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I mestieri dell’insegnamento esistono da molto tempo e si possono reperire antiche concezioni sulla
professionalità dell’insegnante. Perrenoud ricorda a giusto titolo che gli insegnanti sono e sono sempre
stati persone di mestiere, dei “professionisti”; che vi sono diversi modelli di professionalità insegnante
e che la corrente della professionalizzazione descruve semplicemente un processo che si alimenta
“quando, nel mestiere, l’attivazione di regole prestabilite cede il posto a delle stretegie orientate da
obiettivi e da un’etica” . Si tratta del passaggio dal mestiere artigianale, alla professione in cui si
costruiscono delle strategie, appoggiandosi su dei saperi razionali.
La professionalizzazione si crea a partire da un processo di razionalizzazione dei saperi messi in atto,
ma egualmente a partire da pratiche efficaci in situazione. Il professionista sa mettere in atto le proprie
competenze in qualsiasi situazione; egli è “l’uomo della situazione”, capace di riflettere durante
l’azione e di adattarsi. Il professionista viene ammirato per la sua capacità di adattamento, la sua
expertise e la sua capacità di risposta e di adeguamento alla domanda.
Gli si chiede, inoltre, di essere autonomo e responsabile.
È questo il modello di professionalità che sembra sotteso attualmente al processo di
professionalizzazione degli insegnanti ed essere predominante. Che cose implica come competenze a
livello di insegnamento e del modello di formazione? Ci sono quattro modelli diversi di professionalità
insegnante:
- L’insegnante MAGISTER O MAGO: questo modello intellettualista dell’antichità considerava
l’insegnante come Maestro, un Mago che sa e che non necessita di formazione specifica o di
ricerca poiché il suo carisma e le sue competenze retoriche sono sufficienti
- L’insegnante TECNICO: questo modello fa la sua apparizione con le écoles normales (scuole
per la preparazione all’insegnamento); ci si forma al mestiere attraverso un apprendimento
imitativo, basandosi sulla pratica di un insegnante esperto che trasmette il suo saper fare, i suoi
“trucchi”
- L’insegnante INGEGNERE, TECNOLOGICO: l’insegnante si basa sui contributi scientifici
delle sciente umate. Razionalizza la propria pratica tentando di applicare la teoria. La
formazione è gestita da teorici, specialisti pedagogisti
- L’insegnante PROFESSIONISTA, ESPRERTO-RIFLESSIVO: alla dialettica teoria-pratica si
sostituisce un va e vieni tra PRATICA-TEORIA-PRATICA; l’insegnante diventa un
professionista riflessivo capace di analizzare le proprie pratiche, di risolvere dei problemi, di
inventare delle strategie.
2. La specificità dell’insegnante
Insegnare significa far apprendere. Senza la finalità dell’apprendimento, l’insegnamento non esiste; ma
si tratta di far apprendere attraverso la comunicazione e la messa in situazione.
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La difficoltà dell’atto di insegnare è che non può essere analizzato unicamente in termini di obblighi e
trasmissione di contenuti e di metodi definiti a priori, perché saranno le interazioni vissute, la
comunicazione verbale in classe che permetteranno o meno ad allievi diversi di apprendere ad ogni
intervento. Le informazioni da tramettere sono infatti modificate in funzione delle reazioni degli alunni.
Ciò che costituisce la specificità dell’insegnamento, è che si tratta di un “lavoro interattivo”. Per questo
motivo, l’insegnamento può anche essere concepito come un processo di presa di decisioni in classe. Al
modello del triangolo pedagogico insegnanti-alunni-sapere, si preferisce un modello dinamico di
situazioni che comporta quattro dimensioni in interazione reciproca: alunni-insegnanti-sapere-
comunicazione.
L’insegnante può pianificare il proprio intervento, ma rimane sempre la parte “avventura” legata agli
imprevisti provenienti dalle azioni sul campo e dalle razioni degli alunni.
Ciò che costituisce la specificità dei compiti di insegnamento è il fatto che essi coprono due campi di
pratiche diverse ma interdipendenti:
- La didattica: cioè gestione delle informazioni, da parte dell’insegnante e della appropriazione
da parte dell’alunno;
- La pedagogia: cioè il campo del trattamento e della trasformazione dell’informazione trasmessa
in Sapere dell’alunno attraverso la pratica relazionale e le azioni che l’insegnante realizza per
creare condizioni di apprendimento adeguate
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situazione. Questa capacità di adattamento del sapere si costruisce a partire dall’esperienza vissuta, con
l’ausilio di percezioni ed interpretazioni fatte in situazioni vissute precedentemente.
Il ruolo dell’insegnante “esperto-decisore” non si adatta alla descrizione di una professione che è
innanzitutto una pratica relazionale che necessita di interazioni multiple e che subisce costrizioni
provenienti dalla situazione e incertezze provenienti dalle reazioni degli altri attori. L’esperienza di
queste situazioni è formatrice: solo lei permette all’insegnante di sviluppare l’habitus (cioè delle
disposizioni acquisite nella pratica effettiva ed attraverso di essa). Un lavoro sull’habitus, attraverso il
saper analizzare, formerà l’insegnante a prendere coscienza di ciò che fa.
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1.3. L’impatto delle rappresentazioni sulle pratiche
Alcuni lavori hanno studiato l’impatto delle rappresentazioni del maestro sulla sua attività pedagogica.
Le relazioni di ruoli e di rappresentazioni di ruoli tra i maestri e gli alunni sono oggetto anche di analisi
e apprendimenti intrapresi in una procedura clinica. [continua ma non si capisce!!!]
Al momento dell’assunzione della funzione, “lo scontro con la realtà” riconosciuto dagli psicologi è
riferito ad un divario cruciale tra le rappresentazioni di ingresso e l’esperienza originaria. Tutto si volge
come se, anche in uscita dalla formazione, i saperi e le immagini che stavano alla base delle aspettative
verso il mestiere non fossero adeguate alla realtà quotidiana delle situazioni scoperte come una sorpresa
sul campo d’azione. L’ascolto degli insegnanti principianti mette bene in vista le angosce provocate
dalla consapevolezza della responsabilità del cammino verso l’autonomia. Questa, condizionata dal
sentimento di solitudine, è percepita allora nei suoi rischi e nei suoi vincoli come nelle sue
gratificazioni. Si rilevano anche delle delusioni di fronte ai comportamenti imprevisti degli alunni.
L’insegnante percepisce per un certo tempo il rischio di disgregarsi nel suo fronteggiare la complessità
del mestiere che si credeva facile. È disorientato al pensiero delle conoscenze e competenze che non ha,
che credeva di possedere. I comportamenti allora, pedagogici e relazionali, ne risentono e possono
sottomettersi a dei modelli di insegnamento detti “tradizionali”: collettivi, verbali, rigidi enunciati,
ritrovati nei ricordi infantili.
È stata formulata l’ipotesi, quello del maestro di potere, che incide sullo schema figurativo delle
rappresentazioni del mestiere e del suo “passaggio all’azione”.
Da una parte è certo che le rappresentazioni vadano ad influenzare i comportamenti e il livello di
competenze professionali; dall’altra si sa meno su in quale misura l’attività professionale nel suo
evolvere interverrà sui significati, le opinioni ed i valori attribuiti alla professione.
Dalla prospettiva offerta dai suoi racconti con altri colleghi, formatori, ma innanzi tutti sulla base
dell’esperienza nella classe, il praticante evolve, si forma. Non solo apprende i contenuti, ma impara lui
steso, in qualche modo, nel suo lavoro e in quanto al suo lavoro. Egli entra in questa dinamica che lo
identifica e grazie alla quale egli si identifica non come un insieme di competenze, ma come una
persona in relazione e in divenire.
L’insegnante autonomo, responsabile, capace di valutazione e di iniziativa, nell’adattamento creativo
delle sue azioni e posture alle realtà del mestiere, è un praticante che supera l’immediatezza
dell’esecuzione quotidiana delle sue incombenze perché sa collocare la relazione insegnare-imparare
nella dinamica di un progetto per gli alunni e per se stesso nella società.
Il professionista dell’insegnamento è un esperto riflessivo. Ritorna col pensiero sul suo lavoro, sulla
situazione che egli ha organizzato e vissuto o che si prepara per ottimizzare l’insieme dei suoi atti. È
allora, contemporaneamente, esperto auto-riflessivo; ritorna sempre col pensiero su se stesso e sulla
situazione creata.
