulla nascondervi e nulla dissimularvi. Ma io so
che, forse, questa è proprio la ragione di tanto odio contro di me. Ma quest'odio prova anche che io
dico la verità e che questa è la calunnia che mi perseguita, queste le cause.

Comunque indagherete, oggi o domani, troverete che le cose stanno effettivamente così.

XI
Comunque penso che quanto ho detto sia sufficiente contro le calunnie dei miei primi accusatori. E
ora passiamo a Meleto, uomo onesto e buon patriota, come egli va dicendo, e agli accusatori più
recenti.

Come se questi fossero diversi, prendiamo anche la loro dichiarazione giurata. Essa dice presso a
poco così: «Socrate è colpevole perché corrompe i giovani e perché non crede negli dei della patria,
ma in nuove divinità.» Questa è l'accusa. Ma esaminiamola punto per punto. Essa dice che io sono
colpevole perché corrompo i giovani e invece io dico che il colpevole è proprio Meleto che scherza
su cose serie, che a cuor leggero ti trascina un uomo in tribunale, che fa lo zelante e finge di
prendersi cura di cose alle quali non s'è mai interessato. E cercherò di dimostrarvelo:

XII
E allora, Meleto, dimmi un po', non ti sta a cuore che i giovani vengano su quanto più è possibile
beneducati?
«Certamente.»
E, perciò, di' a questi signori, chi è che li rende migliori? Tu devi saperlo, dato che ci tieni alla cosa.
Tu hai trovato chi li corrompe, sono io (a quanto dici) e perciò mi trascini dinanzi ai giudici e mi
accusi. Ma di' pure, suvvia, chi li rende migliori? indicalo ai presenti. Lo vedi, Meleto? Tu taci, non
hai nulla da dire. E ti sembra bello da parte tua, questo? E non è forse una prova sufficiente questo
tuo silenzio, a confermare quello che, appunto, io ho detto, che cioè, di queste cose te ne sei sempre
infischiato? E allora, amico bello, rispondi, chi li rende migliori, eh?
«Le leggi.»
Ma non è questo che ti ho domandato; ti ho chiesto l'uomo, il quale poi conoscerà anche le leggi di
cui tu parli.
«Guardali qui, Socrate, sono questi giudici.» Come, come, Meleto? Questi sono capaci di educare i
giovani e di renderli migliori?
«Oh, sì, certamente.»
E tutti ne sono capaci o soltanto alcuni sì e altri no? «Tutti.»
Ma bene, perdinci, quanta abbondanza di benefattori! E questi del pubblico, li rendono anch'essi
migliori o no?
«Anche loro.»
E i membri del Consiglio?
«Sì, anche i membri del Consiglio.»
Ma, allora, Meleto, sono i membri dell'Assemblea che corrompono i giovani o anche loro, quanti
sono, li rendono migliori?
«Sì, anche quelli.»
Ma, allora, tutti gli ateniesi, a quel che sembra, li rendono giovani per bene e buoni, tranne io; io solo
sono quello che li corrompe. Non è così?
«Sicuro, lo dico e lo ripeto.»
Ma che bella nomea di disgraziato che tu mi hai affibbiato! Stammi a sentire: credi che sia così anche
per i cavalli? Credi che tutti quanti siano capaci di migliorarli e che uno solo li guasti? Oppure che
soltanto uno sia capace di allevarli bene o, al massimo, pochi (quelli del mestiere) mentre tutti gli
altri, quando se ne occupano e li montano, finiscono per rovinarli? Non è così, Meleto, per i cavalli e
anche per tutti gli altri animali? Sicuro, lo vogliate o non lo vogliate, tu e Anito, le cose stanno
proprio così. Ah, sarebbe proprio una bella fortuna per i giovani, se ci fosse uno solo a corromperli e
tutti gli altri a far loro del bene.

Come vedi, Meleto, è chiaro che tu te ne sei sempre infischiato dei giovani e che ora sveli il tuo
disinteresse per quelle questioni per cui mi hai citato in tribunale.

XIII
Ma dicci un'altra cosa, Meleto. Com'è meglio vivere, tra cittadini buoni o malvagi? Suvvia, rispondi,
caro, non ti ho chiesto mica una cosa difficile. I malvagi, non fanno sempre del male al loro prossimo
e i buoni, invece, sempre del bene?
«Certo.»
E credi ci sia qualcuno che dal prossimo preferisca essere danneggiato piuttosto che favorito?
Rispondi, caro, perché anche la legge ti impone di rispondere. C'è chi vuole essere danneggiato?
«No di certo.»
E tu, mi hai trascinato in giudizio perché corrompo i giovani, perché li rovino, deliberatamente o
senza volerlo?
«Sicuro, deliberatamente.»

E com'è questo fatto, Meleto? Tu che sei giovane, sei tanto più saggio di me, che ne ho, di anni sulle
spalle. Così tu sai che i malvagi fanno sempre del male ai loro vicini e che i buoni sempre del bene;
io, invece, sono così stolto da non capire nemmeno che, se rendo malvagio uno di quelli che mi
vivono vicino, correrò il rischio di ricevere da costui qualche cattiva azione. Ed io mi esporrei a un
simile danno, di mia spontanea volontà, come tu dici? Oh, Meleto, non ti posso credere e penso che
nessuno crederà a queste cose. Quindi, e io non sono un corruttore o, se corrompo qualcuno, lo
faccio involontariamente e tu, in un caso o nell'altro, menti. Se, poi, io corrompo i giovani senza
volerlo, si tratta di una colpa involontaria che la legge non punisce con un'azione penale, ma esorta
soltanto a chiamare, in privato, il colpevole e ad animonirlo opportunamente.

È chiaro che, se giustamente ammonito, io non commetterò più il mio fallo involontario, E, invece, tu
ti sei ben guardato di convocarmi e di ammaestrarmi, ma mi hai trascinato qui, in tribunale, dove,
secondo la legge, si porta chi è meritevole di pena, non chi è bisognoso di un consiglio.

