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CAPITOLO 1 – ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE E SCIENZA DELLA POLITICA 

La scienza delle politiche pubbliche, o policy science, è una disciplina relativamente recente,
diffusasi in Nord America e in Europa dopo la seconda guerra mondiale, quando alcuni studiosi
di scienza politica cominciarono ad interessarsi del rapporto fra i governi e i cittadini. Non a
caso è stato proprio nel dopoguerra, caratterizzato dalle fasi di ricostruzione e dalla nascita di
organismi sovranazionali, che gli studiosi cercarono un approccio nuovo che riunisse nelle loro
ricerche questioni di giustizia ed equità, con lo scopo di massimizzare lo sviluppo sociale,
economico e politico.
Dall’epoca molti approcci si sono succeduti nello studio dei fenomeni politici, ed uno più degli
altri è arrivato sino a noi: il policy science. L’argomento principale dell’approccio risiede nella
progettazione e nella realizzazione delle attività di governo. La policy science fu fondata
insieme ad altri studiosi da Lasswell e si distingueva dagli studi precedenti per il risalto che
dava all’integrazione fra teoria e pratica senza la sterilità tipica delle ricerche fondate sul diritto
puro. Secondo Lasswell la policy science la policy science deve essere:

 Multidisciplinare doveva prendere spunto da altri campi come la sociologia,


l’economia, il diritto e la politica
 Problem solving  doveva essere orientata alla risoluzione dei problemi del mondo
reale e non solo ai problemi del mondo accademico
 Esplicitamente normativa Lasswell capisce che è impossibile separare il fine dai mezzi.
Quindi con questa caratteristica voleva sottolineare la necessità di non nascondersi
dietro al pretesto dell’oggettività scientifica quando si studiano le azioni del governo. In
pratica bisogna calcolare l’utilità dell’applicazione delle tecniche.

Col tempo è un po' cambiata la concezione di questi tre elementi in quanto:


 la policy science è divenuta una disciplina autonoma (quando lo studio delle analisi
pubbliche auspicava a essere multidisciplinare la policy science è divenuta una disciplina
vera e propria con propri interessi definizioni e termini che la appartengono)
 fallimento del problem solving (per quanto lo studio delle politiche pubbliche auspicava
a risolvere i problemi sociali concreti questa missione è fallita a causa della complessità
del processo politico stesso. La superiorità tecnica di analisi degli esperti viene messa
da parte subordinata della necessità politica)
 si è indebolita la pretesa normativa (nel senso che per molti analisti rimane ancora la
pretesa prescrittiva, hanno ancora il desiderio di suggerire obiettivi e azioni anche se ci
è resi conto delle difficoltà di gestire i vari problemi pubblici)

Abbiamo varie definizioni di politica pubblica, alcune complesse altre un po’ più semplici ma
tutte concordi nell'affermare che le politiche pubbliche siano il risultato di decisioni politiche
prese dal governo, di decisioni amministrative pertinenti e delle attività di governo (azioni
governativa decisionale e output).
Tra le varie definizioni le più importanti sono:
 Thomas Dye: per lui le politiche pubbliche sono “qualsiasi cosa un governo scelga di fare
o non fare” concentrandosi però sul momento della scelta fra le varie alternative. Questa
definizione evidenzia due concetti: il primo che il governo è l'attore decisivo delle
politiche pubbliche, in quanto è l'attore che prende le decisioni (perché si parla di azioni
dei governi) e il secondo riguarda le politiche pubbliche implicano una scelta, di agire o di
non agire da parte del governo, per risolvere i problemi pubblici.
 William Jenkins: per lui le politiche pubbliche sono un “insieme di decisioni interrelate,
prese da un attore politico o da un gruppo di attori, sulla selezione degli obiettivi e dei
mezzi atti al loro raggiungimento all'interno di una situazione specifica in cui gli tutori
hanno il potere di prendere tali decisioni”. Questa definizione è un po' più precisa rispetto
a quella di Dye ed evidenzia tre concetti: il primo che la politica pubblica intesa come
processo che comprende più decisioni (non una) prese da vari attori di governo coinvolti
in diverse aree (per esempio la sanità, l'assistenza e l'istruzione); il secondo è che il
governo è soggetto a dei vincoli interni ed esterni che rendono il processo di policy
difficoltoso, i vincoli possono essere per esempio la mancanza di risorse, opposizione a
livello internazionale o nazionale verso alcune delle opzioni proposte; e infine ultimo
concetto riguarda l'idea di definizione delle politiche pubbliche (area di policy) come
comportamento del governo finalizzato ad uno scopo, offrendo così uno strumento di
misura per la loro valutazione (valutare la pertinenza dell'obiettivo, la congruenza tra
obiettivi e mezzi, quindi efficacia ed efficienza).
 James Anderson: propone una definizione più generica e afferma le politiche pubbliche
sono un “certo corso d'azione che un attore o un gruppo di attori segue al fine di gestire
un problema o una questione di specifico interesse”. Questa definizione aggiunge altre
due cose a quella precedente di Dye e Jenkins: le politiche pubbliche sono il risultato non
solo di molteplici decisioni ma le decisioni prese da molteplici attori e che il legame tra
azione di governo e la percezione di un problema che rendono necessaria un'azione
(azione di un governo è secondaria alla presa di coscienza di un problema).

Tutte e tre le definizioni contribuiscono in senso generale al significato di “public policy”.


Per tanto le politiche pubbliche sono un fenomeno complesso che consiste nell’insieme delle
decisioni prese da diversi individui e/o gruppi (policy markers sono coloro che prendono
decisioni, i policy actors sono coloro che partecipano, che agiscono nel processo di formazione
e attuazione delle politiche), legate ad altre decisioni in maniera non immediatamente
comprensibile. Questa difficoltà rappresenta lo scoglio degli analisti delle politiche pubbliche.

Esistono diversi approcci accademici per analizzare le politiche pubbliche alcuni pur
riconoscendo la necessità di accostarsi alla materia con un approccio olistico che riunisca le
varie variabili che influenzano le politiche pubbliche si sono concentrati all'analisi delle politiche
pubbliche esaminando alcune variabili.

Alcuni seguono un orientamento di analisi delle politiche pubbliche adottando per capire e
analizzare variabili:
 La natura del regime politico o meglio sull'organizzazione dello stato (prenderla come
base di partenza o chiave interpretativa)
 La ricerca dei fattori socio economici determinati di policy (variabili causali del processo
di policy) cioè capire le politiche pubbliche, quindi gli effetti diretti e indiretti delle
politiche pubbliche.
 Un altro filone ancora concentra la propria attenzione sull’impatto, sul risultato (out
come) che le politiche pubbliche hanno ottenuto, disinteressandosi dei processi a
monte.

Si distingue in letteratura lo studio delle politiche: 


 Policy studi: sono studi di politica studi condotti dagli accademici che esaminano in
modo critico le politiche e cercano di capire i processi che le sottendono. Hanno quindi
una valenza di tipo descrittivo ed esplicativo. 
 Policy analysis: sono studi per la politica studi condotti da funzionari statali o dai think-
tanks volti alla progettazione di politiche reali. Hanno quindi una valenza di tipo
prescrittivo.

Distinzione importante da tenere presente solo che non deve essere sopravvalutata nel senso
che i due tipi di studi in definitiva confluiscono, nel senso che il compito della letteratura di
policy analysis di indagare quali azioni di governo siamo auspicabili o meno non sarebbero
possibile se non sapessimo quali azioni un governo è in grado di compiere.
Per capire meglio la formazione delle politiche pubbliche di è ricorso a scomporre il processo in
una serie di fasi e sottofasi ben distinte. Questa suddivisione viene chiamata “Modello di Policy
Cycle”, uno schema concettuale distinto in fasi e sottofasi come in un ciclo.
Il primo ad abbozzare un modello semplificativo suddividendo il processo di policy in 7 fasi fu
Harold Lasswell.
Le fasi erano:
 Intelligence (raccolta delle informazioni e la distribuzione presso gli attori chiamati a
decidere – agenda)
 Promotion (la definizione e l’approvazione di alcune possibilità di scelta)
 Prescription (si stabilisce il corso delle azioni da prendere)
 Invocation (si provvede a far svolgere dagli organi competenti le azioni e si definiscono
eventuali sanzioni per chi non le segue)
 Application (le politiche si rendono esecutive e prescrittive)
 Termination e Appraisal (valutazione dei risultati dell’intero processo e l’abbandono di
quella politica in base alle conclusioni raggiunge dopo la sua valutazione)

Un ulteriore modello fu quello elaborato da Gary Brewer in 6 fasi: initiation, estimation,


selection, implementacion, evalution, termination. (Egli integrò lo schema prevedendo una fase
primaria di riconoscimento del problema, anticipando la fase di valutazione e contempletando
un dibattito che prevedeva l’inclusione di soggetti non governativi).

