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LA SPERANZA

Relazione scritta di una poesia di Vittorio Sereni

Non era un sogno, vi dico – 1


se può
non esserlo un paese dove cenano per tempo,
griglie serrande stuoie
nessuno sulle porte (e cosa era, di colpo
sul primo incontestabile giorno di primavera, 5
quella mesta buriana di piante e siepi?)
un paese che sfila all’infinito
con sagome e targhe straniere
nell’affanno del ritardo
o di un temuto malinteso. 10
Ma già, primi indizi, ci venivano incontro
sagome e targhe familiari
e facce, a mezzo, a mezz’aria tra certi parapetti
tenere buffe zitte nel po’ di luce che restava
finché furono palesi 15
un Carlo qualche Piero alcuni Sergi
e altri che non nomino per ragioni di misura
e per una specialmente, decisiva
se vi dico
che c’era tra loro Maurizio 20
vecchio argento d’Italia
fuoco calmo e vivo.
Vi dico che non era un sogno.
C’erano tutti, o quasi, i volti della mia vita
compresi quelli degli andati via 25
e altri che già erano in vista
lì, a due passi dal confine
non ancora nei paraggi della morte.

Francesca Ravazzi
886454
A.A. 2020-2021
Francesca Ravazzi 886454 A.A. 2020-2021

INTRODUZIONE al testo
La lirica scelta appartiene ad Apparizioni e incontri, quinta e ultima sezione della raccolta Gli
Strumenti Umani di Vittorio Sereni.
Composta tra il giugno e il novembre 1962 e pubblicata prima su «Questo e altro» e poi su «Libera
Stampa», La speranza è descrizione e, in parte, narrazione, di un evento realmente vissuto
dall’autore nell’ambiente letterario di «Libera Stampa», rivista luganese socialdemocratica e poi
antifascista edita dal 1913 al 1993 e definita da Sereni come «ultimo tentativo di perpetuare una
buona occasione.»1
Come molti intellettuali suoi contemporanei, nell’immediato dopoguerra Sereni era entrato in
contatto con il florido milieu culturale della Svizzera, «variopinta, floridissima repubblica letteraria»
che, rimasta neutrale durante la guerra, aveva ospitato letterati e politici fuggiti dall’Italia e avviato
iniziative culturali di grande interesse (tra queste, ad esempio, il «Circolo italiano di lettura»).

Nella poesia proposta Sereni ricorda l’assegnazione del decimo «Premio Libera Stampa», svoltosi a
Campione d’Italia il 28 aprile 1962 e terminato nella città svizzera di Melide in un incontro gioviale
tra intellettuali e giurati, suoi amici, a cui lui stesso aveva partecipato: «fu a Melide verso le sette di
sera la volta che Nelo Risi vinse il “Libera Stampa”»2, scrive anni dopo nel volume celebrativo per i
vent’anni del Premio.
La cittadina del Canton Ticino, con il suo passato di antifascismo e la sua ancora intatta vitalità,
diventa qui pretesto per riproporre quella tematica politica che Sereni aveva già presentato in
precedenza e che, ancora una volta, resta saldamente intrecciata alle vicende della vita privata
dell’autore.

PARAFRASI libera
Vi dico che non era un sogno, anche se questo paese nel Canton Ticino può sembrarlo: era presto
ma la gente era già in casa a cenare, nessuno stava sulla porta e i negozi erano chiusi con le serrande
tirate giù. Era il primo, incontestabile, giorno di primavera, ma cos’era quell’improvvisa, triste,
baldoria delle piante e delle siepi?
[Percorrendo in auto il tratto di strada dall’Italia al Canton Ticino vedevo] questo paese che sfilava
all’infinito con figure umane e auto straniere (svizzere) e sentivo l’affanno di essere in ritardo o di
essere incappato in un temuto malinteso.
Presto però giunsero i primi segnali familiari: ci vennero incontro figure umane e targhe conosciute
(italiane); c’erano volti, che vedevo per metà, che si sporgevano da balaustre e che erano teneri,
buffi e silenziosi in quella poca luce che restava (prima della notte). Alla fine si resero visibili un
Carlo, qualche Piero e alcuni Sergi, insieme ad altri che ora non nomino per ragioni di spazio e
soprattutto perché basta dirvi che tra loro c’era anche Maurizio, vecchia medaglia d’argento al
valore militare, fuoco calmo e vivo.

