I rapporti fra testo poetico e musica offrono un panorama straordinariamente ricco e vario. Musica
e poesia sono ambedue basate su una costituzione ritmica e una comune dimensione di sonorità. La
loro affinità, il fatto che siano “sorelle”, è una sorta di luogo comune, ma è un fatto che molta
poesia, epica, lirica e drammatica, sia nata in abbinamento con la musica. L'epica omerica, l'antica
poesia greca, la tragedia e la commedia greca, la poesia trobadorica erano cantate. Questo legame è
testimoniato dal fatto che chiamiamo lirica la poesia di Saffo e Alcmane, i cosiddetti “lirici greci”
del VII-VI secolo a. C., perché, secondo la tradizione, la poesia era eseguita accompagnandosi sulla
lira, sullo strumento a corde del mondo classico, o strumenti simili. Per estensione, chiamiamo
lirica la poesia più personale, la poesia “più poesia”, quella di Saffo e Catullo, delle canzoni dei
trovatori, dello Stil Novo, delle rime di Dante e Petrarca, Leopardi, Baudelaire, Pascoli, Rimbaud,
Mallarmé, Montale e via seguitando. Ciò non significa affatto che anche quando la poesia era,
effettivamente, cantata, musica e poesia scaturissero da un unico atto creativo, come avviene in
Wagner, negli chansonniers, in Bob Dylan, in Lennon-McCartney. Significa piuttosto che poesia e
musica hanno molte possibilità di “sistemarsi” reciprocamente l'una nell'altra sulla base di formule,
tradizionali-convenzionali, o create ex novo. Ciò dipende dal fatto che hanno alcune cose
fondamentali in comune.
In comune musica e poesia hanno il ritmo (una cadenza regolare che si ripete) e l'accento, ossia il
risalto d'intensità dato a un certo suono e a una certa sillaba. La metrica è la disciplina che studia
l'organizzazione e il raggruppamento dei versi e delle strofe ossia gruppi organizzati e solidali di
versi. Se guardiamo alle unità ritmiche, alle durate e quantità, ci accorgiamo che i rispettivi sistemi
e codici, quello metrico e quello musicale, possono convergere o divergere, e che questa reciproca
indipendenza, ma anche reciproca adattabilità dei due sistemi, è ciò che crea la bellezza e la varietà
della relazione fra musica e poesia.
Ad esempio, il modo in cui i grandi madrigalisti italiani costruiscono le loro opere su testi poetici,
usando articolazioni del discorso musicale spesso in contrasto con l'articolazione in versi, è
un'operazione artistica, che costituisce uno dei fascini particolari di questo repertorio. Nel folk-pop-
rock la maggior parte dei testi non è costruita rigidamente in base alla metrica tradizionale e usa un
verso più libero, spesso non isosillabico, non vincolato al numero di sillabe di un verso e alla
disposizione degli accenti che gli corrisponde nella metrica tradizionale. Un verso che però ci
suona tale, perché si adatta ad uno schema musicale. Spesso anche questo verso libero ma di
andamento complessivamente regolare, perché plasmato su simmetrie melodiche e percorsi
armonici, riecheggia schemi metrici consolidati. La tendenza all'anisosillabismo (non isosillabismo)
e/o al verso libero è comunque comune nella poesia del Novecento, ed è quasi la norma in certi
repertori di poesia per musica, come la lauda del ‘300. Infatti in musica è facilissimo
“normalizzare” sul piano ritmico un verso ipermetro o ipometro (con troppe sillabe o troppo poche)
lavorando sull’alternanza di battere e levare, diminuendo e aggravando valori e durate per adattare
il testo alla musica, e così via.
Versi piani
Ho comperato un libro bianco e nero
Non è ver che sia di maggio
Non so chi sia quel tipo
Soave sia il vento
Di quella pira
Versi tronchi
Ho comperato un libro rosso e blu
Non è ver che sia così
Non so chi sia Mariù
Soave sia il blu
La spegnerò
Versi sdruccioli
Ho comperato un libro color cenere
Non è ver che sia difficile
Non so chi sia quel giovane
Soave sia il murmure
Empi, spegnetela !