Ma la questione non è facile. Ci sono delle difficoltà più o meno pesanti degli insegnanti, che sono
mantenute se non alimentate dalla situazione pedagogica nella quale intervengono, in interazione,
motivazioni incomparabili, fenomeni inattesi legati al transfer, tra il “maestro” ed il suo/suoi alunno/i.
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Come per ognuno, ma ancora di più per l’insegnante, la distanza con l’attività professionale esercitata è
difficile. A tal proposito, è importante sottolineare le attività di tirocinio, che saranno tanto più accette,
volute, riuscite quanto più percepite come suscettibili di colmare gli scarti tra la stima fatta dallo
studente o tirocinante dei suoi saperi e di quelle riconosciuti come necessari al protagonista.
Le ricerche i cui esiti sono conosciuti fino ad oggi sollevano problematiche cruciali su tre punti.
Il primo ha origine sul fatto che le domande di formazione vertono in ugual misura su dei
rinforzi di conoscenze e di competenze possedute che su lacune da colmare
Il secondo riguarda il senso stesso e lo scopo della domanda, e come questa può concepirsi nelle
sue opacità e deviazioni: quale attesa, che desideri profondi si nascondono sotto una
“formazione formale”?
Per ritornare, se fosse necessario, sulla questione delle competenze professionali, la prassi
stessa di formazione è inscritta nelle rappresentazioni del mestiere insegnante?
La conoscenza dell’ambiente dei professori mette in evidenza che esiste un problema, per gli
insegnanti, sul versante formazione.
La formazione iniziale è detta troppo tecnica, troppo distante dalla realtà. Gli insegnanti rimproverano
ai formatori di non aver detto abbastanza, fino a domandarsi se la formazione si utile.
Oggi è consuetudine affermare che una buona formazione è quella che conduce i professionisti al
desiderio di formarsi ancora in pratiche concrete della formazione.
Voci colte qu e là negli incontri con gli insegnanti affermano che “non si sa mai abbastanza per
insegnare”, o suggeriscono che forse, certi colleghi sono piuttosto stanchi se non delusi dal lavoro
svolto e che essi non contano più di “sottoporsi a formazione”.
Da simili concezioni di formazione, ottenute nel corso di vari incontri e questionari, emergono certe
domande di fondo:
- Quali sono le rappresentazioni della forma del mestiere presso i richiedenti?
- Sono convinti in primo luogo dell’interesse e della necessità di formarsi?
- In che cosa, in che modo, queste rappresentazioni possono intervenire nel loro addestramento e
su ciò che essi percepiscono e possono dunque influenzare la loro professionalità?
Nella ricerca sulla “modulazione della formazione degli insegnanti”, si lavora su entrambi i fronti delle
rappresentazioni: del mestiere della formazione, interrogandoci continuamente sui loro rapporti, su cui
si sono sviluppati strumenti diversi.
1) Un questionario sulle rappresentazioni del mestiere è stato somministrato a 360 studenti in fase
di professionalizzazione
2) Un Q-sort. In genere un questionario è distribuito anonimamente e compilato individualmente,
mentre il Q-sort si pratica in gruppo in seno al quale possono svilupparsi in seguito discussioni
e si pone allora come strumento di “formazione-riflessione”
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3) Interviste riguardo a insegnanti importanti. È stato richiesto ad alcuni studenti in formazione
non di dire le loro rappresentazioni del mestiere e della formazione ma di tracciare il profilo di
insegnanti che li avevano segnato quando erano adulti
4) Diverse ricerche-formazioni imperniate sulla personalizzazione della formazione hanno fornito
l’occasione per analizzare certe rappresentazioni del mestiere e della formazione e studiare dei
determinanti di queste.
È importante sottolineare che l’elaborazione delle rappresentazioni non avviene nel vuoto, ma è
influenzata dal contesto, da vincoli e sistemazioni, da aggiustamenti tangibili o simbolici nei quali si
inscrive.
L’altra finalità dei nostri lavori relativi alle rappresentazione degli insegnanti, è di ordine pedagogico,
perfino didattico. I primi risultati tendono a mostrare che la presa in considerazione delle
rappresentazioni contribuisce alla formazione di insegnanti-professionisti lungo tutta la loro
evoluzione.
a) Il lavoro sulle rappresentazioni serve in primo luogo a sensibilizzare il mestiere. È un lavoro di
riconoscimento delle motivazioni e di riflessioni su di esse partendo dalle prime immagini
espresse per un primo inizio si adeguamento con le realtà professionali.
b) In professionalizzazione iniziale in cui l’attività può continuare, il restringimento tra le
immagini e le attese del mestiere e le realtà di questo va rinforzandosi e dà luogo a movimenti
psichici individuali e di gruppo importanti. Il più importante consiste nella stima di sé dello
studente e poi del tirocinante in rapporto ai saperi.
c) In termini di pre-professionalizzazione da un lato, di formazione iniziale successiva, le
rappresentazioni del mestiere sono cambiate? Viene mostrato poche evoluzioni nelle risposte al
questionario predisposto
I bisogni attuali della popolazione francofona dell’Ontario raggiungono quelli che si attribuiscono a
qualsiasi minoranza che debba difendere la propria lingua, cultura ed il suo posto in un mondo
maggioritario, in questo caso il mondo anglofono. La lingua di comunicazione privilegiata è soprattutto
l’inglese, anche nelle famiglie francofone, ed il francese, per una forte maggioranza, è parlato solo in
classe. La richiesta attuale è quindi far imparare i fondamenti didattici ai bambini, di spingerli a vivere,
parlare ed esprimersi il più spesso possibile in francese.
I diversi interlocutori dell’educazione hanno dibattuto per due anni sulle prospettive della formazione
di insegnanti professionisti/e pronti ad accogliere tali sfide. Sono state raggruppate quattro categorie:
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- Gli insegnanti che si sentono esperti nel loro ambito di lavoro come dei professionisti che
possiedono il linguaggio della pratica
- Il sindacato insegnanti che mira alla protezione degli interessi degli insegnanti non solo in
termini di condizioni sociali ma anche in termini di rapporto alle innovazioni imposte dalle
istanze ministeriali
- Il Ministero dell’Istruzione che tenta da parte sua di rispondere alla società di oggi, si fa
portavoce delle istanze dei genitori e del mondo del lavoro
- L’università, nel quadro della formazione iniziale e continua in seguito a varie ricerche, vuole
interrogare la pratica, comprenderla e domandarla e, utilizza un linguaggio piuttosto erudito.
Per quanto questi interlocutori professino il desiderio di stabilire dei punti di incontro, il problema
attuale sta nel fatto che ognuno ha il suo stile di linguaggio e che c’è poca comunicazione tra di loro.
Per esempio, il Ministero produce programmi per la maggioranza anglofona, dà direttive di
applicazione in questo senso e traduce il tutto per la minoranza francofona.
I risultati qui presentati vengono dall’ultima sperimentazione condotta fuori campo con 29 studenti/esse
e sette formatori/trici (Toronto), dove è stato elaborato un programma di insegnamento integrato alla
pratica e centrato sulla riflessione nell’azione.
Gli insegnamenti sono stati quindi integrati in modo tale che le osservazioni e le pratiche in classe
potessero essere considerate nei corsi ed analizzate nel quadro di riflessioni collettive ed individuali.
Gli insegnamenti sono stati effettuati a partire dai bisogni e dalle attese dei tirocinanti.
1) Un primo principio di organizzazione era di favorire presso i tirocinanti lo sviluppo delloro stile
di insegnamento attraverso l’appropriazione di vari stili esistenti
2) Un secondo principio mirava all’articolazione tra la pratica in classe e la teoria, tenendo in
conto del contesto. Le ricerche effettuate permettevano la messa in atto di una rete sistematica
di riflessioni dove l’azione stava al centro delle loro preoccupazioni.
3) L’ultimo principio di elaborazione di questo percorso era di sviluppare gli atteggiamenti
necessari alla professione insegnante. Sulla base di ricerche condotte a partire da percorsi
anteriori di formazione, gli atteggiamenti cui mirare secondo gli insegnanti interpellati erano:
autonomia, responsabilità, prontezza d’azione, comunicazione.
