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Controriforma e disciplinamento
nella Milano cinquecentesca
Giannini legge De Boer

Wietse De Boer, La conquista dell’anima. Fede, disciplina


e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Einau-
di, Torino 2004 (ed. orig. 2001), pp. 373.

Il volume si apre con un’impegnativa affermazione:


«questo studio è dedicato a uno straordinario esperimento
sociale». De Boer dichiara così, sin dall’esordio, la sua visio-
ne: le vicende della Controriforma a Milano rappresentano,
nel loro insieme, «uno dei primi casi nella storia d’Europa in
cui una pubblica autorità compì un tentativo, organizzato su
vasta scala, di trasformare l’ordinamento sociale penetrando
nella coscienza dei sudditi». In tale quadro, un ruolo decisi-
vo spetta al sacramento della confessione dei peccati e alle
sue vicende nella realtà milanese, «principale laboratorio
della Controriforma» (p. XI). Al centro di questo scenario vi
è la figura di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal
1565 e promotore di un vasto processo di disciplinamento
del clero, di riaffermazione dell’autorità episcopale e di rior-
ganizzazione del tessuto ecclesiastico diocesano secondo
criteri gerarchici, al fine di dare concreta applicazione ai de-
creti del Concilio di Trento (pp. XVI-XVII).
Il libro si divide in due parti: la prima dedicata all’analisi
del programma di riforme borromaiche dal punto di vista
ideale e normativo e la seconda alla loro attuazione pratica.
Dopo aver analizzato la questione storiografica legata al bi-
nomio jediniano Riforma cattolica/Controriforma, propen-
dendo per ritenere i due concetti come facce della medesima
medaglia, De Boer prende le mosse, per la sua analisi del
problema del sacramento penitenziale a Milano al momento
dell’ascesa del soglio arcivescovile da parte di Borromeo, dal
«Storica», n. 32

trattatello sull’esame dei confessori attribuito al gesuita Die-


go de Carvajal. La denuncia degli errori e degli abusi tipici
del cattolicesimo cinquecentesco compiuta dal religioso ser-
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ve, a sua volta, a De Boer per introdurre una serrata disami-


na delle questioni connesse alla penitenza: il rifiuto dei fedeli
di confessarsi con sacerdoti ritenuti indegni, la renitenza dei
medesimi ad esporre i propri peccati e segreti a un altro indi-
viduo, poiché – nonostante la garanzia di segretezza – l’atto
sacramentale avveniva pur sempre sotto lo sguardo indaga-
tore di una realtà sociale pronta a giudicare il fedele che si
confessava, a rimarcarne la necessità di sgravarsi la coscienza.
De Boer, sulla scorta di una tradizione storiografica con-
solidata, oltre che delle denunce di Carvajal e dello stesso
Borromeo, mette in rilievo tutti i punti deboli del clero dio-
cesi ambrosiano: l’intreccio fra sfera religiosa e attività seco-
lari, la mancata residenza degli ecclesiastici che pure godeva-
no delle entrate di benefici legati alla cura d’anime, i livelli
assai diseguali di preparazione culturale, religiosa e teologi-
ca, i problemi connessi all’esenzione del clero regolare
dall’autorità dell’ordinario e la delicata questione della con-
fessione delle donne (causa del frequente peccato di sollicita-
tio ad turpia) (pp. 21-34). Pur rilevando che poco si sa circa
il «contesto sociale» e le «dinamiche di potere» che spesso
erano all’origine di accuse nei confronti dei confessori, l’au-
tore accetta in buona sostanza lo scenario di un sacramento
fortemente contestato o negletto. Ciò gli consente di attri-
buire una coloritura nettamente disciplinatrice e tridentina
all’azione di Borromeo, in particolare alla sottomissione dei
confessori all’autorità episcopale e all’imposizione dell’ob-
bligo per costoro di avere una licenza scritta dell’ordinario,
rilasciata previo esame, che li abilitasse all’esercizio della
confessione. La produzione normativa borromaica al riguar-
do appare a De Boer non solo volta a reprimere gli abusi e a
restaurare la disciplina ecclesiastica, ma a trasformare il clero
diocesano in una «categoria professionale il cui vincolo di
fedeltà si trasferisse dalle comunità locali alla gerarchia ec-
clesiastica» (p. 43). In tale contesto, è evidente, la confessio-
ne e i suoi ministri autorizzati – i sacerdoti con licenza
dell’ordinario – erano lo strumento di «un più ampio pro-
gramma di disciplina sociale» che, da un lato, rispondeva alla
negazione del valore del sacramento operata dai protestanti
e, dall’altro, era perfettamente rispondente alle esigenze del
processo di confessionalizzazione post-tridentina (pp. 47-8).
Ciò spiega perché Borromeo non solo attribuisse tanta at-
tenzione alla confessione, ma le conferisse un’importante
torsione in senso inquisitorio e giudiziario, verso un vero e
proprio «foro interno» (pp. 56-61). Di qui la delicata que-
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stione della definizione dei poteri di assoluzione del confes-