1
Sereni V., Rapsodia elvetica, in Lunario delle lettere, «Milano-sera», dicembre 1950
2
(a cura di) E. Bellinelli, Vent'anni del Premio letterario "Libera stampa": 1947-1967, Lugano, Pantarei, 1967
1
Francesca Ravazzi 886454 A.A. 2020-2021

Vi dico che non era un sogno. C’erano tutte, o quasi, le persone importanti della mia vita, compresi
quelli già morti e quelli che erano famosi lì, a due passi dal confine, non ancora vicini al momento
della morte.

Analisi METRICA e LINGUISTICA


Realizzata in un’unica strofa con schema metrico libero, La speranza appare decisamente
compromessa con il linguaggio prosastico: ormai abbandonato il gusto per l’evanescenza ermetica,
Sereni propone una poesia di particolari concreti, versi lunghi e nessuna rima (eccezion fatta per le
assonanze dei vv 24-25-26).
Come tipico dell’autore, però, la lirica non si piega al discorso e, nonostante la struttura narrativa,
conserva il suo specifico poetico: i versi più lunghi sono in realtà composti da versi tradizionali e, se
alcuni endecasillabi sono facilmente riconoscibili (vv 7 e 16) e altri ricavabili attraverso gli
enjambements (vv 12-13, 26-27), il verso che domina è sicuramente l’ottonario (vv1, 9, 15), anche
doppio (vv 2, 17, 18-19, 24), insieme al novenario (vv 8, 10, 20, 23). I settenari sono sapientemente
usati per dare ritmo o per isolare porzioni di verso (v3, v 5: giorno di primavera, doppi ai vv 11, 13,
14) così come dal verso 7 al verso 10 sono scelti versi brevi che restituiscono la fretta e il ritardo
della scena; infine, colpiscono i dodecasillabi dei vv 6 e 28 posti laddove l’io, incapace di
comprendere esattamente il vissuto, si abbandona ad una struttura metrica meno codificata.

Si segnalano ancora i tre nessi trimembre asindetici dei vv 3, 14 e 16 in cui riecheggiano berretto
pipa bastone di Saba, e la ripresa antonimica del v8 nel v12 (dove a straniere è sostituito familiari);
stilema ricorrente in Sereni, la ripetizione è utilizzata per rendere con maggior concretezza possibile
un dato elemento del reale ed ovviare la difficoltà di spiegarlo, come dimostra la ripresa, pressocchè
identica, del primo verso nel ventitreesimo (quando, a conclusione del componimento, si dà ciclicità
allo stesso e lo si allontana dalla tentazione onirica).
Si inserisce in questa dinamica anche il tredicesimo verso «e facce, a mezzo, a mezz’aria tra certi
parapetti» in cui nella paronomasia a mezzo, a mezz’aria la seconda parola sembra germogliare
dalla precedente e citare il simile verso di Pantomima terrestre «per rami di scale, mezza faccia già
disfatta / mezza in ombra».

Dal punto di vista sintattico è evidente l’alternanza dei tempi verbali: l’imperfetto, che si presta alla
narrazione di un fatto del passato, è bilanciato dall’indicativo presente del Sereni scrittore che
ritorna sull’avvenimento e ne fa un dialogo con quei generici interlocutori a cui si rivolge con
l’allocutivo vi.
Anche il lessico appare vario e selezionato: accanto a termini della quotidianità come griglie,
serrande, stuoie, targhe, parapetti, facce (referenziali ma al plurale, segno che la vaghezza del sogno
non è completamente respinta) si trovano espressioni della lingua comune quali nei paraggi, per
ragioni di, ma anche scelte letterariamente marcate come l’aggettivo anteposto al nome (primo
incontestabile giorno) o l’ossimorico mesta buriana, dove mesta è citazione dantesca.