3.1. Imparare
La concezione del tirocinio richiesta dal Ministero dell’Istruzione nei programmi di studio rimanda alle
teorie costruttivistiche. Questa concezione di apprendimento si allaccia a quella concezione di
apprendimento secondo cui nessuno può sostituirsi all’allievo nel suo apprendimento e che
quest’ultimo deve costruirsi delle reti di concetti e collegare i saperi veicolati in classe e attorno a lui. È
quindi in quest’ottica che il programma è stato elaborato, allo scopo che il tirocinante possa confrontare
i propri saperi già in atto con diversi saperi sia teorici che sperimentali.
3.2. Insegnare
In conformità a questa concezione costruttivistica dell’apprendistato, l’insegnamento è da pensarsi più
come animazione che trasmissione autoritaria di sapere. Artaud colloca bene la relazione educativa che,
agli inizi degli anni Cinquanta era autoritaria per tendere nel Settanta ad una non-direttività, e che
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diviene una specie di comunicazione dove il maestro guida a riflettere per ridare vita a questo sapere
nel suo intimo per essere in grado di condurre l’alunno a ricostruirla con le sue forze.
Come definire allora le competenze di un insegnante riflessivo, rivolto ai bisogno ed istanze dei suoi
alunni, che collabora e discute con loro?
Alla luce dei diversi percorsi sperimentati, una struttura pare emergere, che permette l’individuazione
di ambiti di competenze da acquisire per il nuovo insegnante. Questi cinque ambiti individuati dagli
insegnanti, formatori e sviluppatori dei tirocinanti hanno permesso di elaborare il percorso di
formazione allo scopo di rispondere ai bisogno fino ad allora inespressi. Si determinano nel modo
seguente:
- Le competenze collegate alla vita di classe. Comprendono le incombenze relative alla loro
gestione, all’oganizzazione del tempo, all’adeguamento all’atmosfera della classe.
- Le competenze individuate in rapporto agli alunni e alle loro peculiarità. Includono compiti
che comportano la comunicazione, la conoscenza e l’osservazione dei tipi di difficoltà
d’apprendimento e i possibili rimedi, l’incoraggiamento costante ad un coinvolgimento reale
degli alunni
- Le competenze legate alle materie insegnate. Esse richiedono un’acquisizione dei saperi,
concernenti ogni disciplina, una capacità di integrare questi saperi a saperi insegnabili partendo
dai vissuti e dai saperi già in possesso degli alunni
- Le competenze richieste rispetto alla società. Esse sono di diversoordine, secondo le interazioni
dell’insegnante con l’ambiente circostante. Così, bisognerà stabilire comunicazioni informative
con i genitori mediante incontri
- Le competenze inerenti alla propria persona. Sono le più importanti di tutto il processo. Di
fatto è il sapere dell’insegnante riflessivo sulla sua azione e pratica
Questi campi di competenza permettono allora di visualizzare il percorso sviluppato e descritto fin qui.
I tirocinanti ed i futuri insegnanti di mestiere devono coprire tutti questi campi di conoscenze, a
seconda dei loro bisogni, forze e debolezze in un contesto piuttosto personalizzato.
Il mestiere di insegnante acquisisce in un’articolazione tra situazione vissute e le teorie che tentano di
spiegarle, attraverso una generalizzazione dei processi.
L’approccio riflessivo suggerisce una formazione piuttosto personalizzata che possa aiutare ciascuno a
individuare una formazione L’approccio riflessivo suggerisce una formazione piuttosto personalizzata
che possa aiutare ciascuno a individuare le proprie competenze e quelle che invece gli restano da
acquisire. In questa linea di pensiero, numerosi stati americani effettuano una formazione attraverso il
“mentoring”, dove il “mentore” diventa l’amico e l’aiuto nella autoformazione dell’inesperto già
incaricato in una scuola, dopo una formazione iniziale. In una simile situazione, risulta che questi
formatori lavorano in collaborazione e fanno emergere gli aspetti più dibattuti del mestiere di
insegnante, al di là delle didattiche e delle metodologie.
Introduzione
Da ormai tre anni lavoriamo lavoriamo per costruire una banca di situazioni pedagogiche su
videoregistrazioni. In origine, l’obiettivo mirato era essenzialmente di disporre di un materiale che
permettesse di procedere all’analisi dell’atto pedagogico per far emergere il sapere esperienziale
dell’insegnante. Quest’esperienza doveva impegnarci in un processo di riflessione sui saperi pratici e
sulla formazione.
1.1. Premessa
La ricerca sulla professionalità dell’insegnamento ha dato luogo ad un’esplosione terminologica
concernente competenze e saperi degli insegnanti tali che si potrebbe dubitare del suo contributo reale a
una migliore conoscenza dell’atto pedagogico e dei suoi fondamenti. Facendo la scelta di parlare di
sapere pratico, si fa riferimento ad un insieme di mezzi ai quali ricorrono gli insegnanti nell’esercizio
quotidiano della loro professione. Ciò significa che dopo un certo tempo di pratica, il sapere
accademico diventa secondario, mentre la pratica professionale diventa prioritaria nel percorso
intrapreso dal professionista per continuare a costruire la sua competenza.
2. Tentativo di modellizzazione
Habitus o schema di azioni, poco importa l’etichetta, si impone l’idea che, senza un meccanismo di
mobilitazione dei saperi, non ci sarebbe l’espressione di competenza professionale. Quest’idea di
considerare l’insegnante come un operatore di schemi
di azioni esime in parte dall’obbligo di chiarire il problema dei “saperi”, in particolare la sua dicotomia
teoria-pratica, nella misura in cui si trovano confusi in uno schema d’azione perché fusi insieme idee,
valori, conoscenze ed esperienze.
Dallo studio di Piaget sulla nascita dell’intelligenza, si può comprendere dallo schema che è, in qualche
modo, un’azione possibile, cioè un concatenamento tale di elementi che rende possibile un intervento,
una reazione o un passaggio all’atto. La nostra esperienza tenterebbe a dimostrare che, nel tirocinante,
non è tanto l’assenza di schemi d’azione che spiegherebbe la difficoltà, quanto i limiti di quelli
disponibili o la difficoltà nel coordinarne più di uno, oppure per la difficoltà, in una specie di rigidità o
lentezza cognitiva, di passare da uno schema all’altro o di selezionare lo schema appropriato.
D’altra parte, in questa logica piagetiana, gli schemi si costruiscono e si trasformano per assimilazione
e accomodamento, cioè per confronto con la realtà con la realtà che permette di giudicare la loro
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potenza e i loro limiti. Una formazione pratica deve dunque non solo ancorarsi alla pratica e al sapere
pratico di un insegnante esperto, ma anche alla pratica dei tirocinanti.
Sempre in riferimento al modello piagetiano, emergono dei livelli di equilibrio. In una trasposizione
alla realtà pedagogica, l’equilibrio da raggiungere, ma senza dubbio mai totalmente raggiunto, è quello
della padronanza dell’economia pedagogica, intesa nel senso dell’organizzazione delle sue diverse
componenti. A seguire tentiamo di capire come si acquisisce questo sapere pratico.
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comprensione è parallelo alla costruzione di una nostra pratica di formazione e alla presa di coscienza
di principi informatori della nostra azione di formazione.
3° principio: Valorizzare la presa di coscienza del tirocinante dei propri schemi di azione
Principio strettamente associato ai precedenti, è supportato nel nostro corso dalla redazione di un
racconto di vita educativa nel quale si ritrovano la descrizione di situazioni educative significative
sperimentate nel passato e il cui ricordo è ravvivato dal video.
4° principio: Identificare i quadri concettuali flessibili che possano rispettare la diversità degli schemi
d’azione e supportare il loro sviluppo
Se i modelli sono multipli e le pratiche singole, i quadri concettuali devono essere in sintonia. In questa
prospettiva la presentazione di modelli teorici di intervento nel nostro corso ha per scopo di offrire
delle scelte ai tirocinanti. La loro presentazione può essere fatta in occasione dell’analisi di una
situazione pedagogica su video e permettere un dibattito sulle trasformazione possibile dell’intervento
in funzione delle intenzioni che si manifestano negli studenti.
Conclusione
I lavori del Laboratorio di ricerca sull’azione pedagogica alla scuola elementare e sulla formazione
professionale degli insegnanti sono realizzati con la collaborazioni di insegnanti esperti/e in servizio e
vertono principalmente sulla formazione dei maestri elementari.