sore. In caso di sua mancata concessione, infatti, il penitente
avrebbe violato il precetto ecclesiastico che imponeva la
confessione in occasione della Pasqua, incorrendo così nelle
censure e nel deferimento al «foro esterno» rappresentato
dal tribunale vescovile. Assai importante era poi la questione
della repressione dell’eresia e della circolazione dei libri
proibiti. Come è noto, una bolla di Paolo IV (1559), stabiliva
che i penitenti i quali, nel segreto del sacramento penitenzia-
le, avessero mostrato di essere a conoscenza di notizie in
materia di eresia e di libri proibiti, avrebbero dovuto essere
rinviati dal confessore a riferire quanto sapevano all’Inquisi-
zione, prima di poter essere assolti (pp. 64-5).
De Boer si concentra particolarmente nell’analisi di que-
gli aspetti delle riforme di Borromeo che meno successo in-
contrarono fra i suoi contemporanei e i posteri: la reintro-
duzione della penitenza pubblica – peraltro sulla scorta dei
decreti tridentini – la condanna del lusso di abbigliamenti e
ornamenti femminili, fonte di condotte peccaminose, i divie-
ti di tutte le «occasioni di peccato» (feste, taverne, giochi e
balli) e soprattutto la battaglia condotta contro il carnevale.
Altro punto centrale del volume è la nascita del confessio-
nale, letta da uno studioso dell’importanza di J. Bossy come
progresso della devozione «privata», ma che, a parere di De
Boer deve essere collocato nel contesto della pretesa della
Chiesa cattolica di stabilire una giurisdizione sulle anime che
fosse sotto gli occhi di tutti (pp. 87-90). Tale arredo, nato a
Verona all’epoca dell’episcopato di Gian Matteo Giberti, ven-
ne adottato ufficialmente a Milano dal I concilio provinciale
del 1565. Attraverso lo studio delle Instructiones fabricae et
suppellectilis ecclesiasticae (1577) di Carlo Borromeo, redatte
in realtà dal suo collaboratore Ludovico Moneta, e delle pagi-
ne in esso dedicate al confessionale, De Boer rileva come, nel-
le intenzioni del presule, il confessionale dovesse avere la por-
ta sempre aperta ed essere collocato in un luogo visibile della
chiesa. Ciò affinché l’atto penitenziale si svolgesse alla vista di
tutti i fedeli. Tale concezione venne adottata perché consenti-
va di evitare il contatto fisico fra confessore e penitenti di ses-
so femminile e, più in generale, perché permetteva che confes-
sore e penitente si parlassero senza vedersi e fossero visti dagli
altri fedeli senza poter essere ascoltati (pp. 90-108).
Dopo gli aspri contrasti suscitati in seno alla società laica
dall’opera di Carlo Borromeo, la figura di Federico, suo cu-
gino, e arcivescovo di Milano dal 1593, appare caratterizzata
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da una «combinazione di diplomazia e di stoica rassegnazio-


