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FORMARE INSEGNANTI PROFESSIONISTI

QUALI STRATEGIE? QUALI COMPETENZE?

Capitolo 1. Le competenze dell’insegnante professionista: saperi, schemi


d’azione, adattamenti ed analisi

1. Il modello attuale dell’insegnante professionista

I mestieri dell’insegnamento esistono da molto tempo e si possono reperire antiche concezioni sulla
professionalità dell’insegnante. Perrenoud ricorda a giusto titolo che gli insegnanti sono e sono sempre
stati persone di mestiere, dei “professionisti”; che vi sono diversi modelli di professionalità insegnante
e che la corrente della professionalizzazione descruve semplicemente un processo che si alimenta
“quando, nel mestiere, l’attivazione di regole prestabilite cede il posto a delle stretegie orientate da
obiettivi e da un’etica” . Si tratta del passaggio dal mestiere artigianale, alla professione in cui si
costruiscono delle strategie, appoggiandosi su dei saperi razionali.
La professionalizzazione si crea a partire da un processo di razionalizzazione dei saperi messi in atto,
ma egualmente a partire da pratiche efficaci in situazione. Il professionista sa mettere in atto le proprie
competenze in qualsiasi situazione; egli è “l’uomo della situazione”, capace di riflettere durante
l’azione e di adattarsi. Il professionista viene ammirato per la sua capacità di adattamento, la sua
expertise e la sua capacità di risposta e di adeguamento alla domanda.
Gli si chiede, inoltre, di essere autonomo e responsabile.
È questo il modello di professionalità che sembra sotteso attualmente al processo di
professionalizzazione degli insegnanti ed essere predominante. Che cose implica come competenze a
livello di insegnamento e del modello di formazione? Ci sono quattro modelli diversi di professionalità
insegnante:
- L’insegnante MAGISTER O MAGO: questo modello intellettualista dell’antichità considerava
l’insegnante come Maestro, un Mago che sa e che non necessita di formazione specifica o di
ricerca poiché il suo carisma e le sue competenze retoriche sono sufficienti
- L’insegnante TECNICO: questo modello fa la sua apparizione con le écoles normales (scuole
per la preparazione all’insegnamento); ci si forma al mestiere attraverso un apprendimento
imitativo, basandosi sulla pratica di un insegnante esperto che trasmette il suo saper fare, i suoi
“trucchi”
- L’insegnante INGEGNERE, TECNOLOGICO: l’insegnante si basa sui contributi scientifici
delle sciente umate. Razionalizza la propria pratica tentando di applicare la teoria. La
formazione è gestita da teorici, specialisti pedagogisti
- L’insegnante PROFESSIONISTA, ESPRERTO-RIFLESSIVO: alla dialettica teoria-pratica si
sostituisce un va e vieni tra PRATICA-TEORIA-PRATICA; l’insegnante diventa un
professionista riflessivo capace di analizzare le proprie pratiche, di risolvere dei problemi, di
inventare delle strategie.

2. La specificità dell’insegnante

Insegnare significa far apprendere. Senza la finalità dell’apprendimento, l’insegnamento non esiste; ma
si tratta di far apprendere attraverso la comunicazione e la messa in situazione.
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La difficoltà dell’atto di insegnare è che non può essere analizzato unicamente in termini di obblighi e
trasmissione di contenuti e di metodi definiti a priori, perché saranno le interazioni vissute, la
comunicazione verbale in classe che permetteranno o meno ad allievi diversi di apprendere ad ogni
intervento. Le informazioni da tramettere sono infatti modificate in funzione delle reazioni degli alunni.
Ciò che costituisce la specificità dell’insegnamento, è che si tratta di un “lavoro interattivo”. Per questo
motivo, l’insegnamento può anche essere concepito come un processo di presa di decisioni in classe. Al
modello del triangolo pedagogico insegnanti-alunni-sapere, si preferisce un modello dinamico di
situazioni che comporta quattro dimensioni in interazione reciproca: alunni-insegnanti-sapere-
comunicazione.
L’insegnante può pianificare il proprio intervento, ma rimane sempre la parte “avventura” legata agli
imprevisti provenienti dalle azioni sul campo e dalle razioni degli alunni.
Ciò che costituisce la specificità dei compiti di insegnamento è il fatto che essi coprono due campi di
pratiche diverse ma interdipendenti:
- La didattica: cioè gestione delle informazioni, da parte dell’insegnante e della appropriazione
da parte dell’alunno;
- La pedagogia: cioè il campo del trattamento e della trasformazione dell’informazione trasmessa
in Sapere dell’alunno attraverso la pratica relazionale e le azioni che l’insegnante realizza per
creare condizioni di apprendimento adeguate

3. Le competenze ed i saperi dell’insegnante-professionista

Con “competenze professionali” si intende l’insieme di saperi, l’insieme di “conoscenze, abilità ed


attitudini necessarie per assicurare i compiti ed i ruoli dell’insegnamento”. Queste competenze sono di
ordine cognitivo, affettivo ma anche pratico. Sono di due tipi: di ordine tecnico e didattico nella
preparazione dei contenuti, di ordine relazionale, pedagogico e sociale nella gestione delle interazioni
in classe.
Per differenziare sapere e conoscenza, si adotta la distinzione tra informazione, sapere e conoscenza:
- L’informazione è esterna al soggetto e di ordine sociale
- La conoscenza è integrata al soggetto e di ordine personale
Il sapere si situa tra i due poli e si costruisce nell’interazione tra conoscenza ed informazione, nella
mediazione tra soggetto e ambiente ed attraverso la mediazione stessa.
Si sono individuati tre tipi di saperi (Anderson, cognitivista): il sapere dichiarativo (“sapere che”), il
sapere procedurale (“sapere come”) ed il sapere contestuale o condizionale (“sapere quando e dove”).
Come si costruiscono questi saperi attraverso l’esperienza pratica? Le verbalizzazioni degli insegnanti
sulle loro azioni e le loro azioni ci informano sulla natura di questo tipo di saperi, che sono:
1) I SAPERI TEORICI, nell’ordine del dichiarativo, tra i quali si possono distinguere:
- I saperi da insegnare, saperi disciplinari
- I saperi per insegnare, saperi pedagogici sulla gestione interattiva della classe
Questi saperi teorici sono indissociabili.
2) I SAPERI PRATICI nati dalle esperienze quotidiane della professione, contestuali, acquisti sul
campo, chiamati anche saperi empirici o saperi d’esperienza.
- I saperi sulla pratica, saperi prosedurali sul come fare
- I saperi della pratica che corrispondono ai saperi d’esperienza, ai saperi nati dall’azione
riuscita: il saperci fare.
Nei saperi legati all’azione, un’altra dimensione interviene, è la dimensione Adattamento alla
situazione: il sapere della pratica è costruito nell’azione per essere efficace; è un sapere adattato alla

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situazione. Questa capacità di adattamento del sapere si costruisce a partire dall’esperienza vissuta, con
l’ausilio di percezioni ed interpretazioni fatte in situazioni vissute precedentemente.
Il ruolo dell’insegnante “esperto-decisore” non si adatta alla descrizione di una professione che è
innanzitutto una pratica relazionale che necessita di interazioni multiple e che subisce costrizioni
provenienti dalla situazione e incertezze provenienti dalle reazioni degli altri attori. L’esperienza di
queste situazioni è formatrice: solo lei permette all’insegnante di sviluppare l’habitus (cioè delle
disposizioni acquisite nella pratica effettiva ed attraverso di essa). Un lavoro sull’habitus, attraverso il
saper analizzare, formerà l’insegnante a prendere coscienza di ciò che fa.