XIV
E allora, cittadini, mi sembra evidente quello che dicevo, che cioè Meleto non s'è mai minimamente
curato di queste cose.
Comunque, dicci un po', Meleto, in che modo credi che io corrompa i giovani? Secondo l'atto di
accusa che hai presentato, sarebbe insegnando a non credere negli dei della patria, ma in altre
divinità. Secondo te, non insegno questo ai giovani, non è così che li corrompo?
«Certo, proprio questo io sostengo.»
E, allora, Meleto, in nome di questi stessi dei di cui parliamo, spiegati meglio con questi giudici e con
me. Io non riesco a capir bene una cosa: non so se tu affermi che io insegno a credere in altre
divinità (in questo caso, però, non sarei un ateo e, da questo lato qui, dunque, nemmeno colpevole)
e, quindi, tu mi incolpi solo di non credere negli dei della patria, ma in altri, oppure sostieni che io
non credo affatto negli dei e lo vado insegnando?
«Sì, è questo che io sostengo, che tu non credi affatto negli dei.»
Sei straordinario, Meleto! Ma come fai a sostenere questo? A dire che io non credo, come gli altri
uomini, che il sole e la luna siano delle divinità?
«Sicuro, giudici, egli, per dio, sostiene che il sole è una pietra e la luna è di terra.»

Ma, così, tu accusi Anassagora, caro Meleto, e fai vedere che hai tanta poca stima dei presenti, che li
giudichi così ignoranti da non sapere che i libri di Anassagora di Clazomene son pieni di queste
teorie. E davvero, poi, i giovani verrebbero da me per imparare queste cose, quando con pochi
spiccioli, a dir molto, potrebbero comprarsele sulle bancarelle del teatro e prendersi il gusto di
deridere Socrate, se egli le spacciasse per sue, dato che son questioni non alla portata di tutti? Ma,
santo cielo, pensi proprio questo di me, che io non creda in alcun dio?
«A nessuno, assolutamente a nessuno.»

Sei incredibile, Meleto! Tu stesso non puoi credere a quello che dici. Vedete, cittadini, a me pare
proprio che costui sia un impudente e un violento e che abbia stilato questa accusa sotto l'impulso e
l'avventatezza della sua giovane età. Somiglia proprio a uno che, per mettermi alla prova, imbastisce
un rebus: «Vediamo un po' se quel sapiente di Socrate s'accorgerà che io sto scherzando e mi sto
contraddicendo o se riesco a infinocchiarlo insieme agli altri che mi ascoltano.»

Mi pare proprio che costui, nella sua accusa, non fa che contraddirsi, come se dicesse: «Socrate è
colpevole perché non crede negli dei, ma egli, negli dei, ci crede.»
Ma queste, signori miei, son proprio cose di uno che vuol prenderci in giro.

XV
E ora, ateniesi, state un po' a sentire com'è che egli afferma tutto questo e tu, Meleto, rispondi pure.
Voi, però, come vi pregai prima, non protestate se io parlo al mio solito.
C'è qualcuno, Meleto, che crede nell'esistenza di fatti pertinenti all'uomo, ma, poi, non crede che
esistono gli uomini? Suvvia, che mi risponda, ateniesi, invece di star lì a dimenarsi. E vi è chi non
crede all'esistenza dei cavalli ma a quella di cose ad essi pertinenti? Oppure chi non crede che
esistono i flautisti ma l'arte del flauto sì? No, mio bello, se tu non vuoi rispondere, rispondo io per te,
per questi signori. Tu, intanto, rispondi almeno a questo: c'è chi crede nelle opere divine e poi non
crede alle divinità?
«No, non ci può essere.»

Ah, qual grazia mi hai fatto, questa volta, rispondendomi, anche se a malincuore, perché ti ci hanno
costretto loro. Dunque, tu ammetti che io credo nelle opere divine e che insegni a credervi, antiche o
recenti che siano e che io vi creda, l'hai detto tu e poi l'hai dichiarato nell'atto di accusa. Ma se io
credo nelle opere divine, necessariamente, devo credere anche nelle divinità, non è così? Sì, certo,
anche per te, penso, dato che non rispondi. E questi esseri soprannaturali, non sono forse dei o figli
di dei? Sì o no?
«Ah, certo.»

E allora, se io credo in questi esseri, come tu stesso hai ammesso e se essi sono dei, è proprio come
dicevo io, che tu, cioè, proponi dei rebus e ti prendi gioco di noi, dicendo che io non credo negli dei e
poi che ci credo per il fatto che ammetto gli esseri divini. E se, d'altra parte, questi esseri sono i figli
illegittimi degli dei o nati, a quel che si dice, da ninfe o da donne, chi è quell'uomo che potrebbe
credere che esistono i figli degli dei e non esistono gli dei? Sarebbe un'assurdità. come dire, per
esempio, che esistono i muli, nati appunto, dai cavalli e dagli asini, ma che non esistono asini e
cavalli. No, Meleto, non è possibile pensare che tu abbia mosso quest'accusa se non per mettermi
alla prova o perché non sapevi qual'altra colpa imputarmi. Come, poi, tu possa persuadere qualcuno,
anche di poco cervello, che un uomo creda nelle opere divine e soprannaturali e poi non creda nelle
divinità, negli dei e negli eroi, questo mi sembra impossibile.

XVI
Insomma, cittadini, a me pare che non occorra un'ulteriore difesa per dimostrare l'infondatezza
dell'accusa di Meleto ma che siano sufficienti le cose già dette.

La verità è, invece, che io mi sono attirato l'odio di molti ed è questo che mi perderà. Se io verrò
condannato, non sarà certo né per Meleto, né per Anito, ma per l'invidia e la generale calunnia. Esse
hanno portato alla rovina molti altri galantuomini e molti ancora ne perderanno. Ah, io, certo, non
sarò l'ultimo.

Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe dirmi: «Non ti vergogni, Socrate, di avere svolto un'attività
per la quale, ora, corri il rischio di morire?» A costui io potrei ragionevolmente rispondere: «Hai
torto, amico, se pensi che un uomo di qualche merito debba star lì a calcolare il rischio di vita e di
morte, invece di pensare se ciò che fa è giusto o ingiusto e se si è comportato da uomo onesto o
malvagio. Secondo il tuo ragionamento sarebbero stati degli sciocchi quei semidei e tutti quegli altri
che morirono sotto le mura di Troia, compreso il figlio di Tetide che, incapace di ogni viltà, ebbe
sempre in dispregio il pericolo. Quando, infatti, la madre, che pur era una dea, lo vide tutto bramoso
di uccidere Ettore, io credo che gli disse presso a poco così: ‹ Figlio mio, se tu vendicherai
l'uccisione del tuo amico Patroclo e ucciderai Ettore, anche il tuo destino si compirà ›. Ascoltò
Achille queste parole ma non tenne in alcun conto il pericolo e la morte, temendo, piuttosto, di vivere
come un vile senza aver vendicato l'amico: ‹ Ah, › rispose, ‹ possa io morire subito dopo aver punito
il colpevole, piuttosto che vivere deriso, qui, presso le navi ricurve, inutile peso alla terra ›. Credi
forse che egli si sia curato della morte e del pericolo?»

Poiché la verità sta in questo, cittadini: quando si è fatta la propria scelta, credendo sia la migliore o
quando un capo ti ha affidato un compito, bisogna restar saldi e affrontare i pericoli e non temere la
morte o altro, più del disonore. Questo io credo.

XVII
Per esempio, mi sarei comportato malissimo se, mentre a Potidea, ad Anfipoli, a Delio, rimasi, come
gli altri, al posto che coloro da voi scelti a comandarmi mi assegnarono, pur correndo rischio di
morte, quando poi dio mi ordinava, come penso e credo, di dedicarmi alla filosofia e di indagare su
me stesso e sugli altri, per timore della morte o di qualche altro pericolo, io avessi abbandonato il
mio posto. Oh, questa sarebbe una brutta azione e davvero qualcuno potrebbe citarmi in giudizio e
giustamente accusarmi di non credere negli dei, perché disubbidisco all'oracolo, temo la morte e
credo di essere sapiente senza esserlo. Poiché così è, ateniesi: temere la morte altro non è che
credere di esser saggi senza esserlo, di sapere ciò che non si sa. Infatti, nessuno sa che cosa sia la
morte, se per l'uomo il più grande dei beni; eppure tutti la temono come se fossero sicuri che essa è
il più grande dei mali. E non è forse la più riprovevole ignoranza, questa, di credere di sapere ciò che
non si sa?

E in questo, forse, ateniesi, io mi sento diverso dagli altri; e se dovessi credere di essere più
sapiente di qualche altro sarebbe per il fatto che, non conoscendo nulla dell'aldilà, non presumo di
saperlo. So, però, che commettere ingiustizia o disubbidire a chi è migliore di noi (sia esso un dio o
un uomo), è cosa turpe e vergognosa. E, quindi, mai temerò e fuggirò quelle cose che io non so se
siano buone, per altre che, invece, so e riconosco cattive.

E anche se ora voi mi assolveste contro la proposta di Anito che chiedeva per me o l'esilio o, una
volta comparso qui in tribunale, la morte, affermando che, se fossi rimasto impunito, i vostri figli,
praticando i miei insegnamenti, si sarebbero tutti corrotti, anche se ora mi diceste, per esempio:
«Socrate, noi non crediamo a quanto ha detto Anito e ti assolviamo, al patto, però, che tu non svolga
più le tue indagini, né ti occupi di filosofia, pena la morte», se voi, ripeto, mi lasciaste libero, ma a
queste condizioni, oh, io vi risponderei: «O ateniesi, io vi onoro e vi amo, ma devo obbedire a dio
prima che a voi e, quindi, fino all'ultimo respiro, fino a quando avrò vita, non abbandonerò la mia
missione di filosofo, non cesserò di esortarvi e ammmonirvi (chiunque voi siate), nel modo mio
solito»; direi, per esempio: «O a me carissimo tra gli uomini, cittadino di Atene, della città più
gloriosa e più grande del mondo, della più famosa per sapienza e nobiltà, non ti vergogni di curarti
delle ricchezze perché siano sempre più grandi, come le tue ambizioni e i tuoi onori, di non darti
pensiero né della tua saggezza né della verità, né dell'anima tua, per farla migliore?» E se qualcuno
di voi me lo smentisse e mi assicurasse, invece, che si cura di queste cose, io non lo lascerei a se
stesso, non lo abbandonerei, ma gli starei dietro, interrogandolo ed esaminandolo e se lo vedessi
millantare una virtù che, in effetti, non possiede, lo rimprovererei aspramente di trascurare le cose
che veramente valgono e di tenere in gran pregio, invece, quelle di nessun conto. Così mi
comporterei, con i giovani e con gli anziani, con chiunque io mi imbattessi, stranieri o compatrioti,
ma soprattutto con questi, che io sento più vicini a me per legame di sangue. Perché questo mi
ordina dio, sappiatelo, ed io penso che nessun bene maggiore sia mai venuto alla mia patria di
questa mia obbedienza al suo comandamento.

Questo è, in fondo, quello che faccio: cercare di persuadervi, giovani o vecchi che siate, a non
prendervi troppa cura del corpo e dei beni materiali prima che della vostra anima perché divenga
migliore, di dirvi che non dalla ricchezza nasce la virtù, ma che dalla virtù deriva, piuttosto, ogni
ricchezza e ogni bene, per l'individuo come per gli stati.

Se con questi discorsi io corrompo i giovani, vorrà dire che essi sono dannosi, se invece, qualcuno
afferma che altri sono i miei insegnamenti, costui parla a vanvera.

E allora io vi dico, cittadini, crediate o non crediate ad Anito, mi assolviate o meno, io non agirò
diversamente, nemmeno se dovessi mille volte morire.

