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Capitolo 1 Poesia e musica, poesia per musica

I rapporti fra testo poetico e musica offrono un panorama straordinariamente ricco e vario. Musica
e poesia sono ambedue basate su una costituzione ritmica e una comune dimensione di sonorità. La
loro affinità, il fatto che siano “sorelle”, è una sorta di luogo comune, ma è un fatto che molta
poesia, epica, lirica e drammatica, sia nata in abbinamento con la musica. L'epica omerica, l'antica
poesia greca, la tragedia e la commedia greca, la poesia trobadorica erano cantate. Questo legame è
testimoniato dal fatto che chiamiamo lirica la poesia di Saffo e Alcmane, i cosiddetti “lirici greci”
del VII-VI secolo a. C., perché, secondo la tradizione, la poesia era eseguita accompagnandosi sulla
lira, sullo strumento a corde del mondo classico, o strumenti simili. Per estensione, chiamiamo
lirica la poesia più personale, la poesia “più poesia”, quella di Saffo e Catullo, delle canzoni dei
trovatori, dello Stil Novo, delle rime di Dante e Petrarca, Leopardi, Baudelaire, Pascoli, Rimbaud,
Mallarmé, Montale e via seguitando. Ciò non significa affatto che anche quando la poesia era,
effettivamente, cantata, musica e poesia scaturissero da un unico atto creativo, come avviene in
Wagner, negli chansonniers, in Bob Dylan, in Lennon-McCartney. Significa piuttosto che poesia e
musica hanno molte possibilità di “sistemarsi” reciprocamente l'una nell'altra sulla base di formule,
tradizionali-convenzionali, o create ex novo. Ciò dipende dal fatto che hanno alcune cose
fondamentali in comune.
In comune musica e poesia hanno il ritmo (una cadenza regolare che si ripete) e l'accento, ossia il
risalto d'intensità dato a un certo suono e a una certa sillaba. La metrica è la disciplina che studia
l'organizzazione e il raggruppamento dei versi e delle strofe ossia gruppi organizzati e solidali di
versi. Se guardiamo alle unità ritmiche, alle durate e quantità, ci accorgiamo che i rispettivi sistemi
e codici, quello metrico e quello musicale, possono convergere o divergere, e che questa reciproca
indipendenza, ma anche reciproca adattabilità dei due sistemi, è ciò che crea la bellezza e la varietà
della relazione fra musica e poesia.
Ad esempio, il modo in cui i grandi madrigalisti italiani costruiscono le loro opere su testi poetici,
usando articolazioni del discorso musicale spesso in contrasto con l'articolazione in versi, è
un'operazione artistica, che costituisce uno dei fascini particolari di questo repertorio. Nel folk-pop-
rock la maggior parte dei testi non è costruita rigidamente in base alla metrica tradizionale e usa un
verso più libero, spesso non isosillabico, non vincolato al numero di sillabe di un verso e alla
disposizione degli accenti che gli corrisponde nella metrica tradizionale. Un verso che però ci
suona tale, perché si adatta ad uno schema musicale. Spesso anche questo verso libero ma di
andamento complessivamente regolare, perché plasmato su simmetrie melodiche e percorsi
armonici, riecheggia schemi metrici consolidati. La tendenza all'anisosillabismo (non isosillabismo)
e/o al verso libero è comunque comune nella poesia del Novecento, ed è quasi la norma in certi
repertori di poesia per musica, come la lauda del ‘300. Infatti in musica è facilissimo
“normalizzare” sul piano ritmico un verso ipermetro o ipometro (con troppe sillabe o troppo poche)
lavorando sull’alternanza di battere e levare, diminuendo e aggravando valori e durate per adattare
il testo alla musica, e così via.

Capitolo 2 Quali rapporti fra poesia e musica ?

I tipi di rapporto fra poesia e musica sono diversi:


- ci sono poesie nate senza musica e che vengono messe in musica successivamente, magari dopo
secoli o millenni: è il caso dei due sonetti di Francesco Petrarca messi in musica da Claudio
Monteverdi nel suo Sesto Libro di madrigali, a due secoli e mezzo di distanza, o della canzone di
Pete Seeger Turn, Turn, Turn (1962 ma portata al successo dai Byrds nel 1965), ispirata al testo
biblico dell'Ecclesiaste 3, 1-8 nella versione inglese della Bibbia di Re Giacomo, addirittura due
millenni e mezzo dopo la presumibile redazione dell' Ecclesiaste. Ma Monteverdi mette in musica
anche testi poetici moderni, di suoi contemporanei o quasi, come Guarini, Rinuccini, Achillini,
Marino, Tasso. L'operazione musicale dà un qualcosa in più ad un testo che non solo ha valore
autonomo, ma in alcuni casi ha anche un grande prestigio culturale: nel caso di Monteverdi i già
citati sonetti dei Petrarca, e Il Combattimento di Tancredi e Clorinda dalla Gerusalemme Liberata
di Torquato Tasso nell’Ottavo Libro di madrigali. Ma è anche un modo per reinterpretare, ridefinire,
ricreare il testo poetico secondo la logica di un secondo codice, quello musicale, che aderisce o si
sovrappone al codice poetico originario.
- ci sono testi in versi nati per la musica ma senza la musica, come i drammi per musica di
Metastasio e i libretti d'opera dell'Ottocento. In questo caso l'autore del testo è al buio rispetto alla
musica che verrà, ma fino a un certo punto: conosce benissimo le regole del genere opera e pertanto
sa come articolare la scena in recitativi e arie (Metastasio) e scene con cantabili, “tempi di mezzo” e
cabalette, eventuali concertati a più personaggi e cori, e così via (il librettista dell'Ottocento).
Metastasio sa quali sono gli affetti e i conflitti adatti all'opera seria della sua epoca, e scrive testi
così belli e così adatti alla musica che i suoi drammi sono “intonati”, cioè messi in musica, da
compositori nati due generazioni dopo di lui, come Mozart. Il librettista dell'Ottocento lavora in
stretta collaborazione con il compositore attraverso fitti scambi epistolari.
- ci sono poesie probabilmente concepite per essere eseguite in musica pur avendo un valore e una
genesi di testo in sé: è il caso dei trovatori, il cui repertorio costituì il fondamento della fioritura
della poesia lirica in volgare del Medioevo. Abbiamo alcune delle melodie che accompagnano
queste poesie, ma sono poche. In ogni caso, nell'atto creativo dei trovatori, la poesia viene quasi
certamente prima della musica. E’ vero che nelle biografie di alcuni trovatori si legge che erano
bravi a comporre belle melodie, ma nella maggior parte dei casi è da credere che la realizzazione
musicale è qualcosa che viene dopo, ed è un elemento secondario affidato a un sub-autore, un
giullare, un menestrello (ma fa prestigiosa eccezione la melodia della celebre sestina di Arnaut
Daniel Lo ferm voler, che tutte le fonti attribuiscono a lui). Ma ciò non esclude che l'autore del testo
avesse in mente formule musicali, schemi ritmico-melodici e modi d'intonazione diffusi, soprattutto
per le forme poetiche più direttamente legate alla musica, come la dansa, antecedente trobadorico
della lauda-ballata italiana. In ogni caso i testi poetici dei trovatori ci sono stati trasmessi in quanto
testi, in codici per la maggior parte non notati, ed è per questo che abbiamo così poche melodie,
quelle che troviamo nei pochissimi codici notati con musica, cinque su centinaia. Una o due
generazioni dopo, Dante e Petrarca, quando leggevano i trovatori, leggevano dei testi poetici. Erano
consapevoli che cento anni prima la prassi trobadorica di esecuzione comprendeva la musica ?
Probabilmente no, ma certamente erano consapevoli che la musica può aggiungere davvero
qualcosa alla poesia, non in termini di qualità letteraria intrinseca, ma come incanto, forza
comunicativa, presa mnemonica, piacere. Mi sembra questo il senso dell'episodio in cui Dante in
Purgatorio II fa cantare la sua canzone Amor che nella mente mi ragiona all'amico musico Casella.
- ci sono moduli musicali creati per adattarsi a una certa forma poetica, come ciò che nel
Rinascimento si chiamava aere (“aria”), ossia una melodia armonizzata fatta in modo da poter
intonare musicalmente un sonetto, una stanza di canzone, un capitolo in terza rima, un'ottava
- ci sono casi in cui il testo nasce per essere cantato su musica destinata a quello stesso testo, ed
è questo il caso prevalente fra gli autori-esecutori della musica “leggera”, dagli chansonniers
francesi ai nostri cantautori ai musicisti folk-pop-rock, anche quando testo e musica nascono
separatamente da due autori diversi, ma comunque per essere congiunti, come nella collaborazione
Mogol - Battisti.
Il Nobel per la letteratura a Bob Dylan nel 2016 sembra voler prendere atto di una ritrovata,
antichissima, forse mitica unità fra poesia e musica. Ma Dylan ci offre testimonianze estremamente
ricche, varie e persino contraddittorie sulla natura di questo rapporto, e capire cos'è che “nasce
prima”, testo o musica, da cosa viene la scintilla creativa, è un'indagine sempre affascinante. Per
esempio Dylan racconta che il testo di Like a Rolling Stone nasce come testo scritto, testo poetico,
una farraginosa invettiva che prende forza solo quando dalla pagina il refrain testuale How does it
feel ? si mette a cantare come un chorus di canzone nella sua mente, organizzando il testo nella
forma e nella sostanza di una canzone.