Il più importante modello, per descrivere la formazione delle politiche pubbliche, fu quello
elaborato da James Anderson al quale soggiace in modo implicito la logica del problem solving.
Ad ogni fase del ciclo di policy corrisponde una fase della logica del problem solving.

Fasi di applicazione del problem solving: Stadi del policy Cycle:

- constatazione del problema - definizione dell'agenda


- proposta di soluzione - formulazione della politica 
- scelta della soluzione - processo decisionale 
- attuazione della soluzione  - attuazione della politica
- controllo dei risultati - valutazione della politica 

In questo modello, la definizione di agenda si riferisce al processo tramite il quale il problema


giunge all’attenzione del governo; la formulazione della politica si riferisce al processo con il
quale all’interno del governo vengono delineate le possibili strategie; il processo decisionale si
riferisce al processo per cui viene adottato un certo corso d’azione o non azione; l’attuazione
della politica si riferisce al processo con cui gli organi di governo mettono in atto le politiche
adottate e la valutazione infine fa riferimento al processo tramite il quale lo stato e gli attori
sociali verificano i risultati delle politiche, processo che può portare alla rielaborazione
concettuale dei problemi e delle soluzioni di policy.

Vantaggi di quello modello sono: facile comprensione del processo di policy tramite
suddivisione in fasi ognuna delle quali esaminata separatamente in relazione alle altre;
costruzione di un possibile teoria; il ruolo di tutti gli attori e istituzioni non solo governative.

Svantaggi di questo modello: sopravvalutare la capacità di problem solving degli attori (in
realtà non sempre tutti i problemi trovano adeguata soluzione); la successione logica lineare
delle fasi non coincide sempre con la realtà alle volte non esiste a noi serve solo come
modello; non spiega i fattori causali.

Un buon modello di formazione delle politiche pubbliche deve essere in grado di individuare gli
attori coinvolti nel processo di policy e gli interessi che si perseguono. La definizione degli
obiettivi coinvolge tanti attori che possono avere o meno interessi simili. Questi attori
interagiscono reciprocamente nella ricerca del loro interesse è il risultato delle loro interazione
diviene la sostanza delle politiche pubbliche. Gli attori tuttavia non sono completamente
indipendenti. Sono vincolanti ed in grado di non scegliere liberamente perché sono all'interno
di un certo tipo di relazioni sociali che servono a vincolare il loro comportamento.
Anche gli strumenti hanno grande valore e devono essere contemplati in un buon modello di
formazione delle politiche pubbliche in quanto diversi problemi consentono l'uso di diversi
strumenti.

Importanti sono le variabili chiavi implicite nella formazione delle politiche pubbliche, quindi le
variabili incidono sulle politiche, sul perché i governi tendono a sviluppare politiche in
particolari settori invece che in altri, o a gestire un certo tipo di questione seguendo un certo
stile decisionale in relazione al contesto in cui essi lavorano.
Lo stile decisionale dipende da queste variabili:
- natura degli attori coinvolti in ciascuna direzione 
- livello di conoscenza e delle convinzioni sul problema di policy in questione
- attori sociali coinvolti nel processo di policy.

CAPITOLO 5 – LA FORMAZIONE DELL’AGENDA. DETERMINANTI DELLE POLITICHE E


FINESTRE DI POLICY.

La prima fase del ciclo di policy teorizzata da Cobb e Elder è la formazione o la definizione
dell’agenda di policy, in inglese “agenda setting”, essa è la più critica e la più importante
(fondamentale) perché condiziona tutto il prosieguo del processo.

Definizione di agenda: “elenco di argomenti o problemi di cui si occupano, in modo serio e per
un certo periodo di tempo, i funzionari governativi o i loro stretti collaboratori.”

In base a cosa si scelgono certi argomenti piuttosto che altri.

 Determinismo economico e tecnologico


 Interazioni fra politica ed economica
 Idee e ideologia

I meccanismi secondo i quali questori e problemi vengano riconosciuti come possibili oggetti e
moventi di intervento pubblico sono alquanto complessi. La richiesta di soluzione di un
problema o di modifica di una di situazione può provenire dalla società o dal governo stesso. I
problemi che trovano posto nell’agenda di un governo hanno matrice politica, sociale o
ideologica. Secondo la tesi detta della convergenza, gli stati tendono a convergere verso lo
stesso mix di policy, cioè in stati diversi ad un medesimo livello di sviluppo tecnologico e
ricchezza economica, e quindi indipendentemente dalla struttura sociale e politica, si giunge ad
un medesimo modello di policy soprattutto nell’aerea della previdenza/assistenza (a questa
teoria portò diverse evidenze empiriche Wilensky). Questa tesi fu presto messa in discussione
ed etichettata come troppo semplicistica e non accurata nel valutare le divergenze all’interno
della convergenza.
Uno dei modi in cui gli analisti hanno tentato di superare i problemi relativi alle teorie del
determinismo economico e tecnologico nelle politiche è stato reintegrando le variabili politiche
ed economiche. Uno degli approcci primari di questa linea di pensiero postula l’idea di un ciclo
economico-politico: l’economia possiede dinamiche interne proprie, spesso manifestatesi in
forma di cicli, che possono occasionalmente essere alterate dall’interferenza della politica. In
tal senso la politica ha il ruolo di temperare le fluttuazioni del ciclo economico. Questa teoria
presenta un interessante corollario: politiche destinate a creare disagio al cittadino/elettore,
tendono ad essere attuate a debita distanza delle consultazioni elettorali.
Come risposta agli approcci materialisti sopra espressi, si è venuta a sviluppare negli anni 80
una scuola di pensiero che pone al centro delle decisioni di policy le idee sociali e politiche, nel
senso che le ideologie, la storia, le tradizioni sono la lente attraverso la quale le problematiche
emergenti vengono interpretate sia dalla società nella fase di richiesta di soluzioni che dai
policy markers nella fase di attuazione delle politiche.
Capire la compilazione dell’agenda significa comprendere in che modo reagisce il governo alle
richieste di policy di individui e/o gruppi e in che modo tali richieste emergono presso la società
o presso lo stesso governo.
Alle fine degli anni 70 venne ad affacciarsi un approccio chiamato “funnel of casuality”,
secondo il quale le variabili materiali (tecnologiche e economiche) e quelle ideologiche sono
entrambe coinvolte nella creazione delle richieste di intervento e nella formazione delle
politiche atte a soddisfarle. Secondo questo modello le decisioni si prendono all’interno delle
istituzioni, che esistono all’interno di un complesso di ideologie, che si sviluppano a causa di
relazioni di potere nella società. Questo modello, benché sintetizzi punti di vista contrastanti,
nulla aggiunge sulla modalità con cui certe forze intervengono nella formulazione delle
politiche.

Un problema entra nell’agenda sistemica (o pubblica) quando emerge dal dibattito sociale,
quando viene riconosciuta dalla società. Quando lo stato riconosce la necessità di intervenire il
problema entra nell’agenda istituzionale (o formale). In altre parole l’agenda sistemica può
essere considerata un’agenda di discussione, mentre l’agenda istituzionale è un agenda di
intervento. Secondo Cobb e Ross&Ross sono le 4 fasi del passaggio da un’agenda all’altra:
1. Le issues vengono poste
2. Se ne specificano le soluzioni
3. Si attiva il supporto alla issue, cioè si promuove presso le istituzioni
4. Se questo ha successo la issue entra nell’agenda istituzionale.

