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Corso Di Didattica Tessaro 2016 PDF
Corso Di Didattica Tessaro 2016 PDF
DIDATTICA
Fiorino Tessaro
tessaro@unive.it
Venezia, 2016
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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epistème s. f. – Nel linguaggio filosofico, traslitt. del gr. ἐπιστήμη, che indicava inizialmente ogni
conoscenza abilitante a compiere determinate attività o mestieri, e in seguito, più specificamente,
l’aspetto rigoroso e teorico della conoscenza, in contrapp. sia alla δόξα (opinione), sia
alla ἐμπειρία (empirìa) che indicava solo la capacità operativa. Nella filosofia contemporanea, il termine
comprende l’insieme delle conoscenze e delle teorie scientifiche che caratterizzano una data
epoca, con una sfumatura relativa ai loro comuni presupposti; è usato anche, con riferimento a una
determinata disciplina, a un movimento di pensiero, a un autore di particolare importanza, per
indicarne le tesi fondamentali o proposte interpretative, dalle quali derivano sia suggerimenti per altri
campi della ricerca sia sollecitazioni ideologiche e filosofiche: in tal senso, dal rinvenimento delle
epistemi trae origine la considerazione interdisciplinare del sapere (da:
http://www.treccani.it/vocabolario/episteme/?)
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La poiesis è la costruzione creativa della conoscenza. Poièsi s. f. [dal gr. ποίησις «il fare,
produzione», der. di ποιέω «fare»], letter. – Nel linguaggio filosofico, l’attività dello spirito, il suo
carattere creativo.
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una componente personale, che cresce nelle motivazioni e nei valori, nell’esperienza e nei
contesti in cui l’insegnante si trova ad operare. La crescita della conoscenza e della
competenza professionale del docente è legata in gran parte allo sviluppo di una capacità
di riflessione nell'azione, oltre che di riflessione prima e dopo l'azione stessa.
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Chi, invece, intende la scienza come riflessione sui saperi empirico-logici, limita le
scienze dell'educazione alle discipline umane e sociali, quando queste hanno come
oggetto l’azione educativa e formativa. Si avranno, quindi, ad esempio la biologia,
l’antropologia, la psicologia, la sociologia, ecc., dell'educazione, della famiglia, della
scuola, della gioventù, dell'apprendimento, dell'istruzione, dello sviluppo. Le altre
discipline, a carattere teorico, metodologico ed operativo-strumentale sono viste come
discipline ausiliarie o contestuali alla pedagogia e non come scienze autonome, benché
contribuiscono ad interpretare e a costruire interventi formativi sostenuti da saperi
scientificamente corretti e culturalmente critici.
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“La didattica indica … l’attività di esporre in maniera facilitata, con procedure adatte ai
destinatari, giovani o adulti, i contenuti di apprendimento; in ciò distinguendosi dai termini
pedagogia e pedagogico che designano piuttosto l’attività teoretica di riflessione, fondazione
e ricerca che concernono in generale l’educazione, l’istruzione e la formazione”. (Laeng M.,
Atlante di pedagogia. Le didattiche, Tecnodid, Napoli, 1991, 14)
Ciò non significa che, con semplicistica equazione, la pedagogia sta alla teoria come la
didattica sta alla pratica. Come in ogni scienza, anche nella didattica la processualità
pro-attiva e retro-attiva tra azione e riflessione, tra prassi e teoresi, supera
l’antinomia teoria-pratica (ovvero, tra il pensare e l’agire), per comprendersi in un
processo di sviluppo insieme scientifico e costruttivo, di ricerca e di formazione.
In sintesi, la pedagogia riguarda i fini, i perché dell'educazione, mentre “la didattica ha
come suo campo indagine lo studio dell'interpretazione e la progettazione
dell'insegnamento per ottimizzarne i processi, per ottenere risultati sempre migliori
quantitativamente e qualitativamente” (Santelli Beccegato L., 1998, 607).
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Ancora oggi nella scuola si utilizza il termine “materia” per definire una branca di sapere insegnata
da un docente. Qui, non usiamo questo termine poiché si riferisce ad un particolare teoria dell’istruzione,
quella in cui l’insegnante si limita a trasmettere contenuti. Usiamo, invece, il termine più esteso di
disciplina inteso come disciplina mentis, organizzazione di saperi sistemici, sistematici e dinamici: i
saperi, nella loro evoluzione storico-epistemologica, “disciplinano” la mente e, reciprocamente, sono essi
stessi disciplinati dalla “mente”.
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realtà). È opportuno che ogni insegnante riconosca i processi che specificano la disciplina
che insegna e li interpreti alla luce del loro potenziale formativo per gli studenti.
Il compito della didattica disciplinare è di “curvare” il metodo di insegnamento ai
modelli del sapere di quella specifica disciplina, assumendone l’epistemologia in atto (o le
problematiche epistemologiche che la disciplina sta vivendo) come punto di riferimento
costante per l’azione didattica.
Molte sono le materie scolastiche, troppe e non tutte “disciplinate” secondo categorie
scientifiche. Per facilitare l’esposizione è opportuno parametrare il sapere scolastico
rappresentandolo in aree disciplinari (macro-aree) e analizzando le loro strutture
epistemico-didattiche.
Franco Cambi (1998) individua cinque aree disciplinari (linguistico-letteraria, storico-
sociale, matematica, scientifico-naturale, tecnico-artistica) alle quali aggiunge una sesta
area, meta-disciplinare (area filosofica).
Su tali aree, si presentano in Approfondimento 1.A alcune tracce di riflessione al solo
scopo di introdurre il futuro insegnante ai processi epistemologici delle altre discipline,
processi talvolta condivisi, altre volte dissimili dai propri. La conoscenza di tali sviluppi,
necessaria per non chiudersi in torri d’avorio disciplinariste, fungerà da base per la
costruzione di percorsi formativi integrati, trasversali e, perché no, di frontiera, come di
frontiera è la ricerca.
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In Materiali di lavoro online si propone uno strumento per l’analisi dei profili :
1. cognitivo/intellettivo
2. interattivo/relazionale
3. psicologico/motivazionale
4. operativo/agentivo
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APPROFONDIMENTO 1.A
L’area linguistico-letteraria
b) gli universi letterari, partendo dalle forme letterarie per arrivare poi alle
tradizioni, anche nazionali. “Va capovolto il modello di insegnamento letterario
corrente (di impianto nazionalistico, ottocentesco) per recuperare una lettura […]
che si giochi soprattutto intorno al trinomio poesia, prosa e narrazione,
evidenziando in ogni ‘fattore’ la tipicità linguistico-letteraria, la funzione
comunicativa, la dimensione espressiva, la capacità formativa …” (Cambi, 1998,
614);
L’area storico-sociale
La ricerca storica si cimenta su due fronti: dello statuto logico del suo discorso
(la storia è “spiegare”, Hempel, o “comprendere”, Veyne, oppure è spiegazione e
comprensione insieme, Weber?), e dello statuto fenomenologico dell'evento
storico (che sempre plurale, che necessita di ottiche diverse e contrapposte).
“Portare i problemi della storia contemporanea nella didattica significa andare
verso una storia più plurale, più attenta alla sua metodologia, più critica, più
consapevole di essere un sapere costruito su molti registri” (ibid.).
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L’area matematica
i problemi connessi alla semantica della matematica (è solo sintassi?, la sua natura
è pura convenzionalità?).
Il lavoro didattico anche qui si presenta articolato e complesso; la matematica come
architettura, infrastruttura dei saperi, deve legarsi alla ricerca attuale, sviluppando sia le
valenze logico-formali sia quelle costruttivo-metodologiche.
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L’area filosofica
L’area filosofica, così come viene proposta da Cambi, non va intesa in modo
disciplinare specifico, ma pluri e meta-disciplinare, con una sua autonomia e una sua
pervasività, con sue specifiche funzioni di coordinamento, di integrazione, di meta-
riflessione sui saperi.
Il sapere filosofico è un sapere plurale: è un meta-discorso, è un sapere insieme
enciclopedico e interdisciplinare, è un tipo di riflessione aperta. Il sapere filosofico è un
regolatore riflessivo dei saperi e, anche, auto-riflessivo, contrassegnato
dall’universalità e dalla radicalità, che mette in campo forme di argomentazione
rigorosa ispirata ai criteri della necessità e, insieme, della libertà.
“Per svolgere tale funzione generale e radicale la filosofia va introdotta in ogni scuola
superiore, va anche insegnata non solo come diacronia di filosofi e di ‘ismi’, va ricondotta
verso la ricerca, lo spirito della ricerca. Va resa, la sua didattica, più articolata, più
nuova, più ricca” (Cambi, 1998, 617), costruita per problemi, resa più dialogica e
testuale, più legata alla argomentazione, alla giustificazione, alla persuasione
/dimostrazione.
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STRUMENTI DI LAVORO
A. COGNITIVO/INTELLETTIVO B. INTERATTIVO/RELAZIONALE
C. PSICOLOGICO/MOTIVAZIONALE D. OPERATIVO/AGENTIVO
A. IL PROFILO COGNITIVO/INTELLETTIVO
Analisi dei processi di apprendimento
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IL PROFILO COGNITIVO
ANALISI DEGLI STILI E DEI PROCESSI DI APPRENDIMENTO
1) Per ogni polarità, individuare lo stile prevalente (es. se ‘SISTEMATICO’ barrare la freccia vicina)
2) Assegnare un valore allo stile prevalente
3) Assegnare un valore allo stile opposto
Stile Stile
prevalente + x - - x + prevalente
SISTEMATICO 3 2 1 1 2 3
INTUITIVO
ANALITICO 3 2 1 1 2 3
GLOBALE
RIFLESSIVO 3 2 1 1 2 3
IMPULSIVO
VERBALE 3 2 1 1 2 3
VISUALE
CONVERGENTE 3 2 1 1 2 3
DIVERGENTE
SERIALE 3 2 1 1 2 3
OLISTICO
RICETTIVO 3 2 1 1 2 3
ESPLORATIVO
INTRAPERSONALE 3 2 1 1 2 3
INTERPERSONALE
Annotazioni:
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IL PROFILO SOCIO-RELAZIONALE
ANALISI DEI COMPORTAMENTI SOCIALI
Per ogni indicatore assegnare un valore da +3 a -3. Appurare che il +3 sia effettivamente positivo e non
negativo per eccesso, in tal caso barrare la freccia (es per ‘SOLIDARIETA’: l’allievo non solo offre agli altri il suo
necessario ma anche il suo indispensabile).
Negativo x
eccesso
INTERAZIONE 3 2 1 -1 -2 -3
SOLIDARIETA' 3 2 1 -1 -2 -3
CAPACITA' DI ASCOLTO 3 2 1 -1 -2 -3
RICONOSCIMENTO SOCIALE 3 2 1 -1 -2 -3
COOPERAZIONE 3 2 1 -1 -2 -3
UMORISMO 3 2 1 -1 -2 -3
MEDIAZIONE SOCIALE 3 2 1 -1 -2 -3
PARTECIPAZIONE 3 2 1 -1 -2 -3
Annotazioni:
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IL PROFILO PSICOLOGICO
ANALISI DELLO SVILUPPO DEL SÉ E DELL'AUTONOMIA PERSONALE
Per ogni indicatore assegnare un valore da +3 a -3. Appurare che il +3 sia effettivamente positivo e non
negativo per eccesso, in tal caso barrare la freccia. V. profilo interattivo/relazionale.
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7. Indicatore: ORGANIZZAZIONE
8. Indicatore: AUTOCONTROLLO
IL PROFILO OPERATIVO
ANALISI DEI COMPORTAMENTI E DEGLI ATTEGGIAMENTI NEL LAVORO SCOLASTICO
Per ogni indicatore assegnare un valore da +3 a -3. Appurare che il +3 sia effettivamente positivo e non
negativo per eccesso, in tal caso barrare la freccia. V. profilo interattivo/relazionale.
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2 IL CURRICOLO
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in Italia, con l'affermarsi della scuola dell'autonomia, i programmi ministeriali sono stati
progressivamente sostituiti dalle indicazioni nazionali, fondate su modelli formativi
curricolari4.
Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo (di Carlo Fiorentini)5
È nel regolamento dell’autonomia che viene sancito giuridicamente il passaggio dalla scuola del
programma alla scuola del curricolo. L’art. 8 attribuisce infatti alle scuole il compito della
costruzione del curricolo, ma garantisce l’esistenza di un sistema formativo nazionale affidando al
ministro il compito di stabilire “gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli
alunni”.
Spesso si legge o si sente dire che la commissione De Mauro ha elaborato i nuovi curricoli. Ci
sembra questa formulazione fuorviante, perché veicola l’idea che si passi da vecchi a nuovi
curricoli, e che quindi curricolo sia sinonimo di programma.
Prendiamo innanzitutto in esame le considerazioni del ministro De Mauro. Partiamo dalle finalità
fondamentali della scuola del curricolo:
“Il principio educativo della scuola è, dunque, la centralità del soggetto che apprende, con la sua
individualità e la rete di relazioni che lo legano alla famiglia e ai diversi ambienti sociali, regionali
ed etnici (…) Occorre garantire l’acquisizione di cognizioni e far comprendere la loro importanza. Le
cognizioni sono esse stesse durevoli e durevoli ne sono gli effetti in quanto siano proposte in modo
che chi apprende ne sia coinvolto, ne percepisca la rilevanza per i successivi studi e per le scelte
successive, per costruire il suo progetto di esistenza e, insomma, per poter tornare ad esse e
riutilizzarle per tutto l’arco della vita. Sono dunque importanti in quanto sappiano essere
strumentali rispetto all’imparare durevolmente ad apprendere, alla maturazione dell’identità
personale, all’educazione a diventare liberi cittadini e cittadine di una Nazione antica e rinnovata
quale è l’Italia della Repubblica, il nostro Paese (…) L’obiettivo è quello di favorire un reale successo
formativo che consenta a ciascuno –secondo le sue vocazioni e le sue possibilità effettive – di
conseguire non solo e non tanto un titolo di studio, quanto e soprattutto un’adeguata capacità di
padroneggiare i contenuti dell’apprendimento”6.
Vediamo ora come viene tratteggiata la scuola del curricolo:
“E’ evidente la differenza tra il programma e il curricolo: il programma indica un insieme di
contenuti definiti centralmente: a essi il docente doveva riferirsi per il suo insegnamento (…) Il
curricolo parte anch’esso dai contenuti, ma delinea l’articolato e complesso processo delle tappe e
delle scansioni dell’apprendimento. I contenuti stessi divengono così non tanto la guida
dell’insegnante, quanto la via per far conseguire alle allieve e agli allievi conoscenze solidamente
assimilate e durature nel tempo. E’ qui che la professionalità del docente trova tutto il suo spazio
poiché può esplicarsi nel nuovo quadro di libertà culturale e progettuale, di flessibilità organizzativa
e didattica garantito dall’autonomia (…) E’ l’azione didattica che risolve il curricolo in un processo di
insegnamento/apprendimento teso a una formazione non solo solidamente compiuta, ma anche
umanamente coinvolgente. In tal senso, esso è al centro della nuova scuola: ne interpreta le
finalità e le traduce nei contesti delle pratiche educative”7.
Ed infine, aspetto fondamentale della scuola del curricolo, vi è l’individuazione di saperi
essenziali:
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L'introduzione dei modelli curricolari ha dato luogo ad equivoci ancora oggi non completamente chiariti, e
riguardano soprattutto la confusione tra curricolo e programmi. Riprendiamo le riflessioni di U. Margiotta (1998,
70) per fare “una distinzione precisa, tra ricerca sul curricolo, programma e programmazione”:
la ricerca sul curricolo è analisi della formazione scolastica nella sua dimensione critica e progettuale (di
scelta cioè tra diverse teorie dell'istruzione, diverse teorie della cultura nonché di ponderazione delle teorie
di apprendimento di riferimento);
il programma è la codifica dei contenuti di insegnamento e dei criteri cui si decide di collegare la loro
organizzazione;
la programmazione è materia di pianificazione e di implementazione del curricolo, e perciò materia
inestricabilmente legata alle politiche dell'educazione e della scuola.