Capitolo 3 Cos’è la poesia ?


L'esperienza poetica è nota a tutte le civiltà anche se in forme diverse, ed è caratterizzata in primo
luogo dalla distinzione in unità separate, i versi.
Il testo poetico è un prodotto linguistico di particolare ricchezza e complessità rispetto ai normali
prodotti e comportamenti della lingua. E' caratterizzato da una densità e significatività delle
relazioni che intercorrono fra i suoi singoli elementi costitutivi, parole e versi. Oltre alla scelta delle
parole (selezione) è propria della poesia una particolare attenzione alla loro combinazione, a come
si intrecciano e corrispondono, alla lettura (quando uno “guarda” e legge una canzone del Petrarca
sulla pagina) e soprattutto sul piano del suono, con attenzione ai rapporti di senso e di suono che
collegano una parola, un'unità ritmica, un verso, una strofa, alle altre parole, ritmi, versi, strofe
(vedi per questi due concetti di selezione e combinazione Roman Jakobson, Linguistica e poetica
in Saggi di linguistica generale). E' un duplice cammino attraverso il senso e il suono o, come si
dice oggi, riprendendo i concetti del fondatore della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, il
significato e il significante. Ma ben prima di questi grandi studiosi moderni, Dante centra
perfettamente il punto nel Convivio quando afferma che la poesia è parola per legame musaico
armonizzata, parola saldata dai legami sonori costituiti da rime, assonanze, consonanze,
allitterazioni, tipi e lunghezze di versi, forme di strofe, riprese e ricorrenze.
Il ripetersi-combinarsi in formulazioni in cui si ripetono certi suoni o certi schemi è caratteristico
della funzione poetica, e al riguardo Jakobson cita Amor, che a nullo amato amar perdona (Dante)
o And the Raven, never fitting, still is sitting, still is sitting (Edgar Allan Poe). Si noterà che ciò è
caratteristico non solo della poesia in senso stretto ma anche di filastrocche, formule sacre, slogan
pubblicitari. Infatti questa nascita di un testo in cui prevale la funzione poetica, questa nascita in
base ai due principi della selezione e della combinazione interagenti e paritetici, che esalta i legami
sonori quanto quelli di senso, è una cosa che avviene normalmente e quasi sempre banalmente e
sciattamente nelle canzonette di serie B, è un’operazione artistica nei grandi poeti e chansonniers
che non scrivono a caso. Tuttavia c’è qualcosa che accomuna grandi poeti e parolieri di serie C, il
fatto che devono comunicare qualcosa, anche il più ermetico dei poeti, altrimenti non scriverebbe,
devono coinvolgere, convincere, persuadere. La poesia pertanto ha un terreno comune con la
retorica ossia “arte del discorso” (rhèsis = discorso in greco), nata in origine come insieme di
tecniche volte a ottenere la persuasione attraverso il discorso (ad esempio quando un oratore
politico deve persuadere chi ha il potere in quel momento, re, parlamento, senato, assemblea
popolare, giuria, ambasciatori, a deliberare una cosa piuttosto che un'altra). La retorica nasce
quindi come tecnica del discorso di parte, ed è una disciplina descritta e in gran parte normata già
da Aristotele quasi due millenni e mezzo fa e poi da Cicerone, Quintiliano e tutta la cultura classica,
tramandandosi alle età successive.
Il legame più importante fra retorica e poetica è costituito dalle figure retoriche, ossia
formulazioni eccentriche rispetto ad un'economia linguistica basata solo sulla pura denotazione, su
una comunicazione oggettiva. Ricordiamo almeno le più diffuse, perifrasi (colui che tutto move:
Dio), metafora (le spighe ondeggiano), metonimia e/o sineddoche (non tradire la bandiera, bere un
bicchiere), antonomasia (lo Stagirita: Aristotele), anafora (per me si va nella città dolente / per
me…. /per me….), enfasi (lui sì che è un amico), litote (non è un cattivo ragazzo), iperbole (darei la
vita per quell’automobile), ironia (e Bruto è un uomo d’onore dice Antonio nel Giulio Cesare di
Shakespeare, intendendo esattamente il contrario) e simili, che diventano consuetudine e dunque
perdono il loro valore retorico e per conseguenza poetico nel linguaggio comune, ed è proprio
questo che rende così importante la qualità delle metafore e delle altre figure nella poesia, specie
quella degli ultimi centocinquant’anni, diciamo da Baudelaire in poi. Qui proponiamo la seguente
distinzione:
a) figure morfologico-ritmiche che alterano, contraggono o estendono l'articolazione corrente della
parola per scopi soprattutto metrici (sineresi, sinalefe, dieresi, dialefe e simili, vedi oltre)
b) figure di suono
c) figure di discorso.
Riprendendo i termini di significato e significante, una metafora è una figura di discorso perché
si realizza sul piano dei significati, accostando parole di per sé estranee. Invece sono figure di
suono un'anafora o un'allitterazione, che propongono una determinata ricorrenza e insistenza di
frasi, sillabe e suoni (Per me si va nella città dolente / Per me si va nell'eterno dolore / Per me si va
tra la perduta gente) che si realizza sul piano del suono, del significante.

