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Antonino Urso e Alejandro Crosthwaite O.P.

(a cura di)

Maschera e Psicoterapia
(Atti del convegno)
ISBN: 978886709
Prima edizione: gennaio 2017

© 2017 - Editoriale Anicia S.r.l.


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Indice

Introduzione
di Antonino Urso e Alejandro Crosthwaite, O.P.

1. Mascherarsi dentro una comunità religiosa


di Alejandro Crosthwaite, O.P.

2. Maschera e Psicologia
di Antonino Urso

3. Maschere e Psicoanalisi
di Piero Petrini e Annamaria Mandese

4. Maschera e Gruppo terapeutico


di Teresa Di Bonito e Antonino Urso

5. Maschere, Individui e Sistema Familiare


di Camillo Loriedo

6. Maschere Colettive: il Se’ Sociale


di Teresa Di Bonito

7. La Vergogna e le Maschere
di Olga Chiaie

8. Al di là del bello e del brutto: dal volto al viso,


ovvero il dentro/fuori della maschera
di Paolo Cinque

9. Il problema dell’identità: Divagazioni sul Pulcinella


di Giandomenico Tiepolo e le nostre forme di vita
di Carlo Scognamiglio

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10. Il problema della maschera nella filosofia ebraica
del Novecento
di Chiara Adorisio

11. Una Maschera per ogni occasione: utilizzo


in contesti africani tradizionali
di Marco Ramazzotti Stockel

Bibliografia

Gli Autori

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Introduzione

Il Convegno, organizzato dalla Facoltà di Scienze Sociali della


Pontificia Università San Tommaso di Roma e dall’Associazione
Italiana Psicoterpia Cognitivo Comportamentale di Gruppo, tenutosi
a Venezia - Isola di San Servolo l’11 febbraio 2017 con il patrocinio
della Camera dei Deputati, l’Ordine degli Psicologi, l’ENPAP, la Fe-
derazione Italiana Associazioni di Psicoterapia (FIAP), la Società Ita-
liana di Psicoterapia (SIPSIC) e la Scuola dell’Accademia di Psico-
terapia Psicoanalitica (SAPP). La maschera in tutte le tradizioni
simboliche conosciute ha la funzione principale di fornire una iden-
tità a chi se ne serve. Alla fine degli anni Trenta, in una conferenza
tenuta a Londra e pubblicata nel Journal of the Royal Anthropologi-
cal Institute, il sociologo francese Marcel Mauss, cercava di capire
come mai una delle categorie dello spirito umano, l’idea di persona
o meglio l’idea dell’io, del sé, che noi crediamo innata, sia in realtà
“nata lentamente e si sia formata nel corso di lunghi secoli e attraverso
molte vicissitudini” rimanendo sempre un po’ fluttuante e fragile,
come fosse un’idea ancora da elaborare. Nel saggio di Mauss l’etno-
logia e lo studio comparato delle culture offrono, attraverso una ri-
cognizione degli usi delle maschere utilizzate in diverse epoche e
presso diverse culture le basi perché la sociologia e l’antropologia
comprendano forme della vita sociale e umana che appartengono in
realtà a processi più ampi. Così secondo Mauss vi sarebbe stato un
procedere dell’umanità “dalla semplice mascherata alla maschera, dal
personaggio alla persona, fino al nome, all’individuo, e da quest’ul-
timo ad un essere dotato di valore metafisico e morale, poi da una co-
scienza morale a un essere sacro e infine da questo a una forma fon-
damentale del pensiero e dell’azione”. L’uso delle maschere nella vita
quotidiana o nella ritualità sarebbe dunque parte di un processo non

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ancora concluso della conoscenza o coscienza da parte dell’uomo di
se stesso. La maschera è, quindi, un’altra identità che si sovrappone
per esigenze rituali, comunitarie o sociali a quella che caratterizza,
normalmente, chi la indossa, la nuova identità rappresentata dalla ma-
schera possiede un’esistenza del tutto autonoma. È una persona nel
senso proprio del termine e, non a caso, persona in latino – derivan-
dolo dal greco pròsopon – significa maschera. Il latino persona/ma-
schera rimanda quindi ad una identità autonoma che si sostituisce al-
l’individuo e agisce per suo tramite, rivelandosi come una diversa e
specifica individualità. Si tratta di una persona che ostenta una per-
sonalità solitamente più incisiva di quella dell’uomo che la indossa.
“Portare una maschera”, ha un senso negativo nelle Sacre Scrit-
ture Cristiane. Gesù dice di Satana: “Egli è stato omicida fin dal prin-
cipio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui.
Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e
padre della menzogna” (Gv. 8:44). Tanto che, nella versione cine-
matografica dal 1982 dello Straniero Misterioso di Mark Twain, Sa-
tana appare come figura senza testa con una maschera dove dovrebbe
essere la testa. Al rivelarsi della sua vera natura, la maschera cambia
gradualmente da un piacevole aspetto a un teschio ghignante. “Por-
tare una maschera” è un peccato particolarmente riprovevole agli
occhi di Gesù in quanto significa l’ipocrisia. E difatti il termine ‘ipo-
crita’ deriva dalla parola greca ‘hypokrités’ che significa ‘attore’ –
così che nel teatro dell’antica Grecia gli attori erano conosciuti come
gli ‘ipocriti’ – e quindi un attore è un ipocrita perché fa finta di essere
qualcuno o qualcosa che in realtà non è. Sono coloro che portano una
maschera, nel senso che recitano la parte di qualcuno che essi in re-
altà non sono. Il “portare una maschera” è stato condannato nel corso
della storia tanto quanto lo è stata l’ipocrisia. Quasi tremila anni fa
Omero scriveva nella sua Iliade: “Io detesto quell’uomo che na-
sconda una cosa nel profondo del suo cuore, e poi ne faccia un’altra”
(IX, linea 380). Nel quinto secolo a. C. Confucio disse nei suoi Dia-
loghi: “La fedeltà e la sincerità siano i principi di base della tua vita
… l’uomo superiore parla secondo le sue azioni”. Nel diciannove-
simo Secolo, il padre della letteratura inglese Geoffrey Chaucer nei
Racconti di Canterbury chiamava l’ipocrita: “Colui che ti sorride con
un pugnale sotto il mantello”. Molière diceva nella sua commedia

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Don Giovanni: “L’ipocrisia è un vizio di moda, ed ogni vizio di moda
passa per virtù”. Scrive Olivetti: “Nell’atteggiamento immorale la
«persona» che mi sta «di fronte», che mi mostra la sua faccia o fac-
ciata, che mi volge il volto, che mi mira e mi prende di mira col suo
viso, è semplicemente ed etimologicamente la maschera, la «par-
venza» «esterna», l’oggettività di un soggetto”.
Maschera, secondo il significato latino, si riferiva alla maschera
che gli attori adattavano al volto nel corso della recitazione e, per
estensione, al ruolo che un individuo rappresenta nel sociale. Ari-
stotele nella poetica dice che il fine della tragedia è la catarsi: “gli
spettatori, identificandosi negli attori che recitano vicende terribili,
si purificano da quei sentimenti che anche loro provano ed al ter-
mine dello spettacolo possono ritornare alle loro occupazioni di tran-
quilli cittadini”.
Con il termine Maschera o Persona, in psicologia (in particolare
C.G. Jung), si intende l’aspetto che l’individuo assume nelle rela-
zioni sociali e nel rapporto con il mondo, cioè l’immagine che l’in-
dividuo recita come rappresentazione pubblica. La Maschera/Persona
crea uno spazio psicologico di versatilità necessario a rispondere alle
necessità esistenziali: è l’atteggiamento verso l’esterno, il carattere
esteriore che l’individuo assume, nell’adeguarsi ai fondamenti della
propria costruzione culturale. Quindi, la maschera è intesa anche
come un mediatore tra l’Io e il mondo esterno. Essa esprime la pos-
sibilità dell’individuo di adattarsi all’ambiente sociale, culturale e
umano, di presentarsi e al contempo di nascondersi.
Nei riti e nelle cerimonie primitive “la maschera viene adorata e
vissuta come una vera apparizione dell’essere mitico che essa rap-
presenta” (Campbell, 1990). La maschera, dunque – e qui l’aspetto
simbolico è evidentissimo – esprime qualcosa che rimanda ad altro o,
ancor meglio, ad un altro. Altro che può essere la totalità espressa dal
divino o, nel linguaggio della psicologia analitica, dall’inconscio col-
lettivo. Come scrive Jung (1993): “Se analizziamo la Persona, stac-
chiamo la maschera e scopriamo che ciò che pareva individuale è, in
fondo, collettivo”. Pertanto, quando un uomo si maschera tende a
identificarsi – cosa questa che riguarda soprattutto le società primi-
tive – con le forme archetipiche (e con i relativi comportamenti) che
la maschera indossata simboleggia. Ne deriva che quei comporta-

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menti archetipici connessi con la maschera o con l’essere archetipico
effigiato dalla maschera diventano preponderanti rispetto ai compor-
tamenti che normalmente caratterizzano il soggetto che la indossa.
Ovviamente, se nelle società primitive questa sovrapposizione uomo-
maschera è un potente tramite per acquisire una identità altrimenti
inesistente, nella modernità, invece, è il sigillo che caratterizza la per-
sona che, in un certo senso, ha perduto o sta perdendo la coscienza
che aveva acquisito. Infatti, nella società moderna, i cittadini non in-
dossano maschere per rivendicare una coscienza che non possiedono,
semmai se ne servono per celare a se stessi qualcosa che è andato
perduto: onde acquisire una propria provvisoria personalità, una pro-
pria provvisoria coscienza.
Jung ricorda come “ogni professione presenti una sua Persona
caratteristica [..] Il rischio è solo di diventare identici alla Persona:
il professore al suo manuale e il tenore alla sua voce”. Dalle parole
di Jung si evince quello che si può considerare il rischio maggiore
connesso all’indossare una maschera – e, parimenti, ciò che la rende
un tabù – ossia che si attivi una preoccupante inversione di ruoli tra
la maschera e chi la indossa. Inversione in cui l’uomo si identifica
con quella maschera e la maschera con quell’uomo. È pur vero che
ciò avveniva, peraltro solo “pro tempore”, anche nei riti e nelle ceri-
monie primitive, in cui la maschera veniva si vissuta e adorata come
una vera e propria apparizione dell’essere mitico che rappresenta, ma
tutti erano nello stesso tempo coscienti che era un uomo ad averla
costruita e un’altro uomo la stava indossando.
La Persona/Maschera svolge un ruolo positivo sul piano pratico e
della realizzazione nel sociale ma costituisce anche il limite con cui
si ci confronta nella realizzazione individuale, ed è proprio in questo
confronto che ciò che è individuale e ciò che è collettivo si defini-
scono, cioè attraverso la Maschera si esplicitano l’uomo e il mondo
con tutte le differenze che tra loro intercorrono. In questo senso la
maschera sociale è il vestito necessario all’adattamento sociale, qual-
cosa di indispensabile a cui nessuno può rinunciare. L’uomo inizia
ad assumere l’impronta (la maschera) che gli propone la società e che
viene modellata dall’educazione, dal conformismo e dalle conven-
zioni. Su di essa prendono forma come in un gigantesco gioco di ri-
calco le figure o meglio i ruoli sociali cui i cittadini (i membri della

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società) devono attenersi per poter esistere, per costruire l’illusione di
un senso, per percepirsi, illusoriamente, partecipi di una totalità. Le
maschere della società sono quindi “istituzionali”, non riproducono
tipi eterni, ma modalità funzionali a modelli comportamentali accre-
ditati dalle istituzioni famigliari, scolastiche, statuali, sociali e reli-
giose. Esse aderiscono, strettamente, ad ogni personalità e non
possono essere mai tolte, se non a rischio di precipitare nell’indistinto
sociale: un indistinto non meno inquietante per l’uomo dell’antico
caos primordiale. È questo il paradigma e il perenne rischio del-
l’uomo moderno, la cui vita si dispiega in una società che gli appare
a prima vista come il luogo ideale in cui ottenere il soddisfacimento
dei propri desideri e dei propri bisogni. Ma che, in realtà, per lo più
lo immette in spersonalizzanti habitat urbani, grigi e desolati, quar-
tieri dormitorio spersonalizzanti dove conduce una vita non meno
grigia, desolata e ripetitiva. In questo contesto, la sua individualità, il
suo sviluppo morale e sociale vengono presentati come l’effetto di
rapporti liberi ed interscambiabili, nonché della reciproca funziona-
lità dei singoli individui che partecipano alla società. Ma queste ap-
parentemente spontanee inter-soggettività, inter-scambiabilità e
funzionalità sono, invece, il frutto di una volontà esclusivamente ra-
zionale e di un legame che – come ricorda Max Weber – ha come
base un contratto, che obbliga i contraenti – gli uomini che vivono
nella società moderna – a mettere in comune segmenti di esistenza,
augurandosi che questa condivisione si attui di fatto.
Liberatesi dalla tensione sacrale e comunitaria su cui si basava la
società classica, quella moderna fonda la propria coerenza e la pro-
pria coesione sul predominio della scienza e della ragione, con la con-
seguenza di adoperarsi affinché – in nome della centralità del mercato
– siano soddisfatte le pulsioni egoistiche: provenienti dai singoli in-
dividui che la compongono. La sua stessa riproduzione biologica è,
di conseguenza, dipendente dal soddisfacimento del desiderio e del
bisogno indotto: entrambi generati – al pari di altri – dalle leggi della
domanda e dell’offerta. Ne consegue che il “bonum comune” si esau-
risce nel loro appagamento. Bisogna però segnalare il rischio e la
dannosità implicita in un siffatto modo di essere, di pensare e di com-
portarsi. Significa costruire il principio cardine della società nonché
la stessa antropologia dell’uomo – o meglio la sua ontologia – sul-

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l’interesse concreto, materiale e monetario. Cosa questa che l’uomo
non può accettare, se non negando se stesso. Da ciò deriva la neces-
sità di mascherarsi: la necessità di una maschera protettiva che celi
l’inganno sociale e l’autoinganno personale. Tramite questa ma-
schera, l’uomo eleva a sistema il più sfrenato egocentrismo: un ego-
centrismo che, come conseguenza, impedisce e nega ogni vero
rapporto umano. Curiosamente proprio nel momento in cui la cultura
moderna rivendica a sé il merito di aver aiutato l’uomo a togliersi la
maschera (del devoto, del credente, del pio, del sottomesso, ecc.) im-
postagli nelle epoche passate, questi ne assume un’altra non meno
cupa, non meno repressiva e sicuramente altrettanto inquietante.
Sembra proprio che l’uomo non sia in grado di vivere senza in-
dossare una maschera. Quasi che viva perennemente in bilico tra
una ineliminabile maschera che è, di fatto, la sua seconda pelle ed un
desiderio assoluto di togliere la maschera: di mostrare come real-
mente è. È il dramma della maschera individuale propria di un’epoca
che porta al massimo grado l’esasperazione del soggetto e che conti-
nua a nascondersi: in un gioco mimetico di specchi. Un gioco di spec-
chi in cui, ancora una volta, emerge l’immagine di chi rifiuta la realtà
ed assume – a tal fine – una maschera che se gli impedisce di essere
visto gli impedisce anche di vedere.
Come ci ricorda Scogliamiglio, nel racconto platonico le anime in
procinto di incarnarsi in una nuova esistenza scelgono la propria
nuova forma di vita. La Necessità, in forma divinizzata, getta sul ter-
reno le “sorti”, cioè il numero d’ordine in cui le anime dovranno
compiere la loro scelta, e poi dispone avanti a loro le vite possibili, che
poi sarebbero i “tipi umani”, i ruoli sociali, i caratteri personali, le ma-
schere appunto. Il numero delle vite (maschere) possibili è di gran
lunga maggiore delle sorti, in modo da poter garantire una giusta pos-
sibilità di scelta anche all’ultimo degli ultimi. Quel che Platone intende
dire, è che inutilmente possiamo inveire contro la sfortuna nelle nostre
esistenze. A tutti è data la possibilità di scegliere bene, di indovinare,
di assumersi la responsabilità di una decisione meditata su “chi”, ve-
ramente, vogliamo essere. I più, secondo il mito, scelgono la propria
forma di vita sulla base dell’esperienza accumulata nella vita prece-
dente, come l’anima di Agamennone, che avendo maturato disprezzo
per il genere umano, decide di incarnarsi in un’aquila. Molti trascurano

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che in ogni forma di vita è implicito un destino, talvolta amaro, come
capita a chi si avvede troppo tardi di aver precipitosamente scelto di
diventare un potente tiranno, per ritrovarsi conseguentemente co-
stretto a compiere atti malvagi. Di solito, spiega Platone, chi ha molto
sofferto nella precedente vita, sceglie con maggiore cautela, e non com-
pie errori di valutazione. Chi invece in precedenza ha esperito solo vite
tranquille, segnate da un’onestà praticata più per consuetudine che per
qualche virtù, cade facilmente in errore. In questa anamnesi rovesciata,
Platone valorizza il negativo esistenziale. Sono soprattutto il dolore,
la sofferenza e le avversità ad istruirci su ciò che è preferibile. Ulisse,
che secondo il motto di Omero, ha sofferto nella propria vita più di tutti
gli altri Greci, è destinato a scegliere per ultimo. Ciononostante si at-
tarda nella valutazione, e infine sceglie con giudizio – cioè con filo-
sofia – la vita di un uomo sobrio, senza avventure, senza eccessi: una
vita normale. Ciascuno è dunque responsabile dei criteri, di un’as-
sunzione di personalità, qualunque essa sia. Ma: la colpa è di chi sce-
glie – ammonisce il mito – il dio non c’entra.
Tuttavia, se è vero che la scelta del nostro carattere dipende dalla
forza del passato, dall’abitudine, dall’adesione a un “tipo”, è come
se scegliessimo ogni volta, insieme a un modo di vivere, una vita già
vissuta, una struttura statica dell’esistere, per cui il vivere si conforma
a un ri-vivere. In questi termini, il carattere che ci siamo scelti, l’iden-
tità (la maschera) che preferiamo, cui aneliamo, nel mondo auto-rap-
presentato, è un non-vissuto. Nello scegliere di essere “questo tipo
di persona”, scegliamo di fatto di “non vivere”. Pulcinella, viceversa,
non si ferma a uno stile di vita, ma nei disegni del Tiepolo li attraversa
tutti, senza assumerne nessuno come destino. È come se entrasse in
un carattere e ne fuggisse nello stesso istante. Vive senza costruirsi
un’immagine della propria vita. Pulcinella, dunque, è privo di bio-
grafia e di memoria. Egli non s’interroga sul senso della propria vita,
sui risultati raggiunti o mancati: “il segreto di Pulcinella è che, nella
commedia della vita, non vi è un segreto, ma solo, in ogni istante,
una via d’uscita” (Agamben, 2016, p. 130).
L’esortazione “ γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón – conosci te stesso”
è la massima religiosa greco antica iscritta nel tempio di Apollo a
Delfi, patrimonio della sapienza oracolare delfica. Quando manca un
reale contatto con sé stessi, con le proprie istanze ed aspirazioni, con

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i propri sentimenti, in assenza quindi di comprensione e di signifi-
cato, l’individuo si incancrenisce in una sola modalità di espressione
del proprio essere, diventa maschera, unica e arida. La lettera ai Ro-
mani esorta: “Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a cia-
scuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi,
ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, cia-
scuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato” (Rom. 12: 3).
La Maschera fornisce un luogo di rappresentazione in cui l’indivi-
duo mette in scena e rappresenta se stesso. Portare la maschera è un
modo per svelare un aspetto di sé. Persona significa risuonare, suo-
nare attraverso (per-sonare). La maschera come strumento per vivere
un’identità immaginaria è un aspetto che va in senso contrario a
quanto esposto e indica la difficoltà di adattamento alla realtà interna
ed esterna dell’individuo. Ma nascondersi sempre spesso vuol dire
avere problemi di accettazione di sé, di autostima, di insicurezza, in
ogni caso una difficoltà a stare al mondo nel rapporto con se stessi e
nel sociale per quel che si è. Diventa così la maschera di un soggetto
che è sempre, patologicamente, identico a se stesso, ma chi è sempre
identico a se stesso o è una divinità o è un cadavere: anche se, arta-
tamente, sembra vitale. In questo caso, se non si strappa a qualsiasi
costo la maschera, essa diventa la cifra di un drammatico autismo che
rifiuta di rispecchiarsi nell’altro.
Nelle epoche passate la folla poteva a volte diventare protagoni-
sta e assumere, anche se solo per qualche giorno, il potere civile e re-
ligioso. Era il giorno in cui tutti si mascheravano, dando luogo alle fe-
ste dei folli, al Carnevale in cui tutto veniva messo in discussione. È
il giorno in cui i bambini e gli adulti, la folla insomma, indossano ma-
schere che li fanno sovrani o vescovi e in cui i folli, che incarnano la
potenza pulsionale, dell’inconscio, libera da freni e limitazioni – si so-
stituiscono “all’umanità normale”: a coloro che portano sempre una
maschera. Sembra addirittura che questo tipo di festeggiamenti esi-
stesse già ai tempi delle antiche popolazioni mesopotamiche ed egi-
zie; erano momenti particolari in cui, tramite una maschera, gli ani-
mali diventavano uomini e gli uomini diventavano animali, oppure in
cui si invertivano i ruoli consueti dell’esistere. un periodo in cui i pa-
droni diventavano servi (come poi avverrà anche nell’antica Roma)
oppure le persone indossavano maschere (come già nell’antico Egitto).

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Ma i festeggiamenti del Carnevale fin dall’antichità sembrano sim-
boleggiare anche dei processi psichici profondi legati alle fasi di cam-
biamento della nostra personalità. Infatti, il Carnevale è sempre stato
l’unico periodo durante il quale era possibile sovvertire legalmente l’or-
dine prestabilito e rovesciare le certezze: lo è stato sempre fin da
tempi antichissimi. In una siffatta inversione di ruoli si annulla il si-
stema di controllo della coscienza/della ragione e l’Io, privo di vincoli
e restrizioni, lascia libero sfogo, tramite la maschera, ai desideri, alle
pulsioni, agli istinti repressi e nascosti dalla quotidianità mascherata.
È di qualche utilità ricordare come, secondo gli antropologi, i bam-
bini delle società primitive non ancora sottoposti ai riti di passaggio
della pubertà – ossia non ancora diventati uomini attraverso la pie-
nezza sessuale – rappresentano gli antenati ancestrali. Sono, cioè, gli
uomini dell’inizio per i quali non sussistono obblighi e limitazioni di
sorta. È questo il motivo dell’inversione dei ruoli che si verifica (o
meglio si verificava) nel Carnevale: circostanza questa che poteva,
naturalmente, dar luogo a violenza, degenerazione e regressione.
D’altronde, ritornare, seppur per un limitato lasso di tempo, ad una si-
tuazione considerata “originaria” equivale a situarsi in una condi-
zione in cui la distinzione netta (voluta dal conscio) tra bene e male,
luce e tenebra è estremamente labile. È il comprensibile motivo della
diffidenza, del sospetto e della precauzioni da sempre avanzate dalla
Istituzioni sociali nei confronto del Carnevale. È infatti scontato che
tale ritorno – periodico – a questa condizione originaria di libertà e
spontaneità rappresenti uno sfogo ed una protesta nei confronti del
controllo esercitato dalla comunità prima e della società dopo. Con-
trollo che sarà sempre più, nel corso dell’evoluzione storica, una pe-
sante anche se necessaria limitazione alla libera espressività. Perciò,
il ritorno simbolico alla libertà originaria, tramite la mascheratura
carnevalesca o altra analoga, tende a restaurare l’istante iniziale, la
pienezza di un presente che non contiene nessuna traccia di “storia”.
Tende a riaffermare, quanto meno idealmente, un’assoluta e incon-
trollabile libertà: in cui non ci sono maschere. In cui l’uomo si augura
di poter essere, nuovamente, interscambiabile con il tutto: in piena
sintonia con il cosmo. Ma oggi, come afferma Di Bonito, a conclu-
sione del suo intervento: “… l’unica maschera che pare sia destinata
ad essere indossata dall’uomo contemporaneo è paragonabile al co-

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stume dell’Arlecchino: vestito di un abito composto da pezze e trian-
goli di colori differenti, simbolo di una situazione conflittuale arcaica
di cui non è ancora riuscito ad unificare – e rendere coerenti – gli ele-
menti della propria personalità”.

Foto n. 1

Foto n. 2

Foto n. 3

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1. Mascherarsi dentro una comunità religiosa
di Alejandro Crosthwaite, O.P.

Introduzione

“Guardatevi dal lievito dei Farisei, che è ipocrisia. Ma non v’è niente
di coperto che non abbia ad essere scoperto, né di occulto che non
abbia ad esser conosciuto. Perciò tutto quel che avete detto nelle te-
nebre, sarà udito nella luce; e quel che avete detto all’orecchio nelle
stanze interne, sarà proclamato sui tetti” (Luca 12:1-3).

“Portare una maschera”. La prima cosa che ci viene in mente


quando sentiamo la parola “maschera” è un volto finto o un trucco
che un uomo o una donna si mette sopra la sua faccia al fine di ap-
parire agli altri per quello che non è. Non per nulla tale pratica era ed
è utilizzata da attori o attrici come aiuto nella recita del personaggio
che dovevano interpretare.

Le maschere e la Bibbia

“Portare una maschera” ha un senso negativo nelle Sacre Scritture


Cristiane. È un peccato particolarmente riprovevole agli occhi di
Gesù in quanto significa l’ipocrisia. E difatti il termine ‘ipocrita’ de-
riva dalla parola greca ‘hypokrités’ che significa ‘attore’ – e difatti
nel teatro dell’antica Grecia gli attori erano conosciuti come gli ‘ipo-
criti’ – e quindi un attore è un ipocrita perché fa finta di essere qual-
cuno o qualcosa che in realtà non è. Sono coloro che portano una
maschera, nel senso che recitano la parte di qualcuno che essi in re-

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altà non sono. Le persone ipocrite hanno un animo doppio, mancano
di sincerità innanzitutto nei confronti di Dio e poi nei riguardi del
prossimo e di sé stessi. Esse di solito utilizzano tale loro iniqua pre-
disposizione per ingannare e truffare il prossimo con astuzia per il
proprio losco tornaconto. Anche ai tempi del Signore Gesù non man-
cavano tali tipi d’individui e alcuni di essi cercarono addirittura di
raggirare Gesù nel tentativo di farlo cadere in un loro tranello pro-
gettato in precedenza. Gli scribi e i Farisei furono particolarmente
definiti da Gesù ‘ipocriti’ perché nella pratica recitavano la parte dei
giusti, o meglio facevano credere alla gente indossando una maschera
che essi erano giusti, quando invece erano pieni di iniquità ed ingiu-
stizia. Essi non erano il tipo di persone che apparivano, ma tutt’altro
tipo di persone.

Faccia e facciata

Anche “portare una maschera” ha un senso negativo nella psico-


logia. Il sociologo canadese Erving Goffman nel suo libro La vita
quotidiana come rappresentazione (1969) diceva che ogni essere
umano ha una faccia che è familiare solo a sé stesso e alle persone che
lo conoscono più da vicino. Allo stesso tempo, ognuno ha pure una
facciata, una maschera, che usa in situazioni sociali e alla presenza di
conoscenti che non lo conoscono molto bene. Quelli che stanno at-
torno a noi possono conoscere la maschera che loro presentiamo, ma
la nostra vera faccia rimane loro nascosta!

Un fenomeno sociale detestabile

Poco altro il “portare una maschera” è stato condannato nel corso


della storia tanto quanto lo è stata l’ipocrisia. Quasi tremila anni fa
Omero scriveva nella sua Iliade: “Io detesto quell’uomo che na-
sconda una cosa nel profondo del suo cuore, e poi ne faccia un’altra”
(IX, linea 380). Nel sesto secolo a. C. l’antico filosofo e scrittore ci-
nese Lao Tse diceva nella sua opera Tao Te Ching: “Pretendere di sa-
pere quando invece non sai nulla, è una malattia”. Nel quinto secolo

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a. C. Confucio disse nei suoi Dialoghi: “La fedeltà e la sincerità siano
i principi di base della tua vita … l’uomo superiore parla secondo le
sue azioni”. Nel diciannovesimo Secolo, il padre della letteratura in-
glesaeGeoffrey Chaucer nei Racconti di Canterbury chiamava l’ipo-
crita: “Colui che ti sorride con un pugnale sotto il mantello”. Molière
diceva nella sua commedia Don Giovanni: “L’ipocrisia è un vizio di
moda, ed ogni vizio di moda passa per virtù”.
Una volta un uomo di affari molto spietato si era così vantato di
fronte all’umorista Americano Mark Twain: “Prima di morire, voglio
proprio fare un viaggio in Terra Santa, salire sul Monte Sinai e leg-
gere i Dieci Comandamenti ad alta voce”. Al che Twain, con la sua
solita arguzia tagliente, gli aveva risposto: “Perché, invece, non se
ne rimane a casa e li osserva?” (Clifton Faidman, The Little Brown
Book of Anecdotes, 1985).
Il che ci porta al problema osservato dal scrittore francese André
Gide, che osservò nel suo romanzo I falsari (1925): “L’ipocrita è co-
lui che cessa di rendersi conto del suo proprio inganno, colui che mente
con sincerità” (pp. 393-94). Di fatto molti cominciano a credere di non
essere ipocriti; dicono una cosa e ne fanno un’altra con impunità, con
orgoglio, di fatto. Essi si sono detti così tante menzogne ragionevoli
sul loro proprio inganno, che ingannano pure sé stessi. Coloro che
hanno perso la coscienza della loro ipocrisia, specialmente coloro che
la considerano virtuosa, sono gli ipocriti più pericolosi fra tutti.

Il nostro impegno verso la verità

Senza dubbio, tutto questo è impensabile per gente che afferma di


appartenere a Cristo Gesù. Dovrebbe essere del tutto impensabile per
un autentico cristiano avere una doppia faccia: un cristiano non do-
vrebbe avere una facciata, una maschera, ma solo una faccia, soprat-
tutto perché il nostro carattere dovrebbe riflettere quello schietto,
limpido ed onesto di Dio, alla cui immagine eravamo stati creati, e
che Cristo restaura in noi.
Dio sancisce nel ottavo comandamento il principio universale
della veracità: “Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”
(Es. 20:16). Questo comandamento non solo è inteso a proteggere la

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buona reputazione degli altri contro le false testimonianze, ma ci im-
pegna verso la verità, la veracità dell’intero essere nostro, in tutte le
sue manifestazioni come spiega San Tommaso d’Aquino nella sua
Summa Theologiae (II-II, Q. cxxii, art. 6).

Uscirne fuori

In che modo si può uscire fuori dal problema dell’ipocrisia, dal por-
tare delle maschere, secondo il cristianesimo? In primo luogo scorgendo
la mano tesa della grazia e del perdono che Dio ci tende in Cristo.
Come l’adultera che mascherando la sua illecita relazione e, es-
sendo stata colta sul fatto, si aspettava solo il peggio, noi incontriamo
in Gesù non la condanna di Dio ma l’offerta del Suo perdono e di una
nuova opportunità per tornare ad avere una coscienza limpida per
mezzo della sua grazia (Cf. Gv. 8, 1-11).
Davanti a Cristo, così, confessiamo il nostro peccato, cioè rico-
nosciamo le maschere che portiamo, e imploriamo il Suo aiuto per vi-
vere la plenitudine della nostra vera umanità. Gesù ci tende la mano
del perdono di Dio e ci fa dono dello Spirito Santo, che rigenera la no-
stra natura corrotta e ci porta a vivere nella schiettezza di persone,
senza maschere, che vogliono testimoniare al mondo la verità, l’in-
tegrità, la santità e la bellezza di Dio come lo stile di vita migliore e
più producente. Che cos’è allora che ci cambia? L’amore che Dio ci
manifesta in Cristo e l’amore riconoscente che ci spinge a compiacere
da ora in poi Dio in tutto ciò che siamo e facciamo. Per questo, Gesù
dice: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv. 14,15).
Iniziando dall’amore, il resto viene quasi da sé.
Ma finora ho parlato della rimozione delle maschere, quindi, come
possiamo riconciliare questo con il titolo del convegno che promuove
l’utilizzo delle maschere nella psicoterapia?

L’utilizzo delle maschere nella psicoterapia

La neutralità come strategia di sopravvivenza, l’anestesia emotiva


come difesa, la maschera come filtro di pensieri e sentimenti. Sono

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strumenti il cui utilizzo possiamo comprendere se li pensiamo nel
duro ambiente carcerario, in cui mostrare debolezza o sensibilità si-
gnifica prestare il fianco a soprusi, assoggettamenti e violenze. Ma
che dire delle nostre quotidiane e civili esistenze?
“Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero” di-
ceva Oscar Wilde nel suo saggio Il critico come artista (1891), evi-
denziando come in molte occasioni il proprio pensiero si esprima più
facilmente nella sicurezza dell’anonimato, nella “giustificazione” del-
l’ebrezza o, perché no? nella “distanza” di Facebook e altri social
media. Anche le persone comuni dunque indossano maschere, tanto
più quanto più sentono di dover nascondere parti di sé che ritengono
“non normali”, “inadeguate”, “non accettabili”.
Nel suo libro Alcune domande sul linguaggio: Una teoria del di-
scorso umano e dei suoi oggetti (1976) il filosofo Americano Alfred
Adler ci insegna che con i nostri sensi non possiamo recepire dei fatti,
ma soltanto un’immagine soggettiva, un riflesso del mondo esterno,
ed ognuno nella vita si comporta come se avesse un’opinione molto
precisa sulla propria forza e sulle proprie capacità. Il nostro compor-
tamento scaturisce dalla nostra opinione: dall’idea che ci siamo co-
struiti su di noi e sul mondo. Di qui anche le scelte su ciò che rite-
niamo di poter o non poter mostrare, di dover o non dover mascherare.
La maschera della donna che tollera le violenze del coniuge senza
denunciare, quella dell’uomo che non ha il coraggio di lasciare e pre-
ferisce tradire, quella di chi finge affetto dissimulando il proprio
vuoto emotivo, quella di chi fa esattamente l’opposto. E poi quella
dell’indifeso, quella del “tutto bene grazie” e quella del “sapessi che
giornata”, quella dell’euforico e dell’aspirante suicida, quella del se-
duttore, dell’“oddio che mal di testa” o del “nessuno mi capisce”.
Ogni maschera con il suo specifico aspetto, ognuna con la propria
funzione, una maschera per ogni stagione del nostro umore.
Secondo il drammaturgo, scrittore e poeta italiano Luigi Piran-
dello nel suo romanzo Uno, Nessuno, Centomila (1925), dal punto di
vista psicologico la maschera rappresenta un filtro tra la nostra co-
scienza individuale e l’esterno: coppia, famiglia, chiesa, società. C’è
una maschera dove c’è una relazione, un’interazione umana: solo
quando siamo da soli non ne abbiamo bisogno.

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Se ne siamo consapevoli, le maschere ci aiutano ad immedesi-
marci nei vari ruoli a cui la società ci chiama, ad agire e relazionarci
nel nostro ambiente di vita. Quando è presente un sufficiente equili-
brio emotivo e una adeguata conoscenza di sé, è possibile entrare ed
uscire dalle varie maschere senza forzature ed in modo armonico,
consapevoli in ogni momento di chi siamo, di come ci stiamo muo-
vendo e dove stiamo andando. Le maschere diventano così strumenti
al nostro servizio, arricchimento ed espressione della nostra perso-
nalità. Incluso la lettera ai Romani dice “Rivestitevi invece (cioè in-
dossatevi la maschera) del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne
nei suoi desideri (cioè non indossate le false maschere della identità
caduta e falsa)” (Rom 13:14). Ma, la persona che “diventa” la propria
carne, il proprio ruolo sociale o familiare, il proprio lavoro, la propria
missione, si identifica con la maschera in modo così totalizzante da
dimenticare che sotto ci sia mai stato qualcosa.
Al contrario, finché l’individuo non conosce sé stesso non può ri-
conoscere le maschere, ed è invece vissuto da esse. L’esortazione
“γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón – conosci te stesso” è la massima reli-
giosa greco antica iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, patrimonio
della sapienza oracolare delfica. Quando manca un reale contatto con
sé stessi, con le proprie istanze ed aspirazioni, con i propri sentimenti,
in assenza quindi di comprensione e di significato, l’individuo si in-
cancrenisce in una sola modalità di espressione del proprio essere,
diventa maschera, unica e arida. La lettera ai Romani esorta: “Per la
grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valu-
tatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera
da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura
di fede che Dio gli ha dato” (Rom. 12: 3).

La maschera come strumento di auto-osservazione

Come ho detto prima, nel linguaggio comune la maschera assume


spesso una connotazione negativa legata alla finzione, alla non au-
tenticità per cui ‘togliersi la maschera’ significa mostrarsi per ciò che
si è. In realtà, la maschera da un lato cela e dall’altro rivela e può es-
sere, in tal senso come argomenteranno i presentatori a questo con-

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vegno, un’ottima metafora per stimolare l’auto-osservazione e l’in-
trospezione, ciò che la religione e la spiritualità chiamano l’esame di
coscienza.
Come spiega la formatrice e consulente professionista italiana M.
Laura Baronti Marchiò nel suo articolo “Maschere che coprono e sco-
prono” (ASPRIC 2016), quando indossiamo una maschera, specie se
creata da noi, in qualche modo mutiamo, qualcosa cambia in noi
anche se internamente siamo sempre noi stessi. Contattiamo parti di
noi che fanno parte del nostro “dentro” e attraverso la maschera con-
sentiamo loro di mostrarsi al di “fuori”.
Ciò che provoca il cambiamento, la conversione, è una diversa per-
cezione di noi stessi attraverso ciò che immaginiamo gli altri vedano
in noi attraverso la maschera. È lo sguardo dell’Altro su di noi che ci
consente di individuarci e riconoscerci. La maschera in qualche modo
ci fa sentire protetti e nello stesso tempo messi a nudo, rappresenta,
in ogni caso, l’opportunità di osservarci attraverso chi ci guarda. Ci
porta nell’area del gioco e del “come se..”, dove tutto è permesso e
concesso grazie alla complicità delle maschere ed in tal senso ci of-
fre l’opportunità di sentire com’è per noi essere ciò che normalmente
non siamo, ma che intimamente forse un po’ siamo. Ci consente di
mettere in relazione il nostro ‘dentro’ con il nostro ‘fuori’. Come con-
clude la Baronti Marchiò, creare ed indossare la propria maschera può
essere un’opportunità per crescere, per scoprire ciò che siamo e che
forse non sapevamo di essere ma che possiamo sicuramente provare
ad essere come anche ci invita il vangelo. In psicologia indossare una
maschera è una metafora per distinguere i tipi di atteggiamenti tenuti
nelle diverse situazioni della vita: si può indossare la maschera del bur-
lone o del marito e ognuna in realtà non maschera nulla, ma permette
di mostrare un lato della propria personalità. Infatti noi non siamo
solo amici, compagni, lavoratori, preti, religiosi, etc. ma siamo l’es-
senza che interpreta tutti questi ruoli.