Inoltre ogni regime politico presenta una propria dinamica nella formazione dell’agenda:
 nelle democrazie liberali prevale l’outside initiation model (modello ad attivazione
pubblica), nel quale le issues vengono sollevate all’interno dei gruppi sociali e da qui
raggiunge l’agenda istituzionale (ruolo chiave dei gruppi sociali, per espandere il
consenso, i gruppi sociali possono convergere con altri gruppi e danno vita a lobbies per
far entrate le issues in agenda formale)
 nei regimi totalitari prevale il mobilization model, nel quale le issues vengono inserite
nell’agenda istituzionale senza necessità dell’interesse pubblico, quindi il problema
diventa ottenere l’appoggio della società a politiche volute solamente dal leader e non
generate come risposta a problemi sociali (creazione del consenso)
 nei sistemi politici dove gruppi di interesse hanno un accesso privilegiato presso il
potere (regimi corporativi), prevale l’inside initiation model (modello ad attivazione
riservata), nel quale non necessariamente l’interesse va espando o dibattuto in
pubblico, ma è espressione di volta in volta di un certo gruppo di pressione/interesse
(gruppi influenti con speciali contatti con policy-markers danno avvio a una politica,
senza necessariamente voler che l’interesse si espanda al pubblico; inclusione
automatica in agenda grazie alla pozione privilegiata di coloro che desiderano una
decisione, l’espansione è solo per gli esperti in materia).

Secondo Kindgon la formazione dell’agenda dipende da tre flussi principali che interagiscono:
 Flusso dei problemi (problem): si riferisce alla loro percezione come problemi pubblici,
per i quali sono necessari l’intervento del governo e le esperienze tentate dai giovani
precedenti per risolverli (secondo Kindgon i problemi giungono all’attenzione dei policy
makers)
 Flusso delle politiche/soluzioni (policy): consiste nell’esame e nella proposta di
soluzione dei problemi da parte di esperti ed analisti. In questi flussi vengono analizzate
e vagliate le possibilità di scelta.
 Flusso della politica (politics): si compone di quei fattori quali mutamenti dell’opinione
pubblica, ricambio a livello amministrativo o legislativo e campagne proposte dai gruppi
di interesse.
Secondo Kindgon, questi tre flussi seguono strade differenti o meglio indipendenti(operano in
campi diversi) finché ad un centro punto nel tempo, detto finestra di policy, si intersecano ed
entrano nell’agenda istituzionale dando cosi inizio al processo di politica pubblica.

Per Kindgon, l’agenda setting è governata in ultima analisi da certi avvenimenti fortuiti, tra cui
eventi e incidenti esterni apparentemente non collegati, la presenza o assenza di imprenditori
di policy sia interni che esterni al governo ed eventi istituzionali quali elezioni periodiche o cicli
di bilancio. (la teoria di Kingdon è un approfondimento ulteriore del modello di agenda seting
sviluppato da Cobb e suoi colleghi; la differenza principale è che quest’ultima è estremamente
fortuita, ciò vuol dire che la comparsa in agenda in una questione è determinata da una serie
di elementi imprevedibili, quali il comportamento di imprenditori di policy, crisi di vario genere
etc.)

In una visione più realistica andrebbe notato che la questione centrale relativa alla formazione
dell’agenda non risiede tanto nella tipologia di regime politico, quanto piuttosto nella capacità
del problema di investire il policy sub system deputato alla gestione dello stesso, che
determinerà se sia lo stato o se siano gli attori sociali ad avviare il processo e il livello di
appoggio del pubblico per la soluzione del problema (focus non sulla natura del regime ma su
natura del policy sub system e natura del issue; conta chi è il soggetto che avvia il processo).

CAPITOLO 6 – LA FORMULAZIONE DELLE POLITICHE. POLICY COMMUNITY E POLICY


NETWORK

Quando un governo ha in agenda un problema di carattere pubblico e la necessità di


intervenire, i policy makers devono decidere quale corso di azione adottare analizzando le
varie opzioni a disposizione per risolvere il problema ed entrando cosi nel processo di
formulazione delle politiche.

Secondo Charles Jones le politiche devono essere formulate essenzialmente proponendo i


mezzi per soddisfare un’esigenza della società. In ciò bisogna prima considerare tutte le
opzioni possibili (sia quelle che nascono all’interno dell’agenda setting, sia quelle che vengono
sviluppate dopo che il governo ha deciso di affrontare il problema), per poi restringere il campo
(fino ad una) a quelle ritenute accettabili. Questo nella sostanza è il secondo momento di
policy cycle.

È bene chiarire che la ricerca di soluzioni è un processo ben lontano da quello ordinato e
coerente come può apparire nelle schematizzazioni teoriche, in quanto difficilmente la scelta è
ascrivibile ad una data teoria.

Jones individua alcune caratteristiche ricorrenti nella formazione delle politiche:

 Essa non è necessariamente limitata ad un solo insieme di attori. Ciò significa che
possono esserci benissimo due o più gruppi che propongono soluzioni contrastanti o
complementari.
 La formulazione può procedere senza una definizione esatta del problema o senza che
chi deve formulare la politica abbia mai avuto stretti contatti con i gruppi interessati.
 Non c’è necessariamente un collegamento fra formulazione e istituzioni particolari,
sebbene la formulazione sia un’attività che di frequente spetta agli organi burocratici.
 La formulazione e riformulazione possono protrarsi per lungo tempo senza che si
raggiunga mai il consenso minimo necessario a nessuna proposta.
 Esistono spesso diverse possibilità di appello per coloro che risultano sconfitti in ciascun
livello nel processo di formazione.
 Il processo stesso non ha mai effetto neutrali
La ricerca di soluzioni è quindi considerata un processo esteso e complesso, spesso frutto di
compromessi e contenzioni tra istanze a pressioni di vario genere (che varia da caso a caso).

La formulazione delle politiche implica l’eliminazione delle opzioni di policy fino al punto in cui
ne resta una sola o soltanto alcune fra cui i policy makers effettuano la scelta finale. Implica
anche il riconoscimento dei vincoli che rivelano ciò che è non fattibile e implicitamente ciò che
è fattibile (vincoli non devono per forza essere basati su dei fatti).

I vincoli con cui i membri di sottosistemi di policy si confrontano possono essere di natura
sostanziale o procedurale. I primi attengono alla sostanza stessa del problema (esempio:
combattere la povertà stampando moneta genera inflazione e nuova povertà), i secondi
derivano dai limiti costituzionali, dalla struttura dello stato ma anche dalle tradizioni
consolidate (secondi sono o istituzionali o tattici).

Policy sub system: al fine di comprendere appieno le dinamiche che intervengono nella
formulazione delle politiche di governo, occorre interrogarsi su alcuni aspetti:

 Chi è veramente coinvolto in questo processo?


 Lo stesso processo è pubblico o privato? Se è privato, perché ad alcuni è permesso
accedere a questa parte importante del processo, mentre ad altri no?
 Chi vi ha effettivamente accesso?
 Quali sono le caratteristiche necessarie per accedervi?

Mentre nella prima fase del ciclo di policy l’accesso è maggiormente comprensivo (membri del
pubblico coinvolti più direttamente), nella fase della formulazione emerge necessariamente che
gli attori abbiano una competenza nell’area di policy in esame (necessità di un livello minimo di
conoscenza nell’area in oggetto).

È facile immaginare come nelle diverse fasi del policy cycle la natura del sottosistema
costituisca una variabile decisiva: il grado di supporto pubblico durante la formazione
dell’agenda o anche la definizione delle opzioni fra cui il governo opterà la scelta nella fase di
formulazione delle politiche.

Per rispondere a queste domande, gli studiosi hanno elaborati negli anni diversi modelli.

 Sub-governments (triangoli di ferro)


Tale concetto fu introdotto negli stati uniti dai critici del pluralismo allorquando si
evidenziò che alcuni attori sociali e statali di policy (gruppi di interesse, commissioni
parlamentari e agenzie governative) avevano sviluppato un sistema di sostegno
reciproco nelle loro interazioni nelle attività legislative e regolative.
Queste relazioni triadiche vennero definite “triangoli di ferro” a sottolineare l’essenza
del controllo ferreo esercitato su molti aspetti del processo di policy.
Tali triangoli vennero accusati di aver “catturato” il processo di policy, sovvertendo i
principi di democrazia e assicurando il prevalere dei propri interessi particolari
sull’interesse pubblico generale.
Ma già a partire dagli anni 60 e 70 ulteriori ricerche sul caso americano rivelarono che
molti di questi sub-governments non erano cosi potenti e che, in effetti, la loro
influenza sul policy making cambiava a seconda delle issues e nel tempo. La nozione di
sottosistema di policy si sviluppò presto in una direzone più flessivile e meno rigida,
definita issues network da Heclo.
Heclo sosteneva che alcune aree della vita politica americano erano organizzate
secondo un sistema istituzionalizzato di rappresentanza di interessi, mentre altre aeree
non lo erano.
Heclo non negava l’esistenza dei triangoli di ferro ma sosteneva semplicemente che i
loro componenti e il loro funzionamento non fossero cosi chiusi e rigidi come certi
studiosi li avevano descritti.
Heclo pensava ai sottosistemi di policy come un a un continuum di cui i triangoli di ferro
costituivano un’estremità (piccole cerchie di partecipanti che sono riusciti a diventare
ampiamente autonomini), mentre l’altra era costituita dagli issue networks (un grande
numero di partecipanti caratterizzati da un livello da un livello variabile di impegno
reciproco o di dipendenza dagli altri nel proprio ambiente).
Gli issues network erano quindi molto meno stabili, caratterizzanti da un maggiore
ricambio dei partecipanti e meno istituzionalizzati dei triangoli di ferro.