Il fatto di essere osservato scatena o accelera nell’esperto un movimento riflessivo, che suppone uno
stato di disponibilità.
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Oltre alle condizioni che favoriscono la disponibilità di un esperto ad esporsi, ci sono quelle che
permettono di iscrivere la ricerca nel movimento della pratica che gli sfugge. La ricerca in classe
presuppone una grande flessibilità nei ricercatori. Si tratta di seguire il movimento dell’esperto
nell’azione quotidiana. Allora, all’interno di questo movimento, saranno effettuate delle scelte
dell’insegnante, saranno formalizzare scoperte.
Davanti ad una situazione osservata, lo studente/ssa non è più neutrale. In presenza della situazione
osservata, la sua riflessione e la sua eventuale azione pedagogica sono per forza orientate dal suo
sapere di esperienza. L’obiettivo della formazione pratica è di attivare la riflessione in azione dei futuri
esperti, di condurli a formulare il loro sapere di esperienza in modo da metterlo in interazione con i
saperi che le tradizioni scientifica e professionale rendono loro accessibili.
1. L’insegnante, un professionista
In un recente articolo, Perrenoud identifica due possibili vie di evoluzioni del mestiere insegnante:
- Gli insegnanti si trovano progressivamente spogliati del loro mestiere a vantaggio del pensiero
delle persone che concepiscono e realizzano i programmi, le procedure, gli strumenti di
insegnamento e valutazione e che pretendono di consegnare agli insegnanti dei modelli efficaci
di insegnamento; si tratta di una forma moderna di proletarizzazione;
- Gli insegnanti diventano dei veri professionisti, orientati verso la risoluzione dei problemi,
capaci di lavorare in sinergia all’interno di istituti e di équipes pedagogiche.
Perrenoud lancia l’allarme rispetto al rischio di proletarizzazione del mestiere di insegnante e
raccomanda di realizzare una formazione che miri ad aiutare gli insegnanti più professionisti. Ma cos’è
un professionista? A seguire la lettura sociologica e pedagogica della professionalità del formatore.
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all’interno di una serie di condotte disponibili, quelle che gli sembrano più adatte ad una situazione di
classe.
Il modello decisionista ha suscitato diverse critiche:
- La sua razionalità è incontestabile
- Ignora il ruolo dell’affettività nei comportamenti dell’insegnante
Per rendere conto del funzionamento dell’insegnante in classe, altri studiosi (Doyle e Ponder) partono
dal postulato inverso da quello di Shavelson. Secondo loro, non è l’insegnante che controlla la
situazione, ma la situazione che controlla l’insegnante. Così, i comportamenti dell’insegnante sarebbero
delle risposte a degli stimoli percepiti nell’ambiente piuttosto che il prodotto di decisioni razionali.
Altri ancora rifiutano il modello decisionista.
Ad ogni modo, tentando di combinare le tante diverse prospettive, definiamo l’insegnante-
professionista come un formatore che, in funzione del progetto esplicitato:
- Tiene conto deliberatamente del maggior numero possibile di parametri possibili della
situazione di formazione considerata
- Li articola in modo critico (seguendo teorie personali o collettive)
- Le mette in opera in situazioni concrete e ricorre a delle routines per assicurare l’efficacia della
sua azione
- Trae delle lezioni dalla sua pratica (riflessione sull’azione)
2. Le competenze professionali
a) I saperi
Sono stati individuati due tipi di saperi:
- i saperi dell’insegnante, costruiti dall’insegnante stesso o che l’insegnante considera di aver
fatto propri; saperi costruiti a partire dalla sua pratica o da esperienze vissute nell’ambito
scolastico.
- i saperi per l’insegnante che sarebbero elaborati da altre istanze, in altri contesti rispetto
all’insegnamento, che dovrebbero subire molteplici trasformazioni per essere utilizzati dagli
insegnanti in un particolare contesto.
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b) Gli schemi di azione
Viene proposto di distinguere gli schemi d’azione dai saperi, dalle rappresentazioni e dalle teorie
personali e collettive. Si tratta di schemi di percezione, valutazione e decisione che permettono di
mettere in gioco e di attualizzare dei saperi trasformandoli in competenze. È attraverso questi schemi
che i saperi possono essere attivati.
Gli schemi d’azione servono da legami tra la persona e il suo ambiente. Da un lato, sonoi filtri che
rendono le situazioni comprensibili (schemi di percezione), dall’altro guidano l’azione (schemi di
decisione e valutazione). Essi permettono alla persona di dare un significato alla situazione incontrata e
di disporre azioni adatte al contesto.
In un approccio costruttivista, apprendere consiste in una modificazione duratura degli schemi cognitivi
dell’individuo a partire dalle sue interazione con l’ambiente. Questo modo di leggere l’apprendimento
mette in evidenza l’importanza delle struttura nell’apprendimento, cioè gli schemi d’azione, dei saperi,
delle rappresentazioni e delle teorie, con i quali l’insegnante “arriva” alla formazione.
Tener conto degli schemi di partenza dell’insegnante costituisce dunque una condizione per collegare
la formazione alla pratica.
Schon considera l’apprendimento del professionista e lo definisce nelle sue interazioni con la pratica. Il
professionista sviluppa le sue competenze essenzialmente nella pratica e a partire dalla pratica.
Sul luogo di lavoro, l’insegnante apprende nell’azione. Si possono distinguere diversi momenti in
questo meccanismo:
- Il professionista dà una risposta routinaria ad un insieme di indizi percepiti in una situazione
- È stupito dalle conseguenze della sua azione. Esse differiscono rispetto a quanto aveva
immaginato
- Riflette su questo avvenimento e sperimenta una nuova azione per risolvere il problema
- Se riesce, la memorizza.
È dunque la pratica che suscita e convalida la nuova condotta sperimentata
Per concludere, si può mettere in evidenza l’importanza di creare, nella formazione e nel luogo di
lavoro, delle condizioni che permettano all’insegnante di sviluppare le sue competenze professionali a
partire da, attraverso e per la pratica.
L’insegnante può apprendere a partire dalla pratica nella misura in cui essa costituisce il punto
di partenza della sua riflessione, che si tatti della propria pratica che di quella dei colleghi
(apprendimento indiretto)
L’insegnante apprende attraverso la pratica. Rispetto alla realtà che gli resiste, l’insegnante si
pone come attore, cioè come qualcuno che può agire sulle caratteristiche della situazione,
sperimentare delle strategie nuove e scoprire soluzioni adatte alla situazione
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L’insegnante apprende per la pratica perché, se il punto di partenza dell’apprendimento è
nell’azione, lo è anche la sua conclusione, in quanto l’insegnante valorizza essenzialmente gli
apprendimenti di cui vede le ricadute dirette sulla sua vita professionale.
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4. I formatori assumono parecchi ruoli
Essi sono a volte analisti, a volte persone risorsa per favorire dei saperi utili al proseguimenti del
lavoro. Questa combinazione di diversi ruoli permette di rispondere alle esigenze della procedura di
costruzione dello strumento
5. Un’alternanza formazione-pratica
La formazione è concepita in modo da alternare i periodi di formazione e di pratica professionale,
facilitando il legame formazione-pratica. Questo dispositivo permette agli insegnanti di sperimentare
sul luogo di lavoro i prodotti realizzati in formazione.
3.5Una ricerca-azione-formazione
Questa formazione è costruita a partire da un’azione in interazione con una ricerca sulle strategie di
formazione continua sul campo. Queste tre strategie di ricerca, di azione e di formazione hanno tra loro
delle interazioni multiple.
Sulla base di una formazione, viene costruito un sapere. Informazioni provenienti dalla ricerca guidano
le decisioni di formazione (interazioni ricerca-formazione). Un’azione costituisce l’oggetto della
formazione (interazioni formazione-azione).
Questa articolazione tra ricerca-azione-formazione conduce talvolta a delle tensioni tra i diversi aspetti
del lavoro. Un esempio è che in certi momenti, i tre aspetti di ricerca, formazione e azione sono in
contraddizione. Superare questi dilemmi implica fare delle scelte, favorire un aspetto a scapito di un
altro.