Conclusione

Viviamo dunque in un mondo di falsità dove si indossano ogni


sorta di maschere false. Tutti noi ne siamo coinvolti. È logico: è un

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mondo dominato da Satana, di cui Gesù dice: “Egli è stato omicida
fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità
in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo
e padre della menzogna” (Gv. 8:44). Infatti nella versione cinemato-
grafica dal 1982 dello Straniero Misterioso di Mark Twain Satana
appare come figura senza testa con una maschera dove la sua testa sa-
rebbe. Al rivelarsi la sua vera natura, la maschera cambia gradual-
mente da un piacevole aspetto a un teschio ghignante.
Per il cristianesimo il Salvatore Gesù Cristo ha il potere di strap-
parci da questa schiavitù delle maschere false e portarci nel regno di
tutto ciò che è buono, onesto e sincero. Una volta “rivestiti di Cristo”,
come figli adottivi di Dio, dobbiamo toglierci e buttare via le nostre
maschere false e testimoniare di onestà e verità per poter portare glo-
ria a Dio. A Dio, in ogni caso, nessuno si illuda di poter nascondere
nulla. Presto o tardi, dovremo rendere conto di noi stessi. Il metro che
Egli userà per giudicarci non saranno le nostre giustificazioni, ma la
Sua Parola, la quale esprime con chiarezza quali siano i doveri che a
noi sono richiesti come Sue creature e membri della Sua famiglia.
A questo proposito, tuttavia, le maschere non vengono costruite per
nascondersi quanto piuttosto per apparire, mettere in mostra alcuni
aspetti di sé che vengono spesso nascosti. Proprio per questa sua fun-
zione di nascondere/rivelare, questo congresso studia la funzione
della maschera come un ottimo strumento di auto osservazione e in-
trospezione: indossando una maschera, qualcosa in noi cambia in
quanto contattiamo parti di noi stessi molto profonde e gli permettiamo
di mostrarsi al di fuori; di conseguenza abbiamo una percezione di-
versa di noi stessi. Attendo con molto interesse le presentazioni di que-
sta giornata su come l’utilizzo delle maschere in psicoterapia possono
aiutarci a rivelare e scoprire il nostro vero io, e diventare le persone
autentiche e veritiere che Cristo ci ha chiamati ad essere. Grazie.

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2. Maschera e Psicologia
di Antonino Urso

La maschera in tutte le tradizioni simboliche conosciute ha la fun-


zione principale di fornire una identità a chi se ne serve. È un’altra
identità che si sovrappone per esigenze rituali, comunitarie o sociali
a quella che caratterizza, normalmente, chi la indossa, la nuova iden-
tità rappresentata dalla maschera possiede un’esistenza del tutto au-
tonoma. È una persona nel senso proprio del termine e, non a caso,
persona in latino – derivandolo dal greco pròsopon – significa ma-
schera. Il termine persona si riferisce ad un essere appartenente, a
pieno titolo, alla specie umana: un essere che possiede specifiche,
spiccate e appropriate caratteristiche individuali. É il motivo per cui
si dice di un uomo che è dotato di personalità. Maschera, infatti, se-
condo il significato latino, si riferiva alla maschera che gli attori
adattavano al volto nel corso della recitazione e, per estensione, al
ruolo che un individuo rappresenta nel sociale. Aristotele nella poe-
tica dice che il fine della tragedia è la catarsi: gli spettatori, identifi-
candosi negli attori che recitano vicende terribili, si purificano da quei
sentimenti che anche loro provano ed al termine dello spettacolo
possono ritornare alle loro occupazioni di tranquilli cittadini. Il latino
persona/maschera rimanda quindi ad una identità autonoma che si so-
stituisce all’individuo e agisce per suo tramite, rivelandosi come una
diversa e specifica individualità. Si tratta di una persona che ostenta
una personalità solitamente più incisiva di quella dell’uomo che la in-
dossa. Con il termine Maschera o Persona, in psicologia analitica
(C.G. Jung), si intende l’aspetto che l’individuo assume nelle relazioni
sociali e nel rapporto con il mondo, cioè l’immagine che l’individuo
può darsi come rappresentazione pubblica. La Maschera/Persona

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crea uno spazio psicologico di versatilità necessario a rispondere alle
necessità esistenziali: è l’atteggiamento verso l’esterno, il carattere
esteriore che l’individuo assume, un “saper stare al mondo” che pre-
vede un soggetto che ha delle competenze, che conosce i fondamenti
della propria costruzione culturale. La maschera è intesa anche come
un mediatore tra l’Io e il mondo esterno. Essa esprime la possibilità del-
l’individuo di adattarsi all’ambiente sociale, culturale e umano, di pre-
sentarsi e al contempo di nascondersi. Nei riti e nelle cerimonie pri-
mitive «la maschera viene adorata e vissuta come una vera apparizione
dell’essere mitico che essa rappresenta, anche se tutti sanno che un
uomo l’ha costruita e che un uomo la sta indossando» (Campbell,
1990). La maschera, dunque – e qui l’aspetto simbolico è evidentissimo
– esprime qualcosa che rimanda ad altro o, ancor meglio, ad un altro.
Altro che può essere la totalità espressa dal divino o, nel linguaggio
della psicologia analitica, dall’inconscio collettivo. Come scrive Jung
(1993): «Se analizziamo la Persona, stacchiamo la maschera e sco-
priamo che ciò che pareva individuale è, in fondo, collettivo».
Pertanto, quando un uomo si maschera tende a identificarsi – cosa
questa che riguarda soprattutto le società primitive – con le forme ar-
chetipiche (e con i relativi comportamenti) che la maschera indos-
sata simboleggia e veicola. Ne deriva che quei comportamenti
archetipici connessi con la maschera o con l’essere archetipico effi-
giato dalla maschera diventano preponderanti rispetto ai comporta-
menti che normalmente caratterizzano il soggetto che la indossa.
Ovviamente, se nelle società primitive questa sovrapposizione
uomo-maschera è un potente tramite per acquisire una identità co-
scienziale altrimenti inesistente, nella modernità, invece, è il sigillo
che caratterizza la persona che, in un certo senso, ha perduto o sta
perdendo la coscienza che aveva acquisito. Infatti, nella società mo-
derna, i cittadini non indossano maschere per rivendicare una co-
scienza che non possiedono, semmai se ne servono onde celare a se
stessi qualcosa che è andato perduto: onde acquisire una propria (ap-
parentemente autonoma) e provvisoria personalità, una propria (ap-
parentemente autonoma) e provvisoria coscienza.
Jung ricorda come «ogni professione presenti una sua Persona ca-
ratteristica [...] Il rischio è solo di diventare identici alla Persona: il
professore al suo manuale e il tenore alla sua voce». Dalle parole di

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Jung si evince quello che si può considerare il rischio maggiore con-
nesso all’indossare una maschera – e, parimenti, ciò che la rende un
tabù – ossia che si attivi una preoccupante inversione di ruoli tra la
maschera e chi la indossa. Inversione in cui l’uomo si identifica con
quella maschera e la maschera con quell’uomo. Il che avviene, pe-
raltro solo “pro tempore”, nei riti e nelle cerimonie primitive, in cui
la maschera viene vissuta e adorata come una vera apparizione del-
l’essere mitico che essa rappresenta, anche se tutti sanno che un uomo
l’ha costruita e un uomo la sta indossando.
Nel significato di aspetto collettivo dell’individuo il termine Ma-
schera fa riferimento ad aspetti psicologici che riguardano l’individuo,
quali il dovere di manifestarsi e il suo non poter che essere in relazione
con gli altri, con la società tutta, con il mondo intero. La Persona
svolge un ruolo positivo sul piano pratico e della realizzazione nel so-
ciale ma in questo senso costituisce anche il limite con cui si confronta
nella realizzazione individuale, e proprio in questo confronto ciò che
è individuale e ciò che è collettivo si definiscono, cioè attraverso la
Maschera si esplicitano l’uomo e il mondo con tutte le differenze che
tra loro intercorrono. In questo senso la maschera sociale è il vestito
necessario all’adattamento sociale, qualcosa di indispensabile a cui
nessuno può rinunciare. L’uomo inizia ad assumere l’impronta (la ma-
schera) che gli propone la società e che viene modellata dall’educa-
zione, dal conformismo e dalle convenzioni. Su di essa prendono
forma come in un gigantesco gioco di ricalco le figure o meglio i ruoli
sociali cui i cittadini (i membri della società) devono attenersi per po-
ter esistere, per costruire l’illusione di un senso, per percepirsi, illu-
soriamente, partecipi di una totalità. Le maschere della società sono
“istituzionali”, non riproducono tipi eterni, ma modalità funzionali a
modelli comportamentali accreditati dalle istituzioni famigliari, sco-
lastiche, statuali, sociali e religiose. Esse aderiscono, strettamente, ad
ogni personalità e non possono essere mai tolte, se non a rischio di pre-
cipitare nell’indistinto sociale: un indistinto non meno inquietante per
l’uomo dell’antico caos primordiale. È questo il paradigma e il pe-
renne rischio dell’uomo moderno, la cui vita si dispiega in una società
che gli appare a prima vista come il luogo ideale in cui ottenere il sod-
disfacimento dei propri desideri e dei propri bisogni. In realtà, per lo
più lo immette in spersonalizzanti habitat urbani, grigi e desolati op-

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pure in quartieri stereotipici dove conduce una vita non meno grigia,
desolata e ripetitiva. In questo contesto, la sua individualità, il suo svi-
luppo morale e sociale vengono presentati come l’effetto di rapporti
liberi ed interscambiabili, nonché della reciproca funzionalità dei
singoli individui che partecipano alla società.
Curiosamente proprio nel momento in cui la cultura moderna ri-
vendica a sé il merito di aver aiutato l’uomo a togliersi la maschera (del
devoto, del credente, del pio, del sottomesso, ecc.) impostagli nelle
epoche precedenti, egli ne assume un’altra non meno repressiva e pro-
babilmente altrettanto inquietante. Sembra proprio che l’uomo non sia
in grado di vivere senza indossare una maschera. Quasi che la sua on-
tologia sia perennemente in bilico tra una ineliminabile maschera che
è, di fatto, la sua seconda pelle ed un desiderio assoluto di togliere la
maschera: di mostrare come realmente è. È il dramma della maschera
individuale propria di una epoca che porta al massimo grado l’esa-
sperazione del soggetto e che continua a nascondersi: in un gioco mi-
metico di specchi. Un gioco di specchi in cui, ancora una volta, emerge
l’immagine di chi rifiuta la realtà ed assume – a tal fine – una maschera
che se gli impedisce di essere visto gli impedisce anche di vedere. Al-
cune persone attraverso la maschera si nascondono dietro una vita di-
versa da quella reale. La Maschera fornisce un luogo di rappresenta-
zione in cui l’individuo mette in scena e rappresenta se stesso. Portare
la maschera è un modo per svelare un aspetto di sé. Persona significa
risuonare, suonare attraverso (per-sonare). La maschera come stru-
mento per vivere un’identità immaginaria è un aspetto che va in senso
contrario a quanto esposto e indica la difficoltà di adattamento alla re-
altà interna ed esterna dell’individuo. Ma nascondersi sempre spesso
vuol dire avere problemi di accettazione di sé, di autostima, di insi-
curezza, in ogni caso una difficoltà a stare al mondo nel rapporto con
se stessi e nel sociale per quel che si è. Diventa così la maschera di un
soggetto, di un uomo, che è sempre, patologicamente, identico a se
stesso, ma chi è sempre identico a se stesso o è una divinità o è un ca-
davere: anche se, artatamente, sembra vitale. In questo caso, se non si
strappa a qualsiasi costo la maschera, essa diventa la cifra di un dram-
matico autismo che rifiuta di rispecchiarsi nell’altro.
Nelle epoche passate la folla poteva a volte diventare protagoni-
sta e assumere, anche se solo per qualche giorno, il potere civile e re-

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ligioso. Era il giorno in cui tutti si mascheravano, dando luogo alle fe-
ste dei folli, al Carnevale in cui tutto veniva messo in discussione. È
il giorno in cui i bambini e gli adulti, la folla insomma, indossano ma-
schere che li fanno sovrani o vescovi e in cui i folli, che incarnano la
potenza pulsionale, dell’inconscio, libera da freni e limitazioni – si so-
stituiscono “all’umanità normale”: a coloro che portano sempre una
maschera. Sembra addirittura che questo tipo di festeggiamenti esi-
stesse già ai tempi delle antiche popolazioni mesopotamiche ed egi-
zie; erano momenti particolari in cui, tramite una maschera, gli ani-
mali diventavano uomini e gli uomini diventavano animali, oppure in
cui si invertivano i ruoli consueti dell’esistere. un periodo in cui i pa-
droni diventavano servi (come poi avverrà anche nell’antica Roma)
oppure le persone indossavano maschere (come già nell’antico Egitto).
Abbiamo persino una festa ebraica che assomiglia molto al Car-
nevale, si tratta della Festa di Purim, una festa che ha origini molto
antiche (VI sec. a.C.). La storia di Purim si può così riassumere: con
la distruzione del primo Tempio e l’estinzione del Regno di Giuda, gli
antenati degli ebrei furono mandati in esilio in Babilonia. Nel corso
di quegli anni, Assuero (Achashveròsh) ascese al potere e l’ebreo
Mordechai lo salvò da un complotto di corte. Il Re lo elevò allora al
rango di funzionario, scatenando così le invidie di Hamàn, il suo po-
tente consigliere. In quel periodo Re Assuero diede una serie di ban-
chetti in onore dei dignitari dei regni mediorientali e, di fronte al
rifiuto della regina Vasti, sua moglie, di presentarsi nuda di fronte ai
commensali di uno dei banchetti, la fece giustiziare; decise quindi di
prendere una nuova moglie a cui conferire il rango di Regina, per non
rimanere umiliato di fronte al mondo. Mordechai, che era anche capo
del Sinedrio (sanhedrìn - la Corte Suprema ebraica), portò alla corte
del Re sua cugina Ester, orfana, che aveva personalmente adottato;
ella, famosa per la sua bellezza, incontrò le grazie del Re e divenne
regina. Nuovamente, Mordechai venne a conoscenza di un complotto
contro il Re e lo fece avvertire da Ester, così Ester ne guadagnò il ri-
spetto. In quegli stessi giorni Hamàn venne elevato al massimo rango
di corte e da quel giorno tutti dovevano inginocchiarsi e prostrarsi in
sua presenza. L’unico a non prostrarsi rimase Mordechai poiché, in
quanto ebreo, rispettava il precetto di non prostrarsi se non di fronte
al proprio Dio. Hamàn, avvampando d’ira, saputa l’origine di Mor-

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dechai, piuttosto che rivalersi su di lui decise di sterminare l’intero
popolo ebraico. Hamàn così parlò al Re: “Vi è un popolo segregato e
anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui
leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e che non osserva
le leggi del re; non conviene quindi che il re lo tolleri. Se così piace
al re, si ordini che esso sia distrutto; io farò passare diecimila talenti
d’argento in mano agli amministratori del re, perché siano versati
nel tesoro reale. Allora il re si tolse l’anello di mano e lo diede ad
Amàn ... Il re disse ad Amàn: «Il denaro sia per te: al popolo fa’ pure
quello che ti sembra bene»” (Ester 3,8-11).
Hamàn tirò a sorte il mese e il giorno nei quali avrebbe realizzato
le sue malvagie intenzioni (da qui il nome di Purìm, che significa le
sorti). La sorte indicò il mese di Adàr e il suo 13° giorno l’editto del
Re, secondo il consiglio di Hamàn, venne diramato in tutto il regno,
gettando nello sconforto e nella disperazione l’intero popolo ebraico.
Mardocheo chiese alla cugina Ester di potersi recare dal Re a chiedere
la grazia per il suo popolo: ella rispose che nessuno, se non chiamato,
poteva recarsi dal Re, pena la morte. Gli mandò quindi a dire: “Và,
raduna tutti gli ebrei che si trovano a Susa: digiunate per me, state
senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch’io
con le ancelle digiunerò nello stesso modo; dopo entrerò dal re, seb-
bene ciò sia contro la legge e, se dovrò perire, perirò!” (Ester 4,17)
Per i tre giorni seguenti Ester, Mardocheo e tutto il popolo ebraico
osservarono il digiuno ed implorarono la clemenza del Signore verso
il loro popolo. Al termine del digiuno Ester si recò dal Re, pregandolo
di offrire un banchetto e di invitare anche il perfido Hamàn. Quella
notte il Re non riuscì a prendere sonno e chiese che gli venisse letto
il libro delle cronache nel quale era registrato il servigio che Mardo-
cheo aveva reso al Re. Subito dopo la lettura del passo relativo,
Hamàn si presentò al Re per chiedere che Mardocheo venisse impic-
cato. Allora il Re chiese ad Hamàn cosa si dovesse fare per onorare
un uomo che gli aveva reso un così grande servigio. Hamàn rispose
convinto che il Re parlasse di lui stesso. Al termine della risposta il
Re ordinò ad Hamàn di fare quanto lui stesso aveva detto fosse giu-
sto, ma in onore di Mardocheo. Hamàn, pur divorato dalla gelosia e
dalla rabbia, fece ciò che gli era stato comandato e tornò quindi nella
propria casa. Non appena arrivato, giunsero gli eunuchi del Re che lo

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accompagnarono al banchetto. Durante il banchetto, la Regina Ester
chiese: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, o re, e se così piace al re,
la mia richiesta è che mi sia concessa la vita e il mio desiderio è che
sia risparmiato il mio popolo. Perché io e il mio popolo siamo stati
venduti per essere distrutti, uccisi, sterminati. Ora, se fossimo stati
venduti per diventare schiavi e schiave, avrei taciuto; ma il nostro
avversario non potrebbe riparare al danno fatto al re con la nostra
morte” (Ester 7,3-4).
Il Re di rimando le chiese: “Chi è e dov’è colui che ha pensato di
fare una cosa simile?” (Ester 7,5) Ed Ester rispose: “L’avversario, il
nemico, è quel malvagio di Hamàn” (Ester 7,6). Allora il Re diede or-
dine che Hamàn venisse impiccato a quello stesso palo che aveva
fatto preparare per Mordechai e quest’ultimo ne prese il posto come
consigliere del Re.
Il 14 di Adàr (il giorno seguente la data fissata da Hamàn) fu
quindi scelto dai saggi come data di celebrazione per la Festa di
Purìm. I Giudei stabilirono e presero per sé, per la loro discendenza
e per tutti quelli che si sarebbero aggiunti a loro, l’impegno inviola-
bile di celebrare ogni anno quei due giorni. I giorni di Purim non do-
vevano cessare mai di essere celebrati fra i Giudei, e il loro ricordo
non doveva mai cancellarsi fra i loro discendenti. (Est 9:25-28). Que-
sta festività fu voluta soprattutto da Ester. La Bibbia dice: “La regina
Ester, figlia di Abiail, e il Giudeo Mordechai riscrissero con ogni au-
torità, per dar peso a questa loro seconda lettera relativa ai Purim”
(Est 9:29). E ancora: “L’ordine di Ester confermò l’istituzione dei
Purim, e ciò fu scritto in un libro” (Est 9:32). L’importanza data a
Ester è enorme: il suo nome viene citato nella Bibbia ben 55 volte, più
spesso di qualsiasi altra donna. Soltanto Sara vi si avvicina (il suo
nome appare come Sara 35 volte e come Sarai 16 volte). La regina
Ester seppe guadagnarsi il favore della gente che la circondava, per
la sua saggezza, per il suo autocontrollo e per la capacità che aveva
di pensare agli altri prima che a se stessa.
Nei giorni che preannunciano Purim, e soprattutto nel giorno di
Purim stesso, Israele è invasa da un’atmosfera festosa. Le strade sono
piene di bambini – ma anche di adulti – in costume, i negozi vendono
accessori dai colori brillanti da utilizzare per la festa. È usanza tra-
vestirsi persino durante la funzione al tempio. Oggi il Purim è una

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delle festività più allegre e felici della tradizione ebraica, un giorno
in cui i precetti religiosi includono quello di essere gioiosi, e anche
un po’ ubriachi, e persino i più rigorosi studenti della Torah si la-
sciano dallo spirito del divertimento e prendono parte all’atmosfera
carnevalesca della festività. Purim è un giorno di digiuno, per ricor-
dare come anche Ester, Mordechai e tutti gli ebrei di Persia digiuna-
rono prima che ella potesse avvicinarsi al Re Assuero e difendere la
causa del suo popolo. Dopo il digiuno, la cena festiva, ricca di gio-
chi e divertimenti, si protrae fino a tarda serata. Il precetto religioso
vuole che ci si ubriachi al punto di non riconoscere, come nella sto-
ria di Ester, la differenza tra l’eroe di Purim, Mordechai, e il cattivo
Hamàn. L’abitudine di indossare maschere e costumi si è sviluppata
nel medioevo, apparentemente influenzata dalla locale festa del mar-
tedì grasso. Un evento memorabile, che vanta una lunga tradizione,
fin dal tempo dei primi insediamenti ebraici in Israele, è la parata di
Purim lungo le strade della città. In passato avveniva a Tel Aviv, ma
ora vi sono parate organizzate in tutta la nazione. La più imponente
è ad Holon, città a sud di Tel Aviv, che recentemente si è guadagnata
la reputazione di essere particolarmente amichevole verso i bambini.
Le celebrazioni di Purim proseguono per tutto il giorno seguente,
chiamato Shushan Purim. La sera di Purim e la mattina successiva in
sinagoga il Libro di Ester viene letto ad alta voce. La lettura della
storia di Ester è un vero evento sociale ed ogni volta che viene pro-
nunciato il nome del malvagio Haman, sinonimo di chiunque voglia
recar danno agli Ebrei, tutti i presenti e specialmente i bambini cer-
cano di coprire il suo nome scuotendo uno speciale giocattolo, pic-
colo strumento che azionato produce forti rumori. Il giorno
precedente alla sera di Purim si usa fare delle donazioni ai poveri
della comunità (sono richieste un minimo di due donazioni a due per-
sone o a due organizzazioni) e in tutte le sinagoghe si organizzano
raccolte comunitarie per fini assistenziali.
La Festa di Primavera (o Carnevale/Capodanno Cinese), antico
di 4000 anni, è, addirittura, la più importante festività del calendario
cinese; tradizionalmente dura fino a 15 giorni, a partire dalla fine del-
l’anno lunare (fra il 21 gennaio e il 19 febbraio) fino alla tradizionale
Festa delle Lanterne, che lo conclude. È simile alla più famosa Danza
del drago, praticata in diverse occasioni durante vari periodi dell’anno,

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ma ha un significato diverso: mentre la Danza del drago celebra e in-
voca gli “spiriti buoni” dei draghi cinesi, la Danza del leone è in grado
di scacciare ed esorcizzare gli “spiriti cattivi” e favorire così l’arrivo
della fortuna nel nuovo anno. Le celebrazioni corrispondono al mo-
mento dell’anno in cui le famiglie si riuniscono per pregare Buddha
e in cui si praticano sacrifici per le divinità e per gli antenati. Stando
alla mitologia cinese l’origine della Festa di Primavera viene fatta ri-
salire a un’antica leggenda secondo la quale nei tempi antichi viveva
in Cina un mostro chiamato Nian. Secondo la leggenda il Nian era so-
lito uscire dalla sua tana una volta ogni 12 mesi per cibarsi di esseri
umani; l’unico modo per sfuggire a questo tributo di sangue era spa-
ventare il Nian, sensibile ai rumori forti e terrorizzato dal colore
rosso. Per questo motivo ogni 12 mesi si è soliti festeggiare l’anno
nuovo con canti, strepitii, fuochi d’artificio e l’uso massiccio del co-
lore rosso. Un’eco di questa leggenda è rimasta nella rituale danza del
leone, tipica dei giorni del Capodanno, durante la quale nelle vie di
città e villaggi si sfila e si danza inseguendo un leone al ritmo chias-
soso e battente di tamburi e cimbali. Presso le piazze vengono siste-
mate grosse campane, il cui suono è simbolo del nuovo inizio e della
speranza di un felice anno nuovo; in quanto le campane hanno il po-
tere di scacciare la cattiva sorte, il primo suono dell’anno acquista
quindi un significato simbolico molto forte. Al fine di scacciare la cat-
tiva sorte ogni famiglia pulisce a fondo la propria abitazione, tradi-
zionalmente il giorno della vigilia, per accogliere il nuovo anno e fare
entrare la fortuna nella propria famiglia. Polvere e sporco sono asso-
ciati con il vecchio; metaforicamente la pulizia della casa rappresenta
il rinnovamento e il lasciare andare il passato. In modo simile alla vi-
gilia del nostro Natale, durante la vigilia del capodanno cinese viene
organizzato un cenone al quale devono partecipare tutti i membri della
famiglia. Il primo giorno del calendario lunare i petardi cominciano
a scoppiare già di buon mattino e continuano ininterrottamente fino
a tarda notte. Si va a far visita ad amici e vicini, oppure si rimane a
casa a mangiare e celebrare con la famiglia.
Negli ultimi anni una nuova usanza prevede la visita presso un
tempio in montagna, durante la vigilia, per ascoltare il suono delle
campane che riecheggia nelle valli. Le città si adornano di lampade
e decorazioni “FU” (fortuna) rosse già alcune settimane prima della

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fine dell’anno. Il carattere “FU” significa “fortuna” ed è uno dei mo-
tivi ornamentali più comuni durante la Festa di Primavera. Il primo
giorno del nuovo anno tutti indossano abiti nuovi e si salutano a vi-
cenda dicendo “gongxi” (congratulazioni) ed augurandosi fortuna e
felicità. Adesivi e ritagli di carta di colore rosso vengono appesi sulle
porte e sulle finestre delle abitazioni private, soprattutto nella Cina del
nord, mentre a Hong Kong e nelle province meridionali si preferisce
abbellire la propria casa con vasi di fiori colorati. Una delle usanze
più comuni è quella di regalare delle buste rosse contenenti denaro:
è il dono ideale per augurare un buon inizio d’anno, utilizzato tanto
dai datori di lavoro per i propri impiegati, quanto dai nonni per i pro-
pri nipoti. Le buste sono rosse perché è il colore della fortuna. Di so-
lito le generazioni più giovani fanno visita agli anziani della propria
famiglia mentre le ragazze trascorrono le festività assieme ai suoceri
e visitano la propria famiglia il giorno seguente. Dal terzo al settimo
giorno si trascorre il tempo assieme ad amici o ad altri familiari. L’ot-
tavo giorno segna la fine ufficiale delle festività dell’anno nuovo e in
molti riprendono la routine lavorativa. Il quindicesimo giorno del-
l’anno nuovo è il Yuanxiao (festa delle lanterne), che segna la fine
delle celebrazioni.
Il carnevale di Venezia è sicuramente il più famoso dell’epoca mo-
derna. L’istituzione del Carnevale da parte delle oligarchie vene-
ziane è generalmente attribuita alla necessità della Serenissima, al pari
di quanto già avvenuto nell’antica Roma (il famoso panem et circen-
ses), di concedere alla popolazione e soprattutto ai ceti sociali più
umili un periodo dedicato interamente al divertimento e ai festeggia-
menti, durante il quale i veneziani e i forestieri si riversavano in tutta
la città a fare festa con musiche e balli sfrenati. Attraverso l’anonimato
garantito da maschere e costumi si otteneva una sorta di livellamento
di tutte le divisioni sociali ed era autorizzata persino la pubblica de-
risione delle autorità e dell’aristocrazia. Tali concessioni erano lar-
gamente tollerate e considerate un provvidenziale sfogo alle tensioni
e ai malumori che si creavano inevitabilmente all’interno della Re-
pubblica di Venezia, che poneva rigidi limiti su questioni come la
morale comune e l’ordine pubblico dei propri cittadini. Un tempo la
durata del carnevale era molto più lunga: cominciava la prima do-
menica di ottobre per intensificarsi il giorno dopo l’Epifania e cul-

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minare nei giorni che precedevano la quaresima; oggi il carnevale ha
la durata di circa dieci giorni, in coincidenza del periodo pre-quare-
simale, ma la febbre del Carnevale comincia molto tempo prima; anzi,
forse non è scorretto dire che a Venezia non cessa mai durante l’anno.
Una sottile euforia si insinua tra le calli della città più bella del
mondo e cresce impercettibilmente, sale con la stessa naturalezza del-
l’acqua, sfuma i contorni della cose, suggerisce misteri e atmosfere
di tempi andati. La partecipazione gioiosa e in incognito a questo rito
di travestimento collettivo era, ed è tuttora, l’essenza stessa del rito
carnascialesco. Un periodo spensierato di liberazione dalle abitudini
quotidiane e da pregiudizi e maldicenze, anche nei propri confronti.
Si fa tutti parte di un grande palcoscenico mascherato, in cui attori e
spettatori si fondono in un unico ed immenso corteo di figure e co-
lori. I cittadini indossano maschere e costumi: è possibile celare to-
talmente la propria identità, annullando in tal modo ogni forma di ap-
partenenza personale a classi sociali, sesso, religione. Ognuno può
stabilire atteggiamenti e comportamenti in base ai nuovi costumi e alle
mutate sembianze. Uno dei travestimenti più comuni nel carnevale an-
tico, soprattutto a partire dal XVIII secolo, rimasto in voga e indos-
sato anche nel carnevale moderno, è sicuramente la Baùta. Questa fi-
gura, prettamente veneziana, indossata sia dagli uomini che dalle
donne, è costituita da una particolare maschera bianca denominata
larva sotto un tricorno nero e completata da un avvolgente mantello
scuro chiamato tabarro. La baùta era utilizzata diffusamente non solo
durante il periodo del carnevale, ma anche a teatro, durante altre fe-
ste, negli incontri galanti ed ogni qualvolta si desiderasse la libertà di
corteggiare o di essere corteggiati, garantendosi reciprocamente il to-
tale anonimato: proprio a questo scopo, la particolare forma della ma-
schera sul volto assicurava la possibilità di bere e mangiare senza do-
verla togliere. Un altro costume tipico di quei tempi era la Gnaga,
semplice travestimento da donna per gli uomini, facile da realizzare
e d’uso piuttosto comune. Era costituito da indumenti femminili di uso
comune e da una maschera con le sembianze di gatta, accompagnati
da una cesta al braccio, che solitamente conteneva un gattino. Il per-
sonaggio si atteggiava da donnina popolana, emettendo suoni striduli
e miagolii beffardi. Interpretava talvolta le vesti di balia, accompa-
gnata da altri uomini a loro volta vestiti da bambini.

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Un tempo il carnevale consentiva ai veneziani di lasciare da parte
le occupazioni per dedicarsi totalmente ai divertimenti: si costruivano
palchi nei campi principali e la gente passava gran parte del tempo in
festeggiamenti, burle, divertimenti e spettacoli allestiti in tutta la città.
La gente accorreva per ammirare le attrazioni più varie: giocolieri,
saltimbanchi, animali danzanti, acrobati; trombe, pifferi e tamburi in-
trattenevano un variopinto pubblico di ogni età e classe sociale, con
i costumi più fantasiosi e disparati; venditori ambulanti vendevano
ogni genere di mercanzia, dalla frutta di stagione ai ricchi tessuti,
dalle spezie ai cibi provenienti da paesi lontani, specialmente dal-
l’oriente, con il quale Venezia aveva intrecciato stretti e preziosi le-
gami commerciali sin dai tempi del viaggiatore Marco Polo lungo la
via della seta. Nelle dimore dei sontuosi palazzi veneziani si iniziò ad
ospitare grandiose e lunghissime feste con sfarzosi balli in maschera.
Nel XVIII secolo il carnevale di Venezia raggiunge il suo massimo
splendore e il riconoscimento internazionale, diventando celeberrimo
e prestigioso in tutta l’Europa e costituendo un’attrazione turistica e
una meta ambita da migliaia di visitatori festanti. Sono di quest’epoca
le famose avventure che videro protagonista, proprio a Venezia, uno
dei più celebri personaggi veneziani: Giacomo Casanova. Scrittore
prolifico, divenne tuttavia famoso per l’aspetto libertino della Vene-
zia dell’epoca; citato ancora oggi per la nomea di seduttore, creò il
suo personaggio quasi mitico grazie alla partecipazione a feste lus-
suriose, a piccanti episodi amorosi e ad incredibili traversie alle quali
andò incontro nel corso della sua vita sregolata, che portarono av-
venture, scandalo e vivacità ovunque si recasse. Nel Settecento, il se-
colo che più di ogni altro la rese luogo dalle infinite suggestioni e
patrimonio della fantasia del mondo, Venezia divenne l’alta scuola
europea del piacere e del gioco, della maschera e dell’irresponsabi-
lità. Nel XIX secolo invece Venezia e il suo carnevale incarnarono il
mito romantico internazionale e la città lagunare, con le sue brume e
l’aspetto paludoso, diventò meta di artisti, scrittori, musicisti, avven-
turieri e bellissime dame provenienti da tutto il mondo; solo ad esem-
pio citiamo Byron, Wagner e la principessa austriaca Sissi.
Ma il carnevale, offrendo a tutti l’opportunità di celare la propria
identità, comportò inevitabilmente degli eccessi. Sfruttando i trave-
stimenti e la complicità del buio era più facile commettere reati di va-

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ria natura; scippi, furti e molestie si moltiplicavano. Uomini travestiti
da donne o con abiti religiosi ne approfittavano per entrare nei luo-
ghi sacri, nelle chiese e nei monasteri e compiere atti libertini e
osceni anche con le religiose. Ampi mantelli (i tabarri) erano ideali per
nascondere armi, con l’intento di offendere: Tutto ciò costrinse le au-
torità ad introdurre a più riprese e per decreto limitazioni, divieti e san-
zioni contro l’abuso e l’utilizzo fraudolento o non ortodosso dei tra-
vestimenti: a partire dal 22 febbraio 1339 venne decretato il divieto
notturno di circolare in maschera per la città; il 24 gennaio 1458 si
proibì di indossare maschere nei luoghi sacri.; inoltre numerosi atti uf-
ficiali stabilirono quindi e ribadirono di continuo il divieto assoluto
di portare con sé qualunque oggetto di natura pericolosa per l’inco-
lumità altrui. Le pene per questi reati prevedevano sia pesanti sanzioni
economiche che anni di reclusione. Nel 1703 si arrivò addirittura a
proibire di recarsi in maschera in alcuni luoghi. Più tardi, nel 1776,
venne invece proibito alle donne sposate di recarsi a teatro con la ma-
schera, al fine di proteggerne l’onorabilità. Nel 1797, con l’occupa-
zione francese prima, ad opera di Napoleone Bonaparte, ed austriaca
poi, la tradizione del carnevale venne interrotta per il timore di ribel-
lioni e disordini da parte della popolazione; si arrivò infine alla proi-
bizione definitiva dei mascheramenti, ad eccezione di quelli delle fe-
ste private nei palazzi e del Ballo della Cavalchina al teatro La
Fenice. Iniziò così una veloce fase di declino dello spirito che aveva
animato per secoli il carnevale storico: le manifestazioni e le feste si
spensero gradualmente. La tradizione venne conservata solo nelle
isole di Burano e Murano, dove si continuò a festeggiare, anche se in
tono minore, con vigore ed allegria.
Solo nel 1979, dopo quasi due secoli di oblio, la secolare tradi-
zione del carnevale di Venezia risorse ufficialmente (novella Fenice,
animale mitologico immortale in quanto riprende vita, dopo essersi
incenerito alla sua morte, dalle sue stesse ceneri), grazie all’inizia-
tiva e all’impegno di alcune associazioni di cittadini e al contributo
logistico ed economico del teatro La Fenice (che è da poco tempo, ap-
punto, risorto dalle ceneri in cui si era ridotto a causa di un’incendio
distruttivo qualche anno fa), del Comune di Venezia, della Biennale
di Venezia e degli Enti turistici. Nel giro di poche edizioni, grazie
anche alla visibilità mediatica riservata all’evento e alla città, il car-

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nevale di Venezia è tornato a ricalcare con grande successo le orme
dell’antica manifestazione, anche se con modalità ed atmosfere dif-
ferenti. Le singole edizioni annuali di questo nuovo carnevale sono
state spesso contraddistinte e dedicate ad un tema di fondo, al quale
ispirarsi per le feste e gli eventi culturali di contorno. Il carnevale di
Venezia dei nostri giorni è diventato un grande e spettacolare evento
turistico, che richiama migliaia di visitatori da tutto il mondo che si
riversano in città per partecipare a questa festa considerata unica per
storia, atmosfere e maschere. Tra le calli della meravigliosa città per
una decina di giorni, si svolge una continua rappresentazione di tea-
trale allegria e giocosità: tutti in maschera a celebrare il fascino di un
mondo fatto di balli, scherzi, galà esclusivi e romantici incontri. Oltre
alle feste ufficiali di piazza tra campi e campielli, ancora oggi come
in passato si organizzano svariate feste private e balli in maschera
presso i grandi palazzi veneziani. In questi luoghi, ricchi di arredi ed
atmosfere quasi immutate nel tempo, è possibile rivivere gli antichi
splendori e la tradizione del carnevale di un tempo.
Il carnevale di Viareggio, il secondo in Italia ed uno dei più im-
portanti d’Europa, non vanta in realtà una lunga tradizione: il suo ini-
zio si fa infatti risalire alla prima sfilata di carri del 1873, quando al-
cuni ricchi borghesi decisero di mascherarsi per protestare in incognito
contro le eccessive tasse che erano costretti a pagare. La tradizione
vuole che l’idea sia nata ai tavoli del Caffè del Casino, inaugurato qua-
rant’anni prima, e che abbia consentito di mitigare il malcontento della
popolazione verso i suoi amministratori; alla fine del secolo com-
parvero i carri trionfali realizzati in stucco, tela e materiali pesanti,
poi sostituiti dalla carta pesta modellata, per trovare infine un vero
tocco di raffinatezza negli anni ‘30 del ‘900 con la carta a calco. I carri,
fra i più grandi e movimentati del mondo, sfilano lungo la passeggiata
a mare viareggina. Il tema principale dell’evento è da sempre la sa-
tira, di tipo politico e sociale. La pausa bellica causata dalla prima
guerra mondiale durò 6 anni; la manifestazione riprese nel 1921 e i
carri sfilarono su due meravigliosi viali del lungomare. La terza sfi-
lata dell’edizione 2011 ha battuto ogni record, con più di 325.000 tu-
risti ad assistere alla manifestazione.
Il carnevale di Acireale, definito il più bel carnevale di Sicilia e il
terzo d’Italia, è uno dei più antichi dell’isola e d’Italia, ha infatti ori-

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gini antichissime, anche se successive a quello di Venezia. Il primo do-
cumento ufficiale che cita la manifestazione è un mandato di paga-
mento del 1594. Il carnevale di Acireale si svolge ogni anno in ben tre
occasioni (oltre alla data classica: in Aprile con i carri infiorati ed ad
Agosto ad uso dei turisti) nella città, appunto, di Acireale, in provin-
cia di Catania. Caratteristica è la sfilata dei carri allegorici e infiorati:
• I carri allegorico-grotteschi sono grandi costruzioni in carta-
pesta che trattano argomenti di satira e costume sociale. I car-
risti lavorano nei cantieri (grandi capannoni messi a disposi-
zione dal Comune) per diversi mesi, fra la progettazione e la
realizzazione. Sono gli unici carri al mondo ad utilizzare con-
temporaneamente impianti di luci e movimenti, sia meccanici
che idraulici. Si tratta di opere lavorate con grande cura, che of-
frono il loro spettacolo attraverso migliaia di lampadine e di luci,
movimenti e scenografie, in continua evoluzione durante le
esibizioni. La cartapesta è un preparato composto essenzial-
mente da acqua, colla, gesso e carta. Il procedimento della la-
vorazione parte dalla creazione di un modello in argilla sul
quale, grazie ad una colata di gesso, si ottiene il negativo del
calco; all’interno vengono applicate delle strisce di carta pre-
cedentemente imbevute in un composto di acqua e colla. I car-
risti riescono così a plasmare facilmente e con maestria masse
e volumi molto grandi; grazie alla leggerezza delle forme vuote,
il carro è una struttura semovente spettacolare. Dopo le molte
ore necessarie per l’asciugatura e dopo avere levigato la carta-
pesta con della carta vetrata, si procede alla decorazione con co-
lori acrilici o a tempera, ricoperti da un’ulteriore vernice lucida
di protezione. Sono caratterizzati oltre che da un soggetto, an-
che dal colore, dagli effetti e dal movimenti di alcune sezioni,
che generalmente si attivano appena giunti in piazza Duomo (la
piazza centrale della cittadina).
• I carri infiorati hanno la caratteristica, simile a quella di altri
carnevali liguri e della Costa Azzurra, di mostrare soggetti
creati interamente con fiori veri, disposti l’uno a fianco all’al-
tro. Introdotti nel 1931, inizialmente erano costituiti da auto-
mobili ricoperte di fiori e per questo vengono ancora chiamate
Macchine Infiorate. Attualmente però sono veri e propri carri di

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grandi dimensioni, con figure composte da centinaia di migliaia
di fiori e, anch’essi, sono articolati con movimenti e luci.