Il più illustre e imitato verso italiano, l'endecasillabo, è un'imitazione del decasyllabe dei trovatori e
trovieri: essendo oc e oil – le lingue della Francia d'allora – tendenzialmente tronche e dunque con
accento sull'ultima sillaba, il decasyllabe corrisponde all'endecasillabo in italiano, lingua piana,
dove prevale la terminazione di verso parossitona ossia piana:
Per noi italiani ciò che conta maggiormente nel determinare la pronuncia è l'accento intensivo
ossia tonico, per cui la fisionomia del verso è definita dall'alternarsi di sillabe toniche e atone. Va
però specificato che nella famiglia linguistica indoeuropea l'accento non si comporta allo stesso
modo. Nelle poesie germaniche delle origini (tedesco e inglese antichi) e anche in gran parte
moderne, è più forte l'accento sulla radice della parola, mentre nelle lingue neolatine può andare
benissimo sulle desinenze e simili. Infatti l'antica poesia germanica è anisosillabica e determinata
dalle posizioni di questi accenti molto forti, e questo ha influenzato il poetare delle lingue del
gruppo germanico come il tedesco e l'inglese.
Esisteva poi nella metrica classica e esiste in altre lingue e tradizioni poetiche ciò che chiamiamo
tono o accento musicale per distinguerlo dall'accetto intensivo o tonico. La stessa parola accentus
deriverebbe da ad-cantus e designerebbe pertanto questa musicalità peculiare all'esecuzione della
poesia classica. Il tono è un fattore importantissimo in alcune lingue (africane e orientali
soprattutto) dove l'altezza del fonema concorre a determinare il significato, ma forti escursioni di
tono si ravvisano anche in altri gruppi linguistici. Nella nostra versificazione è meno importante.
La quantità sillabica si esprime come differenza di durata fra vocali (e per conseguenza fra sillabe)
lunghe e brevi. Essa ha meno importanza per noi, ma è il principio strutturante della metrica
classica greco-latina i cui versi sono costituiti da aggruppamenti di piedi a loro volta costituiti da
almeno due sillabe lunghe o brevi, come giambo (breve – lunga), trocheo (lunga – breve), dattilo
(lunga – breve – breve), spondeo (lunga – lunga), anapesto (breve – breve – lunga), meno diffuso il
tribraco (breve – breve – breve), tutti di tre o quattro tempi primi equivalenti a una breve, ma non
manca un piede “minimo” come il pirricchio (breve – breve) né tempi di cinque (i peoni), di sette
(gli epitriti) e persino otto tempi primi. Giambo e trocheo si presentano normalmente riuniti in
dipodie e tripodie, gruppi di due o tre piedi. I metri classici come l'esametro e il pentametro sono
associazioni di piedi in cui peraltro è spesso possibile la sostituzione di un piede con un altro
equivalente nel contesto del rapporto 2:1, cioè sostanzialmente di un dattilo ad uno spondeo o
viceversa, per cui ha un numero variabile di sillabe anche il più noto e importante dei metri classici
greco-latini, appunto l'esametro.
Alla fine dell'età classica, il senso della quantità sillabica andò progressivamente attenuandosi.
Al criterio della quantità sillabica come elemento fondamentale dell'organizzazione metrica si
sostituì quello dell'accento intensivo (tonico), che nella metrica romanza andò gradatamente e
generalmente ad associarsi all'isosillabismo e/o all'affermazione dell'omoteleuto (terminazione
uguale) e finalmente della rima come vera e propria come “marcatura di fine verso”. Nella poesia
mediolatina (quella in latino medioevale dei chierici-poeti) si era già affermata una lettura
grammaticale-accentuativa e non più quantitativa dei versi più o meno “classici”, gli apparenti
giambi e trochei usati per l'inno, la sequenza e simili. Non è difficile vedere nel dimetro giambico
usato nell'inno ambrosiano (Te lucis ante terminum, Aeterna Christi munera, Deus creator omnium)
la “matrice” mediolatina del settenario sdrucciolo, e nel tetrametro trocaico (Stabat Mater
dolorosa / iuxta crucem lagrimosa) quella dell'ottonario.
Quanto detto non significa che la quantità intesa come durata sia completamente inesistente
anche in un sistema metrico basilarmente accentuativo-isosillabico, come quello italiano, e se
ascoltiamo un bravo lettore di poesia ci accorgiamo che anche la quantità come diversa durata delle
sillabe un suo certo peso ce l’ha, ma è un elemento legato all’esecuzione, non alla struttura. In altre
lingue indoeuropee, quelle della famiglia germanica, la differente durata vocalica è più sensibile ed
è espressa anche a livello di grafie, ad esempio, nel tedesco, ah (Mahler) un po' più lunga di una
semplice a (Tag).