4. Una formazione all’analisi delle pratiche e alla riflessione

a) La formazione deve partire dalla pratica; si propone di chiarire le pratiche attraverso la


meditazione di una esplicitazione
b) Gli insegnanti ed i formatori hanno acquisto i loro saperi professionali sul campo, nell’azione.
Qualunque sia la formazione iniziale ricevuta, gli insegnanti mettono in primo piano l’influenza
prioritaria della loro formazione pratica, che ha fatto loro acquisire una conoscenza di ciò che
bisogna fare e far fare. La professionalità si costruisce nell’esperienza e nella pratica sul campo,
ma con l’aiuto di un mediatore che facilita la presa di coscienza e di conoscenza
c) I formatori dicono che mancano loro i mezzi per analizzare le pratiche e le situazione e che i
concetti prodotti dalla ricerca didattica e pedagogica sembrano poterli aiutare ad esplicitare le
loro azioni
I saperi pedagogici inoltre ricoprono più dimensioni:
 Una dimensione di problematizzazione, perché permettono di estendere la problematica, di
porre problemi
 Una dimensione strumentale, ex griglie di lettura sono dei saperi strumentali, dei descrittori di
pratiche che aiutano a razionalizzare l’esperienza pratica
 Una dimensione di cambiamento, perché questi saperi creano nuove rappresentazioni e,
attraverso di essere, preparano il cambiamento.
Per il quanto riguarda il loro valore epistemologico, si possono distinguere due fonti di validità per
questi saperi:
 Una validità a priori nel modo rigoroso di procedere nell’investigazione;
 Una validità a posteriori attraverso il transfer, quando questi saperi contestualizzati sono
trasferiti da altri praticanti a nuove situazioni.

Capitolo 2. L’elaborazione delle rappresentazioni nella formazione degli


insegnanti

Interrogarsi sulle rappresentazioni è diventata materia corrente in ambito educativo. Le


rappresentazioni sono degli strumenti cognitivi d’apprendimento della realtà e di orientamento dei
componenti; le rappresentazioni degli insegnanti possono essere considerate come uno dei mezzi a
partire dei quali essi strutturano il loro stile di insegnamento e di pratica. Si può aggiungere alla
definizione di rappresentazioni, l’insieme di concezioni e conoscenze che gli insegnanti hanno
maturato sui saperi che vengono trasmesse ai loro allievi. Tramite queste rappresentazioni gli
insegnanti apprendono come insegnare.
L’espressione l’elaborazione delle rappresentazioni ha tre accezioni:
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- Gli effetti elle rappresentazioni del mestiere e della formazione sia sull’esercizio professionale
che sulla dinamica della formazione
- La messa in atto di una formazione e l’esercizio professionale che fanno lavorare le suddette
rappresentazioni
- Il lavoro di ricerca su quelle rappresentazioni, in particolare il loro emergere
Si formulano tre ipotesi riguardo alle tre domande focali di quest’opera:
1. La natura delle competenze professionali di un insegnante- esperto sarebbe relativa ai punti di
vista degli attori, ciascuno dei quali ha sulle sue competenze il proprio punto di vista
2. Il processo centrale di costruzione di queste competenze consisterebbe forse in un’evoluzione
delle rappresentazioni del mestiere e delle rappresentazioni del sé professionale (e viceversa)
3. Una priorità della formazione consisterebbe a far lavorare il tirocinante e gli insegnanti alle loro
rappresentazioni del mestiere e alle loro rappresentazioni di se stessi nell’esercizio di quel
mestiere.

1. Competenze professionali e rappresentazioni del mestiere della formazione

1.1 Il “modello” dell’insegnante e delle competenze


Si può generalmente pensare che la definizione delle competenze dell’insegnante, detto o no
professionista, passa attraverso un modello di professore atteso, auspicato.
Le competenze professionali riconosciute e da instaurare corrispondono esse stesse a delle
rappresentazioni. E come tali, esse beneficiano e nello stesso modo risentono sia del carattere astratto e
razionalizzato delle dimensioni che le compongono, sia della loro base sul concreto, del loro passaggio
attraverso livello meno coscienti.
Inoltre, secondo indagini recenti, per i professori della secondaria di I grado, l’amore per la disciplina è
generalmente la prima motivazione che ha portato alla scelta della professione.

1.2. Il maestro (ri)conosciuto

La concezione di insegnante si elabora a partire da discorsi sociali, da prese di posizione culturali, da


abiti mentali. Comprende allo stesso modo le proiezioni della propria esperienza e del proprio vissuto
“del” professore o dei professori conosciuti come allievo. Essa comporta e mantiene i suoi fantasmi e le
sue costruzioni di ideali, e le sue idealizzazioni.
Sul versante delle secondarie, i professori sono in generale più propensi a riconoscere il loro
attaccamento al contenuto disciplinare. In seconda istanza accennano alla questione della padronanza
tecnica e alle caratteristiche relazionali dell’atto di insegnare a partire dalla loro propria passione per il
sapere e dalla loro capacità da testimoniare davanti ai loro alunni. Questa asserzione relativa all’arte di
“passare la propria passione” è un’illustrazione frequentemente ricorrente delle difficoltà che può
esistere prima della formazione, prima di affacciarsi al mestiere.
Si può avanzare la seguente ipotesi: l’insegnante, prima di essere razionalmente identificato per i suoi
sforzi, è un personaggio ri-conosciuto: ricercato-ritrovato nell’esperienza individuale e collettiva del
passato scolastico. L’immagine del professore che il bambino ha introiettato quando era tenuto ad
imparare si ri-presenta sulla soglia del divenire insegnante soprattutto nei suoi aspetti concreti.