Si pensa che il Carnevale di Acireale sia una manifestazione nata


spontaneamente fra la gente del popolo e quindi ripetuta negli anni:
il popolino, libero dai vincoli rigidi, poteva con una certa libertà
scherzare, dando luogo a saturnali in maschera nei quali era uso pren-
dere di mira i potenti del tempo con satire e sberleffi. Una delle prime
maschere del carnevale acese fu l’Abbatazzu (detto anche Pueta Mi-
nutizzu) che, portando in giro grossi libri, ironizzava sulla classe cle-
ricale del tempo e in special modo sull’Abate-Vescovo (Acireale, pur
non essendo provincia, è praticamente da sempre Sede vescovile).
Nel XVII secolo era usanza effettuare una battaglia di arance e li-
moni: si trattava di una manifestazione partecipata tanto veemente-
mente (si verificavano veri e propri scontri tra quartieri e bande di
giovani) che il 3 marzo 1612 la Corte Criminale fu costretta a ban-
dirla. Nei primi del XVIII secolo entrarono in scena alcune maschere
nuove e in particolare U baroni (il barone) e i famosissimi Manti. I
Manti, che riscossero il maggior successo nella tradizione acese,
erano figure che celavano la loro identità grazie a grandi mantelli di
seta nera; paragonati ai Bautta veneziani, vennero poi sostituiti dal
Domino, una maschera completamente nera realizzata con tessuti
meno sontuosi. Il costume fu bandito nei primi anni del XX secolo
per motivi di pubblica sicurezza, poiché alcuni malviventi usavano
travestirsi così per confondersi tra la folla festante e compiere indi-
sturbati e irriconoscibili le loro malefatte. Dal 1880 iniziarono le sfi-
late dei carri allegorici, inizialmente preceduti dalle carrozze dei
nobili (dette cassariate o landaus) addobbate per l’occasione e suc-
cessivamente pensati come carri di cartapesta, successivamente in-
trodotti anche a Viareggio, poiché in città molti artigiani già
utilizzavano questa tecnica per decorazioni. Dal 1929, anno dell’isti-
tuzione dell’Azienda Autonoma e stazione di cura di Acireale, il Car-
nevale Acese viene organizzato così come lo si può ammirare oggi,
con alcune edizioni arricchite da carri addobbati con agrumi.
Ha origini decisamente più moderne il carnevale sicuramente più
famoso al mondo, quello di Rio de Janeiro, il primo dei Carnevali
brasiliani. Le sue origini infatti risalgono agli anni trenta del XIX se-

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colo, quando la borghesia cittadina importò dall’Europa la moda di te-
nere balli e feste mascherate, molto in voga specialmente a Parigi.
Sul finire del XIX secolo in città vennero costituite le prime cordões
(corde, nella lingua portoghese), gruppi di gente che sfilava per le
strade suonando e ballando. Dalle cordões derivano i moderni blocos
(quartieri), gruppi di persone legati a un particolare quartiere della
città che sfilano per festeggiare il carnevale con tamburi e ballerine,
vestiti con costumi e magliette a tema. I blocos oggi sono parte inte-
grante della festa a Rio: vi sono più di cento gruppi con usi e tradi-
zioni diversi, e ogni anno il numero cresce. Alcuni sono numerosi,
altri più piccoli; alcuni sfilano per le strade in formazione, altri re-
stano fermi nello stesso posto. Ogni bloco ha un luogo o una strada
in cui festeggiare, e per i più grandi le strade vengono chiuse al traf-
fico. Nel periodo di carnevale Rio si trasforma in un’unica grande
pista di samba; nei vari quartieri i residenti preparano le coreografie
che accompagnano la sfilata dei carri. I festeggiamenti cominciano da
gennaio e durano fino al termine del carnevale, con gruppi di persone
che ballano il samba nel weekend agli angoli delle strade. Solitamente
i festeggiamenti avvengono di giorno o alla fine dell’orario lavora-
tivo. I blocos compongono essi stessi la musica che suonano in con-
tinuazione durante i festeggiamenti, basandosi sui classici della
samba o su vecchie musiche da carnevale chiamate Marchinhas de
carnevale. Il carnevale di Rio è noto soprattutto per le sfarzose parate
organizzate dalle principali scuole di samba della città che si tengono
nel sambodromo e costituiscono una delle principali attrattive turi-
stiche del Brasile. Le Scuole di Samba sono grandi e ricche organiz-
zazioni che lavorano tutto l’anno in preparazione del Carnevale; le
parate durano quattro notti e fanno parte di una competizione uffi-
ciale suddivisa in sette divisioni, al termine delle quali una delle
scuole verrà dichiarata vincitrice dell’anno.
Altre città italiane che vantano una grande tradizione del Carnevale
sono Cento, Foiano, Ivrea e Roma. Il Carnevale di Roma, o Carne-
vale romano, si festeggia ancora a Roma nel periodo dell’anno che
precede la Quaresima; fortemente ispirato ai Saturnali, festività reli-
giose dell’antica Roma caratterizzate da divertimenti pubblici, riti or-
giastici, sacrifici, balli e presenza di maschere. Il carnevale fu uno dei
principali festeggiamenti della Roma papalina. Dalla metà del XV se-

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colo i giochi, per volontà di papa Paolo II, si svolsero in via Lata (at-
tuale via del Corso) e la tradizione si riverbera anche ai nostri giorni.
I festeggiamenti del Carnevale fin dall’antichità sembrano simbo-
leggiare anche dei processi psichici profondi legati alle fasi di cam-
biamento della nostra personalità. Infatti, il carnevale è sempre stato
l’unico periodo durante il quale era possibile sovvertire legalmente
l’ordine prestabilito e rovesciare le certezze di tutto un anno; e lo è
stato sempre da tempi antichissimi. In una siffatta inversione di ruoli
si annulla il sistema di controllo della coscienza e della ragione e l’Io,
privo di vincoli e restrizioni, lascia libero sfogo, tramite la maschera,
ai desideri, alle pulsioni, agli istinti repressi e nascosti dalla quoti-
dianità mascherata. È di qualche utilità ricordare come, secondo gli
antropologi, i bambini delle società primitive non ancora sottoposti ai
riti di passaggio della pubertà – ossia non ancora diventati uomini at-
traverso la pienezza sessuale – rappresentano gli antenati ancestrali.
Sono, cioè, gli uomini dell’inizio per i quali non sussistono obblighi
e limitazioni di sorta. È questo il motivo dell’inversione dei ruoli che
si verifica (o meglio si verificava) nel carnevale: circostanza questa
che poteva, naturalmente, dar luogo a violenza, degenerazione e re-
gressione. D’altronde, ritornare, seppur per un limitato lasso di
tempo, ad una situazione considerata “originaria” equivale a situarsi
in una condizione in cui la distinzione netta tra bene e male, luce e te-
nebra (voluta dal conscio) è estremamente labile. È il comprensibile
motivo della diffidenza, del sospetto e della precauzioni da sempre
avanzate dalla Chiesa nel confronto del carnevale. È scontato che tale
ritorno – periodico ed, insieme, episodico – a questa condizione ori-
ginaria di libertà e spontaneità rappresenti uno sfogo ed una protesta
nei confronti del controllo esercitato dalla comunità prima e della so-
cietà dopo. Controllo che sarà sempre più, nel corso dell’evoluzione
storica, una pesante anche se necessaria limitazione alla libera espres-
sività. Perciò, il ritorno simbolico alla libertà originaria, tramite la
mascheratura carnevalesca o altra analoga, tende a restaurare l’istante
iniziale, la pienezza di un presente che non contiene nessuna traccia
di “storia”. Tende a riaffermare, quanto meno idealmente, un’assoluta
e incontrollabile libertà: in cui non ci sono maschere. In cui l’uomo
si augura di poter essere, nuovamente, interscambiabile con il tutto:
in piena, inconscia ed erotica sintonia con il cosmo.

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Il Carnevale ha la funzione, nella nostra cultura, di liberarci al-
meno per alcuni giorni delle regole della vita quotidiana e di speri-
mentare una parte di sé più libera e giocosa. Ad esso si accompagna
la maschera, che invece ha il compito di dare una forma specifica a
questa parte di sé, di rappresentarla. Il Carnevale ci dice qualcosa di
quello che si muove nell’anima più antica degli uomini: i festeggia-
menti improntati al sovvertimento dell’ordine costituito e delle re-
gole sociali vanno a rappresentare, a livello culturale, il Caos da cui
è nata la civiltà, nel suo percorso dal disordine all’ordine. Questo par-
ticolare motivo lo si può ritrovare in tutte le civiltà, in tutte le co-
smogonie, infatti, c’è una divinità che crea l’universo dal caos
primordiale; il Carnevale non fa altro che riproporre questo motivo
originario nelle diverse culture e nei diversi tempi. Questo principio
è valido anche a livello psicologico: la nostra personalità si “forma”
partendo dall’informe, dal caos. In questo senso il carnevale è un po’
una rappresentazione della nostra origine: l’assenza di forma, di re-
gole e di contenimento di qualsiasi tipo. Ma dopo il carnevale tutte le
regole tornano, la normalità e la civiltà riprendono il controllo; e que-
sto avviene anche dentro di noi, sempre infatti ad un momento di con-
fusione segue il ritorno dell’ordine, di un nuovo ordine che nasce
dalla trasformazione di quello vecchio causata dal momentaneo caos;
insomma, la personalità si rimette in discussione e cambia, si modi-
fica, evolve. Ed è qui che entra in ballo il concetto ed il significato
della “maschera”; Jung prende a prestito dal latino il termine Per-
sona (che appunto significa maschera, in genere la maschera dell’at-
tore) per descrivere quella parte della nostra personalità che si fa
carico di rappresentarci al mondo esterno. La Persona, la nostra ma-
schera, è l’attitudine a mostrarci a seconda del contesto in cui ci tro-
viamo; è quella “funzione psichica” che ci “trasforma” per esempio
in campioni di romanticismo quando siamo col partner per poi “tra-
sformarci” in persone serie ed autorevoli al lavoro. È grazie alla fun-
zione “persona” che sappiamo mostrare al mondo diverse parti di noi,
e di adeguarle alla situazione; in qualche modo tramite questo aspetto
psichico potremmo riuscire a vivere completamente tutti i diversi
aspetti (facce) della nostra personalità.
Ma come si lega tutto questo al caos carnevalesco? Se la nostra
crescita parte da un disordine iniziale e per crescere abbiamo tutti bi-

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sogno di decidere quello che vogliamo essere, spesso lo facciamo per
adeguarci alle situazioni esterne, mettendo una maschera appunto, e
questo ci permette di resistere agli ostacoli della vita; questa funzione
ci rende cioè più “forti” e “compatti”. Per fare un esempio un bam-
bino piccolo non sa ancora bene chi è (una specie di piccolo caos), lo
scoprirà nel tempo e quando crescerà potrà dire “io sono così e così
...”, nel frattempo inizia a definirsi in base allo sguardo dei suoi ge-
nitori, in base alle loro aspettative; potremmo dire in base alle ma-
schere che il padre o la madre gli fanno indossare quando ancora lui
non ne ha una propria. Questo vuol dire che la funzione psicologica
che Jung chiama Persona è una maschera che ha, tra gli altri, lo scopo
di far emergere dall’indifferenziato, nel tempo, quello che noi siamo
veramente e di rappresentarlo; ed è così che si potrebbe spiegare il le-
game tra maschera e Carnevale nella coscienza collettiva: se il Car-
nevale è il caos, la maschera rappresenta quel minimo di struttura che
ci impedisce di sprofondarci dentro. Ogni volta che esiste un disagio
psicologico la personalità crolla di nuovo nel caos, nell’assenza di
regole. Questa è una crisi che serve per mettere in discussione un vec-
chio adattamento alla vita quando non serve più e si rivela obsoleto
ed ormai non ci rappresenta più; dalla crisi la struttura psichica rina-
sce dalle proprie ceneri come trasformata; come dire che nulla è cam-
biato ma contemporaneamente ogni cosa ha cambiato forma, ha
cambiato cioè la maschera tramite la quale si manifesta e dalla quale
è meglio rappresentata. Il ritorno al caos non è quindi qualcosa da
biasimare, anzi è fondamentale per diventare persone nuove e più
mature, per cambiare il modo in cui vediamo noi stessi ed in cui ci ve-
dono gli altri.
La maschera però, oltre ad avere lo scopo di far emergere la no-
stra individualità, può avere anche una funzione difensiva. Di solito
infatti in questi momenti di messa in discussione abbiamo più biso-
gno che mai di una maschera provvisoria che ci dia l’idea che non ci
siamo “sfasciati” del tutto; abbiamo necessità di qualcosa che leghi
la nostra personalità affinché non rischi realmente di sprofondare in
un caos da cui potrebbe non uscire. Spesso questa maschera provvi-
soria e difensiva è rigida, spesso essa stessa ha la forma della nevrosi,
ma ciononostante, a volte, è solo grazie ad essa che ci si percepisce
ancora con una entità coesa (un’identità), come ci renderà magnifi-

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camente nelle sue opere Pirandello. Nel momento in cui si esce dallo
stato di caos la maschera cambia, diventa più flessibile, quasi cama-
leontica, e si presenta come uno degli elementi psichici che più di
altri può aiutarci ad entrare in rapporto con il mondo (tanto interno a
sé quanto esterno) senza che questo contatto crei problemi eccessivi;
rappresenta quindi un fattore di adattamento sano. Così, come la ma-
schera ci accompagna dal caos di carnevale all’ordine, nello stesso
modo, nel suo corrispettivo psicologico, ci accompagna dal caos della
nevrosi all’ordine di una personalità armoniosa ed equilibrata e ci
aiuta a esprimere la parte più vera e profonda di noi. Oscar Wilde so-
steneva che: “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà
sincero”, evidenziando come in molte occasioni il proprio pensiero
si esprima più facilmente nella sicurezza dell’anonimato, nella “giu-
stificazione” dell’ebbrezza o, perché no? nella “distanza” della realtà
virtuale creata dai social network. Anche le persone comuni indos-
sano maschere, tanto più quanto più sentono di dover nascondere
parti di sé che ritengono “inadeguate”, “non accettabili”, “non nor-
mali”. Alfred Adler ci insegna che con i nostri sensi non possiamo
recepire dei fatti, ma soltanto un’immagine soggettiva, un riflesso del
mondo esterno, ed ognuno nella vita si comporta come se avesse
un’opinione molto precisa sulla propria forza e sulle proprie capa-
cità. Il nostro comportamento scaturisce dalla nostra opinione: dal-
l’idea che ci siamo costruiti su di noi e sul mondo. Di qui anche le
scelte su ciò che riteniamo di poter o non poter mostrare, di dover o
non dover mascherare. Dal punto di vista psicologico la maschera
rappresenta quindi un filtro tra la nostra coscienza individuale e
l’esterno: coppia, famiglia, società. C’è una maschera dove c’è una
relazione, un’interazione umana: solo quando siamo da soli non ne
abbiamo bisogno. Ogni maschera con il suo specifico aspetto, ognuna
con la propria funzione, una maschera per ogni situazione e per ogni
stagione del nostro umore. Ma, se ne siamo consapevoli, le maschere
ci aiutano ad immedesimarci nei vari ruoli a cui la società ci chiama,
ad agire e relazionarci nel nostro ambiente di vita. Quando è presente
un sufficiente equilibrio emotivo e una adeguata conoscenza di sé, è
possibile entrare ed uscire dalle varie maschere senza forzature ed in
modo armonico, consapevoli in ogni momento di chi siamo, di come
ci stiamo muovendo e dove stiamo andando. Le maschere diventano

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così strumenti al nostro servizio, arricchimento ed espressione della
nostra personalità. Al contrario, finché l’individuo non conosce se
stesso non può riconoscere le maschere e rischia di esserne dominato
da esse. Quando manca un reale contatto con se stessi, con le proprie
istanze ed aspirazioni, con i propri sentimenti, in assenza quindi di
comprensione e di significato, l’individuo si incancrenisce in una sola
modalità di espressione del proprio essere, indossa una maschera
unica e arida. La persona che “diventa” il proprio ruolo sociale o fa-
miliare, il proprio lavoro, la propria missione, si identifica con la ma-
schera in modo così totalizzante da dimenticare che sotto ci sia mai
stato qualcos’altro. Mentre una rigida identificazione in una maschera
può essere fisiologica in un adolescente impegnato in un complesso
compito evolutivo, così non è per l’adulto. Molti dei comuni disturbi
di natura psicologica (per es.: disturbi d’ansia, del comportante ali-
mentare o della sfera sessuale, attacchi di panico, ipocondria, ecc.)
hanno a che fare con la riduzione della gamma di espressioni del pro-
prio essere, che l’individuo mette inconsapevolmente in atto nella
speranza di evitare un conflitto interiore, prima che interpersonale.
Non a caso uno degli scopi della psicoterapia è aiutare il paziente a
costruire un’immagine diversa e più ricca di sé, e una più versatile
personalità in grado di muoversi agevolmente nel teatro del quoti-
diano con i costumi che più sente propri. Gli sarà così possibile fi-
nalmente scrivere, e rappresentare, la sceneggiatura della sua vita: da
comparsa a protagonista, da passivo a creativo, da cliché ad individuo
unico ed irripetibile.
La maschera può anche essere un meccanismo di difesa innescato
in seguito ad una situazione di forte dolore, che crea un vissuto di fe-
rita emotiva profonda, avvenuto in tenera età. In questo caso la ma-
schera costituisce una parte strutturante della personalità, la parte più
esterna e come tale, è costituita da modi di pensare, di agire, di sen-
tire, di vedere le cose, ecc. Queste ferite sono procurate spesso pro-
prio dalle persone più vicine, di solito i genitori, spesso in modo
inconsapevole, molto spesso loro stessi sono stati oggetto di questa
dinamica a loro tempo nell’infanzia, ma non avendola riconosciuta,
analizzata e modificata, la ripropongono automaticamente senza sa-
perlo. La maschera è la risposta che il bambino ha trovato a suo
tempo, per sopravvivere nel modo migliore alla ferita, è un meccani-

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smo di difesa, un modo per ritrovare un ruolo attivo e di controllo su
una situazione subita e vissuta come eccessivamente dolorosa. Sulla
base dell’esperienza, della ricerca e dello studio di eminenti studiosi
della psicologia si possono distinguere cinque ferite con le rispettive
maschere:la ferita del rifiuto e la corrispettiva maschera da fuggitivo,
la ferita dell’umiliazione con la corrispondente maschera da maso-
chista, la ferita d’abbandono e la maschera da dipendente, la ferita
del tradimento e la maschera del controllo, la ferita dell’ingiustizia e
la maschera del rigido.
Togliere la maschera (Smascherarsi) è importante, è il primo
passo per andare a scoprire la ferita e poterla finalmente curare. Cia-
scuno di noi può avere più maschere, anche se generalmente ne ha
una che risulta maggiormente predominante e strutturante rispetto
alle altre. Talvolta la ferita principale, quella più profonda, è quella
meno visibile, si nasconde sotto altre più manifeste e superficiali.
Così capita, come già evidenziato da S. Freud, che una volta guariti
da una ferita, ne salti fuori un’altra, sorprendendoci e lasciandoci
nello sgomento. La guarigione risulterà quindi un processo a strati,
lungo e progressivo. Indossare una maschera prevede il concetto di
cambiare la propria identità per sostituirla con un’altra. La scelta del
personaggio di cui si sceglie di assumere le sembianze può celare de-
sideri nascosti, può dare la possibilità di infrangere le regole e di
uscire dal proprio ruolo di tutti i giorni per spezzare la routine. Con
indosso una maschera ci si può sentire più liberi di esprimere un lato
di se stessi tenuto nascosto anche per paura di essere giudicati dagli
altri. La maschera funziona come una sorta di protezione e di giusti-
ficazione per mettere in atto comportamenti che altrimenti si avrebbe
timore di esprimere. Ad esempio, la persona che ha sempre un atteg-
giamento professionale e serio, potrebbe avere la possibilità di la-
sciarsi andare, ballare, ridere, scherzare, andare un po’ fuori dalle
righe, senza per questo sentirsi in imbarazzo. La persona timida pro-
verà ad interpretare un ruolo particolarmente ardito e sexy, ecc. In
questo senso la scelta della maschera non è casuale, ma ha sempre
delle caratteristiche che più o meno consapevolmente appartengono
a chi la sceglie ma che rara- mente manifesta nel quotidiano. Ma-
scherarsi è un modo diverso di cogliere alcuni aspetti nascosti della
propria personalità e per riflettere sulla propria identità.

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Nei Gruppi da noi condotti si usano anche le maschere: ognuno dei
componenti del gruppo sceglie una maschera (in genere si scelgono
maschere tradizionali veneziane: la Gatta, Anonimus, la Baùta, la
Gnaga da indossare), si indossa ognuno la propria maschera in volto
(maschera che in genere si personalizza con l’uso di vernici, stoffe e
altro); quindi, a turno, si ci posiziona di fronte al gruppo (come su un
palcoscenico) e si spiega il motivo della propria scelta e ciò che per
se stessi rappresenta la maschera scelta; quando si è indecisi su quale
maschera scegliere si possono scegliere più maschere e, dopo essersi
esposti al gruppo con le varie maschere, sceglierne solo una o, vice-
versa, scegliere di indossarne diverse (la nostra personalità è polie-
drica) a seconda della situazione (come già sostenuto da Jung e da
Pirandello), la persona usa maschere diverse a seconda delle situa-
zioni, i ruoli e le persone con cui si relaziona; nei successivi incontri
di gruppo si può cambiare scegliere di cambiare maschera (la nostra
personalità è in continua evoluzione).
Oggi molte persone non amano il Carnevale e tanto meno vestirsi
in maschera. Le motivazioni sono le più disparate, ma in linea di mas-
sima queste persone temono il giudizio degli altri, non riescono a la-
sciarsi andare, hanno il timore di apparire ridicole o inappropriate
oppure di non essere accettate una volta mostrato un aspetto di se
stesse più inusuale; un po’ quello che accadeva ai personaggi piran-
delliani.
Luigi Pirandello, scrittore siciliano, non lesse direttamente Freud,
ma la sua opera è piena di richiami al mondo dell’inconscio; i suoi per-
sonaggi si sdoppiano, sono dissociati, tanto da essere contempora-
neamente “uno, nessuno e centomila”. Il tratto distintivo della posi-
zione pirandelliana è costituito dal contrasto fra illusione e realtà, in
cui l’illusione si rivela un inganno, o comunque un ideale irrealizza-
bile, e la realtà meschina e avvilente, del tutto inadeguata alle speranze.
Cesare Musatti, uno dei padri della psicoanalisi italiana, ha scritto
pagine acute sui caratteri comuni tra la concezione dell’uomo
espressa nelle opere di Pirandello e la psicoanalisi. Ne troviamo al-
cuni stralci sul problema della percezione della realtà particolarmente
significativi nel testo “La struttura della persona in Pirandello e la
psicoanalisi”: “... un’altra tematica fondamentale per Pirandello, e
che ancora lo avvicina a determinati punti di vista della moderna

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psicologia del profondo: (è) il problema della verità storica”. “Già
nel 1917 in Così è (se vi pare) sono presentate due verità contrap-
poste che si escludono l’una dall’altra. Il tono è umoristico, anche se
la materia è tragica. Certo la gente di fronte alla quale le due verità
soggettive sono prospettate, l’ambiente di provincia pettegolo e cu-
rioso che fa da sfondo al dramma, vuole una verità, che sia una sola
ed unica verità. Ma Pirandello non accontenta la curiosità di quella
gente, e neppure quella del pubblico, lasciando invece che perman-
gano due verità opposte e distinte: le quali possono coesistere, sol-
tanto perché sono verità soggettive, o modi personali di vedere le
cose”. “... nella Favola del figlio cambiato il principe dice: “Niente
è vero – e vero può esser tutto – Basta crederlo per un momento – e
poi non più, e poi di nuovo – e poi sempre; o per sempre mai più”:
questa contrapposizione dunque è quella con cui hanno a che fare
ogni giorno gli psicoanalisti con i loro pazienti”. “Direi che l’ana-
lista continuamente entra ed esce dalla verità soggettiva del paziente:
è con lui solidale e partecipe nelle sue fantasie, nei suoi sogni, nei
suoi deliri; ma se ne sa insieme ad ogni momento ritrarre.[...] In
Come tu mi vuoi, la Ignota esclama: “Consolati, nessuno veramente
mente del tutto. Perché ogni menzogna costruita è costruita in base
ad un granello di verità, che dà l’avvio alla menzogna”. Ma qui sem-
bra proprio di sentir parlare uno psicoanalista: il quale non si preoc-
cupa del fatto che le comunicazioni del proprio paziente siano
menzognere, perché anche in tal modo sono rivelazioni, per chi abbia
fiuto, di una sottostante verità, generatrice della stessa menzogna.
Allo stesso modo, ancora nel Come tu mi vuoi, è assegnata alla ra-
gione il compito di rinserrare la realtà, che è viva, cangiante e varia-
bile, entro i suoi schemi rigidi, quando l’Ignota esclama: “Guai se
non ci fosse la ragione a far da camicia di forza!”. Tutto il problema
delle razionalizzazioni, che alterano il contenuto della vita interiore,
di per sé evanescente e contraddittoria, e con cui gli psicoterapeuti
hanno costantemente a che fare, sembra essere decisamente espresso
da queste poche parole, che della ragione fanno la ferrea gabbia che
trattiene e rinserra il mobile contenuto del pensiero libero.
È così, quindi, che entra in gioco il tema dell’essere e dell’appa-
rire: tutto pare fatto per apparire e quello che appare è destinato a es-
sere visto, sentito, gustato, odorato. L’uomo sembra essere il centro

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di questa rappresentazione: egli ne è il primo spettatore e, nel con-
tempo, l’interprete principale: è la sintesi per cui essere e apparire
coincidono. L’uomo ha per natura, costituzione e capacità, il bisogno
di confermare la propria esistenza e ciò porta al bisogno di essere
visti, di apparire. Apparire significa mostrarsi agli altri e questo si
traduce nel bisogno di avere spettatori (pensiamo al successo dei so-
cial network) e di stare al centro della scena: esibirsi, mostrarsi, re-
citare, essere individuati e percepiti per essere accettati, ammessi,
legittimati all’appagamento del bisogno d’amore. Così inizia quel
lungo e faticoso percorso dell’apparire che conduce al travestimento
per la recita di un copione.
Per Pirandello gli uomini non sono liberi, ma sono come tanti pupi
nelle mani di un burattinaio invisibile e capriccioso: il Caso. Quando
noi nasciamo ci troviamo inseriti, per puro caso, in una società pre-
costituita regolata da leggi e abitudini fissate in precedenza, e ciò in-
dipendentemente dalla nostra volontà. La vita, pur essendo conti-
nuamente mobile, per un destino burlone tende a calarsi in una
maschera in cui resta prigioniera e dalla quale cerca di uscire per as-
sumere nuove forme/maschere, senza mai trovare pace. Per Pirandello
la maschera è mistero ed è ciò che non ci permette di vedere e cono-
scere una persona; tutti noi abbiamo una maschera per non far cono-
scere a fondo il nostro essere, per paura di non essere capiti o magari
di essere esclusi. Prendiamo le nostre caratteristiche, le scegliamo e
selezioniamo quelle più idonee con cui costruiamo la nostra falsa iden-
tità, ovvero la maschera.
Per Pirandello tutti indossano una “maschera”, conforme a
ciò che da noi si aspettano gli altri e che ci siamo imposti. Inseriti
in un determinato contesto o società, a noi stessi assegniamo una ma-
schera, obbligandoci a muoverci secondo schemi ben definiti che ac-
cettiamo per convenienza o per pigrizia senza avere il coraggio di
rifiutarli, anche quando contrastano con la nostra stessa natura. Scon-
solante è quindi il quadro di questa società, fondata sul nulla della
finzione, del credere vero quello che si sa non essere tale. L’indivi-
duo viene travolto facilmente da questo gioco tragico e finisce per
“vedersi vivere”: non più vivere la vita in senso attivo e fattivo, ma
lasciarsi imporre la vita, subirla come un peso. Sotto la maschera il
nostro spirito freme per la sua continua mutabilità, ma noi lo freniamo

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per non scontrarci con i pregiudizi della società, per la nostra tran-
quillità; perché, nel mondo mutevole ed enigmatico in cui viviamo la
nostra forma/maschera è l’unico punto fermo al quale aggrapparsi
per non essere travolti dalle tempeste della vita.
Ma, a volte, capita che la nostra anima istintiva esploda violente-
mente, in contrasto con l’anima morale, facendo saltare ogni pudore
e freno inibitorio. A questo punto la persona si ribella, la maschera
cade e siamo come un violino mal accordato, come un attore che si
mette a recitare sulla scena una parte che non è nel copione. Ma per
Pirandello si tratta di una ribellione momentanea, perché, una volta
usciti dalla vecchia maschera, il senso di libertà che proviamo è di
breve durata in quanto il nuovo modo di vivere ci imprigiona in un’al-
tra maschera, diversa sì dalla prima, ma altrettanto soffocante, e al-
lora tanto vale rientrare nell’antica forma/maschera: un ritorno che
però si rivela impossibile per il continuo mutare della realtà. Infatti i
personaggi pirandelliani che si ribellano alla forma/maschera fini-
scono per riaccettare la loro situazione perché ormai consci che non
ci sono alternative o precipitano nella pazzia. I personaggi di Piran-
dello sono quindi, spesso, degli asociali perché capiscono che la vita
sociale non ha spontaneità, immediatezza; ma ci sono delle situazioni
sociali inevitabili, ad es. la famiglia, che non appare però come un
luogo di serenità, tranquillità e pace, ma diventa viceversa, in Piran-
dello come nella psicoanalisi, un luogo di tensione, un ambiente pieno
di ipocrisie, di menzogne. Nei personaggi pirandelliani è avvenuto
soprattutto un indebolimento dell’io: l’uomo ha perso coscienza di
se stesso e l’io ha perso la sua forza nei confronti delle tradizioni so-
ciali. Con la disgregazione dell’io si arriva alla perdita dell’identità e
si entra nella follia, tema centrale in molte opere pirandelliane. Pi-
randello inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la
verità, la nuda, cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi
e delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali; compor-
tamento questo che porterà all’isolamento da parte della società e,
agli occhi degli altri, alla pazzia.
Pirandello svolge una ricerca sottile sull’identità della persona nei
suoi aspetti più profondi, dai quali dipendono sia la concezione che
ogni persona ha di sé, che le relazioni che intrattiene con gli altri.
Egli mette in evidenza il contrasto tra la vita, che scorre inesorabil-

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mente e la forma/maschera, cioè l’esigenza di fermare il tempo in im-
magini certe, stabili alle quali ancorare la conoscenza che si ha, o me-
glio si crede di avere, di sé e degli altri. Dal contrasto tra la vita e la
forma/maschera nasce il relativismo psicologico che si esprime in
due sensi: nel rapporto interpersonale e nel rapporto che una persona
ha con se stessa. Quindi, per Pirandello, l’uomo nasce in una società
precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la
quale deve comportarsi. Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le
regole che la società impone, anche se l’io vorrebbe manifestarsi in
modo diverso: solo per l’intervento del caso può accadere di liberarsi
di una forma/maschera per assumerne un’altra, dalla quale non sarà
più possibile liberarsi per tornare indietro. L’uomo dunque non può
capire né gli altri né tanto meno sé stesso, poiché ognuno vive por-
tando – consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente – una
maschera dietro la quale si agita una moltitudine di personalità di-
verse e inconoscibili. La reazione al relativismo avviene in tre modi:
• La reazione passiva è quella dei deboli che si rassegnano alla
maschera che li imprigiona, incapaci di ribellarsi o delusi dopo
l’esperienza di una nuova maschera; chi si rassegna sente la sof-
ferenza di vedersi vivere come se i suoi atti fossero staccati da
sé e appartenessero a un’altra persona; vive quel senso doloroso
della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che è co-
stretto a vivere. L’uomo accetta la maschera, che lui stesso ha
messo o con cui gli altri tendono a identificarlo. Magari ha pro-
vato a mostrarsi per quello che lui crede di essere ma, incapace
di ribellarsi o deluso dopo l’esperienza di vedersi attribuita
una nuova maschera, si rassegna. Vive nell’infelicità, con la co-
scienza della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che
gli altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla
fine passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla
scena dell’esistenza. Un esempio di reazione passiva è quella
rappresentata dal personaggio pirandelliano di Belluca: “Si-
gnori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma pro-
prio dimenticato – che il mondo esisteva. Assorto nel continuo
tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il
giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di re-
spiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nò-

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ria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni
– ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva”.
• La reazione ironico-umoristica è caratteristica di chi non si
rassegna alla maschera e poiché non se ne può liberare, sta al
gioco delle parti, però con un atteggiamento ironico, polemico,
aggressivo e umoristico in senso pirandelliano. Il soggetto non
si rassegna alla sua maschera però accetta il suo ruolo con un
atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Un esempio di
dialogo di personaggi pirandelliani che optano per questo tipo
di reazione è il seguente: “… la realtà che ho io per voi è nella
forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la re-
altà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è re-
altà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra re-
altà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma
costruendomi, appunto”. “Io mi costruisco di continuo e vi co-
struisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non
si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il ce-
mento della nostra volontà. E per- ché credete che vi si racco-
mandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei senti-
menti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino
d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci
accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione”.
“È sicura anche lei di toccarmi come mi vede? Non può dubi-
tare di lei. - Ma per carità, non dica a suo marito, né a mia so-
rella, né a mia nipote, né alla signora qua, come mi vede, per-
ché tutt’e quattro altri- menti le diranno che lei s’inganna.
Mentre lei non s’inganna affatto! Perché io sono realmente
come mi vede lei! - Ma ciò non toglie che io sia anche realmente
come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora
qua, che anche loro non si ingannano affatto!”.
• La reazione drammatica è quella di chi, sopraffatto dall’esa-
sperazione, né si rassegna, né riesce a sorridere alla vita, e al-
lora si chiude in una solitudine disperata che lo porta al suici-
dio o alla pazzia. L’uomo vuole togliersi la maschera che gli è
stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strap-
parsela ed allora se è così che lo vuole il mondo, egli allora sarà
quello che gli altri credono di vedere in lui e non si fermerà nel

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mantenere questo suo atteggiamento sino alle ultime e dram-
matiche conseguenze. Si chiuderà in una solitudine disperata
che lo porterà al dramma, alla pazzia o al suicidio come accade
ad esempio per i personaggi dei drammi pirandelliani Sei per-
sonaggi in cerca d’autore e Il gioco delle parti, al protagonista
di Uno, nessuno e centomila, o di Enrico IV. Nell’Enrico IV, dal
nome dell’imperatore medievale in cui il protagonista si è im-
medesimato a causa di un’amnesia provocata da un incidente,
continuando nella finzione anche dopo aver riacquistato la co-
scienza di sé. Agli amici, che con la consulenza di uno psi-
chiatra, vorrebbero che egli ritrovasse la salute mentale e la sua
reale identità, Enrico IV denuncia la loro cecità, la loro inca-
pacità di rendersi conto di vivere prigionieri di convenzioni,
ruoli, “maschere” che li limitano, li condizionano e impediscono
di essere veramente se stessi e di essere conosciuti come tali:
«Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi cen-
tomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo danno dei
loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, pareva
vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E cre-
devo a tutte quelle che mi dicevano gli altri ed ero beato! Per-
ché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero
oggi, ciò che vi parrà vero domani, anche se sarà l’opposto di
ciò che vi pareva vero ieri! Guai se vi affondaste come me a
considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire:
che se siete accanto a un altro, e gli guardate negli occhi – come
io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi come un
mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi
vi entra non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo
vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro suo
mondo impenetrabile vi vede e vi tocca ...» (atto II). Un esem-
pio di pensiero drammatico di un personaggio pirandelliano è
il seguente: “L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero
io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano cono-
scere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e
che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo,
pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dun-
que che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la

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mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede
più requie”.