Questa combinazione azione-ricerca-formazione sembra tuttavia adeguata al problema posto in quanto:
-la formazione si costruisce e acquista un senso rispetto all’azione. La costruzione di un prodotto
educativo struttura il lavoro in una serie di tappe
L’azione è l’occasione di esplicitare le pratiche e di costruire un materiale che permetta agli insegnanti
di sviluppare la capacità di riflettere a seguito della pratica
La ricerca permette entro certi limiti di attivare e regolare la formazione costruita.
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b) Un ambiente di formazione aperto
L’istruzione scolastica, luogo di lavoro e formazione => L’insegnante perfeziona la sua pratica
professionale esercitandola. Certe conoscenze sono perseguibili solo sul luogo di lavoro.
l’istituzione scolastica, luogo aperto => Questo apprendimento sul luogo di lavoro è favorito
dall’accesso ad altre risorse: centri di documentazione delle università…
1.1 Implicazione
In una relazione con un altro essere vivente, non si può essere estranei. I secoli passati hanno certo
potuto liberarci nel nostro rapporto con la natura perché si sono accumulate delle conoscenze che ci
permettono di non avere più paura di un temporale o di un lampo. Nel nostro rapporto con l’altro o con
il sociale siamo, in compenso, in un rapporto affettivo, nel quale siamo accecati da ciò che siamo.
Una tale implicazione è necessaria. si incontra l’altro solo attraverso una presenza. È la base
dell’incontro, i nostri sentimento non sono inopportuni della circostanza.
C’è, per qualsiasi “mestiere dell’umano”, un lavoro incessante di lucidità da condurre. Nulla ci
protegge da sbandamenti per sé e per l’altro.
Quando si lavora con un essere vivente, l’altro a volte ci tocca, spesso ci resiste. In questi mestieri, noi
proviamo sentimenti di amore e odio. L’amore può dimostrarsi distruttore: amore passione, che utilizza
l’altro come oggetto e lo lascia distrutto. I nostri sentimenti violenti non sono solo negativi. Lo sono
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quando mirano alla distruzione dell’altro, ma una collera può costituire un fatto nuovo e rivelarsi
portatrice di cambiamenti futuri.
Siccome non si può vivere sempre colpiti, ci si distanzia; si mettono, fra l’altro e noi, delle teorie, degli
strumenti tecnici, ci si protegge.
1.3 Etica
Nell’agire si pone costantemente una domanda: “è bene, è male?”. È anche la prima nei principianti,
con la speranza di un giudizio che potrebbe separare e soprattutto proteggere dal male. Il nostro
intervento sembra più semplice quando agiamo su degli oggetti. La misura del mio gesto è data
dall’oggetto e dall’intenzione che avevo.
Sappiamo che ci sono sempre molteplici probabilità, che si deve operare una scelta e che dobbiamo
assumerla, con le sue conseguenze. Qualsiasi atto trasforma la situazione che continua ad evolvere.
C’è la necessità di una dimensione etica per l’atto di insegnare? Il pedagogo diffida, a causa della
morale di un tempo lasciare e che faceva dipendere l’atto pedagogico da norme rigorose.
L’attore deve considerare altri punto o porsi altre domande.
2. Formazione
Lo spazio clinico si distingue dal contesto del laboratorio ma non vi si oppone. Nella clinica si
utilizzano i risultato ottenuto nello spazio di un laboratorio, ma l’atteggiamento pertinente di fronte alla
realtà è diverso da quello sviluppano in laboratorio. Nella formazione, si ha sicuramente meno
sicurezza, perché formare un clinico non passa per vie sicure e lascia nell’ombra certi talenti di cui non
si sa molto bene come si acquisiscono ma che fanno l’eccellenza di certi esperti. Una tale formazione
implica di considerare l’articolazione tra saperi costituiti e saperi di esperienza.
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2.2 Saperi di esperienza
In parallelo, si richiede un approccio sul campo attraverso l’azione e la riflessione sull’azione. Spesso
l’osservazione è soltanto a posteriori, quando si ritorna al come di un gesto, quando si può “osservare”
cosa è successo. A posteriori si abbozzano le ipotesi più che spiegare, si reperisce ciò che fu inventato
nell’istante, misurando insomma l’effetto della propria azione.
La nostra capacità di ritornare sull’esperienza passata si affina con il concorso di qualcuno che aiuta a
guidare ciò che ci si rifiuta di vedere. Si impara così a studiare la propria intuizione, senza rinnegare i
primi movimenti.
2.4 Tensioni
Esiste una tensione fra la logica del sapere preliminare delle scienze umane e quella della conoscenza
costruita a partire da un’esperienza. È qui che entra in gioco l’esperienza sul campo nella costruzione
delle conoscenze.
A volte si agisce come se uno studente debba apprendere i requisiti scientifici senza porsi delle
domande e senza capire il perché. Solo molto più tardi, diventato a sua volta esperto, potrebbe fare il
collegamento.
3. Formatori
La possibilità di una formazione clinica dipende dai formatori. Essi occupano la parte anteriore della
scena.
3.1 Responsabilità
Lo studente affronta la problematica inaugurata dalle principali discipline costituite dalle scienze
umane solo se il formatore se la pone ed esplicita la sua posizione.
Paradossalmente, un formatore proveniente da una disciplina come la sociologia, la psicologia o altre
ancora non deve negare la sua specialità; dovrebbe considerare con i futuri esperti come questo sapere
si mobilita nell’azione e ciò che non risolve.
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Quanto ai saperi di esperienze e di alterità, in un corso, il formatore può utilizzare i racconti della
pratica per circoscrivere le poste in gioco del mestiere, per lasciare intravedere come un professionista
riflette sulla pratica.
4. Scrittura
Se si apprende dall’esperienza e ci si forma, con quale scrittura si possono costruire delle conoscenze e
trasmetterle? C’è una scrittura specifica dell’esperienza e della clinica?
4.1 Autenticità
Un racconto non è né una somma di informazioni né la scrupolosa descrizione di un fatto esterno in cui
l’autore non è impegnato. La concezione del racconto rinvia necessariamente alla nostra concezione del
mestiere. Non può esistere nessun racconto, se il portatore dell’azione non assume la sua soggettività e
se nega l’impatto dell’effetto nel suo mestiere. Queste de condizioni sono particolari e associano il
racconto con l’espressione, l’autenticità e l’esposizione di un “io”.
Rendere conto delle pratiche significa che si accetta di parlare delle difficoltà incontrate.
Introduzione
C’è uno scarto importante tra ciò che l’insegnante esperto può spiegare spontaneamente a proposito
della sua azione e ciò che fa effettivamente. È necessario predisporre un’intervista specifica che renda
possibile un passaggio dal vissuto alla rappresentazione, poi alla verbalizzazione, affinché il soggetto
prenda coscienza delle operazioni mentali che effettua e delle conoscenze che mette in gioco nel corso
delle azioni mentali.
L’intervista di esplicitazione è una tecnica di aiuto alla verbalizzazione che permette precisamente
l’esplicitazione delle procedure intellettuali che operano in situazione. Fondata sulla teoria della presa
di coscienza di Piaget e sul ruolo della mediazione sociale di Vigotsky, la metodologia dell’intervista di
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esplicitazione presuppone un atteggiamento di interpretazione nel corso della raccolta delle
informazioni. L’intervista mira ad una descrizione il più possibile precisa dello svolgimento delle
azioni materiali e mentali nella realizzazione di un compito. Attraverso un ascolto specifico che
raccoglie indizi verbali e non verbali tali da permettere una guida attiva delle verbalizzazioni, si aiuterà
il soggetto a tradurre in parole le informazioni raccolte e le operazioni effettuate in un momento
preciso.
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b) Contestualizzare la formazione
È dunque nell’esperienza che si forgiano gli schemi di pensiero e di azione specifici ad un corpo
professionale, nel confronto con situazioni comparabili e allo stesso tempo sempre differenti. Senza gli
schemi, senza questa capacità di metabolizzare dei saperi, non ci sono competenze, ma solo
conoscenze. Per questa ragione le competenze professionali non possono costruirsi che attraverso una
formazione esperienziale.
2.1. L’asse diacronico dell’azione orientato verso uno scopo: costruire le competenze
professionali attraverso sperimentazioni/analisi/riprese
Alla domanda sul “come formare i nuovi insegnanti alla riflessione degli esperti”, una delle risposte
possibili è la realizzazione di dispositivi di formazione che riproducano la riflessione in azione degli
insegnamenti esperti, ma che amplino nello spazio e nel tempo la dinamica di equilibrio che
caratterizza la pratica insegnante.