Inoltre spesso si parla dei piedi classici per pura analogia. Ad esempio, si parla di “ottonari
trocaici” per gli ottonari doppi di ballate come il celebre Raven (Il Corvo) di Edgar Allan Poe (vedi
sopra) o di “pentapodia giambica” o di “decasillabo giambico” per il cosiddetto Blank Verse
inglese, il verso dei Sonetti di Shakespeare e di molti altri passi del Bardo, creato in Inghilterra poco
prima di Shakespeare per imitare il ritmo dell'endecasillabo italiano:
Questo verso shakespeariano fu adottato per conseguenza dai letterati tedeschi del Settecento,
ferventi ammiratori e traduttori di Shakespeare, e dalla metrica inglese e tedesca questo verso si
sarebbe poi diffuso nella metrica scandinava e russa.
La confusione di fenomeni di durata e fenomeni di accento e intensità è dunque un
fraintendimento, ma assai naturale, e produttore di concetti e sistemi. Ad esempio, quando si tratterà
di organizzare le durate, i valori, le figure musicali per comporre la musica polifonica (ciò che
avviene nella musica medievale), intorno al 1200 verranno teorizzati i cosiddetti “modi ritmici”,
aggregazioni di note longae e breves ossia lunghe e brevi, strutturate sugli antichi piedi (trocheo,
giambo, dattilo, anapesto ecc.), ma adattate ai raggruppamenti ternari tipici della musica di quel
periodo.
Capitolo 5 Situazioni, generi e forme poetiche nella loro origine romanza con i trovatori e
nella poesia italiana
I fondatori dell'esperienza poetica in volgare (ossia nelle lingue madri e naturali) dell'Europa, a
partire da poco dopo l'anno Mille, sono i trovatori (trobadors), ossia gli autori di poesia lirica in
lingua d'oc, che si parlava nell'area che definiamo Occitania, assai più estesa dell'attuale Provenza,
comprendendo anche la Linguadoca, l'Alvernia, il Poitou, il Limosino, e anche Catalogna e
Navarra e gran parte della Spagna del Nord. Essi dettero vita, a partire dalla fine dell’XI secolo, ad
una produzione letteraria che è considerata come il momento fondante della poesia europea nelle
lingue volgari romanze, ossia neolatine, e successivamente, attraverso vari influssi e passaggi,
germaniche. La cultura trobadorica, che faceva tutt'uno con la civiltà feudale e con le corti dei
grandi signori feudali, fiorisce all'incirca dal 1100 d. C. e si interrompe traumaticamente in pieno
XIII secolo in seguito alla cosiddetta crociata contro gli Albigesi. Ciò comporta che molti trovatori
si rifugino in Italia presso grandi signori come Bonifacio del Monferrato, Corrado Malaspina e
Alberico da Romano, diffondendo in Italia la conoscenza dei grandi poeti occitani. Intanto la
poesia trovadorica, attraverso figure di protettrici e promotrici come Eleonora d'Aquitania e le sue
figlie, si propagò anche in nazioni e fra poeti delle altre famiglie linguistiche, ad esempio in
Inghilterra (alla cui corte si parlava allora l'anglo-normanno) e Germania, determinando un precoce
influsso della poesia romanza su quella germanica.
I primi trovatori sono Guglielmo nono duca d’Aquitania e settimo conte di Poitiers, il più grande
feudatario di Francia, e Jaufré Rudel, all’incirca suo contemporaneo, principe, all'inizio del XII
secolo. Altri, poco dopo, come Marcabru, sono vassalli e “assoldati”. La poesia dei trovatori riflette
i valori di quella società feudale al cui riguardo si usa spesso (ma è terminologia moderna)
l’aggettivo cortese, cioè tipico delle corti feudali, di cui “si adotta il linguaggio”, ad esempio
quando la persona oggetto d’amore è chiamata midons (meus dominus = mio signore), da cui
l’italiano madonna. I trovatori però non parlano affatto di “amor cortese”, parlano invece della fin
amors, il “perfetto amore”, con i suoi requisiti: discrezione estrema per porre al riparo la vicenda
amorosa dalle malignità, capacità di sopportare prove al di là della speranza della ricompensa,
qualità personali come la fedeltà, la cortesia, il bel vivere e il bel parlare. Tuttavia non tutta la
produzione trovadorica è “cortese” nel senso che daremmo oggi al termine, anzi fin dall’inizio ne fa
parte una componente sbrigliata che si esercita in termini parecchio osés su argomenti sessuali. E
neanche è detto che l’amore di cui si parla sia quello che intendiamo noi, perché sono state avanzate
ipoteai di una lettura totalmente metaforica e in chiave spirituale e religiosa di molte e notissime
poesie dei grandi trovatori.