Dunque il disagio dell’uomo non deriva solo dallo scontro con la


Società, ma anche dalla continua ribellione del suo spirito che non
gli permette di conoscere bene se stesso, né di cristallizzarsi nel rap-
porto vita-forma/maschera in una personalità definita. Come ha so-
stenuto Musatti (già cit.): “Il problema della identità personale ha
occupato la mente e la fantasia di Pirandello sotto forme molteplici.
Proprio la continua trasformazione della persona rende il quesito
del riconoscimento della identità sempre problematico”. “Se la con-
cezione dell’identità psicologica personale risale in definitiva ad Ari-
stotele e ad ogni successiva idea di un’anima, sostanza semplice,
stabile, supporto e sostegno di tutta intera la nostra vita, dove le con-
traddizioni sono dovute a fattori esteriori, i quali in realtà non in-
taccano la essenza della persona, dobbiamo dire che in Pirandello
c’è l’intuizione che le basi stesse della psicologia tradizionale deb-
bano essere abbandonate”.
Sostiene Pirandello che: “Ciò che conosciamo di noi è solamente
una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa”.
Dunque in Pirandello, proprio per il suo continuo divenire, l’uomo è
nello stesso tempo “uno, nessuno e centomila”:
• è uno perché è quello che di volta in volta crede di essere;
• è nessuno perché, dato il suo continuo cambiamento, è inca-
pace di fissarsi in una personalità, nella maschera che gli altri
gli attribuiscono;
• è centomila perché ciascuno di quelli che lo avvicinano lo vede
a suo modo ed egli assume tante forme o apparenze, quante
sono quelle che gli vengono attribuite.

È chiaro che Pirandello vuole farci capire che nessuno conosce


nessuno e tanto meno noi stessi (come si può vedere in “uno, nes-
suno e centomila”), perché la nostra identità è basata sulle altre per-
sone, o meglio, ognuna di queste persone ci conosce in un modo
diverso da come noi ci conosciamo, ed ecco che la nostra rappresen-
tazione (cioè il nostro corpo) si divide in centomila diverse imma-
gini (maschere); ogni persona ci conosce in modo diverso e ha di noi

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un immagine che è diversa dalle altre, quindi centomila personalità
(maschere) che rappresentano un unico individuo.
“M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti brave-
giando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano tro-
vato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta
pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e
non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di
loro; ma andare, non sapevo dove andare” (Pirandello).

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3. Maschere e Psicoanalisi
di Piero Petrini e Annamaria Mandese

In questa relazione non si parlerà della psicoanalisi come percorso


di smascheramento di ciò che era tenuto nascosto nell’inconscio; ren-
dere conscio l’inconscio stando sul lettino non è sufficiente a guardare
sotto la propria maschera. A nostro avviso è necessario che nella vita
accada qualcosa ad un qualsiasi livello o piano – relazionale, biolo-
gico o psicologico – per cui la propria maschera non regga più e ceda
di fronte ad un’evidenza che non si può più camuffare. Il maschera-
mento della propria verità non va tuttavia demonizzato perché quasi
sempre è stata l’unica soluzione possibile per sopravvivere in un am-
biente familiare fonte di dolore. Pensiamo a quei contesti in cui l’af-
fettività poco o per nulla espressa induce un figlio a costruirsi la
maschera dell’autosufficiente, autonomo e scarsamente bisognoso di
amore. In un caso come questo la maschera è l’espressione di un mec-
canismo di difesa – la negazione dei bisogni – che in verità protegge
ben poco perché espone sempre più a situazioni anaffettive.
La persona però è fermamente convinta che quella maschera sia
assolutamente benefica e perciò non solo la tutela, ma la rinforza
anche. Poi se accade che, per un qualsiasi motivo, la vita la confronta
con la verità, cioè che non solo ha profondamente bisogno di essere
curata e amata, ma che non è più apprezzata se non crea problemi, la
maschera crolla. La persona precipita in crisi e perciò è confrontata
con una scelta esistenziale: indossare nuovamente la maschera, illu-
soriamente considerata difensiva, oppure trasformarla?
Fin qui può sembrare che la nostra visione della maschera sia fon-
damentalmente involutiva e bloccante lo sviluppo psichico, che in
sua assenza si orienterebbe verso mete più alte. Non è così assoluta-

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mente, perché riconosciamo alla maschera un valore adattivo enorme
e talvolta salvifico nei confronti di se’ e degli altri. La psicoanalisi e
più specificatamente il metodo P.P.M., Processo Psicoanalitico Mu-
tativo, considerano la maschera come un’ entità che si disloca tra la
pulsione di vita e la pulsione di morte, tra ciò che definiamo “per-
sona” e il suo mascheramento che chiamiamo “personaggio”, tra il
principio del piacere e quello che considera la realtà. Tratteremo per-
tanto della maschera, come sempre accade se si ha un orientamento
psicoanalitico, come un concetto polisemico ricco di ossimori.
Abbiamo deciso di fare quest’esplorazione psicoanalitica dei tanti
modi in cui si può intendere la maschera rifacendoci alla storia di un
uomo, tramutato in un albero dei Giusti, che per qualcosa di molto ba-
nale – fare il bene degli altri – ha deciso di indossare una maschera,
che gli ha dato l’opportunità di levarsela e vedere il suo vero Se’.
L’uomo è Giorgio Perlasca che, indossando la maschera del diplo-
matico spagnolo, decise di ingannare i nazisti per salvare migliaia di
ebrei ungheresi. Lui, importatore e commerciante di carni, si trovò
alla fine del 1942 per motivi di lavoro presso l’ambasciata spagnola
in Ungheria e lì ebbe l’opportunità di scoprirsi Persona per il mezzo
di una maschera, che lo rese suo malgrado un Personaggio.
Giorgio Perlasca a Budapest decise di indossare una maschera
molto rischiosa, basti pensare a che cosa sarebbe andato incontro se i
nazisti avessero scoperto ciò che lui faceva per far scappare dall’Un-
gheria tanti ebrei e che lui era italiano, visto che era stato firmato l’ar-
mistizio il 3 settembre e Perlasca si trovò in Ungheria l’8 settembre.
Inoltre questi, simpatizzante del fascismo sin da ragazzo, si spo-
gliò letteralmente anche delle sue ideologie per indossare una ma-
schera, che gli permise di vedere la sua bontà, il suo coraggio, la sua
modestia – finita la guerra era ritornato a casa e aveva ricominciato
la sua vita –. Perlasca dunque nell’indossare la maschera ha dovuto
collocarsi a metà strada tra la pulsione di morte di tipo autodistruttivo
e la pulsione di vita mirante ad unire e dare vitalità a parti di se’ con
un intento auto-conservativo. Stiamo evidentemente parlando già di
un ossimoro: la maschera come mezzo di smascheramento, il ma-
scheramento finalizzato all’autosvelamento.
Perlasca avrebbe mai potuto vedere quanto fosse coraggioso se
non si fosse infilato nell’abito del diplomatico spagnolo?

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Ma se pensiamo anche a noi, quando il carnevale ci legittima a
mascherarci, siamo proprio certi che nell’atto di scegliere un perso-
naggio nel nostro travestirci non stiamo in realtà liberandoci dal pe-
sante scafandro con cui viviamo per essere veramente noi stessi?
Perlasca, come tutti coloro che deliberatamente decidono di in-
dossare una maschera allo scopo di affermare e conservare aree sane
di sè, di fatto non sono né pazzi nè perversi ma persone che sanno
molto bene che il piacere deve necessariamente passare attraverso il
setaccio della realtà.
Ecco che la maschera condensa dentro di se’ le grandi opposizioni
di cui Freud ci ha parlato nel 1920 in “Al di là del principio del piacere”,
opera che rappresenta la grande virata del pensiero freudiano. Non con-
sidera più soltanto il confronto tra pulsioni auto-conservative e pulsioni
sessuali, come mostrato in tutte le sue opere prima di tale data ma so-
prattutto nelle tre edizioni dei “Tre saggi della teoria sessuale”. Freud
a partire dal 1920 prende in considerazione il più complesso impasto
e disimpasto pulsionale in cui le pulsioni di vita condensano sia l’Eros
che quelle auto-conservative, mentre le pulsioni di morte hanno den-
tro di se’ le pulsioni di aggressione e di distruzione. Sicuramente
quando indossiamo deliberatamente una maschera predominano le
pulsioni di vita perché così facendo ci apriamo a nuove sperimentazioni
di noi stessi e pertanto proviamo piacere, ci conosciamo meglio e sen-
tiamo che possiamo vivere il nostro vero sè e far emergere il nostro
mondo interno. Diversamente quando l’ambiente ci costringe indiret-
tamente a sviluppare una maschera per sopravvivere è predominante
la pulsione di morte perché costretti a sviluppare un falso sè.
La maschera come costruzione personale matura, a nostro avviso,
esprime molto bene il principio di legame che sottintende le pulsioni
di vita.
Freud verso la fine della propria vita, nel 1938, in un opera “Com-
pendio di psicoanalisi” affermò che meta delle pulsioni di vita è “sta-
bilire unità sempre più vaste e tenerle in vita: unire insieme dunque;
metà dell’anno altra (la pulsione di morte), al contrario, è dissolvere
nessi e in questo modo distruggere le cose”.
Dunque la maschera ci permette sempre di tenere uniti la persona
che siamo e il personaggio che dobbiamo essere in alcuni momenti.
In ogni personaggio comunque c’è la verità anche più intima di una

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persona; la maschera va sempre interpretata e ognuno di noi lo fa a
proprio modo e in piena coerenza con il proprio mondo interno. Allo
stesso modo non possiamo scindere la persona dal personaggio; non
potremmo mai rinunciare alla valutazione dell’impatto che l’essere
assolutamente autentici può avere sulla realtà intorno a noi. Pertanto
mettere una maschera è un modo per tutelare il nostro narcisismo e
tutelare l’altro rispetto alla nostra distruttività.
Ecco che allora costruirsi di volta in volta una maschera a seconda
delle circostanze e delle necessità, integrando la propria verità è as-
solutamente coerente con un funzionamento psichico evoluto. È solo
quando la maschera diviene parte del corpo e pertanto una costante
che si tramuta in uno scafandro immobilizzante, che possiamo dire di
essere di fronte ad un funzionamento patologico.
Per esempio pensiamo anche al nostro ruolo professionale e alla
mirabile dialettica tra persona e personaggio, mascheramento e di-
svelamento di noi. Le persone gestiscono l’esposizione delle proprie
emozioni, nelle relazioni sociali, interpersonali, di lavoro ed affettive
in modi diversi: uno di questi consiste nell’indossare una maschera,
ovvero esprimere emozioni diverse al posto di quelle che realmente
si provano. Ma mentre ciò di solito implica il nascondere le emozioni
negative (rabbia, tristezza, frustrazione) simulandone altre positive,
vi sono situazioni in cui le persone mettono una maschera, che può
anche essere il loro stare in una relazione, per nascondere cose nega-
tive; altre volte ancora le persone mettono una maschera per non co-
municare cose negative.
Vi sono quindi diverse forme che la maschera può assumere, che
variano a seconda delle situazioni e dipendono da fattori contestuali,
dal caso, dalla necessità e nel nostro lavoro dal tipo di setting (pub-
blico o privato), dalla distanza interpersonale (De Gere, 2008), dallo
svelamento delle dinamiche patologiche (Petrini e Mandese).
Nella nostra pratica terapeutica, (Il Processo Psicoanalitico Mu-
tativo) che consiste in “un viaggio insieme con il paziente” (Man-
dese e Petrini) nella relazione la maschera deve cadere al più presto
nelle patologie ad alto funzionamento; mentre nelle patologie a basso
funzionamento bisogna valutare caso per caso.
Così come nei vari funzionamenti patologici (non usare una sorta
di maschera con il perverso, significa diventare l’oggetto della sua

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perversione, oltre in terapia, anche fuori) all’interno della stessa pa-
tologia gli individui stessi sono molto diversi tra loro quando indos-
sano una maschera, ad esempio ci sono grandi differenze anche nelle
relazioni di genere.
Nella quasi totalità dei casi, questo “mascheramento” è un atto tal-
mente consueto da passare praticamente inosservato, soprattutto alla
persona che lo mette in atto. La maschera, infatti, è così profonda-
mente interiorizzata da divenire parte integrante della personalità dei
soggetti.
Quindi tipi psicologici maschili e tipi psicologici femminili gio-
cano a mascherarsi e smascherarsi nelle relazioni sia di corteggia-
mento che amicali. Il prevalere finale della relazione sincera o meno,
chiarisce se il mascheramento era un gioco o una difesa. Quando il
non detto diviene detto ed è lontano dal contratto di relazione arriva
la tristezza, la delusione e la sfiducia, che portano ad indossare nuovi
abiti e nuove maschere per difendersi dall’altro. Quindi un nuovo
ruolo ed una nuova relazione, o una non relazione.
Nelle relazioni sentimentali corrette e leali, l’abbandono della ma-
schera avviene naturalmente, e le persone si riconoscono per quello
che sono, con pregi e difetti.
Nella nostra società liquida, e spesso sempre meno morale, molti
nelle relazioni sociali non amicali o sentimentali assumo delle ma-
schere di difesa o di attacco. Se infatti è vero che determinate catego-
rie di persone assumono volontariamente specifici ruoli che permet-
tono loro di ricoprire determinate posizioni nell’ambito della società,
molto spesso chi utilizza le maschere come difesa lo fa inconsciamente
fino a che queste non diventano effettivamente parti integranti della
personalità. Ed ecco che quello che era un ruolo sociale diviene un
ruolo che per abitudine viene riprodotto anche nelle relazioni più in-
time. Il ruolo, la maschera, infatti, finisce per fondersi con la persona
che l’ha creata, che inevitabilmente si identifica con esso e non lo vede
più come un meccanismo di difesa. La persona che indossa una ma-
schera volontariamente, infatti, sapendo di “recitare” un ruolo, può to-
gliersela quando la funzione di quel ruolo si esaurisce. Chi la indossa
inconsciamente, invece, non è più padrone della propria personalità e
diventa un personaggio che ricopre il ruolo che la società si aspetta.
Tu che maschera indossi? Perché?

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4. Maschera e Gruppo terapeutico
di Teresa Di Bonito e Antonino Urso

La psicoterapia di gruppo si prefigge di unire alla terapia indivi-


duale la forza dell’interazione, del confronto, della condivisione e
della cooperazione con persone che vivono difficoltà simili, sotto la
guida di uno o più terapeuti. Essa prevede un programma psicotera-
pico agile, semplice, rapido e operativo, caratterizzato da tempi brevi
e da modalità chiare, tali da poter essere svolto agevolmente e a costi
contenuti sia nelle strutture sanitarie pubbliche e private che negli
studi psicoterapeutici. La psicoterapia di gruppo cognitivo-compor-
tamentale ha lo scopo di aiutare le persone a migliorare le proprie ca-
pacità di fare fronte alle difficoltà e ai problemi della vita; si basa
sugli stessi principi del trattamento psicoterapico individuale, con il
quale il più delle volte viene integrata. Studi scientifici hanno infatti
dimostrato come l’integrazione di un percorso individuale con quello
di gruppo incrementa l’efficacia e la stabilità dei risultati della psi-
coterapia in svariate tipologie di disturbi e disagi psicologici.
Il gruppo presenta delle peculiari caratteristiche che facilitano lo
sviluppo di relazioni, la nascita di legami identificativi, la creazione
di una cultura comune e potenti meccanismi trasformativi. Il gruppo
infatti non è la semplice somma degli individui che lo compongono,
in quanto al suo interno operano delle dinamiche che creano un ef-
fetto moltiplicatore delle energie umane in esso presenti. Il gruppo è
al tempo stesso sia un contenitore, sia un’esperienza. Di conseguenza
i gruppi psicoterapeutici hanno proprietà curative che vanno ben oltre
il superamento del senso di alienazione, dell’isolamento sociale e
della possibilità di condividere il proprio disagio con altre persone.
L’elaborazione delle vicende individuali avviene in relazione a quanto
accade nel gruppo e ai fenomeni che nello stesso si manifestano; per-

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tanto ogni evoluzione e crescita personale diviene un elemento utile
e potenzialmente trasformativo per tutti. Il setting gruppale dà la pos-
sibilità ai partecipanti di ricreare in una sorta di microcosmo le rela-
zioni più significative e quindi di vederle alla luce del qui ed ora, in
vivo. Ciò costituisce una forte spinta al cambiamento, che attraversa
i piani di esperienza di sé, della propria storia familiare, relazionale
e culturale. (Lo Verso, 1994). Inoltre nel gruppo c’è un concetto di
scambio che va al di là dell’idea di essere generosi o altruisti; più pre-
cisamente sussiste l’idea di dare senza il rischio di perdere quello che
si è dato o del ricevere senza portare via. Ciò sembra richiedere una
visione abbastanza diversa di proprietà delle proprie esperienze e dei
propri vissuti, non posseduta privatamente, ma liberamente accessi-
bile a tutti: ogni membro del gruppo infatti trarrà personale beneficio
se tutti i partecipanti saranno aiutati ad aprirsi e a rendere pubblico il
doloroso privato che si tengono stretti. A onor del vero gli aspetti te-
rapeutici del concetto di catarsi era già stato introdotto addirittura da
Aristotele per esprimere il peculiare effetto che il dramma greco
aveva sui suoi spettatori. Il termine catarsi deriva dal greco kátharsis,
che a sua volta proviene da katháirein, purificare: la liberazione del-
l’individuo da una contaminazione che danneggia o corrompe la na-
tura dell’uomo. Egli afferma:

“Tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in se


stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie
specie di abbellimenti, ma ciascuno, a suo luogo, nelle parti diverse;
in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie
di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto quello di sollevare
e purificare l’animo da siffatte passioni”.

Nella sua poetica egli sostiene che lo scopo del dramma è di puri-
ficare gli spettatori attraverso l’eccitazione artistica di alcune emo-
zioni che funzionavano come un sollievo dalle loro passioni
personali. L’evento scenico traumatico è la messa in atto di un con-
flitto e delle sue conseguenze, fino all’estrema lacerazione. Assistervi
consentirebbe tanto un coinvolgimento quanto una presa di distanza,
che renderebbero possibile un’osservazione più consapevole.
Più recentemente Landy ha ripreso il concetto di distanza per sot-
tolineare la distinzione tra il ruolo e l’attore. Landy è uno dei più im-

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portanti teorici di un nuovo approccio chiamato Drammaterapia. Egli
utilizza tecniche proiettive per amplificare il vissuto di distanza. Gli
attori non diventano i personaggi che stanno interpretando, ma avvi-
cinano se stessi e le loro esperienze alla performance, si muovono at-
traverso un tempo reale e un tempo immaginario, da una realtà
ordinaria a una realtà teatrale. La nozione di ruolo, le tecniche di role-
playing e assunzione di ruoli sono al centro di questo orientamento.
Dramma, dal greco Dran, significa letteralmente compiere un’azione,
ma l’atto drammatico non è semplicemente fare qualcosa, è necessa-
rio che l’azione sia compiuta con un certo grado di distanza. Il mo-
dello terapeutico di Landy è il modello del ruolo il quale vede
l’individuo come colui che rappresenta numerosi ruoli, biologici, fa-
miliari e sociali nella vita reale. Questi ruoli vengono riproposti nella
seduta della drammaterapia. Secondo Landy nel lavoro teatrale l’at-
tore entra ed esce costantemente dal ruolo, c’è un continuo slitta-
mento da una realtà all’altra ed è nello spazio intermedio che possono
emergere le potenzialità. I ruoli diventano utili strumenti nella dia-
gnosi, nel trattamento e nella valutazione. In questo modello gli obiet-
tivi del drammaterapeuta sono tesi ad aiutare i clienti ad incrementare
il numero dei ruoli che essi possiedono, per non rimanere legati ad un
ruolo rigido, e ad incrementare la capacità di muoversi da un ruolo al-
l’altro. Il personaggio può essere considerato un ponte che permette
il passaggio dalla cristallizzazione di una personalità al mondo della
possibilità e della scoperta.
La psicoterapia di gruppo si concentra sia sui problemi personali
che sulle interazioni interpersonali. L’obiettivo è di aiutare a risol-
vere le difficoltà emotive e di favorire lo sviluppo personale dei par-
tecipanti attraverso l’esperienza del gruppo. Vengono utilizzate
tecniche quali l’apprendimento strutturato del gruppo (Social Skills
Training), il racconto delle storie di vita, l’assunzione di ruolo (role-
playing), tecniche di autoconsapevolezza di gruppo della Mindful-
ness e lo Psicodramma: i partecipanti drammatizzano una vicenda di
vita di uno dei membri del gruppo, affiorata durante una discussione
collettiva. Ognuno recita un personaggio: il protagonista recita sia se
stesso che il ruolo antagonista. Al termine dell’esperienza ciascuno
restituisce i vissuti personali, per lasciare poi spazio ad un dibattito
collettivo. Nascita, crescita e maturità del gruppo, così come il tipo

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di partecipazione, di comunicazione e di dialogo all’interno di esso,
sono le condizioni di base su cui lavorare. I membri del gruppo non
devono necessariamente soffrire dello stesso disturbo: è più impor-
tante che sia simile la gravità dei disturbi psicologici presentati, poi-
ché già la sola consapevolezza di sentirsi tra persone con problemi
simili può avere un positivo effetto terapeutico sui pazienti. I pro-
cessi di nascita, crescita e raggiungimento della maturità vengono de-
finiti in relazione ai concetti di energia residua e disponibile, energia
di dialogo e solidarietà, produzione e comunicazione, presenza di
ostacoli, possibilità di autoregolazione e consenso. L’autovalutazione
e la successiva autoregolazione dei membri del gruppo circa le dina-
miche relazionali sperimentate consentono la partecipazione attiva e
creativa dei singoli e la funzionalità del gruppo.
A questo punto è importante operare una prima distinzione tra in-
terventi gruppali di tipo supportivo e interventi gruppali di tipo
espressivo-interpretativo:
• Rientrano nella categoria dei gruppi di tipo supportivo gli ap-
procci volti all’accrescimento dell’autostima, delle abilità di
problem solving, della gestione dello stress. Nella maggior
parte dei casi nell’ambito di questi interventi, aventi in comune
obiettivi informativi - educativi, i pazienti condividono la stessa
situazione problematica. I membri del gruppo sono sollecitati
dallo psicoterapeuta, in un clima di accettazione, ad esprimere
liberamente le proprie difficoltà e paure e le conseguenze con-
nesse alla tematica affrontata di volta in volta. Esempi di gruppi
supportivi sono i gruppi di arte-terapia, di gestione dello stress,
di gestione dell’ansia e/o di attacchi di panico, gruppi per il
controllo della rabbia, per malati terminali, training di asserti-
vità, training di problem-solving ed altri ancora. Tutti hanno
come obiettivo il sollievo dai sintomi e l’acquisizione di nuove
competenze. Il successo del gruppo viene valutato con la scom-
parsa o il miglioramento della sintomatologia, grazie all’ap-
prendimento di nuove o più efficaci strategie. I pazienti più
adatti a partecipare a questo tipo di gruppi sono generalmente
coloro che hanno difficoltà ad esprimere verbalmente le pro-
prie emozioni, che interiorizzano i sentimenti in modo autodi-
struttivo e che hanno uno scarso senso dell’identità.

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• I gruppi con carattere espressivo-interpretativo costituiscono
un valido strumento per il cambiamento e la crescita personale.
Operano principalmente nell’area intrapsichica che, a cascata,
porta le trasformazioni a livello interpersonale, sintomatico e di
acquisizione di nuove competenze. Grazie ai feedback del te-
rapeuta e degli altri partecipanti, ogni membro assume via via
maggiore consapevolezza di sé e delle proprie dinamiche ed in-
traprende la via del cambiamento. In breve tempo emergerà il
reale e genuino modo di essere dell’individuo, che riproporrà
nel gruppo le dinamiche interpersonali e gli stili comunicativi
che caratterizzano la propria vita di relazione (esperienza tran-
sferale). Appartengono a questo tipo i gruppi denominati Sub-
jective Welf Being Training (SWBT), i gruppi su motivazione
e creatività (Cooperative Learning) e la Terapia Integrata di
Gruppo (TIC). Durante il gruppo il paziente impara a conside-
rare come feedback costruttivi sia i commenti positivi che le
critiche negative, finalizzandoli all’assunzione di un compor-
tamento più cooperativo.

Alcuni dei principi già descritti da Ignacio Martin-Baro’ sono da


considerarsi basilari nella psicoterapia di gruppo:
• Riservatezza: mantenere il segreto sulle informazioni che i par-
tecipanti condividono durante gli incontri; divieto di audio e
video-registrare.
• Dialogo come principio fondamentale per la prassi. Dialogare
presuppone riconoscere l’altro come attore sociale e rispettare
le sue condizioni di costruttore di conoscenza e produttore di
una storia. Poiché la perfetta simmetria nelle relazioni umane
sembra essere un’utopia, l’idea di bilanciamento nella relazione
sostituisce più adeguatamente la regola dell’equilibrio insta-
bile. Lavorare con le persone, i gruppi e le comunità significa
riconoscere l’altro come soggetto attivo, portatore di risorse e
bisogni, ma anche valorizzare l’altro, le sue reti, la sua storia e,
in nome di ciò che accomuna, condividere una progettualità che
renda la vita degna di essere vissuta.
• Coscientizzazione: si definisce come il processo cognitivo ed
emozionale che porta ad essere coscienti e consapevoli del ca-

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rattere dinamico che hanno le nostre relazioni nel mondo, di
come le circostanze influiscono sulle condizioni di vita, indi-
viduandone le relazioni causali.
• De-ideologizzazione: de-strutturazione delle letture preconcette
della realtà e costruzione della capacità di leggere criticamente
ciò che accade nella realtà circostante; destrutturazione delle di-
namiche sottintese mediante la produzione di nuovi modi di
comprendere tanto il contesto di vita della persona quanto le cir-
costanze della sua vita, come un tutt’uno. Implica la costruzione
di un processo di conoscenza che conduce a stabilire cause e
nessi e che contrasta lo stato di impotenza che spesso accom-
pagna la mancata lettura delle dinamiche alla base dei problemi.
• De-alienazione: processo di comprensione della relazione tra
le cose e i fatti che appaiono come al di sopra delle persone e
comprensione di come niente potrebbe esistere senza la loro
azione; tutto può essere trasformato e persino eliminato, pro-
ducendo la rottura di un atteggiamento passivo e acritico e mo-
strando invece la capacità creativa e attiva del soggetto.
• Superamento del Vissuto di colpa, sostituito con il Senso di re-
sponsabilità: capacità di accettare l’accaduto anche se partico-
larmente sgradevole, senza negare le emozioni negative che ne
derivano; superamento delle possibili vittimizzazioni concen-
trandosi sulla:
a) capacità di assumere nelle proprie mani la responsabilità
della propria esistenza, credendo in se stessi e nella concreta
possibilità di riuscire a risolvere i propri problemi;
b) capacità di avere fiducia negli altri, di chiedere loro aiuto e
di accettarlo, ma soprattutto di instaurare delle relazioni sta-
bili e sicure con persone affidabili;
c) fortuna di incontrare nel proprio cammino delle persone di-
sposte ad offrire non solo e non tanto degli aiuti materiali,
quanto piuttosto appoggio, sostegno e incoraggiamento.

A prescindere dall’orientamento di base del gruppo terapeutico,


alcune funzioni sono presenti in tutte le terapie di gruppo.
Secondo Yalom (1995) i fattori terapeutici generali validi per tutti
gli approcci gruppali sono:

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• universalità: il paziente trae beneficio dal rendersi conto che
tutti i suoi sintomi possano essere condivisi;
• acquisizione di nuove informazioni: la pluralità che caratterizza
il gruppo è inevitabilmente fonte di notizie e chiarimenti sui
problemi condivisi;
• instillazione di speranza: farsi coraggio vicendevolmente mo-
bilita l’ottimismo tra i partecipanti e la sensazione di potercela
fare;
• cambiamento del copione familiare: il gruppo consente la
messa in scena, attraverso un delicato gioco di transfert e con-
trotransfert, di vecchi drammi familiari, che con la presenza
esperta del terapeuta possono essere rivisitati e cambiati al fine
di raggiungere migliori livelli di benessere;
• altruismo: i partecipanti al gruppo sperimentano l’importante
vissuto di essere non solo bisognosi ma anche competenti e in
grado di soddisfare richieste altrui, attraverso le loro indica-
zioni o suggerimenti;
• sviluppo di tecniche di socializzazione: il gruppo svolge una
fondamentale funzione di specchio. I partecipanti attraverso fe-
edback e risposte aiutano e sono aiutati nell’acquisizione di una
più accurata autopercezione. La nuova consapevolezza è alla
base del successivo cambiamento di interazione sociale;
• comportamento imitativo: ogni paziente ha la possibilità di os-
servare e prendere a modello gli aspetti positivi del comporta-
mento degli altri partecipanti e del terapeuta;
• apprendimento interpersonale: per migliorare la propria pro-
blematica ogni partecipante deve attraversare diversi stadi. In
primo luogo è indispensabile rendersi conto delle proprie mo-
dalità di interazione sociale e delle conseguenze che esse hanno
sugli altri e su se stesso; dovrà quindi modificare tali modalità
attraverso la sperimentazione nel gruppo di nuovi comporta-
menti ed infine verificare se essi risultano effettivamente più
adeguati e rispettosi per tutti;
• coesione di gruppo: i partecipanti sperimentano la sensazione
che qualcosa di importante sta per avvenire all’interno di un
contesto protetto e accogliente. La coesione di gruppo altro non
è che la percezione dell’esistenza di un setting o un contenitore

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le cui pareti sono formate dai vari membri e dalla loro voglia di
far parte del gruppo;
• catarsi: il contesto gruppale sviluppa la potenzialità liberatoria
attraverso l’immedesimazione nell’altro e nelle sue problema-
tiche;
• fattori esistenziali: non costituiscono di per sé un fattore di
cambiamento, ma la consapevolezza necessaria affinché gli
eventi avversi della vita possano essere vissuti con minore
drammaticità; essi comprendono la responsabilità, la solitudine,
il senso dell’esistenza, la morte.

Sedute in cerchio, le otto/dodici persone che compongono il gruppo


verbalizzano con l’aiuto dello psicoterapeuta le proprie fantasie, espri-
mendo quanto viene loro alla mente senza trascurare nulla di quanto
sperimentato nella realtà diurna e notturna; interagiscono nell’arco tem-
porale di un’ora e mezzo o due, per una, due o anche tre volte alla set-
timana. Si giunge talvolta ad affermare che il gruppo abbia un proprio
pensiero, una propria mente, lo fa, ad es., Foulkes (1898-1976), l’idea-
tore dell’indirizzo di studi denominato gruppoanalitico. Foulkes con-
solidò la convinzione che la dimensione intrapsichica non possa essere
considerata separatamente dalle relazioni interpersonali, sia nel loro ac-
cadere storico che nell’hic et nunc: “Ciascun individuo è inevitabil-
mente determinato essenzialmente e principalmente dal mondo in cui
vive, dalla comunità, dal gruppo di cui egli è parte” (Foulkes, 1948, p.
10, in A. Powell, La psiche e il mondo sociale).

Un esempio di Gruppo Cognitivo Comportamentale: Gruppo su


motivazione e Creatività (cooperative learning)

Di Bonito (2010) sostiene che non sempre accade che la situazione


di partenza di un individuo sia facile o serena: a volte la vita costringe
subito a misurarsi con delle difficoltà; altre volte capita che condi-
zioni disagevoli di vita intervengano successivamente, magari in se-
guito ad eventi tragici, improvvisi e imprevedibili. Una situazione
iniziale difficile però non sempre e non necessariamente ha come na-
turale conseguenza esiti infausti. Come afferma J. Lecomte (2004)

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“L’individuo non è incatenato dalle forme di legame della sua infan-
zia, ma può rimodellare progressivamente il tipo di relazione affettiva
che intrattiene con il suo entourage”. Ogni individuo ha dunque la
possibilità di vivere nel modo personalmente migliore, nonostante o
forse proprio in ragione delle circostanze difficili che si sono venute
a creare e delle quali è stato protagonista involontario. Lo psichiatra
e psicoanalista Boris Cyrulnik ha dedicato gran parte della vita a com-
prendere come molti bambini che hanno subito traumi spaventosi,
quali abbandoni, maltrattamenti, violenze sessuali, guerre e lutti, rie-
scano a superarli diventando, nonostante tutto, degli adulti equilibrati
e persino felici. Cyrulnik sostiene che questi bambini si pongano fon-
damentalmente due domande: “Perché devo soffrire tanto?” e “Come
posso fare per essere felice?”. La prima domanda li conduce verso
una sorta di razionalizzazione degli eventi, la seconda li porta a so-
gnare. Se poi, nel corso della loro vita, questi bambini hanno la for-
tuna di incrociare nel loro cammino delle persone alle quali potersi
appoggiare (parenti, amici, educatori, figure culturali scelte a mo-
dello, strutture sociali o religiose di riferimento, ecc.), la loro crescita
evolverà certamente in modo positivo. Gli altri invece, i bambini che
non sanno sognare e che non riescono ad accettare, rielaborare e in-
fine fare propri gli eventi subiti, chiusi in se stessi, imprigionati nelle
ferite del passato e succubi della realtà, non impareranno a vivere:
continuando a rifiutare l’accaduto, cadranno nella tristezza, quando
non nella disperazione. Gli studi effettuati al riguardo riportano rea-
zioni individuali completamente differenti:
• Alcune persone restano condizionate per tutta la vita dagli
eventi negativi che hanno subìto, continuano a lamentarsi del-
l’accaduto, accusando la sorte per non avere offerto loro un’oc-
casione di riscatto e per non essersi quindi potuti realizzare
positivamente. Così facendo queste persone finiscono per oc-
cupare la maggior parte del loro tempo a rimpiangere un pas-
sato migliore; continuando a sentirsi vittime delle avversità non
riescono a prendere le distanze dalle emozioni negative scate-
nate dagli eventi vissuti, perdendo l’opportunità di riconside-
rarle e quindi di crescere, malgrado o proprio in ragione di esse.
• Per fortuna altrettante persone mostrano la seria e concreta vo-
lontà di accettare il proprio destino e di volgerlo al meglio: no-

71
nostante le difficoltà esse continuano a tenere in mano le redini
della propria esistenza, recuperando via via tutte le energie che
occorrono per affrontare e accettare la realtà, guarire dalle fe-
rite psicologiche residuali, crescere e svilupparsi, traendo così
forza anche dalle avversità.

Le ricerche intraprese, finalizzate alla comprensione delle moti-


vazioni poste alla base di due reazioni così diverse e distanti fra di
loro, concludono affermando l’esistenza dei cosiddetti meccanismi
di protezione, i quali, attivando le risorse interiori, consentono al-
l’individuo di contrastare le difficoltà e, in molti casi, addirittura di
trarne vantaggio.
Tali meccanismi sono riassumibili in quattro punti:
• la capacità di non vittimizzarsi, di accettare l’accaduto e più in
generale il proprio passato;
• la capacità di assumere nelle proprie mani la responsabilità
della propria esistenza, credendo in se stessi e nella concreta
possibilità di riuscire a risolvere i propri problemi;
• la capacità di avere fiducia negli altri, di chiedere loro aiuto e
di accettarlo, ma soprattutto di instaurare delle relazioni stabili
e sicure con persone affidabili;
• la fortuna di incontrare nel proprio cammino delle persone di-
sposte ad offrire non solo e non tanto degli aiuti materiali,
quanto piuttosto appoggio, sostegno e incoraggiamento. Gli
studi insistono molto sull’importanza di quest’ultimo fattore,
che costituisce un’ulteriore conferma degli studi condotti da
Harry Harlow e della teoria dell’attaccamento sviluppata da
John Bowlby.

