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METODI DI RICERCA
1. L’ESPERIMENTO. Utilizzando questo metodo, il ricercatore interviene attivamente,
manipolando le variabili indipendenti (le variabili note) e rilevando se la modificazione di
queste influenzi in qualche modo il comportamento indagato, cioè la variabile dipendente.
Solitamente si prendono in considerazione due gruppi, ai quali vengono assegnati i soggetti in
modo casuale: un gruppo sperimentale, che viene sottoposto alla manipolazione della
variabile indipendente; un gruppo di controllo, che non riceve nessun trattamento oppure
riceve un trattamento diverso. L’ipotesi viene confermata nel caso in cui i cambiamenti previsti
nella variabile dipendente si rilevano solo nel gruppo sperimentale. I principali punti di forza,
dell’esperimento, sono: la capacità di stabilire relazioni causa-effetto tra le variabili e la facilità
di essere replicato. I suoi limiti, invece, sono: i soggetti, in situazioni controllate e artificiali,
potrebbero comportarsi diversamente dalla vita reale.
Nei casi in cui non sia possibile controllare le variabili indipendenti o assegnare casualmente i
soggetti ai gruppi, l’unica soluzione è che il ricercatore trovi bambini per i quali la variabile da
studiare sia già presente naturalmente (maltrattamenti, malnutrizione ecc.); in questo caso
parliamo di disegni quasi-sperimentali.
Nei casi in cui, invece, non si possono individuare gruppi che si differenziano, per gli aspetti che
interessano il ricercatore, o se si è interessati a descrivere il rapporto tra due variabili, si
utilizza il disegno correlazionale, che permette di misurare il grado di associazione tra variabili
senza manipolarle sperimentalmente.
2. L’OSSERVAZIONE. Si differenzia dall’esperimento in quanto: non controlla le variabili
indipendenti, quindi osserva il comportamento, quando si verifica spontaneamente; indaga le
relazioni che esistono tra le variabili, mentre l’esperimento indaga le relazioni che potrebbero
esistere; inoltre, non è in grado di verificare le relazioni causa-effetto. L’ambiente può essere
naturale o artificiale, ed entrambi possono essere strutturati o non strutturati. Esistono due
forme di osservazione: l’osservazione naturalistica, in cui il ricercatore utilizza un minimo grado
di controllo sul proprio oggetto di studio; e l’osservazione controllata, in cui il ricercatore
utilizza un grado medio o massimo di controllo e fornisce stimoli per evocare il
comportamento che intende studiare. L’osservazione naturalistica è tornata ad essere
utilizzata grazie all’approccio etologico e agli studi osservativi di Piaget.
3. VALIDITA’ DELL’OSSERVAZIONE. L’uso dell’osservazione prevede tre fasi:
- Selezione del fenomeno da osservare
- Registrazione del fenomeno individuato
- Codifica dei dati registrati
In tutte queste fasi sono individuabili delle fonti di errore: i soggetti possono comportarsi in
modo innaturale in presenza dell’osservatore; il comportamento dell’osservatore può variare
in base alle sue condizioni psicofisiche e alle sue capacità personali; l’osservatore reagisce
anche alla valutazione dell’attendibilità di ciò che sta registrando; i ricercatori possono
influenzare l’osservazione con aspettative o commenti valutativi, oppure utilizzando schemi di
codifica complessi e difficili da applicare.
4. INTERVISTE E QUESTIONARI. Vengono utilizzati sia per interrogare i bambini, sulle proprie
idee, esperienze e motivazioni, sia per interrogare gli adulti sul comportamento, le capacità e
la personalità dei bambini. Per interrogare i bambini è importante accertarsi che abbiano una
buona capacità di comprensione e produzione del linguaggio; bisogna tener conto che possono
rifiutare di essere intervistati o possono resistere nel raccontare i propri sentimenti, opinioni
ecc.; bisogna assicurarsi che i soggetti abbiano un livello cognitivo adeguato alla comprensione
delle domande poste. Quando si intervistano gli adulti, c’è il rischio che esprimano giudizi o
valutazioni soggettive e adatte alle aspettative del ricercatore o che vogliano apparire come
adulti competenti.