XVIII
Non interrompetemi, cittadini, vi prego, non protestate per quello che dico, ma vogliate ancora
ascoltarmi ché, oltretutto, ne potrete, io penso, trarre profitto. Ciò che sto per dirvi vi farà gridare, ma
non lo fate, vi prego.

Se mi condannerete a morte, poiché sono quel che vi ho detto, voi non danneggerete me più che voi
stessi. Nessun danno possono, infatti, arrecarmi né Meleto, né Anito. Non lo possono perché non
credo che un malvagio possa fare del male a un uomo buono. Potrebbero uccidermi, forse mandarmi
in esilio, privarmi dei diritti civili; per loro e per altri queste, forse, sono grandi disgrazie; ma io non la
penso così. Per me è assai peggior male far quello che stan facendo costoro: uccidere un uomo
ingiustamente. Non è quindi me che difendo ora, come qualcuno potrebbe credere, ma voi, cittadini,
perché condannandomi, non vi rendiate colpevoli verso un dono di dio. Se voi mi ucciderete, infatti,
non tanto facilmente troverete un altro simile a me, che il volere di un dio ha inviato nella vostra città
(perdonatemi il paragone forse ridicolo) come un moscone sopra un cavallo alto e di buona razza ma
alquanto pigro per la sua stessa mole e bisognoso di essere sempre stimolato.
Un simile compito dio sembra avermi affidato nella nostra città per cui io, senza sosta, vi sono da
presso, per stimolarvi, per esortarvi, per rimproverarvi, ad uno ad uno, ogni giorno. Un altro come
me, ateniesi, non lo troverete facilmente. Ecco perché se mi darete ascolto, voi mi risparmierete.

O, forse, accadrà che voi, stizziti come chi nel sonno vien destato all'improvviso, ascolterete Anito e
mi colpirete, mandandomi stupidamente a morte. Ma allora voi continuerete a vivere come
dormendo, per il resto della vostra vita, se dio non avrà compassione di voi e non vi manderà
qualcun altro.

Comunque, da quanto sto per dirvi, voi potrete riconoscere che io, come tale, sono stato offerto da
dio alla patria.

Infatti, esula dalle consuetudini degli uomini lasciare andare in malora, come ho fatto io, tutti gli
interessi privati, trascurare la famiglia per tanti anni, per occuparsi, invece, unicamente di voi,
standovi dietro come un padre o un fratello maggiore per indurvi ad essere virtuosi. Tutto questo si
sarebbe anche potuto spiegare se ne avessi ricavato qualche vantaggio, se vi avessi chiesto, in
cambio, del denaro. Ma voi stessi vedete che i miei accusatori, che hanno accumulato su di me
accuse così impudenti, non sono stati capaci di trovare un solo testimone che dicesse che io mi sia
fatto una sola volta pagare o abbia chiesto qualcosa. Sono io, invece, che presento un testimone
inconfutabile, che attesta la verità di ciò che dico: la mia povertà.

XIX
Ma, forse, potrebbe sembrare strana una cosa, che io mi prodighi e mi affanni per darvi consigli in
privato e che poi non osi partecipare alla vita pubblica e dare il mio contributo alla patria.

Come voi mi avete già sentito dire spesso e in altra sede, questo dipende dal fatto che in me c'è
come qualcosa di divino, di soprannaturale cui Meleto, deridendomi, ha già accennato nell'accusa.
Un fatto che mi si è manifestato fin da ragazzo, come una voce che mi parla dentro e che mi distoglie
da ciò che sto per fare, invece che esortarmi; essa mi ha sempre impedito di darmi alla vita politica;
io credo, del resto, che questo divieto sia stato quanto mai opportuno.

Infatti, se mi fossi messo nella politica, voi lo sapete bene, cittadini, sarei già morto da un pezzo e
non avrei potuto più giovare né a voi né a me stesso. Ma non ve la prendete se dico la verità: nessun
uomo riuscirà a salvarsi qualora vorrà opporsi lealmente a voi o al popolo e impedire che nella sua
patria avvengano ingiustizie e illegalità. Così, è bene che resti cittadino privato, lontano dalla vita
pubblica, chi vuole realmente combattere per la giustizia e conservarsi, anche per poco, in vita.

XX
Di quanto vi ho detto posso fornirvi sicure prove, e non a parole, ma a fatti ed è, poi, quello che voi
apprezzate di più. Voglio, infatti, raccontarvi quello che mi è successo, così vedrete che io, pur di
difendere la giustizia non indietreggerei di fronte a nessuno, nemmeno alla paura della morte e che
anzi, pur di non cedere, sarei pronto a morire. Vi dirò cose spiacevoli come s'usa nei processi, ma
vere.

Io, cittadini, non ho mai avuto una carica pubblica se non quella di membro del Consiglio dei
Cinquecento e, anzi, proprio quando voi decideste di processare in massa, illegalmente (come più
tardi fu ammesso), i dieci generali che non avevano raccolto i morti dopo la battaglia navale, la tribù
Antiochide (la mia) reggeva la pritania. Ricordo che fui il solo, tra i pritani, ad oppormi a voi perché
non fosse scavalcata la legge e votai contro; e sebbene gli altri oratori fossero pronti a denunciarmi
e a farmi arrestare, incoraggiati dalle vostre grida, io pensai che dovessi seguire la legalità e la
giustizia, al prezzo di ogni rischio, piuttosto che associarmi a voi e alla vostra politica ingiusta, per il
timore del carcere o della morte. E questo accadeva quando in patria c'era un governo democratico.

Quando si instaurò l'oligarchia, i Trenta mi mandarono a chiamare con altri quattro al palazzo del
governo e ci ordinarono di prelevare Leone di Salamina per metterlo a morte. Di simili ordini ne
dettero a molti altri, per comprometterne il maggior numero possibile. Fu allora che io feci vedere, a
fatti e non a chiacchiere, che della morte (scusate l'espressione) non me ne importava proprio un bel
niente: non far nulla di ingiusto e di empio, questo è ciò che mi importa. E quel governo, con tutto il
suo terrore non riuscì a piegarmi da indurmi a commettere qualche cosa di ingiusto. Quando, infatti,
noi uscimmo dal palazzo, quegli altri quattro andarono a Salamina e prelevarono Leone, io invece,
me nei tornai a casa mia. Certo, per questo fatto ci avrei rimesso la vita se quel governo, dopo un
po', non fosse stato rovesciato. E di questi fatti potrete avere quanti testimoni vorrete.