L’individuo può esprimere la sua arte diventando scrittore, poeta,


musicista, pittore e così via se ha ricevuto e saputo utilizzare dati,
procedure e strumenti: solo in questo modo è possibile rompere gli
schemi preordinati e consolidati e crearne invece dei nuovi, che a loro
volta resteranno in vita provvisoriamente in sostituzione degli altri.
Ma non basta predisporre i partecipanti al gruppo per creare aiuto
reciproco e interdipendenza positiva. Il passaggio verso l’apprendi-
mento cooperativo avviene gradualmente, con l’educazione al-

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l’ascolto, all’interazione, allo sviluppo delle abilità di discussione, al
rispetto e all’incoraggiamento reciproco, che costituiscono i prere-
quisiti affinché si consolidi quel clima positivo che favorisce l’atto
creativo. Con il tempo e la pratica i partecipanti acquistano fiducia
nelle proprie capacità di lavorare insieme e lo psicoterapeuta migliora
le proprie abilità di facilitatore dell’apprendimento cooperativo. I
partecipanti vanno incoraggiati nella libera ricerca del “Chissà che
cosa verrà creato alla fine”. È un’educazione all’ascolto, all’intera-
zione, allo sviluppo di abilità di discussione, al rispetto e all’inco-
raggiamento reciproco, che contribuisce notevolmente alla creazione
di un clima positivo e propositivo, favorevole all’atto creativo. Oc-
corre innanzitutto essere consapevoli che, per creare un clima coo-
perativo, ci vuole tempo. A mano a mano che le abilità sociali di in-
terazione reciproca tra i partecipanti cresceranno, lo psicoterapeuta si
farà gradualmente da parte, lasciando sempre maggiore spazio ai la-
vori di gruppo. Per favorire l’interazione tra pari possono essere utili
alcune semplici regole (proposte nelle opere di G. Rodari (1973) e di
E. Zamponi (1986) e riguardano le procedure di potenziamento della
creatività in campo linguistico attraverso l’applicazione della meto-
dologia dell’apprendimento cooperativo):
1. concisione: sono da preferire gli interventi brevi, della durata
massima di due minuti;
2. ascolto attivo: al termine di ciascun intervento può essere utile
restare in silenzio per alcuni secondi, per consentire una breve
riflessione su quanto ascoltato;
3. riformulazione: in una successiva fase della discussione è pos-
sibile introdurre la regola in ragione della quale chi prende la
parola deve iniziare il proprio intervento riassumendo breve-
mente quanto esposto dal compagno che lo ha preceduto;
4. contributo di ciascuno: è possibile prendere la parola un’altra
volta solo quando tutti i componenti del gruppo siano già in-
tervenuti. In tal modo tutti i componenti sono in qualche modo
costretti a dare il proprio contributo, anche i più timidi e i meno
partecipativi, le cui idee, parimenti significative, viceversa non
avranno modo di essere esposte;
5. Infine, risulta utile effettuare il monitoraggio di queste abilità
sociali, con strumenti di rilevazione del processo – semplici ta-

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belle a doppia entrata – mentre questi è ancora in corso e non
soltanto attraverso la rilevazione del prodotto finale, come in-
vece si è abituati a fare: è forse principalmente questa la fase
particolarmente interessante di un’analisi metacognitiva.

Per sviluppare gli aspetti relativi alle abilità di discussione di


gruppo ora presi in esame possono rivelarsi particolarmente utili le
seguenti attività creative:

Insalata di favole
Si possono intrecciare due o tre favole diverse e quindi, in gruppo,
inventare una nuova storia nella quale inserire il maggior numero di
personaggi. Come suggerisce Rodari, se Cappuccetto Rosso incontra
nel bosco Pollicino e i suoi fratelli la loro avventura si mescoleranno
e verranno scelte nuove strade che percorreranno l’intreccio delle fa-
vole miscelate, ma con un finale sorprendente.

Il gioco dell’“E se...?”


Consiste nel chiedere ai partecipanti di reinventare in gruppo al-
cune storie ponendo loro delle domande del tipo: “E se Biancaneve
avesse incontrato Shrek? E se la nonna di Cappuccetto Rosso avesse
mangiato il lupo? E se attraverso una macchina del tempo un viag-
giatore del futuro tornasse indietro e regalasse a Pollicino un naviga-
tore?”. Dopo aver fornito alcuni suggerimenti, i partecipanti vengono
invitati a cercare nuove idee e a trovare delle risposte alle bizzarre
ipotesi proposte. L’importante è che i partecipanti conoscano bene la
struttura del racconto originale e la sua trama, cosicché possano gio-
carci e modificarli a piacere.

Giochi di combinazione
Lo psicoterapeuta, dopo aver presentato una favola, nuova o tra-
dizionale, e aver fatto rappresentare ai partecipanti, con disegni e
drammatizzazioni, le scene che più significativamente hanno destato
il loro interesse, può organizzare dei giochi di gruppo in cui gli ele-
menti della fiaba classica, già ben conosciuti, vengono mescolati e
integrati con altri completamente diversi. Ai partecipanti si chiederà
di elencare e poi di trascrivere sulla lavagna i personaggi, i luoghi e

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le cose che essi considerano più importanti nella storia. Successiva-
mente i partecipanti sono invitati a suggerire altri personaggi, luoghi
o cose che sopraggiungano alle loro menti e a mescolarli come vo-
gliono. I partecipanti possono aggiungere quante parole desiderino,
ma devono fare poi attenzione ad inserirle tutte nella loro storia. Lo
scopo di questo gioco è stimolare i partecipanti a combinare in modo
creativo gli elementi del racconto e a riorganizzarli uscendo dagli
schemi tradizionali per scoprire come si possa rendere propria e ori-
ginale una fiaba tradizionale; per esempio “Cappuccetto Rosso in pa-
rapendio che va a trovare la nonna che abita in Kossovo dove c’è
stata una tremenda guerra...”.

Il binomio immaginario
È bene scegliere a caso un binomio di parole per sviluppare una
storia fantastica. Ad esempio le parole possono essere suggerite da
due partecipanti, l’uno all’insaputa dell’altro, oppure essere attinte a
caso dal dizionario. Il binomio non deve essere necessariamente com-
posto da due contrari o da due nomi in collegamento logico tra di
loro, ma anche da due sostantivi senza alcuna corrispondenza reci-
proca. Si possono ad esempio scegliere, rifacendosi a Rodari, le pa-
role camion e orso ed operare delle combinazioni al fine di trovare
uno spunto comune e finalmente sviluppare la storia; possono costi-
tuire dei suggerimenti “L’orso con il camion, L’orso nel camion, Il ca-
mion dell’orso” e così via.

Il limerick
Il limerick è un genere organizzato e codificato di non-senso. Il
primo verso contiene l’indicazione del protagonista; nel secondo
viene indicata la sua qualità; nel terzo e nel quarto verso c’è la rea-
lizzazione del predicato e dell’azione e infine nel quinto compare un
epiteto conclusivo del protagonista, meglio se stravagante. Per esem-
pio: C’era un giovane e bel gallo che si ammirava tutto il giorno in
uno specchio giallo per due anni si dimenticò di cantare e in padella
lo misero a cucinare quello sfaticato e iellato giovane bel gallo. Par-
tendo da questo esempio di scrittura, il gruppo potrà divertirsi a creare
personaggi e situazioni buffe o assurde.

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L’indovinello
Per inventare un indovinello occorre seguire alcune regole; in par-
ticolare ci sono almeno tre passaggi fondamentali. Prendiamo ad
esempio le fasi più importanti per la creazione di un indovinello sulla
parola penna:
1. Straniamento. Occorre descrivere la penna come se la vedes-
simo per la prima volta: “È un bastoncino solitamente di pla-
stica, di forma cilindrica, con una punta che, strofinata su di
una superficie chiara, lascia un segno”.
2. Associazione e comparazione. Se associamo la penna ad un fo-
glio – una superficie chiara – possono venirci in mente altre
immagini, come un campo innevato; per analogia un segno
nero su un foglio bianco può diventare un sentiero su un campo
bianco.
3. Metafora finale. “È qualcosa che traccia un sentiero nero su un
campo bianco”.
4. Forma attraente. Questa operazione non è indispensabile, ma
aiuta a dare una certa confezione estetica alla definizione mi-
steriosa: “Su di un campo bianco traccia un sentiero nero: che
cos’è?”.

Come efficacemente chiarito da V. Propp (1966), una struttura nar-


rativa è composta da un complesso di regole simili a quelle gram-
maticali, che consentono di ordinare in maniera sequenziale i
personaggi e gli eventi del racconto, in modo tale che divengano fun-
zioni della struttura complessiva dell’intreccio. Per favorire l’ap-
prendimento attivo e cooperativo da parte dei partecipanti risulta
essenziale in particolare che lo psicoterapeuta da un canto intrecci
delle buone relazioni con loro – di qui l’attenzione alla prosocialità
– e dall’altro ne stimoli e ne indirizzi la curiosità verso l’oggetto di
studio. Tra i due modi principali con i quali gli esseri umani orga-
nizzano e gestiscono la conoscenza del mondo, noti come pensiero lo-
gico-scientifico e narrativo, sceglieremo di trattare del secondo.
Infatti, perché l’apprendimento attivo e cooperativo abbia l’opportu-
nità di venire realizzato, non basta proporre attività e contenuti sti-
molanti e ben progettati: occorre che la conoscenza della storia
pregressa diventi occasione di scoperta del presente ed in particolare

76
dello specifico contemporaneo che circonda i partecipanti, così da
rendere vivo un mondo che altrimenti sarebbe radicalmente al di fuori
degli interessi conoscitivi. Per rendere vivo nel presente il passato
che racconta, lo psicoterapeuta deve possedere doti di regia, rispet-
tando quelle regole della narrazione che permettono di rendere una
storia interessante. È un dato di fatto che noi costruiamo l’analisi delle
nostre origini culturali e religiose, delle credenze, dei bisogni, ecc.,
sotto forma di storie (ad esempio la Bibbia) e non è solo il contenuto
di tali storie ad affascinarci ma anche, forse soprattutto, l’abilità con
cui vengono narrate.
Esiste una scuola di pensiero, superficiale e credulona, secondo la
quale le abilità narrative sarebbero un dono naturale, impossibile da
insegnare; in realtà sappiamo che, se vogliamo rendere il racconto
affascinante e motivare gli ascoltatori ad una conseguente riflessione,
esistono delle regole ben precise da osservare. Ne deriva che senza
abilità siamo impotenti e questo vale anche per il know-how della ri-
costruzione narrativa; e benché fin da piccolo l’uomo è generalmente
messo di fronte ai primi rudimenti del racconto, in realtà occorre per-
correre una lunga strada per raggiungere la maturità della narrazione
adulta.
J. Bruner (1996) ad esempio delinea nove principi universali delle
realtà narrative:
1. Una struttura di tempo significativo: in una narrazione il tempo
viene segmentato non secondo l’orologio, ma in funzione dello
svolgersi degli eventi cruciali.
2. Particolarità generica: qualsiasi storia può essere letta in vari
modi e trasportata nell’ambito di qualsiasi genere: commedia,
tragedia, storia d’amore, ironia, autobiografia ecc. Sostiene
Bruner che nemmeno le culture più sofisticate possono resi-
stere al canto ammaliatore dei generi che costruiscono la nar-
razione: la realtà è costretta per decreto o addirittura per statuto
a imitare i nostri generi letterari e noi diamo un senso agli
eventi leggendoli in chiave di commedia, di tragedia, ecc.
3. Le azioni hanno delle ragioni: quello che fanno le persone nel
corso della narrazione non avviene – né è strettamente deter-
minato – secondo leggi di causa ed effetto; è invece motivato
da convinzioni, desideri, teorie, valori o altri stati intenzionali.

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Le azioni narrative comportano questi stati intenzionali, anche
se essi non determinano mai completamente il corso dell’azione
o il fluire degli eventi; è infatti sempre implicito qualche ele-
mento di libertà – l’intervento di un soggetto agente che può
intromettersi in una presunta catena causale.
4. Composizione ermeneutica: i possibili significati di una storia
sono molteplici, nessuna ha un’unica, singola interpretazione
possibile. L’obiettivo dell’analisi ermeneutica è di fornire una spie-
gazione convincente e non contraddittoria del significato di una
storia, una lettura coerente con i particolari che la costituiscono.
5. Canonicità implicita: per meritare di essere raccontata una sto-
ria deve contraddire le aspettative: gli stereotipi e la norma sono
prodigiose fonti di noia. È il modo narrativo che sa creare me-
glio un senso di novità e di eccitazione. Siccome la connessione
canonica fra le realtà in una storia rischia di generare noia, la
narrativa, attraverso il linguaggio e l’invenzione letteraria,
cerca di tener vivo l’interesse del discente rendendo nuova-
mente strano l’ordinario. Così, nel momento stesso in cui ci
riallaccia alle convinzioni ricevute, il creatore di realtà narrative
acquista uno straordinario potere culturale, facendoci vedere
con occhi nuovi qualcosa che prima davamo per scontato.
6. Ambiguità di referenza: per quanto si possano verificare i fatti a
cui si riferisce una narrazione, essi sono utilizzati sostanzialmente
in funzione della storia stessa, così che la narrativa crea o co-
munque ricostruisce la sua referenza rendendola di fatto ambigua.
7. Centralità della crisi: è ormai chiaro che le storie ruotano in-
torno a regole che vengono infrante ed è ciò che colloca la crisi
al centro delle realtà narrative. Le storie che meritano di essere
raccontate ed interpretate nascono tipicamente da una situa-
zione di crisi.
8. Negoziabilità inerente: le storie sono fondamentalmente con-
testabili ed è questo che rende la narrativa così utile nella ne-
goziazione culturale; ognuno può raccontare una possibile
versione e questo permette un confronto e una crescita coope-
rativa. Oggi sappiamo che questa capacità di negoziazione nar-
rativa comincia molto presto nello sviluppo della comprensione
sociale dei bambini ed è onnipresente (J. Dunn, 1990).

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9. Capacità di espansione storica della narrativa: l’uomo con vari
arrangiamenti cerca di assicurare la continuità delle narrazioni,
in modo che la realtà non sia costituita semplicemente da un sus-
seguirsi di storie, ciascuna autonoma rispetto all’altra, ciascuna
con un proprio fondamento narrativo. Così come costruiamo
una storia della nostra vita, creando un sé capace di preservare
la nostra identità – che si sveglia il giorno dopo ancora più o
meno uguale – si direbbe che siamo dei geni nel creare una ca-
tena narrativa.

Quello che fa girare una storia e la rende degna di essere raccon-


tata è dunque innanzitutto la presenza di una crisi, di un problema. La
narrazione comincia così con un prologo che stabilisce la normalità;
l’azione poi si sviluppa portando a una rottura, ad una violazione delle
aspettative legittime. Quello che accade dopo è la descrizione dei ten-
tativi per ripristinare lo stato di legittimità iniziale. Le storie che da
sempre hanno stimolato l’interesse degli esseri umani, come le fa-
vole, hanno in comune la nascita di un problema che l’eroe o gli eroi
devono affrontare; tutta la storia si sviluppa sui tentativi effettuati per
trovare una soluzione, sino a che in modo più o meno imprevedibile
il problema viene risolto. Le favole si sviluppano quindi sulle capa-
cità dei personaggi della storia di risolvere un problema (problem sol-
ving) che, se è tale anche per i partecipanti, diventa partecipato. Se
poi, tra il problema e la soluzione storicizzata dello stesso, nasce l’oc-
casione per un dibattito sui possibili modi per affrontare e portare a
soluzione la problematica insorta, i partecipanti possono realmente
sperimentare un apprendimento collaborativo cercando e confron-
tando tutti insieme più risposte possibili tra le quali scegliere proprio
quella che la storia stessa ha proposto o qualsiasi altra, per assurda o
plausibile che sia.
Riassumendo lo psicoterapeuta/regista avrà cura di proporre, con
gli strumenti a sua disposizione – la parola, la fotografia, la videore-
gistrazione – la vita dei partecipanti/personaggi i quali, ad un certo
punto della loro storia, si trovano a dover affrontare un problema che
diventa per gli altri un problema attuale, un loro problema; tutti in-
sieme cercheranno, con l’aiuto dello psicoterapeuta, uno dei varie-
gati perché della soluzione storica e lo metteranno a confronto con le

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altre soluzioni che sono emerse come potenzialmente possibili. D.N.
Stern (2005) afferma che il processo narrativo implica tre momenti:
il momento presente in cui l’esperienza originaria è tradotta in forma
narrativa verbale; il momento presente vissuto dal narratore mentre
racconta; il momento presente evocato nell’ascoltatore/i durante la
narrazione. Come già nella Terapia Integrata di Gruppo (TIG), pro-
posta da C. Di Bernardino e F. Galassi (2008) l’intervento si svolge
in cinque fasi: 1. Narrazione. 2. Rappresentazione (1 role-playing). 3.
Analisi meta cognitiva. 4. 2° role-playing. 5. Cambiamento.
Nella prima fase (narrazione) uno dei membri del gruppo racconta
sinteticamente a grandi linee la propria storia, sottolineando gli episodi
che ritiene più significativi. Gli altri membri del gruppo contribuiscono
a creare una condivisione narrativa, proponendo i loro vissuti emotivi
e ricordi associati ai fatti narrati, ma evitando di dare giudizi e di fare
domande troppo dirette su quanto accaduto e su emozioni e sentimenti
provati dal narrante. Lo psicoterapeuta ha, in questa fase, il ruolo di sot-
tolineare, ripetere e ridefinire i punti significativi della discussione, de-
purandoli da ogni giudizio negativo espresso. Si procede quindi con
la rappresentazione teatrale e la ricontestualizzazione di quanto acca-
duto attraverso tecniche di role-playing. Oltre al narratore partecipano
alla simulata come interlocutori uno o più membri del gruppo (volon-
tariamente o su indicazione dello psicoterapeuta), mentre gli altri
membri del gruppo fungono da spettatori. Nella rappresentazione il nar-
ratore viene invitato ad esprimere e rivivere la scena in modo naturale,
cercando di riprodurla come si è verificata nella realtà. In tal modo egli
ha l’occasione di rivivere non solo il comportamento manifestato ma
anche il vissuto emotivo e cognitivo (pensieri più o meno negativi) pro-
vato a suo tempo. L’assunzione del ruolo contemporaneamente di at-
tore e spettatore di se stesso favorisce, secondo Di Bernardino (2008,
p. 130), il decentramento e l’acquisizione di quella distanza estetica ne-
cessaria per cogliere le proprie intenzioni e quelle dell’altro. Gli altri
partecipanti condividono l’esperienza con il loro vissuto, esprimendo
le loro impressioni e riflessioni ed aiutando così il soggetto narrante a
definire meglio il contenuto della propria comunicazione e il ruolo as-
sunto durante la simulazione.
Successivamente i partecipanti al Gruppo provano ad esprimere
una valutazione di confronto tra il comportamento espresso nella re-

80
altà e i comportamenti alternativi che il soggetto avrebbe potuto
emettere col senno del poi. Si determina così, da parte di ognuno dei
partecipanti, un rispechiamento capace di generare riflessioni e con-
siderazioni di tipo causale da cercare di definire dal punto di vista
emotivo e cognitivo. Infatti il gruppo, nell’osservare, attraverso
l’esperienza di role-playing, il modello rappresentato dal soggetto nar-
rante, vede riflesso se stesso attraverso uno specchio deformante,
avendo così l’occasione di continui raffronti legati alla propria espe-
rienza. In un primo momento si darà importanza solo al contenuto
esplicito della rappresentazione; successivamente l’attenzione si con-
centrerà anche sul contenuto implicito che si esprime a livello inten-
zionale, in un’interazione che è fondamentale per la definizione del
problema. Infatti la mancanza di rispondenza che spesso si riscontra
tra contenuto episodico (narrazione esplicita) e semantico (significati
più o meno impliciti) necessita di ulteriori rielaborazioni che richie-
dono il passaggio alla fase successiva.
La successiva fase, quella dell’analisi meta cognitiva, richiede
un’indagine che necessita anche di colloqui individuali. Non a caso
la psicoterapia di gruppo nel contesto cognitivo-comportamentale è
quasi sempre contemporanea ad una psicoterapia individuale, con
colloqui di approfondimento con il solo psicoterapeuta, allo scopo di
ristrutturare cognitivamente gli schemi di interazione disfunzionali
attivati durante l’esperienza di role-playing. Tali schemi riguardano
i ruoli (le maschere) emersi durante la drammatizzazione dell’evento
della storia personale che il soggetto ha scelto di narrare. L’ipotesi
interpretativa circa gli schemi disfunzionali del soggetto viene legata
a una specifica emozione emersa come dominante rispetto alla ma-
schera indossata durante la drammatizzazione. Una volta ridefinito
il ruolo che meglio risponde all’ipotesi risolutiva della condizione
problematica vissuta, la risposta viene di nuovo rappresentata dal sog-
getto narrante in un secondo role-playing, ripetuto fino a quando non
risulterà adeguato e risolutivo, cioè in linea con le aspettative mani-
festate dal soggetto: una nuova maschera il più possibile spontanea
e autentica, una naturale comunicazione assertiva. Naturalmente il
raggiungimento di questa spontaneità richiederà numerosi tentativi
di role-playing (in genere è questa la fase più lunga del trattamento
di gruppo); saranno di notevole aiuto i suggerimenti proposti dal-

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l’osservazione di altri modelli proposti dagli altri partecipanti o dallo
stesso psicoterapeuta e dimostratisi più adeguati alla soluzione del
problema presentato. Sarà il soggetto narrante a scegliere quello che
sente più idoneo a rappresentarlo (l’abito che gli calza meglio) tra
quelli risultati più funzionali. La soluzione verrà quindi simulata nel
contesto gruppale sino a che il soggetto non riuscirà ad esprimerla
naturalmente e potrà successivamente anche adottarla nella realtà in
situazioni similari. Come afferma Di Bernardino (2008, p. 132): “So-
stanzialmente il confronto che emerge dalla ricorsività descrittiva e
interpretativa è sempre finalizzato a cogliere le differenze fra “l’es-
sere e il non essere” tra il sé reale e quello ideale, tra quello che
siamo stati e quello che vorremmo essere”.
Nei gruppi da noi condotti si usano di fatto una grande varietà di
Tecniche, quali: Guardarsi; Contatto; Guardarsi e Contatto; L’Ac-
compagnatore; Il Pendolo; La Canna al vento; L’Amaca; La Barella;
Il Navigatore; L’Isola di Ghiaccio (l’Iceberg); Lo Scalpo ed, in par-
ticolare, Le Maschere e il Transfert. Queste tecniche, che descriviamo
brevemente di seguito, hanno l’obiettivo di stimolare il senso di fi-
ducia nell’altro e le capacità di condurre, di lasciarsi condurre, di ac-
cudire, di fare gruppo e di collaborare in gruppo:

Guardarsi
Il gruppo si divide in coppie. Ognuno guarda il proprio compagno
in viso per almeno tre minuti.

Contatto
Il gruppo si divide in coppie. Ognuno entra in contatto con le mani
del compagno per la durata di tre minuti.

Guardarsi e Contatto
Disposti in coppie, ciascuno guarda l’altro in viso e gli tocca le
mani.

L’Accompagnatore
Il gruppo si divide in coppie; a turno uno dei due conduce l’altro,
bendato, in giro per la stanza.

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Il Pendolo
I partecipanti si dividono in gruppi di cinque: uno al centro, ben-
dato, due davanti e due dietro. Il partecipante al centro si lascia cadere
prima in avanti e poi indietro, mentre gli altri hanno il compito di sor-
reggerlo.

La Canna al vento
Il gruppo si posiziona in cerchio, con i partecipanti molto vicini tra
di loro. Una persona si posiziona al centro del gruppo tenendo gli
occhi chiusi; si lascia cadere addosso a chi gli sta di fronte, che lo
sorreggerà e poi lo sospingerà verso un altro partecipante, che farà al-
trettanto.

L’Amaca
I partecipanti si posizionano tenendo ciascuno un lembo di stoffa
resistente; uno alla volta, a turno, si posizionano sopra al telo, per es-
sere spinti in alto dagli altri e poi ripresi attraverso il telo.

La Barella
Un partecipante viene sollevato da altri sette: due sorreggono il
tronco, due le gambe, due le braccia e uno la testa; il gruppetto si in-
cammina per la stanza, con passo dapprima lento, poi sempre più ve-
locemente.

Il Navigatore
Il gruppo si posiziona formando un triangolo; a turno ciascun par-
tecipante si posiziona, bendato, lungo la base del triangolo e viene
guidato con la voce da uno degli altri partecipanti, a turno, così da
procedere ed arrivare al vertice del triangolo.

L’Isola di Ghiaccio (l’Iceberg)


I partecipanti si dispongono sopra alcuni fogli di giornale già pre-
disposti sul pavimento; lo psicoterapeuta toglie gradualmente uno per
uno i fogli, a partire da quelli più esterni (l’iceberg comincia a scio-
gliersi) e i partecipanti devono creativamente industriarsi per cercare
di restare sopra i fogli rimanenti.

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Lo Scalpo
Si tratta di un classico gioco di lotta in uso tra gli scout: il gruppo
si divide in due sottogruppi (squadre); ciascun partecipante mette lo
scalpo, ovvero un fazzoletto di stoffa, dietro la propria schiena, infi-
lato per metà dentro i pantaloni o la gonna, in modo tale che l’altra
metà fuoriesca. Il gioco consiste nel riuscire a togliere il fazzoletto ai
componenti della squadra avversaria: chi è scalpato esce dal gioco;
vince la squadra che riesce a togliere lo scalpo a tutti gli avversari.

Le Maschere
Ogni componente del gruppo sceglie una maschera (si possono
utilizzare le tradizionali maschere veneziane: la Gatta, Anonimus, la
Baùta, la Gnaga, ecc.) e la indossa sul volto; quindi a turno ciascuno
si posiziona di fronte al gruppo come se fosse su di un palcoscenico
e spiega il motivo della maschera prescelta e ciò che essa rappresenta
per lui. Il lavoro con le maschere riveste una particolare importanza:
non a caso nel testo occupa un capitolo a sé stante. Nel lavorare con
le maschere è opportuno seguire alcuni accorgimenti, descritti di se-
guito: ogni componente del gruppo deve scegliere una maschera (tra
quelle proposte dalle psicoterapeuta o trovate autonomamente) da in-
dossare sul volto (in genere dopo averla personalizzata con l’uso di
vernici, stoffe e altro); quindi, a turno, ci si posiziona di fronte al
gruppo e si spiegano i motivi della propria scelta e ciò che la propria
maschera rappresenta; quando si è indecisi su quale maschera sce-
gliere si può optare per più maschere e, dopo essersi esposti al gruppo
con esse, sceglierne solo una o, viceversa, scegliere di indossarne di-
verse (la nostra personalità è poliedrica) a seconda della situazione
(come affermano sia Jung che Pirandello la persona usa maschere di-
verse a seconda delle situazioni, ruoli e persone con cui si relaziona);
nei successivi incontri di gruppo si può scegliere di cambiare ma-
schera (la nostra personalità è in continua evoluzione).

Il Transfert

La prima fase, che avviene durante il transfert, consisterà nel per-


mettere al paziente di esprimere durante il setting terapeutico i prin-

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cipali schemi relazionali che egli esperisce con le figure per lui si-
gnificative, a cominciare dalle relazione più primitive, relative alla
prima infanzia; saranno proprio queste relazioni (in genere con i ge-
nitori) che si instaureranno inizialmente nei confronti dello psicote-
rapeuta. Questi, fungendo da specchio deformato che estremizza i co-
strutti infantili e mitici, farà in modo che il paziente prenda coscienza
del suo modo infantile di affrontare la situazione. Dovrà cioè fare esat-
tamente il contrario di quello che hanno sempre fatto gli altri e il pa-
ziente stesso: non lotterà contro questi miti, perché così facendo co-
stringerebbe il paziente a difenderli e/o a nasconderli alla coscienza.
Al contrario dovrà avallarli, ergendosi falsamente a loro difensore; ciò
da una parte permetterà al paziente di esprimerli sino in fondo, so-
prattutto emotivamente (non sentendoli rifiutati non avrà bisogno di
nasconderli); dall’altra gli consentirà di osservarli dall’esterno ed at-
taccarli come estranei a sé (almeno nelle esagerazioni del terapista).
La fase dell’attacco è essenziale: solo se il paziente si sarà allenato ad
attaccare i propri costrutti all’esterno potrà poi affrontarli all’interno
e vincerli. In questa fase il compito del terapista sarà portare gli as-
sunti di base di tipo mitico ad un’estremizzazione tale che il paziente
non li possa più accettare come propri e possa quindi passare dalla po-
sizione di difensore a quella di attaccante degli stessi. Si tratta di una
fase delicata, fonte di notevole tensione emotiva per il paziente, che
prefigurerà reazioni negative da parte altrui quando egli comincerà a
criticare non tanto cognitivamente, quanto attraverso un rifiuto emo-
tivo, questi miti: non potrà fare a meno di rivivere quanto avveniva
durante la sua infanzia con le figure affettive che li avevano rinfor-
zati. Sarà quindi molto importante che si sia consolidato un forte rap-
porto affettivo (transfert) col terapeuta, che permetta al paziente di non
sentirsi completamente rifiutato (dovrà già essere stata superata la fase
del transfert negativo basata sulle critiche al terapeuta). Quando il pa-
ziente comincerà ad entrare nel ruolo di critico dei suoi miti, sarà com-
pito del terapeuta consentirgli di svolgere questo ruolo con successo,
ma senza favorirlo troppo, altrimenti il paziente non imparerà ad af-
frontarlo da solo nel suo dialogo interno. Gradualmente il terapista
estremizzerà sempre meno il costrutto, via via che il paziente proce-
derà nella sua dialettica interna, sino ad arrivare ad uno più realistico
e maturo. Si passerà quindi da costrutti basati sull’idea di se stesso

85
come pienamente indipendente dagli altri e forte (insensibile alle
emozioni, senza limiti e debolezze) – chiaramente idealistiche, quindi
non realizzabili, e tali da condurre all’opposto verso una percezione
di sé come di un essere debole, dipendente, che non può fare a meno
degli altri –, a costrutti più realistici basati sulla percezione di sé come
essere umano e, in quanto tale, esposto alle emozioni, al bisogno af-
fettivo degli altri e anche limitato, concezione questa certamente da
superare, ma prima di tutto da accettare. Tutto ciò sarà stato reso pos-
sibile dalla relazione significativa con una persona (il terapista) che
avrà dimostrato al paziente, non solo a parole, che lo accetta così come
egli è: con le sue emozioni, il suo bisogno degli altri e, soprattutto, la
sua voglia di esplorare il mondo esterno. Sarà cioè importante che il
terapista, contrariamente a quanto fatto dalle persone significative del-
l’infanzia del paziente, reagisca all’interesse dimostrato dal paziente
per le altre persone non con gelosia ma con schietta (realmente sen-
tita) serenità, perché contento che il paziente possa esprimersi piena-
mente e scoprire il mondo esterno senza la paura di trovarsi da solo
(perdere l’affetto del terapista) qualora dovesse, spaventato per qual-
cosa, tornare indietro.
L’esplorazione permetterà al paziente di scoprire che, oltre alle
persone che lo rifiuteranno, ce ne saranno altre che invece lo accet-
teranno e lo ameranno con i suoi pregi e i suoi limiti, permettendogli
di sentirsi non solo amato ma anche amabile. Il passo successivo sarà
quello di mettere in atto il nuovo modello con le persone a cui è af-
fettivamente legato: abbandonando il bisogno infantile di controllare
l’altro per paura di perderlo. Una volta che il paziente avrà costruito
o ricostruito dei rapporti affettivi adulti – avrà cioè generalizzato ad
altre situazioni il rapporto raggiunto col terapista – sarà giunta la fase
del distacco, che servirà ad insegnare al paziente che nella realtà in
cui viviamo molto spesso i rapporti affettivi sono destinati ad avere
una fine, per l’allontanamento o la morte di uno dei due contraenti;
ma se il rapporto è stato vissuto in modo adulto, senza paura del di-
stacco momentaneo e dell’interesse per altri, l’uomo avrà in se la ca-
pacità di superare la perdita, aumentando l’interesse per altri rapporti,
pur mantenendo un posto significativo dentro di sé, nella stanza dei
ricordi piacevoli, per la relazione interrotta.

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5. Maschere, individui e sistema familiare
di Camillo Loriedo

Le maschere del sistema familiare

L’uso del concetto di maschera è stato raramente accostato alla


descrizione del sistema familiare, e per poterla utilizzare in questa
circostanza ci serviremo di una definizione che ci consenta di farlo te-
nendo conto del suo valore relazionale e degli effetti che può pro-
durre all’interno del sistema in cui il mascheramento ha luogo.
Da un punto di vista relazionale-sistemico, intendiamo, quindi, per
maschera: le differenti modalità che possono essere utilizzate da un
individuo per modificare temporaneamente le proprie sembianze e
la propria identità, al fine di ottenere un rilevante cambiamento delle
relazioni correnti all’interno del proprio sistema di appartenenza.
Una simile definizione ci permette di comprendere come, all’in-
terno di un sistema familiare un individuo, spesso con il consenso
implicito degli altri componenti che ne fanno parte, possa servirsi del
proprio mascheramento per rendersi non più riconoscibile agli altri,
assumendo stabilmente o temporaneamente atteggiamenti e compor-
tamenti che non gli erano propri, al fine di modificare le relazioni
correnti interne al sistema.
Riteniamo che la utilizzazione di maschere all’interno della fami-
glia possa essere all’inizio del tutto estemporaneo. Successivamente,
se gli effetti ottenuti sulle relazioni intrafamiliari vengono considerate
vantaggiose, ne può derivare una stabilizzazione di questi maschera-
menti.
Analogamente, nell’antica produzione teatrale della Atellana, che
venne importata a Roma tra il 300 e il 200 a.C., il mascheramento fu

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introdotto di regola come il frutto di una occasionale improvvisa-
zione, ma successivamente si trasformò in rappresentazioni pro-
grammate e stabili, popolate da personaggi fissi che finirono per
assumere un ruolo ben identificabile e costante nel tempo.
Questa analogia fa riflettere sul fatto che le maschere che le fami-
glie tendono a conservare nel tempo siano quelle che svolgono fun-
zioni importanti nel determinare cambiamenti che l’intero sistema
condivide e considera utili.
In tal senso, sebbene una maschera possa appartenere ad un solo
componente, deve in realtà essere considerata come la conseguenza
di interazioni complesse che coinvolgono l’intera famiglia.
Il beneficio complessivo che la maschera è in grado di determinare
consiste nel modificare uno più ruoli presenti nel sistema familiare e,
conseguentemente, dare luogo a nuovi modelli di relazione che pos-
sano sostituire i precedenti considerati non soddisfacenti.
Per comprendere come quali differenti strade possano condurre
ad un simile risultato, ci rifaremo alle finalità che vengono abitual-
mente riconosciute alle maschere nella finzione teatrale, considerando
però che la rappresentazione camuffata che si verifica nelle famiglie
ha più spesso influenzato l’opera teatrale che non viceversa.
Nella concezione tradizionale dell’uso (teatrale e non teatrale)
delle maschere si possono avere un buon numero di finalità, tra le
quali:
• rappresentare il personaggio che gli altri si aspettano;
• celare la propria identità;
• esprimersi con il corpo;
• incutere timore;
• giudicare;
• difendere;
• interessare gli altri;
• dimostrare un lato nascosto della propria personalità;
• divertire, attrarre;
• ottenere effetti magici;
• compiere un rituale terapeutico.

Vediamo ora come alcune di queste finalità vengono rappresen-


tate nella scena familiare.

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a) La Maschera Isterica: Rappresentare il personaggio che gli altri
si aspettano

Questa maschera è il prodotto di un processo di sviluppo che si è


maturato all’interno di una famiglia di origine, e spesso riprodotto
anche della famiglia acquisita, in cui tutti sembrano avere interesse
esclusivamente per l’apparenza (Paulis e Loriedo, 1999). Il soggetto
isterico, che si impegna per un lungo periodo a fare di tutto, nel ten-
tativo (vano) di accontentare le capricciose aspettative dei genitori o
del partner, diviene nel tempo il più grande inventore e portatore non
professionale di maschere.
La plasticità e la capacità di adattamento all’ambiente di tali sog-
getti sono ben note, tanto che sembrano continuamente dire con il
loro comportamento “Sono come tu mi vuoi”. La loro abilità nel-
l’assumere camaleonticamente le sembianze più disparate, è descritta
magistralmente da Woody Allen nel film Zelig.
Si tratta di una abilità che non di rado riesce a sorprendere per la
volubilità, per la varietà e anche per la particolarità che il camuffa-
mento riesce ad assumere.
Come nel caso di una giovane studentessa, la cui abilità di ma-
scheramento venne scoperta solo dopo alcune settimane di ricovero
per ‘schizofrenia’. La ragazza dimostrò di poter contemporaneamente
andare incontro alla perfezione alle aspettative sia di suo padre che
del suo insegnante di psichiatria di cui si era innamorata. Per il padre
voleva che la voleva una studentessa modello di medicina, lei aveva
puntualmente riportato una incredibile serie di trenta e lode. Al tempo
stesso era riuscita a dimostrare al suo professore di aver appreso così
bene le sue lezioni sulla psicopatologia della schizofrenia da rappre-
sentarne i sintomi talmente bene da venir scambiata per parecchio
tempo come schizofrenica da una intera equipe di psichiatri.

b) La Maschera Dissociativa: Celare agli altri la propria identità

Il trauma o i traumi, e una loro particolare specificazione costi-


tuita dal neglect, ovvero la trascuratezza, fisica o affettiva, che si pos-
sono sviluppare all’interno del sistema familiare sono spesso alla base
dei Disturbi Dissociativi (Pignatelli et al., 2016).

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Il Disturbo Dissociativo dell’Identità ed altre forme più o meno
complesse di frammentazione finiscono per suddividere l’identità del
singolo individuo in una miriade di realtà caleidoscopiche, ognuna
delle quali ha una parvenza di maschera, non integrata con le altre.
Più che un effetto generale di mascheramento, si ha piuttosto la
sensazione di non riuscire trovare contorni e sembianze ben definite
che consentano di riconoscere la persona. Se in alcuni casi emerge un
profilo, questo appare evanescente e privo di consistenza.
Così avveniva per un ragazzo, che era stato e continuava ad es-
sere testimone di ripetute forme di violenza assistita all’interno della
famiglia, ma invece di parlarne e di esprimere il suo profondo disa-
gio, presentava frequentemente due tipi di crisi. Una forma sembrava
riprodurre una assenza epilettica, e si verificava quando era costretto
ad assistere ai terribili scontri fisici e verbali che si verificavano in fa-
miglia. Una seconda forma, che avveniva a distanza di quattro-cinque
ore degli episodi a cui aveva assistito, era invece rappresentata da
una serie di movimenti scoordinati che sembravano riprodurre fedel-
mente, ma senza verbalizzazioni e senza consapevolezza cosciente,
gli atti di violenza a cui aveva assistito.
L’effetto globale di questa altalenante sintomatologia era del tipo:
“ci sono e non ci sono”, oppure “ho visto e non ho visto”, un modo
per preservare l’integrità (comunque compromessa) del sistema fa-
miliare, a danno della propria identità.

c) Maschera Somatica: Esprimersi solo con il corpo

In alcune famiglie, l’interesse dei singoli componenti è rivolto


esclusivamente verso il corpo e verso le sue funzioni. Ne deriva una
predominanza diffusa delle percezioni somatiche e cenestesiche, a
completo discapito della capacità espressione psicologica ed emo-
zionale.
La maschera somatica riesce a nascondere ogni aspetto della iden-
tità individuale ad eccezione del corpo, come se chi la indossa, di-
cesse agli altri “ho solo il corpo”, ed è inutile parlare di altro, perché
si ha la sensazione di non essere ascoltati. Ma la forza di una ma-
schera somatica, all’interno delle relazioni di un sistema familiare,
può anche servire a salvare una vita.