5
Tratto da Il passaggio dalla scuola del programma alla scuola del curricolo è il “centro della nuova scuola”
- http://www.cidifi.it/passaggio_dalla_scuola_del_progr.htm#_ftn9
6
T. De Mauro, Indirizzi per l’attuazione del curricolo, in G. Cerini, I. Fiorin, I curricoli della scuola di
base. Testi e commenti, Napoli, Tecnodid, 2001, pp. 24-25.
7
Ibidem, p. 27.
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“Un curricolo essenziale (ed essenziale non significa certo minimale) si basa sulla convinzione
che quell’adeguamento (dei contenuti) si possa invece perseguire attraverso percorsi scolastici
caratterizzati non dallo studio estensivo di molti contenuti, ma da quello intensivo e criticamente
perseguito”8.
8
Ibidem, p. 28.
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- per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione: testo definitivo del Regolamento
recante le indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di
istruzione …
Regolamento ministeriale del 16 novembre 2012
Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola del’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (testo
allegato al Regolamento)
- per i licei: Regolamento recante indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di
apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti
per i percorsi liceali … (Decreto Interministeriale 211 del 7 ottobre 2010).
- Le Indicazioni sono presentate o nel documento completo, oppure in documenti divisi per
ciascun percorso liceale che comprendono la nota introduttiva, il profilo generale, il profilo
specifico del percorso, il quadro orario e le Indicazioni di ciascuna disciplina.
- Scarica il documento completo delle Indicazioni nazionali (LICEI)
Il testo che segue riporta le linee generali delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola
dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (2012). È opportuno lo studio anche da parte dei docenti
della secondaria di II grado (costoro potranno poi comparare con le premesse generali delle scuole
superiori).
Ogni corsista è tenuto a estrapolare dalle Indicazioni o dalle Linee-guida, le competenze, i
traguardi e gli obiettivi relativi alla proprie discipline. Essi fungeranno da base per la progettazione,
l’azione didattica e la valutazione.
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ATTENZIONE: è indispensabile che un docente possegga le “sue” Indicazioni o linee-guida. Se
necessario può scaricarle dal sito ministeriale o altro. PRESTARE ATTENZIONE PRIMA DI STAMPARE: in
certi casi sono tantissime pagine.
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Obiettivi di apprendimento
Gli obiettivi di apprendimento individuano campi del sapere, conoscenze e abilità ritenuti indispensabili al
fine di raggiungere i traguardi per lo sviluppo delle competenze. Essi sono utilizzati dalle scuole e dai docenti
nella loro attività di progettazione didattica, con attenzione alle condizioni di contesto, didattiche e
organizzative mirando ad un insegnamento ricco ed efficace.
Gli obiettivi sono organizzati in nuclei tematici e definiti in relazione a periodi didattici lunghi: l’intero
triennio della scuola dell’infanzia, l’intero quinquennio della scuola primaria, l’intero triennio della scuola
secondaria di primo grado. Per garantire una più efficace progressione degli apprendimenti nella scuola
primaria gli obiettivi di italiano, lingua inglese e seconda lingua comunitaria, storia, geografia, matematica e
scienze sono indicati anche al termine della terza classe.
Valutazione
Agli insegnanti competono la responsabilità della valutazione e la cura della documentazione, nonché la
scelta dei relativi strumenti, nel quadro dei criteri deliberati dagli organi collegiali. Le verifiche intermedie e le
valutazioni periodiche e finali devono essere coerenti con gli obiettivi e i traguardi previsti dalle Indicazioni e
declinati nel curricolo.
La valutazione precede, accompagna e segue i percorsi curricolari. Attiva le azioni da intraprendere, regola
quelle avviate, promuove il bilancio critico su quelle condotte a termine. Assume una preminente funzione
formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo.
Occorre assicurare agli studenti e alle famiglie un’informazione tempestiva e trasparente sui criteri e sui
risultati delle valutazioni effettuate nei diversi momenti del percorso scolastico, promuovendone con costanza
la partecipazione e la corresponsabilità educativa, nella distinzione di ruoli e funzioni.
Alle singole istituzioni scolastiche spetta, inoltre, la responsabilità dell’autovalutazione, che ha la funzione di
introdurre modalità riflessive sull’intera organizzazione dell’offerta educativa e didattica della scuola, per
svilupparne l’efficacia, anche attraverso dati di rendicontazione sociale o emergenti da valutazioni esterne.
Il sistema nazionale di valutazione ha il compito di rilevare la qualità dell’intero sistema scolastico, fornendo
alle scuole, alle famiglie e alla comunità sociale, al Parlamento e al Governo elementi di informazione essenziali
circa la salute e le criticità del nostro sistema di istruzione. L’Istituto nazionale di valutazione rileva e misura gli
apprendimenti con riferimento ai traguardi e agli obiettivi previsti dalle Indicazioni, promuovendo, altresì, una
cultura della valutazione che scoraggi qualunque forma di addestramento finalizzata all’esclusivo superamento
delle prove.
La promozione, insieme, di autovalutazione e valutazione costituisce la condizione decisiva per il
miglioramento delle scuole e del sistema di istruzione poiché unisce il rigore delle procedure di verifica con la
riflessione dei docenti coinvolti nella stessa classe, nella stessa area disciplinare, nella stessa scuola o operanti
in rete con docenti di altre scuole. Nell’aderire a tale prospettiva, le scuole, al contempo, esercitano la loro
autonomia partecipando alla riflessione e alla ricerca nazionale sui contenuti delle Indicazioni entro un
processo condiviso che potrà continuare nel tempo, secondo le modalità previste al momento della loro
emanazione, nella prospettiva del confronto anche con le scuole e i sistemi di istruzione europei.
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professionale. “Se per molti anni ho lavorato bene, e i risultati si sono visti, perché devo
cambiare, perché devo modificare il mio modo di insegnare?”
Il problema della resistenza al cambiamento è avvertito in tutte le professioni; per lo
più è dovuto alle innovazioni tecnologiche e ai nuovi assetti organizzativi che le
innovazioni comportano. Ma nella scuola non è proprio così; nella scuola la vera
innovazione non è data dai media ma dagli studenti che vivono, anche mediante i
media, nuovi e diversi processi di apprendimento, nuove e diverse relazioni
interpersonali, direzioni di senso. L'insofferenza al cambiamento, che è un indicatore
dell'invecchiamento professionale precoce, nella scuola denota l'incapacità di sviluppare
didattiche nuove per i nuovi allievi.
Una didattica nuova non significa cancellazione, annullamento e sostituzione della
precedente. La didattica per competenze si associa e incrementa il valore educativo delle
validissime metodologie attive che qualificano molta parte delle nostre scuole dell'infanzia
e della primaria: le tecniche laboratoriali e di ricerca-azione, le strategie riflessive e
metacognitive, le modalità ludiche e operative di coinvolgimento dei bambini, in questa
luce, non sono semplici tecniche d'istruzione, ma riconfigurano il vero senso educativo
del fare scuola.
Il soggetto che apprende per competenze impara coniugando conoscenze ed
esperienze, integrando il pensiero con l’azione, mobilitando le competenze che
già ha sviluppato, ingegnandosi a costruire il proprio sapere, ma soprattutto
impara a scegliere e a decidere, facendosi carico delle decisioni e delle
conseguenze che ne derivano. Qui sta la vera novità delle competenze: nei paradigmi
di autonomia e responsabilità, specificati anche nella Raccomandazione del Consiglio
d'Europa (2006).
Responsabilità e autonomia
Senz'altro qualcuno inorridirà: un ragazzo che sceglie e decide in modo autonomo e
responsabile?! Ovviamente non sto parlando di autonomia compiuta o di responsabilità
giuridica; sostengo invece che a) ogni attività umana, fin dalla nascita, è frutto di
selezioni, scelte e decisioni personali autonome, anche quando guidate o indirizzate da
altri, b) la responsabilità è appannaggio di colui che decide, c) l'autonomia e la
responsabilità si sviluppano esercitando l'autonomia e la responsabilità.
Fin da piccolo il soggetto sceglie e decide, costruendosi e regolandosi (autòs-nòmos)
nelle interazioni e nelle relazioni con gli altri. Il percorso di costruzione dell'autonomia si
sviluppa con il dialogo e dal confronto e non con l'imposizione. Se l'adulto, sia esso la
mamma, il papà o l'insegnante, decide al posto del soggetto, il soggetto non si sentirà
responsabile di quelle decisioni, non si prenderà cura e non si farà carico di qualcosa
voluto da altri. È compito dell'educatore creare il setting, le condizioni e il
contesto tali da permettere al soggetto la decisione personale.
La competenza si apprende in modo naturale, per errori e per approssimazioni.
Pensiamo alla formazione del linguaggio, a quelle che nella scuola chiamiamo
competenze comunicative e linguistiche: il soggetto impara a parlare parlando, non
impara prima le parole e le regole grammaticali e poi le mette in pratica. Impara a
parlare sbagliando: solo correggendosi sul piano linguistico affina lo scopo comunicativo
della parola; l’errore è un potente motore riflessivo. Impara giocando con le parole: la
valenza affettiva ed emotiva delle parole concorre in forma preponderante al loro valore
semantico, che si consolida in un apprendimento duraturo (basti pensare alle
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filastrocche, alle poesie, alle liriche, al canto, ma anche ai fumetti come commistione di
testo continuo –parole– e testo non continuo –immagini).
In sintesi, la competenza è l’agire riflessivo che si fonda sui saperi e sulle conoscenze
che il soggetto non solo ha imparato, ma di cui ne ha fatto esperienza reale, concreta,
vissuta.
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e per organizzare i curricoli dei sistemi scolastici e formativi nella società della
conoscenza. Pur riconoscendo la mancata esaustività concettuale di una definizione
negoziata, in quanto politicamente costruita dalle istituzioni europee, assumiamo
l’esplicitazione dell’EQF, come valida base condivisa di partenza: le “competenze”
indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità
personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello
sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono descritte in termini di
responsabilità e autonomia.
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Ma dove sta la vera competenza? Non risiede soltanto in ciò che un allievo sa, nelle
conoscenze che sa riprodurre, e neppure soltanto nelle cose che sa fare con ciò che sa,
nell’abilità di applicare il suo sapere. Per costruire la competenza è senz'altro necessario
che un soggetto dia significato al suo sapere, ma non è sufficiente. È imprescindibile
invece che ne possegga il senso, lo scopo, le motivazioni: la fatica del
cambiamento e il peso dell'imparare possono essere sostenuti soltanto se l'allievo
gestisce lo scopo dell'apprendere e ne condivide la direzione di senso. Non basta che
l'insegnante comunichi l'obiettivo di un percorso o di un'attività, non basta che lo
studente comprenda l'obiettivo definito dall'insegnante. È necessario che quell'obiettivo si
incarni nello studente, divenga il suo scopo da perseguire. Soltanto così, scegliendo e
decidendo, egli costruisce la sua autonomia, soltanto così se ne farà responsabilmente
carico.
Il senso della competenza comporta un diverso modo di interpretare
l'apprendimento: un apprendimento costruttivo e non semplicemente ricettivo,
un apprendimento pro-duttivo e non meramente ri-produttivo. È la dimensione
pro-attiva dell'apprendimento, quella che si avvale della capacità di prefigurare modelli e
scenari diversi e della determinazione nell'agire per raggiungerli, di affrontare i problemi
in modo creativo e alternativo, di trovare interdipendenze e connessioni tra le
conoscenze, e tra queste, le esperienze personali e le risorse che le situazioni mettono a
disposizione, di utilizzare simultaneamente il pensiero strategico e la gestione
progettuale, di coinvolgere e di motivare gli altri, di negoziare e cooperare con loro.
L'apprendimento per competenze è frutto dell'integrazione dinamica di una
molteplicità di componenti, dell'intreccio di processi cognitivi, metacognitivi e relazionali
in situazione. È, quindi, un apprendimento insieme situato, relazionale, esperienziale. Un
apprendimento che, trasformando se stesso nella spirale proattiva tra pensiero e azione,
promuove lo sviluppo integrato dell'allievo.
In conclusione: un soggetto diventa competente, non nasce competente, e diventa
competente in qualcosa, e in riferimento alle specifiche situazioni in cui è chiamato a
dimostrare in modo consapevole la sua competenza.
La competenza per esprimersi ha bisogno di un contesto concreto. Il contesto può
essere disciplinare, professionale o esistenziale: può essere il contenuto di un sapere,
può essere l'esperienza passata, può essere un ambiente di apprendimento, sia esso
reale o virtuale. La competenza esperta è ricca di contesti diversi, piuttosto che di
saperi.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Accanto alle conoscenze, il secondo elemento basilare è dato dalle azioni, ossia dalla
facoltà dell'individuo di agire sulla realtà e di trasformarla. Le diverse associazioni tra
conoscenze e azioni danno luogo ad alcuni concetti che non sono gerarchicamente
preordinati: sono le capacità, le abilità, le competenze e le padronanze.
La capacità è l'idoneità a fare qualcosa o a mettere in atto determinati
comportamenti. La capacità unisce in modo esclusivo la conoscenza con l'azione: una
persona è capace perché fa qualcosa, in caso contrario non è capace; non esiste una
scala di capacità e per interpretare i diversi livelli ci si avvale di un'altra categoria
interpretativa, quella della abilità.
L'abilità è l'idoneità a compiere qualcosa in modo soddisfacente rispetto ad uno
standard previsto. In genere le abilità sono correlate a prestazioni circoscritte in specifici
settori, e consistono nel saper svolgere determinati compiti con perizia e destrezza. Lo
studente abile svolge il compito in modo corretto, nel minor tempo possibile. L'analisi
dell'abilità manifestata dagli studenti conduce ad una ripartizione dei risultati per livelli in
scala.
Ed eccoci arrivati alla competenza. In essa capacità e abilità si sostanziano in una
molteplicità di contesti, e in questi deve rendersi operativa. Nella scuola i contesti sono
predisposti dagli insegnanti. Quando invece l’allievo affronta realtà non scolastiche,
ricombinando e “agendo” le competenze apprese in modo personale e originale, ci
troviamo dinanzi ad un vero e proprio sistema di padronanza.
La padronanza non è una competenza eccellente, ma é il modo in cui l’allievo
padroneggia mentalmente la realtà; in essa si ricombinano tutte le facoltà del
soggetto:cognitive e metacognitive, operativo-agentive e interattivo-relazionali. Con i
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
suoi sistemi di padronanza il soggetto mette alla prova "nella vita" le competenze che ha
acquisito "nella scuola". La scuola può iniziare costruendo curricoli per problemi, per
situazioni, per casi: così la competenza appresa troverebbe un senso compiuto.
Le otto competenze chiave sono quelle «di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione
e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione»
(Raccomandazione UE 2006). Esse fungono da quadro di riferimento a tutte le Indicazioni
nazionali.
2. La comunicazione nelle lingue straniere condivide essenzialmente le principali abilità richieste per la
comunicazione nella madrelingua. La comunicazione nelle lingue straniere richiede anche abilità quali
la mediazione e la comprensione interculturale. Il livello di padronanza di un individuo varia
inevitabilmente tra le quattro dimensioni (comprensione orale, espressione orale, comprensione scritta
ed espressione scritta) e tra le diverse lingue e a seconda del suo retroterra sociale e culturale, del suo
ambiente e delle sue esigenze ed interessi.
10
Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 settembre 2006.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
4. La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie
della società dell’informazione per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa implica abilità di
base nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC): l’uso del computer per reperire,
valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e
partecipare a reti collaborative tramite Internet.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Corso di
DIDATTICA
Fiorino Tessaro
tessaro@unive.it
Venezia, 2016
3 LA PROGETTAZIONE DIDATTICA
Uno studente può capitare con bravi insegnanti, o con meno bravi, in scuole
innovative o tradizionali, sia nei metodi che nei contenuti: che cosa garantisce agli
studenti una comune e qualificata base formativa? Come si possono ridurre le
“sperequazioni d’apprendimento” indipendentemente da dove e con chi capita lo
studente, e come si possono promuovere le potenzialità culturali e professionali di
ciascuno?