Il catalogo di situazioni poetiche dei trovatori rimarrà valido per secoli. In particolare
ricordiamo l’assenza dell’amato/a come forma più vivida e assolutizzante di presenza (l’amor de
lonh della più celebre poesia di Jaufré Rudel), perché nello spazio che si interpone fra amante e
amato si muovono la nostalgia e il desiderio, e si evidenziano le armonie e disarmonie fra paesaggio
esterno e paesaggio interiore. Per valutare la persistenza di questo tema nella poesia occidentale
basta pensare ad uno dei testi più belli di Bob Dylan, Visions of Johanna. Ma anche Azzurro di
Paolo Conte e 7,40 di Mogol-Battisti trattano a modo loro il tema dell’amor de lonh…
L'abbinamento tradizionale e universale amore-primavera può portare a soluzioni poetiche
diverse, l'identificazione fra la “regina dell'amore” e la primavera (come in A l'entrada del temps
clar), ma anche il contrario: l'affascinante opposizione fra l'inverno freddo fuori e il calore
dell'amore dentro, come nella prima stanza della poesia stupenda di Arnaut Daniel L'aura amara,
che Dante, nel De Vulgari Eloquentia (II, ii, 9), pone a modello della grande lirica amorosa, che si
scrive nel cuore perché è l’amore che “ditta dentro”, secondo la celebre definizione dello Stil Novo
di Dante nel dialogo con Bonagiunta da Lucca nel XXIV Purgatorio.
Contemporaneamente alla poesia lirica trobadorica o poco dopo, fiorisce il grande romanzo
cortese, che anch’esso è spesso in versi, con le storie di Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isotta, gli
eroi e le eroine “antichi”, la ricerca del Graal, i maghi e gli incantesimi.
La grande fioritura della poesia trobadorica e poi italiana coincide con gli esiti più alti e belli della
poesia mediolatina e cioè la poesia scritta in latino medievale dai chierici-poeti: pensiamo a certe
stupende sequenze mediolatine come lo Stabat Mater e Dies Irae. Anche certe strutture di base
delle forme strofiche romanze, basate sulla ripetizione (ripresa) di alcuni elementi, come lauda e
ballata, hanno il loro corrispettivo nella poesia mediolatina. Pensiamo alla semplice struttura
strofica della sequenza Stabat Mater (Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa / dum
pendébat Filius / Cuius animam gementem / contristatam et dolentem / pertransivit gladius, con
schema Aax Bbx). Lo stesso vale per determinate tematiche. Il culto della donna gentile potrebbe
riflettere quello di Maria, allora all'inizio di un grandioso sviluppo nella civiltà cristiana, ma è stato
visto da molti studiosi come un retaggio dei primi contatti con la poesia erotica araba, mediata
attraverso la Spagna e la cultura mozarabica, o conseguente all'esperienza delle crociate in Medio
Oriente e nella Spagna del Nord.
Importante la distinzione fra trobar leu e trobar clus (poetare "leggero" e "chiuso"), ossia la
contrapposizione di poesia "facile" e "difficile", anche nel senso di costruita su arditi procedimenti
formali. Campione di quest'ultima tendenza sarebbe stato, nella coscienza dei contemporanei e
posteri immediati (come testimonia la nota formula dantesca "il miglior fabbro del parlar materno",
Purgatorio XXVII), Arnaut Daniel (1150 ca. - 1210 ca.), che però scrisse spesso anche poesie
intenzionalmente "facili" come Cansò do i mot son plahn e prim (Canzone le cui parole sono piane
e semplici). Al trobar leu apparterebbero Bernart de Ventadorn (1130 o 1140 ca. - 1190 o 1200 ca.)
e Bertrand de Born (1140 ca. - 1215). Ma le recenti letture in chiave mistica (Lucia Lazzerini) della
celeberrima “canzone dell’allodola” di Bernart de Ventadorn ci fanno capire che anche il trobar leu
può contenere significati molteplici, volutamente celati a chi è fuori del gioco poetico e del codice
culturale che gli sta dietro. Ma i trovatori si dedicarono anche alla poesia delle armi, alla poesia
morale, alla polemica e alla satira politica.