 Advocacy coalitions
Secondo Paul Sabatier sono sottosistemi di attori operanti nel policy sub system, ovvero
consistono in un gruppo di attori provenienti da una serie di istituzioni pubbliche e
private (cioè comprende attori sia statali che sociali) che condividono un insieme di
credenze di base e che cercano di manipolare le regole per raggiungere obiettivi
comuni. Tutti coloro che fanno parte dell’advocacy coalition partecipano al processo di
policy al fine di utilizzare l’apparato governativo per il raggiungimento dei propri fini.
Fra i fattori che determinano il successo dell’advocacy colaition nel perseguire il fine
abbiamo: la natura del problema, la dotazione di risorse naturali, i valori culturali e la
norme costituzionali. Altri sono invece maggiormente soggetti al cambiamento:
opinione pubblica, tecnologia, livello di inflazione e disoccupazione, avvicendamento dei
partiti al governo e cosi via.
In molti casi vi saranno almeno due advocacy coalitions in un sottosistema, ma
potrebbero esservene molte di più a seconda delle strutture di idee che caratterizzano
l’area di policy interessata.

 Policy network
Viene affidato da Peter Katzenstein come la serie di legami che uniscono gli attori dello
stato a quelli della società nel processo di policy.
Il concetto venne poi sviluppato da Rhodes nei primi anni 80 che lo definì come “le
interazioni fra i vari dipartimenti e rami del governo, e fra il governo e le organizzazioni
della società civile”. Secondo Rhodes le reti variavano a seconda del loro livello di
integrazione che a sua volta era funzione della stabilità della membership, della
selezione operata sui membri, del grado di isolamento da altre reti e del pubblico, e
della natura delle risorse controllate.
Negli stati uniti, Hamm giunse a definire attributi simili e sostenne che i sub-
governments potevano differenziarsi a seconda di complessità interna, autonomia
funzionale e cooperazione o conflitto a livello internazionale e interno.
Wilks e Wright integrarono questa definizione sostenendo che i network variano
secondo 5 dimensioni chiave: gli interessi dei membri del gruppo, la membership, il
livello di interdipendenza, l’isolamento verso l’esterno, la variabilità della distribuzione
delle risorse fra i membri.
Realizzarono poi una scala secondo la quale diversi gruppi si potevano catalogare in
funzione della membership (appartenenza) da gruppi fortemente coesi e tendenti alla
chiusura, a gruppi praticamente aperti.
Negli stati uniti i tentativi di chiarire e riformulare questo concetto di policy netwokr
sono stati portati avanti da alcuni studiosi, i quali hanno sostenuto che le reti tendevano
ad avere un nucleo vuoto, cioè che anche i networks più istituzionalizzati sembravano
non avere una chiara leadership. Altri autori hanno sostenuto che i networks possono
essere classificati in base alla condivisione o meno dei fini tra lo stato e gli attori sociali
e all’accordo sui mezzi necessari al raggiungimento di quei fini. Altri ancora hanno
sostenuto che la variabile cruciale per definire i tipi di networks sia il numero di
interessi discernibili che partecipano al network.
È importante notare che tutti questi diversi concetti contribuivano a definire i policy
networks come reti essenzialmente fondate sull’interesse.

 Policy communities
La prima distinzione fra policy community e policy network negli studi dei sottosistemi
di policy risale nei primi anni 80, anche se i due termini continuarono ad essere
considerati interscambiabili ancora per diversi anni. Pur avendo fatto propri diversi
aspetti dello schema di Rhodes, Wilks e Wright. Essi sostennero: “community non è
uguale al network” sebbene i due termini vengano di frequente usati come sinonimi
nella letteratura. L’uso del concetto di community in questo senso cosi ampio è di poco
aiuto nell’analisi del processo di policy. Wilks e Wright cercarono invece di restringere
l’uso del termine community, per indicare una categoria più comprensiva di tutte quelle
coinvolte nella formulazione delle politiche e di restringere l’uso di network per denotare
un sottoinsieme di membri della comunità che interagivano regolarmente.
Secondo questo punto “le communities identificano quegli attori e potenziali attori
dell’universo di policy che condividono un comune policy focus”.
Il network è il processo di collegamento all’interno della policy community o fra due o
più communities.
Il vantaggio di questa distinzione risiede nell’integrare i due diversi insiemi di
motivazione che guidano le azioni di chi interviene nella formulazione delle politiche:
conoscenza o competenza e interesse materiale. (Associando policy communities con
una specifica conoscenza di base a policy networks che perseguono un determinato
interesse materiale, i due diversi aspetti del processo di formulazione delle politiche
furono affrontati con maggiore altezza).

Alla fine degli anni 80 si tentò di sviluppare un metodo più coerente di classificazione e analisi
dei sottosistemi di policy.

Atkinson e Coleman svilupparono uno schema basato sull’organizzazione dello stato e della
società e sui loro collegamenti reciproci (le loro questioni erano: se gli interessi sociali fossero
organizzati a livello centrale e se lo stato avesse la capacità di sviluppare politiche
indipendentemente da essi). Questa classificazione generò un complesso di sottosistemi di
policy ad otto livelli.

Altri studiosi tentarono di combinare l’analisi di Rhodes con quella di Atkinson e Coleman,
sostenendo che i networks variavano in base a sette criteri: numero, tipo attori, funzioni
networks, struttura, istituzionalizzazione, regole di condotta, relazioni di potere e strategie
degli attori.

In ultima analisi, la teoria di Waarden comprendeva dodici tipi di sottosistema a seconda del
numero e del tipo di attori e, della natura delle funzioni che essi svolgevano (si rilevò difficile
quest’ultimo).
La separazione analitica di community e network aiuta a chiarire la concettuazione dei
sottosistemi di policy e i vari fattori che stanno dietro al suo sviluppo. Da un lato i membri di
una policy community sono legati fra loro da questioni epistemiche, dall’altro i membri delle
reti non condividono o incoraggiano contatti regolari. Sebbene lo stesso sottosistema di policy
contenga elementi di conoscenza e di interesse, questi due elementi possono essere distinti
l’uno dall’altro e il loro impatto sullo sviluppo del sottosistema può essere analizzato
separatamente.

Ci si può aspettare che le policy communities varino in base all’esistenza o meno di


un’episteme o visione del mondo dominante all’interno del sottosistema e in base al fatto che
tali idee siano condivise dalla maggior parte dei membri dello stato e della società. I tipi di
policy community che si possono identificare sulla base di queste relazioni sono:

Visione mondo dominante

si no
Consenso Comunità priva di
si Comunità egemonica
stato-società leader
no Comunità imposta Comunità anarchica

All’interno di ciascuno di questi diversi tipi di community è possibile comunque che si sviluppi
una forma di interazione regolarizzata fra i sottosistemi dei membri della community.

Come hanno suggerito Waarden e altri, questi policy networks (8 tipologie) varieranno in base
al numero e al tipo di partecipanti, e alle loro reciproche relazioni stato-società all’interno del
network.