ne». Questi, nell’ottica di un umanesimo cristiano e contro-
riformistico, puntò a una disciplina sociale più basata sulla
prudenza nei rapporti con il mondo laico e sulla disciplina
interiore che sulla mera contrapposizione. Sebbene i fini fos-
sero gli stessi di Carlo, e cioè quelli del disciplinamento reli-
gioso della società, Federico pose un accento nuovo sulla
cultura e sulla funzione della cristianizzazione come proces-
so di civilizzazione (pp. 128-9). Tale processo investiva in
primo luogo il clero che doveva assumere i tratti di un ordi-
ne ben distinto e separato dagli altri. L’attenzione disciplina-
trice di Federico si appuntava non solo sui comportamenti,
ma anche sul linguaggio «sconveniente», visto come offesa a
Dio e alla «civiltà», poiché esso rappresenta il legame decisi-
vo fra interiorità ed esteriorità (pp. 141-55).
La seconda parte del saggio ha al centro la difficile valu-
tazione dei risultati concreti del progetto borromaico, sulla
base dell’esame di quattro diversi livelli della disciplina peni-
tenziale: il controllo della frequenza del sacramento, i casi ri-
servati all’arcivescovo, l’istruzione e la formazione del clero
in materia penitenziale e il problema delle superstizioni. A
parere di De Boer, l’enorme divario che separava «i progetti
di riforma elaborati negli uffici vescovili dalla loro realizza-
zione sul campo […] era colmato da un ampio apparato di
sorveglianza e controllo» (p. 169). Il Borromeo infatti si de-
dicò con energia all’opera di sottomissione e di inquadra-
mento del clero secolare all’interno di una precisa gerarchia,
con al vertice il vescovo: i vicari foranei erano a capo di di-
stretti formati dalle parrocchie, in parte coincidenti con le
antiche pievi; i vicariati erano, a loro volta, raggruppati in
sette distretti sotto la supervisione di un visitatore vescovile.
Anche in città le parrocchie erano ripartite fra sei quartieri o
porte poste sotto la vigilanza di prefetti. Per il controllo di
questa nuova gerarchizzazione territoriale del clero, l’arcive-
scovo utilizzò vari strumenti: le visite pastorali, le «congre-
gazioni» (riunioni periodiche degli ecclesiastici di un vicaria-
to o di un distretto per discutere specifiche questioni e pro-
blemi legati all’esercizio del ministero sacerdotale), i sinodi
diocesani e i concili provinciali (pp. 171-3).
Borromeo fu promotore insieme ai gesuiti della confes-
sione frequente. Tuttavia il precetto della Chiesa (in vigore
dal 1215) prevedeva l’obbligo di confessarsi solo una volta
all’anno, in occasione della Pasqua, e quindi le autorità ec-
clesiastiche potevano intervenire solo quando tale obbligo
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non veniva disatteso. Di qui l’opera di creazione di un capil-


lare sistema di controllo. Dal 1574, ad esempio, venne resa
obbligatoria nella diocesi milanese la registrazione da parte
dei parroci delle confessioni, con rilascio del relativo certifi-
cato ai fedeli da parte dei confessori autorizzati dall’ordina-
rio e iscritti a un’apposita lista. Anche gli «inconfessi» veni-
vano iscritti in un elenco a disposizione dell’autorità eccle-
siastica per gli opportuni provvedimenti. In realtà il control-
lo sull’adempimento del precetto pasquale era assai proble-
matico, poiché si basava sul principio che tutti i fedeli resi-
denti in una parrocchia si recassero unicamente presso il
proprio parroco. A parte il fatto che i fedeli potevano otte-
nere l’assoluzione da confessori autorizzati e appartenenti a
Ordini religiosi, tutti coloro che, per ragioni lavorative o
d’altro genere (mercanti, soldati, viaggiatori, lavoratori sta-
gionali, vagabondi ecc.) non potevano ricorrere al proprio
parroco, erano, nell’ottica borromaica, a grave rischio di
peccato, specie se le loro attività li portavano in aree di fede
protestante (pp. 174-91).
Ciononostante, tale sistema, ad avviso di De Boer, «non
permetteva a una sola anima di sfuggire al controllo» (p.
192) e i principali problemi derivavano dalla gestione dell’in-
tenso «traffico» di confessioni nelle settimane precedenti alla
Pasqua, che metteva a dura prova i pochi confessori autoriz-
zati. A dire il vero, De Boer alcune pagine dopo corregge
parzialmente il tiro: a fronte delle rigide direttive impartite
nel 1574-75 dalla Curia arcivescovile milanese ai parroci in
materia di riconciliazione e ammissione al sacramento
dell’eucaristia, egli ricorda come il clero parrocchiale fu co-
stretto a sopportare «il peso di ogni genere di malcontento
contro quella forma di giurisdizione spirituale» (p. 203).
Numerosi furono gli ostacoli al «sistema disciplinare» bor-
romaico: da un lato, la tradizionale «resistenza» più o meno
passiva, dall’altro il fatto che «gli ambiziosi progetti di santi-
ficazione della vita pubblica milanese» minarono l’autorevo-
lezza dell’arcivescovo presso i gruppi dirigenti e lo posero in
contrasto con le autorità laiche. Infatti la «conquista
dell’anima» era destinata al fallimento se si affidava a stru-
menti eccessivamente duri di costruzione giuridica, né le au-
torità laiche erano disposte a consentire un disciplinamento
sociale che vedesse continuamente e massicciamente invasa
la sfera privata dei sudditi da parte dell’autorità vescovile.
Anche la Chiesa non poteva permettersi di ricorrere troppo
frequentemente e troppo a lungo alla sospensione dei pecca-
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tori dall’accesso ai sacramenti, senza rischiare di distruggere