E’ la cansò in più strofe la forma-genere di poesia alta e di ampia concezione più tipica dei trovatori
(da cui la canzone italiana), distinta in strofe che i trovatori chiamano coblas e con un sistema di
rime e lunghezze di versi che determina la struttura della strofa che può ripetersi per tutta la
composizione con le stesse rime (coblas unissonans) o variare le rime. Le si affiancano generi come
la dansa (antesignana della lauda-ballata italiana), e il sirventes (da cui l'italiano sirventese), di
argomento politico ma anche satirico e didascalico, con uno schema metrico "facile", tipo AAAb /
BBBc e simili, che con la sua agilità di struttura è del tutto indipendente dai complessi schemi di
canzone.
Generi e “situazioni” tipicamente trovadorici sono
- l'alba, un lamento sull’alba che separa gli amanti o un ammonimento perché si separino e non
vengano sorpresi, spesso con struttura dialogata: lascerà tracce tenacissime nella poesia e nel teatro,
come dimostrano le “albe” di Romeo and Juliet di Shakespeare e di Tristan und Isolde di Wagner
- la pastorella che consiste nella "sceneggiatura" di un incontro campestre galante fra un cavaliere
(nella poesia goliardica, uno studente) e una pastora; le più antiche pastorelle conosciute sono del
trovatore guascone Marcabru (XII secolo)
- il descort (diverrà l'italiano discordo) in cui le strofe discordano tra loro sia per struttura metrica
che per melodia e spesso per lingua (occitano - latino, occitano - italiano ecc.) e il contenuto “a
contrasto”
- il plazer (in italiano piacere) che spesso comincia con parole come "molto mi piace" e simili, in
cui si elencano le cose piacevoli della vita secondo il poeta
- l'enueg (in italiano noia) che è il contrario e come il plazer prende spesso la forma agile e
"comica" del sirventes
Un ultimo punto, ma importantissimo: i trovatori strutturano la loro poesia in base al principio della
rima. Questa figura di suono consistente nell'identità di fine verso non è presente nella poesia
classica, e comincia ad profilarsi in particolari contesti nel latino “della decadenza” e della prima
letteratura cristiana, anche in alcuni padri della Chiesa come Leone Magno. Infatti nel De Vulgari
Eloquentia, scritto in latino, lingua per cui per designare la rima non esisteva la parola, Dante la
chiama leonitas. La rima è adottata sia dalla poesia mediolatina (Stabat Mater dolorosa / iuxta
crucem lachrymosa) che dai poeti in volgare, e i primi a farlo sistematicamente nella poesia di alto
livello sono i trovatori.
Come si è detto, la fine della grande fioritura della poesia e della civiltà cortese occitanica
coincide grosso modo con la crociata contro gli Albigesi. L'eredità è raccolta dalla nascente
poesia in volgare italiana, in particolare dal Notaro (Giacomo da Lentini), e dagli altri poeti della
"scuola siciliana" (già identificata come tale da Dante nel De Vulgari Eloquentia), cioè della corte
di Federico II e Manfredi di Svevia. Questo passaggio in un nuovo contesto culturale, dai castelli
dell'Occitania alla curtis federiciana a Palermo, è cruciale, e aprirebbe "una fase poetica ormai del
tutto letteraria, svincolata dalla melodia" (Gianfranco Contini). E' il “divorzio della musica dalla
poesia” (Aurelio Roncaglia) ? Un divorzio che però gli studi più recenti tendono a rimettere in
discussione e a ridimensionare un po'. E' vero che ormai la poesia la si legge invece di declamarla o
cantarla, e che i codici italiani sono del tutto privi di musica, al contrario di quelli occitani. D'altra
parte c'è l’evidenza di episodi come quello di Casella nel Purgatorio dantesco, in cui sembra
dimostrato che per Dante era “normale” e anzi era più bello che una sua canzone venisse cantata, e
non solo recitata. Ci sono molte testimonianze anche intorno a Petrarca e alle sue relazioni con
diversi musicisti, e sembra certo che abbia affidato ad un musico amico, il Confortino, alcuni testi
di ballate, concepite forse proprio per aderire alle forme musicali della ballata dell'Ars Nova
italiana. Del resto, l'assenza delle melodie dalle fonti non comporta di necessità che tali melodie non
esistessero.