Numero e tipi partecipanti

Un gruppo Due gruppi


Agenzie Tre o più
sociale sociali
statali gruppi
preminente preminenti
Direzione Network Network Network Network
Relazione
statale burocratico clientelare triadico pluralistico
stato-società
Network Network
all’interno del Network Network Issue
statalista statalista
network catturato corporativista network
partecipativo partecipativo

Il network burocratico: rappresenta il caso in cui le principali interazioni fra i membri del
sottosistema si verificano soltanto all’interno dello stato.
All’altro estremo si situa l’issue network: in cui, come suggeriva Heclo, le interazioni principali
si verificano fra un ampio numero di attori sociali.
Tra i due estremi esistono altre 6 possibilità:
Il network statalista partecipativo: rappresenta il caso in cui gli attori statali svolgono un ruolo
primario, ma sono dominati da membri della società non organizzati.
Il network pluralisti: sono quelli in cui nel sottosistema sono coinvolti molti attori, fra cui
dominano quelli statali.
Quando c’è un solo attore sociale preminente che si confronta con lo stato, esistono due tipi di
networks: il networks clientelare, dove lo stato domina l’attore sociale e il network catturato,
avviene al contrario.
Quando due attori si confrontano con lo stato, se è lo stato a dominare il sottosistema, siamo
in presenza di un network triadico. Quando gli attori dominano lo stato, il sottosistema si
avvicina al tradizionale, il network corporativista.

CAPITOLO 7 – IL PROCESSO DECISIONALE NELLE POLITICHE PUBBLICHE. OLTRE IL


RAZIONALISMO, L’INCREMENTALISMO E L’IRRAZIONALISMO

Il processo decisionale rappresenta il terzo step nello schema del policy cycle.

Sulla fase decisionale si concentrò maggiore attenzione durante il primo periodo di sviluppo
dell’analisi delle politiche pubbliche, quando gli analisti ricorrevano in modo massiccio a modelli
decisionali presi a prestito da organizzazioni complesse e sviluppati da studiosi di pubblica
amministrazione e di organizzazione aziendale.

Verso la metà degli anni 60 il dibattito sul decision making nelle politiche, si era cristallizzato
intorno a due modelli, quello razionale e quello incrementale; il primo descrive come avrebbero
dovuto essere prese le decisioni , il secondo illustrava meglio come decidevano in pratica i
governi.

Negli anni 70 questa situazione portò allo sviluppo di modelli alternativi del decision making.
Alcuni tentarono una sintesi del modello razionale e di quello incrementale, mentre altri, fra cui
il cosiddetto modello del “bidone della spazzatura”, rivolsero l’attenzione agli elementi
irrazionali del comportamento organizzativo per arrivare ad una terza via oltre il razionalismo e
l’incrementalismo.

Solo di recente sono stati fatti dei tentativi per superare questi tre modelli generali e
sviluppare una comprensione articolata dei complessi processi associati alla decisione nelle
politiche pubbliche.

Gary Brewer e Peter DeLeon sintetizzano la fase decisionale del processo di policy come “la
scelta tra le alternative di policy generate e i loro possibili effetti sul problema in esame. È lo
stadio più apertamente politico del processo in quanto si focalizza sulla scelta di una sola
misura di intervento”.

Questa definizione individua alcuni punti chiavi relativi alla fase decisionale.

In primo luogo, il decision making non costituisce una fase a sé stante e neppure un sinonimo
per designare l’intero processo di policy, ma rappresenta una fase specifica le cui origini sono
saldamente radicate nelle fasi precedenti del ciclo di policy. La decisione comporta una scelta
tra un numero relativamente basso di opzioni alternative di policy, identificate durante il
processo di formulazione delle politiche, al fine di risolvere un problema pubblico.

In secondo luogo, la definizione citata sottolinea il fatto che il decision making nelle politiche
pubbliche non si risolve in un esercizio tecnico, ma in un processo strettamente politico. Le
decisioni creano dei vinti e vincitori, anche qualora la decisione consista in una non azione o
nel mantenimento dello status quo.

Questa definizione non aggiunge nulla circa il come dovrebbe essere un processo decisionale
ma si limita a rilevarne le caratteristiche. Per affrontare questi temi sono state sviluppate
diverse teorie che descrivono come vengono prese le decisioni all’interno dei governi e che
prescrivono anche come tali decisioni dovrebbero essere prese.
Primo, tutti i modelli riconoscono che, con il progredire del processo di policy, diminuisce il
numero degli attori rilevanti. Infatti l’agenda-setting, coinvolge un grande numero di attori
dello stato e della società. Durante la formulazione delle politiche il numero degli attori è
sempre notevole, ma comprende solo gli attori pubblichi e sociali che formano il sottosistema
di policy. La fase di decision making coinvolge un numero ancora minore di attori, perché
vengano esclusi tutti quelli non statali, compresi quelli che appartengono ad altri livelli di
governo (a questa fase possono partecipare soltanto politici, giudici e funzionari del governo
dotati del potere di pendere decisioni autoritative nell’aerea in questione).

Secondo, questi modelli prendono atto che, nei governi moderni, il grado di libertà di cui gode
ciascun decisione viene circoscritto da una serie di regole che gli organi politici e amministrativi
devono rispettare, limitandone le possibilità di azione. Tali regole vanno dalla costituzione del
paese al mandato specifico conferito a singoli decision makers da varie leggi e regolamenti
(queste regola non stabiliscono soltanto quale decisioni possono essere prese da un’agenda o
da funzionario dello stato, ma definiscono anche le procedure da seguire; tali regole forniscono
i canali d’azione cioè un complesso regolamentato di procedure operative standard spiegano
come mai tanti processi decisionali di governo siano routinari e ripetitivi).

Ai decision makers resta comunque la discrezionalità di giudicare quale sia il miglior corso
d’azione da seguire in specifiche circostante. Il processo seguito e la decisione ritenuta
migliore variano a seconda dei decisori e del contesto in cui essi operano.

Tre modelli più comunemente utilizzati sono il modello razionale, il modello incrementale e il
modello del “bidone della spazzatura”.

I due modelli decisionali più noti sono quelli solitamente definiti, modello razionale e modello
incrementale. Il primo è usato nell’ambito economico e applicato all’arena pubblica, mentre il
secondo è un modello politico applicato alle politiche pubbliche.

Altri modelli cercano di combinare razionalità e incrementalismo in varia misura. In


opposizione a questi due modelli che riconoscono vari livelli di razionalità, il modello del bidone
della spazzatura ritrae il processo decisionale come un processo essenzialmente non razionale
(ma non completamente irrazionale) basato sulla convenienza e su un comportamento
decisionale ritualizzato.

 Modello razionale
un modello idealizzato che descrive un processo razionale di decision making consiste in
un individuo razionale che:
1. stabilisce un obiettivo per risolvere un problema,
2. esplora ed elenca tutte le strategie alternative per raggiungere tale obiettivo,
3. prevede tutte le conseguenze significative per ognuna delle strategie alternative
e stima la probabilità con cui si verificano quelle conseguenze,
4. infine, sceglie la strategia che risolve meglio il problema o che lo risolve al
minore costo.

Il modello è razionale nel senso che le procedure decisionali che esso prescrive
porteranno alla scelta dei mezzi più efficienti per raggiungere gli obiettivi di policy.
Secondo questo modello i problemi della società dovrebbero essere risolti in modo
scientifico e razionale (problem solving), e quindi a questo propositivo denominarlo
metodo scientifico, ingegneristico o manageriale.
Questo tipo di modello trova le sue origini nei primi tentativi di fondare una scienza del
comportamento delle organizzazioni e della pubblica amministrazione.
Il critico più eminente del modello razionale fu l'americano Herbert Simon, l'unico
studioso di pubblica amministrazione a vincere il nobel per l’Economia. A partire dagli
anni '50 Simon sostenne che una serie di ostacoli si opponevano alla possibilità di
operare nella pura razionalità ottimale.
Per prima cosa esistono limiti cognitivi alla capacità dei decision makers di prendere in
considerazione tutte le opzioni possibili, che li costringono a considerare le alternative
in modo selettivo. Se è cosi è probabile la scelta venga effettuata fra opzioni
selezionate per motivi ideologici o politici.
In secondo luogo è difficile che il decision maker conosca tutte le conseguenze possibili
delle scelte effettuate.
Terzo ogni scelta o opzione politica comporta risultati favorevoli o sfavorevoli a seconda
dei punti di vista e difficili da mettere a confronto. Poiché la stessa opzione può essere
efficiente o meno a seconda delle circostante, i decision makers possono arrivare
soltanto a conclusioni per lo meno ambigue sull’alternativa migliore.
In sostanza le decisioni pubbliche non massimizzano i benefici rispetto ai costi, ma
tendono semplicemente a soddisfare (satisfycing) i criteri e gli orientamenti ideologi del
policy maker.