Gli insegnanti spesso non seguono l’intero percorso formativo di una classe;
precariato, trasferimenti, assenze interrompono il rapporto didattico: che cosa
garantisce la continuità formativa del curricolo?
E ancora: la scuola è ora meno che mai l’unica agenzia formativa; la formazione è un
processo che accompagna l’individuo per tutta la durata della sua esistenza e non
soltanto per gli anni di quella che viene comunemente definita l’età evolutiva.
L’affermazione può sembrare scontata: in realtà è il punto chiave di tutto il discorso
formativo. L’individuo apprende continuamente, prima di iniziare la scuola,
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
11
In Maragliano - Vertecchi, 1984, p. 8.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Un esempio. Consiglio di classe della I C, IPSC. Un docente di lettere si avventura in una dotta
trattazione sulle strutture sintattiche di Noam Avran Chomsky e sulla teoria dei codici
sociolinguistici di Basil Bernstein per dimostrare che i suoi allievi “presentano spiccate carenze
lessicali perché utilizzano un codice ristretto”. Riflettiamoci: Quanti tra i suoi colleghi presenti
saranno in grado di seguire il discorso? Non era forse più comunicativo, più formativo, più semplice
presentare un quadro esemplificativo sulla povertà linguistica degli studenti, interpellare in merito
gli altri docenti per riscontrare eventuali settori disciplinari linguisticamente meno carenti (perché
più motivanti) e successivamente tracciare un progetto di intervento comune (transdisciplinare)?
Se le competenze disciplinari sono specifiche (ciascuno è esperto nella propria
materia), le competenze metodologiche sono comuni e transdisciplinari. Se il linguaggio
disciplinare “divide” - distingue, quello pedagogico-didattico dovrebbe unire e
accomunare la professionalità degli insegnanti. Eppure è proprio su questo terreno che
si riscontrano le maggiori incomprensioni, nel pressappochismo e nell’ingenuità di alcuni,
nel dogmatismo e nello sperimentalismo di altri.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
12
Per approfondimento i principi generali di programmazione si rimanda ad Asimov (1986).
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È fondamentale che ogni insegnante conosca le Indicazioni/Linee Guida relative al proprio ordine
scolastico. Si rinvia al capitolo sul curricolo.
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VI. un livello disciplinare del singolo docente, o un livello di ambito dei docenti che
afferiscono ad un’area disciplinare, che stabilisce le priorità nello sviluppo delle
competenze, le sequenze concettuali e gli standard di accettabilità relativamente agli
specifici apprendimenti degli studenti.
Programmi e programmazioni veleggiano spesso nella normatività astratta delle
intenzioni: devono necessariamente sostanziarsi ancorandosi al reale dei progetti e delle
progettazioni.
Il progetto didattico è il disegno di ricerca e di azione che, coerentemente con il
programma di riferimento, determina le strategie operative, le conoscenze e i saperi, i
metodi e le tecniche, i sistemi di valutazione e di verifica, a partire da situazioni
effettivamente analizzate e ottimizzando le risorse a disposizione. Un progetto deve
essere pertinente rispondendo ai bisogni reali dell’utenza, fattibile rispetto alle risorse e
praticabile in attività didattiche concrete.
La progettazione è, conseguentemente, l’insieme delle attività volte ad organizzare
in modo sistematico le risorse umane e materiali, intellettuali e tecnologiche, disponibili o
accessibili, finalizzate alla produzione di modelli operativi (o progetti esecutivi) di
interventi didattici.
In generale, ogni attività di progettazione implica:
1. analisi della situazione (globale e specifica);
2. la definizione degli esiti formativi e la calibratura degli obiettivi;
3. l’articolazione degli interventi (corsi, moduli, unità);
4. la distribuzione dei compiti e la ripartizione delle attività;
5. l’individuazione delle strategie di insegnamento, dei metodi e delle tecniche
didattiche;
6. la scelta dei media, delle modalità e delle tecnologie di comunicazione;
7. la definizione dei criteri di verifica, degli standard di valutazione e degli indicatori
di monitoraggio.
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Gli insegnanti sono chiamati alla costruzione del Curricolo d'Istituto (detto anche
Curricolo Verticale d'Istituto), come previsto dalle Indicazioni Nazionali:
Ogni scuola predispone il curricolo all’interno del Piano dell’offerta formativa con
riferimento al profilo dello studente al termine del primo ciclo di istruzione, ai traguardi per lo
sviluppo delle competenze, agli obiettivi di apprendimento specifici per ogni disciplina .
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Di per sé l’idea di modello presenta una valenza epistemologica e metodologica peculiare: si rifà ad
un modo di procedere nella conoscenza della realtà che è di tipo sintetico, astratto, strutturato,
relazionale e aperto. La mappa è un modello sintetico del territorio di riferimento giacché ne rappresenta
soltanto alcuni aspetti e non altri; è un modello astratto poiché utilizza segni e simboli convenzionali in
sostituzione degli oggetti reali; è un modello strutturale poiché rende evidenti gli elementi organici e
costitutivi del territorio analizzato; è un modello relazionale che collega i diversi elementi mediante
correlazioni e connessioni significative; è un modello aperto in grado di dischiudersi in estensione e di
affinarsi in profondità.
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Per approfondire la didattica con i modelli di lavoro si rimanda al testo di Margiotta U. (a cura di),
Riforma del curricolo e formazione dei talenti, Armando Editore, Roma, 1997, e alle relative guide in
specifici ambiti disciplinari.
16
L’intero compito esperto punta all’acquisizione di soglie di padronanza. Pertanto, è importante non
confondere il rigore del modello didattico (quello che viene progettato dall’insegnante) con una rigida
gerarchia dei processi di pensiero e di apprendimento nell’allievo. Durante una determinata fase possono
attivarsi processi di apprendimento diversi, precedenti o successivi, a quelli specifici di pertinenza di
quella fase. Per esempio, durante la fase di mapping, accanto al processo di memorizzazione, possono
manifestarsi processi di discriminazione (transfer) o di pensiero procedurale (ricostruzione). In tal caso,
un corretto approccio metodologico richiede: il perfezionamento dei processi specifici di quella fase, il
consolidamento dei processi precedenti, la valorizzazione dei processi successivi anticipati.
17
Tra le tecniche per condurre il lavoro del gruppo, nella fase d’avvio, possiamo ricordare il
brainstorming o la tavola rotonda o, ancora, la conversazione clinica (proposta dall’approccio progettuale
per concetti).
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favorendo la presa di coscienza da parte di ciascuno di ciò che sa e che sta apprendendo
con gli altri, promuovendo, oltre al riconoscimento, anche un primo arricchimento e un
primo ordinamento delle preconoscenze condivise.
Anche se “naturali”, carichi di errori e di luoghi comuni, questi saperi presentano il
valore e la dignità della conoscenza personale, da riconfigurare con i saperi scientifici.
Sono diversi da allievo ad allievo sia a causa delle personali esperienze maturate, sia per
le diverse modalità di elaborazione connesse allo stile cognitivo o alle intelligenze da
ciascuno privilegiate.
I saperi naturali sono frutto di lenti processi di elaborazione che nel loro farsi hanno
abbracciato e respinto ipotesi e teorie diverse. Partire dai saperi degli allievi favorisce un
apprendimento più significativo perché radicato nell’esperienza cognitiva e affettiva dei
soggetti e perché esito di un processo di elaborazione personale che il confronto tra gli
allievi sollecita, sostiene, mette alla prova. La consapevolezza dei propri saperi produce
motivazione ad apprendere, soddisfa i bisogni di realizzazione personale e di autostima,
tutti elementi fondamentali per un buon apprendimento.
La fase didattica dei saperi naturali è finalizzata a creare un ambiente di
apprendimento che favorisca la presa di coscienza dei propri saperi e il confronto con
quello degli altri attraverso l’interazione all’interno del gruppo, nel quale l’insegnante
assume il ruolo di animatore regista.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Perché una didattica per padronanze? A mio avviso il concetto di fondo è che
l’allievo, a tutte le età e secondo la propria età, per essere riconosciuto come persona
che apprende, deve farsi carico del proprio apprendimento, deve cioè comprenderne il
senso e lo scopo, ed esserne responsabile. Perché si punta alla padronanza? Perché la
padronanza è una categoria del soggetto che vive; non è una categoria scolastica; nella
padronanza c’è il soggetto nella sua interezza, nella sua complessità, nella sua finitezza.
La padronanza non può che essere sviluppata e corroborata dal soggetto stesso (fin da
piccolo). La scuola, con la famiglia e la comunità, facilita e organizza il percorso di
autocostruzione di sistemi di padronanze sempre più rispondenti al senso e al valore che
la persona si dà.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Approfondimento 2.A
5. VERIFICA 2. REQUISITI
UNITA’
DIDATTICA
(UD)
4. METODI 3. CONTENUTI
UD 1 UD 2 UD 3 UD 4 UD n
18
Per l’approfondimento delle tipologie di progettazione si può fare riferimento a: F. Tessaro,
Metodologia e didattica dell’insegnamento secondario, Armando Editore, Roma 2002 (cap. 3). M. Baldacci
(a cura di), I modelli della didattica, Carocci, Roma 2004. P.Crispiani,Autonomia e new autonomy, in
AA.VV., Autonomia?, Junior, Bergamo 2000. Mager, R.F. - Gli obiettivi didattici, Giunti-Lisciani, Teramo
1972
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Ogni programmazione, qualsiasi sia il modello, definisce gli obiettivi che vuole raggiungere. La
Programmare
programmazione per obiettivi non si caratterizza per il fatto di definire obiettivi ma per il ruolo che
per obiettivi
assegna agli obiettivi e per le modalità con cui li individua.
Secondo l’approccio comportamentista la conoscenza consta di una successione ordinata di moduli
autonomi l’uno dall’altro che vanno appresi in successione. L’insegnamento strutturato organizza la
Conoscenza e successione dei singoli moduli.
comportamenti “Scarso peso era attribuito all’inconscio e alle motivazioni psico-affettive del comportamento, ridotto
smo ad una semplicistica catena di reazioni ai bisogni, agli stimoli, ed ai condizionamenti”.[34]
Sotteso a questo approccio è la linearità del programma. Più che apprendimento si ottiene un
addestramento a comportamenti in assenza di consapevolezza e partecipazione cognitiva.
“Condurre gradualmente gli allievi da accertate capacità iniziali ad individuate capacità finali
ottimizzando l’itinerario da seguire alla luce delle seguenti modalità:
1 individuare gli obiettivi, elencarli dettagliatamente e disaggregarli in sotto-capacità e sotto-obiettivi.
Tale schema va regolato secondo un ordine logico sequenziale, ovvero dal sotto-obiettivo più
semplice o precedente a quello più complesso o successivo. E’ infatti necessario che per ogni
capacità che si vuole insegnare, vengano indicati gli obiettivi specifici che lo studente deve
padroneggiare, senza restare nel vago di una definizione troppo generale e astratta delle capacità. D.
Istruzione
Parisi;
programmata
2 costruire il programma cioè la sequenza di esperienze o stimolazioni per gli allievi, affinché
raggiungano gli obiettivi;
3 suddividere il programma in sezioni minime, isolabili e verificabili, le unità didattiche che
comprendono:
- la situazione-stimolo;
- la risposta dell’allievo;
- l’informazione resa all’allievo sulla esattezza della risposta.
Vi è il primato degli obiettivi dato che “sugli obiettivi si costruisce la trama culturale dell’insegnamento
che si intende condurre. (...) Posizionare gli obiettivi diviene l’atto centrale del programmare. Il gesto
programmatorio tende ad identificarsi con gli obiettivi i quali rappresentano il corpo pesante della
programmazione tradizionale.
L’apparato degli obiettivi deve essere organicamente programmato, nel senso di costituire una
Tassonomia mappa selezionata in cui i fini e gli obiettivi siano individuati, disaggregati, ordinati, gerarchizzati.
degli obiettivi Il programmatore tassonomista veniva così sollecitato a redigere una analitica distinzione di mete
educative disposte dall’indistinto, generale e complesso, a quelle più dettagliate corrispondenti a
micro comportamenti o sezioni terminali di abilità o di acquisizioni che si possono oggettivamente
osservare (verificare) in minute entità.
Tratti distintivi ed emblematici delle tassonomie sono dunque: gerarchia, linearità, programmabilità,
controllabilità. [42]
All’obiettivo si richiede di essere:
- riferito ad una sezione unitaria e minima di capacità;
Caratteristiche - relativo ad un comportamento concreto ed inequivocabile;
dell’obiettivo - isolabile ed individuabile sia in fase progettuale che dell’azione educativa;
- osservabile e misurabile in itinere e alla fine (criterio del c’è o non c’è).
Deve essere: minimo, concreto, descrivibile, non ambiguo, rilevabile.[45]
Nei problemi reali le competenze si presentano sempre complesse ed interconnesse.
Isolarle impedisce di acquisire la competenza di risolvere situazioni concrete.
Il situated learning impegna gli studenti a risolvere problemi reali ed individua in ciò un elemento
Critiche centrale per la motivazione e per acquisire la capacità di contestualizzare e quindi risolvere i
problemi. Acquisire dei comportamenti, saper applicare degli algoritmi non prevede la competenza di
scegliere quale comportamento e quale algoritmo scegliere e a monte di individuare quale sia il
problema/i presenti nel sistema.
L’insegnamento programmato può fornire un valido contributo quando occorre acquisire in breve
Utilità
tempo determinati comportamenti.
Citazioni da P.Crispiani,Autonomia e new autonomy, in AA.VV., Autonomia?, Junior, Bergamo 2000
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Arg. 1 Arg. 1.2 Arg. 1.3 Arg. 1.4 Arg. 1.5 Arg. 1.6
Arg. 2.1 Arg. 2 Arg. 2.3 Arg. 2.4 Arg. 2.5 Arg. 2.6
Arg. 3.1 Arg. 3.1 Arg. 3 Arg. 3.4 Arg. 3.5 Arg. 3.6
Arg. 4.1 Arg. 4.2 Arg. 4.3 Arg. 4 Arg. 4.5 Arg. 4.6
Arg. 5.1 Arg. 5.2 Arg. 5.3 Arg. 5.4 Arg. 5 Arg. 5.6
Arg. 6.1 Arg. 6.2 Arg. 6.3 Arg. 6.4 Arg. 6.5 Arg. 6
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X
X X X
X
X
NODO 2
X
X X
X
NODO 5 NODO 1 NODO 3
X X
NODO 4
X
X
19
Si veda: Mappe, complessità, strutture di comprensione di Mario Gineprini e Marco Guastavigna su
http://www.noiosito.it/mcsc.htm
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Fase preparatoria: rete In base alla matrice cognitiva e alla mappa concettuale il docente realizza il percorso,
concettuale individua le tematiche e gli strumenti didattici ovvero i mediatori.
Attività: sistematizzazione La prima fase serve per organizzare in modo strutturato i concetti emersi nella
del senso comune conversazione clinica. Gli studenti acquisiscono maggiore coscienza di quanto da loro
sostenuto.
Attività: esperienza critica Viene svolto un esperimento che metta in evidenza i limiti della conoscenza spontanea
(preconoscenza o misconoscenza). I limiti possono essere dovuti o alla limitatezza
dell’esperienza su cui si basa la legge o su una semplificazione che porta ad errori in
quanto non tiene conto di tutti i fattori.
Attività: definizione In base all’esperienza critica gli studenti arrivano ad una nuova sistematizzazione dei
sistematica concetti ed ad una definizione sistematica.
porta a
Malattie Eccesso di
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Principi costituiti soddisfatta
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Malattie a alimentari ALIMENTAZIONE Mass Media
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Educazione alimentare
Colonialismo Autoconsapevolezza curate da Anoressia
dei popoli Bulimia
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nella
Aiuti Politiche
umanitari economiche Adolescenza
20
La mappa è stata costruita da e per gli studenti della II E dell’ITC “V. Bachelet” nell’ambito del
progetto PALMIRA dell’IRRE Lazio.