quella stessa unità sociale che essa avrebbe dovuto cementa-
re. Infine Borromeo «proteggendo e promuovendo i privile-
gi ecclesiastici e l’autonomia della sfera religiosa, mise in se-
rio pericolo l’accordo fra Chiesa e Stato, condizione sine
qua non del confessionalismo» (p. 211).
Uno degli elementi maggiormente innovativi dell’opera
borromaica in tema di disciplina della penitenza fu il ricorso
alla definizione dei casi riservati all’ordinario diocesano o al
pontefice (oltre alla scomunica o all’interdetto che necessita-
vano dell’assoluzione «in foro esterno» da parte del papa o
del vescovo, prima di procedere a quella «in foro interno»
del confessore), con la creazione di un apposito funzionario
della Curia arcivescovile, il penitenziere, primo confessore
della diocesi dopo il vescovo che spesso gli delegava alcuni
dei propri compiti in materia di casi riservati (pp. 212-9).
Anche in tale ambito, però, i problemi furono parecchi, poi-
ché la pressione dei fedeli per ottenere le assoluzioni neces-
sarie a essere riammessi nella comunità finivano per cozzare
con la ferma volontà disciplinatrice dei vertici della Chiesa
ambrosiana (pp. 224-33).
De Boer analizza quindi il conflitto giurisdizionale del
1579, originato dalle divergenti visioni dell’ordine pubblico
di Borromeo e delle autorità laiche. L’arcivescovo, infatti,
proibì lo svolgimento, nei giorni festivi, di manifestazioni
assai importanti per la sociabilità del tempo (feste, giostre,
tornei, mascherate, balli) sotto pena di scomunica per orga-
nizzatori e partecipanti e di interdetto per gli spettatori. Tale
intervento suscitò una risentita reazione dei poteri laici (la
città di Milano inviò un’apposita missione a Roma per pro-
testare con il papa). Più in generale questi ultimi accusavano
l’arcivescovo di condurre una politica eccessivamente rigida
e sostanzialmente controproducente. Malgrado il tentativo
borromaico di ottenere l’avallo di Filippo II e la sconfessione
dell’operato delle autorità milanesi, il re cattolico fece cono-
scere la propria contrarietà alla durezza dimostrata dall’arci-
vescovo, nel nome delle esigenze della prudenza politica. Lo
stesso pontefice, Gregorio XIII, pur riaffermando il proprio
appoggio a Borromeo, non fece mancare segnali di preoccu-
pazione per quanto accadeva a Milano e di disapprovazione
per la troppa rigidità con cui si era mosso l’arcivescovo (pp.
242-50). Solo la morte di Borromeo, nel 1584, chiuse in so-
stanza la vertenza. Con i suoi diretti successori sulla cattedra
ambrosiana (Gaspare Visconti e Federico Borromeo), il si-
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stema disciplinare borromaico era destinato ad acquisire «un