XXI
E, allora, credete che per tutti questi anni, io avrei potuto scamparla se mi fossi messo in politica e,
da uomo onesto, avessi preso le difese della giustizia e, come è doveroso, l'avessi posta al di sopra
di tutto? Certamente no, ateniesi, né io né nessun altro. Se per tutta la vita, in ogni mia azione,
pubblicamente, mi sono comportato così, in privato, del resto, è stato lo stesso e mai ho fatto una
qualche concessione contro giustizia, a nessuno, nemmeno ai miei discepoli, come li chiamano i
miei calunniatori. E maestro, poi, per la verità, non lo sono mai stato di nessuno; solo che non ho
mai impedito a nessuno, giovane o vecchio, di ascoltarmi, se lo voleva, quando parlavo o attendevo
al mio compito perché io non sono di quelli che parlano quando li pagano e se no stanno zitti, ma mi
offro egualmente al ricco e al povero perché possano interrogarmi e ascoltarmi e rispondere alle mie
domande. Se poi qualcuno di questi tragga buon profitto o meno, non è a me che si deve imputare la
responsabilità perché io non ho mai promesso di insegnare nulla a nessuno e se c'è chi afferma di
aver udito o appreso da me, in privato, cose che anche tutti gli altri non abbiano potuto apprendere o
udire, ebbene, sappiate che costui è un mentitore.

XXII
Ma, allora, perché mai a molti piace trascorrere anche parecchio tempo in mia compagnia? lo, ve lo
ripeto, cittadini, vi ho detto tutta la verità. È che a loro piace starmi ad ascoltare mentre interrogo
coloro che si credono sapienti e poi non lo sono.

La cosa, in fondo, non manca di una certa attrattiva, ma per me è un dovere che iddio mi ha ordinato,
come vi ho già detto, attraverso oracoli, sogni e in mille altre maniere mediante i quali una divinità ha
sempre ordinato a un uomo di fare qualcosa. Tutto ciò è vero, cittadini, e controllabilissimo. Infatti se
io ho corrotto e corrompo i giovani, sarebbe naturale che qualcuno di loro, ormai adulto,
riconoscendo che in giovinezza io lo avevo istigato al male, ora fosse qui, in questo tribunale, ad
accusarmi e a vendicarsi.

Ma ammettiamo pure che essi non abbiano voluto farlo di persona: c'erano pure i loro familiari, il
padre, i fratelli, i parenti a ricordarsene e a venir qui, per vendicarsi, se io avessi fatto del male ai loro
congiunti.

In ogni modo, molti di essi son qui presenti, io li vedo benissimo: Critone, della mia stessa età e del
mio stesso distretto, padre di Critobulo, Lisania di Sfetto, padre di Eschine e poi Antifonte di Cefisia,
padre di Epigene e ve ne sono poi altri, Nicostrato, figlio di Teozotide, Paralo, figlio di Demodoco,
Adimanto, figlio di Aristone, Aiantodoro; i loro rispettivi fratelli, Teodoto (che però è morto e non
può, quindi influenzare il fratello Nicostrato), Teage, il qui presente Platone e Apollodoro, si sono
spesso intrattenuti con me a conversare. E ve ne potrei nominare molti altri che Meleto, nella sua
arringa, avrebbe dovuto chiamare come testimoni. Se l'ha dimenticato, lo faccia ora, l'autorizzo, ne
chiami pure qualcuno. Ma il fatto è che le cose stanno tutte all'opposto e voi, cittadini, questi
testimoni li troverete tutti pronti a difendere me, il loro corruttore, colui che rovinava i loro congiunti,
come dicono Anito e Meleto. E ammettiamo pure che quelli che sono stati corrotti abbiano anche il
loro buon motivo per difendermi, ma quelli che son rimasti puri e i loro congiunti, persone già
anziane, quale ragione potrebbero avere per sostenermi se non quella giusta e retta, consapevoli
come sono che Meleto mente e io dico la verità?

XXIII
È tutto, cittadini. Questo è quanto potevo dirvi a mia difesa, o press'a poco. Soltanto che ora,
qualcuno di voi, forse, si arrabbierà pensando che, in una circostanza meno grave di questa, si mise
a pregare e a supplicare i giudici a calde lacrime e si presentò in tribunale con i figlioletti, per
suscitare quanto più possibile pietà, con lo stuolo di tutti i parenti e degli amici, mentre io non faccio
niente di tutto questo, benché corra, come sembra, estremo pericolo. Costui, forse, ripensando a
queste cose potrebbe indisporsi, sdegnarsi contro di me e riversare la sua rabbia nel voto. Ebbene,
se c'è qualcuno che la pensa così (ma io non voglio crederlo), comunque, se c'è, io dovrei proprio
dire a questo amico che ho anch'io i miei congiunti, perché come dice Omero, non sono nato né da
una quercia né da una rupe, ma da esseri umani, e che, quindi, ho anch'io i miei parenti e i miei figli,
tre per esser precisi, uno già grandicello e due ancora piccoli. Eppure io non ve li porterò qui,
nessuno dei tre, né vi supplicherò di assolvermi. Perché non lo faccio? Oh, non per orgoglio,
ateniesi, né per disprezzo, perché il fatto di avere, o meno, coraggio di fronte alla morte, ora, non
c'entra, ma perché ne andrebbero di mezzo il mio onore e il vostro e quello della nostra patria se mi
comportassi così, alla mia età e con la fama che ho, giusta o ingiusta che sia; perché, vedete,
Socrate lo si stima un po' diverso dagli altri. Ora, sarebbe molto brutto se uno di voi, considerato
superiore per sapienza, coraggio o per qualche altro merito, si comportasse, poi, diversamente,
come ho visto fare ad alcuni, anche di un certo prestigio, che durante il processo si lasciavano
andare a manifestazioni incredibili di dolore, quasi che, morendo, dovessero andare incontro a
qualcosa di terribile e, una volta assolti, invece, diventare immortali. Costoro, mi sembra proprio che
disonorino la patria al punto che gli stranieri potrebbero pensare che anche i migliori atenicsi, quelli
che si distinguono per i loro meriti, che vengono scelti per le magistrature e per le altre cariche, non
siano in nulla diversi dalle femminette.