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1.3. L’impatto delle rappresentazioni sulle pratiche

Alcuni lavori hanno studiato l’impatto delle rappresentazioni del maestro sulla sua attività pedagogica.
Le relazioni di ruoli e di rappresentazioni di ruoli tra i maestri e gli alunni sono oggetto anche di analisi
e apprendimenti intrapresi in una procedura clinica. [continua ma non si capisce!!!]

1.4. Rappresentazioni in rottura

Al momento dell’assunzione della funzione, “lo scontro con la realtà” riconosciuto dagli psicologi è
riferito ad un divario cruciale tra le rappresentazioni di ingresso e l’esperienza originaria. Tutto si volge
come se, anche in uscita dalla formazione, i saperi e le immagini che stavano alla base delle aspettative
verso il mestiere non fossero adeguate alla realtà quotidiana delle situazioni scoperte come una sorpresa
sul campo d’azione. L’ascolto degli insegnanti principianti mette bene in vista le angosce provocate
dalla consapevolezza della responsabilità del cammino verso l’autonomia. Questa, condizionata dal
sentimento di solitudine, è percepita allora nei suoi rischi e nei suoi vincoli come nelle sue
gratificazioni. Si rilevano anche delle delusioni di fronte ai comportamenti imprevisti degli alunni.
L’insegnante percepisce per un certo tempo il rischio di disgregarsi nel suo fronteggiare la complessità
del mestiere che si credeva facile. È disorientato al pensiero delle conoscenze e competenze che non ha,
che credeva di possedere. I comportamenti allora, pedagogici e relazionali, ne risentono e possono
sottomettersi a dei modelli di insegnamento detti “tradizionali”: collettivi, verbali, rigidi enunciati,
ritrovati nei ricordi infantili.
È stata formulata l’ipotesi, quello del maestro di potere, che incide sullo schema figurativo delle
rappresentazioni del mestiere e del suo “passaggio all’azione”.
Da una parte è certo che le rappresentazioni vadano ad influenzare i comportamenti e il livello di
competenze professionali; dall’altra si sa meno su in quale misura l’attività professionale nel suo
evolvere interverrà sui significati, le opinioni ed i valori attribuiti alla professione.

2. La formazione, luogo di elaborazione di rappresentazioni

2.1. Un divario mobilitante?

Dalla prospettiva offerta dai suoi racconti con altri colleghi, formatori, ma innanzi tutti sulla base
dell’esperienza nella classe, il praticante evolve, si forma. Non solo apprende i contenuti, ma impara lui
steso, in qualche modo, nel suo lavoro e in quanto al suo lavoro. Egli entra in questa dinamica che lo
identifica e grazie alla quale egli si identifica non come un insieme di competenze, ma come una
persona in relazione e in divenire.
L’insegnante autonomo, responsabile, capace di valutazione e di iniziativa, nell’adattamento creativo
delle sue azioni e posture alle realtà del mestiere, è un praticante che supera l’immediatezza
dell’esecuzione quotidiana delle sue incombenze perché sa collocare la relazione insegnare-imparare
nella dinamica di un progetto per gli alunni e per se stesso nella società.
Il professionista dell’insegnamento è un esperto riflessivo. Ritorna col pensiero sul suo lavoro, sulla
situazione che egli ha organizzato e vissuto o che si prepara per ottimizzare l’insieme dei suoi atti. È
allora, contemporaneamente, esperto auto-riflessivo; ritorna sempre col pensiero su se stesso e sulla
situazione creata.
Ma la questione non è facile. Ci sono delle difficoltà più o meno pesanti degli insegnanti, che sono
mantenute se non alimentate dalla situazione pedagogica nella quale intervengono, in interazione,
motivazioni incomparabili, fenomeni inattesi legati al transfer, tra il “maestro” ed il suo/suoi alunno/i.
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Come per ognuno, ma ancora di più per l’insegnante, la distanza con l’attività professionale esercitata è
difficile. A tal proposito, è importante sottolineare le attività di tirocinio, che saranno tanto più accette,
volute, riuscite quanto più percepite come suscettibili di colmare gli scarti tra la stima fatta dallo
studente o tirocinante dei suoi saperi e di quelle riconosciuti come necessari al protagonista.

2.2. Alcune priorità della formazione

Le ricerche i cui esiti sono conosciuti fino ad oggi sollevano problematiche cruciali su tre punti.

 Il primo ha origine sul fatto che le domande di formazione vertono in ugual misura su dei
rinforzi di conoscenze e di competenze possedute che su lacune da colmare
 Il secondo riguarda il senso stesso e lo scopo della domanda, e come questa può concepirsi nelle
sue opacità e deviazioni: quale attesa, che desideri profondi si nascondono sotto una
“formazione formale”?
 Per ritornare, se fosse necessario, sulla questione delle competenze professionali, la prassi
stessa di formazione è inscritta nelle rappresentazioni del mestiere insegnante?
La conoscenza dell’ambiente dei professori mette in evidenza che esiste un problema, per gli
insegnanti, sul versante formazione.
La formazione iniziale è detta troppo tecnica, troppo distante dalla realtà. Gli insegnanti rimproverano
ai formatori di non aver detto abbastanza, fino a domandarsi se la formazione si utile.
Oggi è consuetudine affermare che una buona formazione è quella che conduce i professionisti al
desiderio di formarsi ancora in pratiche concrete della formazione.
Voci colte qu e là negli incontri con gli insegnanti affermano che “non si sa mai abbastanza per
insegnare”, o suggeriscono che forse, certi colleghi sono piuttosto stanchi se non delusi dal lavoro
svolto e che essi non contano più di “sottoporsi a formazione”.
Da simili concezioni di formazione, ottenute nel corso di vari incontri e questionari, emergono certe
domande di fondo:
- Quali sono le rappresentazioni della forma del mestiere presso i richiedenti?
- Sono convinti in primo luogo dell’interesse e della necessità di formarsi?
- In che cosa, in che modo, queste rappresentazioni possono intervenire nel loro addestramento e
su ciò che essi percepiscono e possono dunque influenzare la loro professionalità?

3. Pratiche e problemi di ricerca a partire dalle rappresentazioni e sulle rappresentazioni

3.1. Messa in opera di una ricerca

Nella ricerca sulla “modulazione della formazione degli insegnanti”, si lavora su entrambi i fronti delle
rappresentazioni: del mestiere della formazione, interrogandoci continuamente sui loro rapporti, su cui
si sono sviluppati strumenti diversi.
1) Un questionario sulle rappresentazioni del mestiere è stato somministrato a 360 studenti in fase
di professionalizzazione
2) Un Q-sort. In genere un questionario è distribuito anonimamente e compilato individualmente,
mentre il Q-sort si pratica in gruppo in seno al quale possono svilupparsi in seguito discussioni
e si pone allora come strumento di “formazione-riflessione”

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3) Interviste riguardo a insegnanti importanti. È stato richiesto ad alcuni studenti in formazione
non di dire le loro rappresentazioni del mestiere e della formazione ma di tracciare il profilo di
insegnanti che li avevano segnato quando erano adulti
4) Diverse ricerche-formazioni imperniate sulla personalizzazione della formazione hanno fornito
l’occasione per analizzare certe rappresentazioni del mestiere e della formazione e studiare dei
determinanti di queste.