Nei Laboratoires d’essais pédagogiques (L.P.) si preparano in piccolo gruppo (da quattro a sette
tirocinanti) dei progetti pedagogici e il dispositivo di osservazione che permetterà di valutarli, di
realizzare questi progetti con gli alunni e di registrarli in video,poi di analizzarli confrontando i diversi
punti di vista raccolti sulle situazioni messe in atto per dedurne gli elemtni da riprendere e da
trasformare in nuove situazioni.
Il L.P permette di sperimentare in modo privilegiato uno degli aspetti dell’atto di insegnare: la
competenza, a partire dalla raccolta di indizi sugli aspetti osservabili di una situazione pedagogica.
Oltre al fatto di dotare i tirocinanti di uno stock di esperienze che costituiranno altrettanti materiali per
ulteriori pratiche, i L.P contribuiscono in modo decisivo, attraverso un dispositivo allargato di
osservazione e di analisi, alla costruzione progressiva di questa capacità di raccogliere informazioni e
di trattarla nel corso dell’azione che è propria degli insegnanti esperti.
2.2. L’asse sincronico della raccolta di informazione sul sistema d’interazioni: apprendere
a osservare e ad analizzare
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Quando inizia il mestiere, l’insegnante tirocinante non dispone di alcuno degli schemi di pensiero o di
azione che gli permetteranno di rispondere colpo su colpo alla situazione.
È dunque importante attivare nel corso di formazione delle condizioni protette di azione e di raccolta di
informazioni che permetteranno ai tirocinanti di cominciare a costituire quell’insieme di schemi
professionali che dovrebbero consentirgli non solo di aumentare lo stock delle routine disponibili, ma
soprattutto di raccogliere e di trattare in modo pertinente tutte le informazioni provenienti dalla propria
classe.
Come favorire la conoscenza dell’attività cognitiva degli alunni e la presa di coscienza da parte del
tirocinante del suo funzionamento in situazione?
Nei confronti dei bambini, la valutazione del principiante si basa spesso sui soli risultati osservabili,
senza sfiorare il problema della logica del funzionamento di ogni alunno di fronte al compito proposto.
Un decentramento è necessario affinché si costituiscano parallelamente la conoscenza dell’oggetto (in
questo caso la situazione pedagogica come sistema alunno/compito) e la presa di coscienza da parte del
soggetto delle modalità della sua azione.
Per meglio comprendere sia l’attività degli alunni sia quella del tirocinante, la videoregistrazione e
l’intervista di esplicitazione appaiono come due strumenti indispensabili e complementari della raccolta
d informazioni sulle situazioni pedagogiche.
La registrazione video fornisce al tirocinante delle informazioni su ciò che non aveva visto. In modo
del tutto complementare, l’intervista di esplicitazione permette la verbalizzazione e quindi dà al
tirocinante la possibilità di trattare l’informazione che raccoglie in classe e di attivare, attraverso questa
verbalizzazione, una presa di coscienza che modificherà la sua azione pedagogica successiva.
Conclusione
L’insegnante gestisce simultaneamente il gruppo-classe e il caso particolare di ogni alunno allo stadio
in cui è con il suo apprendimento, nel contesto sempre unico di una situazione pedagocia in un
determinato momento. E tutto questo nel fuoco dell’azione, adattandosi agli imprevisti della dinamica
propria di ogni sequenza.
Il principiante, invece, per elaborare delle risposte adatte ai problemi che gli pone il comportamento di
classe, deve poter beneficiare di spazi di distanziamento che gli permettano di riflettere sulla sua pratica
e di appropriarsi di nuovi elementi di conoscenza che si integrano progressivamente nella sua azione
pedagogica. La caratteristica di una formazione attraverso l’azione e la riflessione sull’azione è di
fornire al tirocinante dei tempi di lettura dell’esperienza per poter analizzare ciò che è successo e
regolare in differita ciò che non sa ancora controllare nel momento dell’azione.
Richiede che i formatori siano nello stesso tempo loro stessi degli insegnanti esperti abituati
all’osservazione degli alunni, ma anche, per i tirocinanti, dei compagni e delle guide sul cammino delle
sperimentazioni e delle prese di coscienza.
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Capitolo 8. Competenze professionali privilegiate negli stage in video-
formazione
Introduzione
Ogni sapere scientifico si costruisce su paradigmi, cioè su nuclei di principi e di ipotesi fondamentali
che definiscono un determinato approccio a una realtà.
Il paradigma che attualmente domina nel campo della ricerca è quello dell’insegnante riflessivo.
Secondo i paradigmi adottati, non solo le prospettive sono differenti, ma soprattutto differiscono i modi
di agire.
1.2. Cosa deve poter fare un insegnante [Paradigma del docente tecnico]
A partire dagli anni ’60, si sono sviluppati numerosi programmi di formazione professionale,
applicando le procedure classiche di job analysis. L’attività di lavoro è scomposta in funzioni e queste
in compiti.
I programmi di formazioni degli insegnanti definiti in funzione delle competenze attese sono spesso
troppo meccanicistici.
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1.4. Come agisce un professionista dell’insegnamento [Docente riflessivo]
Nella maggior parte die paesi occidentali, il mestiere di insegnante tende ad essere considerato una
“professione”. Cosa significa? Un professionista realizza in autonomia delle operazioni intellettuali non
routinarie che impegnano la sua responsabilità. Il professionista è autonomo non solo perché è in grado
di autocontrollare il suo operato, ma anche di guidare, allo stesso tempo, il suo apprendimento
attraverso un’analisi critica delle sue pratiche e dei risultato di queste.
Come dice Perrenoud, la professionalizzazione è anche la capacità di accumulare l’esperienza, di
riflettere sulle proprie pratiche per poterle riorganizzare. Questa concezione è stata sviluppata in molti
lavori odierni a proposito dell’esperto riflessivo. Attraverso la riflessione sulla propria pratica e i suoi
effetti, l’esperto si crea un sapere d’esperienza in continua evoluzione. Dunque, un professionista è un
analista di situazioni singole e un decisore esperto.
Se l’analisi e la riflessione sono metodiche ed approfondite, è possibile operare il passaggio
dall’esperto riflessivo all’esperto ricercatore? In realtà, non c’è una rottura, ma una continuità tra
l’esperto riflessivo e l’esperto ricercatore.
Le strategie da privilegiare per formare degli esperti riflessivi sono: realizzare una diagnosi della
situazione; preparare delle lezioni chiarendo le scelte effettuate; associare gli studenti alla valutazione
dei loro stage.
Il punto critico della formazione di un insegnante riflessivo attraverso gli stage è l’organizzazione
dell’accompagnamento da parte di formatori esperti, a loro volta abituati a riflettere sulle proprie
pratiche.
1.5. Quale dovrebbe essere il ruolo sociale degli insegnanti? [insegnante come attore sociale]
Nella scuola che si rinnova, il mestiere dell’insegnante cambia. Consiste sempre più nella
partecipazione a progetti comuni sia di gruppo che a livello di istituto. Ciò implica un impegno come
attore sociale a livello locale. È attore sociale l’insegnante impegnato in progetti collettivi (es classe-
laboratorio, progetti interdisciplinari…), ma anche l’insegnante impegnato in dibattiti per definire un
progetto d’istituto e partecipare alla sua gestione. Tale responsabilità nei progetti e negli ingranaggi di
una istruzione esige un nuovo profilo: poter analizzare il sistema nelle sue molteplici dimensioni
(organizzative, politiche, ideologiche…), fondare le basi di un progetto su questa analisi, attuare questo
progetto, aggiustarlo e valutarlo…
Quali strategie mettere in atto per formare degli attori sociali così definiti? Condurre i futuri insegnanti
a costruire progetti collettivi e strumenti per aiutare la realizzazione di ogni tappa, a esplicitare la
procedura seguita.
Essere un attore sociale significa anche “vedere al di là del proprio naso, e le mura della propria
scuola”; cioè essere coscienti che la scuola è attraversata da conflitti di valore: è importante perciò che
gli insegnanti possano analizzare i problemi sociali che investono la scuola.