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1. DIAGNOSI FUNZIONALE
Area COGNITIVA
Area SENSORIALE
Area AFFETTIVA
Area RELAZIONALE
Area MOTORIA
Area MOTIVAZIONALE
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Corso di
DIDATTICA
Fiorino Tessaro
tessaro@unive.it
Venezia, 2016
4 I COMPITI AUTENTICI
LA FORMAZIONE DELLE COMPETENZE IN SITUAZIONE21
21
Questo paragrafo è tratto da F. Tessaro (2014), Compiti autentici o prove di realtà, in Formazione
& Insegnamento, XII – 3 – 2014, pp 77-88.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
‘vero’ dello studente al curricolo scolastico. Non vanno invece considerate autentiche
tutte le situazioni che si rifanno alla realtà. La situazione “la mamma va al mercato e
compra quattro dozzine di uova” si riferisce al reale, ma non è affatto autentica per la
maggior parte dei nostri alunni, dato che non fa parte del loro mondo una madre che
compra 48 uova. Nell’esame per la patente automobilistica, il test a risposte chiuse fa
riferimento a situazioni reali, ma non è autentico; è invece autentico l’esame di guida su
strada.
I compiti autentici si fondano sull’impostazione costruttivista secondo cui il soggetto
produce la conoscenza nell’agire riflessivo in situazioni di realtà. I compiti sono problemi
complessi, aperti, che gli studenti affrontano per apprendere ad usare nel reale di vita e
di studio le conoscenze, le abilità e le capacità personali, e per dimostrare in tal modo la
competenza acquisita (Glatthorn, 1999). Con i compiti autentici lo studente forma le
sue competenze, mobilitando esperienza e sapere, pensiero e azione, è
chiamato a selezionare, a scegliere e a decidere (autonomia), ed è tenuto a farsi
carico e a rispondere delle sue decisioni e delle conseguenze che ne derivano
(responsabilità).
…
I compiti autentici consistono in attività formative basate sull'utilizzo della
conoscenza e delle abilità concettuali e/o operative in situazioni reali, che
abbiano un collegamento attivo e generativo nella definizione e nella soluzione
dei problemi, e che siano radicate nelle convinzioni e nei valori dell'allievo.
Il richiamo alla definizione europea di competenza come «capacità di utilizzare
conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e metodologiche, in situazione di lavoro o
di studio» è evidente. Così come è trasparente l’opzione metodologica risalente alle
concezioni di K. Hahn, precursore delle attuali Expeditionary Learning Schools (in
Knoll,1998). Tale opzione, nella formazione adulta, è stata ampiamente sviluppata da D.
Kolb (1984) negli stadi dell’experiential learning e da J. Mezirow (2003) con l’esperienza
riflessiva, da J. Lave e E. Wenger (1991) con il situated learning nei sistemi formativi
organizzati in comunità di pratica, dall’Action Learning nelle forme avviate da R. Revans
(1980) e dall’Action Reflection Learning di L. Rohlin (Boshyk, Dilworth, 2010; Marquardt,
Ceriani, 2009).
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Reeves, Herrington e Oliver (2002), in uno studio di meta-analisi sulle attività e sui
compiti autentici, ne hanno individuato le caratteristiche fondamentali.
Le attività hanno rilievo nel mondo reale. Ripropongono, per quanto possibile, i compiti
che ci si trova ad affrontare nel mondo reale, personale o professionale; sono pertanto
compiti frequenti, o comunque critici. Non sono esercizi scolastici decontestualizzati.
I problemi connessi alle attività sono mal definiti ed aperti a multiple interpretazioni
piuttosto che risolvibili facilmente con l’applicazione delle procedure già conosciute. Gli
studenti devono identificare le loro proprie strategie e i traguardi intermedi necessari per
raggiungere lo scopo voluto.
Le attività autentiche contengono compiti complessi che gli allievi indagano anche per un
tempo considerevole. Le attività sono completate in giorni o settimane, e non in pochi
minuti o poche ore. Richiedono un investimento significativo di tempo e di risorse
intellettuali.
I compiti autentici offrono agli studenti l'occasione di esaminare i problemi da diverse
prospettive teoriche e pratiche, e non una singola interpretazione o un unico percorso
che da imitare per riuscire a risolvere il problema. L’uso di una varietà di risorse piuttosto
che da un numero limitato di riferimenti preselezionati (dal docente) richiede agli allievi
la competenza di selezionare le informazioni rilevanti e di distinguerle da quelle
irrilevanti.
I compiti autentici forniscono l'occasione di collaborare. La collaborazione è integrata
nella soluzione del compito, sia nell’ambiente scolastico sia nell'ambiente di vita reale, e
non è di solito realizzabile da un unico studente.
I compiti autentici forniscono l'occasione di riflettere. Devono garantire a chi sta
imparando la possibilità di scegliere e di riflettere sul proprio apprendimento sia
individualmente che in gruppo.
I compiti autentici possono essere integrati ed utilizzati in settori disciplinari differenti ed
estendere i loro risultati al di là di specifici domini. Incoraggiano prospettive
interdisciplinari e permettono agli allievi di assumere diversi ruoli e di sviluppare
esperienze in molti settori, piuttosto che acquisire conoscenze limitate ad un singolo
campo o dominio ben definito.
I compiti autentici sono strettamente integrati con la valutazione. La valutazione è parte
integrante del compito, così come accade nella vita reale, a differenza della valutazione
tradizionale che separa artificialmente la valutazione dalla natura dell'operazione.
I compiti autentici generano prodotti finali che sono importanti di per sé, non come
preparazione per un obiettivo successivo. Culminano nella creazione di un prodotto finale
completo, e non in un'esercitazione o in uno stadio intermedio funzionale a qualcos'altro.
I compiti autentici permettono più soluzioni alternative e la diversità dei risultati. Danno
luogo ad una variegata gamma di soluzioni possibili e questo apre a molte soluzioni
originali, e non, come nelle prove, ad una singola risposta corretta ottenuta
dall'applicazione di regole e procedure.
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Per ragioni di analisi, ma anche per promuovere l’accuratezza di studio e di ricerca della
loro costruzione, abbiamo articolato i compiti autentici in tre tipologie: di prestazione,
esperti e personali. Il primo si concentra sull’esecuzione e la verifica delle performance,
gli altri due sulla costruzione e valutazione delle competenze.
La distinzione dei compiti autentici in esperti e personali è dettata dalla necessità di
identificare con quanta più precisione possibile le specifiche competenze che si vogliono
mobilitare e sviluppare. Nel mondo reale si presentano per lo più intrecciati, con la
prevalenza dell’uno o dell’altro, perciò anziché in opposizione, possiamo collocarli lungo
un continuum che per un verso trova prevalentemente situazioni-problema personali,
quotidiane, familiari, che la persona è chiamata a risolvere con le conoscenze e le abilità
che in quel momento possiede, e per l’altro situazioni-problema disciplinari, che
richiedono il possesso di conoscenze specifiche e di abilità consolidate. Con i compiti ad
orientamento personale si sviluppano e si valutano prevalentemente le competenze
esistenziali e/o trasversali, mentre con i compiti orientati all’expertise si sviluppano e si
valutano prevalentemente le competenze disciplinari, inter e trans-disciplinari, le
competenze del professionista riflessivo, quelle che D.A. Schön (1983) chiamava Think in
Action.
Ecco, in sintesi schematica, le caratterizzazioni delle due tipologie di compito autentico.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Corso di
DIDATTICA
Fiorino Tessaro
tessaro@unive.it
Venezia, 2016
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
I metodi didattici22 sono modalità procedurali e processuali attivate dal docente, che
facilitano l'acquisizione significativa, stabile e fruibile di ciò che si offre con l'azione di
insegnamento. L’insegnamento è una proposta complessa, organizzata e vissuta, di
contenuti e di metodi, di valori e di strategie, di visioni del mondo e di tecniche operative.
In tale proposta il metodo si configura come l’itinerario, la procedura messa a punto e
organizzata dall’insegnante. L’itinerario si trasforma in percorso da seguire, in processo
reale e vissuto, al fine di ottenere risultati validi e affidabili nello studio dell’allievo e
nell'azione didattica.
Il metodo è insieme:
- l’itinerario disegnato, predisposto, costruito dall’insegnante e
- il percorso di apprendimento messo in atto dall’allievo.
Il compito specifico di un metodo didattico è di creare le condizioni che consentano
l'attivazione delle operazioni intellettuali necessarie all'assimilazione dei contenuti
dell'apprendimento nella struttura conoscitiva dell'allievo, e alla riorganizzazione di tale
struttura.
22
Dal greco méthodos: “via che conduce oltre”.
70
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
La metodologia, a sua volta, può essere definita come discorso sul metodo; è
riflessione e analisi dell’efficacia e della qualità degli itinerari e dei percorsi didattici. Il
compito della metodologia è di ricercare e studiare, correttamente e criticamente, i
metodi di insegnamento, di provarne la validità, di tradurli in modelli operativi atti a
costruire, analizzare e migliorare l’azione formativa.
Nella scuola secondaria il metodo di insegnamento è spesso fuso (e talvolta confuso)
con il metodo di ricerca delle discipline, e interpretato secondo i personali stili
comunicativi del docente. Per esempio, se insegno “Storia dell'arte” va benissimo che io
mi avvalga del metodo e delle tecniche di studio e di ricerca utilizzati dallo storico
dell'arte, ma tale metodologia va configurata a seconda:
a) degli studenti, rispetto alla loro età anagrafica e al loro specifico processo di
sviluppo cognitivo e dell'apprendimento (14,19, o 23 anni non sono la stessa cosa),
b) dell'indirizzo di studio e del peso formativo che la disciplina "storia dell'arte" ha
all'interno dell'indirizzo (è sufficiente pensare al diverso modo di porsi nei confronti della
“storia dell'arte” da parte di uno studente liceale classico, scientifico, o artistico).
Altre volte gli insegnanti si preoccupano di definire solo gli obiettivi e i contenuti,
adducendo la giustificazione che il metodo si stabilisce al momento e di volta in volta,
altrimenti ingabbia la creatività individuale. Il metodo non va considerato in modo isolato
e indipendente dagli altri elementi della progettazione didattica. Va, invece, coniugato e
connesso in maniera assai stretta almeno con tre altri aspetti:
- la determinazione del profilo d’ingresso degli allievi e del potenziale
d’apprendimento diagnosticato e riconosciuto, anche dagli studenti;
- la definizione del profilo formativo in uscita (fissando gli obiettivi nelle soglie di
competenze/padronanze attese, conclusive o in itinere);
- la selezione dei saperi disciplinari, intesi come mediatori scientifici e culturali.23
Naturalmente non è possibile giungere alla elaborazione di un metodo se non si sa
dove si vuole arrivare (obiettivi) e, qualora si intendesse impostare un metodo valido e
efficace, occorrerebbe considerare attentamente sia gli stili e i modi che l’allievo attiva
per apprendere (struttura conoscitiva dell'allievo) sia i nuclei concettuali, come
storicamente si sono determinati, ovvero i contenuti da apprendere (struttura
epistemologica della disciplina). Di conseguenza non è possibile affermare in astratto
l'esistenza di un metodo migliore di altri: solo misurandosi con la complessità del reale un
metodo potrà risultare adeguato, appropriato, opportuno o conveniente 24.
La scelta del metodo non può accodarsi agli altri nuclei fondamentali della
progettazione didattica (situazioni, obiettivi, contenuti, verifiche, ecc.); ma non può
neppure precederli: il docente che sa a priori quale metodo o quali tecniche utilizzerà,
indipendentemente dagli obiettivi e dai contenuti, dimostra che conosce solo quel metodo
e che intorno ad esso modella i propri insegnamenti e l'apprendimento degli allievi.
23
Ogni disciplina si presenta con valenze metodologiche plurali, sia nel suo farsi come disciplina
accademica, sia nel suo proporsi come disciplina-insegnamento. La mediazione scientifica e culturale
comporta la ricerca dei metodi e delle tecniche che accomunano (o per lo meno, avvicinano) i “modi”
dell’apprendere dell’allievo con i “modi” del sapere della disciplina.
24
“Il metodo diventa veramente il procedimento che garantisce la razionalità del lavoro didattico, ma
non esaurisce il lavoro didattico. Esso è uno strumento indispensabile ma non unico della didattica;
soprattutto non è elaborato una volta per tutte, ma è soggetto a variazioni, a cambiamenti, a
trasformazione, in funzione della sua applicazione guidata dai principi della didattica come scienza.” (T.
Tomasi, Il metodo nella storia dell’educazione, Loescher, Torino 1985, p. 27)
71
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25
G. Mialaret, Le scienze dell’educazione, Loescher, Torino 1978. Per Mialaret, l’insieme di metodi e
tecniche costituisce la didattica, cioè la prassi educativa, che consente di insegnare una particolare
disciplina, o un determinato insieme di saperi o di specifiche competenze.
26
P. Goguelin, J. Cavozzi, J. Dubost, E. Enriquez, La formazione psicosociale nelle organizzazioni,
Isedi, Milano 1972, p.92.
27
Prenderemo in considerazione, in seguito, cinque gruppi di tecniche attive: a) le tecniche
simulative (come il role playing o la simulata su copione), b) tecniche di riproduzione operativa
(come le dimostrazioni e le esercitazioni); c) tecniche di analisi della situazione (come lo studio di caso o
l'incident); d) tecniche di apprendimento insieme (come il brainstorming e il cooperative learning); e)
tecniche di apprendimento nell’azione (l’action, situated, incidental, service learning).
72
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28
Recalcati, Massimo (2014). L'ora di lezione. Einaudi: Milano.
29
Senza significatività l’insegnamento diventa inutile e/o molto pesante: se un argomento non
significa nulla per lo studente è inutile che l’insegnante prosegua imperterrito ed è anche molto
stressante ripetere continuamente sperando in una conversione illuminante. Sul versante dell’allievo,
senza significatività non c’è apprendimento ma addestramento!
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30
T.Tomasi, Il metodo nella storia dell’educazione, Torino, Loescher, 1985, p. 30
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Storicamente nella scuola sono andate affermandosi tre distinte modalità fondamentali
di svolgere la lezione; già R. Titone (1959) distingueva la lezione centrata sul contenuto
(logocentrica), dalla lezione centrata sull'allievo (psicocentrica), e dalla lezione centrata
sull’azione spontanea (empiriocentrica). Come per tutte le classificazioni, anche queste
modalità sono proposte come modelli di analisi: la realtà, complessa e composita, chiede
al docente forme metodologiche in diverso modo integrate. Ma, poiché l’integrazione
perfetta è un’utopia, è opportuno individuare e riconoscere le diverse “centrature”, ossia
le tipologie che tendenzialmente si utilizzano con maggiore frequenza.
La lezione centrata sul contenuto (o logocentrica) è la lezione tradizionale, la
“conferenza” dell’esperto. L’attività grava completamente sul docente. L’oggetto
sostanziale della lezione logocentrica è la materia di conoscenza. La sua finalità è
impartire una determinata quantità di contenuti-concetti, che delineano la struttura
logica della disciplina. Metodologicamente procede dal semplice al complesso. Il libro di
testo ed eventuali altre fonti bibliografiche sono gli elementi indispensabili, intorno ai
quali si sviluppa l'attività didattica. L'organizzazione spaziale dell’aula comporta la
disposizione allineata degli studenti, per far sì che tutti possano vedere il professore. Il
contenuto viene spesso presentato con proiezioni di schemi e di immagini. La
comunicazione è monodirezionale. Una lezione logocentrica può, perciò, essere proposta
anche ad un grande gruppo (80/100 studenti) riunendo più classi. La lezione logocentrica
ha raggiunto il suo scopo quando i contenuti sono presentati e sviluppati dal docente con
rigore scientifico e chiarezza espositiva.
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31
I princìpi su cui si basa la lezione centrata sull’azione sono stati ripresi e approfonditi, negli ultimi
anni, dal Cooperative Learning, un’impostazione metodologica centrata sul lavoro cooperativo tra gli
allievi.
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conclusiva. Non sono invece luoghi comuni i significati didattici attribuiti alle azioni
promosse in ciascuna fase: l’impostazione, l’articolazione e la logica di successione delle
attività si differenziano sulla base dei modelli teorici e metodologici di riferimento.