È importante sottolineare che l’elaborazione delle rappresentazioni non avviene nel vuoto, ma è
influenzata dal contesto, da vincoli e sistemazioni, da aggiustamenti tangibili o simbolici nei quali si
inscrive.

3.2. Verso una “pedagogia delle rappresentazioni?”

L’altra finalità dei nostri lavori relativi alle rappresentazione degli insegnanti, è di ordine pedagogico,
perfino didattico. I primi risultati tendono a mostrare che la presa in considerazione delle
rappresentazioni contribuisce alla formazione di insegnanti-professionisti lungo tutta la loro
evoluzione.
a) Il lavoro sulle rappresentazioni serve in primo luogo a sensibilizzare il mestiere. È un lavoro di
riconoscimento delle motivazioni e di riflessioni su di esse partendo dalle prime immagini
espresse per un primo inizio si adeguamento con le realtà professionali.
b) In professionalizzazione iniziale in cui l’attività può continuare, il restringimento tra le
immagini e le attese del mestiere e le realtà di questo va rinforzandosi e dà luogo a movimenti
psichici individuali e di gruppo importanti. Il più importante consiste nella stima di sé dello
studente e poi del tirocinante in rapporto ai saperi.
c) In termini di pre-professionalizzazione da un lato, di formazione iniziale successiva, le
rappresentazioni del mestiere sono cambiate? Viene mostrato poche evoluzioni nelle risposte al
questionario predisposto

Capitolo 3. La formazione alla complessità del mestiere insegnante


Da sei anni a questa parte, l’amministrazione della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università
di Ottawa ha optato per la messa in atto di offerte diverse per la formazione iniziale degli insegnanti
primari.
Diversi dispositivi sono stati sperimentati ed hanno permesso percorsi originali di varie dozzine di
futuri insegnanti. Collochiamo prima queste esperienze nel loro contesto.

1. Contesto sociopolitico dei dispositivi sperimentali

I bisogni attuali della popolazione francofona dell’Ontario raggiungono quelli che si attribuiscono a
qualsiasi minoranza che debba difendere la propria lingua, cultura ed il suo posto in un mondo
maggioritario, in questo caso il mondo anglofono. La lingua di comunicazione privilegiata è soprattutto
l’inglese, anche nelle famiglie francofone, ed il francese, per una forte maggioranza, è parlato solo in
classe. La richiesta attuale è quindi far imparare i fondamenti didattici ai bambini, di spingerli a vivere,
parlare ed esprimersi il più spesso possibile in francese.
I diversi interlocutori dell’educazione hanno dibattuto per due anni sulle prospettive della formazione
di insegnanti professionisti/e pronti ad accogliere tali sfide. Sono state raggruppate quattro categorie:
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- Gli insegnanti che si sentono esperti nel loro ambito di lavoro come dei professionisti che
possiedono il linguaggio della pratica
- Il sindacato insegnanti che mira alla protezione degli interessi degli insegnanti non solo in
termini di condizioni sociali ma anche in termini di rapporto alle innovazioni imposte dalle
istanze ministeriali
- Il Ministero dell’Istruzione che tenta da parte sua di rispondere alla società di oggi, si fa
portavoce delle istanze dei genitori e del mondo del lavoro
- L’università, nel quadro della formazione iniziale e continua in seguito a varie ricerche, vuole
interrogare la pratica, comprenderla e domandarla e, utilizza un linguaggio piuttosto erudito.

Per quanto questi interlocutori professino il desiderio di stabilire dei punti di incontro, il problema
attuale sta nel fatto che ognuno ha il suo stile di linguaggio e che c’è poca comunicazione tra di loro.
Per esempio, il Ministero produce programmi per la maggioranza anglofona, dà direttive di
applicazione in questo senso e traduce il tutto per la minoranza francofona.

2. I principi sottesi al dispositivo di formazione

I risultati qui presentati vengono dall’ultima sperimentazione condotta fuori campo con 29 studenti/esse
e sette formatori/trici (Toronto), dove è stato elaborato un programma di insegnamento integrato alla
pratica e centrato sulla riflessione nell’azione.
Gli insegnamenti sono stati quindi integrati in modo tale che le osservazioni e le pratiche in classe
potessero essere considerate nei corsi ed analizzate nel quadro di riflessioni collettive ed individuali.
Gli insegnamenti sono stati effettuati a partire dai bisogni e dalle attese dei tirocinanti.
1) Un primo principio di organizzazione era di favorire presso i tirocinanti lo sviluppo delloro stile
di insegnamento attraverso l’appropriazione di vari stili esistenti
2) Un secondo principio mirava all’articolazione tra la pratica in classe e la teoria, tenendo in
conto del contesto. Le ricerche effettuate permettevano la messa in atto di una rete sistematica
di riflessioni dove l’azione stava al centro delle loro preoccupazioni.
3) L’ultimo principio di elaborazione di questo percorso era di sviluppare gli atteggiamenti
necessari alla professione insegnante. Sulla base di ricerche condotte a partire da percorsi
anteriori di formazione, gli atteggiamenti cui mirare secondo gli insegnanti interpellati erano:
autonomia, responsabilità, prontezza d’azione, comunicazione.

3. I concetti articolati nella formazione

3.1. Imparare
La concezione del tirocinio richiesta dal Ministero dell’Istruzione nei programmi di studio rimanda alle
teorie costruttivistiche. Questa concezione di apprendimento si allaccia a quella concezione di
apprendimento secondo cui nessuno può sostituirsi all’allievo nel suo apprendimento e che
quest’ultimo deve costruirsi delle reti di concetti e collegare i saperi veicolati in classe e attorno a lui. È
quindi in quest’ottica che il programma è stato elaborato, allo scopo che il tirocinante possa confrontare
i propri saperi già in atto con diversi saperi sia teorici che sperimentali.

3.2. Insegnare
In conformità a questa concezione costruttivistica dell’apprendistato, l’insegnamento è da pensarsi più
come animazione che trasmissione autoritaria di sapere. Artaud colloca bene la relazione educativa che,
agli inizi degli anni Cinquanta era autoritaria per tendere nel Settanta ad una non-direttività, e che
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diviene una specie di comunicazione dove il maestro guida a riflettere per ridare vita a questo sapere
nel suo intimo per essere in grado di condurre l’alunno a ricostruirla con le sue forze.