L’intervista e il questionario possono avere domande chiuse o aperte; nel primo caso parliamo
di interviste e questionari strutturati.
I processi di sviluppo identificati dall’HIP riguardano sia la capacità di base di elaborare, sia le
strategie di elaborazione, che diventano più complesse, sofisticate e potenti con l’età.
Inizialmente, i bambini non utilizzano nessuna strategia, riguardo la memorizzazione, a meno che
qualcuno non gliela insegni; successivamente la usano spontaneamente; infine, la usano in modo
flessibile, estendendola a sempre più situazioni.
Anche nel risolvere problemi è stata identificata una progressione con l’età nell’utilizzo di regole
sempre più efficaci; il fatto che un bambino utilizzi una certa regola dipende dalla sua esperienza
nel risolvere certi problemi e dalle opportunità che ha avuto per esercitarsi in questo.
Un altro settore interessante per i ricercatori è quello relativo a come i bambini arrivano a
conoscere quello che sanno: con i termini metaconoscenza e metamemoria intendiamo la
consapevolezza sui processi del proprio pensiero e della propria memoria; queste sono capacità
all’interno di un sistema esecutivo centrale che controlla sempre meglio i processi cognitivi
dell’individuo.
LA VALUTAZIONE DELL’INTELLIGENZA
Tutte le teorie dello sviluppo elencate non si sono occupate delle differenze nel potenziale
intellettivo.
L’interesse per le differenze individuali è ben presente nelle ricerche sulla misurazione
dell’intelligenza che riguardano il quanto, piuttosto che il che cosa, il come e il perché dello
sviluppo cognitivo.
Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, la scolarizzazione portò con sé i problemi del disadattamento
e dell’insuccesso scolastico per gli individui culturalmente svantaggiati. Per questo, i responsabili
dell’istruzione ritennero necessario ricorrere ad uno strumento che consentisse di valutare le
differenze individuali nel funzionamento dell’intelligenza e individuare così il ritardo mentale: i test
di intelligenza.
Il primo test di intelligenza fu la scala di Binet, che distingueva tra intelligenza normale e ritardo e
differenziava tre gradi di ritardo mentale. Questo e i successivi test di intelligenza erano destinati a
bambini di età scolare e consentono di misurare il Quoziente di Intelligenza (QI), cioè il rapporto
tra età cronologica ed età mentale.
I test di intelligenza sono stati criticati per due motivi: l’intelligenza viene vista come una capacità
unitaria e stabile; questi test potrebbero essere utilizzati per discriminare ed emarginare bambini
meno dotati o appartenenti a culture minoritarie.
Durante gli anni ’80, alcuni studiosi hanno cercato di superare questi limiti e la concezione che
l’intelligenza fosse un’unità globale.
Gardner propose otto tipi di intelligenza: linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale,
corporeo-cinestesica, intrapersonale, interpersonale e naturalistica.
Sternberg propose una teoria triarchica, secondo la quale esistono tre tipi di intelligenza:
l’intelligenza componenziale, cioè ciò che si misura con i test, come il pensiero analitico;
l’intelligenza esperenziale, intuitiva e originale, e non convenzionale e prevedibile come la prima;
l’intelligenza contestuale o “scaltrezza”, che rende possibile un buon adattamento sociale e
implica la capacità di comprendere e sfruttare le situazioni a proprio vantaggio.
Le proposte di Gardner e Sternberg sono affini: la capacità linguistica e logico-matematica
corrisponde all’intelligenza componenziale; la capacità spaziale, corporeo-cinestesica e musicale
corrispondono all’intelligenza esperenziale; la capacità interpersonale, intrapersonale e
naturalistica corrispondono all’intelligenza contestuale.
Questi test di intelligenza non possono essere usati con bambini più piccoli di 3 anni, problema
importante nel caso in cui si volessero identificare precocemente i bambini con uno sviluppo
diverso dalla norma o prevedere l’intelligenza futura.