2
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COMMENTO
La speranza si apre con un’asserzione di carattere programmatico: Sereni parla ai lettori o, forse, ai
contemporanei ascoltatori che lo rimproverano di eccessivo abbandono all’immaginazione e
dichiara loro che, in questa occasione, l’intenzione non è quella di raccontare un sogno.
Un incipit di questo genere si comprende facilmente se si considera che la lirica fa parte di una
sezione, Apparizioni e incontri, densamente popolata di morti, di figure del passato rinate nel ricordo
o immaginate nel sonno; Sereni sa che il suo lettore ha già percorso quasi tutta la raccolta, si è
appena confrontato con Nel vero anno zero e con le altre poesie sulla shoah ed ora, di fronte ad una
poesia dal titolo così inatteso, potrebbe provare straniamento ed incredulità.
Non è da escludere, comunque, che l’autore voglia anche convincere se stesso dell’autenticità di
quanto vissuto: l’evento che descrive è talmente straordinario che egli stesso fatica a credervi, come
dimostrano l’ipotetica se può non esserlo e gli innumerevoli richiami alla dimensione onirica (i
sostantivi plurali che danno l’idea dell’indefinito, i nomi propri generici, il termine sagome, l’assenza
di paratesto e di precise indicazioni geografiche, i morti del finale).

La vicenda si svolge al tramonto, ora sereniana privilegiata, la luce va diminuendo (nel po’ di luce
che restava) i commerci (serrande) sono chiusi e nessuno [è] sulle porte perché, anche se presto,
tutti sono già in casa a cenare; con un tratteggio rapido e stereotipato, Sereni ci conduce all’interno
in un paese, il Canton Ticino, che appare quasi mitizzato, perfettamente armonico e ordinato.
Poi, d’improvviso, in una parentetica, irrompe energicamente la natura nel suo primo incontestabile
giorno di primavera: diametralmente opposta alla compostezza svizzera, essa non si accorda con
l’umano ma, al contrario, si manifesta in piante e siepi che creano baldoria, frastuono festante
(buriana).
Tale chiasso, però, è antifrasticamente descritto come triste (mesta), tanto da ricordare il passo di
Ancora sulla strada di Zenna «Perché quelle piante turbate m’inteneriscono? / Forse perché dicono
che il verde si rinnova/ a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?» in cui l’io lirico prende coscienza
dell’incolmabile distanza fra sé e la natura che, a differenza sua, ad ogni primavera rinasce.
Come nella poesia appena citata, anche in La speranza l’io lirico si trova su un’auto che sfreccia (sfila
all’infinito) e, nel suo percorso, vede altre auto e persone straniere (svizzere): come tipico dell’eroe
sereniano, anche questa volta si percepisce in ritardo, segno di quell’insanabile inferiorità che
l’autore sente su di sé per non aver partecipato alla Resistenza italiana ed aver così mancato
l’appuntamento con la Storia. Il temuto malinteso, allora, potrebbe ricondurre alla ragione della sua
prigionia in quanto Sereni, sebbene non ne condividesse gli ideali, si era ritrovato a combattere per
il fronte fascista e, all’indomani dell’Armistizio del ‘43, era stato catturato dagli Americani.

Giunto finalmente a destinazione, l’io lirico è accolto da sagome e targhe familiari, i volti e le auto
di amici letterati e giurati italiani che, come lui, erano giunti a Melide per quel «tepore dei caffè
prima e dopo la premiazione»3; vede altre facce che spuntano dalle balaustre e alla fine riconosce
alcuni amici (sicuramente Carlo Bo e Piero Bianconi, ma la questione è aperta), insieme ad altri che

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Vittorio Sereni, Significato di un premio, in «Illustrazione ticinese», 6 marzo del 1948
3
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sceglie di non nominare perché, tra loro, è sufficiente che si sappia che era presente Ferruccio Parri
(Maurizio), partigiano e antifascista premiato con una medaglia d’argento al valor militare: una
nominazione particolareggiata, allora, sarebbe risultata superflua perché Parri stesso è incarnazione
degli ideali di cui tutto il «Premio Libera Stampa» si fa promotore.
Sereni mette qui in scena un incontro privilegiato tra intellettuali in «un “luogo”, un crocevia o un
transito, un nesso plurimo della sua esistenza» in cui occorre un «premio d’oltre confine che non è
un premio ma un’apertura, un versante, un’aria, un motivo, una riproposta.»4
Sereni, poeta di confine, in questa lirica descrive una frontiera fisica, geografica, ma che allo stesso
tempo è anche metaforica perché permette di giungere ad un territorio culturalmente alto e,
soprattutto, estraneo al facile divertimento della società contemporanea e alle sue derive più
brutali: «a Lugano, fuori dai compromessi e dalle intrusioni giornalistiche e mondane, fuori anche
da una troppo professionale freddezza, sembra che le parole e le frasi delle opere lette mantengano
intatti il loro suono e il loro senso autentici.»5
Ferruccio Parri, fuoco calmo perché al riparo dal furore delle battaglie combattute in giovinezza ma
ancora vivo, diventa allora modello di un impegno politico da rinnovare, baluardo di integrità
ideologica e modello a cui tendere per chi, come Sereni, crede ancora nella sacrosanta rissa.