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Una forte tensione familiare dovuta prima a conflitti transgenera-
zionali e poi alla perdita della madre sembra scaricarsi tutta sui capelli
di una giovane donna, che gradualmente se li strappa uno ad uno fino
a restare completamente calva. Il padre, un uomo tutto di un pezzo
che non si commuove mai e parla pochissimo, non ha mai mostrato
sentimenti di alcun genere anche di fronte a molte situazioni difficili,
ma è dolorosamente colpito dalla calvizie della figlia che vive come
una sconfitta personale, e a cui tenta di mettere riparo comprandole
ogni volta una nuova parrucca che viene, puntualmente, distrutta dalle
mani della giovane, un capello dopo l’altro.
Durante un colloquio, il padre riconosce il costo elevato delle par-
rucche rigorosamente fatte con capelli veri, che vengono così rapi-
damente consumate dalla figlia da obbligarlo a lavorare tantissimo
per pagarle. Poi, finalmente, si lascia andare ad una confidenza: sono
quelle parrucche a tenerlo in vita, perché non vuole che la figlia ri-
manga calva e deve continuare a vivere e a lavorare per comprarle,
piuttosto che farla finita perché, da quando ha perso sua moglie, la sua
vita non ha più valore, tranne che per i capelli di sua figlia.

d) La Maschera Anoressica: Incutere timore, paura

Nella Anoressia Nervosa tutto il corpo, e soprattutto il viso, mo-


strano un evidente dimagramento che lascia trasparire la forma dello
scheletro osseo, ricordando molto da vicino una impressionante raf-
figurazione della morte. Un soggetto che soffre di anoressia sembra,
quindi, indossare una maschera funebre, che per le sue stesse carat-
teristiche fisiche, tende ad incutere timore o paura.
Quello che la maschera sembra voler dire ai suoi familiari è:
“Posso morire”, una minaccia, o un avvertimento continuo che pone
sotto scacco la famiglia e assicura rispetto e considerazione a chi la
indossa. Nella concezione che ne avevano gli Egizi e gli Etruschi la
maschera funeraria aveva la funzione di conservare rispetto e consi-
derazione anche dopo morti, e la mancanza di timore nei confronti
della morte da parte delle ragazze anoressiche sembra avvalorare un
concezione del tutto simile.
Una ragazza anoressica estremamente emaciata descriveva la sua
condizione e il suo aspetto che gli altri consideravano inquietante,

91
ma che dal suo punto di vista risultava invece rassicurante, dicendo:
“So che posso morire, ma posso dire che questo non mi spaventa. In-
vece, sono spaventata dall’idea di tornare ad apparire normale come
tutti gli altri. Finché sono così tutti si preoccupano per me, mi aiutano
e sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa per me, ma se perdessi que-
sto aspetto che li spaventa così tanto non sarei nessuno, e nessuno
vorrebbe più darmi il suo aiuto.

e) La Maschera Depressiva: Giudicarsi da soli

Nelle famiglie o nelle coppie in cui sono presenti sintomi depres-


sivi aleggiano aspettative di successo eccessive e spesso totalizzanti
(Loriedo e Jedlowsky, 2010), a cui il soggetto depresso non riesce a
far fronte, e che, con il tempo si rende conto di non essere in grado
di soddisfare.
La spinta a fare sempre di più e meglio è incessante, e i fallimenti
tendono a susseguirsi con inesorabile regolarità.
La Maschera Depressiva, è caratterizzata soprattutto dalla tri-
stezza, ma anche dalla colpa, dalla delusione, della autocommisera-
zione, in altri termini da una serie di giudizi negativi che il paziente
impietosamente esprime su se stesso.
Anche in questo caso il portatore della maschera riceve sostegno
e cure, ma soprattutto riesce a prevenire i giudizi altrui. Sembra dire
agli altri “Sono il peggiore” e attribuendosi da solo ogni possibile
qualità negativa, preclude le accuse ed i rimproveri che gli altri po-
trebbero muovergli.
Un altro aspetto della Maschera Depressiva, che riprende le aspet-
tative esagerate della famiglia è la sua grandiosità: la maschera di tri-
stezza del depresso è sempre enfatizzata ed adornata da avverbi e
superlativi assoluti (anche se negativi) che la rendono incomparabile
con quella degli altri comuni mortali: “sono il peggiore di tutti”, “nes-
suno potrà mai perdonarmi”, “ho commesso gli errori più gravi del
mondo”, e così via. Una donna con una lunga storia di depressione
aveva l’abitudine di sottolineare l’incomparabilità e l’unicità del suo
modo di essere nel mondo, con una frase in cui spiegava le sue ine-
guagliabili sofferenze: “Io sono la donna più triste che esista, perché
avendo vissuto tutte le sofferenze del mondo posso capire tutti gli

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altri, ma poiché nessuno ha mai potuto vivere tutte le mie sofferenze,
purtroppo nessuno sarà mai in grado di capire me”.

La maschera del terapeuta

Nella visione sistemica l’osservazione deve comprendere tanto


l’osservato che l’osservatore (von Foerster, 1987). Un simile excur-
sus sulle maschere all’interno del sistema osservato, non può con-
cludersi senza prendere in debita considerazione anche le maschere
che il terapeuta può indossare in fasi diverse della sua esperienza te-
rapeutica.

a) Nascondere L’errore

Come dimostra la vistosa assenza di letteratura scientifica sugli


errori e sui fallimenti da parte del terapeuta, nascondere i propri er-
rori è una delle maschere che il terapeuta tende ad assumere spesso
è quella di considerarsi immune dagli errori, e ad ignorarne la pre-
senza (Coleman, 1985).
Si tratta di una maschera (e di un errore) che tende a ridurre le ca-
pacità di apprendimento e, quindi lo stesso sviluppo professionale del
terapeuta. Sbagliare è inevitabile, mentre si può evitare di non rico-
noscere l’errore e di non imparare ciò che ci insegna.

b) Nascondere la paura

Nascondere l’errore non vuol dire non avere paura di sbagliare,


anzi spesso è proprio questa paura ad indurlo in errore, ad irrigidirlo
e renderlo poco empatico in alcune circostanze. E non si deve di-
menticare che in psicoterapia possono presentarsi situazioni effetti-
vamente pericolose, come può essere il rischio suicidario, i compor-
tamenti violenti, ecc.
Ammettere di avere paura può salvare il terapeuta da situazioni
critiche e da rischi ancora più gravi.

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c) Mostrare sicurezza

La psicoterapia, soprattutto quella sistemica che coltiva il dubbio


e tende a rendere compatibili punti di vista anche molto diversi, non
considera la sicurezza un obbligo, un atteggiamento da assumere co-
munque in ogni momento dell’incontro terapeutico. Al contrario, il te-
rapeuta può essere indotto ad indossare la maschera della sicurezza
e ad esibirla, trasformandosi in un curante senza incertezze, che non
viene mai sfiorato dal dubbio.
È proprio questa esibizione generalizzata a permettere di distin-
guere la maschera da una condizione di reale sicurezza realmente sen-
tita, e quando questo avviene il terapeuta perde e fa perdere alla
relazione terapeutica una delle sue importanti qualità: la autenticità.

d) Enfasi sul positivo

La tendenza a sottolineare i successi e a scotomizzare le difficoltà,


vedendo quindi solo gli aspetti positivi della terapia, rappresenta una
delle maschere che il terapeuta rischia di indossare più spesso. Non di
rado la famiglia induce il terapeuta a colludere con un comportamento
del tutto simile, che tende a minimizzare le proprie problematiche.
Questa maschera ricorda la classica maschera dello speziale, che
grazie ad una buona dose di sostanze profumate inserite nel lungo
becco, consentiva al medico di curare, ma senza avvertire i cattivi odori.

Maschere patologia e salute

Quanto abbiamo descritto finora potrebbe far supporre un ruolo


sostanzialmente patogeno delle maschere. Tuttavia, nella definizione
che ne abbiamo dato, la presenza di mascheramenti all’interno della
famiglia ha la funzione di attivare importanti cambiamenti nelle re-
lazioni familiari, e questa funzione non può essere di per sé ritenuta
disfunzionale.
Poiché la maschera sostituisce la reale identità dell’individuo che
la assume, quando questa sostituzione si protrae troppo a lungo nel
tempo comporta una grave rinuncia alle prerogative individuali, che

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finisce per danneggiare tanto l’individuo che il sistema al quale ap-
partiene.
Quindi, i mascheramenti possono produrre cambiamenti funzionali
nelle relazioni intrafamiliari solo se la loro durata è limitata nel tempo,
e non prendono stabilmente il posto dellavera identità del soggetto.
Un altro aspetto importante che testimonia il buon funzionamento
di un sistema familiare è la capacità di acquisire i cambiamenti delle
relazioni che la maschera tende a produrre, ma senza più accettare
il protrarsi ulteriore del mascheramento.
In conclusione, possiamo ritenere le maschere familiari un im-
portante strumento di cambiamento delle relazioni familiari che, in
determinate situazioni di eccessiva staticità o rigidità del sistema, gli
individui possono essere indotti ad adottare. Plasticità e flessibilità
rendono i cambiamenti così ottenuti plausibili ed efficaci, a patto che
non vadano a detrimento della identità e della autenticità di chi tenta
di introdurli.
Quando la famiglia si dimostra in grado di recepire davvero tali
cambiamenti, il mascheramento si può considerare non il sacrificio
duraturo delle identità che la compongono in nome di un cambia-
mento solo apparente, ma una singolare esperienza che fa apprendere
nuove ed autentiche modalità di relazione.

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6. Maschere collettive: il se’ sociale
di Teresa Di Bonito

“L’essere di cui la maschera, invece che


esser un mezzo, è divenuto lo scopo e che
resta così rinchiuso in questo errore, perde
la ragione” (Bouraud).

La maschera, materica o metaforica, in quanto forma simbolica


rimanda a stati d’animo, modi di essere, immagini, comportamenti e
significati non solo individuali ma anche collettivi. Definire un
gruppo come un insieme, ad esempio di genitori, operai, giovani, re-
ligiosi, militari, oppure più semplicemente di uomini o di donne, si-
gnifica rappresentarlo attraverso una maschera sociale che va a
sovrapporsi a quella già in uso dal singolo individuo, riproducendo in
tal modo simbolicamente l’identità della maschera collettiva. Questa
sorta di investitura risulta particolarmente evidente nelle forme ri-
tuali di passaggio, quando il singolo individuo assume automatica-
mente la maschera identitaria attribuitagli dalla comunità / società di
appartenenza: con essa e attraverso di essa l’individuo si personifica
nella sua comunità senza dovere rinunciare alle proprie caratteristi-
che peculiari, facendo invece propria una personalità che è al con-
tempo individuale e collettiva.
La società impone una maschera al gruppo e ai suoi atti collettivi,
sia ritualizzati che non: “Dagli stadi alle discoteche, dai compleanni
ai fast food, alle feste grottesche di San Valentino, della mamma, del
papà, sino alle performances sessuali e così via, tutto avviene come
se un gigantesco stampo plasmasse tante maschere: dello sportivo,
dell’innamorato, dell’affamato, di colui che balla, in una infinita,
identica, ossessiva continuità, pena l’esclusione per chi, sciagurata-
mente non vi partecipa. Segna la vittoria dello stereotipo”.

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Nelle società della modernità e della post-modernità le maschere
sociali si impongono: le persone si riconoscono tra di loro mediante
i propri simboli che, quali espressioni delle relazioni umane, vengono
modulate in un universo simbolico di riferimento, al quale ciascun
individuo attinge e del quale ciascuno si appropria in modo simile,
nell’ambito del gruppo sociale di riferimento.
“Una cultura, intesa come una costruzione simbolica che intera-
gisce con la prassi sociale (e con cui a sua volta la prassi sociale in-
teragisce), è ciò che consente ad un gruppo sociale o a un individuo
di giungere ad essere ciò che è. Mentre un’identità non è che un di-
scorso che ci consente di poter dire: ‘Io, o noialtri, sono / siamo così’,
e che può costituirsi solo a partire da una base, un fondamento cul-
turale di riferimento. Cultura e identità dunque sono concetti non si-
nonimi ma distinguibili, in quanto non è la stessa cosa ‘essere’ e dire
che ‘ci si sente di essere’ quel che si è”.
Il processo di mascheratura comprende anche altre forme, come ad
esempio il trucco e i tatuaggi: in questi casi l’oggetto del maschera-
mento perde la sua parte prettamente materiale per divenire parte di
un complesso e integrato campo d’azione, esteso ad altri usi della quo-
tidianità – alcune popolazioni ad esempio erano solite mascherare an-
che gli oggetti della vita quotidiana, come canoe, piroghe, case –.
Quella del mascheramento si afferma come esigenza che interessa
non solo il mondo degli umani ma anche quello degli animali ed
anche in ragione di ciò sembra confermarsi quale manifestazione di
interdipendenza relazionale propria delle quotidiane relazioni di re-
ciprocità. “Il mascheramento sembra porsi come condizione impre-
scindibile del rapporto uomo-mondo in cui il fluire della vita e degli
oggetti, dei ragionamenti come delle ideologie si riflettono sulla su-
perficie dell’esistente creando un’infinita varietà di maschere con
cui si apre il sipario nel teatro dell’uomo, il mondo della vita. In que-
sta estensione ontologica della maschera possiamo interpretare il
paesaggio stesso in cui l’uomo agisce come maschera della natura,
come «insieme indivisibile di energie eterne”.
Secondo alcuni autori quello di indossare la maschera è il primo
atto compiuto dall’individuo divenuto consapevole della propria per-
sonalità: per difenderla, per accrescerla, o per imporla agli altri. “Il
contatto con l’altro e con il mondo avviene perciò per mezzo di una

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maschera. Questa, nell’atto del nascondere rivela il senso di una
scelta, il dato che posto di fronte a noi dall’altro si pone come punto
di incontro con l’altro e da cui partire per comprenderne il senso au-
tentico”.
“… l’unica maschera che pare sia destinata ad essere indossata
dall’uomo contemporaneo è paragonabile al costume dell’Arlec-
chino: vestito di un abito composto da pezze e triangoli di colori dif-
ferenti, simbolo di una situazione conflittuale arcaica di cui non è
ancora riuscito ad unificare – e rendere coerenti – gli elementi della
propria personalità”.
Nel variopinto modo della comunità sociale esiste altresì una fun-
zione negativa della maschera, riassumibile nell’identificazione del-
l’agire personale in funzione della maschera, che ne condiziona le
scelte. Il pericolo maggiore è costituito dalla crescente riduzione della
ideazione personale a favore del peso della proposta collettiva: “Il
ruolo sociale … degli atteggiamenti collettivi, dei preconcetti, delle
norme impersonali è oggi sempre più impressa, come un calco, sul-
l’individuo fin dalla sua infanzia: la persona del giovane cresciuto
nella società di massa tende a essere sempre meno la rappresentante
di uno stile personale di mediazione e di comunicazione con il col-
lettivo, e sempre di più un’imposizione del collettivo alla personalità
del bambino”.
Il contatto con l’altro e con il mondo avviene pertanto per mezzo
di una maschera: “La persona del giovane cresciuto nella società di
massa tende a essere sempre meno la rappresentante di uno stile per-
sonale di mediazione e di comunicazione con il collettivo, e sempre
di più un’imposizione del collettivo alla personalità del bambino”.
La maschera né nasconde né mostra tutto: essa rappresenta
l’espressione visibile delle trasformazioni che hanno luogo all’interno
dell’individuo e il cui fine è costituito dal compimento di un essere
umano completo, conforme ai valori del gruppo sociale al quale ap-
partiene. Analogamente anche la società stessa – intesa come espres-
sione generale del gruppo di appartenenza – indossa delle maschere:
esse sono da un canto la risultante delle maschere sociali attribuite ai
singoli individui nel loro complesso, dall’altro un’espressione origi-
nale della società stessa, ornamento aggiuntivo o tentativo di camuf-
famento del singolo micro/macrocosmo, non altrimenti scomponibile

99
o riducibile, ma forma autorappresentativa di un’identità collettiva ca-
pace di processi di trasformazione transculturali.

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7. La vergogna e le maschere
di Olga Chiaia

What we resist persist


What we can feel we can heal
To get what you want, want what you get.

Immaginiamo di trovarci fra persone capaci e forti, e non saper


fare niente. Ogni tentativo è un patetico fallimento, e ogni errore è de-
riso e stigmatizzato Sei proprio uno stupido!. È la condizione in cui
vive un bambino piccolo, quando i suoi genitori, fratelli maggiori,
maestri, non sono supportivi ed empatici. Quanti di noi ex bambini
hanno ricordo di un periodo così?
Io ero una bambina sgridata per il suo essere bambina, e a Carne-
vale volevo vestirmi da Zorro, per essere maschio, adulto, avere un
mantello nero svolazzante e uno spadino affilato con cui tracciare una
zeta beffarda ovunque.
La vergogna provata da piccoli si inscrive nei circuiti più profondi
dei nostri cervelli stratificati, diventa parte del proprio essere, una
parte non corticale, non logica e spesso anche non consapevole. Ma
molto attiva nel generare malessere e difese.
La vergogna è un’emozione innata, normale e adattiva, se è limi-
tata e sporadica. Serve a creare dei limiti utili all’accettazione sociale.
A guidare verso comportamenti più etici. Può alimentare una sana
umiltà o un brillante umorismo. Saper provare vergogna significa che
conta, che ha valore per noi appartenere al genere umano. Ne è privo
solo lo psicopatico, il narcisista maligno.
La vergogna acuta è una possibilità sempre presente per ognuno di
noi. E se cadessi, davanti a tutti? E se giunta al microfono non ricor-
dassi più nulla?
Dita puntate su di me, risate, gogna: è questo l’immaginario della
vergogna, emozione relazionale.

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La patologia si instaura quando, a seguito di traumi o di ripetute
esperienze umilianti, la vergogna diventa uno stato cronico e interno,
che non necessita più degli altri per essere elicitato e alimentato, ma
si automantiene.
Kathy Steele, psicoterapeuta americana, ha approfondito lo studio
della vergogna cronica.

I modi della vergogna

Ci si può vergognare del proprio corpo o parti di esso (dismorfo-


fobia), come fosse un’estensione di come ci si vede dentro, merce
avariata.
Oppure ci si vergogna della propria storia, dei propri pensieri, dei
propri comportamenti (in sovrapposizione al senso di colpa).
La condizione peggiore è la vergogna del proprio essere. Manco
di qualcosa. Ho qualcosa che non va. Sono cattivo, incapace, stu-
pido. Brutto. Il giudizio su di sé è implacabile e indiscutibile. Il fan-
tasma di un pubblico dileggiante è sempre presente nel proprio
mondo interno.
Ai tempi di Freud, era il senso di colpa a tormentare la maggio-
ranza dei pazienti; ora siamo nell’era dell’inadeguatezza, della ver-
gogna, insanabile, irreparabile.
È un dolore talmente intenso da non poter essere condiviso, e volte
nemmeno nominato con se stessi. Blocca l’esplorazione, la crescita,
e la relazione, conduce all’isolamento forzato. Non posso cantare,
ballare, chiacchierare, espormi in alcun modo: la vergogna inibisce
ogni altra emozione, come gioia, curiosità, rabbia.

Cause

Alla base c’è spesso un senso di esclusione e rifiuto, reale o per-


cepito, da parte di altri significativi, neglect, indifferenza genitoriale.
Oppure c’è stato un abuso verbale reiterato, o eventi traumatici non
elaborati, congelati emotivamente nella memoria e ancora attivi,
pronti ad emergere a livello fisico (sistema dorso - vagale) ed emo-

102
tivo, in associazione inconscia con numerosi triggers, tipo quelle si-
tuazioni che ripropongono il tema del non valore o della sconfitta:
un esame fallito, uno sgarbo ricevuto, una figuraccia davanti a tutti.
Per chiunque eventi sgradevoli, ma per qualcuno drammatici.
La vergogna attiva il senso di minaccia, con tutti i correlati fisio-
logici simpatici o più spesso parasimpatici, come il freezing, la para-
lisi, la confusione. Diventa il luogo mentale intollerabile, intorno al
quale si ergono le difese, che costituiscono il sintomo visibile.

I copioni della vergogna

La vergogna irrisolta si perpetua tramite quattro copioni disfun-


zionali (D. Nathanson, La bussola della vergogna, 1987): attaccare se
stessi, attaccare gli altri, isolarsi, evitare l’esperienza interna (distra-
zione, minimizzazione, dissociazione, ecc).
1. Attaccare se stessi: mi sento cattivo, dunque sono cattivo; equi-
valenza psichica: mi è accaduto qualcosa di orribile, dunque
sono orribile. Biasimo, invalidazioni, autocritica e perfezioni-
smo. Immagini interne di altri che squalificano. Identità di ina-
mabili. Neurocezione errata. Incapacità di mentalizzazione: se
lui non mi richiama, vuol dire che sono stupido.
2. Attaccare gli altri: sminuirli per innalzare se stessi, contrap-
porsi per non provare intimità, connessa con la vergogna, ecc
3. Isolarsi: da soli non si viene giudicati.
4. Evitare l’esperienza interna: fobia dello stato di vergogna, dis-
sociazione, superficialità, comportamenti autodistruttivi come
le dipendenze.

Imparare a identificare i propri schemi tipici e a riconoscerli


quando si attivano è il primo passo per poterne mettere in dubbio l’as-
solutezza e la necessità. Piccoli cambiamenti possono incrinare la
convinzione disfunzionale alla base di questi copioni, consentendo
gradualmente di liberarsi di essi, affrontando la vergogna e ritrovando
infine la gioia di esser fieri di sé.

103
Maschere

Come me che da bambina volevo essere Zorro, molte persone cer-


cano una compensazione, un riscatto di sé nel successo, meglio se esi-
bito e visibile, conclamato. Non è una buona motivazione per vivere:
anche quando si ottiene un risultato prestigioso, si vive la tensione del
bluff, la sindrome dell’impostore, o l’ansia dello smascheramento pos-
sibile, per cui ogni accenno di critica o di declino assume contorni an-
gosciosi, e si è dentro perennemente soli.
Soffrire di vergogna cronica significa sentirsi esposti in ogni mo-
mento a un pubblico interno dileggiante, alla gogna. Per difendersi si
cerca di essere ciò che non si è, ci si impongono standard che non ci
somigliano, e la vergogna è in agguato a ogni disconferma.
Il narcisismo dilagante cela un diffuso senso di inadeguatezza, se-
greto e nascosto con vergogna.
Anche il successo può essere una maschera, dietro la quale c’è un
essere umano che soffre sino al suicidio, che suona inaspettato e in-
comprensibile alla platea di invidiosi perdenti, di vite non illustri ma
umane e ricche di relazioni. L’aumento dei giovani nei nostri studi è
spesso legato a un’impossibilità di acquisire un ruolo sociale accet-
tabile, alla vergogna del fallimento esistenziale (comune ma non con-
diviso) rispetto ai modelli genitoriali: non avere un lavoro, non avere
una famiglia, nessun riconoscimento di valore come individui porta
alla necessità di nascondersi, che è pari al bisogno di esser visti. Vor-
rei un burqua, o un mantello dell’invisibilità: perché voglio vedere,
vivere, ma non tollero che si veda la mia pelle con i brufoli, il mio
naso, la mia pancia, le mie gambe, così diverse da come dovrebbero
essere, così non conformi allo standard necessario per essere inclusi
nel novero di chi ha il diritto di esserci. Non voglio che si sappia che
non do gli esami e mento; che sono disoccupato, e mento.
Occhi bassi, voce atona, vestiti ampi e neri: un po’ invisibile lo si
diventa, perfino a se stessi. Essere amati per come si è sembra im-
possibile, perfino da se stessi.
Essere visibile espone ogni animale al rischio di essere aggredito
dai nemici: e nessun animale è senza nemici. È dunque un rischio
biologico grave, da cui ci si difende con qualche forma di mimetiz-
zazione, di invisibilità.

104
“Essere come tutti, essere qualcun altro che se stessi, assumere
una parte, vivere in incognito, essere anonimi, non essere nessuno,
spersonalizzarsi: queste sono tutte difese analoghe al nascondersi.
Se eccedono una certa misura, divengono gravemente patologiche.
Lo scrutinio al quale lo schizoide sottopone se stesso è carico di osti-
lità… vive continuamente sotto un sole nero: l’occhio malevolo e
scrutatore di se stesso” (Ronald Laing, L’io diviso).
I raggi brucianti della sua coscienza uccidono in lui la spontaneità
e la freschezza, distruggono la gioia, inaridiscono tutto. La coscienza
sempre all’erta costringe a un automonitoraggio ininterrotto, e di-
venta un radar che esplora l’ambiente in cerca di pericoli potenziali.
Nell’adolescenza, che è in genere il periodo di minima autostima
e massimo narcisismo, essere invisibili diventa contemporaneamente
un desiderio e una condizione temuta. Le maschere difensive pos-
sono essere molteplici (il dottore, la madre, il ribelle): il tratto co-
mune è la rigidità. Dietro ad esse c’è solitudine, bisogno di esser
cercati e trovati, eppure ci si nega e nasconde con ugual forza.
Il terapeuta deve procedere con empatia e delicatezza, nell’ac-
compagnare l’altro ad avvicinarsi al nucleo di vergogna, ad esplo-
rarlo e accettarlo. La maschera caratteriale rigida, o ancor più quella
carnevalesca, consente una protezione effimera. Da un lato libera
dalla vergogna eccessiva, dall’altro crea relazioni inautentiche.
Forse in passato il Carnevale era un’ubriacatura di libertà, per cui
era consentito uscire dai propri copioni ed esplorare altre vite e dif-
ferenti possibilità, ma il suo effetto credo fosse catartico, non dav-
vero terapeutico. Il carnevale attuale non è che una sfilata, e schiuma
da barba nei capelli delle ragazze all’uscita da scuola.
I social media consentono di giocare con le maschere con facilità:
profili ben curati, foto ritoccate, frasi copiate, una vita da vincenti
esibita nella sua quotidianità, sembra vera. La cura di sé è sostituita
dalla cura dell’immagine, che è un compito del tutto diverso.

Le terapie della vergogna cronica

La vergogna non può essere estirpata o gestita con la logica: non


è sotto il controllo corticale, è involontaria e automatica. È uno stato

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non integrato che si attiva e prende il sopravvento su altri. Un osta-
colo alla terapia può essere la vergogna, evitata e non riconosciuta,
del terapeuta stesso.
Segnali nel paziente: evitamento del contatto oculare, capo chino,
coprirsi il volto, risposte monosillabiche, sorriso compiacente (ma-
schera), superficialità.
Il terapeuta non deve far notare o invitare a non vergognarsi (non
sentire quello che senti!), ma avvicinarsi con grande lentezza, facili-
tare l’apertura, con delicatezza ed empatia. Usare connessione e
creare prima una base sicura.
La maschera si alleggerirà quando si sarà pronti a farne a meno.

Approcci Top down:


Occorre innanzitutto che il paziente impari a riconoscere, a vedere
la propria vergogna, per poi starci, insieme al terapeuta: con apertura,
curiosità e accettazione. Sono gli ingredienti dell’amore, che è ciò
che è mancato in passato. Accettarla invece che combatterla: osser-
varla e integrarla. Capire dove e quando la si è imparata. Riconoscere
e accogliere la propria vergogna e gestirla con compassione. Imparare
a sostituire gli schemi disfunzionali che portano all’autocritica e al-
l’automonitoraggio preoccupato con la self compassion e un sano de-
centramento, e compassione verso gli altri. La terapia cognitivo
comportamentale, l’ACT (Acceptance and Committment Therapy) e
la Schema Therapy sono gli approcci più indicati. Ma se l’emozione
è fuori dalla finestra di tolleranza, l’elaborazione cognitiva è ostaco-
lata e difficoltosa.

Approcci Bottom up:


Occorre condurre il paziente a percepire risorse somatiche positive
e risorse relazionali protettive, implicite nel rapporto con il terapeuta.
Sentire i movimenti interrotti. Sentire un centro più profondo, il vero
sé dietro a tutte le maschere, e dietro anche al sé negativo che ha fatto
proprio. Da quel luogo sicuro e consapevole, può accogliere la mol-
teplicità di stati integrati e flessibili che fanno parte di lui, e delle sue
relazioni quando è aperto e vulnerabile, autenticamente in connes-
sione e risonanza con il terapeuta. Usare tecniche immaginative, felt
sense e grounding. L’esperienza corporea ed emotiva sono privile-

106
giate in questi approcci: Mindfulness, Sensorymotor, Emdr (Eyes
Movement Desesitization and Reprocessing). Occorre integrare gli
approcci dall’alto verso il basso, e quelli dal basso verso l’alto, lavo-
rando su tutte le cognizioni negative associate al disturbo nel suo con-
testo, sugli episodi passati, sulla gestione delle emozioni e sulla
creazione di risorse. È dalla relazione che la vergogna cronica è nata,
è con la relazione che può guarire. Condizionamenti gravosi e ineso-
rabili, premesse ineluttabili, snodi obbligati e un nome che ci intrap-
pola in una definizione cristallizzata: il carattere è fatto da imprinting
precoci, comportamenti reiterati, abitudini, e scrive il destino con im-
placabile e spaventosa coerenza. Inchiodati a un corpo non scelto, a
maschere che ci definiscono ma finiscono col comandarci, esiste
un’uscita d’insicurezza, secondo l’espressione usata da Remo Bodei
in un suo saggio su Pirandello, una libertà possibile dall’intransigenza
delle condizioni date? C’è un punto in cui il sé irrealizzato emerge
con prepotenza, o si esprime con parole nuove.
È possibile una creatività, non solo di idee, azioni e prodotti, ma
soprattutto di chi essere? Cerchiamo le tracce del nostro splendore.
Nelle foto di noi piccoli, nei sogni a occhi aperti, sotto la polvere e
vicino alle radici.

107
108
8. Al di lá del bello e del brutto
di Paolo Cinque

Dal volto al viso, ovvero il dentro/fuori della maschera

Il ricorso ad esemplificazioni di opere d’arte fatto in numerosi in-


terventi di questo Convegno è così abbondante da porre la domanda
se queste e i loro artisti siano “casi clinici”, oppure se non ci sia un
implicito riconoscimento di essi come colleghi, cui rivolgersi con
gratitudine. In ogni caso, queste note a margine della tematica tra-
sversale specifica si sentono autorizzate ad accostarsi al rapporto tra
Psicologia e ritrattistica. “Maschera” fa da elemento mediatore. Essa
non è un oggetto quanto un’esperienza psicologica originaria: lo spa-
zio terapeutico si trova lungo questo percorso.
Qui ci si limiterà a ricordare che R. Laing descrisse un caso di re-
missione di schizofrenia a partire dalla visione casuale di un film,
cioè di un’opera d’arte. Queste note assumono che fra Arte e Psico-
logia si sia instaurato un rapporto particolarmente intenso. E che la
Psicologia abbia debiti verso Arti e Letterature: si potrebbe conve-
nire che gli psicologi abbiano avuto artisti e scrittori come loro pre-
cursori. La ritrattistica è una riserva immensa di espressioni, effigiate
in volti, visi e maschere: una foresta inesauribile di connotazioni, a
volte addirittura diagnostiche.
Non è perciò sembrata peregrina qualche nota sul rapporto Psico-
logia-Ritrattistica: dove sembra confermarsi che le maschere amino
rivelarsi anche se compito loro è celare.
Il tema viene proposto in undici annotazioni e una conclusione,
doverosamente provvisoria, corredate da riferimenti iconografici d’il-
lustrazione. Per i quali ringrazio la Prof. Laura De Salvo, che ha con-

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diviso la pazienza delle scelte e gli amministratori di un gruppo, I
1000 Quadri più belli del Mondo, che su Facebook diffondono una
quantità enorme di immagini d’arte ma anche suggerimenti molto
pertinenti.

1. La prima nota mette in evidenza che arte è psichismo riflesso

La Psicologia avrebbe dunque molte ragioni per occuparsi d’arte.


In modo particolare della Faccia, luogo comune dello scambio sim-
bolico per eccellenza, d’immagini identitarie fra gli Umani, sia “in
presenza” degli interlocutori sia, attraverso il ritratto, “in assenza” dei
soggetti di riferimento. È però anche sigillo rigidissimo e inerte, di una
fissità “inespressiva” che non dipende dalla rigidezza del supporto ma
da un’inerzia addirittura “a-psichica”: un “oggetto d’orrore” (Mozart),
un “Natura morta” pressoché irrappresentabile. La faccia ha il potere
sorprendente e spaesante di poter essere, insieme e al massimo grado,
mobilissima e immobile. Si tratta di uno stupore inquietante che
sembra apparentarsi a quello che dà origine alla filosofia: così che con
essa le arti figurative condividerebbero una comune origine. [Fig. 1]

Fig. 1: Arte del Paleolitico superiore: Venere di Brassempoy, 25.000 a.C. Avorio, H cm 03, 5ca.

110
L’Arte è nata però molto prima della scrittura, che riflette quello
stupore in concetti invece che in linee, forme e colori. La maggiore
vicinanza dell’arte allo stupore originario significa che essa è mani-
festazione dello psichismo riflesso, un tratto tipico, costitutivo della
condizione umana. Della piccolissima Venere di Brassempoy non si
sa quasi nulla, solo l’età è abbastanza certa. Resta il fortissimo im-
patto visivo di un volto – non solo una “faccia” – dai tratti insieme
realistici e astratti. Psichismo riflesso è dunque la prima e più gene-
rica delle espressioni utilizzabili per entrare nell’oceano delle rap-
presentazioni figurative.

2. La seconda nota evidenzia che volto e viso non sono sinonimi

Volto deriva da una forma medievale in disuso del verbo latino vò-
lere, cioè “volére”. Nulla a che fare con volgere o con voltare. Nel
volto agirebbe dunque un fattore volontaristico, d’intenzionalità co-
sciente. [Fig. 2]

Fig. 2: Bronzino (1503-1572), Ritratto di Andrea Doria come Nettuno, 1552ca. Milano, Ac-
cademia di Brera.

111
I tratti fisionomici vi si integrano, assieme ai segni che nella rap-
presentazione sociale indicano uno status, un modo d’essere, d’essere
riconosciuto in un certo modo, correlativo alla “volontà di rappre-
sentazione”. Verosimiglianza non ha a che fare con una fedeltà reali-
stica all’originale. Essa consiste in una adeguatezza fra immagine ed
èthos, la cui raffigurazione è nelle intenzioni del committente: ad
esempio, Andrea Doria, grande ammiraglio della Repubblica di Ge-
nova, si fa ritrarre come possente Dio del mare, senza alcun riguardo
per la sua fisionomia reale di ultrasettantenne. Un èthos.
Si palesa così anche una differenza tra Volto e Viso, termine se-
manticamente legato a vedere e perciò a visione. In particolare, esso
è portatore di una dimensione psicologica che sfugge all’èthos del
“volto”. Riguarda la sfera più “privata”, irriflessa e inconsapevole,
che non è opportuno esprimere pubblicamente, o per lo meno inva-
sivamente. Essa va, anzi, protetta. È ipocrisia benigna, bisogno di
soggettività. [Fig 3]

Fig. 3: Pasquale Celommi (1851-1928), Operaio politico, 1888. Tela, 81x65 cm. Teramo,
Pinacoteca comunale.

112
3. La terza nota mette in evidenza che il volto è emblema

Volto è dunque questa faccia che reca sulla sua fisionomia


un’espressione di volontà, dignità di un valore, di condizione sociale
e morale, di cifra epocale. Volto emblematico lo si potrebbe denotare:
pleonasticamente, perché il volto è sempre un emblema. La sua rap-
presentazione artistica realizza un Ritratto emblematico e il suo ef-
fetto psicologico svolge il ruolo della presentazione di sé nel processo
comunicativo. [Fig. 4]

Fig. 4: Arte egizia: Maschera di Tutankhamon, 1332-1323 a.C. Museo del Cairo.

La fisionomia può essere quanto mai astratta e stilizzata, fino a di-


ventare una maschera a sé, emblema di una condizione superiore, se-
parata. Un’eterna presenza. Una sorta di Totem.
Questo fattore totemico non è necessariamente funebre: lo si trova
nella ritrattistica antica e moderna quando si raffigurano, molto più
realisticamente, personaggi importanti che rappresentano il loro
tempo e il sistema socio-politico nella sua figurazione pubblica più
simbolica e ideale. [Fig 5]

113
Fig. 5: Arte romana: Statua di Augusto “loricato”. Roma, Musei vaticani.

Degni modelli di grandi virtù civiche, religiose e private, sono visti


come maschere del loro tempo e la loro presenza in effigie è richie-
sta come appello istituzionale: [Fig. 6] Napoleone è per Hegel lo
“Spirito a cavallo” e Beethoven scrive una sinfonia con la stessa let-
tura epocale ed eroica di quella figura. Gli artisti del tempo non sono
da meno. [Fig. 7]

Fig. 6: David (1748-1825): Napoleone al Passo del San Bernardo, 1800. Parigi, Chateau de
Malmaison

114
Fig. 7: Rubens (1577-1640): Due bambini addormentati, 1612-13. Olio su tela , 50,5 x 65,5
cm. Tokyo, Museo Nazionale di Arte Occidentale.

Come farebbe un viso a sostenere un cómpito del genere? Sarebbe


travolto dal peso di una dimensione pubblica che lo assedierebbe con
le sue pretese.
Non avrebbe “Le Psychique du rôle” … Questo significa che …

4. La quarta nota evidenzia affinità tra volto e maschera

Che il volto sia maschera è un’ovvietà: ma affinità e differenze non


lo sono così tanto. Maschera è termine etnografico: significa oggetto
e forma di travestimento che mira a creare, nel gioco del nascondi-
mento e sostituzione, sembianze con caratteristiche magico-religiose.
Con tutte le correlazioni sociali che ne fanno un fattore tipico dei riti.
Nei contesti popolari essa assume il significato simbolico di ribalta-
mento dell’ordine costituito. L’annullamento o il trascendimento del
fattore individuale sono indubbi: la maschera va oltre, mira all’em-
blema, alla trascendenza simbolica.
La relazione Volto/Maschera sussiste grazie ad interessanti affinità.
L’uno e l’altra nascondono le espressioni individuali della faccia. Il
volto, però, nasconde con minore rigidità e maggiore rischio. Il viso
non viene infatti eclissato fisicamente quanto mimetizzato, piuttosto,

115
manipolato dietro un’espressione intenzionata, con la quale l’indivi-
duo scambia la propria “presenza” nel contesto socio-rappresentativo,
filtrando le espressioni poco convenienti rispetto al ruolo, alle circo-
stanze, all’èthos. Ciò che è escluso, però, può “tradire” il volto. La ma-
schera è invece impermeabile. [Fig 8]

Fig. 8: Ingres (1780-1867): Napoleone sul trono imperiale, 1806. Parigi, Musée de l’Armée.