Capitolo 4 Sillaba, quantità, accento e tono


Sillaba, quantità, accento, tono sono elementi fondamentali del metro poetico sia nella poesia
classica che in quella medievale e moderna nelle lingue “volgari”, fino ai giorni nostri, e dobbiamo
studiare come si adattino alla musica.
Una precisazione importante. Per sillaba in poesia non intendiamo la sillaba grammaticale bensì
l'unità fonetica risultante anche da fusioni vocaliche come la sineresi (Questi parea che contra me
venisse) o la sinalefe (mi ritrovai per una selva oscura), o al contrario da distinzioni vocaliche come
la dieresi (la somma sapi/enza e 'l primo amore) e la dialefe (O-anima cortese mantovana). Un
verso famosissimo come Chiare, fresche e dolci acque nel parlato normale avrebbe per dolci acque
un'articolazione in quattro sillabe e si muoverebbe ritmicamente come un ottonario, ma essendo la
canzone petrarchesca costituita solo da settenari e endecasillabi, deve trattarsi di un settenario, e
quindi avrà la sinalefe dol/ciac/que, realizzando fra la prima e la seconda parola un'unità fonetica
che nel parlato non ci sarebbe.
La versificazione italiana - e più in generale romanza - è generalmente e tendenzialmente
isosillabica, e cioè organizzata in base a uno schema accentuativo che si dispone su sequenze
standard per numero di sillabe, ossia endecasillabo, decasillabo, novenario, ottonario, settenario,
senario, quinario o pentasillabo, quadrisillabo, trisillabo.
Ma con questa importante precisazione: come si diceva ciò che conta è lo schema accentuativo, per
cui l'accento finale del verso di norma è sulla penultima sillaba, perché le parole italiane sono per la
maggior parte parossitone ossia piane (poltrona, libro, parlare, avevo, albicocca). Quindi in un
verso piano ossia con l'accento sulla penultima sillaba, abbiamo endecasillabo = 10° sillaba
accentata + 1, ottonario = 7° sillaba accentata + 1, settenario = 6° sillaba accentata + 1. Allo stesso
modo e per lo stesso motivo in un verso tronco, ossia con l'accento sull'ultima sillaba, l'
endecasillabo avrà dieci sillabe perché comunque l'accento cade sulla 10° sillaba, e così via: sette
sillabe l'ottonario tronco, sei il settenario tronco e così via. Invece in un verso che finisce con una
parola proparossitona ossia sdrucciola ossia con l'accento sulla terzultima sillaba, accadrà il
contrario: endecasillabo sdrucciolo di dodici sillabe, ottonario sdrucciolo di nove, e così via.
Quindi, rispettivamente, per endecasillabo, ottonario, settenario, senario, quinario:

Versi piani
Ho comperato un libro bianco e nero
Non è ver che sia di maggio
Non so chi sia quel tipo
Soave sia il vento
Di quella pira

Versi tronchi
Ho comperato un libro rosso e blu
Non è ver che sia così
Non so chi sia Mariù
Soave sia il blu
La spegnerò

Versi sdruccioli
Ho comperato un libro color cenere
Non è ver che sia difficile
Non so chi sia quel giovane
Soave sia il murmure
Empi, spegnetela !
Il più illustre e imitato verso italiano, l'endecasillabo, è un'imitazione del decasyllabe dei trovatori e
trovieri: essendo oc e oil – le lingue della Francia d'allora – tendenzialmente tronche e dunque con
accento sull'ultima sillaba, il decasyllabe corrisponde all'endecasillabo in italiano, lingua piana,
dove prevale la terminazione di verso parossitona ossia piana:

qu'en tot lo mon non es hom de nulh nom (Arnaut)


dentro alla danza delle quattro belle (Dante)