Negli anni ’50 studiosi europei e americani iniziarono a costruire test per valutare lo sviluppo
mentale dal primo mese di vita: le aspettative erano che questi test avessero valore predittivo, ma
non fu così; questo a causa delle assunzioni teoriche sottostanti alla costruzione dei test:
l’intelligenza non è un fattore unitario, ma un insieme di capacità che cambiano qualitativamente
nel corso dello sviluppo, quindi i comportamenti che misurano l’intelligenza all’interno di uno
stadio possono essere diversi da quelli di uno stadio successivo.
Inizia ad essere necessario considerare l’influenza dell’ambiente e dell’esperienza sullo sviluppo
intellettivo.
Da qui si è affermato un nuovo approccio: l’approccio ordinale, all’interno del quale Uzgiris e Hunt
hanno costruito delle scale ordinali dello sviluppo psicologico, che concepiscono lo sviluppo come
trasformazione di capacità verso livelli progressivamente più alti.
La costruzione delle scale ordinali si basa sull’ipotesi di una relazione gerarchica, di modo che le
acquisizioni del livello più alto sono derivate da quelle del livello precedente.
Secondo l’approccio ordinale, la causa del cambiamento risiede nell’interazione tra organismo e
condizioni ambientali, al contrario dei test tradizionali, che lo considerano come il prodotto di una
programmazione genetica.
Da tutte queste ricerche, sembra che il bambino raggiunga le tappe di sviluppo di una certa
capacità in modo relativamente indipendente rispetto alle tappe di sviluppo di un’altra capacità.
In conclusione, le scale ordinali non valutano il comportamento del bambino in relazione ad una
“norma”, ma forniscono un utile strumento conoscitivo e diagnostico consentendo di delineare un
accurato profilo individuale per ciascun bambino.
LA FASE PRELINGUISTICA
I primi suoni
I primi suoni emessi dal neonato e il lattante sono di natura vegetativa (sbadigli, ruttini ecc) o
compaiono legati al pianto. Analizzando i suoni del piano, Wolff ha individuato: il piano di fame, di
dolore e di irritazione.
Le vocalizzazioni di non pianto sono le più importanti:
- Tra 2 e 6 mesi, compaiono e si stabilizzano i suoni vocalici; le vocalizzazioni si inseriscono
nei turni verbali del genitore, come se il bambino gli rispondesse;
- Verso i 6-7 mesi compare la lallazione canonica; il bambino produce sequenze consonante-
vocale come sillabe, spesso ripetute due o più volte
- Verso i 10-12 mesi, la maggior parte dei bambini produce sequenze sillabiche complesse,
caratterizzanti la lallazione variata; inoltre, compaiono i primi suoni simili a parole o proto-
parole.
I bambini si differenziano, per le preferenze fonetiche (suoni che preferiscono produrre) e la loro
stabilità e organizzazione.
Molti studi hanno dimostrato che la lallazione canonica è un indice predittivo per disturbi
linguistici e comunicativi, ma Fenson e colleghi hanno rilevato che bambini con una lallazione
canonica ritardata possono avere un ritardo nella capacità di parlare, ma non in quella di
comprensione di parole isolate.
Gesti comunicativi
Verso i 9-12 mesi i bambini iniziano ad utilizzare gesti performativi o deittici (come indicare,
mostrare, offrire, dare e richieste ritualizzate), chiamati anche distali, in quanto solitamente
vengono prodotti a distanza e non implicano nessun contatto con il destinatario, ma sono
accompagnati dallo sguardo al destinatario del gesto; questo tipo di gesti esprimono un’intenzione
comunicativa.
Un gesto si può considerare comunicativo quando ha le tre caratteristiche:
- È usato con intenzione comunicativa;
- È convenzionale;
- Si riferisce ad un oggetto o evento esterno.
I gesti deittici vengono utilizzati sia per richiesta, sia per dichiarazione (attirare l’attenzione e
condividere l’interesse per un evento).