 Modello incrementale
I dubbi sulla praticità e perfino sull’utilità del modello razionale portarono al tentativo di
sviluppare una teoria del processo decisionale più strettamente legata al reale
comportamento dei decision maker i situazioni pratiche. Ciò favorì la nascita del
modello incrementale, che descrive il processo decisionale delle politiche pubbliche
come un processo politico caratterizzato da negoziazioni e compromessi fra gli interessi
dei vari decision makers. Alla fine queste decisioni rappresenterebbero un risultato
politicamente fattibile piuttosto che auspicabile.
Il merito di aver sviluppato questo modello va a Charles Lindblom, scienziato politico.

Questo modello era costituito dai seguenti “insiemi di stratagemmi di semplificazione e


messa a fuoco che si supportano reciprocamente”:
 l'analisi è limitata a poche alternative di policy spesso reiterate e che poco
differenti dallo status quo;
 analisi degli obiettivi e degli altri valori è collegata agi aspetti empirici del
problema;
 vi è un maggiore interesse analitico sui difetti da correggere che sugli obiettivi
da perseguire;
 vi è una sequenza di tentativi ed errori, e di revisione dei tentativi;
 l'analisi indaga solo una parte delle possibili conseguenze delle decisioni;
 il lavoro analitico è frammentato fra i tanti partecipanti al policy making.

Secondo Lindblom, i decision makers sviluppano le politiche attraverso un processo


continuo di comparazioni, limitate ì, però alle decisioni precedenti, quelle che conoscono
già.
Ci sono due ragioni per cui le decisoni solitamente non si discostano significativamente
dallo status quo. La prima è che, dal momento che la contrattazione richiede una
distribuzione di risorse limitate fra i vari partecipanti, è più facile continuare ad usare gli
schemi di distribuzione già esistenti piuttosto che cercare di valutare proposte
radicalmente nuove. La seconda ragione è che l’esistenza di procedure operative
standardizzate, caratteristica principale degli apparati burocratici, tende a favorire il
perdurare delle pratiche esistenti. I metodi tramite cui i funzionari identificano opzioni,
metodi e criteri sono spesso stabiliti in anticipo, ostacolando l’innovazione e
perpetuando invece le disposizioni già esistenti.
Lindblom sosteneva inoltre l’esigenza del modello razionale di separare il fine e i mezzi
non poteva funzionare nella pratica, non solo per i vincoli di tempo e di informazione
identificati da Simon, ma anche perché avrebbe presupposto che i policy makers
fossero poi in grado di accordarsi su entrambi.
Secondo Lindblom, in molte aree di policy, i fini non possono essere separati dai mezzi
e gli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere vengono scelti spesso in base al fatto che
esistano o meno mezzi in grado di realizzarli.
Il risultato ancora una volta, sono decisioni di policy che differiscono da quelle vecchie
solo in modo incrementale.
Il modello incrementale considera l processo decisionale come un esercizio pratico
interessato a risolvere problemi a portata di mano piuttosto che a raggiungere obiettivi
ambiziosi. In questo modello i mezzi per risolvere i problemi scelti vengono scelti
attraverso un processo di tentativi ed errori piuttosto che mediante una valutazione
complessiva di tutti i mezzi possibili. I decision makers prendono in considerazione
soltanto alcune alternative ben conosciute e abbandonano la ricerca quando credono di
avere trovato un’alternativa accettabile.
Esistono comunque altre 3 possibilità: una è il modello razionale, le altre alternative
sono definitive modello rivoluzionario e analitico.

Livello di conoscenza disponibile

alto basso
Entità del
alto Rivoluzionario Analitico
cambiamento
Incrementale
provocato basso Razionale
disgiunto

In seguito Lindblom ha però affermato che esiste un continuum di stili decisionali. Essi
variano dal sinottico, o processo decisionale razionale-ottimale, fino al blundering, che
segue semplici intuizioni o supposizioni senza alcun reale tentativo di analisi sistematica
di strategie alternative.

SINTOTTICO-> STRATEGICO->INCREMENTALE DISGIUNTO-> INCREMENTALE SEMPLICE -> BLUNDERING

Anche se il modello incrementale può rappresentare un’accurata descrizione di come


vengono prese le decisioni di public policy, i critici hanno rilevato alcune carenze insite
nella linea di indagine proposta.
Per prima cosa, il modello viene messo in discussione per la totale mancanza di
orientamento agli obiettivi.
Secondo, il modello viene criticato per il suo profondo conservatorismo, a causa dei suoi
sospetti verso cambiamenti e innovazioni su ampia scala.
Terzo, non è democratico: esso infatti relega il processo decisionale a una trattativa fra
un gruppo selezionato di policy makers con una lunga esperienza.
Quarto, il modello, scoraggiando un sistema di analisi e pianificazione sistematica e
disincentivando la ricerca di nuove promettenti alternative, promuove decisioni miopi
che, a lungo termine, possono avere conseguenze sfavorevoli sulla società.
Tale modello venne anche messo in discussione per la sua scarsità utilità analitica.
L’incrementalismo è inoltre una caratteristica del processo decisionale in un ambiente
relativamente stabile piuttosto che in situazioni insolite, come un’eventuale crisi.
 Modello del bidone della spazzatura
I limiti del modello razionale e incrementale portarono gli studiosi di public policy
making a cercare delle alternative. Amitai Etzoni sviluppò il suo modello mixed scanning
per aggirare le imperfezioni sia del modello razionale che di quello incrementale,
combinando elementi di entrambi. Questo modello sosteneva che il processo decisionale
ottimale consisteva in una ricerca rapida di alternative, seguita da un’analisi dettagliata
eseguita su quelle più promettenti. Tale processo consentiva una maggiore innovazione
di quella premessa del modello razionale. Etzoni suggerisce che è questo il modello con
cui vengono prese realmente le decisioni. Quindi questo modello si presenta come un
modello decisionale sia prescrittivo che descrittivo.
Negli anni 70 un modello radicalmente diverso affermò l’insita mancanza di razionalità
del processo decisionale. March e Olsen proposero il modello cosiddetto del bidone della
spazzatura (garbage can) che negava anche la limitata razionalità concessa
dall’incrementalismo.
In base a questo punto di vista, il processo di decision making si configura come
fortemente ambiguo e imprevedibile e ha a che fare soltanto lontanamente con la
ricerca dei mezzi necessari a raggiungere gli obiettivi.
March e Olsen hanno utilizzato deliberatamente la metafora del bidone della spazzatura
per rompere con l’aura di scienza e razionalità attribuita al processo decisionale dagli
studiosi che li avevano proceduti. I due autori cercano di riportare alla luce il fatto che
gli obiettivi sono spesso sconosciuti ai policy makers, cosi come lo sono le relazioni
casuali. Secondo il loro parere, gli attori non fanno altro che definire gli obiettivi e
scegliere i mezzi seguono un processo che è necessariamente contingente (non basato
su alcuna razionalità né sull'emulazione del passato) e imprevedibile.
Diversi studi di caso, hanno confermato l’affermazione che le decisioni pubbliche
vengono spesso prese troppo ad hoc e troppo casualmente per poter essere chiamate
incrementali e men che meno razionali.
Sia come sia, il modello garbage can è forse un’esagerazione di quello che accade in
realtà. Storicamente il merito più grande della teoria del bidone consiste nell'aver rotto
lo sterile dualismo tra teorie razionalistiche e teorie incrementali, permettendo di
intraprendere studi più diversificati.

All’inizio degli anni 80 era ormai chiaro a molti osservatori che il continuo dibattito fra i
sostenitori del razionalismo e quelli dell’incrementalismo costituiva un ostacolo al lavoro
empirico e allo sviluppo teorico della materia.

Smith e May sostenevano: “Abbiamo bisogno di più di una spiegazione per descrivere le molte
sfaccettature della vita organizzativa. Il problema non è riconciliare le differenze fra i modelli
razionali e quelli incrementali e neppure proporre una terza alternativa che riunisca le
caratteristiche più solide di ciascuno dei due modelli. Il problema è stabilire una relazione fra i
due nel senso di decifrare il rapporto fra le realtà sociali di cui si interessa ciascuno dei
modelli”.

Uno dei sviluppi più interessanti in questa direzione si trova nei lavori di John Forester,
secondo cui esistono almeno cinque stili decisionali diversi associati a sei insiemi fondamentali
di condizioni. Per Forester “ciò che è razionale per gli amministratori dipende dalla situazione
in cui essi lavorano”. Questo significa che lo stile decisionale e il tipo di decisione presa dai
decision makers variano a seconda delle issues e del contesto istituzionale.
Forester suggerisce che, affinché il processo decisionale segua le linee prescritte dal modello
razionale, si devono verificare le seguenti condizioni.