Chi tra noi conta qualcosa, cittadini, non può abbandonarsi a simili atti, anzi, se lo facesse, voi
dovreste impedirglielo e mostrarvi inflessibili nel condannarlo, per queste scene pietose che
coprono di ridicolo la patria, più severamente di quanto condannereste chi, invece, conserva un
contegno sereno.

XXIV
Ma, a parte la fama, non mi sembra giusto, cittadini, star lì ad implorare il giudice per ottenere, con le
preghiere, un'assoluzione; bisogna, invece, informarlo e persuaderlo. Il giudice non dispensa favori
ma stabilisce ciò che è giusto; ha giurato non di beneficare chi gli pare e piace, ma di giudicare
secondo la legge.

Non dobbiamo, quindi, abituarvi a spergiurare, né voi vi ci dovete assuefare: sarebbe, per noi tutti,
come offendere dio.

Quindi, cittadini, non pretendete da me un contegno che io giudico indecoroso, ingiusto e volgare,
tanto più, poi, che sono stato accusato d'empietà dal qui presente Meleto. Infatti, se io tentassi di
influenzarvi, di far violenza, con le mie preghiere, su di voi che avete giurato, oh, allora sì che vi
insegnerei a non credere negli dei e la mia difesa sarebbe una lampante accusa che non vi credo io
stesso.

Le cose stanno, però, ben diversamente perché io credo, cittadini, come nessuno dei miei accusatori
e mi rimetto a voi e a dio, che giudichiate come meglio è per me e per voi stessi.

XXV
Vi sono molte ragioni, cittadini, per cui io non provo sdegno per la condanna che mi avete inflitto,
una è che essa non mi è giunta inaspettata; mi meraviglio, piuttosto, del minimo scarto dei voti che
l'ha determinata; non credevo, infatti, che il numero di quelli che m'hanno votato contro fosse così
modesto: li credevo più numerosi; è chiaro, infatti, che se trenta voti fossero andati dall'altra parte, io
sarei libero. Certo, posso dire che se è per Meleto, io devo considerarmi senz'altro assolto e non solo
assolto, perché tutti vedete che se non fossero venuti qui ad accusarmi Anito e Licone, sarebbe
stato condannato lui a una multa di mille dracme, per non aver ottenuto il quinto dei voti.

XXVI
Dunque, quest'uomo propone per me la pena di morte. Bene. Io, cittadini, quale pena proporrò, a mia
volta, che mi sia inflitta? Quella giusta, non è vero? Quale? Che pena, che ammenda io merito per
aver rinunciato a una vita agiata, per aver trascurato ciò che i più curano, il guadagno, gli interessi
privati, i comandi militari, l'attività politica, le cariche pubbliche, le consorterie e le fazioni che si
sono succedute nello stato, per essermi ritenuto troppo retto, per salvarmi, se mi fossi immischiato
in cose simili, dove non avrei potuto essere di alcun aiuto né a me, né a voi, per aver preferito offrire
a ciascuno di voi ciò che io credo sia il più grande servigio, quello di persuadervi a non curarvi di ciò
che possedete, prima che di voi stessi, per diventare, il più possibile, saggi e buoni, né degli
interessi apparenti della patria, prima che della patria in se stessa, e così via? Per esser così, quale
pena, insomma, io merito? Un premio, in verità, cittadini, se si deve giudicare dai meriti; e un premio,
per giunta, che mi si addica. E che cosa si addice a un benefattore povero che ha bisogno di tutto il
suo tempo per esortarvi? Non v'è cosa che convenga più di questa, cittadini: che un uomo simile sia
mantenuto nel Pritaneo, sì, certo, e con più diritto di chi vince ad Olimpia le corse dei cavalli. Costui,
infatti, può farvi apparire felici, io, invece, mi adopero perché lo siate; e, poi, lui non ha bisogno
affatto degli alimenti, io, invece, sì. E, dunque, se devo giudicarmi secondo il mio merito, questo mi
spetta: vitto e alloggio gratis nel Pritaneo.
XXVII
Forse voi penserete che queste mie parole siano dettate dall'orgoglio, come quando vi parlai a
proposito di coloro che piangono e supplicano. Non è così, cittadini. Invece, è che io sono convinto
di non aver mai fatto deliberatamente torto a nessuno, ma di questo non sono riuscito a persuadervi;
troppo breve è stato il tempo per questa nostra conversazione. Se la vostra legge, infatti,
consentisse di espletare un processo capitale, non in un sol giorno, ma in molti, come si fa altrove,
oh, io credo che vi avrei persuasi. Ora, invece, non è facile liberarmi da così gravi calunnie in tanto
poco tempo.

D'altra parte, convinto come sono di non aver fatto mai torto a nessuno, ovviamente, non posso
farne a me stesso, dicendo di essere meritevole di qualche pena e, addirittura, proponendomela.

E, dopo tutto, quale timore io ho? Forse che mi tocchi la condanna proposta da Meleto? Ma io non so
se essa rappresenti un bene o un male. O dovrei scegliere ciò che io fermamente ritengo sia un male,
e propormelo? Il carcere, forse? E perché dovrei vivere in prigione, schiavo di un'autorità di volta in
volta preposta alla mia custodia dagli Undici? Un'ammenda? E, quindi, il carcere finché non abbia
pagato? Sarebbe, per me, il caso di prima perché non ho denaro per pagare. Ma, allora, dovrei
proporre l'esilio? Forse, voi sareste d'accordo; ma io dovrei essere così attaccato alla vita, cittadini,
e tanto irragionevole da non capire che se voi, pur essendo miei concittadini, non avete sopportato
le mie idee e i miei discorsi, se essi sono stati per voi così molesti e odiosi, tanto da cercare, ora, di
liberarvene, come potranno, gli altri, facilmente sopportarli?