Per noi italiani ciò che conta maggiormente nel determinare la pronuncia è l'accento intensivo
ossia tonico, per cui la fisionomia del verso è definita dall'alternarsi di sillabe toniche e atone. Va
però specificato che nella famiglia linguistica indoeuropea l'accento non si comporta allo stesso
modo. Nelle poesie germaniche delle origini (tedesco e inglese antichi) e anche in gran parte
moderne, è più forte l'accento sulla radice della parola, mentre nelle lingue neolatine può andare
benissimo sulle desinenze e simili. Infatti l'antica poesia germanica è anisosillabica e determinata
dalle posizioni di questi accenti molto forti, e questo ha influenzato il poetare delle lingue del
gruppo germanico come il tedesco e l'inglese.
Esisteva poi nella metrica classica e esiste in altre lingue e tradizioni poetiche ciò che chiamiamo
tono o accento musicale per distinguerlo dall'accetto intensivo o tonico. La stessa parola accentus
deriverebbe da ad-cantus e designerebbe pertanto questa musicalità peculiare all'esecuzione della
poesia classica. Il tono è un fattore importantissimo in alcune lingue (africane e orientali
soprattutto) dove l'altezza del fonema concorre a determinare il significato, ma forti escursioni di
tono si ravvisano anche in altri gruppi linguistici. Nella nostra versificazione è meno importante.
La quantità sillabica si esprime come differenza di durata fra vocali (e per conseguenza fra sillabe)
lunghe e brevi. Essa ha meno importanza per noi, ma è il principio strutturante della metrica
classica greco-latina i cui versi sono costituiti da aggruppamenti di piedi a loro volta costituiti da
almeno due sillabe lunghe o brevi, come giambo (breve – lunga), trocheo (lunga – breve), dattilo
(lunga – breve – breve), spondeo (lunga – lunga), anapesto (breve – breve – lunga), meno diffuso il
tribraco (breve – breve – breve), tutti di tre o quattro tempi primi equivalenti a una breve, ma non
manca un piede “minimo” come il pirricchio (breve – breve) né tempi di cinque (i peoni), di sette
(gli epitriti) e persino otto tempi primi. Giambo e trocheo si presentano normalmente riuniti in
dipodie e tripodie, gruppi di due o tre piedi. I metri classici come l'esametro e il pentametro sono
associazioni di piedi in cui peraltro è spesso possibile la sostituzione di un piede con un altro
equivalente nel contesto del rapporto 2:1, cioè sostanzialmente di un dattilo ad uno spondeo o
viceversa, per cui ha un numero variabile di sillabe anche il più noto e importante dei metri classici
greco-latini, appunto l'esametro.
Alla fine dell'età classica, il senso della quantità sillabica andò progressivamente attenuandosi.
Al criterio della quantità sillabica come elemento fondamentale dell'organizzazione metrica si
sostituì quello dell'accento intensivo (tonico), che nella metrica romanza andò gradatamente e
generalmente ad associarsi all'isosillabismo e/o all'affermazione dell'omoteleuto (terminazione
uguale) e finalmente della rima come vera e propria come “marcatura di fine verso”. Nella poesia
mediolatina (quella in latino medioevale dei chierici-poeti) si era già affermata una lettura
grammaticale-accentuativa e non più quantitativa dei versi più o meno “classici”, gli apparenti
giambi e trochei usati per l'inno, la sequenza e simili. Non è difficile vedere nel dimetro giambico
usato nell'inno ambrosiano (Te lucis ante terminum, Aeterna Christi munera, Deus creator omnium)
la “matrice” mediolatina del settenario sdrucciolo, e nel tetrametro trocaico (Stabat Mater
dolorosa / iuxta crucem lagrimosa) quella dell'ottonario.
Quanto detto non significa che la quantità intesa come durata sia completamente inesistente
anche in un sistema metrico basilarmente accentuativo-isosillabico, come quello italiano, e se
ascoltiamo un bravo lettore di poesia ci accorgiamo che anche la quantità come diversa durata delle
sillabe un suo certo peso ce l’ha, ma è un elemento legato all’esecuzione, non alla struttura. In altre
lingue indoeuropee, quelle della famiglia germanica, la differente durata vocalica è più sensibile ed
è espressa anche a livello di grafie, ad esempio, nel tedesco, ah (Mahler) un po' più lunga di una
semplice a (Tag).
Inoltre spesso si parla dei piedi classici per pura analogia. Ad esempio, si parla di “ottonari
trocaici” per gli ottonari doppi di ballate come il celebre Raven (Il Corvo) di Edgar Allan Poe (vedi
sopra) o di “pentapodia giambica” o di “decasillabo giambico” per il cosiddetto Blank Verse
inglese, il verso dei Sonetti di Shakespeare e di molti altri passi del Bardo, creato in Inghilterra poco
prima di Shakespeare per imitare il ritmo dell'endecasillabo italiano:

My mistress’ eyes are nothing like the sun;


Coral is far more red than her lips’ red;
If snow be white, why then her breasts are dun;
If hairs be wires, black wires grow on her head.

Questo verso shakespeariano fu adottato per conseguenza dai letterati tedeschi del Settecento,
ferventi ammiratori e traduttori di Shakespeare, e dalla metrica inglese e tedesca questo verso si
sarebbe poi diffuso nella metrica scandinava e russa.
La confusione di fenomeni di durata e fenomeni di accento e intensità è dunque un
fraintendimento, ma assai naturale, e produttore di concetti e sistemi. Ad esempio, quando si tratterà
di organizzare le durate, i valori, le figure musicali per comporre la musica polifonica (ciò che
avviene nella musica medievale), intorno al 1200 verranno teorizzati i cosiddetti “modi ritmici”,
aggregazioni di note longae e breves ossia lunghe e brevi, strutturate sugli antichi piedi (trocheo,
giambo, dattilo, anapesto ecc.), ma adattate ai raggruppamenti ternari tipici della musica di quel
periodo.