Analizziamo le tre fasi individuando le funzioni specifiche per ognuna di esse e le azioni
che, secondo l’ottica della comunicazione formativa e quindi indipendentemente dalle
proprie concezioni, possono essere attivate dal docente.
32
Gordon (1988) sostiene che la relazione docente-allievo è buona quando esiste: a) sincerità, b)
trasparenza, c) interesse, d) interdipendenza, e) individualità, f) soddisfazione reciproca dei bisogni.
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Partecipazione dello studente. Il docente utilizza produttivamente le idee degli studenti per
rinforzare, chiarire e approfondire aspetti importanti dell'argomento. Per stimolare la scoperta
autonoma eviterà di trasmettere tutti i contenuti elaborati. La partecipazione degli studenti,
accanto all'apporto di idee, richieste di chiarimenti, esposizioni di esperienze personali, include la
realizzazione di esercizi applicativi individuali o di gruppo.
Tre fasi, una ventina di azioni: ma è così complicato anche una “semplice” lezione? No,
non è complicato. E non serve neppure mettere in atto tutte azioni indicate in un’unica
esposizione.
L’insegnante dilettante mitizza la procedura, l’insegnante con molta esperienza
considera per lo più i processi, l’insegnante professionista gestisce i processi attraverso le
procedure e le modifica se non sono efficaci.
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Il laboratorio è:
Un’attività prevalentemente pragmatica, in cui si fa qualcosa per uno scopo, ad
integrazione di un insegnamento prevalentemente cognitivo. Con le antiche
rappresentazioni, l’aula è il luogo della teoria, il laboratorio è il luogo della pratica;
con le nuove, l’aula è il luogo del “pensiero per l’azione”, il laboratorio è il luogo
dell’”agire riflessivo”. Se si supera la frattura teoria-pratica, l’aula-laboratorio diventa
il luogo di costruzione della competenza nell’allievo, che connette il mondo del
problem solving reale con quello della riflessione.
Un’attività di costruzione della conoscenza, in cui i nuovi saperi non si
sovrappongono semplicemente alle conoscenze già possedute, ma interagiscono con
queste permettendo una loro ristrutturazione attraverso nuovi e più ricchi modi di
connessione ed organizzazione. È perciò necessario trovare efficaci collegamenti tra i
contenuti dell’insegnamento e le diverse esperienze degli allievi. Così il laboratorio
diventa un’avventura conoscitiva (metafora dell’esplorazione di Bateson).
Un’attività in cui si realizza la metacognizione: il laboratorio didattico mira ad un
processo di apprendimento che non incida solamente sulle abilità di base o acquisite,
ma anche sulle modalità della loro comprensione ed utilizzazione.
Luogo di approccio cooperativo: il laboratorio è l’ambiente in cui si concretizza un
nuovo modello di insegnamento/apprendimento fondato sulle interazioni fra gli attori
del processo formativo. In laboratorio l’enfasi va posta sul rapporto tra esperienza
individuale e ricostruzione culturale affinché le teorie servano per rispondere ai
perché diventando significative e motivanti.
I processi didattici di laboratorio devono mirare sempre, sia all’acquisizione delle
competenze, sia al loro consolidamento, attraverso apposite attività. Alle attività di
apprendimento e di consolidamento si aggiungono anche attività di sviluppo
(approfondimento, ampliamento e arricchimento) che non siano meramente applicative.
Prima di essere “ambiente”33, il laboratorio è uno “spazio mentale attrezzato”, una
forma mentis, un modo di interagire con la realtà per comprenderla e/o per
cambiarla. Il termine laboratorio va inteso in senso estensivo, come qualsiasi spazio,
fisico, operativo e concettuale, opportunamente adattato ed equipaggiato per lo
svolgimento di una specifica attività formativa.
33
Tra le diverse tipologie presenti nelle scuole, sono noti i laboratori linguistici, i laboratori
informatici e quelli multimediali. In ambito scientifico, tecnico e professionale sono presenti i diversi
laboratori specialistici (di chimica, fisica, macchine utensili, …), quelli di ricerca e quelli
sperimentali. Negli indirizzi artistici, umanistici e sociali sono laboratori gli atelier artistici, teatrali e
musicali. Ovviamente ogni disciplina può essere insegnata secondo metodologie laboratoriali e
l’ambiente in cui si svolge l’azione formativa è fondamentale: provare una scena teatrale in classe o su
un palcoscenico è completamente diverso dal punto di vista dei processi formativi implicati; una reazione
chimica può essere descritta in aula dal docente, può essere simulata con un software in laboratorio di
informatica, può essere “realizzata” in un laboratorio di chimica: sono tre ambienti didattici che attivano
e producono tre diversi tipi di apprendimento. Si può pensare anche ad un laboratorio linguistico-
letterario, ad uno storico, e così via. In questo modo ogni disciplina potrebbe essere dotata di un proprio
laboratorio: nelle istituzioni scolastiche di altri Paesi in cui si spostano gli studenti da un’aula all’altra (e
non gli insegnanti, come avviene da noi), la didattica più facilmente “si lascia organizzare” secondo
metodologie laboratoriali.
83
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Dal punto di vista logistico il laboratorio della scuola secondaria dovrebbe essere un
locale a sé stante, appositamente costruito e corredato per produrre apprendimenti
specialistici34. Dal punto di vista formativo, il laboratorio si caratterizza per l’oggetto della
sua azione, vale a dire per l'attività che vi si svolge, che investe il soggetto operante 35.
Con il lavoro in laboratorio lo studente domina il senso del suo apprendimento,
perché produce per uno scopo, perché opera concretamente, perché “facendo” egli sa (o
ipotizza) dove vorrebbe arrivare e per quale motivo.
La didattica laboratoriale è il metodo per eccellenza per gli tutti gli allievi che
“imparano facendo”, ed in particolare per i soggetti con difficoltà specifiche o
generalizzate di apprendimento, per gli studenti con bisogni educativi speciali.
Un’eccellente pratica laboratoriale è rappresentata dai “laboratori del fare”: sono
attivi in diverse località italiane; non sostituiscono il tradizionale “fare scuola”; si
svolgono per lo più in orario pomeridiano.
Ad esempio, i Laboratori del Fare di Rovereto:
« - Sono nati essenzialmente per colmare il vuoto dei pomeriggi dove i giovani “si lasciano
vivere” e riempirlo di senso e significati, attraverso proposte ed attività utili per sé e per gli altri.
Non sono stati pensati come uno spazio per utenti, clienti, consumatori.
- Sono ambienti attrezzati, luoghi dove si lavora per ottenere un prodotto e dove c'è qualcuno
che opera, che mette mano a strumenti, a cose ed oggetti e che li produce.
- Laboratorio per noi significa soprattutto un contesto educativo che garantisce condizioni di
apprendimento. In questo senso i nostri attrezzi sono le strategie pedagogiche. L’esperienza
educativa, che si fa da noi, non è solo di relazione ma, prima di tutto, un’esperienza di espressione
di sé attraverso la messa in gioco e l’acquisizione di competenze.
34
Se nella scuola di base il laboratorio può anche avvalersi di strumenti e materiali “poveri”, nella
secondaria la povertà strumentale è portatrice di angustie concettuali. Talvolta, a causa della scarsità dei
finanziamenti o di risorse esperte, il laboratorio viene inteso non come lavoro produttivo, ancorché
protetto, ma come simulazione mentale o come rappresentazione concettuale di tale lavoro. Queste
rappresentazioni, che spesso non si avvalgono di spazi appositamente attrezzati, sono concettualmente
metacognitive: non si rifanno al metodo operativo, ma lo oltrepassano presupponendo la sua marginalità
intellettuale. Detto in termini più concreti: esiste (nella scuola) un diffuso primato della parola sull’azione
e questo, se è appropriato quando si perseguono competenze verbali e linguistiche, è fuori luogo quando
la competenza richiesta è artistica, scientifica, tecnologica, o comunque operativa; se voglio che lo
studente impari a fare qualcosa devo vederlo all’opera. Se invece di osservarlo mentre sta facendo, gli
chiedo di dirmi “come farebbe per …” non esamino la sua competenza (che è sempre “saper usare
conoscenze, abilità e capacità personali in situazione”), ma la sua rappresentazione metacognitiva.
Quest’ultima è importantissima dopo che l’allievo ha svolto l’azione, e serve per pensare sull’azione, per
costruire i concetti, per personalizzarli e consolidarli. Con gli studenti che presentano difficoltà
comunicative il laboratorio (“operativo”) è imprescindibile come metodologia d’avvio; solo
successivamente si potrà proseguire con processi di “verbalizzazione”, confronto e ragionamento
(coniugando azione e riflessione).
35
Nel laboratorio, come con gli altri metodi “coinvolgenti” il soggetto agisce, è attivo. L’essere attivo
del soggetto si può esplicitare in molti modi e ai due estremi ritroviamo due tipologie: l’attività
riproduttiva e quella produttiva; è attivo l’allievo che copia, che ripercorre la procedura richiesta, che
riproduce ciò che ha studiato; è attivo l’allievo che inventa, che ipotizza nuove strategie risolutive, che
produce qualcosa ex novo. Nel laboratorio si opera su entrambi i piani: ma lo scopo formativo del
laboratorio è quello di produrre pensiero a partire dall’azione e non è mai meramente applicativo
(ossia riproduttivo).
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delle cose significa promuovere identità e costruttività, vuol dire lavorare per costruire, in loro e
con loro, pensiero progettuale e quindi creativo e critico. Il fare dei nostri Laboratori non è un fare
banale, tanto per tenere occupate le persone e contrastare l’ozio, quanto una dimensione
dell’apprendere.
Facendo si acquisiscono e si consolidano conoscenze (sapere), si praticano delle cose secondo
operazioni e procedure che attivano atti logici, pensiero e intelligenze (saper fare), si mettono in
gioco e si modificano i propri comportamenti (saper essere).”36
Quali sono gli elementi fondamentali del metodo laboratoriale? A. Munari (1994) indica
alcune caratteristiche per un laboratorio di epistemologia operativa (= conoscere
attraverso l’azione).
L'attività proposta, nel laboratorio formativo, si deve prestare ad una manipolazione
concreta. Un’attività puramente verbale, senza il passaggio al trattamento reale, non è
sufficiente. Quando si parla si sottintendono cose date per scontate, che così non sono
quando si tenta di tradurle in attività tangibili.
L'attività deve implicare le operazioni cruciali. In una sessione di laboratorio non è
possibile fare di tutto: è necessario focalizzarsi su alcune operazioni principali. È
indispensabile che il docente sappia con precisione lo sviluppo della procedura che
intende centrare, anche se non è detto che di questo siano consapevoli gli studenti.
Costoro accetteranno di fare ciò che viene chiesto loro e, solo alla conclusione, in gruppo,
si discuterà sulle azioni compiute e sul risultato ottenuto.
L'attività non deve avere una soluzione unica. Questa affermazione può risultare
sconcertante per coloro che considerano il laboratorio come il luogo dell'esercitazione
meccanica, dell'addestramento concreto, dei passi obbligati. Ma non è questo il
laboratorio inteso come “spazio mentale attrezzato”, che richiede non una risposta
giusta, un'unica soluzione, ma più risposte e più soluzioni, tutte a vario titolo plausibili.
Le attività devono provocare uno “spiazzamento” cognitivo. L'esperienza di
laboratorio deve produrre dissonanza tra ciò che l'allievo conosceva e ciò che va
apprendendo mediante il lavoro. Deve indurre una maggiore motivazione negli studenti e
mantenere costante il desiderio di scoprire qualcosa di nuovo. Le applicazioni
automatiche irrigidiscono il pensiero e rendono difficile la consapevolezza delle diversità
dei contesti e dei processi.
L'attività si deve situare ad una giusta distanza dalle competenze possedute. Le
abilità richieste nelle attività laboratoriali non possono collocarsi eccessivamente
distanti37 dalle competenze possedute dall'allievo, altrimenti costui utilizzerebbe soltanto
un approccio per tentativi ed errori. Per altro verso, le attività non possono neppure
identificarsi con le competenze possedute dell'allievo, che si troverebbe costretto a
svolgere un esercizio, e non a ricercare le soluzioni ad un problema.
Le attività devono comportare diversi livelli di interpretazione. Imparare in
laboratorio significa apprendere metodi che possono essere variamente applicati in
36
Da: http://www.laboratoridelfare.it/ldf.asp. Molto ricca di indicazioni operative la pubblicazione:
IPRASE TN (2007). Adolescenti e pensiero costruttivo. L’esperienza dei Laboratori del Fare a
Rovereto. Trento: Ed. Provincia Aut.TN
(download: http://try.iprase.tn.it/old/in05net/upload/doc/libri/U1011t3n730_Adolescenti.pdf).
37
Il significato della giusta distanza si rifà al principio di Vygotskij della zona di sviluppo
prossimale.
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38
Il principio della specularità vale per tutti i metodi didattici, e presuppone una omologia di fondo
tra processi epistemologici, processi di insegnamento e processi di apprendimento. Vediamo di capirci:
tutte le discipline accademiche procedono con la ricerca (processi epistemologici), se voglio che gli allievi
imparino a fare ricerca (processi di apprendimento) non posso che sviluppare ambienti didattici di ricerca
(processi di insegnamento).
39
Accanto alla ricerca di base, ogni ambito disciplinare opera con proprie metodologie di ricerca. (Nei
corsi di indirizzo, tra i fondamenti si dovranno approfondire le specifiche “ricerche”: es.: ricerca storica,
ricerca filosofica, ricerca scientifica, ricerca in ambiti tecnologici, ricerca per l’apprendimento linguistico in
L1 e L2, …).
40
Il problema dev'essere qualcosa che suscita interesse, curiosità, conflitto cognitivo. Lo studente
deve vivere il problema come una sfida risolvibile facendo ricorso alle sue conoscenze, competenze ed
esperienze pregresse.
41
Da http://www.icvolpi.gov.it/2011-12/Discipline/Scienze/SINTESI%20metodo%20IBSE.pdf. Nelle
slide in http://www.unicam.it/geologia/unicamearth/download/seminario_scapellato.pdf una valida
descrizione della metodologia.
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42
Tab. – Processi e tipologie di inquiry
42
Nella tabella manca la tipologia di inquiry confermativo (quella più semplice). Molto utile il blog di
Barbara Scapellato: http://ingredientesegreto.linxedizioni.it/2011/11/02/i-livelli-di-inquiry/ ,
http://ingredientesegreto.linxedizioni.it/2011/10/20/verso-l%E2%80%99inquiry-a-piccoli-passi/ ,
http://ingredientesegreto.linxedizioni.it/2011/10/11/la-didattica-basata-sullinvestigazione-ibse/ .
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La metodologia nota come “apprendimento basato sulla ricerca” ha sempre più spazio
nella letteratura, specialmente con riferimento all’educazione scientifica. Una definizione
comunemente accettata è difficile da trovare, ma alcuni punti sembrano accomunare le
differenti versioni. All’inizio degli anni Novanta, Scardamalia e Bereiter (1991) puntarono
l’attenzione su un processo di insegnamento e apprendimento incentrato sulle tappe
tipiche di un lavoro di ricerca, quindi su un processo aperto di cui non è predeterminato
né lo svolgimento né il risultato. Nella loro descrizione, la procedura didattica auspicabile
attiva un processo olistico di sviluppo creativo di idee all'interno di una classe di studenti.
Quintana et al. (2004, p. 341) precisano che la ricerca, che si attiva in un procedura
didattica, si concretizza in un "processo in cui gli allievi si pongono domande, indagano
cercando e utilizzando dati empirici, manipolando direttamente questi dati, tramite
esperimenti o confronti, sistemazioni e rappresentazioni. I dati possono essere originali,
tratti cioè da esperimenti diretti, oppure possono essere tratti da fonti di informazioni,
cercate e controllate. Linn, Davis e Bell (2004) definiscono lo stesso processo come una
definizione di problemi, una critica delle alternative a disposizione, una pianificazione di
soluzioni alternative, sulla base di ipotesi, la ricerca di informazioni, la costruzione di
modelli, la discussione tra pari per giungere a formulare conclusioni condivise.