 La prima è che il numero degli agenti (o decision makers) sia limitato, possibilmente ad
una persona.
 Secondo, l’ambiente organizzativo in cui verrà presa la decisione dovrà essere semplice
e isolato dalle influenze degli altri attori di policy.
 Terzo, il problema dovrà essere ben definito, in altre parole: il raggio d’azione,
orizzonte temporale, entità temporale, entità delle dimensioni e eventuali conseguenze
a catena dovranno essere ben chiari.
 Quarto, l’informazione dovrà essere per quanto perfetta, cioè completa, accessibile e
comprensibile.
 Infine, quinto, non deve esservi urgenza nel prendere la decisione, cioè dovrà esserci
disponibilità di tempo per permettere ai decision makers di considerare tutte le possibili
eventualità e loro conseguenze presenti e future.

Quando queste condizioni si verificheranno tutte, dovremmo avere una decisionale razionale.

Se queste condizioni non sono soddisfatte, come succede in quasi tutti i casi, secondo Forester
verranno adottati altri stili più decisionali. Ad esempio:

 Il numero di agenti può aumentare e moltiplicarsi quasi la infinito


 L’ambiente in cui viene presa la decisione può comprendere molte organizzazioni
diverse ed essere più o meno aperto a influenze esterne
 Il problema può essere ambiguo oppure soggetto a interpretazioni contrastanti
 L’informazione può essere incompleta, fuorviante o volutamente tenuta nascosta o
manipolata
 Il tempo, infine, può essere limitato oppure artificialmente circoscritto o manovrato.

Da questo punto di vista, Forester propone cinque possibili stili decisionali: ottimizzazione
(stategia che si verifica quando sono soddisfate le condizioni del modello razionale-ottimale),
satisfycing (quando le limitazioni sono cognitive), ricerca (quando il problema è vago),
negoziazione (quando più attori gestiscono un problema in assenza di informazione e tempo) e
stile organizzativo (coinvolge più ambienti e più attori che hanno a dispozione tempo e risore
informative ma devono anche affrontare, informazione incompleta o distorta e limitata
disponibilità di tempo per prendere la decisione).

Forester, pur costituendo un notevole miglioramento, ha fatto solo un primo passo verso il
miglioramento del modello di decision making. Uno dei principali problemi di questa
classificazione è che non deriva dalle teorie sostenute dall’autore.

Con questo si vuol dire che, dopo un esame attento dei fattori che, secondo Forester, formano
il processo decisionale, si individuerebbero molte più tecniche delle cinque previste, che
derivano dalle possibili combinazioni e permutazioni delle variabili citate.

Si potrebbe migliorare il modello di Forester ridefinendo le variabili. È possibile esaminare i


fattori agente e ambiente concentrandosi sul sottosistema di policy, mentre le nozioni di
problema, informazione e tempo possono essere viste in relazione ai vincoli imposti ai policy
makers.

Cosi le due variabili significative diventano: complessità del sottosistema di policy, che deve
affrontare il problema e la astringenza dei vincoli.
Da queste due variabili considerate congiuntamente risultano quattro stili di decisione
fondamentali.

Complessità del sottosistema di policy

alta bassa
Aggiustamento Ricerca del
alta
Stringenza dei vincoli incrementale satisfycing
Aggiustamento
bassa Ricerca nazionale
ottimizzante

Gli aggiustamenti incrementali: ispirati alla tecnica di Lindblom si verificheranno


presumibilmente quando i sottosistemi di policy sono complessi e i vincoli imposti ai decision
makers stringenti (decisioni su larga scala e ad altro rischio sono rare).

Nel caso opposto, quando cioè il sottosistema di policy è semplice e i vincoli non severi, è
probabile avere una più tradizionale ricerca razionale di nuovi, e possibilmente notevoli
cambiamenti.

Quando esiste un sottosistema complesso e i vincoli non sono stringenti è probabile ce si


affermi una strategia di adattamento, ma che tenda eventualmente all’ottimizzazione.

Infine, dove i vincoli sono severi ma il sottosistema è semplice, allora è abbastanza probabile
che venga adottata una tecnica di satisfycing.

CAPITOLO 8 – L’ATTUAZIONE DELLE POLITICHE. POLICY DESIGN E SCELTA DEGLI


STRUMENTI DI POLICY

La fase della attuazione delle politiche è la quarta fase del processo di policy.

Dopo che un problema pubblico è stato inserito nell’agenda istituzionale, dopo che sono state
proposte varie soluzioni per risolverlo, e il governo ne ha scelto una si passa alla quarta fase
cioè l’attuazione delle politiche, cioè mettere in pratica quello che è stato deciso nella fase
decisionale.

La fase dell’attuazione, è il processo con cui un programma o una politica vengono attuati, il
che vuol dire mettere in pratica quanto pianificato.

Fino ai primi anni 70, si pensava che questa fase era automatica nel senso che avveniva senza
grandi problemi. Si pensava che una volta decisa la politica da attuare la sua attuazione
sarebbe stata automatica e semplice.

Dopo uno studio condotto da dagli studiosi (Pressman, Wildavsy, Johnson) si è capito che
l’attuazione delle politiche pubbliche non è un momento automatico, nasce l’esigenza di capire
i fattori che influenzano l’attuazione delle politiche pubbliche.

I fattori che influenzano l’attuazione delle politiche pubbliche sono 5:

 La natura dei problemi: problemi difficili (alcuni problemi si rivelano troppo difficili
quindi vi è una difficoltà tecnica da affrontare e quindi l’attuazione delle politiche
pubbliche per alcuni problemi diviene problematica, per risolvere un problema
complesso non ci vuole una singola azione ma più azioni); molteplici cause (alcuni
problemi possono avere varie cause quindi risolvere un problema con varie cause
diventa molto difficile); le dimensioni del gruppo a cui è destinata una politica (è un
altro fattore limitante in quanto più numeroso è diversificato il gruppo più difficile sarà
influenzare il comportamento); e il grado di cambiamento del comportamento dei
destinatari (nel senso che attuare le politiche che cercano di sradicare certi
comportamenti come per esempio atteggiamenti razzisti, sessisti, è più difficile rispetto
ad una politica di aumento dell’offerta dell’energia elettrica perché non richiede alcuna
trasformazione del comportamento dei destinatari).
 Il contesto sociale, economico, tecnologico e politico: trasformazioni sociali (possono
influenzare l’interpretazione del problema e quindi il modo in cui la politica viene
attuata); trasformazioni economiche (possono influenzare l’attuazione delle politiche,
esempio la povertà); trasformazioni tecnologiche (possono influenzare l’attuazione delle
politiche nel senso che le politiche possono essere modificate durante la fase di
attuazione se ci sono innovazioni di tipo tecnologico); trasformazioni politiche (possono
influenzare l’attuazione delle politiche nel senso un’alternanza di governi diversi
potrebbe portare a una diversa implementazione delle politiche).
 L’organizzazione dell’apparato amministrativo: i conflitti intra organizzativi, cioè
all’interno dei vari livelli di governo delle varie organizzazioni a livello nazionale,
provinciale, locali possono intaccare il processo di attuazione delle politiche.
 Le risorse economiche e politiche: riferite al gruppo, a cui è rivolta la politica possono
influenzare all’implementazioni nel senso che i gruppi potenti possono appoggiare o
opporsi all’attuazione di una certa politica mentre i gruppi deboli di risorse economiche
che politiche non possono.
 Il supporto pubblico: per esempio il caso del supporto dopo l’adozione, dà agli attuatori
l’opportunità di cambiarne l’intento originale.

Oggi giorno è importante che i policy- marker valutino questi fattori ex-ante piuttosto che ex-
post ed adottino delle misure in modo da facilitare l’attuazione delle politiche:

 Per prima cosa, devono fissare gli obiettivi di policy e stabilirne l’ordine, cosi si saprà
chiaramente che fare e in che ordine di priorità
 Come seconda cosa, le politiche devono avere alla base una teoria plausibile causale,
secondo cui vi sia una relazione causale tra il provvedimento prescrittivo e la risoluzione
del problema.
 Come terza cosa, devono essere allocati e stanziati fondi sufficienti per permettere
l’attuazione delle politiche.
 Come quarta cosa, stabilire chiaramente le procedure che le agenzie incaricate
dell’implementazione devono seguire nella sua attuazione.
 Come quinta e ultima cosa, affidare la fase di implementazione ad agenzie dotate di
necessaria esperienza e pronte ad impegnarsi.