1.6. come “essere” insegnante e come “vivere” il proprio mestiere? [insegnante come persona]
L’evoluzione della società ha provocato una modificazione delle funzioni della scuola e di conseguenza
dei ruoli dell’insegnante.si assiste dunque ad un profondo disagio presso il personale insegnante. Gli
insegnanti vivono dei conflitti d’identità. Per loro è difficile sviluppare un’immagine positiva del sé
professionale.
Secondo il paradigma personalista, l’insegnante è innanzitutto una persona: una persona in evoluzione
e alla ricerca di un diventare se stesso, una persona in relazione con gli altri. Naturalmente non esiste
un profilo tipo della persona insegnante e l’evoluzione non è comandata dall’esterno. È tuttavia
necessario, a partire dalla formazione iniziale, avviare un processo verso uno sviluppo personale e
relazionale.
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2. Pratiche di micro-insegnamento e di video formazione: competenze e strategie privilegiate
(M.C. Wagner)
L’apparecchio video può intervenire nell’apprendimento professionale degli insegnanti in diversi
momenti in molti modi.
b) Tipi di attività
Si tratta di sperimentazioni realizzate e filmate in situazioni simulate (laboratorio con i pari). Un
ventaglio di attitudini è presentato e discusso all’inizio della formazione. Lo studente sceglie
liberalmente la funzione o le attitudini che gli sembrano più pertinenti e significative. Gli esercizi sono
registrati e la loro visione sostiene l’auto-analisi di colui che li ha realizzati.
c) Modalità di supervisione
Se gli obiettivi possibili, gli strumenti di osservazione e i percorsi di analisi sono proposti dal
formatore, la scelta degli obiettivi viene fatta dallo studente. Il formatore svolge essenzialmente il ruolo
di guida e consigliere durante questa fase di lavoro.
d) Articolazione teoria-pratica
Considerando due logiche di rapporto tra teoria e pratica: una logica di passaggio o di trasformazione
(quella del passaggio reciproco da una modalità di conoscenza ad un’altra), e una logica di confronto
(quella del confronto dialettico), vengono identificati quattro assi di ricerca sul ruolo del video nella
costruzione delle competenze professionali (trasformazione delle conoscenze teoriche in pratiche e
viceversa; passaggio alla teoria nella formazione delle conoscenze pratiche e passaggio alla pratica
nella formazione delle conoscenze teoriche).
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Tre principi metodologici caratterizzano il lavoro che si effettua in questo spazio di mediazione che è il
laboratorio di sperimentazione pedagogica.
Il principio di variazione: Ciò che si fa è sempre modificabile e trasformabile, che si tratti di una
strategia pedagogica o del modo stesso di analizzarla.
Il principio di riflessività: Tutte le attività (la preparazione, la realizzazione, la sua osservazione…)
diventano oggetto di analisi riflessiva e di ricostruzione.
Principio di operatività: Ogni membro del gruppo deve assumere un compito nel dispositivo
d’insieme.
b) Tipi di attività
1. Nei laboratori di sperimentazione pedagogica si tratta essenzialmente di:
- Condurre delle sequenze pedagogiche mettendo alla prova delle ipotesi costruite
individualmente o in gruppo;
- Immaginare e costruire delle alternative
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Le nostre abitudini ed i nostri automatismi non riguardano solamente i nostri gesti, i nostri atti concreti,
osservabili; concernono anche le nostre percezioni, le nostre emozioni.
Si conosce la nozione piagetiana di schema: le azioni, in effetti, non si succedono a caso, ma si ripetono
e si applicano in modo simili a situazioni comparabili. Più precisamente, esse si riproducono tali e quali
se, agli stessi, corrispondo delle situazioni analoghe, ma si differenziano o si combinano in modo
nuovo se i bisogni o le situazioni cambiano. Noi chiameremo schemi d’azione ciò che c’è di comune
alle diverse ripetizioni o applicazioni della stessa azione.
La nozione di habitus generalizza la nozione di schema. Il nostro habitus è costituito dall’insieme dei
nostri schemi di percezione, di valutazione, di pensiero e di azione. Grazie a questa struttura, noi siamo
capaci di far fronte, al prezzo di piccoli aggiustamenti, ad una grande varietà di situazioni quotidiane.
Gli schemi permettono al soggetto di adattare solo marginalmente la propria azione alle caratteristiche
della ogni situazione corrente; egli innova solo per tener conto di ciò per cui essa è singolare. Quando
l’adattamento è piccolo o eccezionale, non c’è in genere apprendimento, la coordinazione di schemi
esistenti si stabilizza, creando nuovi schemi. L’habitus si arricchisce e si diversifica.
Possiamo noi, pertanto, nella formazione degli insegnanti, astenerci da dispositivi di formazione di un
habitus professionale? In realtà, essi esistono: ogni curriculo, esplicito o implicito, ogni istituzione
educativa, forma e trasforma l’habitus, attraverso l’esercizio del mestiere di alunno o studente.
Che si voglia o no, l’habitus si forma.
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1.2 Il momento opportuno
Molti saperi analitici poggiano non tanto sulla situazione ma sul nostro modo di reagire ad essa. Saperi
di secondo grado, saperi sulla difficoltà di mettere in pratica al momento opportuno, controllando le
proprie pulsioni e le proprie reazioni spontanee, saperi procedurali di primo livello.
Per esempio, anche uno psicanalista che conosce Freud e altri grandi della psicanalisi a memoria e
possiede una immensa cultura teorica, dipende in ultima istanza dalla mobilitazione dei propri saperi, di
risorse cognitive di altra natura, che a volte si chiamano intuizione, fiuto, feeling, altrettanti modi
correnti di nominare ciò che, nell’habitus, funziona in parte a nostra insaputa.
Vi è una parte dell’imprevisto in qualunque azione pianificata. In una giornata in classe, un insegnante
prende centinaia di piccole e grandi decisioni. Quando un allievo inizia una risposta sbagliata o alza la
mano per porre una domanda, occorre decidere immediatamente.
Per agire nell’urgenza, l’attore a volte mobilita dei “riflessi” nel senso proprio del termine, o degli
schemi che provengono da non si sa dove, e che non lasciano minimamente spazio alla riflessione. Egli
pensa allora che si reagisce istintivamente, o spontaneamente. Bourdieu ha insistito sul fatto che noi
non reagiamo a caso, ma in funzione del nostro habitus, quindi nell’illusione della spontaneità e della
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libertà. In un primo tempo, e a volte in modo definitivo, l’insegnante, come qualsiasi altro attore in
caso d’urgenza, viene agito dal suo habitus, piuttosto che agire come soggetto autonomo. La nostra più
forte dipendenza è nei confronti della parte meno esplicita e riconosciuta del nostro habitus.
Anche al di fuori della presenza degli allievi, manca il tempo per pensare tranquillamente a tutto, in
dettaglio. Una parte dei preparativi didattici si fa nell’urgenza, a grandi tratti, e a volte non si fanno
nemmeno, per mancanza di tempo o di energia. Per avere del materiale, delle idee didattiche,
occorrerebbe lavorarci dei giorni. anche per l’insegnante più coscienzioso, ciò è impossibile. L’habitus
si investe nella preparazione delle lezioni e nella correzione dei compiti, così come nel tempo in classe,
anche se sono altri gli schemi che entrano in gioco.
Peggio sarebbe vedere l’insegnante come una specie di schizofrenico professionista, a momenti un Dr.
Jakyll cosciente di ciò che sta facendo, sostenuto dalla scienza e dalla ragione, ed in altri momenti Mr.
Hyde, preso dalla follia, che segue solo i suoi impulsi. In realtà, Dr. Jakyll e Mr. Hyde coesistono e
cooperano ad ogni istante e ciascuno riconosce l’esistenza dell’altro.la maggior parye delle loro azioni
dipende al contempo, in proporzioni diverse, dal pensiero razionale guidato da saperi e dalla reazione
governata da schemi meno coscienti, prodotti sia dalla loro storia di vita, sia dalla loro esperienza
professionale.
Non esiste ragione per rigettare l’habitus nel lato delle pulsioni. Il nostro io e la nostra parte di ragione
mettono ugualmente in gioco degli schemi di pensiero, di giudizio di cui non abbiamo coscienza netta.