3.3. Essere pedagogo


Il fatto di rispettare la relazione tra più persone che hanno la funzione di imparare e far imparare, porta
ad una riflessione sul senso da attribuire alla pedagogia.
Gauthier parla di stratagemma del pedagogo di fronte ad una avversario per il quale egli deve scoprire
tutti i segreti per vincere la grata dell’apprendimento. Altri studiosi parlando di differenziazione in
funzione degli alunni e delle situazioni, per arricchire il modo in cui gli alunni concepiscono i loro
apprendimenti.
È in quest’ultima prospettiva che il percorso stabilito finora trova la sua collocazione. L’insegnante
può essere l’insegnante-ricercatore, vale a dire colui colei che analizza la sua pratica, pone domande,
riflette ed agiste nell’azione; ma è anche un esperto riflessivo e tende a ritornare costantemente sulle
sue azioni e a comprenderne il senso. Da cui la necessità di sviluppare la capacità di autoanalisi,-
autovalutazione e autoregolazione.

4. Le competenze da ridefinire e strutturare

Come definire allora le competenze di un insegnante riflessivo, rivolto ai bisogno ed istanze dei suoi
alunni, che collabora e discute con loro?
Alla luce dei diversi percorsi sperimentati, una struttura pare emergere, che permette l’individuazione
di ambiti di competenze da acquisire per il nuovo insegnante. Questi cinque ambiti individuati dagli
insegnanti, formatori e sviluppatori dei tirocinanti hanno permesso di elaborare il percorso di
formazione allo scopo di rispondere ai bisogno fino ad allora inespressi. Si determinano nel modo
seguente:
- Le competenze collegate alla vita di classe. Comprendono le incombenze relative alla loro
gestione, all’oganizzazione del tempo, all’adeguamento all’atmosfera della classe.
- Le competenze individuate in rapporto agli alunni e alle loro peculiarità. Includono compiti
che comportano la comunicazione, la conoscenza e l’osservazione dei tipi di difficoltà
d’apprendimento e i possibili rimedi, l’incoraggiamento costante ad un coinvolgimento reale
degli alunni
- Le competenze legate alle materie insegnate. Esse richiedono un’acquisizione dei saperi,
concernenti ogni disciplina, una capacità di integrare questi saperi a saperi insegnabili partendo
dai vissuti e dai saperi già in possesso degli alunni
- Le competenze richieste rispetto alla società. Esse sono di diversoordine, secondo le interazioni
dell’insegnante con l’ambiente circostante. Così, bisognerà stabilire comunicazioni informative
con i genitori mediante incontri
- Le competenze inerenti alla propria persona. Sono le più importanti di tutto il processo. Di
fatto è il sapere dell’insegnante riflessivo sulla sua azione e pratica

Questi campi di competenza permettono allora di visualizzare il percorso sviluppato e descritto fin qui.
I tirocinanti ed i futuri insegnanti di mestiere devono coprire tutti questi campi di conoscenze, a
seconda dei loro bisogni, forze e debolezze in un contesto piuttosto personalizzato.

5. Effetti di formazione sperimentale

Gli assi portanti del contenuto della formazione sono:


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- L’apprendimento è definito come un processo organizzato dalla persona che apprende
- L’insegnamento è definito come un’azione di comunicazione orientata verso la trasformazione
di colui che apprende nella sua formazione
- La formazione implica che si debba autovalutarsi costantemente sulle proprie azioni per
comprenderne il senso
- Le competenze da acquisire da parte dei tirocinanti riguardano il rapporto con la classe, la
società, le materie, ma anche l’alunno e se stesso.

6. Quali processi attivare nella formazione?

Il mestiere di insegnante acquisisce in un’articolazione tra situazione vissute e le teorie che tentano di
spiegarle, attraverso una generalizzazione dei processi.
L’approccio riflessivo suggerisce una formazione piuttosto personalizzata che possa aiutare ciascuno a
individuare una formazione L’approccio riflessivo suggerisce una formazione piuttosto personalizzata
che possa aiutare ciascuno a individuare le proprie competenze e quelle che invece gli restano da
acquisire. In questa linea di pensiero, numerosi stati americani effettuano una formazione attraverso il
“mentoring”, dove il “mentore” diventa l’amico e l’aiuto nella autoformazione dell’inesperto già
incaricato in una scuola, dopo una formazione iniziale. In una simile situazione, risulta che questi
formatori lavorano in collaborazione e fanno emergere gli aspetti più dibattuti del mestiere di
insegnante, al di là delle didattiche e delle metodologie.

Capitolo 4. Formazione pratica degli insegnanti e nascita di


un’intelligenza professionale

Introduzione
Da ormai tre anni lavoriamo lavoriamo per costruire una banca di situazioni pedagogiche su
videoregistrazioni. In origine, l’obiettivo mirato era essenzialmente di disporre di un materiale che
permettesse di procedere all’analisi dell’atto pedagogico per far emergere il sapere esperienziale
dell’insegnante. Quest’esperienza doveva impegnarci in un processo di riflessione sui saperi pratici e
sulla formazione.

1. Un’esperienza di formazione alla pratica

1.1. Premessa
La ricerca sulla professionalità dell’insegnamento ha dato luogo ad un’esplosione terminologica
concernente competenze e saperi degli insegnanti tali che si potrebbe dubitare del suo contributo reale a
una migliore conoscenza dell’atto pedagogico e dei suoi fondamenti. Facendo la scelta di parlare di
sapere pratico, si fa riferimento ad un insieme di mezzi ai quali ricorrono gli insegnanti nell’esercizio
quotidiano della loro professione. Ciò significa che dopo un certo tempo di pratica, il sapere
accademico diventa secondario, mentre la pratica professionale diventa prioritaria nel percorso
intrapreso dal professionista per continuare a costruire la sua competenza.

1.2 Il materiale video e la pedagogia del corso


Sono stati realizzati dei video in una classe di quarto anno della scuola elementare (bambini di 10-11
anni). la strategia di montaggio consiste nello scegliere le sequenze che presentano una unità e che
costituiscono un tutto coerente. Per esempio, se la registrazione di un’ora comporta più di un’attività
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(ritorno su una lezione precedente, correzione di esercizi ecc..) un montaggio terrà conto solo di uno di
questi elementi. La durata di un montaggio eccede raramente i 25 minuti.
Il corso modello si intitola L’insegnante di fronte ai modelli di intervento e si rivolge agli studenti del
primo o secondo anno di baccalauréat di formazione iniziale degli insegnanti del pre-elementare.
Durante le sedute del corso, sono state utilizzate diverse modalità di visione. Secondo la natura dei
video e i concetti oggetto di studio, le visioni precedevano o seguivano le relazioni teoriche o le
discussioni di gruppo.
La durata dei video utilizzati variava da 7 a 25 minuti. Tutte le relazioni del corso sono state seguite o
precedute da una proiezione.