grado ancor più elevato di compromesso, di burocratizza-
zione e di trascuratezza» (p. 253).
Altro aspetto affrontato dal libro è quello del disciplina-
mento del clero secolare, specialmente nelle aree rurali della
diocesi. Borromeo fu promotore di congregazioni mensili,
momenti di dibattito e di consultazione su questioni pratiche
legate a casi di coscienza. Queste congregazioni, così come
l’opera di miglioramento dei livelli culturali del clero, con
l’istituzione del seminario diocesano, rispondeva, secondo
De Boer – che su tale punto rimanda agli studi di L. Allegra,
G. Greco, A. Prosperi e A. Turchini – all’esigenza di dare
maggiore efficacia all’azione disciplinatrice, trasformando
«una eterogenea e irrequieta massa di sacerdoti, spesso cultu-
ralmente indistinguibili dai loro vicini laici, in un compatto e
ben riconoscibile corpo professionale» (p. 256). In tale conte-
sto, l’autore attribuisce grande rilievo al funzionamento delle
congregazioni del clero, che dovevano peraltro fare i conti
con la più o meno larvata ostilità di molti ecclesiastici e con
un’evidente conflittualità fra parroci e vicari foranei chiamati
a presiederle. Egli mostra come, durante l’episcopato borro-
maico, tali congregazioni fossero dedicate prevalentemente a
temi di pratica sacramentale e ai doveri liturgici del clero,
mentre, sotto i suoi due immediati successori, pur rimanendo
al primo posto la penitenza, assunse una notevole importan-
za l’esame dei peccati di natura «economica» (pp. 255-84).
L’ultima parte del volume è dedicata all’analisi di un caso
tardocinquecentesco di esercizio dell’autorità penitenziale in
senso inquisitoriale, secondo lo spirito borromaico, quello
del guaritore Bartolomeo Locatello. E noto che Carlo Borro-
meo operò per lo sradicamento delle pratiche magiche e su-
perstiziose ponendo di fatto i parroci in concorrenza con
l’Inquisizione. Tuttavia la dilatazione della giurisdizione in-
quisitoriale – più ancora che quella vescovile – su queste ma-
terie rese progressivamente impraticabile la via penitenziale.
Non a caso, fu un editto di Federico Borromeo del 1604 a
stabilire che i peccati di magia e superstizione che, fino ad al-
lora, erano stati di competenza del clero locale, dovessero es-
sere notificati all’arcivescovo o all’Inquisizione (pp. 312-3).

In tempi in cui il rapporto tra dimensione religiosa e vita


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collettiva è tornato prepotentemente alla ribalta dei mezzi di


comunicazione di massa, al volume di De Boer è toccato in
sorte di essere oggetto di riflessioni, come quelle di un gior-
nalista serio quale Gad Lerner (nella trasmissione televisiva
«L’infedele» del 23 ottobre 2004 e nell’articolo Se ritorna la
battaglia sulle anime, in «La Repubblica» del 6 luglio 2005),
circa la contemporanità e il ruolo della Chiesa cattolica nella
società italiana odierna. Ciò è ben comprensibile alla luce
dell’affermazione iniziale del libro. L’idea che Carlo Borro-
meo abbia dato vita a un «uno straordinario esperimento so-
ciale» alla stregua di un primo ministro, di un partito politi-
co, di un gruppo di pressione o di un movimento religioso
novecenteschi, suscita facili richiami all’attualità. In realtà si
tratta di una scelta che, dal punto di vista dello storico, desta
non poche perplessità: anzitutto tale onesta dichiarazione
d’intenti finisce per costringere il lavoro in una sorta di ca-
micia di forza ideologica, nella quale non solo le ipotesi di
ricerca risultano spesso schiacciate da affermazioni apoditti-
che, ma la stessa bibliografia appare utilizzata solo nella mi-
sura in cui giustifica la visione dell’autore. Per esempio, il
quadro della realtà politica milanese che viene dato nell’in-
troduzione (e che permea l’intero volume) è basato sugli
studi indubbiamente classici, ma ormai invecchiati di F.
Chabod, M. Bendiscioli e D. Sella, mentre manca ogni riferi-
mento a studi più recenti e ben più ricchi di sfumature come
quelli, per fare solo un caso significativo, di G. Signorotto
(alcuni dei quali editi ben prima del 2001, data dell’edizione
originale del libro). Inoltre la continua insistenza su un’idea
che la storiografia milanese ha, in buona misura, da tempo
abbandonato, come quella dei «rapporti tra Stato e Chiesa»
(dizione che richiama evidentemente la stagione ottocente-
sca dei conflitti intorno alla nascita dello Stato unitario ita-
liano), costituisce una scelta ideologica che serve a sorregge-
re un discorso, nel quale il rapporto fra società, politica e reli-
gione appare caratterizzato solo in chiave di disciplinamento
e confessionalizzazione dall’alto, e dunque da una sostanziale
concordia fra potere politico ed autorità ecclesiastica. Questo
stesso discorso non riesce allora a spiegare, se non in tradi-
zionali termini oppositivi (laico/ecclesiastico, Stato/Chiesa
ecc.), le ragioni di una conflittualità che fatica a essere intesa
come caratteristica intrinseca di una società e di un orizzonte
culturale e mentale, quello dell’Europa cattolica d’antico re-
gime, in cui fede religiosa, identità sociali, appartenenze poli-
tiche, ecc. costituivano fattori ben più complessi di quanto
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siamo ancora abituati a credere. Del resto l’uso che egli fa