L’intenzione dichiarativa sottende capacità socio-cognitive (come soggettività e attribuzione di
stati mentali) più evolute rispetto all’intenzione richiestiva; il ritardo della comparsa di questo
gesto può indicare un rischio per lo sviluppo comunicativo e linguistico; la mancanza di questo,
invece, può essere considerata come indice diagnostico precoce della sindrome di autismo.
Intorno agli 11-12 mesi compaiono i gesti referenziali o rappresentativi che, a differenza degli
altri, oltre ad un’intenzione comunicativa, rappresentano anche un referente specifico, cioè il
significato di questi gesti non cambia in base al contesto (apri e chiudi la mano per “ciao”; scuotere
la testa per “no”, ecc.). I gesti referenziali sono un fenomeno caratteristico del primo sviluppo
linguistico e permettono di comunicare utilizzando come “veicoli simbolici” degli schemi gestuali,
piuttosto che sequenze vocaliche incerte.
All’incirca nello stesso periodo compaiono anche le prime parole che, come i gesti, inizialmente
sono molto legate a situazioni specifiche.
LE PRIME PAROLE
L’Età di comparsa delle prime parole generalmente avviene intorno agli 11-13 mesi, periodo in cui
i bambini parlano, per lo più, sempre delle stesse cose: in genere si riferiscono ad oggetti
manipolabili o in movimento. Queste parole vengono utilizzate in contesti specifici e ritualizzati,
sono cioè “contestualizzate”; questo utilizzo è definito uso non-referenziale.
In seguito, le parole vengono utilizzate per nominare o chiamare i genitori o gli oggetti in una
varietà di situazioni, uso referenziale.
Questo fenomeno di decontestualizzazione avviene anche nella comprensione del linguaggio:
intorno ad 8-10 mesi il bambino comprende frasi semplici solo in contesti specifici; dopodiché la
comprensione aumenta rapidamente e rimane sempre più avanzata rispetto alla produzione.
L’ESPLOSIONE DEL VOCABOLARIO
Nello sviluppo lessicale si distinguono due fasi nell’arco del secondo anno: nella prima l’ampiezza
del vocabolario è intorno alle 50 parole; nella seconda le parole vengono acquisite più
rapidamente, tanto che può assumere la forma di un’esplosione del vocabolario.
I bambini passano dalla prima alla seconda fase dal momento in cui diventano capaci di attribuire
alle parole uno status propriamente simbolico e sono in grado di capire che c’è un nome per ogni
cosa.
Nel primo sviluppo del linguaggio, la variabilità individuale è alta sia come ampiezza del
vocabolario, sia come presenza o meno della fase dell’esplosione del vocabolario. La comparsa di
nuovi elementi facilita il passaggio dalla referenza (fase delle parole singole) alla predicazione (fase
delle combinazioni di parole).
Esistono alcuni strumenti che consentono di individuare precocemente le problematiche che
possono nuocere allo sviluppo cognitivo e psico-affettivo del bambino: il “Questionario sullo
Sviluppo Comunicativo e Linguistico nel secondo anno di vita” e il “Primo Vocabolario del
Bambino”.
LO SVILUPPO MORFOSINTATTICO
Le caratteristiche di questo sviluppo sono: l’acquisizione iniziale degli aspetti della morfosintassi
che nella propria lingua appaiono percettivamente chiari, salienti ed informativi; nel comprendere
le frasi vengono utilizzate le informazioni morfosintattiche più regolari e consistenti.
Esistono, fondamentalmente, due tipi di morfologia:
- Nominale, relativa alle forme del genere e del numero per quanto riguarda i nomi, che
sono padroneggiate intorno ai 3 anni, mentre risulta incompleto il sistema degli articoli;
- Pronominale, relativa all’apprendimento, intorno ai 3-4 anni, dell’utilizzo di pronomi
personali.
La completa acquisizione della morfosintassi della lingua italiana è un processo lento e graduale:
solo a 6-7 anni i bambini padroneggiano aspetti morfologici che richiedono di ricorrere alla
memoria di lavoro per capire il significato delle frasi, cioè “accordi a lunga distanza”, che operano
sull’intera frase piuttosto che sui suoi elementi.