In quanto emblematico, il volto aspira a non avere altra espres-


sione se non quella, dominante e ineluttabile, imposta dall’èthos e
dalla sua interpretazione sullo scenario sociale. All’ovvia fissità inerte
e insuperabile del supporto (osso, avorio, pietra, legno ecc.) si ag-
giunge quindi una fissità “di secondo grado”, quella “volitiva”, che
impone la stabilità del valore, il significato dell’emblema.
La sua espressione piena, quindi, non può che essere imperturba-
bile e “imperturbabilità” è la parola-chiave per leggere le diverse mo-
dalità e gradazioni del nascondimento. Ciò che si “vede” nel volto è
l’effetto abbagliante del mascheramento, che sigilla il viso nel se-
greto del non-visto.

116
5. La quinta nota evidenzia che se volto è emblema, viso è enigma

Ciò che si “vede” nel viso è l’affiorare del nascosto. È il trasparire


che si offre alla vista.
Come se non bastasse la connotazione “visuale”, Viso si carica di
un’ulteriore suggestione semantica, fortissima, che deriva da un ce-
leberrimo passo neotestamentario: Così, ora vediamo come in uno
specchio, in maniera confusa; ma allora (vedremo) a faccia a fac-
cia. Ora conosco in modo imperfetto ma allora conoscerò perfetta-
mente, come anch’io sono conosciuto.
Viso connota dunque qualcosa di intimo, personale, privato, addi-
rittura estatico nella sua ineffabilità. Una “presenza/assenza”. Come
esperienza interiore, la sfera intima è un nascosto che deve restare
tale e che, invece, affiora, come scriveva Schelling a proposito dello
Spaesante (Unheimlich): termine che approderà nel lessico freudiano,
tradotto in italiano con Perturbante.
Come si porta fuori il “dentro” senza tradirne la natura intima?
Solo in modo allusivo, ambiguo, enigmatico, dunque. Bifronte per
definizione: sulla sottile e mobile finesse di un Dentro che preme, di
un Fuori che comprime. Una sfida per l’artista-psicologo.

6. La sesta nota mette in evidenza un balzo gigantesco

Il volto emblematico domina incontrastato la ritrattistica dal Pa-


leolitico al Tardo Medioevo: egemonia di lunghissima durata, durante
la quale, però, nella ritrattistica accadono eventi paragonabili alla do-
mesticazione del fuoco o all’invenzione della ruota nella storia del
genere umano.
La prima svolta cruciale è compiuta da Lisippo e la sua scuola: vi
si evidenzia una dimensione biografica ed emotiva inedita ma corre-
labile alla cultura dell’epoca ellenistica. Primo affacciarsi iconogra-
fico della celebre sentenza di G.B. Vico, sugli esseri umani che
avvertono con animo perturbato e commosso. [Fig 9]

117
Fig. 9: Arte greca: Lisippo (cerchia), Pugilatore in riposo (Particolare), IV sec. a.C. Roma,
Museo nazionale romano.

La faccia di questo pugile, così “piena di pugni”, è la storia della


condizione di questi atleti. I tratti espressivi realistici individuali sono
assunti nella rappresentazione idealizzante di “quella” faccia. I busti
di Alessandro Magno (di cui Lisippo è artista ufficiale) “bucano” la
ritrattistica e arrivano ai giorni nostri, portando l’energia dei tratti in-
dividuali idealizzati. Fatti per la sfera pubblica, insomma. Soltanto
Mohammed Alì non ci si riconoscerebbe. [Fig. 10]

Fig. 10: Lisippo (390ca-306ca a.C.): Busto di Alessandro Magno, 340ca. Parigi, Louvre.

118
Nella storia della ritrattistica si tratta nientemeno che dell’irru-
zione della dimensione psicologica soggettiva, “differenziale” come
fattore di narrazione e raffigurazione. Per ora è storia biografica in-
tegrata nella rappresentazione emblematica. Poi diventerà anche au-
tonoma. [Fig. 11]

Fig. 11: Arte ellenistica: Sileno e Dioniso bambino, Copia romana del II sec a.C. da origi-
nale di Lisippo, front-sin. Roma, Musei vaticani.

Lisippo infatti cala anche un “asso” espressivo, forse straordina-


rio anche per uno psicoanalista: è il Sileno con Dioniso bambino. Il
rude seguace del dio sembra stupefatto per quel che gli capita di “av-
vertire”: un sentimento “materno”, una tenerezza che diventerà icona
nelle figure della madre con un figlio fra le braccia e avrà una fortuna
straordinaria, trans-epocale, nell’arte sia “colta” che popolare e de-
vozionale. Al di là della “Grande madre”. Il salto espressivo, che qui
tocca le corde della protezione e della cura dei bambini, supera la ri-
trattistica romana e quella medievale – che sono interamente emble-
matiche – per approdare alla pittura emozionale in sé, milleottocento
anni dopo. Di carattere addirittura inter-e-intra psichico.
Lisippo è stato artista psicagogico (Psico-pòmpo direbbero gli jun-
ghiani) “portatore e suscitatore della dimensione psichica”: molto

119
tempo dopo finirà col produrre i visi “moderni” dall’espressione enig-
matica, così carichi di soggettività. Nel frattempo i tratti individuali
acquisiti partecipano del valore emblematico prevalente, soprattutto
grazie all’arte ritrattistica romana, che li trasmetterà all’Umanesimo.
Finiranno col diventare talmente individuali, però, che la loro rap-
presentazione non trascurerà neppure i segni di certe imperfezioni fi-
siche: rughe, brufoli, eczemi, cicatrici, strabismi, così che perfino il
“brutto”, tradizionale emblema della presenza del Maligno, sembra ri-
scattarsi. Ora possono essere addirittura visti come “stigma” dell’età
e di una condizione spirituale rispettabile.
Eppure, nonostante queste opportunità, gli artisti esiteranno a
lungo: sembrano anch’essi “perturbati”. La svolta non arriva all’im-
provviso: volto e viso possono infatti collaborare, per esempio nei ri-
tratti allegorici Il volto non sarà abbandonato facilmente, né comple-
tamente. Anche perché l’enigma non si lascia sciogliere. Si fa evocare,
piuttosto. Va intensificato. Le facce “visualizzate” tradiscono la vo-
lontà di … non tradire – di non tradire troppo – le emozioni del sog-
getto. Ne risulterà un ritratto fascinoso, ondivago fra “volto” e “viso”,
un genere “misto”.
Singolare evidenza di questa esitazione è anche il fatto che a que-
sti ritratti, già così individuali nella fisionomia, è negato l’elemento
psicologico evocatore e “perturbante” per eccellenza: il sorriso. In
tutta l’arte classica, la raffigurazione della condizione elevata ne è
del tutto priva, mentre abbonda – emblematicamente – ai piani più
bassi e degradati dell’effigie del vizio, dell’animalità bruta, del pec-
cato e del demonico. Sta nel mondo dei dannati. Quando viene ri-
scattato e si libera da quell’anatema …

7. La settima nota evidenzia che il sorriso è evento epocale

Sorriso e riso sono anch’essi psichismi, però: impossibile non no-


tarli nella vita ordinaria. In mancanza di modelli provenienti dalla clas-
sicità greco-romana, l’unica fonte possibile non poteva che essere la
vita quotidiana. Dapprima elevandoli dalla realtà modesta dei borghi
agli onori di un altare, impresso soprattutto sui volti della Vergine e
del Bambino. Non solo in trono ma anche in piedi, con la Madre che

120
fatica a tenere il figlio su un braccio, come le madri terrene: se lo fa
la Madre di Gesù, l’umile devoto può riconoscere pari dignità a ge-
sti per lui consueti. Anche l’umanizzazione del divino è, in fondo, una
trascendenza. Le Madonne del colloquio si arricchiscono di questa
espressività inedita, anche se non ne approfittano a man bassa.
Non sono sole, però. Le Madonne del solletico non sono da meno,
ugualmente timide. [Fig. 12] E nemmeno le Madonne del latte si fa-
ranno attendere: fra le quali è impressionante quella di Andrea Pi-
sano così carica di sensualità “perturbante”. Piano piano la scena si
popola di sorrisi edificanti. Osano affiorare ai piani alti ma si fermano
sulla soglia d’una svolta pienamente psicologica: sono riusciti a sa-
lire su un volto ma hanno bisogno di un viso. E di un artista che li
colga da psicologo.

Fig. 12. Andrea Pisano (1290-1348): Madonna del latte, 1343-47 (Particolare). Pisa, Museo
del Duomo.

Il sorriso del Cardinale Albergati, colto nel disegno preparatorio,


non appare sul quadro ufficiale di van Eyck: è ancora sconveniente
ed è stato perciò omesso. Il pittore “privato” cede ancora al pittore
“pubblico”, lo psicologo al politico. [Fig. 13]

121
Fig. 13: J. Van Eyck: Disegno preparatorio (sin) ed esecuzione (dx) del Ritratto del Cardi-
nale Albergati, 1430. Matita su carta e Olio su tavola. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen
e Vienna, Kunsthistorisches Museum.

8. L’ottava nota evidenzia il sorriso estroverso preleonardesco


[Fig. 14]

Fig. 14: Donatello: David (Particolare), 1440-60. Bronzo. Firenze, Museo del Bargello.

122
Il celebre sorriso del David è collegato ad un evento esterno, l’uc-
cisione di Golia, la cui testa giace sotto il suo piede, ma è già come
estraniato: la sua nudità integrale lo intensifica in senso già enigma-
tico. [Fig. 15]

Fig. 15: Antonio Rossellino (1427-1479): Busto di Giovanni Chellini, 1456. Londra, Victoria
and Albert Museum.

Antonio Chellini esprime il pieno appagamento di una vita di me-


dico e umanista, ricca di rispetto, riconoscimenti e prestigio: il sorriso
è rivolto a se stesso ma anche a chi, osservandolo, percepisce lo spes-
sore di una vita esemplare. [Fig. 16]

Fig. 16: Desiderio da Settignano (1428ca-1464): Busto di bambino, 1460ca. Vienna Kun-
sthistorisches Museum.

123
L’esplosione del sorriso nella risata infantile incontenibile è cifra
di un’energia psichica alla cui rappresentazione plastica manca solo
il suono: un “dentro” squillante che tiene testa al “fuori” cui è rivolto.
[Fig. 17]

Fig. 17: Antonello da Messina 1429ca-1479): Ritratto d’ignoto marinaio, 1465-76ca. Ce-
falù, Museo Mandralisca

Il sorriso del marinaio di Antonello è componente emozionale di


uno “sguardo antropologico”: un “sorriso-ponte” e uno “sguardo da
lontano” (Lévi-Strauss).
Quei sorrisi hanno già qualcosa di gratuito, ingiustificabile, cioè
dipendente dalla vita psichica in quanto tale e, di essa, espressione
“pura”. Nel senso che il motivo occasionante del sorriso, se c’è, di-
venta marginale. È preludio d’una svolta verso lo spazio utopico del-
l’interiorità, oltre l’autoaffermazione del volto.

9. La nona nota mette in evidenza il sorriso introverso di Leonardo

Leonardo è un “secondo Lisippo”. Che cosa c’è in lui di così in-


novativo da apparire decisivo? [Fig. 18]

124
Fig. 18. Leonardo (1452-1519): Testa femminile, studio per l’Annunciazione, 1478ca. Fi-
renze, Uffizi.

Nientemeno che la dimensione psichica originaria riflessa diretta-


mente nell’espressione pittorica o plastica. [Fig. 19]

Fig. 19: Leonardo (1452-1519): Dama con ermellino, 1488-90. Cracovia, Museo Czatory-
ski, Castello di Wavel.

125
Non solo uno psicologismo del tono, che modula in sentimenti di-
versi ma la matrice psichica di tutto questo commuoversi, di questo
“muoversi assieme” psico-fisico, di questa emozione soggettiva di
un esser-ci e di un essere-in-sé. Una “intelligenza emozionale”. Le fi-
gure sono declinate in uno “sfumato” quanto mai morbido, sensibile
alle più sottili variazioni del chiaroscuro. Variante tonale del den-
tro/fuori, la cui relazione incessante costituisce il sigillo dell’espres-
sione. Di essa ora è possibile la sfumatura, l’ambiguità inafferrabile,
la vaghezza eraclitèa, che chiede di decifrare l’enigma lasciandosene
irretire. [Fig. 20]

Fig. 20: Leonardo (1452-1519): Testa di fanciulla, Studio, 1483ca. Torino, Biblioteca reale.

Per stabilire contatto e complicità basta infatti un impercettibile


distendersi o ritrarsi delle labbra, un lampo morbido sotto le palpebre,
un incresparsi anche minimo della fronte o delle sopracciglia, che co-
stituiscono la sostanza di certi sorrisi o di certi giochi degli occhi,
anche quando lo sguardo è assorto. È il “guardare”, il “sorridere”
stesso ad essere raffigurato. [Fig. 21]

126
Fig. 21: Leonardo (1452-1519) [?]: Testa di Fanciulla, 1490ca. Parma, Pinacoteca Nazionale.

L’Arte psicologica e psicopoiètica sorprende il soggetto nel-


l’espressione enigmatica e segreta che si rende più intensamente vi-
sibile proprio come segreto. Un paradosso: l’effigie enigmatica si
rivela celandosi. Resta enigmatica perché quel visus rimanda ad un in-
visibile, in un’espressione sognante, fantasticante, che è anticipazione
pittorica di quello che Calderòn de la Barca e Shakespeare declame-
ranno in parole. [Fig. 22]

Fig. 22: Leonardo: Disegno preparatorio per Vergine, bambino e Sant’Anna. Carboncino su
carta. Londra, Windsor Royal Library.

127
I disegni preparatori sono volutamente pieni di incertezze e ri-
pensamenti, così che può risultarne un cespuglio di segni che ri-
schiano di offuscare l’immagine stessa, rinchiusa come in un bozzolo.
Enigma potenziato. In un passo del Trattato sulla pittura Leonardo
chiarisce – da psicologo – il motivo di queste esitazioni: il disegno
non definito lascia aperta la possibilità di cogliere adeguatamente li
moti delle membra apropriate al moto mentale.
Non sembri un evento fortuito che il termine Psicologia abbia co-
minciato a circolare proprio dall’inizio del XVI secolo.

10. La decima nota evidenzia che anche il viso è maschera, ma


enigmatica

Non più narrazioni descritte attraverso una successione statica di


scene circoscritte: esperienze, piuttosto, stati d’animo provati nel mo-
mento della schiusa e traditi da un’emozione che, dall’interno, tra-
sforma il viso in una maschera. [Fig. 23]

Fig. 23: Boltraffio (1466ca-1516): Testa femminile, 1500ca. Firenze, Uffizi.

Il viso non assume la maschera: il viso la produce a causa del-


l’urgenza non del tutto controllabile di emozioni interne, che ne de-

128
terminano l’espressione, cioè la deformazione fisionomica e il com-
mercio comunicativo. [Fig. 24]

Fig. 24: Bellini (1433-1516): Ritratto del doge Loredan, 1501-02. Olio su tavola. Londra,
National Gallery.

Al di là del bello e del brutto, il sorriso “psichico” di Leonardo


viene declinato nelle modalità più diverse dell’avvertire con animo
perturbato. Fino ad abissi di emozione trattenuta, o vissuta come un
fremito, come nella Giuditta di Correggio, così carica di Eros-Thà-
natos. [Fig. 25]

Fig. 25: Correggio (1489-1534): Giuditta e l’ancella, 1510ca. Musée des Beaux-Arts, Strasbourg.

129
La maschera enigmatica non si accontenta più del mito, pur “ci-
vettando” con le sue tematiche: prende vita nelle rappresentazioni
adatte alla natura privata del soggetto. Ne tradisce le aspirazioni so-
ciali. Questa “privatezza” finisce con l’esaltare l’artista stesso. Egli
“si ritrae” in un triplo senso: si riflette nell’opera, può raffigurare
anche se stesso e, nello stesso tempo, si distacca dall’opera per os-
servarla nella sua separatezza coinvolgente.

11. L’undicesima nota evidenzia che l’autoritratto è spazio co-


mune tra emblema ed enigma [Fig. 26]

Fig. 26: Dürer (1471-1528), Autoritratto a 13 anni, 1484. Vienna, Accademia albertina.

Da qui, il ritratto apre allo sguardo una porta fino ad ora chiusa: at-
traverso essa passano le due biografie, del soggetto e dell’artista. Si
fondono nell’autoritratto, ultimo gioco che le maschere scommettono
sia con l’emblema che con l’enigma delle effigi, giocando su due ta-
voli diversi. Il primo riconoscimento è un auto-ritrarsi. In termini psi-
cologici: se la prima percezione oggettuale è fatta di “cose” sulle quali
si proietta un bisogno immediato, il viso è la prima rappresentazione
oggettuale del bisogno di relazione intersoggettiva e, poi, intra-sog-
gettiva. [Fig. 27]

130
Fig. 27: Dürer: Autoritratto a 28 anni con un collo di pelliccia, 1500. Monaco di Baviera,
Alte Pinakothek

Questa è l’esperienza-madre del “riconoscimento”. “Imitazione di


Cristo” è espressione della fede dell’artista: Dürer dà il proprio viso
al volto di Cristo, così che, guardandosi nel quadro, si compie il fac-
cia a faccia della profezia paolina. Con l’affermazione del proprio viso
nel ritratto, l’artista si appropria del pensiero di Flaubert, espresso nel
Madame Bovary c’est moi.

12. Fine (provvisoria) delle note: conclusione e dedica

L’artista-psicologo si muove tra “maschere smascheranti”: rivela


questa dimensione “velante” dell’apparire e in ciò risiede il carattere
paradossale del suo “doppio legame” con l’oggetto-soggetto. C’è
forse una suggestione junghiana in tutto questo: Maschera è media-
zione dell’Io con il mondo esterno. Il “dentro/fuori” del mondo è
espresso nella dinamica Anima/Maschera, dove Anima è la media-
zione con il mondo interno. Quando Anima “es-prime” il mondo in-
terno, impatta nel Viso da dentro, sul confine con l’esterno. Se
Maschera o Volto “im-primono” il mondo esterno, impattano nel Viso
da fuori, sul confine con l’interno.

131
Un medesimo confine: il Viso. Continuamente mascherato e sma-
scherato.

Una dedica, in conclusione

Lo scultore veneziano Augusto Benvenuti ha realizzato un monu-


mento a Garibaldi, collocato nei Giardini pubblici di Venezia. Un
omaggio ai tentativi sfortunati dell’Eroe dei due mondi, di raggiun-
gere questa città. [Fig 28]

Fig. 28: A. Benvenuti: Monumento a Garibaldi, 1885 (Particolare). Bronzo. Venezia, Giar-
dini pubblici

L’espressione di Garibaldi ha ben poco di monumentale: vi tra-


spare un senso di imbarazzo, desolazione, perplessità, come uno spae-
samento in una terra che non ha raggiunto.
Ai suoi piedi, un leone dall’espressione altrettanto smarrita sem-
bra condividere quello stato d’animo: il simbolo stesso della città
sembra anch’esso spaesato … Dov’è la sua Africa? [Fig. 29]
Questo intervento è dedicato al ricordo di un giovane Africano,
una fra le vittime dei due mondi, che il 21 gennaio 2017, tre setti-
mane prima di questo convegno, si è suicidato nel Canal Grande: que-
ste note dedicate al suo spaesamento non più riscattabile.

132
Fig. 29: A. Benvenuti: Monumento a Garibaldi, 1885 (Particolare). Bronzo. Venezia, Giar-
dini pubblici.

Bibliografia, sitografia, iconografia essenziale

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135
136
9. Il problema dell’identità: divagazioni sul Pulcinella
di Giandomenico Tiepolo e le nostre forme di vita
di Carlo Scognamiglio

Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha pubblicato nel 2016, per


le edizioni Nottetempo, un profondo e importante libro dedicato al
Pulcinella di Giandomenico Tiepolo. Il titolo del volume (Pulcinella
ovvero Divertimento per li regazzi) richiama espressamente la for-
mula con cui il pittore, figlio del più noto Giambattista Tiepolo, volle
definire le sue 104 tavole di disegni dedicati alla nota maschera par-
tenopea. Già nel periodo 1793-1797 (anno della caduta della Repub-
blica di Venezia), l’artista, ormai anziano, aveva impiegato le proprie
energie per affrescare con un Pulcinella innamorato e una Partenza
di Pulcinella la propria villa di Zianigo, riservando quelle immagini
alla decorazione di una piccola camera, forse destinata al riposo o
alla meditazione. Come se Tiepolo volesse ricapitolare la propria vita
attraverso una relazione intima e interlocutoria con Pulcinella. Poco
dopo si dedicò alle 104 tavole del Divertimento per li regazzi. In quei
disegni Pulcinella è rappresentato in molteplici situazioni, a compiere
mille mestieri o a divertirsi. Pulcinella nasce, si ammala, muore, ri-
sorge, viene processato, impiccato e poi graziato; un Pulcinella bam-
bino impara a camminare e un altro a corteggiare le ragazze. E in
ogni disegno non si ravvisa mai un solo Pulcinella, ma molti, reite-
rati omuncoli goffi in camicione bianco, maschera nera e cono moz-
zato sulla testa.

137
Fig. 1: Pulcinella impara a camminare.

Forse l’anziano pittore percepiva l’esigenza di misurare la propria


coscienza in rapporto al padre, che pure aveva rappresentato ampia-
mente la maschera napoletana, sebbene con accenti comico-mostruosi
e meno enigmatici, oppure – più intimamente – intendeva riponderare
in Pulcinella la propria vita, tracciare un bilancio d’esistenza. Com-
prendere questo momento simbolico, per Agamben, diventa occa-
sione per un’importante meditazione filosofica.
Nei disegni del Tiepolo convivono espliciti richiami cristologici
ma anche mitologici. In particolare, Pulcinella sostituisce in alcuni
tratti la figura che Cristo aveva occupato in altri suoi lavori, ma più
spesso quella dei satiri, esseri semi-umani che popolano l’immagi-
nario del mondo classico. Nel riferimento a Gesù o al satiro, emerge
dunque Pulcinella come ente intermedio, evanescente sintesi di spi-
rito e corpo (in lui mai distinguibili), così come nella sua maschera è
indecifrabile uno stato d’animo univoco: mai chiaramente comico,
né tragico. Tale misteriosa ambiguità è la cifra filosofica di Pulci-
nella, che chiama in causa la nostra coscienza.
Secondo Agamben, quel personaggio rappresenta per certi versi
la medesima funzione ricoperta dalla parabasi nel teatro greco, intesa
come interruzione dell’azione scenica. Il coro o l’attore, nella para-
basi, si toglie la maschera e fuori dalla narrazione esprime opinioni
personali rompendo l’ordine della struttura scenica. Ma si tratta di
una diversione che non conduce lontano dal senso dalla vicenda rap-
presentata. L’azione scenica – ritenuta scontata nei suoi sviluppi –
viene interrotta per far posto a una via d’uscita che riconduce all’in-

138
terno, all’originario, al senso autentico. Pulcinella è questa interru-
zione del dramma, come appare evidente dal suo motto: ubi fracas-
sorium, ibi fuggitorium. Ma non è una fuga verso nuovi luoghi, è una
fuga dentro sé stessi, che procede dal fuori al dentro, dalla scontata
traccia di un’esistenza preconfezionata, a un’autenticità smarrita. Ma
forse si tratta di una fuga impossibile.
Come ampiamente riconosciuto, esiste un forte legame tra il comico
e il tragico. Il primo esprime l’impossibilità di uscire dal proprio ca-
rattere, mentre il personaggio tragico appare svincolato dal carattere
ma prigioniero di un destino. E tuttavia, a ben leggere la relazione, il
fato costituisce la struttura celata e misteriosa in cui è incastrato il ca-
rattere, il quale in fondo altro non è che l’espressione compiuta del pro-
prio destino. Ma il Pulcinella di Tiepolo è al di qua del comico e del
tragico, perché non ha carattere, e dunque neanche un destino. Scrive
Agamben: “Pulcinella non è un sostantivo, è un avverbio: egli non è
un che, è soltanto un come […] egli è la raccolta e quasi l’accozzaglia,
al livello più basso, di tutti i tratti che caratterizzano i personaggi della
commedia” (p. 53). Per questo nei disegni del Tiepolo egli non è in-
dividuo particolare, Pulcinella è sempre “masnada”.

Fig. 2: Pulcinella sviene sulla strada.

Il ragionamento su Pulcinella può condurre a un recupero critico del


Mito di Er. Nel racconto platonico le anime in procinto di incarnarsi
in una nuova esistenza scelgono la propria nuova forma di vita. La Ne-
cessità, informa divinizzata, getta sul terreno le “sorti”, cioè il numero
d’ordine in cui le anime dovranno compiere la loro scelta, e poi dispone

139
avanti a loro le vite possibili, che poi sarebbero i “tipi umani”, i ruoli
sociali, i caratteri personali, le maschere, appunto. Il numero delle vite
possibili è di gran lunga maggiore delle sorti, in modo da poter ga-
rantire una giusta possibilità di scelta anche all’ultimo degli ultimi.
Quel che Platone intende dire, è che inutilmente possiamo inveire con-
tro la sfortuna nelle nostre esistenze. A tutti è data la possibilità di sce-
gliere bene, di indovinare, di assumersi la responsabilità di una deci-
sione meditata su “chi”, veramente, vogliamo essere. Le anime possono
dunque preferire un’incarnazione animale o umana, un’esistenza da ti-
ranno o da mendicante, da meretrice o da sapiente.
I più, secondo il mito, scelgono la propria forma di vita sulla base
dell’esperienza accumulata nella vita precedente, come l’anima di
Agamennone, che avendo maturato disprezzo per il genere umano,
decide di incarnarsi in un’aquila. Molti trascurano che in ogni forma
di vita è implicito un destino, talvolta amaro, come capita a chi si av-
vede troppo tardi di aver precipitosamente scelto di diventare un po-
tente tiranno, per ritrovarsi conseguentemente costretto a compiere
atti malvagi. Di solito, spiega Platone, chi ha molto sofferto nella pre-
cedente vita, sceglie con maggiore cautela, e non compie errori di va-
lutazione. Chi invece in precedenza ha esperito solo vite tranquille,
segnate da un’onestà praticata più per consuetudine che per qualche
virtù, cade facilmente in errore. In questa anamnesi rovesciata, Pla-
tone valorizza il negativo esistenziale. Sono soprattutto il dolore, la
sofferenza e le avversità ad istruirci su ciò che è preferibile. Ulisse,
che secondo il motto di Omero, ha sofferto nella propria vita più di
tutti gli altri Greci, è destinato a scegliere per ultimo. Ciononostante
si attarda nella valutazione, e infine sceglie con giudizio – cioè con
filosofia – la vita di un uomo sobrio, senza avventure, senza eccessi:
una vita normale. Ciascuno è dunque responsabile dei criteri, di
un’assunzione di personalità, qualunque essa sia. Ma la colpa è di chi
sceglie – ammonisce il mito – il dio non c’entra.
Tuttavia, se è vero che la scelta del nostro carattere dipende dalla
forza del passato, dall’abitudine, dall’adesione a un “tipo”, è come
se scegliessimo ogni volta, insieme a un modo di vivere, una vita già
vissuta, una struttura statica dell’esistere, per cui il vivere si conforma
a un ri-vivere. In questi termini, il carattere che ci siamo scelti, l’iden-
tità che preferiamo, cui aneliamo, nel mondo auto-rappresentato, è

140
un non-vissuto. Nello scegliere di essere “questo tipo di persona”,
scegliamo di fatto di “non vivere”. Scrive Agamben: “la seità, l’es-
sere sé, si esprime in un carattere o in un’abitudine. In ogni caso, in
un’impossibilità di vivere” (p. 110).
Pulcinella non si ferma a uno stile di vita, ma nei disegni del Tie-
polo li attraversa tutti, senza assumerne nessuno come destino. È
come se entrasse in un carattere e ne fuggisse nello stesso istante.
Vive senza costruirsi un’immagine della propria vita. Pulcinella, dun-
que, è privo di biografia e di memoria. Egli non s’interroga sul senso
della propria vita, sui risultati raggiunti o mancati: “il segreto di Pul-
cinella è che, nella commedia della vita, non vi è un segreto, ma solo,
in ogni istante, una via d’uscita” (p. 130).
Pulcinella è un modello inarrivabile. Se ogni tipo umano, o carat-
tere, è pensabile e rappresentabile, perché corrispondente a un’idea,
il dispositivo di fuga incarnato da Pulcinella, suggerisce Agamben, è
come un’idea platonica, di cui non esiste la cosa.

Fig. 3: Pulcinella taglialegna.

Tuttavia, quand’anche prendessimo coscienza del grado di falsità


e di rinuncia alla vita che è implicito in ogni nostra scelta di carattere,
non riusciremmo a sottrarci a quella scelta. Questo è il tragico in noi,
ma è un dramma che non scalfisce Pulcinella, il quale non ripudia
l’avere una personalità per privilegiare l’adesione a una dimensione
esistenziale animalesca o brutale. Pulcinella semplicemente fugge dal
bivio attraverso una riconduzione dell’anima al corpo. Ma anche qui
occorre evitare l’equivoco. Nonostante la sua origine gallinacea e la

141
sua prossimità al mondo animale, Pulcinella vive la vita degli uo-
mini, non delle bestie, e tuttavia riesce a vivere senza artifici ideali.

Fig. 4: L’altalena di Pulcinella.

L’alternativa al dualismo tra corporeità e costrutto personologico


non è la vita vegetativa, ma è quella dimensione di corporeità spiri-
tualizzata o pensiero corporeo, in virtù della quale Pulcinella volteg-
gia come un provetto trapezista, come nella carta n. 46 del Diverti-
mento per li regazzi, oscillando graziosamente tra cielo e terra.
Pulcinella ci riesce, noi no.

142
10. Il problema della maschera nella filosofia
ebraica del Novecento
di Chiara Adorisio

“Io sono te, quando io sono io”


(Paul Celan)

Introduzione

Alla fine degli anni Trenta, in una conferenza tenuta a Londra e


pubblicata nel Journal of the Royal Anthropological Institute, il so-
ciologo francese Marcel Mauss, cercava di capire come mai una delle
categorie dello spirito umano, l’idea di persona o meglio l’idea del-
l’io, del sé, che noi crediamo innata, sia in realtà “nata lentamente e
si sia formata nel corso di lunghi secoli e attraverso molte vicissitu-
dini” rimanendo sempre un po’ fluttuante e fragile, come fosse
un’idea ancora da elaborare. Nel saggio di Mauss l’etnologia e lo stu-
dio comparato delle culture offrono, attraverso una ricognizione degli
usi delle maschere utilizzate in diverse epoche e presso diverse cul-
ture le basi perché la sociologia e l’antropologia comprendano forme
della vita sociale e umana che appartengono in realtà a processi più
ampi. Così secondo Mauss vi sarebbe stato un procedere dell’umanità
“dalla semplice mascherata alla maschera, dal personaggio alla per-
sona, fino al nome, all’individuo, e da quest’ultimo ad un essere do-
tato di valore metafisico e morale, poi da una coscienza morale a un
essere sacro e infine da questo a una forma fondamentale del pen-
siero e dell’azione”. L’uso delle maschere nella vita quotidiana o nella
ritualità sarebbe dunque parte di un processo non ancora concluso
della conoscenza o coscienza da parte dell’uomo di se stesso e co-
munque parte di un processo ancora da indagare. Scopo di questo

143
saggio è mostrare come nella filosofia ebraica del Novecento la ri-
flessione sulla maschera aiuti la filosofia a riflettere sul senso stesso
dell’essere umano.

Il problema della maschera e il problema dell’esteriorità nella fi-


losofia ebraica del Novecento

Alcuni dei maggiori filosofi ebraici del secolo scorso considerati


come i rappresentati della filosofia dialogica, tra questi: Franz Ro-
senzweig, Martin Buber ed Emmanuel Lévinas, ma si potrebbero ag-
giungere anche Ernst Cassirer e Leo Strauss, utilizzando le indagini
degli antropologi, dei sociologi o dei filologi hanno riflettuto sul pro-
blema della maschera nell’ambito della loro critica alla tradizione fi-
losofica occidentale. Si tratta qui di filosofi in qualche modo legati
alla riflessione di Hermann Cohen sulla necessità di comprendere il
concetto di uomo a partire da una sintesi tra le fonti della filosofia
antica, Platone ad esempio, e le fonti bibliche, i profeti, in particolare.
Con esiti diversi tra loro gli scritti di questi filosofi del Novecento
hanno sottoposto la filosofia occidentale ad una critica che ha messo
in evidenza i rischi legati ad un modo di pensare il soggetto, l’io, la
persona, che trascuri la dimensione della relazione con l’altro, della
relazione tra io e tu, e quindi la dimensione dell’espressività o del
linguaggio. Il problema della maschera si lega i questi autori al pro-
blema della critica ai sistemi filosofici moderni e alla nozioni di este-
riorità e, in alcui casi, di Trascendenza. Influenzati dalla lettura delle
fonti bibliche, in particolare profetiche, e delle altre fonti della tradi-
zione ebraica e, in parte, come è nel caso Emmanuel Lévinas dalla
scuola fenomenologica di Husserl e Heidegger, questi filosofi hanno
riconosciuto il ruolo che la maschera può assumere per l’uomo e lo
hanno descritto con un linguaggio suggestivo che attinge al signifi-
cato etimologico dei termini che designavano la maschera già alle
origini del pensiero greco e latino. Mentre il termine greco “pròso-
pon”, ad esempio, indica ciò che è di fronte agli occhi e cioè sia il viso
che la maschera del viso, ovvero un’unità indistinta di viso e ma-
schera; per gli antichi romani invece il termine “persona”, che si ri-
ferisce alla maschera di legno, utilizzata sia nei teatri antichi della

144
Grecia ma anche del mondo romano, allude a qualcosa di artificiale
che nasconde il volto ma è caratterizzato da una fessura che rivela la
presenza di tale volto al di là della maschera e serve precisamente a
rafforzare il suono della voce (ut personaret). L’idea della maschera
che emerge nella filosofia ebraica del Novecento ha presente sia
l’unità greca di maschera e volto – unità percepita, nella prospettiva
odierna, per lo più come unità paradossale del diverso – sia l’idea
della “persona” come qualcosa di artificiale che nascondendo il volto
amplifica e lascia udire però la voce. Tuttavia i filosofi di cui trat-
tiamo tenevano presente tra le fonti antiche anche le fonti bibliche
ebraiche. La tesi di questo breve saggio è che il discorso filosofico sul
volto e la maschera in questi autori molto diversi tra loro sia inserita
in un contesto originale, che risente dell’influenza di numerose fonti
filosofiche e non filosofiche, che ne mette in luce aspetti nuovi, e ci
porta ad interrogarci sull’influenza che la critica filosofica di questi
autori ha avuto non solo sulla filosofia occidentale in generale ma
anche sulla psicologia. Analizzando inoltre l’idea del rapporto tra in-
teriorità ed esteriorità o della relazione tra io e tu, io e altro, in que-
sti autori, ci è sembrato di poterci soffermare in particolare sul
pensiero di Emmanuel Lévinas, il quale descrive il problema della
maschera utilizzando un linguaggio completamente nuovo rispetto ai
suoi predecessori.