della categoria del disciplinamento in chiave autoritaria e de-
miurgica non pare tenere in conto le critiche che sono state
avanzate al riguardo a W. Reinhard (sulla questione si veda
G. Alessi, Discipline. I nuovi orizzonti del disciplinamento,
in «Storica», 4, 1996, pp. 7-37, che De Boer peraltro cita).
L’impostazione fortemente ideologica del discorso fini-
sce per creare vistosi cortocircuiti: Carlo Borromeo è indica-
to quale «promotore di un sistema disciplinare di vasta por-
tata, coerente e saldissimo» (pp. XI-XII) che, però, finisce per
risultare soccombente – e quindi tanto coerente e saldissimo
non doveva essere – poiché i successori sulla cattedra arcive-
scovile milanese non si mostrarono all’altezza: e così «una
rivoluzione» sarebbe stata «normalizzata» (pp. XVII-XVIII).
In questo modo, però, De Boer sembra voler edificare un
monumento laico a Borromeo, non esitando a riprendere, in
modo talora sorprendentemente acritico, lo schema che la
storiografia confessionale tradizionale (il cui bilancio critico
è ancora da scrivere, ma cfr. C. Marcora, La storiografia dal
1584 al 1789, e A. Rimoldi, La storiografia dei secoli XIX e
XX, in San Carlo e il suo tempo. Atti del Convegno Interna-
zionale nel IV centenario della morte. Milano, 21-26 maggio
1984, vol. I, Roma 1986, pp. 37-75 e 77-131) è andata elabo-
rando nel corso dei secoli; lo schema, in sostanza, che distin-
gue la prima metà del Cinquecento, epoca di decadenza del-
la Chiesa ambrosiana, da un periodo di rinascita che ha ini-
zio con l’arrivo a Milano di Borromeo, e dunque con l’avvio
della stagione di riforme che avrebbero fatto, del medesimo
Borromeo, uno dei fari della Controriforma; a tale fase, infi-
ne, ne segue una di attenuazione del fermento rinnovatore e
di sostanziale burocratizzazione del governo ecclesiastico.
A onor del vero, De Boer sottolinea come la biografia
edita nel 1610 da Giovanni Pietro Giussani in occasione del-
la canonizzazione di Borromeo (sulle cui complesse vicende
editoriali nuova luce ha gettato recentemente M. Gotor,
Agiografia e censura libraria: la Vita di san Carlo Borromeo
di G. P. Giussani (1610), in Il pubblico dei santi. Forme e li-
velli di ricezione dei messaggi agiografici, a cura di P. Goli-
nelli, Roma 2000, pp. 193-226) vada maneggiata con cautela
(pp. 9-11), ma è altresì evidente che egli, nel descrivere la si-
tuazione della vita ecclesiastica nella prima metà del Cinque-
cento a Milano, finisce per riproporre veri e propri luoghi
comuni sulla decadenza, l’immoralità, la mancanza di spirito
pastorale del clero ecc., elaborati dallo stesso Giussani (spe-
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cie per quanto riguarda le figure dei due arcivescovi Ippolito