Capitolo 5 Situazioni, generi e forme poetiche nella loro origine romanza con i trovatori e
nella poesia italiana
I fondatori dell'esperienza poetica in volgare (ossia nelle lingue madri e naturali) dell'Europa, a
partire da poco dopo l'anno Mille, sono i trovatori (trobadors), ossia gli autori di poesia lirica in
lingua d'oc, che si parlava nell'area che definiamo Occitania, assai più estesa dell'attuale Provenza,
comprendendo anche la Linguadoca, l'Alvernia, il Poitou, il Limosino, e anche Catalogna e
Navarra e gran parte della Spagna del Nord. Essi dettero vita, a partire dalla fine dell’XI secolo, ad
una produzione letteraria che è considerata come il momento fondante della poesia europea nelle
lingue volgari romanze, ossia neolatine, e successivamente, attraverso vari influssi e passaggi,
germaniche. La cultura trobadorica, che faceva tutt'uno con la civiltà feudale e con le corti dei
grandi signori feudali, fiorisce all'incirca dal 1100 d. C. e si interrompe traumaticamente in pieno
XIII secolo in seguito alla cosiddetta crociata contro gli Albigesi. Ciò comporta che molti trovatori
si rifugino in Italia presso grandi signori come Bonifacio del Monferrato, Corrado Malaspina e
Alberico da Romano, diffondendo in Italia la conoscenza dei grandi poeti occitani. Intanto la
poesia trovadorica, attraverso figure di protettrici e promotrici come Eleonora d'Aquitania e le sue
figlie, si propagò anche in nazioni e fra poeti delle altre famiglie linguistiche, ad esempio in
Inghilterra (alla cui corte si parlava allora l'anglo-normanno) e Germania, determinando un precoce
influsso della poesia romanza su quella germanica.
I primi trovatori sono Guglielmo nono duca d’Aquitania e settimo conte di Poitiers, il più grande
feudatario di Francia, e Jaufré Rudel, all’incirca suo contemporaneo, principe, all'inizio del XII
secolo. Altri, poco dopo, come Marcabru, sono vassalli e “assoldati”. La poesia dei trovatori riflette
i valori di quella società feudale al cui riguardo si usa spesso (ma è terminologia moderna)
l’aggettivo cortese, cioè tipico delle corti feudali, di cui “si adotta il linguaggio”, ad esempio
quando la persona oggetto d’amore è chiamata midons (meus dominus = mio signore), da cui
l’italiano madonna. I trovatori però non parlano affatto di “amor cortese”, parlano invece della fin
amors, il “perfetto amore”, con i suoi requisiti: discrezione estrema per porre al riparo la vicenda
amorosa dalle malignità, capacità di sopportare prove al di là della speranza della ricompensa,
qualità personali come la fedeltà, la cortesia, il bel vivere e il bel parlare. Tuttavia non tutta la
produzione trovadorica è “cortese” nel senso che daremmo oggi al termine, anzi fin dall’inizio ne fa
parte una componente sbrigliata che si esercita in termini parecchio osés su argomenti sessuali. E
neanche è detto che l’amore di cui si parla sia quello che intendiamo noi, perché sono state avanzate
ipoteai di una lettura totalmente metaforica e in chiave spirituale e religiosa di molte e notissime
poesie dei grandi trovatori.
Il catalogo di situazioni poetiche dei trovatori rimarrà valido per secoli. In particolare
ricordiamo l’assenza dell’amato/a come forma più vivida e assolutizzante di presenza (l’amor de
lonh della più celebre poesia di Jaufré Rudel), perché nello spazio che si interpone fra amante e
amato si muovono la nostalgia e il desiderio, e si evidenziano le armonie e disarmonie fra paesaggio
esterno e paesaggio interiore. Per valutare la persistenza di questo tema nella poesia occidentale
basta pensare ad uno dei testi più belli di Bob Dylan, Visions of Johanna. Ma anche Azzurro di
Paolo Conte e 7,40 di Mogol-Battisti trattano a modo loro il tema dell’amor de lonh…
L'abbinamento tradizionale e universale amore-primavera può portare a soluzioni poetiche
diverse, l'identificazione fra la “regina dell'amore” e la primavera (come in A l'entrada del temps
clar), ma anche il contrario: l'affascinante opposizione fra l'inverno freddo fuori e il calore
dell'amore dentro, come nella prima stanza della poesia stupenda di Arnaut Daniel L'aura amara,
che Dante, nel De Vulgari Eloquentia (II, ii, 9), pone a modello della grande lirica amorosa, che si
scrive nel cuore perché è l’amore che “ditta dentro”, secondo la celebre definizione dello Stil Novo
di Dante nel dialogo con Bonagiunta da Lucca nel XXIV Purgatorio.
Contemporaneamente alla poesia lirica trobadorica o poco dopo, fiorisce il grande romanzo
cortese, che anch’esso è spesso in versi, con le storie di Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isotta, gli
eroi e le eroine “antichi”, la ricerca del Graal, i maghi e gli incantesimi.
La grande fioritura della poesia trobadorica e poi italiana coincide con gli esiti più alti e belli della
poesia mediolatina e cioè la poesia scritta in latino medievale dai chierici-poeti: pensiamo a certe
stupende sequenze mediolatine come lo Stabat Mater e Dies Irae. Anche certe strutture di base
delle forme strofiche romanze, basate sulla ripetizione (ripresa) di alcuni elementi, come lauda e
ballata, hanno il loro corrispettivo nella poesia mediolatina. Pensiamo alla semplice struttura
strofica della sequenza Stabat Mater (Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa / dum
pendébat Filius / Cuius animam gementem / contristatam et dolentem / pertransivit gladius, con
schema Aax Bbx). Lo stesso vale per determinate tematiche. Il culto della donna gentile potrebbe
riflettere quello di Maria, allora all'inizio di un grandioso sviluppo nella civiltà cristiana, ma è stato