L’habitus non si oppone ai saperi con l’istinto si opporrebbe alla ragione. Esso traduce la nostra
capacità di funzionare senza sapere, in un automatismo economico o per far fronte alle urgenze del
quotidiano. Ciò non significa che non funzioniamo senza sapere, senza rappresentazioni della realtà
passata, attuale, desiderabile. In ogni azione complessa, anche in una situazione d’urgenza o nel quadro
di una routine, manipoliamo delle informazioni, delle conoscenze personali. L’insegnante non si stanca
di trattare, creare, registrare informazioni e saperi. Ma è l’habitus che governa queste elaborazioni.
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limitata, non chiedendo al tirocinante di risolvere, in un colpo e nello stesso tempo, i problemi di un
lungo periodo. In questo modo, si forma l’habitus, ma in maniera tradizionale.
3. Dispositivi di formazione
Quali sono i dispositivi suscettibili a favorire la presa di coscienza e le trasformazioni dell’habitus? Se
ne distinguono 10:
1. La pratica riflessiva
2. Lo scambio sulle rappresentazioni e le pratiche
3. L’osservazione reciproca
4. La metacomunicazione con gli allievi
5. La scrittura clinica
6. La videoformazione
7. Il colloqui esplicativo
8. La storia di vita
9. La simulazione e i giochi di ruolo
10. La sperimentazione e l’esperienza
Che cosa bisogna intendere per “sapere” quando questa espressione è utilizzata in espressioni come: “il
sapere degli insegnanti”, “il saper insegnare”? In effetti, che cos’è il “sapere”? Che cos’è un “sapere”?
Si tenta di analizzare il “sapere degli insegnanti” secondo una prospettiva socio-storica centrata, da un
lato, sullo studio dell’evoluzione dei contenuti e delle forme di questi saperi all’interno della scuola e
delle istituzioni scolastiche; dall’altro, sull’analisi del lavoro dell’insegnante come quadro socio-
professionale a partire dal quale questi stessi saperi sono sottoposti a vincoli diversi che ne determinano
la natura e l’uso.
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1.2. Due eccessi della ricerca
Ci sembra che le ricerche sul sapere dell’insegnante, la professione e la formazione degli insegnanti
siano caratterizzati da due eccessi: (a) “l’insegnante è uno scienziato” e (b) “tutto è sapere”.
b) Tutto è sapere
Il secondo aspetto è quello che si può definire approccio etnografico. L’eccesso etnografico consiste
nel tasformare tutto in sapere, cioè nel trattare ogni produzione simbolica, ogni pratica orientata ecc…
come se procedessero dal sapere. In questo spirito, tutto diventa sapere: le abitudini, le emozioni,
l’intuito, i modo di fare… ma allora a che scopo parlare di sapere se tutto è sapere? Questa nozione
perde così ogni significato. Il problema non consiste nel sostenere l’esistenza di saperi informali,
quotidiani, esperienziali…, consiste nel disegnare questi diversi saperi con l’aiuto di una nozione vaga,
indefinita. Di fatto, nessuno è capace di produrre una definizione di sapere che soddisfi tutto, perché
nessuno sa in modo certo cos’è un sapere.
2. Le concezioni del sapere: le idee di esigenza di razionalità e il suo interesse per la ricerca
È tuttavia possibile proporre una definizione del sapere che, senza essere accettata da tutti, possieda
una forte validità, almeno nella tradizione intellettuale occidentale. Nel quadro della cultura della
modernità, il sapere è definito in tre modi, in funzione di tre “luoghi”: la soggettività, il giudizio,
l’argomentazione.
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In effetti, noi chiamiamo saperi i discorsi che affermano qualcosa di bero sulla natura della realtà o di
tale fenomeno particolare.
A differenza della prima concezione, il sapere risiede dunque nel discorso, un certo tipo di discorso,
piuttosto che nello spirito soggettivo. Notiamo che in questa concezione, solo i discorsi che vertono sui
fatti possono essere definiti come saperi in senso stresso: il sapere si limita la giudizio di fatto ed
esclude i giudizi di valore, il vissuto, l’impegno politico: questi sono esclusi dall’ordine positivista del
sapere.
c) L’argomento, la discussione
Secondo questa concezione, sipuò chiamare sapere l’attività discorsiva che consiste nel tentare di
confermare con l’aiuto di argomenti e di operazioni linguistiche, una proposizione o un’azione.
L’argomentazione è dunque il “luogo” del sapere. Sapere qualcosa è non solo assumere un giudizio
vero su qualche cosa, è anche essere capaci di stabilire per quali ragioni questo giudizio è vero. Il
sapere implica sempre l’altro, cioè una dimensione sociale fondamentale, nella misura in cui il sapere è
appunto una costruzione collettiva di natura linguistica generata da discussioni, scambi discorsi tra
esseri sociali.
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Inoltre, in campo scientifico o altrove, è impossibile dubitare di tutto (come Cartesio), o non sapere
nulla (Socrate). Un sapere è contestato e contestabile a partire da un altro sapere. Se si contesta la
razionalità di un discorso o di un’attività, è perché ci si riferisce a una certa idea di ciò che è razionale.
2.4. L’interesse di questo approccio per lo studio del sapere degli insegnanti
Ma a che cosa è pertinente introdurre questa idea di esigenza di razionalità per definire la nazione di
“sapere degli insegnanti”?
Pensiamo che gli attori sociali sono essi stessi dotati di razionalità, cioè della capacità di agire,di
parlare e di pensare, ordinando un ordine di ragioni per orientare la loro pratica. Gli attori sociali sono
dotati, per la loro appartenenza ad un contesto di vita sociale, di competenze estremamente
diversificate, che si traducono concretamente in procedure e in regole d’azione che essi usano per
orientarsi nelle diverse situazioni sociali. Inoltre, l’uso di queste procedure non si fa meccanicamente,
ma esige dagli attori sociali una “riflessività”, cioè la capacità linguistica di “dimostrare” e di
“ritornare” sulle procedure e sulle regole dell’azione, di modificarle e di adattarle alle numerose
circostanze concrete delle situazioni sociali. Si può dunque affermare, senza dubbio, che l’educazione
attuale presenta un contenuto razionale molto forte.
I saperi dei docenti esperti sono dei sapere a fondamento razionale e non dei saperi consacrati: essi
traggono il loro valore dal poter essere criticati, migliorati, resi più esatti.
3. Il sapere insegnante: una ragione pratica, sociale e rivolta verso gli altri
Come vediamo l’insegnante?
3.1. Un professionista dotato di ragione e messo a confronto con dei vincoli contingenti
Gli insegnanti vengono qui considerati come dei professionisti dotati di ragione; inoltre si pensa che
siano portatori di giudizi, prendano decisioni in quei sistemi di azione complessi che sono le classe.
Come la gran parte dei lavoratori e dei professionisti, l’insegnante sa nella maggior parte dei casi
perché egli dice o fa qualcosa, nel senso in cui egli parla e agisce in funzione di ragioni, di motivi che
gli servono a determinare i suoi giudizi professionali nel suo contesto di lavoro.
Per raggiungere le finalità pedagogiche inerenti al suo lavoro, l’insegnante deve prendere decisioni in
funzione del contesto che è il suo. Ora, prendere delle decisioni è giudicare. Questo giudizio si basa sui
saperi dell’insegnante, cioè su delle ragioni che lo inducono ad esprimere tale giudizio e ad agire di
conseguenza.
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3.2. L’idea di giurisprudenza: una pista promettente per la pedagogia
I ricercatori in educazione che si interessano alla formazione degli insegnanti dovrebbero osservare lo
stabilirsi di una giurisprudenza della pedagogia. Questa espressione significa che l’attività
dell’insegnante non deriva da giudizi scientifici, ma si avvicina per molti aspetti alle modalità del
giudizio giuridico; quindi, i saperi pedagogici hanno qualcosa a che vedere con i saperi giuridici.
Mentre il giudizio scientifico si concentra sullo stato della realtà, il giudizio giuridico è sempre un
giudizio sociale. Il giudizio dell’insegnante è anch’esso un giudizio sociale, nella misura in cui il suo
dominio di giurisdizione è costituito dalla sfera delle interazioni tra l’insegnante e gli allievi.
Il giudizio giuridico non pretende il rigore scientifico né una sua universalità. I giudizi dell’insegnante
non hanno la durata e la stabilità dei giudizi scientifici poiché i loro campi di applicazione cambiano, i
gruppi e gli allievi variano ecc…; essi devono di conseguenza adattarsi a delle situazioni nuove,
chiarire delle circostante nuove che si presentano alla pratica pedagogica.
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