1.3 Riflessione proveniente dall’esperienza


L’analisi dell’esperienza dell’anno scorso ha permesso di condurre a buon fine l’impresa.
Il sistema di ripresa e videoregistrazioni è stato poi ripreso l’anno successivo. Alcuni esempi di reazioni
ai video sono chiarificanti. Già l’anno precedente eravamo stati colpiti dall’impressione di
superficialità che si coglieva dai commenti degli studenti, essendo affettiva la componente principale.
Così il loro primo riflesso era di identificarsi con gli allievi, il che li conduceva a criticare
l’atteggiamento dell’insegnante giudicato troppo autoritario.
Quest’anno (1994) si sono aggiunte nuove osservazioni che invitano a una rilettura della dinamica in
presenza. Davanti ad una lezione in cui l’insegnante ignora o finge di ignorare gli allievi che non hanno
capito la nozione insegnata, gli studenti hanno reagito in modo critico. Altra reazione tipica degli
studenti: davanti ad un intervento di gestione disciplinari, essi hanno concluso che si trattava di una
pessima qualità della relazione affettiva dell’insegnante con i suoi allievi. L’insegnante ha però
ricordato che non si può fare tutto in una lezione. “Uno non ha capito? Bene, gli presterò attenzione
domani quando penso di ritornare su questa attenzione. Per ora, considero più importante proseguire in
modo da non interrompere il ritmo e permettere un buon concatenamento delle attività. Il tempo di cui
si dispone è limitato e bisogna accettare che i bambini partano con delle comprensioni incomplete o
erronee. L’importante è conservare in memoria, restare vigili”. Questo è il sapere esperienziale. Con
l’esperienza, l’insegnante costituisce la sua riserva di interventi. Ogni situazione comanda un intervento
singolare e l’insegnante può giustificare la scelta di tale intervento.

2. Tentativo di modellizzazione

Habitus o schema di azioni, poco importa l’etichetta, si impone l’idea che, senza un meccanismo di
mobilitazione dei saperi, non ci sarebbe l’espressione di competenza professionale. Quest’idea di
considerare l’insegnante come un operatore di schemi
di azioni esime in parte dall’obbligo di chiarire il problema dei “saperi”, in particolare la sua dicotomia
teoria-pratica, nella misura in cui si trovano confusi in uno schema d’azione perché fusi insieme idee,
valori, conoscenze ed esperienze.
Dallo studio di Piaget sulla nascita dell’intelligenza, si può comprendere dallo schema che è, in qualche
modo, un’azione possibile, cioè un concatenamento tale di elementi che rende possibile un intervento,
una reazione o un passaggio all’atto. La nostra esperienza tenterebbe a dimostrare che, nel tirocinante,
non è tanto l’assenza di schemi d’azione che spiegherebbe la difficoltà, quanto i limiti di quelli
disponibili o la difficoltà nel coordinarne più di uno, oppure per la difficoltà, in una specie di rigidità o
lentezza cognitiva, di passare da uno schema all’altro o di selezionare lo schema appropriato.
D’altra parte, in questa logica piagetiana, gli schemi si costruiscono e si trasformano per assimilazione
e accomodamento, cioè per confronto con la realtà con la realtà che permette di giudicare la loro

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potenza e i loro limiti. Una formazione pratica deve dunque non solo ancorarsi alla pratica e al sapere
pratico di un insegnante esperto, ma anche alla pratica dei tirocinanti.
Sempre in riferimento al modello piagetiano, emergono dei livelli di equilibrio. In una trasposizione
alla realtà pedagogica, l’equilibrio da raggiungere, ma senza dubbio mai totalmente raggiunto, è quello
della padronanza dell’economia pedagogica, intesa nel senso dell’organizzazione delle sue diverse
componenti. A seguire tentiamo di capire come si acquisisce questo sapere pratico.

2.1 Metafore e modello


Tre metafore permettono di illustrare la comprensione che noi abbiamo dei meccanismi in gioco:
1) La prima è tratta dall’esperienza della guida automobilistica notturna. Guidare di giorno e
guidare di notte sono due realtà molto diverse. Nel primo caso, il campo visivo compreso
presenta una grande ampiezza. Nel secondo caso, il campo visivo è limitato all’illuminazione
che si proietta e il più piccolo fascio di luce ricevuto rischia di abbagliare. L’insegnamento
dell’esperto è assimilabile alla guida diurna mentre l’esordiente sarebbe in situazione di guida
notturna. quest'ultimo dispone unicamente, per sola illuminazione, di alcuni proiettori
concettuali e, più raramente, di proiettori dell’esperienza
2) Una seconda metafora è tratta dall’universo dei giochi a regole. I tirocinanti o gli insegnanti “in
prova” si comportano spesso come giocatori sorpresi dal fatto che le regole del gioco non siano
affatto o non più rispettate. Il gioco al quale si è iniziati durante la loro formazione sembra
improvvisamente trasformato: gli allievi non si comportano come previsto. In questa
prospettiva, la sfida della formazione iniziale consisterebbe a familiarizzare il tirocinante con
giochi a regole flessibili e mutevoli, a metterlo in guardia dall’illusione dell’onnipotenza della
spiegazione teorica
3) La terza metafora è tratta dalla fisiologia dell’occhio e al “mandala”. La pista ci sembra più
interessante in quanto, nell’universo concettuale junghiano, il mandala è percepito come una
rappresentazione simbolica dello stato psichico, nello stesso tempo strumento di proiezione e di
interiorizzazione. Secondo le tesi di alcuni studiosi, il mandala verrebbe paragonato alla retina,
superficie di ricezione dell’insieme degli stimoli visivi. Il centro del mandala corrisponderebbe
al punto cieco della retina, luogo di convergenza delle stimolazioni visive provenienti
dall’esterno e via di accesso verso la corteccia, dunque verso l’interiore. Il grande paradosso
risiede nel fatto che questo punto di origine della visione è un punto cieco, come se il luogo in
cui si attualizza un’operazione fosse inaccessibile alla coscienza. Noi vogliamo tenere a mente
l’idea del punto cieco, perché rende bene l’immagine. Nel fuoco dell’azione il vero intervento
del professionista corrisponde più spesso con un momento cieco. Infatti nel momento in cui si
svolge l’attività, colui che interviene prende raramente coscienza dei processi in corso. Le sue
reazioni non sono frutto del caso, ma costituiscono la sintesi agita della sua expertise.
Mentre l’esperto passa istantaneamente dalla percezione all’azione, il principiante deve
prendere il tempo di analizzare per riconoscere una situazione già incontrata, per giudicare
quale possa essere la migliore spiegazione dei meccanismi in gioco, per decidere del principio
didattico più pertinente da applicare. È solo dopo questo “secondo tempo cognitivo” che
l’esordiente è pronto a rischiare un intervento.