La ricerca nei processi di insegnamento e apprendimento è intesa quindi come un
insieme di azioni concrete, che configurano un processo più impegnativo rispetto alla
ripetizione di un gran numero di osservazioni seguite dalla loro organizzazione. Bell et al.
(2010), hanno sintetizzato diversi approcci presenti in letteratura sull’apprendimento
basato sulla ricerca applicato all’educazione scientifica.
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Image from :
http://www.cumbria.ac.uk/ImageLibrary/Education/
codev/7-Action%20Research-cycle_705x662.gif
43
Con la ricerca-azione gli studenti imparano sia a svolgere ricerche in ambito sociale, sia a fare
ricerca sul loro modo di essere “ricercatori”.
44
I problemi che si affrontano in ricerca-azione si presentano “aperti a più soluzioni”, e la soluzione
migliore, molto vaga all’inizio, si delinea con più precisione man mano che si agisce e si riflette
sull’azione.
45
Lo scopo della ricerca sperimentale è la comprensione (produrre nuovi modelli di conoscenza della
realtà), lo scopo della ricerca-azione è il cambiamento (delle persone, delle relazioni, del contesto).
46
Per es.: Si affronta con gli studenti il problema relativo al rispetto dell’ambiente; una volta
precisate le diverse angolature di studio (identificazione del problema) si definisce l’ipotesi di
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cambiamento (“vogliamo che la nostra scuola sia igienicamente ed ecologicamente pulita”). I piani di
implementazione dovranno tradurre l’ipotesi di cambiamento in progetti operativi (“le II si occupano del
giardino mettendo in atto le azione x, y, ecc.; le III si interessano dei rifiuti riciclabili, ecc.”).
47
Periodicamente si fa il punto della situazione: le azioni intraprese ci stanno portando verso
l’obiettivo voluto? In caso negativo (o di difficoltà contingenti) va rivisto il progetto, i piani d’azione o
addirittura, come talvolta succede, va ridefinito l’obiettivo stesso.
48
Se il progetto di ricerca-azione inizialmente era svolto da quattro classi, ed ha avuto successo, alla
conclusione il progetto non deve morire, deve invece diffondersi, ampliarsi, istituzionalizzarsi. Le altre
classi saranno coinvolte non secondo logiche prescrittive (“si deve fare così! Perrché così è andata
bene”), ma con la stessa metodologia della ricerca-azione (circolo virtuoso: riflettere-ipotizzare-
progettare-agire).
49
Quelli euristici sono procedimenti logici dominati dall’ incertezza e quindi legati al probabile e al
possibile. I procedimenti algoritmici sono governati da logiche “certe”. L’algoritmo è sequenziale (step
by step), l’euristica è reticolare.
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50
Letteralmente significa apprendimento della maestria o della padronanza. Il termine padronanza nel
mastery learning è connesso all’apprendimento di abilità, mentre nelle riflessioni italiane più recenti esso
rappresenta l’apice della personalizzazione dell’appreso, con lo sviluppo sistematico di processi
metacognitivi, decisionali e creativi.
51
Lo schema di attuazione del mastery learning ricorda la tecnica dell'istruzione programmata, nella
quale ogni fase dell'insegnamento viene prevista in anticipo e quindi dettagliatamente programmata e
standardizzata. Essa si caratterizza per il fatto di scomporre la materia di insegnamento in brevi
passaggi, detti frames, o anche items o cadres; tali frames contengono una o due informazioni
fondamentali e/o richiedono al soggetto la formulazione di una risposta, sulla base delle informazioni
precedentemente date. Fondata sui principi del condizionamento operante di B.F. Skinner, l'istruzione
programmata si presenta secondo sequenze lineari di piccoli passi, dello stesso Skinner, o secondo
sequenze ramificate, proposte da Crowder. Nella sequenza lineare ogni frame è costituito da un semplice
periodo che comprende poche informazioni e da una domanda che implica le informazioni appena
presentate. Con la sequenza ramificata, a seconda delle risposte date dall'allievo, il programma può
prevedere sviluppi differenti, ad esempio specifici programmi di recupero, oppure la possibilità di saltare
alcuni frames e procedere più rapidamente per i soggetti più abili. Le prime macchine per insegnare
(teaching machines) e le prime applicazioni del computer nella didattica seguivano le impostazioni
dell’istruzione programmata. A differenza del mastery learning, le sequenze dell'istruzione programmata
si presentano rigide e vincolanti, non sono affatto rispettose delle differenze individuali e veicolano una
concezione dell'insegnamento inteso come modellamento, poiché fondate sulla convinzione che qualsiasi
conoscenza possa essere acquisita da chiunque, purché associata a rinforzi positivi.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Fiorino Tessaro
tessaro@unive.it
Università Ca’ Foscari Venezia – Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali
Venezia, 2015
6 LE TECNICHE ATTIVE.
INSEGNARE E APPRENDERE PER COMPETENZE
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Un esempio: in classe alcuni studenti (gli attori) interpreteranno dei personaggi in una
situazione di vita quotidiana o scolastica, altri (gli spettatori) osserveranno la loro azione;
benché con ruoli diversi entrambi saranno tenuti ad “osservare ciò che succede” ed
elaborare l’osservazione allo scopo di comprendere il sistema di relazioni e interazioni.
Il processo che si svilupperà in questo gioco di ruolo è formativo e non terapeutico
come nello psicodramma.
Ai partecipanti che fungeranno da “attori” saranno assegnate delle “parti” di ruolo in
una situazione che si vuole ricreare; a tutti sarà prefigurato uno scenario che rappresenta
il contesto nel quale l’azione si sviluppa. È essenziale che ogni “attore” studi la sua
“parte” in modo autonomo e indipendente rispetto agli altri: non si tratta di mettere in
scena una pièce coerente, quanto di far interagire delle personalità. Le “parti”
conterranno anche alcune indicazioni su come iniziare il play e come condurne alcuni
aspetti, ovvero sulle caratteristiche e sulle modalità comportamentali del ruolo assunto;
però la maggiore del lavoro sarà lasciata all’improvvisazione.
Gli “attori” dovranno agire (parlare) non tanto secondo le proprie inclinazioni, quanto
secondo il carattere dei personaggi che sarà descritto nelle singole “parti”. Vanno evitati
atteggiamenti troppo “recitati”: stiamo tentando di vedere cosa succede quando
interagiamo con gli altri, non di strappare applausi; così come occorre che gli “attori”
possano esprimersi senza rischiare di essere messi in condizione di stress emotivo da
parte del pubblico.
Mentre gli “attori” studieranno le “parti”, gli altri partecipanti (gli osservatori) con
l’insegnante formuleranno ipotesi su ciò che è opportuno osservare e perché; possono
anche essere somministrate dalle griglie, o degli schemi. Conclusa la fase del play si
passa in plenaria a riportare le osservazioni e a discuterne: è importante che tutti
comunichino le loro osservazioni, e che anche gli “attori” riportino le loro impressioni,
emozioni, scelte di “recitazione”, ecc. 52
52
Dal nostro sito www.univirtual.it, con esempi di role playing con partecipanti adulti:
http://www.univirtual.it/tirocinio/pasqualetto/role%20play/coordinamento%20di%20lettere/Role%20pla
y%20riunione%20per%20materie%20master.doc.
53
Questo paragrafo è tratto da
http://www.irre.toscana.it/obbligo_formativo/lepri/tecniche/role_playing.pdf.
96
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
54
Il role playing, così come le tecniche del brain storming e del cooperative learning (e di tutte le
tecniche attive che si svolgono nell’ambiente scolastico), si può presentare in molteplici versioni e, a
seconda dello scopo formativo, potranno evidenziarsi differenze: in tal caso è opportuno discuterne in
classe/gruppo on-line. Per approfondire la tecnica del role play: 1) Giusti E., Ornelli C., Role play: teoria
e pratica nella clinica e nella formazione, Sovera Multimedia, Roma, 1999. 2) Capranico S., Role playing,
manuale a uso di formatori e insegnanti, Raffaello Cortina, Milano, 1997. Per ampliare l’analisi ai giochi di
simulazione nella didattica:
http://www.istitutoveneto.it/venezia/documenti/altri_elaborati/corso_ssis_didattica/capitolo_7.pdf
97
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
55
Gli insegnanti “debbono ricordare sempre di non confondere il role playing (a valenza pedagogica)
con lo psicodramma (a valenza psicoterapeutica)” (D. Demetrio, 1988, p. 146).
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Il commento o feedback
Il commento è la fase più importante. Normalmente occupa circa la metà del tempo
complessivo dedicato alla simulazione, ma in alcuni casi, quando l’evento sia stato
particolarmente interessante, può essere ancora più lungo. Ne deriva l’importanza di
gestirlo bene, seguendo una procedura che valorizzi al massimo quello che è accaduto,
senza d’altra parte sprecare tempo nel cercare dettagli che non c’erano.
100
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
titolo informativo, riferiamo, tuttavia, che nel mondo della formazione esistono dei casi in
cui è giustificata.
101
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
richieste nella professione, l'attività immediatamente successiva non può che essere
l'esercitazione, altrimenti la dimostrazione perderà in brevissimo tempo la propria
efficacia formativa.
Approfondimento: Otto punti per scrivere un tutorial veramente utile (di Riccardo Esposito)
Quando scrivi un tutorial, l’obiettivo è quello di creare una guida completa sull’argomento che hai preso in
esame, conquistare nuovi lettori, creare traffico di qualità e discussioni. E, ovviamente, ricevere qualche buon
link.
Come puoi ben immaginare non è facile scrivere un tutorial di grande qualità, capace di diventare un punto di
riferimento per il popolo del web. Hai bisogno di volontà, una buona dose di dedizione e qualche piccolo
suggerimento. Io ne ho scelti 8:
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Trovare le fonti adatte è un lavoro duro, ma ti posso assicurare che ti permetterà di avanzare con la tranquillità
di chi sta usando le conoscenze adatte ai propri obiettivi. Ovviamente non rinunciare alle fonti cartacee e
ricordati di compilare (se necessario) una piccola bibliografia/webgrafia alla fine dell’articolo.
4. Organizzare i contenuti
Eccoci al nocciolo del problema: come organizzare la mole di contenuti di un grande tutorial? Indispensabile la
classica divisione in paragrafi con un buon uso degli header e un’organizzazione delle informazione che si
sviluppa dal generale al particolare.
Cioè dalle introduzioni di ampio respiro a quelli che possono essere i problemi specifici, ma senza dilungarti su
dettagli inutili: potresti iniziare a scrivere un articolo e ritrovarti con un ebook! Aspetta… e come faccio a capire
quali sono i dettagli inutili?
5. Ottimizzazione SEO
Un’ottima guida è anche un guida cha sa farsi trovare nella selva di Google. Questo significa che devi fare
attenzione a ogni aspetto dell’articolo, anche a quello della SEO. Ma come si ottimizza un tutorial per i motori
di ricerca?
Semplicemente rispettando le regole base che dovresti già seguire per ogni straccio di post e fare qualche
ricerca più approfondita (magari con i tool Google) per individuare le long tail utilizzate dagli utenti per cercare
informazioni sull’argomento.
Se vuoi raccogliere molte foto, grafici o schermate puoi pensare anche a un album Flickr o a una presentazione
Slideshare da embeddare nell’articolo.
Anche in questo caso ti conviene organizzare bene i tuoi argomenti, e magari concentrarti proprio su quelli più
difficili da spiegare con le immagini o le informazioni scritte. E se non hai tempo/possibilità di creare un video
tutorial puoi sempre cercare su Youtube e affidarti a chi lo ha già fatto!
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
8. Esempi concreti
Dopo il testo, le immagini e i video, l’unica cosa che ancora ti manca per essere un campione di chiarezza sono
gli esempi che mostrano concretamente quello che stai spiegando. E che, ovviamente, possono arrivare da chi
ha già fatto tutto ciò che hai appena spiegato.
La parte finale di un tutorial può essere dedicata agli esempi, ma anche alle di liste di approfondimento e
alle risorse commerciali che permettono di ottenere ottimi risultati con una spesa in più. Ad esempio, per
concludere questo metatutorial (un tutorial sui tutorial direi…) consiglio di dare uno sguardo a queste ottime
guide per prendere spunto:
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6.3.2 L’outdo
or learning. L’apprendimento oltre l’aula
L'outdoor learning (apprendimento all'aperto) è un’espressione ampia che nelle
diverse età comprende: giochi all'aperto, attività nei cortili e nei giardini delle scuole,
educazione ambientale, attività ricreative e di avventura, programmi di sviluppo
personale e sociale, esplorazioni, team building, formazione alla leadership, sviluppo
manageriale, educazione alla sostenibilità, avventura, terapia ... e molto altro ancora.
L'outdoor learning non ha confini chiaramente definiti ma ha un nucleo comune in
tutte le varie forme: il valore dell’apprendimento outdoor sta nell’esperienza
diretta.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
56
Quando il contrasto dà luogo a dissonanza cognitiva sviluppa nuovi apprendimenti (L. Festinger,
Gestalt Theorie).
57
DfES & QCA, The National Curriculum, 'Aims for the School Curriculum' 1999.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Che cosa non è il Service-Learning? Non tutti i progetti in cui una classe o una
scuola si impegna in attività di servizio sociale sono progetti di Service-Learning. Per
esempio non sono attività di Service-Learning:
l’impegno sociale non legato all’apprendimento,
l’insegnamento/apprendimento senza impegno sociale
il praticantato, il tirocinio o lo stage svolti per un servizio di utilità pubblica
Il servizio di utilità pubblica imposto per compensare un comportamento illecito (es: infrazione
stradale).
58
In questa sede esaminiamo l’impostazione di service learning più vicina all’apprendimento per
competenze, ovvero a quella nordamericana ed europea, rinviando ad altri approfondimenti quella
sudamericana e spagnola (aprendizaje-servicio) il cui riferimento teorico è connesso alla pedagogia
degli oppressi di Paulo Freire. Riferimenti bibliografici: CONSEGNATI S., GUARDIANI M., Il Service–
Learning, teorie e prassi, in “Scuola Italiana Moderna”, n. 15, anno 119, giugno 2012. FURCO A.,
Service Learning and the Engagement and motivation of High School Students, Berkeley Service-
learning Research and Development Center, School of Education, University of California at Berkeley,
2003. FURCO A., Impacto de los proyectos de aprendizaje servicio, in EDUSOL, 2005B, pp 19-26.
MARSHALL T., Aprendizaje – servicio y calidad educativa, in EDUSOL, 2004, pp 94-98. PUIG, J.M.,
BATLLE R., BOSCH C., PALOS J., Aprendizaje servicio. Educar para la ciudadanía. Barcelona, Editoria
Octaedro, 2007. TAPIA, M.N., Educazione e solidarietà, la pedagogia dell’apprendimento servizio, Città
Nuova, Roma, 2006.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
utilizzare in una varietà di contesti, in modo sensato, creativo e flessibile, la conoscenza e le abilità
apprese. È l’apprendimento CSSC, ovvero Constructive, Self-regulated, Situated and Collaborative.
La metodologia che permea i progetti Service learning ottempera pienamente ai canoni
dell'apprendimento CSSC: è costruttivo (poiché gli studenti sono chiamati a fare, a produrre
anche imitando, a costruire qualcosa che ha valore professionale e non meramente esercitativo);
è situato (l'apprendimento si incarna in situazioni vive, non astratte e neppure semplicemente
simulate); è collaborativo (poiché molta parte dell'agire, del fare e del riflettere su ciò che si sta
facendo si sviluppa nell’ambito delle comunità di pratiche, in cooperative learning), è auto-
regolato (poiché il gruppo degli allievi è chiamato a svolgere il monitoraggio continuo del proprio
lavoro).
In più il Service Learning promuove un apprendimento etico. Carrington e Saggers (2008)
propongono cinque principi etici per il Service learning: la collaborazione e il lavoro di squadra; lo
sviluppo di una cultura inclusiva; il valore del rispetto; lo sviluppo di partnership; la formazione
fondata sull’esperienza e sull’empatia con gli studenti.