II d’Este e Filippo Archinto, pp. 24-5) e dalla storiografia ec-
clesiastica milanese che, tra la fine del Cinquecento e la pri-
ma metà del Seicento, proprio sotto l’interessato patronato
di Federico Borromeo, si dedicò a un’efficace quanto dura-
tura opera di risistemazione – e sterilizzazione – delle vicen-
de storiche della Chiesa e della città di Milano. Uno stimo-
lante contributo al riguardo, che De Boer non utilizza, è
quello di C. Mozzarelli, Milano seconda Roma. Indagini sul-
la costruzione dell’identità cittadina nell’età di Filippo II
(1998), ora in Id., Fra terra e terra. Studi su religione, iden-
tità e società moderna, a cura di F. Buzzi e D. Zardin, Roma
2005, pp. 111-38 (ma si veda anche il volume di «Studia Bor-
romaica», 13, 2004, dedicato a Federico Borromeo principe e
mecenate). Del resto, ove si rinunci a delineare in chiave pu-
ramente moralistica un quadro disastroso della situazione
ecclesiastica e religiosa della Milano della prima metà del
Cinquecento (periodo sul quale, a parte i noti studi di F.
Chabod, non è stato prodotto nulla sino ad anni recenti, ma
cfr. M.C. Giannini, Una chiesa senza arcivescovo. Identità e
tensioni politiche nella società ecclesiastica milanese 1546-
1560, in «Annali di storia moderna e contemporanea», 8,
2002, pp. 171-222) verrebbe meno uno dei presupposti teo-
rici – e teleologici – indispensabili su cui poggiano tanto la
storiografia tradizionale, quanto le tesi di De Boer.
Inoltre in diversi punti De Boer accantona come secon-
darie questioni assai rilevanti, anche nell’economia della sua
ricerca, come ad esempio il ruolo del clero regolare (cui de-
dica un unico accenno alle pp. 31-4, salvo poi definire l’Or-
dine degli umiliati una confraternita laica, p. 242) oppure il
rapporto fra società laica e riforme borromaiche. In questo
caso egli assume, ancora una volta in modo acritico, il punto
di vista di Borromeo, curiosamente definito «uno dei più fe-
deli interpreti del Concilio [di Trento]» (p. 55), con buona
pace dei tentativi di storicizzare sia la figura dell’arcivescovo
sia le vicende delle assise tridentine e dei processi che ne sca-
turiscono. Ne deriva che le figure dei successori appaiono
inevitabilmente prive di una qualche autonomia, sbiadite,
compromissorie e tese a una gestione burocratica della vita
ecclesiastica.
L’inarrestabile azione disciplinatrice borromaica finisce
però per creare palesi contraddizioni all’interno del discorso:
a proposito del conflitto con le autorità laiche esploso nel
1579, De Boer scrive infatti che «l’azione del Borromeo ave-
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va dimostrato che, se quello di Milano era uno Stato confes-


sionale, che traeva la sua forza e la sua unità dalla collabora-
zione fra Stato e Chiesa, tale collaborazione non era però
molto stretta, o era addirittura conflittuale» (p. 242), non ren-
dendosi conto che o Milano era uno Stato confessionale (e al-
lora si dava quella collaborazione fra Stato e Chiesa di cui va-
geggia l’autore) o non lo era, con la conseguenza che si sgre-
tola il presupposto confessionalistico su cui poggia il volume.
Più in generale De Boer propone una visione quanto me-
no meccanica dei processi sociali e religiosi della storia cin-
quecentesca, ponendo al centro non il costruirsi delle idee
borromaiche in rapporto dialettico e osmotico con la com-
plessa realtà e la cultura del tempo – con il seguito di inevita-
bili conflitti, ripensamenti, contraddizioni ecc. – ma la figura
dell’arcivescovo che, alla stregua di un demiurgo, attua una
consapevole e apparentemente inarrestabile opera di disci-
plinamento religioso sulla base di idee pre-formate (sulla cui
genesi, a parte il ritornello tridentino ancora poco sappia-
mo). Un altro grande assente – e la notazione non vuol esse-
re paradossale – è il clero milanese. Anziché operare un rin-
novato sforzo di analisi documentale nel carteggio borro-
maico conservato alla Biblioteca Ambrosiana, che ancora at-
tende di essere vagliato senza i tradizionali pregiudizi agio-
grafici, De Boer parla addirittura di trasformazione, sempre
ad opera di Borromeo, «in un compatto e ben riconoscibile
corpo professionale» (p. 258) di sapore weberiano! Le nota-
zioni in tema di opposizione ecclesiastica all’opera borro-
maica restano infatti ancorate alla lettura moralistica (trascu-
rando gli innovativi spunti di G. De Luca, «Havendo perdu-
ta la vergogna verso Dio». Indagine su alcuni gruppi di op-
posizione a Carlo Borromeo, in «Società e storia», XVI, 1993,
pp. 35-69).
Il volume di De Boer, in conclusione, lascia molti dubbi
nel lettore – cosa di per sé positiva – ma non convince in mol-
ti suoi presupposti e risultati, perché, sebbene l’autore mostri
contezza dell’irriducibilità del passato a una costruzione ra-
zionale e coerente, l’architettura del lavoro appare singolar-
mente irrigidita in schemi ideologici e appiattita su una tradi-
zione storiografica che dovrebbe aver fatto il suo tempo.

Massimo Carlo Giannini

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