Dopo numerosi studi sull’attuazione delle politiche pubbliche si affermano 3 diversi approcci
dell’implementazione delle politiche pubbliche:

 Un approccio top down

Questo approccio presume che si possa considerare il processo di policy come una serie di
catene di comando in cui i leader politici articolano una chiara preferenza di policy che viene
poi eseguita dalle amministrazioni pubbliche ai livelli crescenti. Questo approccio prende avvio
con la decisione del governo, e offre direttive molto chiare per la ricerca sull’implementazione
delle politiche.
Questo approccio è stato criticato in quanto: prevede che le politiche abbiano obiettivo chiari,
mentre come abbiamo visto in passato gli obiettivi sono speso confusi o addirittura
contradditori. Il difetto più grave, è aver concentrato la propria attenzione sui decision maker
di alto livello che spesso hanno un ruolo margine nell’attuazione rispetti ai funzionari di livello
più basso o a membri del pubblico.

 Un approccio bottom up

È un approccio che parte da tutti gli attori pubblici e privati coinvolti nell’attuazione dei
programmi ed esamina i loro obiettivi personali ed organizzativi, le loro strategie, le reti di
contatti che hanno costruito.

Gli studi su questo approccio hanno dimostrato che il successo o il fallimento di molti
programmi di politica dipendono dall’impegno e dall’abilità degli attori del livello più basso
direttamente coinvolti nell’implementazione. Il vantaggio dell’approccio è l’attenzione rivolta
alle relazioni formali e informali che costituiscono i policy networks coinvolti nella decisione e
nell’attuazione delle politiche pubbliche.

L’approccio bottom-up allontana lo studio dell’attuazione dalle decisioni per riportarlo di nuovo
verso i problemi di policy, rendendo cosi possibile lo studio di tutti gli attori, pubblici e privati,
e delle istituzioni coinvolti nel problema.

 Un approccio basato sulla scelta degli strumenti

Per capire e comprendere molti aspetti della attuazione delle politiche pubbliche sarebbe
opportuno considerare congiuntamente i due approcci.

Per riunire i risultati dei due approcci e fare luce sul loro funzionamento in specifiche
circostanze e sul loro contributo alla concettualizzazione complessiva del processo di policy,
molti studiosi di politiche pubbliche sono ritornati ad esaminare l’implementazione delle
politiche come un caso di scelta degli strumenti.

Quest’ultimo approccio è basato sulla scelta degli strumenti il quale nasce dalla constatazione
che implementare una politica significa, in larga misura, applicare ai problemi di policy una o
più tecniche fondamentali di governo (strumenti di policy).

Il processo di attuazione si studia secondo le modalità top-down o secondo l’approccio bottom-


up. Il processo che dà forma o sostanza ad una decisione e di governo comporta sempre la
scelta di uno o più strumenti fra quelli disponibili.

Questo approccio si concentra sul perché un governo scelga uno strumento particolare fra i
molti disponibili e si chiede se sia possibile individuare qualche schema o stile di scelta degli
schemi nel processo di implementazione delle politiche pubbliche.

Per rispondere a queste domande, ad oggi due gruppi di studiosi hanno lavorato sulla
questione della scelta degli strumenti e le conclusioni proposte per rispondere a questi quesiti
sono molte diverse.
Esistono infatti due approcci, due filoni di studio:

 Modelli economici: sviluppati dagli economisti, i quali vedono la scelta degli strumenti di
policy come un esercizio teorico.
Gli studi elaborati dagli economisti si basano sul dibattito teorico fra economisti
neoclassici e economisti del benessere e sul ruolo dello stato nell’economia.
Entrambi preferiscono gli strumenti volontari.
 Economisti del benessere ammettono la possibilità di usare gli strumenti
coercitivi, visti per correggere i fallimenti del mercato. Il fatto di accettare un
maggiore intervento dello stato porta gli economisti del benessere ad analisi più
sistematiche tecniche della scelta degli strumenti.
 Economisti neoclassici: ricorrono alla teoria della Public Shoes e ammettono
anche loro la possibilità di usare gli strumenti coercitivi, visti solo per fornire
beni pubblici puri.
Le due teorie economiche sulla scelta degli strumenti sono prevalentemente
deduttive e mancano di una solida base empirica.
Quindi le giustificazioni logiche alla scelta degli strumenti di policy si fondano su ipotesi
teoriche relative a quello che i governi dovrebbero fare piuttosto che su indagini
empiriche riguardo a quello che essi fanno veramente.

 Modelli politici: sviluppati dai politologi, i quali si concentrano invece sulle forze politiche
che secondo loro governano la scelta degli strumenti.
I politologici interpretano gli strumenti come variabili di policy e si concentrano ad
analizzare le forze politiche che secondo loro governano la scelta degli strumenti.
 Un primo modello politico di scelta degli strumenti fu formulato da Doern.
Doern sostiene che i governi delle società democratiche e liberali preferiscono
utilizzare lo strumento meno coercitivo a loro disposizione per poi salire nella
scala quel tanto che occorre per vincere la resistenza della società alla
regolazione efficace. Questa tesi è troppo semplicistica.
L’attuazione delle politiche e la scelta degli strumenti sono processi complessi
che non possono essere spiegati da questa semplice tesi del passaggio da
strumento meno coercitivo a quello più coercitivo perché è possibile che i policy-
marker scelgano lo strumento più coercitivo già dall’inizio sei giustificato nelle
circostanze politiche e dalla natura del problema da affrontare.

 Un secondo modello politico di scelta degli strumenti fu formulato da Hood.


Hood sostiene che la scelta dello strumento sia guidata dall’esperienza dei
governi con i vari strumenti e sui loro effetti nei confronti degli attori sociali, in
quanto i diversi strumenti hanno un efficacia variabile a seconda della natura del
gruppo sociale su cui devono esercitare la loro influenza.
Hood sostiene che più numeroso il gruppo che costituisce l’obiettivo del
provvedimento maggiore è la probabilità che i governi facciano uso di strumenti
passivi (volontari) piuttosto che attivi (coercitivi).
Si capisce da ciò che il governo usi con parsimonia l’apparato burocratico e
preferisce gli strumenti di informazione perché inesauribili.
La scelta degli strumenti è definita:
-dai vincoli posti nelle risorse
-dal sistema giuridico
-dalle pressioni politiche
-dalle lezioni apprese da precedenti fallimenti dello strumento
 Un terzo modello politico fu formulato da Linder e Peters.
Linder e Peters nel loro modello elencano i fattori cruciali nella scelta degli
strumenti:
-Le caratteristiche degli strumenti di policy: intensità delle risorse (costo
amministrativo), targeting (la selettività), rischio politico (supporto o opposizione
da parte della società), vincoli dell’attività statale.
-stile di policy
-cultura politica
-profondità dei conflitti
-cultura organizzativa
-contesto
-preferenza soggettiva dei decisori, la quale è basata sul loro background
professionale, formazione appartenenza istituzioni.
 Un quarto modello sintetico di scelta degli strumenti di policy.
Il modello sintetico di scelta degli strumenti di policy. È necessario sviluppare un
modello che leghi la scelta specifica degli strumenti ha giustificazioni logiche
specifiche. Unendo le idee degli economisti e dei politologi si giunge a formulare
un modello sintetico di scelta degli strumenti che si riduce a un numero limitato
di policy.
-mercato
-famiglia e comunità
-regolazione erogazione diretta impresa pubblica
-strumenti misti

Le due variabili prese in esame nei modelli economici e nei modelli politici e
riassunti qua in questo modello sintetico sono:
-capacità del sottosistema di policy
-capacità dello stato

Complessità del sottosistema di policy


alta bassa
Strumenti di Impresa pubblica,
alta mercato regolazione e
Capacità dello erogazione diretta
stato Strumenti Strumenti misti
volontari basati
bassa
sulla comunità o
sulla famiglia

Avremo:

 strumenti di mercato: alta complessità del sottosistema e alta capacità dello stato
 strumenti misti: bassa complessità del sottosistema e bassa capacità dello stato
 strumenti volontari basati sulla famiglia e comunità: alta complessità del
sottosistema e bassa capacità dello stato
 strumenti coercitivi basati su impresa pubblica, regolazione, erogazione diretta:
bassa complessità del sottosistema e alta capacità dello stato

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