59
si raccomanda la visione del sito http://www.servicelearning.ch/it/aggiornamenti/, e dei filmati (in
particolare del video “Service-Learning: Introduzione per insegnanti” in
http://www.servicelearning.ch/it/strumenti_pratici/filmati/ )o
https://www.youtube.com/watch?v=sVK0yGlWVxw#t=14
112
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
60
L'allievo potrà lavorare da solo o in gruppo, a seconda della funzione e dello scopo formativo. Il
lavoro in gruppo (v. la tecnica degli "orientati" utilizzata in pedagogia speciale) sviluppa l'analisi e
approfondisce un argomento mediante confronto, e discussione. Come suggerisce la piramide nel
frontespizio, il lavoro insieme assicura una elevata memorizzazione dell'appreso. Concretamente, nella
fase iniziale il formatore guida i lavori, che poi proseguono in forma auto-gestita dai sottogruppi. Questi
si occuperanno di tutte le fasi di raccolta della documentazione, organizzazione della stessa e la
rielaborazione. I sottogruppi devono anche stendere per la riunione plenaria una relazione sintetica del
lavoro svolto.
61
"Se un bambino scrive sul suo quaderno "l’ago di Garda" o si corregge l’errore con un segnaccio
rosso o blu o si segue l’ardito suggerimento e si scrive la storia e la geografia di questo ago
importantissimo segnato anche sulla carta geografica d’Italia. La luna si specchierà sulla punta o sulla
cruna? Si pungerà il naso?" (Rodari, 1973). L’indicazione di Rodari è meravigliosa, didatticamente ottima
per i bambini della primaria … ma non è sempre valida per gli adolescenti della secondaria: l’ironia e il
paradosso non sempre sono compresi e, nel fraintendimento, possono essere interpretati e vissuti come
sarcasmo umiliante.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
All’inizio delle esperienze con i casi, gli studenti sono ansiosi di conoscere le risposte ai
vari interrogativi e le soluzioni adottate nella realtà. Dopo un po’, comunque,
comprendono che è più importante imparare il processo di analisi per arrivare alla
soluzione piuttosto che “indovinare” la soluzione in sé. (Tessaro, 2002). Con lo studio di
caso lo studente impara a fare ricerca 62, comprende che ogni situazione va studiata
innanzitutto in sé e di per sé, solo successivamente andrà generalizzata, teorizzata. Lo
studio di caso, per definizione, ha un carattere idiografico: si riferisce ad una situazione
specifica e cerca di descriverne e comprenderne con rigore metodologico le
caratteristiche principali, in relazione a un sistema di ipotesi e di dimensioni pertinenti. Il
valore euristico di uno studio di caso si lega quindi direttamente alla significatività e alla
esemplarità della situazione indagata. In nessun caso, di conseguenza, è lecito cercare di
generalizzarne i risultati. I criteri di individuazione di una situazione significativa e
esemplare sono differenti, sul piano logico e metodologico, rispetto a quelli impiegati per
selezionare un campione rappresentativo, che consenta induzioni statisticamente valide
sull’insieme dell’universo di riferimento.
Peraltro, le conclusioni cui è possibile pervenire attraverso uno studio di caso
riguardano la forma e la configurazione dei fenomeni e le loro proprietà, senza alcuna
pretesa di generalizzazione. I risultati di uno studio di caso trovano un uso proficuo
qualora stimolino e corroborino la riflessione e la discussione o la formulazione di ulteriori
ipotesi, eventualmente verificabili attraverso la realizzazione di nuove indagini.
Lo studio di caso può essere proposto in classe soltanto dopo che ci si è accertati che
gli studenti hanno acquisito le conoscenze necessarie sugli argomenti introdotti dal caso:
questo metodo, infatti, serve per apprendere i comportamenti da assumere in situazioni
62
Da Invalsi: Il termine "studio di caso" può assumere diversi significati in relazione al contesto di
ricerca in cui viene utilizzato, in qualche modo è un termine "ombrello" che solitamente viene utilizzato
per indicare un insieme di metodi di ricerca che hanno in comune la decisione di focalizzare l'indagine su
una o più situazioni che il ricercatore considera esemplare o comunque indicative di un "insieme" più
ampio (Adelman, Kemmis, Jenkins 1980). "Esemplare" appunto, ma non "rappresentativo" dell’intero
insieme (Stenhouse 1979). È il ricercatore stesso che ‘crea’ il caso, individuandolo come tale e
trasformando progressivamente, attraverso l'indagine, l'oggetto indagato in oggetto di comprensione
(Kemmis 1980). È lo studio che definisce il "caso", che ne chiarisce le circostanze storiche e contestuali.
Le conclusioni cui uno studio di caso arriva sono legate al contesto particolare, non sono di per sé
generalizzabili, vanno piuttosto considerati come "verità provvisorie", senza pretese di definitività
(Kemmis 1980).
In questo tipo di impostazione diventa di importanza centrale il fatto che il ricercatore-valutatore
"espliciti" e "giustifichi" le proprie scelte metodologiche, argomenti le proprie interpretazioni, fornisca al
lettore tutti gli elementi non soltanto per capire l’origine delle valutazioni espresse, ma soprattutto per
poter mettere in discussione queste stesse valutazioni. Tutto ciò deve essere "comunicato" in modo
comprensibile per chi legge il rapporto di uno studio di caso (Elliott 1989, Losito 1993).
In ambito educativo, gli studi di caso sono stati utilizzati in modo particolare per studiare programmi
e iniziative di innovazione sul piano curricolare, rispetto ai quali è necessario tenere conto di situazioni
complesse, determinate da molteplici fattori e fortemente dipendenti dal contesto specifico all’interno del
quale si sviluppano.
L. Stenhouse individua quattro diverse tipologie di studio di caso nell'ambito della ricerca educativa
(Stenhouse 1985):
- etnografico (studio di un singolo caso in profondità attraverso l'osservazione partecipante e non
necessariamente con finalità di tipo pratico)
- valutativo (con lo scopo di fornire informazioni utili per giudicare della validità e della efficacia di
programmi, politiche, innovazioni in campo educativo e scolastico)
- educativo (con lo scopo di documentare sistematicamente l'azione educativa)
- studio di caso nella ricerca azione (le informazioni guidano l'affinamento della azione dei
"practitioners", che sono coinvolti in prima persona nella definizione del piano di ricerca e nella raccolta
dei dati. Gli obiettivi che si perseguono sono eminentemente pratici).
Anche se una dimensione di tipo valutativo è implicita in ciascuno dei tipi di studio di caso individuati
da Stenhouse, non tutti gli studi di caso sono "valutazioni". E' vero piuttosto il contrario. E cioè che tutte
le "valutazioni" sono "studi di caso". Il programma, il progetto, la persona o la struttura che vengono
valutate sono il "caso" (Stake 1995).
116
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
reali e come utilizzare adeguatamente le conoscenze in tali situazioni, non per insegnare
nozioni.
Come scegliere un caso. Per la scelta di caso appropriato è necessario verificare:
la coerenza del caso agli scopi del corso;
la fedeltà ad una situazione reale;
la capacità di stimolare la curiosità e l'interesse;
la complessità della situazione presentata (da dimensionare alle reali capacità di analisi degli
studenti);
la difficoltà del linguaggio utilizzato nella descrizione (che può indurre ad errori di
interpretazione);
la lunghezza del caso in relazione al tempo disponibile per il suo studio e la discussione
(indicativamente un'ora per lo studio a casa e altrettanto per la discussione in classe).
Per dare maggior realismo al caso proposto, accanto alla descrizione scritta, si può
ricorrere a copie di documenti reali, all'uso di filmati, a testimonianze privilegiate
oppure all'attuazione di visite guidate negli ambienti professionali o di ricerca.
Le regole per la progettazione di un caso
1. Scegliere una situazione realmente accaduta e possibilmente ambientata in realtà
conosciute dagli allievi.
2. Raccogliere la maggior parte di notizie sulla situazione individuata mediante
colloqui con gli operatori e osservazioni dirette.
3. Elaborare il materiale raccolto, ordinarlo logicamente e sequenzialmente.
4. Tracciare una bozza del caso facendo attenzione a:
- distinguere chiaramente le certezze dalle supposizioni;
- ripartire in più casi una situazione molto complessa;
- eliminare le informazioni che possono creare confusione;
- cercare fatti reali e coerenti, non interessanti o strani;
- mascherare i nomi delle persone o delle società coinvolte.
5. Individuare gli elementi e le informazioni mancanti per la comprensione completa
del caso. Ricercare tali elementi.
6. Far esaminare il caso elaborato a qualche operatore o responsabile del sistema
oggetto del caso, per apportare eventuali correzioni o integrazioni.
7. Redigere la descrizione del caso e allegare gli eventuali documenti di cui in essa si
fa riferimento.
8. Preparare una traccia di note per la presentazione del caso e per la sua
discussione.
M. Bellotto (1992) suddivide il metodo dei casi in diverse tipologie. Qui di seguito le
presenteremo tutte a titolo informativo (benché ogni ambito prediliga proprie tipologie):
Decisione. Si giunge alla soluzione migliore attraverso informazioni fittizie, ma
precise nei particolari, contenute in un testo preparato dal formatore. Allena la
persona a prendere decisioni riguardanti il proprio lavoro e la propria vita.
Studio di problemi. Vengono fornite informazioni in parte rilevanti e in parte
irrilevanti, che il gruppo è tenuto a selezionare e scegliere in funzione della decisione
da assumere. Talvolta è necessaria una negoziazione di informazioni con altri gruppi.
Lo studio si rivela utile per sperimentare metodi di lavoro, confrontare punti di vista,
ridurre le differenze di opinioni.
Studio di casi. Si propone al gruppo un caso significativo tratto dalla realtà, avendo
cura di descrivere i personaggi che l’hanno vissuto e i problemi che si sono verificati.
Il gruppo proporrà una soluzione, che non risponde ad esiti prestabiliti.
Identificazione di problemi. Al gruppo viene richiesto di esaminare una particolare
situazione tratta dalla realtà, di identificare i problemi e trovare una soluzione.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
63
Ecco alcuni riferimenti bibliografici relativi allo studio di caso:
Adelman C., Kemmis S., Jenkins D. (1980), Rethinking Case Study: Notes From the Second
Cambridge Conference in H.Simons (ed), Towards a Science of the Singular, Norwich, CARE
Kemmis S. (1980), The imagination of the case and the invention of the Study, in H. Simons (ed),
Op.cit.
Losito B. (1993), Lo studio di casi nella ricerca educativa, in Idem Che cosa è la ricerca azione?,
Fenestrelle, Regione Piemonte
Stake, Robert E. (1995), The Art of Case Study Research, Thousand Oaks - London - New Delhi, Sage
Publications
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
metodologie di risoluzione dei problemi che sembra più opportuno possedere per
comportarsi in situazioni che presentano alti tassi di ripetitività degli incidenti occorsi e
studiati.
Le tecniche particolarmente usate per esaminare un incident (il momento critico, la
situazione di emergenza) sono quelle della problem-analysis e quella della content-
analysis. La problem-analysis consiste essenzialmente nello “squadernamento” del
problema e nel guidare a fornire risposte a “perché è successo”, “come si sarebbe
dovuto risolvere”; la content-analysis invece è più raffinata e consiste
essenzialmente nell’analisi del contenuto, delle informazioni accoglibili in situazione
problematica e del loro migliore trattamento allo scopo di ottimizzare tanto la
risoluzione dei problemi che le decisioni conseguenti.
Per ciascuno studio di incident, il docente deve preoccuparsi di insegnare ad attivare
tanto le strategie formali che quelle informali di trattamento delle informazione e di
risoluzione dei problemi dal punto di vista dei loro contenuti.
È utile perciò esaminare attentamente la seguente tabella (Castagna, 1993), dove
vengono sintetizzate per il formatore le sequenze strategiche principali per utilizzare
l’incident in attività di formazione.
Le fasi dell’incident
A. Consegna del caso critico e delle informazioni di base, con la prima domanda
didattica: Quali informazioni ulteriori vi servono e perché?
B. Lavoro di sottogruppo
C. Prima plenaria sulle informazioni necessarie per risolvere quel problema
D. Eventuali contributi teorici del docente
E. Consegna della seconda parte del caso, contenente informazioni uguali per
tutti, con la seconda domanda didattica: Quale soluzione proponete e perché?
F. Lavoro di sottogruppo
G. Plenaria conclusiva
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
64
Lo stile comunicativo narrativo è specifico della metodologia autobiografica. Può essere utilizzato
anche nelle diverse tecniche dei casi a supporto dell’analisi descrittiva. FT
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65
Per l’approfondimento della tecnica del brainstorming si rimanda al “classico” di Osborn Alex F., Applied Imagination.
Principles and Procedures of Creative Thinking, Charles Scribner’s, Sons, New York 1953, nella trad. it. L’arte della creativity. Principi
e procedure di creative problem-solving, Franco Angeli, Milano, 2003, settima edizione. Molto valida la recente proposta di Bezzi
Claudio e Baldini Ilaria, Il brainstorming. Pratica e teoria, Franco Angeli, Milano 2006
121
FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
Un’ultima definizione si rifà ad Osborn: “Infatti secondo Osborn, che la ha ideata, per
riuscire a produrre idee qualitativamente elevate per la soluzione dei problemi, bisogna
incentivare la produzione in considerevole numero. Il brainstorming tende a sviluppare al
massimo tale produzione senza preoccuparsi in prima istanza del loro valore e della loro
capacità di portare a soluzione il problema.
Osborn propone quattro norme per condurre una riunione Brainstorming:
a) la critica è esclusa: il giudizio negativo sulle idee deve essere rimandato ad un
secondo tempo;
b) la corsa “in folle” è ben accetta: più è audace l’idea meglio è; è più facile frenare
che incoraggiare;
c) si cerca la quantità: quanto maggiore sarà il numero delle idee tanto più
probabile sarà trovarne di utili e di qualità;
d) si cercano combinazioni e miglioramenti: oltre a contribuire con idee proprie, i
partecipanti dovrebbero suggerire come le idee altrui possono essere trasformate in idee
migliori o come due idee possono essere fuse in un’altra idea ancora”.
Come si conduce una seduta di brainstorming? Queste sono le azioni nella versione
classica: A) La proposta del problema. B) La ripartizione in gruppi. C) I ruoli interni al
gruppo (coordinatore e segretario-verbalizzatore). D) La successione degli interventi
(sequenziale o libera). E) La verbalizzazione. F) Il punto della situazione. G) La sintesi
aperta. H) Il confronto/discussione.
La tecnica è particolarmente utile per gli studenti con difficoltà comunicative (dovute,
per esempio, a timidezza) o con povertà lessicale, poiché ciascuno può dire quello che
vuole e come lo vuole, protetto dalla rigorosa regola dell'esclusione della critica. Per altro
verso è utile anche agli studenti eccessivamente loquaci e prolissi che, costretti nei limiti
di tempo a disposizione, sono invitati a sviluppare capacità di sintesi e a rispettare le
regole della comunicazione sociale.
La presenza del docente dovrà essere discreta, stimolante e sicura: discreta
affinché gli studenti siano centrati sul problema e non sull'insegnante; stimolante
perché deve introdurre, se necessario, gli opportuni stimoli per incoraggiare e rinvigorire
un gruppo; sicura perché ogni studente deve sentire che il docente garantisce erga
omnes l'applicazione delle regole del brainstorming durante i lavori, e perciò le sue idee
non sono esposte alla derisione altrui. Al termine dell'attività dei gruppi, il docente
governerà la discussione conclusiva, valorizzando il lavoro di ogni gruppo e di ogni
studente.
Quando utilizzare la tecnica del brainstorming con gli studenti? In generale, ogni qual
volta a) sia necessario condividere i significati sui concetti fondamentali della
disciplina66, b) riconoscere il valore delle loro idee, c) insegnare loro il rispetto delle
idee altrui e le regole della comunicazione.
Non solo per gli studenti… La tecnica del brainstorming potrebbe essere efficacemente
utilizzata anche per rendere più produttive le riunioni tra docenti, come i consigli di
classe, le commissioni, ecc., in cui frequentemente regna la mancanza di regole
comunicative e di obiettivi condivisi.