visto da molti studiosi come un retaggio dei primi contatti con la poesia erotica araba, mediata
attraverso la Spagna e la cultura mozarabica, o conseguente all'esperienza delle crociate in Medio
Oriente e nella Spagna del Nord.
Importante la distinzione fra trobar leu e trobar clus (poetare "leggero" e "chiuso"), ossia la
contrapposizione di poesia "facile" e "difficile", anche nel senso di costruita su arditi procedimenti
formali. Campione di quest'ultima tendenza sarebbe stato, nella coscienza dei contemporanei e
posteri immediati (come testimonia la nota formula dantesca "il miglior fabbro del parlar materno",
Purgatorio XXVII), Arnaut Daniel (1150 ca. - 1210 ca.), che però scrisse spesso anche poesie
intenzionalmente "facili" come Cansò do i mot son plahn e prim (Canzone le cui parole sono piane
e semplici). Al trobar leu apparterebbero Bernart de Ventadorn (1130 o 1140 ca. - 1190 o 1200 ca.)
e Bertrand de Born (1140 ca. - 1215). Ma le recenti letture in chiave mistica (Lucia Lazzerini) della
celeberrima “canzone dell’allodola” di Bernart de Ventadorn ci fanno capire che anche il trobar leu
può contenere significati molteplici, volutamente celati a chi è fuori del gioco poetico e del codice
culturale che gli sta dietro. Ma i trovatori si dedicarono anche alla poesia delle armi, alla poesia
morale, alla polemica e alla satira politica.

E’ la cansò in più strofe la forma-genere di poesia alta e di ampia concezione più tipica dei trovatori
(da cui la canzone italiana), distinta in strofe che i trovatori chiamano coblas e con un sistema di
rime e lunghezze di versi che determina la struttura della strofa che può ripetersi per tutta la
composizione con le stesse rime (coblas unissonans) o variare le rime. Le si affiancano generi come
la dansa (antesignana della lauda-ballata italiana), e il sirventes (da cui l'italiano sirventese), di
argomento politico ma anche satirico e didascalico, con uno schema metrico "facile", tipo AAAb /
BBBc e simili, che con la sua agilità di struttura è del tutto indipendente dai complessi schemi di
canzone.
Generi e “situazioni” tipicamente trovadorici sono
- l'alba, un lamento sull’alba che separa gli amanti o un ammonimento perché si separino e non
vengano sorpresi, spesso con struttura dialogata: lascerà tracce tenacissime nella poesia e nel teatro,
come dimostrano le “albe” di Romeo and Juliet di Shakespeare e di Tristan und Isolde di Wagner
- la pastorella che consiste nella "sceneggiatura" di un incontro campestre galante fra un cavaliere
(nella poesia goliardica, uno studente) e una pastora; le più antiche pastorelle conosciute sono del
trovatore guascone Marcabru (XII secolo)
- il descort (diverrà l'italiano discordo) in cui le strofe discordano tra loro sia per struttura metrica
che per melodia e spesso per lingua (occitano - latino, occitano - italiano ecc.) e il contenuto “a
contrasto”
- il plazer (in italiano piacere) che spesso comincia con parole come "molto mi piace" e simili, in
cui si elencano le cose piacevoli della vita secondo il poeta
- l'enueg (in italiano noia) che è il contrario e come il plazer prende spesso la forma agile e
"comica" del sirventes
Un ultimo punto, ma importantissimo: i trovatori strutturano la loro poesia in base al principio della
rima. Questa figura di suono consistente nell'identità di fine verso non è presente nella poesia
classica, e comincia ad profilarsi in particolari contesti nel latino “della decadenza” e della prima
letteratura cristiana, anche in alcuni padri della Chiesa come Leone Magno. Infatti nel De Vulgari
Eloquentia, scritto in latino, lingua per cui per designare la rima non esisteva la parola, Dante la
chiama leonitas. La rima è adottata sia dalla poesia mediolatina (Stabat Mater dolorosa / iuxta
crucem lachrymosa) che dai poeti in volgare, e i primi a farlo sistematicamente nella poesia di alto
livello sono i trovatori.
Come si è detto, la fine della grande fioritura della poesia e della civiltà cortese occitanica
coincide grosso modo con la crociata contro gli Albigesi. L'eredità è raccolta dalla nascente
poesia in volgare italiana, in particolare dal Notaro (Giacomo da Lentini), e dagli altri poeti della
"scuola siciliana" (già identificata come tale da Dante nel De Vulgari Eloquentia), cioè della corte
di Federico II e Manfredi di Svevia. Questo passaggio in un nuovo contesto culturale, dai castelli
dell'Occitania alla curtis federiciana a Palermo, è cruciale, e aprirebbe "una fase poetica ormai del
tutto letteraria, svincolata dalla melodia" (Gianfranco Contini). E' il “divorzio della musica dalla
poesia” (Aurelio Roncaglia) ? Un divorzio che però gli studi più recenti tendono a rimettere in
discussione e a ridimensionare un po'. E' vero che ormai la poesia la si legge invece di declamarla o
cantarla, e che i codici italiani sono del tutto privi di musica, al contrario di quelli occitani. D'altra
parte c'è l’evidenza di episodi come quello di Casella nel Purgatorio dantesco, in cui sembra
dimostrato che per Dante era “normale” e anzi era più bello che una sua canzone venisse cantata, e
non solo recitata. Ci sono molte testimonianze anche intorno a Petrarca e alle sue relazioni con
diversi musicisti, e sembra certo che abbia affidato ad un musico amico, il Confortino, alcuni testi
di ballate, concepite forse proprio per aderire alle forme musicali della ballata dell'Ars Nova
italiana. Del resto, l'assenza delle melodie dalle fonti non comporta di necessità che tali melodie non
esistessero.