Tornando sulla necessità di credergli, l’io lirico attesta poi che in quell’occasione c’erano tutte, o
quasi, le persone che avevano segnato la sua vita, ed è qui che la poesia vira nettamente nella
direzione dell’apparizione: con esplicito riferimento al primo verso dell’ultima lirica della raccolta,
La spiaggia, Sereni allude alla comparsa dei morti attraverso l’eufemismo “andati via”. Insieme ai
volti dei defunti a lui cari compaiono quelli degli uomini a due passi dal confine ma non ancora nei
paraggi della morte; l’atmosfera della conclusione del componimento e la presenza delle parole vita
e morte a fine verso porterebbe ad interpretare quel confine come il valico che separa i viventi dai
defunti ma, in tal caso, il successivo non ancora nei paraggi della morte sarebbe da considerarsi una
contraddizione.
Certamente l’ambiguità è voluta ma, se questa accezione va mantenuta, non è negabile che l’io lirico
voglia anche alludere al confine che separa l’Italia dalla Svizzera e che, quel giorno, molti avevano
oltrepassato.

È evidente allora che è l’ambiente di Libera Stampa ad aver provocato l’apparizione: l’apertura, in
questo finale, ad un aldilà non trascendente è possibile perché l’io lirico, dopo il contatto con la
società italiana più becera ed impoverita, partecipa ad un evento di ritrovata familiarità, amicizia,
condivisione di memorie e recupero dei grandi valori del passato. Sebbene l’intento non sia
dichiaratamente metapoetico, Sereni ne La speranza concede alla letteratura il merito di rendere
concreti, ovunque nel tempo e nello spazio, piccoli nuclei di un’umanità ancora pura e vigile in cui
le vicende storiche e sociali si mescolano con quelle della vita privata di ciascuno.

4
Ivi, p.3
5
Ibid.
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Francesca Ravazzi 886454 A.A. 2020-2021

È nei testi del Premio che i personaggi del passato rivivono e i ricordi riemergono, ed è in occasione
di un evento letterario se italiani e svizzeri possono incontrarsi oltre il confine e perpetuare quel
legame sovranazionale di pace e rispetto che caratterizza l’idea di Europa dello stesso Sereni.

Di fronte all’Italia in balia della sterminata domenica, di fronte alle comitive musicanti e alle
maschere giulive che dimenticano il fascismo, la guerra, la shoah, di fronte ai padroni che vogliono
un tempo tutto muto, Sereni oppone la memoria storica del passato, la riconciliazione con il proprio
vissuto, l’impegno per la sopravvivenza degli ideali della Resistenza e la speranza per la costituzione
di una rinnovata civiltà europea fondata sull’amicizia e sulla cultura.
La speranza trae spunto da circostanze reali ma porta con sé un significato molto più grande che,
certamente, va ribadito perché «sennò poi ti capita che uno a cui le racconti scrive “questa poesia
fu scritta in occasione di un premio letterario”, e ci resti male».6

BIBLIOGRAFIA
Per la comprensione dell’evento autobiografico mi sono servita del contributo:
Ariele Morinini, "La speranza": Vittorio Sereni a due passi dal confine, in Dall'altra riva. Fortini e
Sereni (a cura di F. Diaco e N. Scaffai), Università di Losanna, 2018
consultabile all’indirizzo:
https://www.academia.edu/38406806/_La_speranza_Vittorio_Sereni_a_due_passi_dal_confine
e ricco di pezzi editoriali scritti dallo stesso Sereni negli anni del dopoguerra.

6
Ivi, p.3
5

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