66
Pur nella diversità concettuale delle progettazioni didattiche, in tutte si può utilizzare la tecnica del
brainstorming. Ma la metodologia dei modelli esperti e la didattica per concetti hanno puntualizzato
l’utilizzo della tecnica. Nella prima (progettazione per padronanze) il brainstorming si usa nelle
condivisioni “cognitive”, in particolare nella fase iniziale dei saperi esperti, in quella di personalizzazione
del transfer e in quella massimamente produttiva di generalizzazione. Nella seconda (progettazione
per concetti), la condivisione dei saperi si svolge mediante la conversazione clinica: questa tecnica,
alla stregua di una discussione guidata, si differenzia dal brainstorming a) per lo scopo (serve per
approfondire e non per produrre nuove idee), b) per la tipologia di comunicazione (a raggiera, docente-
allievo nella conversazione clinica; circolare, allievo-allievo nel brainstorming) e c) per la protezione delle
idee personali (assicurata dalle regole nel brainstorming, dall’insegnante nella conversazione clinica).
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Dal web
https://www.youtube.com/watch?v=4OOCtUL29vk
Andrea Ustillani - Il brainstorming è una strategia utile per fare emergere idee e
creatività su un qualsiasi argomento. Questa attività, realizzabile in gruppi grandi o
piccoli, stimola negli studenti la capacità di concentrarsi e contribuisce al libero flusso
delle idee.
https://www.youtube.com/watch?v=yAidvTKX6xM
67
Di De Bono E., accanto a Sei cappelli per pensare, Rizzoli, Milano, 1993, si ricorda Il pensiero
laterale, Rizzoli, Milano, 1969; Il meccanismo della mente, Garzanti, Milano, 1972, Il pensiero pratico,
Garzanti, Milano, 1975; I bambini di fronte ai problemi, Garzanti, Milano, 1974; Io ho ragione - Tu hai
torto, Sperling & Kupfer, Milano, 1991.
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Cappello bianco
È l’analista. Esamina i fatti e raccoglie informazioni, precedenti, analogie ed elementi,
senza giudicarli.
Va indossato nella fase di ricerca, raccolta, sistematizzazione delle informazioni e dei dati
disponibili al momento. Abbiamo tutte le informazioni necessarie? Come facciamo a
ottenerle? Sono attendibili? E così via: bisogna diventare degli Sherlock Holmes.
Cappello rosso
È l’emozione costruttiva. Esprime di getto le proprie intuizioni, come suggerimenti o
sfoghi liberatori. Vive i sentimenti.
Va indossato per liberare ed esternare pubblicamente le sensazioni, le emozioni e i
sentimenti (spesso trattenuti) che possono nascere davanti ad un nuovo progetto. Senza
vergognarsi di quello che si dice, senza pudori o censure preventive (o autocensure).
Cappello nero
È l'avvocato del diavolo. Mette in evidenza gli ostacoli, gli impedimenti, le difficoltà; rileva
gli aspetti negativi e le ragioni per cui la cosa non può andare.
Va indossato per giudicare se e perché un’idea non funziona. Non si tratta di generici non
mi piace ma di dati di fatto o limiti reali che possono impedire lo sviluppo di un progetto.
Serve per evitare cantonate o sbagli o frustranti dispersioni di risorse.
Cappello giallo
È l’ottimista. Rileva gli aspetti positivi, i vantaggi, le opportunità. Infonde speranza.
Va indossato per esprimere i lati positivi di un’idea. I modi migliori per realizzarla su base
logica. I vantaggi concreti che ne possono derivare. Senza trionfalismi o entusiasmi
immotivati.
Cappello verde
È il creativo. Indica sbocchi innovativi, germogli di nuove idee, analisi e proposte
migliorative, visioni insolite.
Va indossato per liberare la creatività. Per produrre nuove idee. Per muovere le acque
stagnanti. Per cercare spunti in ogni direzione. Per far crescere e moltiplicare le
alternative allargando gli orizzonti, outside the box.
Cappello blu
È il coordinatore. Stabilisce priorità, metodi, sequenze funzionali. Pianifica, organizza,
stabilisce le regole del gioco. Conduce il gioco.
Va indossato per dare una guida al modo di pensare (nel gruppo). Creare una
successione dotata di senso al fluire delle idee. Stabilire le priorità da seguire e gli
obiettivi da raggiungere. Una funzione normativa per stabilire un’agenda e un progress
efficienti.
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Si usano sei cappelli di colore diverso. I cappelli sono simbolici. Anche in classe si
"possono indossare" con queste frasi: "mettiamoci il cappello blu" o "togliti il cappello
nero" o "ora prova a dirmi che ne pensi con il cappello giallo" … e così via.
L’insegnante propone il tema/problema e spiega il funzionamento dei cappelli
(indossando il cappello blu). Invita i partecipanti ad indossare il cappello bianco e ad
analizzare il tema. Controlla che tutti si comportino secondo il cappello indossato. Poi fa
cambiare i cappelli. È opportuno, nel tempo, indossare più cappelli. L’incontro termina
quando si arriva a risultati soddisfacenti. In genere, gli studenti continuano a "indossare i
cappelli" anche dopo.
La tecnica dei sei cappelli è molto raccomandabile, in particolare con gli studenti più
giovani, non solo per rendere i gruppi meno conflittuali e più produttivi, ma soprattutto
per riconoscere la pluralità di angoli visuali presente in ogni persona.
68
Si veda il successivo paragrafo sul Cooperative learning.
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FIORINO TESSARO – Corso di Didattica – Università Ca’ Foscari Venezia
ragionarci su insieme (perché ci viene da ridere se…, che sensazioni prova colui che
viene deriso, dove sta la dissonanza…). Le emozioni insegnano e consolidano
l’apprendimento.
3. I metodi e le tecniche di insegnamento di una disciplina sono molteplici: ma non c’è
insegnamento in cui si possa dire “nella mia materia questa tecnica non si può fare”.
Va da sé che alcune discipline prediligono certe tecniche, talvolta derivate dai propri
metodi scientifici, ma per lo più date dalla consuetudine scolastica. In tutte le
discipline si può simulare l’azione e il pensiero dell’esperto, dello scienziato, dello
studioso, dell’artista o dell’artigiano. Si può simulare, sviluppare idee e discutere
anche in educazione fisica, o in matematica, o in musica, o in storia, o in tecnologia:
non esistono forse anche in queste discipline concezioni e modelli diversi di
interpretare e di costruire la propria conoscenza. Ebbene, facciamo provare ai ragazzi
che cosa significa essere e pensare e comunicare come un ginnasta o un
matematico o un musicista o uno storico o un tecnico.
Dal punto di vista didattico è necessario mettere l’immaginazione in cattedra: quale
immaginazione?
a) l’immaginazione dell’insegnante, derivata dalla sua esperienza, sia professionale
che esistenziale,
b) l’immaginazione della disciplina: una disciplina scientifica cresce anche attraverso
l’immaginazione, ed in particolare dei nuovi paradigmi dei neofiti, di coloro che ancora
“non-strutturati” sono aperti all’impensabile,
c) l’immaginazione degli studenti, che in quanto ad immaginazione ne hanno a
volontà, se la scuola non gliel’ha inibita.
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Non esiste l'apprendimento di gruppo, ma in gruppo. L'apprendimento può essere condiviso e
partecipato, ma rimane sempre un processo individuale e personale, anche in presenza di una comunità
in apprendimento.
70
È immediato il riferimento alla teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner e agli studi sugli
stili cognitivi (Sternberg, Pask, Cornoldi, ecc.) considerati in altre nostre lezioni e in altri moduli di Area
trasversale.
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(anche se spesso non se le dà affatto); la responsabilità dei risultati è del gruppo intero
indifferenziato.
Con la cooperazione il gruppo promuove, integrandole, le competenze personali e
sociali. Le regole della cooperazione devono essere approvate e condivise prima di
avviare il lavoro; ogni partecipante è responsabile di un settore o di una parte del
compito e contemporaneamente è responsabile del processo di produzione e del risultato
complessivo finale.
71
I paragrafi C.6.1 e C.6.2 possono essere sostituiti dallo studio della lezione pubblicata on-line,
relativa al cooperative learning, in Pedagogia speciale, Didattica dei BES.
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base che rendono efficace la cooperazione. Questi elementi marcano la differenza tra il
cooperative learning e il lavoro di gruppo tradizionale.
Per l’approfondimento si rimanda all’analisi sinottica per una visione completa di come
vengano adottati e adattati i cinque elementi dai diversi autori di apprendimento
cooperativo (Sharan, Slavin, Kagan e Cohen).
Il primo e più importante elemento è l’INTERDIPENDENZA POSITIVA: si devono
assegnare compiti chiari e un obiettivo comune in modo che gli studenti capiscano che è
una questione di “uno per tutti, tutti per uno”.
Strutture di interdipendenza
Vi è un’interdipendenza positiva di scopo quando i membri di un gruppo lavorano
insieme per raggiungere un risultato comune. Avere lo stesso scopo porta i membri ad
aiutarsi reciprocamente perché da soli non sarebbero in grado di conseguirlo.
Si parla di interdipendenza di compito quando i membri, pur avendo uno scopo
unico, si suddividono parti del compito da svolgere individualmente ma finalizzato allo
stesso obiettivo comune. Ad esempio, dovendo fare una relazione, uno di essi preparerà i
lucidi, un altro un testo scritto e impaginato al computer, un altro ancora la
presentazione orale. Oppure, dovendo affrontare un tema di storia, uno esaminerà gli
eventi artistici del tempi, un altro ancora la cultura sociale e filosofica, un altro la
planimetria della città.
Un gruppo può realizzare anche altri livelli di interdipendenza positiva, come quello di
risorse. Ci si trova in questo tipo di interdipendenza quando i membri di un gruppo, nel
conseguire il loro scopo, dipendono da competenze e abilità differenziate o di materiali
(parti conseguenti e interdipendenti ad ognuno o unico).
Si ha interdipendenza di valutazione quando, al termine di un lavoro, il gruppo
riceve una valutazione che è ponderata sulla base dei risultati ottenuti da ciascuno dei
membri.
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Pavan–Ellerani, in
http://www.edscuola.it/archivio/comprensivi/cooperative_learning.htm.
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Poiché lo studio della tecnica del cooperative learning non può esaurirsi in poche note, si rinvia alla
copiosa letteratura in merito, e ai materiali reperibili in rete. È interessante la serie di ScuolaInterattiva
su youtube.
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Una libreria di contenuti integrata con video online vagliati in base a qualità e
accessibilità è il miglior punto di partenza per ottenere un buon risultato finale.
http://cristianaziraldo.altervista.org/the-flipped-classroom-ovvero-classe-capovolta/
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SECONDA FASE: Tutti i ragazzi A si incontrano tra di loro per individuare procedure
univoche e contenuti da considerare. Chiamiamo questo gruppo "gruppo tecnico". In
questa fase ogni alunno diventerà competente di quello specifico ambito perché nella fase
successiva dovrà relazionare al gruppo-base.
Nell'esempio i ragazzi del gruppo A stabiliscono quante righe e colonne dovrà avere la
tabella e quali le voci da considerare. Ciascuno dovrà imparare i termini relativi al Paese
da studiare. Avremo quindi 5 "gruppi di base" e 5 "gruppi tecnici"
TERZA FASE: Si ritrovano i "gruppi base", in cui adesso ciascun allievo è "esperto" di una
fase del lavoro e di questa sua conoscenza deve rendere partecipi i compagni che ne
sono del tutto privi. Viene svolto il lavoro dato in consegna
Modalità di intervento. I tempi delle tre fasi variano a seconda del lavoro distribuito.
E' meglio cominciare con qualcosa di semplice e verificarne l'esito.
Come per tutte le attività di insegnamento cooperativo è possibile assegnare dei ruoli
intercambiabili all'interno dei gruppi-base (il cronometrista, il responsabile, il
portavoce...), anche questo permette agli alunni di sperimentare specifiche abilità sociali.
Il Jigsaw si apprende più facilmente nelle elementari, ma è stato sperimentato
efficacemente anche alle medie e alle superiori. Lo studente con ritmi lenti di
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apprendimento può essere abbinato nella seconda fase con un compagno che appare più
efficace nel rapporto interpersonale e per loro questa fase può durare più a lungo.
L'insegnante forma i gruppi, segue le varie fasi, può assegnare delle domande di
comprensione nelle varie fasi, verifica i livelli di conoscenza globali del gruppo-base e dà
una valutazione individuale e collettiva.
74
Da http://www.metadidattica.com/2014/02/22/cooperative-learning-con-metodo-jigsaw-uno-
spunto-della-prof-ssa-tania-tanfoglio/
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“Il progetto si può definire come un torneo dibattito. Gli studenti si affrontano con lo scopo di vincere delle
gare basate sulla capacità di argomentare e contro argomentare attorno a tematiche di carattere civico e
sociale. Detto con altre parole gli studenti si sfidano “A suon di parole”.
A suon di parole va certamente inquadrato nel filone relativo alla formazione delle competenze chiave
europee. In particolare l’attività è finalizzata allo sviluppo delle competenze sociali e civiche, logico-
argomentativo, spirito d’iniziativa e intraprendenza.
La rilevanza formativa del progetto può essere inquadrata nell’ambito:
della Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle
competenze chiave
dei Regolamenti nazionali per il riordino del Secondo ciclo di istruzione
dei Piani Provinciali di Studio del Trentino
Letteratura
Quinn S., Debating in the World School’s Style: A Guide , Paperback –2009
Snider A., Sparking the Debate. How to Create a Debate Program, I.D.E.A., New
York, 2014
Sommaggio P., Contraddittorio Giudizio Mediazione. La danza del demone mediano,
Milano: Franco Angeli, 2012
Cattani A. e De Conti M. (a cura di), Didattica, dibattito, didattica, fallacie e altri
campi dell’argomentazione, Loffredo – University Press, collana “Suadela” n. 5, Napoli
2012
Tamanini, C. (2014). Il torneo argomentativo a “Suon di Parole”. Firenze: Indire
Articoli online:
Claudia Cristoforetti, Da gioco del contraddittorio a percorso formativo
Michele Dossi, L’esperienza in prima persona della controversia
Laura Simeon, La verifica di una sperimentazione a scuola
Chiara Tamanini, Il Torneo argomentativo “A Suon di Parole”
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Sommario
1 I fondamenti della didattica ................................................................................................................... 2
1.1 I significati della didattica .................................................................................................................................... 3
1.1.1 Didattica, tra arte e scienza ......................................................................................................................... 4
1.1.2 La didattica come scienza dell’educazione .................................................................................................. 5
1.2 La didattica nella mediazione tra discipline e apprendimenti .............................................................................. 7
1.2.1 Come si insegna ... Il sistema dei saperi della didattica ............................................................................... 7
1.2.2 Che cosa si insegna ... I saperi disciplinari ................................................................................................... 8
1.2.3 A chi si insegna ... I saperi dell’apprendimento ........................................................................................... 9
APPROFONDIMENTO 1.A
STRUMENTI DI LAVORO
2 Il curricolo ....................................................................................................................... 24
2.1.1 Il curricolo è come un viaggio .................................................................................................................... 25
2.1.2 Le valenze del curricolo ............................................................................................................................. 25
2.1.3 Il curricolo e il processo di apprendimento ............................................................................................... 26
2.1.4 Il curricolo non è il programma ministeriale.............................................................................................. 26
2.1.5 Progettare il curricolo................................................................................................................................ 28
2.2 Il curricolo nelle Indicazioni nazionali ................................................................................................................. 29
2.3 Il curricolo per competenze ................................................................................................................................ 32
2.3.1 Per un’interpretazione condivisa di competenze ...................................................................................... 34
2.3.2 I riferimenti concettuali dell'apprendimento per competenze ................................................................. 35
2.3.3 Dalla conoscenza alla padronanza: accordiamoci sulle parole! ................................................................. 36
2.3.4 Le otto competenze chiave europee ......................................................................................................... 38
2.3.5 Strategie didattiche per le competenze trasversali ................................................................................... 40
Approfondimento 2.A
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