Capitolo 6 Versi, metri, generi e forme della poesia italiana


Nella poesia italiana il verso illustre per eccellenza è l'endecasillabo, con l'accento principale sulla
sesta sillaba nell'endecasillabo detto a maiore (Nel mezzo del cammin di nostra vita), con l'accento
principale sulla quarta sillaba nell'endecasillabo detto a minore (Mi ritrovai per una selva oscura).
L'endecasillabo è una derivazione del decasyllabe dei trovatori. A questo verso principe si affianca
il settenario e, più limitatamente, il quinario. Insomma i tre versi illustri italiani sono imparisillabi
e con ritmo ascendente. Fra gli altri versi della poesia delle origini ricordiamo il novenario,
derivazione dell'octosyllabe occitanico e oitanico, già dato per scomparso o scomparente dalla
poesia illustre nel dantesco De Vulgari Eloquentia, ma risorto quasi sei secoli dopo nella nostra
poesia simbolista e decadente (Bernart de Ventadorn Can vei la lauzeta mover, Giovanni Pascoli E
s'aprono i fiori notturni).
Endecasillabo e settenario (e più eccezionalmente quinario) sono dunque i versi della nostra
poesia lirica più "letterata" e delle sue forme e generi d'elezione: canzone, sonetto, ballata. Invece i
versi pari (senario, ottonario soprattutto, decasillabo) si sono lungamente accompagnati a generi non
lirici, musicati, popolareggianti, come la lauda (Alta Trinità Beata) e la canzone a ballo e affini
(Lorenzo il Magnifico Canzone di Bacco e Arianna: Quant'è bella giovinezza / che si fugge
tuttavia). Ciò è durato fino alla “rivoluzione metrica” di fine Cinquecento – inizi Seicento, quando
poeti come Ottavio Rinuccini e Gabriello Chiabrera crearono testi teatrali per musica e altre forme-
generi eleganti, soprattutto di poesia per musica, come l'aria in ottonari (Belle rose porporine).
Questa rivoluzione metrica ricolloca nella poesia illustre i versi pari che troveremo poi nelle poesie
di molti autori, nei testi teatrali, nei drammi per musica, nei libretti d'opera. Esempi di senario:
Soave sia il vento / Tranquilla sia l'onda (Lorenzo Da Ponte libretto del Così fan tutte per Mozart);
Dagli atri muscosi / Dai fori cadenti (Alessandro Manzoni coro
dell' Adelchi). Esempi d'ottonario: Mi par d'esser con la testa / In un'orrida fucina; Una voce poco
fa / Qui nel cor mi risonò (Cesare Sterbini libretto del Barbiere di Siviglia per Rossini). Esempi di
decasillabo: Madamina, il catalogo è questo / Delle belle che amò il padron mio (Lorenzo Da Ponte
libretto del Don Giovanni per Mozart); S'ode a destra uno squillo di tromba / A sinistra risponde uno
squillo (Alessandro Manzoni coro del Conte di Carmagnola); Va' pensiero sull'ali dorate / Va' ti
posa sui clivi e sui colli (Temistocle Solera libretto del Nabucco per Verdi)
L'endecasillabo è alla base di due moduli metrici di successo come la terza rima e l’ottava rima,
ossia la terzina dantesca a rime incatenate (ABABCBCDC...) in cui è scritta la Commedia, e
l’ottava dei poemi cavallereschi rinascimentali (ABABABCC) come l'Orlando Furioso di Ludovico
Ariosto e La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Ma la forma più illustre della poesia lirica
italiana, la canzone, derivata dalla canso trobadorica, si basa quasi sempre sull’alternanza studiata
di endecasillabi e settenari anche se non mancano canzoni tutte endecasillabe.
Una libera alternanza di versi sciolti (non rimati) endecasillabi e settenari, magari con una rima in
conclusione per sottolineare una sentenza e/o introdurre un altro episodio, costituisce la scelta
metrica privilegiata per un genere teatrale come il dramma pastorale cinquecentesco (l’Aminta del
Tasso, il Pastor Fido del Guarini), e resterà come eredità all'opera, per le sezioni di “recitativo”.
L’endecasillabo sciolto e cioè non rimato e con frequenti enjambements è la scelta prediletta dei
traduttori italiani dei poemi classici (come nel caso dell’Iliade tradotta da Vincenzo Monti).
Come si è detto, fin dai trovatori un principio basilare di strutturazione del testo poetico è dato
dalla rima. Nella poesia italiana, come nella poesia trobadorica, le formule più comuni di ricorrenza
delle rime sono costituite dalla rima baciata o accoppiata (AA BB CC ecc.), alterna o alternata
(AB AB ecc.), incrociata (ABBA oppure CDC), invertita (ABC CBA), costante (ABC ABC),
"incatenata" (ABA BCB CDC DED EFE...). Sempre sulla scorta dei trovatori, i nostri antichi poeti
distinguono inoltre le rime in base alla minore/maggiore ricchezza sonora e difficoltà, parlando di
rima povera ossia solo vocalica (pio / mio), sufficiente (nodo / modo), ricca (costante / bastante,
aspro / diaspro), “leonina” ossia estesa alla vocale che precede l'ultimo accento. C'è inoltre la
parola-rima, come nella sestina (vedi oltre). Nella versificazione italiana spesso si trova stabilita
dalla tradizione poetica, che la accetta per rima vera e propria, una particolare assonanza-ma-non-
identità di vocali larghe e strette e/o dittonghi contro vocali semplici (si parla in alcuni di questi casi
di “rima siciliana” perché stabilita o presente nella prima scuola poetica italiana). E’ il caso della più
famosa rima della lingua italiana, cuore / amore.
Dai trovatori, i poeti italiani riprendono forme come la canzone e la ballata, mentre è
un'invenzione italiana (attribuita ai poeti siciliani) il sonetto con il suo tipico schema in quattordici
versi divisi in due quartine e due sestine. Il sonetto prima dello Stil Novo (Tanto gentile, Guido i’
vorrei…) è spesso una forma usata per cicli di sonetti come quello dei mesi scritto da Folgóre da
San Gimignano, e per “tenzoni” in cui ci si “risponde per le rime” come la risposta a Folgóre di
Cenne della Chitarra (cfr. La canzone dei dodici mesi di Guccini), e la famosa tenzone poetica di
Dante con Forese Donati. La canzone è la forma "eccellente", alta e impegnata della poesia
trobadorica e italiana dal Duecento al Cinquecento, poi sostituita (ma sempre con versificazione
basata su endecasillabi e settenari) dall'ode (come All'amica risanata di Ugo Foscolo), e,
nell'Ottocento, dalla canzone libera e dal canto (Leopardi). La strofa di canzone viene distinta dai
metricisti in fronte e sirima o sirma, e in più c'è spesso una più breve strofa finale di congedo. La
varietà d'estensione della strofa, l'opzione endecasillabo/settenario, il gioco delle rime più o meno
distanziate, tutto ciò rende quanto mai varia la testura della strofa di canzone. La canzone può avere
contenuti diversi e anche il tema amoroso è soggetto a infinite variazioni e attitudini espressive. Si
va dalla canzone "filosofica" e/o morale (Donna me prega di Guido Cavalcanti, Tre donne intorno
al cor mi son venute di Dante) all'infinita varietà di vocazione della canzone in Petrarca, a soggetto
amoroso o no, dall'intima e indimenticabile consonanza, veramente trovadorica, fra paesaggio
interiore e reale (Di pensier in pensier, di monte in monte), alle tornite sottigliezze metriche e
lessicali di Chiare, fresche, dolc'acque, alla canzone di impegno politico e civile (Italia mia,
benché'l parlar sia indarno). Più tardi, Giacomo Leopardi respinge questo tradizionale sentimento
della tessitura della canzone "sublime", e gli sostituisce la precoce invenzione dei canti non più
distinti in strofa, o a strofa libera.
Una particolare varietà della canzone è costituita dalla canzone-sestina o semplicemente sestina,
anche questa un'invenzione trobadorica (Arnaut Daniel, Lo ferm voler) che i poeti italiani adottano,
rendendola il genere d'eccellenza del loro trobar clus: espressione di una poesia difficile, ardua, che
ha affascinato anche i poeti del Novecento (Ezra Pound, Franco Fortini). La sestina è composta di
stanze di endecasillabi non basate su rime ma su parole-rima ricorrenti secondo testure obbligate,
come nella tecnica che Dante nel De Vulgari Eloquentia definisce retrogradatio cruciata (ABCDEF
FAEBDC CFDABE ecc.). L'esempio italiano più famoso è nelle Rime Petrose di Dante, Al poco
giorno e al gran cerchio d'ombra, dove le parole-rima sono ombra, colli, erba, petra, verde, donna.
Costretto dallo schema difficile, Dante è qui portato a una sorta di ermetismo, a una "vertigine
metatestuale” (Guglielmo Gorni) che esprime una mortale e tragica fissità, un'ossessione amorosa.
Ma nell’Europa del Cinquecento, quando l’italiano era la lingua della cultura, non la nobile canzone
ma il più agile sonetto diventa la forma più imitata e diffusa, proprio per la sua armoniosa brevità e