Eh, no, cittadini: bella vita sarebbe la mia: esiliato da Atene, errabondo da una città all'altra, alla mia
età, e scacciato da tutte. Perché io so bene che dovunque andassi i giovani verrebbero ad
ascoltarmi, come qui. Se io, poi, li allontanassi essi mi farebbero scacciare, persuadendo i più
anziani e, se non lo facessi, sarebbero i loro genitori e i loro congiunti a cacciarmi.

XXVIII
Qualcuno potrebbe dirmi: «Ma, Socrate, una volta in esilio, non potresti startene zitto e quieto?» Ma
è proprio questa, invece, la cosa più difficile da far comprendere a qualcuno di voi, perché se vi
dicessi che questo sarebbe un disubbidire a dio e che, quindi, non è possibile che io me ne viva
tranquillo, voi, di certo, non mi credereste e pensereste che io lo dica, così, per finta. Se poi vi
dicessi che il più gran bene, per un uomo, sta nell'indagare continuamente sulla virtù e sulle altre
questioni di cui mi avete sentito discutere, quando sottoponevo ad esame me stesso e gli altri, se vi
dicessi che la vita non è degna di essere vissuta, senza questa indagine, voi mi credereste ancor
meno. Così stanno le cose, cittadini, come ve le ho riferite, ma non è facile farvi persuasi.

Del resto, io non posso abituarmi al fatto di dovermi attribuire una pena che non merito. Se io avessi
avuto del denaro, mi sarei da me stesso condannato a pagare per quel che potevo, senza farci troppo
caso; ma, veramente, non ne ho, a meno che voi non vogliate condannarmi a quel poco che potrei, sì
e no a una mina d'argento. Sì, propongo, dunque, che la mia pena sia di una mina.

Ma vedo, cittadini, che Platone, Critone e Apollodoro mi fanno segno di multarmi per trenta mine, ché
se ne fanno garanti loro. E va bene: mi condanno, dunque, al pagamento di questa somma che essi
garantiranno con la loro solvibilità.

XXIX
Così, per aver voluto fare le cose in fretta, cittadini, i diffamatori della patria diranno in giro che voi
avete ucciso Socrate, un sapiente. Perché tale mi stimeranno, anche se non lo sono, proprio per
coprirvi di biasimo.

Se, invece, aveste aspettato un po', le cose sarebbero avvenute da sole, naturalmente, perché voi
vedete come io sia già così innanzi con gli anni e prossimo alla morte. Questo lo dico non a tutti voi,
ma solo a quelli che mi hanno condannato a morte. E a costoro voglio dire anche un'altra cosa: forse
voi credete che io sia stato condannato perché a corto di quegli argomenti che vi avrebbero
persuaso se io avessi ritenuto di non dover risparmiare atti e parole pur di sfuggire alla condanna.
Niente di tutto questo. Sono stato, invece, condannato non per mancanza di argomenti ma di
sfrontatezza e di impudenza, per non aver voluto ricorrere a quei mezzucci che, invece, a voi
piacciono in modo particolare: pianti, lamenti e cose simili, indegni di me, come vi ripeto, ma che voi
siete abituati a sentire dagli altri.
Io non ho mai pensato di ricorrere a ignobili espedienti per sfuggire il pericolo, né ora mi pento di
essermi difeso nel modo che ho creduto, anzi, preferisco morire dopo essermi difeso così, piuttosto
che vivere grazie a una difesa di altro genere. Perché nessuno, dinanzi alla giustizia o al nemico deve
star lì a escogitare i mezzi per sfuggire, a tutti i costi, alla morte. In battaglia è chiaro che uno
potrebbe evitare la morte gettando le armi e mettendosi a supplicare i nemici incalzanti; e così, in
ogni pericolo, molti sono gli espedienti per farla franca se si è disposti a scendere a tutti i
compromessi. Quindi, cittadini, sfuggire alla morte non è difficile, difficile, invece, è sfuggire alla
malvagità, che è più veloce della morte. E per me, che sono tardo e vecchio, è bastata la più lenta a
prendermi, mentre i miei accusatori, forti e agili, sono stati raggiunti dalla più veloce, cioè,
dall'infamia. Io, così, me ne vado condannato a morte da voi, ma voi siete bollati d'infamia e
d'ingiustizia dalla verità. E come io accetto la mia pena, così voi vi terrete la vostra. Tutto questo,
forse, doveva succedere, ma io penso che è un bene che le cose siano andate così.

XXX
Però, a voi che mi avete condannato, voglio antici-parvi una cosa, dato che è giunta, per me, l'ora in
cui gli uomini, di solito, vedono il futuro, quando cioè stanno per morire. Ebbene, cittadini, io vi dico
che su di voi che mi avete ucciso, cadrà, dopo la mia morte, un castigo molto più tremendo, per dio,
di quello che avete inflitto a me. Voi avete creduto, facendo quello che avete fatto, di liberarvi dal
dover rendere conto della vostra vita, ma sarà tutto l'opposto, ve lo assicuro, perché ora saranno in
molti quelli che vi biasimeranno e che io un po' moderavo senza che voi ve ne rendevate conto e
saranno tanto più molesti con voi quanto più sono giovani e vi daranno tanto filo da torcere. Perché
se voi pensate che mettendo a morte la gente non vi sarà più nessuno a biasimare la vostra vita
iniqua, voi vi sbagliate di grosso; e, oltretutto, non è il sistema più bello, questo, né il più efficace. La
cosa migliore, invece, e anche la più semplice è quella di non opprimere gli altri ma di tendere ad
essere, quanto più possibile, migliori.