2.2 Principi di formazione alla pratica


Impegnati all’inizio in un processo di costruzione di una rappresentazione del sapere dell’insegnante
attraverso il video, ci siamo ritrovati così davanti alla necessità di perseguire congiuntamente la
costruzione di una tale rappresentazione a proposito del sapere proprio ai tirocinanti. Questo sforzo di

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comprensione è parallelo alla costruzione di una nostra pratica di formazione e alla presa di coscienza
di principi informatori della nostra azione di formazione.

1° principio: Accelerare il ritmo dell’alternativa fra la formazione all’analisi concettuale e la


formazione all’intervento
L’esperienza del nostro corso ha permesso di confermare l’idea che la formazione all’intervento può
prendere molteplici forme. La presenza nell’ambiente è senza dubbio una delle più efficaci, sebbene
non sia sempre l’occasione di un distanziamento sufficiente. Importa sviluppare degli strumenti
complementari in modo da accordare un posto più ampio all’intervento e da rendere più significativa e
armoniosa l’alternanza delle formazioni.

2° principio: Moltiplicare le situazioni e i “modelli” pedagogici


Se è vero che certi problemi pedagogici universali conoscono delle soluzioni universalmente note, tutti
i problemi ai quali sono confrontati gli insegnanti non rientrano in questa categoria. Ogni insegnante
dovrà far fronte a delle situazioni inedite per le quali dovrà elaborare la propria risposta.

3° principio: Valorizzare la presa di coscienza del tirocinante dei propri schemi di azione
Principio strettamente associato ai precedenti, è supportato nel nostro corso dalla redazione di un
racconto di vita educativa nel quale si ritrovano la descrizione di situazioni educative significative
sperimentate nel passato e il cui ricordo è ravvivato dal video.

4° principio: Identificare i quadri concettuali flessibili che possano rispettare la diversità degli schemi
d’azione e supportare il loro sviluppo
Se i modelli sono multipli e le pratiche singole, i quadri concettuali devono essere in sintonia. In questa
prospettiva la presentazione di modelli teorici di intervento nel nostro corso ha per scopo di offrire
delle scelte ai tirocinanti. La loro presentazione può essere fatta in occasione dell’analisi di una
situazione pedagogica su video e permettere un dibattito sulle trasformazione possibile dell’intervento
in funzione delle intenzioni che si manifestano negli studenti.

5° principio: Non proporre un modello ma la persona o le persone


Attraverso i video e i documenti di accompagnamento costituiti dalle riflessioni dell’insegnante, si ha
accesso al sapere dell’esperienza di una persona particolare. È un modello? È innegabile che si avvia
un processo di apprendimento per imitazione.ma si può rinviare gli studenti la responsabilità della
costruzione della loro pratica.

6° principio: Fare attenzione alle trappole della pratica riflessiva


Il paradigma della pratica riflessiva ha riconosciuto una tale voga nella ricerca educativa ed è stata
l’occasione di pratiche diverse, che dà luogo a forme edulcorate di riferimenti per giudicare la qualità
di una pratica. È a questo punto che gli studenti che hanno capito l’importanza di mostrarsi riflessivi
aggiungono sistematicamente tale ingrediente ai loro diversi lavori.

Conclusione
I lavori del Laboratorio di ricerca sull’azione pedagogica alla scuola elementare e sulla formazione
professionale degli insegnanti sono realizzati con la collaborazioni di insegnanti esperti/e in servizio e
vertono principalmente sulla formazione dei maestri elementari.
Il fatto di essere osservato scatena o accelera nell’esperto un movimento riflessivo, che suppone uno
stato di disponibilità.
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Oltre alle condizioni che favoriscono la disponibilità di un esperto ad esporsi, ci sono quelle che
permettono di iscrivere la ricerca nel movimento della pratica che gli sfugge. La ricerca in classe
presuppone una grande flessibilità nei ricercatori. Si tratta di seguire il movimento dell’esperto
nell’azione quotidiana. Allora, all’interno di questo movimento, saranno effettuate delle scelte
dell’insegnante, saranno formalizzare scoperte.
Davanti ad una situazione osservata, lo studente/ssa non è più neutrale. In presenza della situazione
osservata, la sua riflessione e la sua eventuale azione pedagogica sono per forza orientate dal suo
sapere di esperienza. L’obiettivo della formazione pratica è di attivare la riflessione in azione dei futuri
esperti, di condurli a formulare il loro sapere di esperienza in modo da metterlo in interazione con i
saperi che le tradizioni scientifica e professionale rendono loro accessibili.

Capitolo 5. Formare insegnanti-professionisti per una formazione


continua collegata alla pratica

Questo capitolo è strutturato attorno a tre questioni centrali dibattute in quest’opera.


Nella prima parte proponiamo alcuni elementi della definizione della professionalità dell’insegnante.
Nella seconda parte ci si interroga sulla costruzione delle competenze professionali.
Nella terza parte vengono identificate le piste per la formazione continua collegata alla pratica.

1. L’insegnante, un professionista
In un recente articolo, Perrenoud identifica due possibili vie di evoluzioni del mestiere insegnante:
- Gli insegnanti si trovano progressivamente spogliati del loro mestiere a vantaggio del pensiero
delle persone che concepiscono e realizzano i programmi, le procedure, gli strumenti di
insegnamento e valutazione e che pretendono di consegnare agli insegnanti dei modelli efficaci
di insegnamento; si tratta di una forma moderna di proletarizzazione;
- Gli insegnanti diventano dei veri professionisti, orientati verso la risoluzione dei problemi,
capaci di lavorare in sinergia all’interno di istituti e di équipes pedagogiche.
Perrenoud lancia l’allarme rispetto al rischio di proletarizzazione del mestiere di insegnante e
raccomanda di realizzare una formazione che miri ad aiutare gli insegnanti più professionisti. Ma cos’è
un professionista? A seguire la lettura sociologica e pedagogica della professionalità del formatore.

1.1 Lettura sociologica


La professione può essere definita a partire dai criteri qui esposti. Si tratta di un’attività:
- Intellettuale che implica la responsabilità individuale di colui che la esercita;
- Consapevole, non routinaria, meccanica o ripetitiva
- Altruista, perché rende un servizio prezioso alla società
- La cui tecnica si apprende alla fine di una lunga formazione
L’insegnamento è un’attività intellettuale che comporta la responsabilità di colui che lo esercita.
Inoltre, le lettura sociologiche mettono l’accento sull’importanza della formazione nel riconoscimento
della professionalità dell’insegnante.