la rigorosità dello schema, che lo rende adatto a tutto, dall’amore all’autoanalisi, alla confessione,
alla satira e allo scherzo. Sulla scorta del petrarchismo cinquecentesco che si diffonde in tutta
Europa, il sonetto incontra una nuova e strabiliante fortuna poetica europea tra Cinquecento e
Seicento, di cui sono testimonianza i bellissimi sonetti di Michelangelo, di Ronsard, di Gongora,
soprattutto la straordinaria collana dei sonetti di Shakespeare (che sono però organizzati secondo un
modulo particolare a dodici versi più distico conclusivo). Il sonetto è praticato da molti poeti
dell'età moderna e contemporanea, da Baudelaire a Mallarmé a Rainer Maria Rilke, da Alfieri e
Foscolo a Manzoni, da Carducci a D'Annunzio, ma non da Leopardi e quasi mai da Pascoli, poeti
che cercano testure più libere, o di diversa matrice e tradizione. Tra le riprese contemporanee,
Franco Fortini e Andrea Zanzotto.
La ballata è il corrispettivo italiano di varie forme poetico-musicali romanze delle origini, come la
dansa provenzale, il virelai francese e il villancico iberico, che nel loro schema originario XX
(ripresa) / AAAX (piedi e volta), appaiono variamente legate sia alle forme strofiche della poesia
mediolatina che ad altre possibili influenze, come la poesia araba mediata dalla poesia ispanica.
La forma italiana è non creata ma codificata da Jacopone da Todi, assieme a quella della lauda che
sostanzialmente è identica, e sembra nascere in un contesto popolare o popolareggiante, alle origini,
indubbiamente, con forte connotazione musicale che rimanda all'uso delle canzoni a ballo di
esecuzione collettiva (strofe solistica - ripresa/refrain corale) della poesia italiana delle origini
(L'acqua corre alla borrana e testi simili). La struttura originaria si fonda su un ritornello breve
detto ripresa e un numero variabile di stanze distinte in piedi o mutazioni e volta, quest'ultima
rimante con la ripresa (nella ballata musicale dell'Ars Nova, ciò è annunciato dall'identità anche
melodica di fine volta e ripresa). Questa matrice o qualità espressiva popolare o popolaresca (o
“donnesca”, di donne che ballano, come le fanciulle dell'affresco dell'Allegoria del Buon Governo
di Ambrogio Lorenzetti) provoca una progressiva marginalizzazione della ballata rispetto alla
canzone e al sonetto. A partire da Guido Cavalcanti la grande ballata letteraria è non più
necessariamente musicata, e la ballata musicale italiana dell'Ars Nova sarà più spesso su testi
anonimi e letterariamente modesti (ma spesso gustosi) e non di grandi poeti. Però, come rilevato,
non mancano documenti su una destinazione musicale di alcune delle ballate di Petrarca e della loro
intenzionale compatibilità con le strutture musicali delle ballate dell'Ars Nova. Comunque, ciò che
Petrarca cerca nelle sue ballate, sul piano poetico, è un'intenzionale mediocrità di tono, che resta
ben distante dallo stile elevato della canzone e dallo stile medio del sonetto.
Affini alla ballata sono forme di maggior fortuna rinascimentale come la canzone a ballo in
ottonari (Quant'è bella giovinezza di Lorenzo il Magnifico con schema: ripresa xyyx e stanze di due
piedi a rima alternata ab ab, volta by e ripetizione degli ultimi due versi della ripresa). Con il mondo
della ballata e della canzone a ballo sono da mettere in relazione alcune tipiche forme cinque-
seicentesche a prevalente scansione in ottonari e versi pari brevi, come la canzonetta o odicina o
anacreontica alla Gabriello Chiabrera (ad esempio nelle Nuove Musiche di Caccini, 1602, Belle rose
porporine e simili), e alcuni testi nati per la musica (ad esempio Biond'arcier che d'alto monte,
coro finale dell'Euridice di Rinuccini messa in musica da Peri e Caccini, 1600, o la canzone a ballo
Vi ricorda o boschi ombrosi nel testo di Alessandro Striggio per l'Orfeo di Monteverdi, 1607).
Invece nel folk-pop-rock, quando si parla di ballata, si fa riferimento a andamenti più tranquilli, ma
anche a testi più intensi, nobili, epici, nostalgici, romantici, fiabe e tragedie moderne e così via.
Infatti la riscoperta romantica della poesia "popolare" e "primitiva" o variamente fantastica rilancia
la ballata, basti citare i nomi di Wordsworth, Coleridge, Byron, Shelley, Keats, Scott, Goethe,
Schiller, Chamisso, Eichendorff, Heine, Hugo, in Italia Berchet e Prati. Non c'è una schema fisso, se
non una certa tendenza a ricorrenze ritornellanti, e in questo senso è una ballata anche Il corvo di
Edgar Allan Poe. C’è anche una caratterizzazione in base a temi "ingenui" e/o popolari, o, al
contrario, macabri, foschi e orrorosi, come nel Re degli Elfi di Goethe. Attraverso gli schemi, le
immagini e i temi della grande raccolta americana delle Child Ballads, e la loro riscoperta nel folk
revival di Pete Seeger e compagni, la ballata romantica è arrivata a Bob Dylan.
Frottola La frottola letteraria va distinta dal genere musicale dallo stesso nome, fiorito nel
Rinascimento italiano, una composizione a più voci su un testo amoroso e/o scherzoso di tipo
strofico, in cui l'invenzione musicale si ripete strofa per strofa. La frottola letteraria consiste nel
libero affastellamento (frocta) di detti, proverbi, sentenze, immagini bizzarre e cifrate, con
andamento metrico irregolare. Forma praticata dai giullari, ma poi coltivata nel Trecento e oltre da
poeti che gli dettero un contenuto satirico e/o sentenzioso, capriccioso, comunque, come nella
misteriosa e affascinante canzone-frottola petrarchesca Mai non vo' più cantar com'io soleva.
Madrigale Non si parla qui del madrigale musicale (che può eleggere a testo varie forme metriche e
poetiche, dal sonetto alla sequenza di ottave all'endecasillabo/settenario sciolto e quant'altro) ma
della forma poetica, generamente più breve e meno ambiziosa del sonetto, di diffusione trecentesca
(Petrarca, ad esempio) e poi cinque-secentesca, sullo sfondo di un paesaggio spesso campestre, in
ogni caso arioso e spaziato, luminoso e/o malinconico, eventualmente con una sfumatura umile e
popolaresca. Giovanni Pascoli denomina madrigale la sua splendida poesia Lavandare in cui
ingloba appunto un "madrigale", nel senso di una dimessa ma toccante e in realtà raffinatissima
poesia "popolare".
Ode Forma classica di vario metro sia monodica che corale (Alceo Saffo Anacreonte Bacchilide
Pindaro Orazio), rimessa in auge in età moderna e coltivata dai poeti inglesi (Keats, Ode sopra
un'urna greca) e anche dai poeti classico-romantici italiani, Parini, Foscolo, Manzoni e Carducci. Si
segnalano le Odi di contenuto politico o civile del Parini (La salubrità dell'aria, ma per noi
musicisti è di curiosa lettura La Musica, contro l'uso barbaro della castrazione dei cantanti), quelle
limpidamente neoclassiche di Foscolo (All'amica risanata), mentre Manzoni (Il Cinque Maggio) si
ricollega animosamente alla tradizione pariniana dell'ode civile e politica.
Ottava, strambotto, rispetto sono forme brevi e spesso popolareggianti, fiorite soprattutto a partire
dal XV secolo, quasi sempre in connubio con la musica costituita da arie adattabili a tali schemi
metrici, caratterizzate da un numero ristretto (sei - dieci) di versi prevalentemente endecasillabi
(Angelo Poliziano Pietà, donna, per Dio, deh, non più guerra).
Sirventese è un componimento anch'esso di origine occitanica concepito dapprima come
allocuzione del vassallo (sirven) al signore. Passando nella poesia italiana designa componimenti
vari, di tecnica giullaresca e di contenuto politico, spesso satirici e addirittura rabbiosi, di cronaca
politica, ma non solo. Sappiamo del perduto sirventese del giovane Dante in lode delle sessanta
donne più belle di Firenze (in Guido i’ vorrei: "quella ch'è sul numero del trenta").
Villanella e villotta, canzonetta, "grechesca" e simili Forme poetiche generalmente destinate alla
musica, di intonazione spesso (non sempre) popolareggiante e/o con sfumature dialettali o comiche,
altrove echeggianti il diffuso lessico poetico-amoroso "petrarchista", in schemi strofici semplici (ad
esempio strofe tristiche di endecasillabi ABB o strofe tetrastiche di settenari abab, miste AaBB e
simili), fiorite prevalentemente fra '400 e '600, non di rado nobilitate da bellissima musica di grandi
maestri della polifonia, da Adriano Willaert a Orlando di Lasso al Palestrina, in alcuni casi da
musica di intonazione più ariosa, fresca e piacevole, come nelle celebri Villotte del Fiore, la raccolta
curata da Filippo Azzaiolo.

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