Questo dovevo predire a quelli che mi hanno condannato. Ora possiamo anche andarcene.

XXXI
Però, vorrei dire volentieri, ora, due parole su quanto è accaduto, a quelli che mi hanno assolto,
approfittando del fatto che i magistrati hanno il loro da fare e che ancora non mi portano via verso il
luogo del supplizio. Finché è possibile, dunque, fermatevi un po', voi, perché nulla ci impedisce di
conversare un poco tra noi.

Io voglio dirvi, dato che mi siete amici, che cosa significhi per me quello che m'è ora accaduto.
Dovete sapere, giudici (e lasciate che io vi chiami a buon diritto, così), che mi è capitata una cosa
straordinaria. La voce profetica, quella di dio, così frequente in me, io la sentivo sempre, per il
passato, che mi si opponeva anche nelle minime cose, quando stavo per fare qualcosa di male; la
sorte che m'è toccata ora, voi la sapete e qualcuno potrebbe ritenerla come il peggiore dei mali.
Ebbene, nessun avvertimento c'è stato da parte di dio, né quando, stamane, sono uscito di casa, né
quando son salito qui, in tribunale, e neppure durante la mia difesa, per quello che stavo dicendo,
mentre molte volte, in altri discorsi, esso intervenne, troncandomi a mezzo la parola. Oggi, invece, in
tutta questa faccenda, non mi ha minimamente contrastato, sia nei miei atti che nelle mie parole. Che
devo dedurre, allora, da tutto questo? Ve lo dico io: può darsi che quanto m'è accaduto sia un bene e
che non è possibile che noi siamo nel vero quando pensiamo che la morte è un male. Io ne ho avuta
chiara dimostrazione perché è impossibile che l'avvertimento consueto non si sarebbe espresso
qualora ciò che si stava compiendo non fosse stato un bene per me.

XXXII
Ma facciamo anche un'altra considerazione da cui io traggo molta speranza che tutto questo sia un
bene. La morte, infatti, o è assenza totale di sensazioni, e quindi è il nulla o, come si dice, è un
passaggio, un mutar di dimora dell'anima da un luogo a un altro. Se la morte è assenza totale di
sensazioni, come se si dormisse un sonno senza sogni, oh, essa sarebbe un guadagno
meraviglioso.

Proviamo, infatti, a pensare a una notte in cui abbiamo dormito senza far sogni e confrontiamola, poi,
con tutte le altre notti e gli altri giorni della vita; se dovessimo dire, dopo aver riflettuto attentamente,
quanti sono stati i giorni e le notti in cui meglio abbiamo vissuto, rispetto a quella, oh, io credo che
non solo l'uomo qualunque, ma anche il re dei re, ne avrebbe molto poche da contare.
Se tale è la morte, io la considero un gran guadagno perché tutto il tempo infinito non sarà che una
sola, lunghissima notte. Se, poi, invece, la morte è come un viaggio da questo luogo a un altro e ciò
che si dice è vero, cioè che nell'al di là si radunano tutti quelli che sono morti, vi potrebbe essere,
allora, o giudici, un bene più grande? Si giunge - pensate - nell'al di là, liberi alfine da costoro che si
fingono giudici e si trovano quelli veri, coloro che laggiù, si dice, amministrano veramente la
giustizia, Minosse, Radamante, Eaco, Trittolemo e quanti, tra i semidei, furono giusti nella loro vita.
Che, forse, questo viaggio sarebbe poco bello? E chi di voi non pagherebbe chissà che cosa pur di
trovarsi con Orfeo e Museo, con Esiodo ed Omero? Ah, io, personalmente, vorrei morire mille volte
se questo fosse vero.

E che luogo meraviglioso sarebbe per me se laggiù potessi incontrarmi con Palamede, con Aiace
Telamonio o con qualche altro antico, anch'egli ingiustamente ucciso; penso che non sarebbe affatto
spiacevole paragonare la sorte che m'è toccata alla loro. E sarebbe un gran piacere trascorrere il
tempo esaminando e interrogando quelli di là, come facevo qui, con i vivi, per conoscere chi di loro è
sapiente e chi crede, invece, di esserlo soltanto e non è.

E cosa pagherebbe, poi, o giudici, uno che potesse interrogare colui che guidò a Troia il grande
esercito o Ulisse o Sisifo, e infiniti altri, uomini e donne, che si potrebbero elencare? Conversare,
indugiarsi con loro, interrogarli, sarebbe una felicità immensa. E, oltretutto, costoro non mettono
mica a morte nessuno per questi motivi e sono, tra l'altro, di gran lunga più felici di noi perché, per
giunta, immortali, se quel che si dice è vero.

XXXIII
Anche voi, giudici, dovete, quindi, sperare nella morte e pensare a una cosa sola, che cioè all'uomo
buono non può toccare alcun male né in vita né dopo morto e che gli dei non dimenticano le sue
azioni; anche quello che ora è toccato a me, non è accaduto per caso ed è chiaro che la cosa
migliore per me è morire e liberarmi, così, da tante brighe.

Ecco il motivo per cui la voce di dio non mi ha interdetto e perché io, contro i miei accusatori, contro
quelli che mi hanno condannato, non ho alcun rancore, sebbene essi mi abbiano accusato e
condannato non con questa intenzione, ma per farmi del male: in questo sono da biasimare.

Tuttavia io li voglio pregare di una cosa: quando i miei figli saranno cresciuti, puniteli, cittadini,
stategli dietro come io facevo con voi, se vedrete che si preoccupano più delle ricchezze o degli altri
beni materiali che della virtù e se si crederanno di valere qualcosa senza valer poi nulla,
rimproverateli, come io rimproveravo voi, per ciò che non curano e che, invece, dovrebbero curare,
se credono di essere «grandi uomini» e poi non sono niente.

Se farete questo, io e i miei figli avremo avuto da voi ciò che è giusto.

Ma è giunta, ormai, l'ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno
lo sa, tranne Dio".

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