Maschera e analogia del soggetto nell’etica del volto di Emma-


nuel Lévinas

Emmanuel Lévinas (1906-1995) è un filosofo di origine ebraica


nato a Kaunas in Lituania dove studia la Bibbia e la letteratura russa,
soprattutto Pûskin e Tolstoj, prima di iniziare lo studio della filoso-
fia a Strasburgo nel 1923 e poi recarsi a Friburgo, centro a quell’epoca
della fenomenologia di Husserl e di Heidegger. Lévinas pubblica in
francese nel 1961 un’opera dal titolo programmatico Totalità e Infi-
nito. Saggio sull’esteriorità nella quale è l’esperienza del fascismo,
degli anni Trenta e della guerra che lo ispira ad elaborare una critica
fondamentale alla filosofia occidentale troppo concentrata sull’espe-
rienza dell’io e caratterizzata da “uno squilibrio tra i temi fonda-

145
mentali del sapere e quelli della relazione con gli altri”. L’uomo ha
perso la sua identità, la violenza cieca della guerra e le mostruosità av-
venute in Europa per Lévinas sono state possibili solo perché il volto
dell’altro è stato ignorato e frainteso. Al pensiero occidentale come
teoria che si limita a credere in una soggettività opposta al sapere og-
gettivo e a riconoscere o l’essere della natura e della storia o un es-
sere ideale, Lévinas oppone la pura espressività, il linguaggio o me-
glio l’attitudine alla parola nella quale “si produce la pace” Egli
descrive una sfera della pura eticità nella quale è lo sguardo o il volto
dell’altro uomo che si impone a me e mi richiama alla mia responsa-
bilità, mi ricorda che sono insostituibile. Il rapporto con l’altro si com-
pie attraverso il mio rivolgermi a lui, il mio discorso verso di lui sta-
bilendo una relazione faccia a faccia con l’altro, fa in modo che
l’altro sia mantenuto nella sua alterità rispetto a me che gli parlo. Così
scrive Lévinas: “La pretesa di sapere e di raggiugere l’altro si com-
pie nella relazione con l’altro, che fluisce nella relazione del lin-
guaggio, in cui l’essenziale è l’interpellare, il vocativo. L’altro si man-
tiene e si conferma nella sua eterogeneità appena io lo interpello”.
La scoperta dell’altro avviene dunque nella situazione del dialogo,
il linguaggio ha un ruolo fondamentale in questa situazione. L’appa-
rizione dell’altro e della parola che egli mi rivolge pone però a Lévi-
nas un’altro problema: quello della verità di questa parola. nella
scoperta del tu da parte dell’io vi è la possibilità della menzogna. L’io
scopre il tu come un essere che può mentire perchè questa possibilità
è data in ogni discorso, in tutto il linguaggio. Tuttavia per Lévinas
questa possibilità è anche subito contraddetta dalla realtà del volto
che mi sta di fronte, dove “attraverso la maschera penetrano gli occhi,
l’indissimulabile linguaggio degli occhi”. Nell’approccio fenomeno-
logico di Lévinas si mostra il contenuto della situazione linguistica e
la spiegazione del suo significato. Volto e maschera qui sono entrambi
parte del modo levinasiano di intendere l’esteriorità. L’altro mi appare
infatti al di là dell’“alternativa della verità e della menzogna, della
sincerità e della dissimulazione”, con “il privilegio di colui che si
mantiene in una relazione di assoluta franchezza”. Vi è tra l’io e l’al-
tro, l’io e il tu, un’asimmetria radicale. L’intersoggettività è descritta
dallo stesso Lévinas come un’intersoggettività asimmetrica. La co-
stituzione dell’io parte sempre dal riconoscimento del volto dell’al-

146
tro, del tu. Il tu non è prima di tutto io, cioè è diverso da quella che
Lèvinas chiama la totalità, l’io penso o la coscienza della filosofia
moderna, bensì è io solo grazie al tu, ovvero all’esteriorità del volto
dell’altro. Il linguaggio stesso, per Lévinas, e in particolare il discorso
dialogico, non si produce se non nel faccia a faccia tra due persone –
faccia a faccia che è però descritto come un’esperienza interiore alla
soggettività nella quale la soggettività è di fronte alla trascendenza
dell’altro. In questa asimmetria il soggetto è per Lévinas e per alcuni
suoi interpreti il frutto di un’analogia. L’espressione “analogia del
soggetto” utilizzata da Marco Maria Olivetti, filosofo pressochè con-
temporaneo di Lévinas, è utilizzata insieme ai concetti di “proie-
zione”, “identificazione” o “immaginazione” del soggetto. É grazie
alla particolare lettura che Olivetti dà del pensiero di Lévinas e della
sua etica del volto dell’altro, che il concetto di maschera emerge come
concetto fondamentale per comprendere il rapporto tra interiorità e
esteriorità. La maschera della persona, se ci cerca di comprendere il
rapporto tra interiorità e esteriorità così come Lévinas lo descrive nel
suo libro, sarebbe, secondo Olivetti, un’apparizione che mi permette
di immaginare l’interiorità dell’altro tramite il processo dell’analogia,
della proiezione e dell’identificazione. La maschera è l’apparizione
di un’esteriorità ovvero l’aspetto oggettivo del soggetto. Ci sono però
almeno due accezioni attraverso cui Lévinas (e con lui Olivetti) in-
tendono il rapporto tra l’uomo e la maschera. Il primo è il modo di es-
sere dell’io della filosofia moderna, l’io che fraintende e non vede
l’altro. Scrive Olivetti: “Nell’atteggiamento immorale la «persona»
che mi sta «di fronte», che mi mostra la sua faccia o facciata, che mi
volge il volto, che mi mira e mi prende di mira col suo viso, è sem-
plicemente ed etimologicamente la maschera, la «parvenza»
«esterna», l’oggettività di un soggetto”. In questo caso il volto del-
l’altro non basta a farmi uscire dal cosiddetto mondo, cioè dalla sog-
gettività intesa come perseverare nel proprio essere. Scrive ancora
Olivetti: “L’esteriorità della persona a cui mi rivolgo è allora
un’esteriorità interna al mondo e l’interiorità soggettiva che tale ma-
schera o facciata mi manifesta è essa stessa interna al mondo, non
rinvia ad un’esteriorità radicale, al di là dell’essere, fuori scena”.
Sulla scena invece, che è lo spazio aperto dall’“inter-locuzione” –
concetto che Olivetti elabora non solo a partire dal Lévinas – le per-

147
sone, i personaggi o personanti sono allo stesso tempo enti e più e
altro che enti. Il presente del volto che mi rivolge la parola è il pre-
sente dei parlanti che fanno risuonare la loro voce attraverso la ma-
schera e attraverso la maschera pronunciano la loro persona,
rinviando all’al di là dell’essere che è allo stesso tempo fuori dalla
scena. Scrive Olivetti: “L’essere «è» la scena dispiegata dall’inter-
locuzione. Su questa scena gli enti insidono, e su di essa insidono gli
stessi locutori, enti fra gli enti, e insieme più e altro che enti. Enti, in
quanto insidono su quella scena dell’essere che la loro interlocuzione
dispiega, e vi appaiono come persone o personaggi o personanti. Ma
più che enti e altro che enti, perché l’essere come scena dispiegata
dall’interlocuzione, è un raccoglimento che – letteralmente – non ha
luogo al di fuori dei personanti che ne dispiegano la scena. Non ha
luogo e, bisogna aggiungere, non ha tempo, perché il tempo «è» la
stessa non sincronizzabile e non misurabile diacronia dell’interlo-
cuzione.” Dall’altra parte, l’atteggiamento morale, che può essere de-
finito come quello della relazione allocutivo-interlocutiva originaria,
secondo Olivetti, si dirige verso l’esterno del mondo. Esistere, se-
condo Lévinas, ha un senso che si trova in un’altra dimensione che
non sia il semplice perdurare della totalità. Il tempo, la morte sono
sconfitti in questa dimensione che è quella della relazione pluralista,
della bontà dell’essere per l’altro, della giustizia. “Il superamento del-
l’essere a partire dall’essere”, così scrive Lévinas, ovvero “a partire
dal rapporto con l’esteriorità, non si misura attraverso la durata”. La
critica di Lévinas alla totalità dell’io della filosofia moderna, al so-
lipsismo che è il rischio quasi inevitabile della filosofia soggettivistica
ma anche della “sociologia, psicologia e fisiologia” moderne, scrive
Lévinas, è una critica che lancia un appello a riscoprire l’esteriorità
come altro da sé. In questa critica la maschera ha un ruolo essenziale
nel permettere di ri-velare, coprire e svelare allo stesso tempo. La
maschera dischiude la possibilità della relazione con l’altro da sé, con
l’altro che è irriducibile al sé. In questa relazione entrano in gioco
molti concetti anche di carattere metafisico, l’idea dell’infinito che è
in me, ad esempio, il concetto di desiderio dell’infinito. Così scrive
Lévinas: “L’espressione o volto eccede tutte le immagini già imma-
nenti in me […]. In quanto presenza dell’esteriorità, il volto non di-
venta mai immagine o intuizione. Ogni intuizione dipende da un

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significato irriducibile all’intuizione. Essa viene da più lontano ed è
la sola a venire da lontano. Il significato (signification), irriducibile
alle intuizioni, si misura attraverso il Desiderio dell’altro o la rela-
zione con l’infinito.” Questa relazione con l’infinito è relazione con
l’infinito che è posto in me e che pure io non posso contenere com-
pletamente. La maschera dunque non rappresenta più come per Niet-
szche e in generale nella filosofia classica moderna lo strumento per
cogliere l’unica parte conoscibile dell’essere: l’apparenza, per Lévi-
nas l’esteriorità rappresenta piuttosto l’altro al di là dell’essere, o me-
glio la sfera dell’eticità, del riconoscimento dell’infinito nel finito.
La maschera è qui una metafora che serve a concepire in maniera del
tutto nuova un’esteriorità mai afferrabile, irriducibile all’io, alla to-
talità dell’io, e che dovrebbe permettere alla filosofia, almeno nelle
intenzioni del filosofo francese, di non cadere nel rischio del solipsi-
smo soggettivistico e di rimettere l’etica al centro della filosofia.

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150
11. Maschere e salute
di Marco Ramazzotti Stockel

Parlo di Africa sub-sahariana ma si tratta di un continente, e le ge-


neralizzazioni vanno accuratamente pesate. Il mondo africano tradi-
zionale ha due dimensioni: una dimensione invisibile, onnipresente,
popolata d’esseri mitici, spiriti, le anime degli antenati, un’altra è la
residenza degli uomini, ottenuta dalla Natura, un Tutto penetrato dal
divino, d’essenza super-naturale, uomini e cose della stessa natura e
della stessa sostanza. L’Uomo non è al centro delle cose. Fa parte del
ciclo eterno della vita. La morte stessa è integrata nel circuito vitale.
Ci sono legami profondi tra vivi, morti e spiriti: gli spiriti sono pre-
senti quotidianamente nella vita dell’uomo; la statuetta – feticcio – ne
concretizza la presenza, le maschere partecipano all’educazione del
clan. Al centro delle preoccupazioni dell’Uomo è mantenere il rap-
porto e il dialogo con gli antenati onnipresenti, promuovere la vita e
il suo ciclo eterno, rispettando la comunità e i tabù. L’uomo africano
regola la sua vita sociale secondo le sue credenze religiose, che di-
ventano irrimediabilmente le sue realtà. Alcune figure e certe ma-
schere, come quelle che vi presenterò, possono presentare deforma-
zioni fisiche causate da malattie o da squilibri mentali. Molti oggetti
che mostrano la malattia sono usati per mettere in guardia contro com-
portamenti anti-sociali. Immagini di deformazioni sono anche consi-
derate rappresentazioni di forze negative o di spiriti malevoli che si
attivano quando si trasgrediscono valori morali, quindi una connes-
sione tra malattia e comportamenti.

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Fig. 1: Maschera idan, Yoruba della Nigeria; usata durante la festa di Egungun; rappresenta
lo stereotipo dello straniero, rappresentato come malato e con distorsioni facciali.

Mi mandarono in Mali a convincere i maliani a bere l’acqua della


pompa invece di quella attinta dal fiume o dal ruscello. Ma non c’era
verso che la pompa fosse usata. Non si muove foglia che Dio non vo-
glia. Dio è la causa di tutte le cose. Se è Dio che manda le malattie,
che rapporto c’è tra bere l’acqua del fiume e l’ammalarsi? Nessuno,
perché è Dio che l’ha voluto. Così è stato per secoli e (fino a poco
tempo fa) anche in Europa. Preti e pastori invocavano l’aiuto di Dio
contro le malattie (chi le manda è anche capace di curarle). Questa è
religione. Poi c’è la magia: oggi, in Europa, in Occidente, ci sono mi-
riadi di streghe e stregoni, per tutti i bisogni umani. Quindi Dio
manda le malattie. Come curarle?

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Fig. 2: Tappi per zucche contenenti medicine: un individuo sano e uno con paralisi facciale.

Dio è lontano dagli uomini. Per chiedere aiuto a Dio occorrono


degli intermediari che sono gli spiriti degli antenati. Anche spiriti e
antenati possono provocare malattie. Gli spiriti li troviamo nelle co-
smogonie. Al riguardo vd M. Griaule. Altri spiriti sono quelli che vi-
vono nelle sorgenti, nel fuoco, nella montagna, nella foresta. Gli
antenati sono il mio bis-bis-bis nonno, mio padre che, dall’aldilà, mi
curano e mi proteggono. Se mi comporto bene!

153
Fig. 3-4-5: Maschere mbangu Pende, Congo Kinshasa; rappresentano un cacciatore molto
stimato che è stato colpito da paralisi facciale.

Anche la persona più stimata e corretta di una comunità può essere


vittima di una malattia. Per i Pende, la persona è vittima di stregone-
ria: spesso un invidioso. La pittura bianca e nera indica le cicatrici che
la persona si è procurata cadendo sul fuoco a causa dell’epilessia o di
qualche altra malattia. La salute è il risultato del vivere nella comu-
nità secondo regole religioso-sociali, onorando gli antenati e gli spi-

154
riti della natura, facendo il proprio dovere nei riguardi degli antenati,
spiriti e comunità. È il risultato del comportarsi bene.

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Fig. 6-7-8: Maschere idiok ekpo, ibibo, Nigeria; maschere che rappresentano antenati im-
morali e discussi. La bruttezza morale è rappresentata dalle superfici scure e dalle defor-
mazioni dovute a malattie come la lebbra.

Che significa comportarsi bene per restare in salute? Credere in


Dio e nelle sue regole. Rispettare gli antenati, le regole religiose e
sociali della comunità, del popolo. Ci si può ammalare dopo aver in-
fastidito, avvertitamente o inavvertitamente, uno dei tanti spiriti, be-
nefici o malefici, che vivono intorno agli uomini. Le malattie possono
avere origini magiche: qualcuno vuole male a qualcun altro. Una suo-
cera! Le origini della malattia sono determinate dalla cultura e dalla
storia di ogni singolo popolo. Va tenuto ben presente che i guaritori
tradizionali, la medicina tradizionale e i sistemi di credenze relativi
a salute e malattia variano da regione a regione e da popolo a popolo.

Indovini, cacciatori, guaritori, la medicina e la natura selvaggia

La natura selvaggia e il villaggio sono due aree d’esperienza di-


stinte e separate. Lasciare il villaggio significa entrare in un mondo
esterno imprevedibile e pericoloso. Ma questo passaggio può essere
mediato da quelle persone che sono in grado di creare alleanze con gli
spiriti della natura selvaggia, possono trasformarsi in spiriti o ani-
mali, possono diventare chiaroveggenti, o usare come medicine pro-

156
dotti della natura. Gli spiriti desiderosi di avvicinarsi al mondo degli
umani chiedono di prestare loro attenzione affliggendo gli umani con
sfortune, disturbi fisici o mentali. Essere posseduto da uno spirito mi-
naccia l’equilibrio psichico, sociale, e la produttività della persona. E
non solo. Minaccia la stabilità della comunità.
Le maschere rinchiudono, incapsulano le particolari conoscenze
che permettono ai cacciatori (professionisti) di trasformare ingre-
dienti naturali in medicine e dare assistenza alla loro comunità ap-
profittando di alcuni poteri della natura selvaggia.
La scultura può aiutare nell’ammansire spiriti, localizzandoli e
regolarizzando i loro comportamenti. La scultura può funzionare da
surrogato di un corpo, dato che gli spiriti, a volta, sembrano possedere
in modo intercambiabile il corpo di una persona o la scultura.
La dicotomia villaggio-natura selvaggia a volte sottolinea concetti
di salute-malattia. Gli spiriti, streghe e stregoni, e altri esseri associati
alla natura selvaggia son spesso considerati responsabili di malattie.
Di conseguenza, molte medicine sono efficaci per il loro legame con
la natura selvaggia. L’arte è una maniera per arrivare ad una media-
zione con la natura selvaggia e i simboli dei rituali danno forma vi-
sibile a cose sconosciute, esprimono in modo concreto e familiare ciò
che è nascosto e imprevedibile. Permettono agli uomini di addome-
sticare le forze selvatiche, ribelli e capricciose. Quasi tutta l’arte e i
rituali legati alle professioni d’indovini, cacciatori, agricoltori, gua-
ritori, fabbri hanno una funzione terapeutica o protettiva per com-
battere stregoneria, magia, sfortuna, malattie.

Fig. 9: Indovino-Guaritore tradizionale nganga, Popolo Vili, Congo Brazzaville. Foto del 1900ca.

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Come faccio a capire se sto male, perché sto male, che tipo di ma-
lattia mi abbia colpito? per quale ragione? Per capire ci vuole una
persona che “veda dietro le cose”, “che veda nel mondo delle ombre”,
degli spiriti, dunque, un indovino. Utilizza metodi di diagnosi come
la divinazione e l’interpretazione dei sogni. Dirà al paziente cosa gli
sta succedendo, se ha commesso peccato verso gli antenati, gli spiriti,
Dio, o se ha commesso errori verso i suoi familiari, la comunità, il po-
polo. Gli indovini sono persone molto rispettate, non sono degli im-
bonitori, non si approfittano della buona fede delle persone. Hanno
diverse maniere e pratiche per “capire”. Suggerisce lui una cura, o
qualcosa da fare, o indicherà un “guaritore”. A seconda delle malat-
tie, ci sono guaritori del corpo e quelli dell’anima. Il guaritore può
usare terapie a base di diete, psicoterapia, chirurgia e fito-medicina,
come può eseguire esorcismi, rituali, sacrifici e altre procedure. Tra
i guaritori contiamo anche le ostetriche tradizionali, che fanno largo
uso di piante medicinali locali per facilitare la nascita dei bambini. Ci
sono malati che si curano a casa (prevalentemente i malati del corpo),
altri che vanno all’ospedale del medico tradizionale (prevalentemente
i malati di mente).

Fig. 10: Fischietto, Kongo, Congo Kinshasa. Fischietti di questo tipo sono usati dai guari-
tori e dagli indovini (a anche dai cacciatori) per contattare gli spiriti.

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Fig. 11: Martelletto lawle per battere un gong, Baule, Costa d’Avorio: gli indovini sono abi-
tuati ad entrare in trance quando sentono un gong di ferro.

Fig. 12: Zombo, Angola; durante i rituali della divinazione, si usa un tamburo piccolo a fen-
ditura centrale per dare un ritmo alla cerimonia. Alcuni tamburi sono “caricati” di sostanze
magiche.

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Fig. 13: Bwa, Burkina Faso. La figura rappresenta l’incarnazione come maschera di uno
spirito protettivo. Viene usata dall’indovino durante la divinazione.

Fig. 14: Senufo, madebele, Costa d’Avorio. Durante il rituale di divinazione, alcuni indo-
vini usano statuette. Questa madebele serve come punto di inserimento dello spirito che
viene sollecitato ad aiutare l’indovino.

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Fig. 15: Songye, paniere per la divinazione, Congo Kinshasa, questo contiene pelle di ser-
pente, pelle di animale, baccelli e semi, avorio, pietre, conchiglie, metallo, figurine minia-
turizzate. L’indovino richiama gli spiriti scuotendo il sonaglio. Agitando il paniere, mette in
determinate posizioni fra di loro gli elementi del paniere e poi “legge” la configurazione del
suo contenuto che gli permette di identificare le cause del male.

La malattia mentale

Sono considerati malati di mente:


• Individui “alienati”, in stato di “mancata realizzazione”, in rap-
porti degradati con il loro ambiente (deboli di mente, posseduti
dal malocchio o al di fuori delle regole locali di salute mentale).
• Trasgressori dell’ordine costituito, che modificano l’ordine del
linguaggio logico, le regole del contratto sociale.
• Individui sotto attacco temporaneo di spiriti ancestrali, colpe-
voli di aver infranto tabù, vittime di stregoni antropofagi stra-
nieri.

L’intervento “medico” sulla malattia mentale è imposto dalla ne-


cessità di conservare la coesione della comunità e dalla volontà di
reintegrare l’individuo deviante nel gruppo sociale. La salute della
comunità è minacciata da qualsiasi allontanamento o separazione. La
comunità organizza il “ritorno” utilizzando un’interpretazione del
comportamento in collegamento con il mondo degli spiriti: non si

161
tratta di una disgrazia ma di una causa estranea al malato, che non è
né colpevolizzato né responsabile. La guarigione del malato si ot-
tiene riequilibrando i rapporti tra il malato, la sua famiglia, gli spiriti
ancestrali e l’assemblea comunitaria terapeutica attraverso i riti. Un
metodo che garantisce un’assistenza quasi totale al malato: che tratta
l’angoscia degli errori (parlare e rassicurare), che reinserisce nella
tradizione culturale, che socializza gli errori attraverso le confessioni
pubbliche, che stimola l’emozione e la partecipazione con le danze te-
rapeutiche e le cerimonie di “de-possessione”, di liberazione dallo
spirito maligno.

Fig. 16: Asta Yoruba, Nigeria. L’erbalista yoruba ha un’asta decorata con vari uccelli. Come
l’indovino, combatte contro la magia, che è la fonte delle patologie umane. L’asta è l’inse-
gna di chi combatte la malattia mentale e la malattia del corpo.

162
Fig. 17: Suku, kamungu, Congo Kinshasa. È la più grande maschera usata dai Suku e dagli
Yaka per l’iniziazione. Ha una controparte femminile chiamata kazeba. Entrambe queste
maschere sono usate per il trattamento dell’impotenza e della sterilità, sono conservate nel
santuario mbwoolo, che è la società che garantisce salute e vigore a livello individuale e co-
munitario.

Fig. 18: Clistere, Kuba, Congo Kinshasa.

163
Fig. 19: Maschera loniakè, Tusyaan, Burkina Faso; in questo popolo Dio si incarna in una
maschera di bufalo. Una volta l’anno, le maschere del bufalo danzano per i villaggi per pu-
rificare le abitazioni e la popolazione contro le forze negative che possono portare malattie
e altri problemi.

Fig. 20: Maschera sagbwe, Dan, Costa d’Avorio. I Dan credono in un creatore di nome Zlan
che diede loro la forma della maschera come difesa da dolori e calamità.

164
Medicina occidentale o biomedicina e medicina tradizionale

La medicina tradizionale ha un approccio globale sia ai problemi


della vita e della salute, sia nei suoi rapporti tra guaritori e malati: è una
medicina di relazione e di partecipazione individuale e comunitaria.
La medicina occidentale è fondamentalmente associata solo a ma-
lattie del corpo fisico e si basa su principi elaborati dalla scienza, dalla
tecnologia, dalla conoscenza e dall’analisi clinica di origine europea.
Le cause e il trattamento delle malattie sono legate a cause materiali.
La medicina occidentale o biomedica definisce le pratiche delle me-
dicine tradizionali fito-terapia. Ne coglie solo l’uso di piante medi-
cinali, non ne vede gli aspetti sociali, religiosi, tradizionali e soprat-
tutto non ne apprezza il collegamento tra salute fisica e salute psichica.

Le maschere africane, cosa sono e a che cosa servono

Per esprimersi, l’Europa e l’occidente hanno avuto sia l’arte che la


scrittura. L’Africa ha avuto solo l’arte, che quindi ha acquisito un si-
gnificato di trasmissione di concetti e di conoscenza ulteriore e maggiore.
La scrittura, come modo di trasmissione e di diffusione della conoscenza,
è stata sostituita dai processi d’iniziazione. Parlare di arte africana si-
gnifica parlare delle espressioni artistiche di un intero continente, su un
arco di tempo di migliaia di anni (le pitture rupestri sono vecchie di mi-
gliaia di anni). Le ragioni del perché avere arte o fare arte cambiano con
i tempi. Inizialmente tutte o quasi tutte le civiltà hanno usato l’arte:
• Come modo di comunicare, come modo d’insegnare la religione.
• Come legittimazione del sistema sociale (religioso-politico-
economico …).
• Poi trasformata in comunicazione/insegnamento del bello
(l’arte per l’arte).
• Come comunicazione del significato che l’artista vuole dare
alle cose che lo circondano.

Se scegliamo di vedere il mondo per quello che è in termini di


guerre, violenze, fabbriche, sfruttamento, fame, povertà, lotta, allora
l’ideale del bello – l’arte per l’arte – non funziona più. Il bello è, ahi-

165
noi, per pochi (ricchi). Secondo questa teoria la realtà non va accet-
tata ma interpretata, quindi l’arte è politica. E siamo arrivati alla fine
del XIX, inizi del XX secolo. L’artista africano tradizionale rifiuta la
concezione dell’arte per l’arte. Piuttosto intende l’arte come fenomeno
religioso, o come comunicazione del significato che l’artista vuole
dare alle cose che lo circondano. Mesquitela Lima: “Questa scultura
sembra significare più che rappresentare, senza essere funeraria, ci
trasporta nel dominio del religioso”. L’arte africana non rappresenta
il mondo come lo vediamo, ma gli antenati, gli spiriti, un mondo re-
ligioso. In Africa non serve rappresentare la realtà come la si vede:
l’arte è diretta prevalentemente alla preghiera, all’insegnamento, a rap-
presentare figure ideali e senza tempo. La statua o la maschera devono
piacere agli spiriti e agli antenati, deve funzionare per loro e non per
gli uomini terreni. È più importante “significare” che decorare o pro-
durre “il bello”. Un’altra caratteristica africana: in Occidente l’opera
d’arte è fatta ed è esposta essenzialmente per essere vista. In Africa,
una statuetta era ed è tenuta nascosta o seminascosta ed è periodica-
mente ricoperta di offerte agli antenati, agli spiriti … Tradizional-
mente, la statuetta non era fatta per essere ammirata ma usata.

Funzioni principali delle maschere

Le maschere danno un significato alle cerimonie di iniziazione, si


usano a teatro, ricordano i miti e la cosmogonia, ricordano eventi
della comunità o dell’etnia (funzione educatrice). Ivan Bargna (Di-
zionario della Civiltà, Africa, Electa) fa la seguente citazione: fra i
Dogon (Mali) “la società delle maschere è l’immagine del mondo. E
quando si mette in movimento nella piazza pubblica, essa danza la
marcia del mondo, danza il sistema del mondo. La maschera kanaga
dei Dogon in particolare, rappresenta il mondo così come Dio lo ha
creato: l’elemento verticale rappresenta l’asse che collega la terra al
cielo mentre il movimento circolare della danza richiama il gesto
della creazione”. Inoltre le maschere:
• Proteggono intervenendo durante crisi sociale e individuali,
contrastando la stregoneria, contribuendo a curare le malattie
(funzione protettiva).

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• Propiziano la fertilità femminile e dei campi, chiedono agli spi-
riti dell’acqua di garantire abbondanza di pesca o di acqua da
bere nel pozzo (funzione di promozione della produzione e della
riproduzione).
• Rappresentano e onorano figure dell’aldilà: antenati, spiriti, fi-
gure mitiche; danno il potere di accedere all’aldilà, di entrare in
trance, in possessione spiritica, e beneficiare della forza degli
antenati; possono incarnare i morti; possono permettere un con-
trollo sugli spiriti (funzione religiosa).
• Reliquiari (teste o figure) che possono passare per maschere
sono usati tra i Fang e i Kota (Camerun e Gabon) per proteg-
gere le ossa dei morti, che dovevano essere consultati quando
la gente doveva prendere decisioni importanti o nelle cerimo-
nie di iniziazione (funzione di protezione delle ossa degli ante-
nati).
• Rappresentano istituzioni pubbliche, tutelano lignaggi e vil-
laggi, commemorano i grandi capi e i re, garantiscono la tra-
smissione del potere al successore, mantengono l’ordine
sociale, mostrano la ricchezza, e fasti e la potenza di un re, di
uno Stato; indicano lo status sociale di una persona che le porta
(funzione politico-religiosa).
• Le danze con le maschere sono un fattore di coesione sociale
(funzione di socializzazione) per la comunità e di questa con
altri gruppi, fornendo l’occasione per divertirsi (funzione di ce-
lebrazione di eventi gioiosi e di divertimento).

Ciò che fornisce forza ed efficacia alle maschere, alle statue, non
è la figura in sé ma la sua capacità di collegare il mondo degli uomini
con il mondo degli spiriti, fornita dalla religiosità dell’artista o di chi
“consacri” l’oggetto.

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Autori

Antonino URSO - Psicologo e Psicoterapeuta, Presidente Associazione Ita-


liana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo (www.psico-
terapiagruppo.org), docente incaricato di Psicologia Sociale e Psicodi-
namica della Relazioni Familiari - corso di Laurea in Scienze Politiche
e delle Relazioni Internazionali - Facoltà di Scienze Sociali della Ponti-
ficia Università San Tommaso di Roma; Docente di Etica e Deontologia
- corso magistrale di laurea in Psicologia - Facoltà di psicologia - Uni-
versità Unicusano; Docente/Didatta della Scuola di Specializzazione in
Psicoterapia Cognitivo comportamentale dell’Adulto e dell’Età Evolu-
tiva “Training School” di Roma, già Consigliere e Coordinatore della
Commissione Deontologica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (2006-
2014). Autore o coAutore di numerose pubblicazioni nei campi: della Psi-
cologia Clinica (tra le quali “Casi Clinici”, Terapia del comportamento,
Bulzoni, 1991; “Psicoanalisi”, voce del Nuovo Dizionario di Bioetica a
cura di S. Leone e S. Privitera, Città Nuova, 2004; “Depressione e Feli-
cità” in Scienze del Pensiero e del Comportamento, 2011; “La Psicote-
rapia di Gruppo: l’approccio cognitivo comportamentale”, Anicia, 2016;
“Appartenenza ed Identità” (con Crosthwaite A.), Anicia, 2016; “Ma-
schera e Psicoterapia”, ed. Anicia, 2017) dell’Etica della Professione (tra
le quali “Etica e deontologia professionale” in M. di Giannantonio e M.
Alessandrini Metamorfosi nella Psichiatria Contemporanea: compe-
tenze, esperienze, tendenze, ed. Magi, 2006; “Formazione etica ed etica
della formazione” in Bortone G. Formazione e cambiamento, Aracne,
2008.); della Psicologia Scolastica (tra le quali “Psiche tra i Banchi: teo-
ria e prassi dell’intervento psicologico a scuola”, Anicia, 2004; “Il bul-
lismo in Italia: cause e diffusione” in Gagliardini I. e Bortone G. L’ag-
gressività e il bullismo nella scuola, prevenzione e intervento, ed. Kappa,
Roma, 2007; “Lo Psicologo va a Scuola: esperienze e strumenti di in-
tervento”, Anicia, 2008); della ricerca in Psicoterapia (tra le quali “Me-
todi di ricerca in terapia e modificazione del comportamento” con Me-

179
azzini P. e Sanavio E., in Trattato Teorico Pratico di Terapia e Modifi-
cazione del Comportamento, ed Erikson, 1983; “Efficacia della Psico-
terapia” in Scienze del Pensiero e del Comportamento 2008); delle
Scienze Sociali (tra le quali “Prosocialità e altruismo: una strada da per-
correre”, in Oikonomia, rivista di etica e scienze sociali, 1999; “Comu-
nicazione e socialità. Alla base del senso dell’esistenza” in Favorini A.M.
e Russo F. Relazioni e Legami nell’Esistenza Umana, la Lezione di Vik-
tor E. Frankl, Franco Angeli, 2014; “Migrazione: etica sociale e acco-
glienza psicologica” in Oikonomia, rivista di etica e scienze sociali,
2014); “Maschera e Psicoterapia”, Anicia, 2017.
Alejandro Crosthwaite, OP - Decano della Facoltà di Scienze Sociali; Pro-
fessore Aggregato di Dottrina sociale della Chiesa, Etica sociale e poli-
tica, e Mass Media presso la Facoltà di Scienze Sociali; Professore In-
vitato della Facoltà di Teologia e dell’Istituto Mater Ecclesia,
Pro-Addetto alle relazioni pubbliche presso la Pontificia Università di
San Tommaso d’Aquino (Angelicum) a Roma, Italia. P. Crosthwaite ha
completato i suoi studi di dottorato in teologia e società presso la Mar-
quette University, Milwaukee, Wl, USA (2006), concentrandosi in etica
politica e dottrina sociale della Cbiesa, così come gli studi di mass me-
dia focalizzandosi sull’interazione tra teologia pubblica, cultura, cinema
e trasformazione sociale. n 3 giugno 2010 Crosthwaite ha conseguito la
Licenza in Teologia Sacra (STL) presso la Pontificia Università San Tom-
maso d’Aquino, concentrandosi su “La globalizzazione alla luce della
dottrina sociale della Chiesa.” Il 7 febbraio 2011, il Prof. Crosthwaite è
diventato Docente Stabile con la qualifica di Professor Aggregato presso
la Facoltà di Scienze Sociali. Prof. Crosthwaite è membro della Society
of Christian Ethics, The Catholic Theological Society of America, The
American Academy of Religion, e The Society for the Study of Chris-
tian Ethics (RU), e Societas Ethica (UE). È l’autore di diverse conferenze
e articoli sul pensiero sociale e politico di San Tommaso d’Aquino, etica
sociale e politica dell’America Latina e Ispanica e studi sui mass media.
Chiara Adorisio - Ricercatore a tempo determinato (Programma Rita Levi
Montalcini) presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Sapienza
di Roma a partire dall’anno accademico 2011. Insegna Storia della filo-
sofia morale e Antropologia filosofica III presso lo stesso Dipartimento.
Ha insegnato inoltre Filosofia ebraica presso l’Istituto di Jewish Studies
dell’Università di Halle-Wittenberg in qualità di Visiting Professor
(2005-2007) e presso l’Università ebraica di Gerusalemme in qualità di
Visiting Fellow del Franz Rosenzweig Minerva Center (2007-2009). Ha
svolto attività di ricerca in Germania come Senior Fellow della Alexan-
der von Humboldt Stiftung e della DFG (Deutsche Forschungs Ge-

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meinschaft) presso l’Università di Erfurt. Collabora con il Maimonides
Centre for Advanced Studies dell’Università di Amburgo. Per l’elenco
delle pubblicazioni e delle altre attività di ricerca si rinvia alla pagina web
dell’Università Sapienza di Roma (www.lettere.uniroma1.it/users/chiara-
adorisio).
Olga Chiaia - Psicologo e Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale,
esercita attività di Psicoterapia Individuale e di Gruppo, corsi di Min-
dfulness e Supervisione di équipe di educatori sociali di comunità, è au-
tore di diverse pubblicazioni in Psicologia.
Paolo Cinque - Iscritto all’albo professionale degli Psicologi del Lazio, do-
cente di filosofia e scienze sociali nelle scuole medie superiori statali, do-
cente invitato di Psicologia generale, Psicologia della personalità e Psi-
cologia delle relazioni di gruppo presso l’Istituto di studi religiosi e
sociali “Mater Ecclesiae” della Pontificia Università “San Tommaso
d’Aquino” di Roma, coautore di diverse pubblicazioni di psicologia
scolastica (ed. Aracne, Roma) e del volume “Nuovi saperi per la scuola.
Le scienze sociali trent’anni dopo” (Marsilio Editore, Padova 2007).
Teresa Di Bonito - Psicologo e Psicoterapeuta, docente di filosofia e Psi-
cologia e Scienze dell’Educazione presso il Liceo Classico Benedetto
da Norcia di Roma, docente incaricato presso l’Istituto Mater Ecclesiae
- Facoltà di Teologia della Pontificia Università San Tommaso di Roma;
Docente Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo Compor-
tamentale dell’ Adulto e dell’Età Evolutiva (Training School) di Roma.
Camillo Loriedo - Professore Associato di Psichiaria (Med25), Diparti-
mento di Neurologia e Psichiatria, Facoltà di Medicina, Università La Sa-
pienza e Direttore della UOC di Psichiatria e Disturbi del Comporta-
mento Alimentare (NP10C); Direttore (dal 2013) del Master
Universitario di II Livello “Diagnosi e Trattamento dei Disturbi del
Comportamento Alimentare”.
Annamaria Mandese - Scuola della Accademia di Psicoterapia Psicoana-
litica (SAPP).
Piero Petrini - Psichiatra, neurologo, psicoterapeuta psicoanalitico, è re-
sponsabile Centro Disturbi Personalità (CDP), San Camillo DSM ASL
Rm D e Presidente del Centro di Psichiatria e Psicoterapia di Roma ed
Ancona. Presidente della Società Italiana di Psicoterapia (SIPSIC), è
membro del Direttivo SISST e direttore della Scuola dell’Accademia di
Psicoterapia Psicoanalitica (SAPP). È Fondatore e Direttore (con Luigi
Janiri ) della rivista “Idee in Psicoterapia”, edita da Alpes. È direttore
della Collana di Libri “Psicodinamicamente” edita da Franco Angeli
(Collana referata). È autore di numerosi libri, tra i quali: “La relazione
che cura” (curato con Alberto Zucconi) ed. Alpes, 2009; “I Disturbi della

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Personalità”, P. Petrini, N. Visconti, A. Casadei, A. Mandese ed. Franco
Angeli, 2012; “Trasgressione, Violazione e Perversione”, P.Petrini, A.
Casadei, F.R. Chiricozzi, Franco Angeli, 2011; “Psiche e Cambiamento”,
P. Petrini e G.I. De Carlo, Franco Angeli, 2013; “Dizionario di Psicoa-
nalisi” P.Petrini, A. Renzi, A. Casadei, A. Mandese, Franco Angeli, 2013.
Carlo Scogliamiglio (PhD) - Visiting Professor in Psychology 2, presso il
Dipartimento di Filosofia dell’Università Pontificia S. Tommaso
D’Aquino (Roma). Negli anni accademici compresi tra il 2011 e il 2014
ha svolto attività di docenza a contratto presso le università di Roma Tre
e La Sapienza. Insegna Filosofia e storia presso il Liceo Scientifico “C.
Cavour” di Roma. È fondatore e membro del Consiglio esecutivo della
Nicolai Hartmann Society. È autore di divere pubblicazioni e svolge at-
tività di ricerca (http://carloscogna.blogspot.com).
Marco Ramazzotti Stockel - Laureato in Diritto Internazionale, Fellow
del Churchill College di Cambridge (Africa Study Centre e antropolo-
gia). Socio-economista e antropologo. Insegnante di socioeconomia e
antropologia in Angola e Mali. Ricerche a Parigi, Bruxelles e Lisbona.
Conferenziere presso: Università di Roma 3 (antropologia africana), Pa-
rigi 1(antropologia giuridica), Università San Bonaventura di Roma (an-
tropologia africana), Scuola militare italiana di Roma, Scuola militare
tedesca di Ulm (antropologia della guerra). Principali temi sviluppati:
gestione sociale dell’acqua, diritti consuetudinari africani dell’acqua, al-
levamento tradizionale del bestiame e transumanze, produzioni agricole.
Costruzioni di strade e ponti con programmi “food for work”, costru-
zioni di case e barche in progetti di emergenza. Rifornimenti di cibo,
cure mediche e nutrizionali in campi di rifugiati. Organizzatore e inse-
gnante a corsi di sicurezza per ONG, missioni religiose e cantieri al-
l’estero. Direttore tecnico di cantiere di sminamento. Analista di conflitti
per la Commissione Europea in Sri Lanka. Ha lavorato per ONG ita-
liane e straniere, imprese di progettazione italiane, inglesi, tedesche,
francesi, canadesi; Commissione Europea; Agenzie dell’ONU (FAO;
IFAD; UNDP; UNICEF; UNHCR), NATO e Cooperazione Italiana; Mi-
nisteri della Difesa Tedesco e Italiano. Ha lavorato in 23 paesi africani,
4 asiatici, 1 latinoamericano, 11 occidentali (Europa, USA, Canada). È
autore di varie pubblicazioni in diverse lingue.

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