1.2 Lettura pedagogica


Nella lettura pedagogica, per alcuni studiosi (Shavelson) la professionalità dell’insegnante viene
definita a partire dalle decisioni che prende. Sviluppa un modello sulla base del paradigma oggettivista
del trattamento dell’informazione: l’insegnante è considerato come un professionista che sceglie,

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all’interno di una serie di condotte disponibili, quelle che gli sembrano più adatte ad una situazione di
classe.
Il modello decisionista ha suscitato diverse critiche:
- La sua razionalità è incontestabile
- Ignora il ruolo dell’affettività nei comportamenti dell’insegnante

Per rendere conto del funzionamento dell’insegnante in classe, altri studiosi (Doyle e Ponder) partono
dal postulato inverso da quello di Shavelson. Secondo loro, non è l’insegnante che controlla la
situazione, ma la situazione che controlla l’insegnante. Così, i comportamenti dell’insegnante sarebbero
delle risposte a degli stimoli percepiti nell’ambiente piuttosto che il prodotto di decisioni razionali.
Altri ancora rifiutano il modello decisionista.
Ad ogni modo, tentando di combinare le tante diverse prospettive, definiamo l’insegnante-
professionista come un formatore che, in funzione del progetto esplicitato:
- Tiene conto deliberatamente del maggior numero possibile di parametri possibili della
situazione di formazione considerata
- Li articola in modo critico (seguendo teorie personali o collettive)
- Le mette in opera in situazioni concrete e ricorre a delle routines per assicurare l’efficacia della
sua azione
- Trae delle lezioni dalla sua pratica (riflessione sull’azione)

2. Le competenze professionali

2.1 Un trittico di base


Le competenze professionali dell’insegnante costituiscono uno dei tre elementi indissociabili del
trittico, progetti-atti-competenze.
1. I progetti: il senso, gli scopi, gli obiettivi che l’insegnante fissa alla sua azione (il suo progetto
personale nel quadro del progetto d’istituto)
2. Gli atti: i comportamenti da assumere in quanto insegnante (aiutare gli alunni ad imparare,
lavorare in équipe con i colleghi…)
3. Le competenze: i saperi, le rappresentazioni, le teorie personali egli schemi d’azioni messi in
atto per risolvere i problemi in situazioni di lavoro

2.2 Che cos’è una competenza?


Le competenze professionali sono l’articolazione di tre registri di variabili: i saperi, gli schemi
d’azione, un repertorio di comportamenti e di routines disponibili.

a) I saperi
Sono stati individuati due tipi di saperi:
- i saperi dell’insegnante, costruiti dall’insegnante stesso o che l’insegnante considera di aver
fatto propri; saperi costruiti a partire dalla sua pratica o da esperienze vissute nell’ambito
scolastico.
- i saperi per l’insegnante che sarebbero elaborati da altre istanze, in altri contesti rispetto
all’insegnamento, che dovrebbero subire molteplici trasformazioni per essere utilizzati dagli
insegnanti in un particolare contesto.

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b) Gli schemi di azione
Viene proposto di distinguere gli schemi d’azione dai saperi, dalle rappresentazioni e dalle teorie
personali e collettive. Si tratta di schemi di percezione, valutazione e decisione che permettono di
mettere in gioco e di attualizzare dei saperi trasformandoli in competenze. È attraverso questi schemi
che i saperi possono essere attivati.
Gli schemi d’azione servono da legami tra la persona e il suo ambiente. Da un lato, sonoi filtri che
rendono le situazioni comprensibili (schemi di percezione), dall’altro guidano l’azione (schemi di
decisione e valutazione). Essi permettono alla persona di dare un significato alla situazione incontrata e
di disporre azioni adatte al contesto.

c) il repertorio di comportamenti disponibili


si può ipotizzare che l’insegnante disponga ugualmente di un certo numero di comportamenti più o
meno automatizzati che egli può mettere in opera grazie a schemi d’azione, per agire in una situazione
particolare. Queste catene di comportamenti (routine) possono essere sollecitate durante la fase di
azione grazie agli schemi d’azione.

È attraverso l’articolazione di questi tre registri di elementi i saperi (rappresentazioni e teorie


personali), gli schemi d’azione e il repertorio di routine che definiamo le competenze dell’insegnante.

2.3 Come si apprendono queste competenze?

In un approccio costruttivista, apprendere consiste in una modificazione duratura degli schemi cognitivi
dell’individuo a partire dalle sue interazione con l’ambiente. Questo modo di leggere l’apprendimento
mette in evidenza l’importanza delle struttura nell’apprendimento, cioè gli schemi d’azione, dei saperi,
delle rappresentazioni e delle teorie, con i quali l’insegnante “arriva” alla formazione.
Tener conto degli schemi di partenza dell’insegnante costituisce dunque una condizione per collegare
la formazione alla pratica.
Schon considera l’apprendimento del professionista e lo definisce nelle sue interazioni con la pratica. Il
professionista sviluppa le sue competenze essenzialmente nella pratica e a partire dalla pratica.
Sul luogo di lavoro, l’insegnante apprende nell’azione. Si possono distinguere diversi momenti in
questo meccanismo:
- Il professionista dà una risposta routinaria ad un insieme di indizi percepiti in una situazione
- È stupito dalle conseguenze della sua azione. Esse differiscono rispetto a quanto aveva
immaginato
- Riflette su questo avvenimento e sperimenta una nuova azione per risolvere il problema
- Se riesce, la memorizza.
È dunque la pratica che suscita e convalida la nuova condotta sperimentata

Per concludere, si può mettere in evidenza l’importanza di creare, nella formazione e nel luogo di
lavoro, delle condizioni che permettano all’insegnante di sviluppare le sue competenze professionali a
partire da, attraverso e per la pratica.
 L’insegnante può apprendere a partire dalla pratica nella misura in cui essa costituisce il punto
di partenza della sua riflessione, che si tatti della propria pratica che di quella dei colleghi
(apprendimento indiretto)
 L’insegnante apprende attraverso la pratica. Rispetto alla realtà che gli resiste, l’insegnante si
pone come attore, cioè come qualcuno che può agire sulle caratteristiche della situazione,
sperimentare delle strategie nuove e scoprire soluzioni adatte alla situazione
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 L’insegnante apprende per la pratica perché, se il punto di partenza dell’apprendimento è
nell’azione, lo è anche la sua conclusione, in quanto l’insegnante valorizza essenzialmente gli
apprendimenti di cui vede le ricadute dirette sulla sua vita professionale.

4. Una formazione collegata alla pratica


3.1 Contesto
La formazione è concepita in modo da aiutare l’insegnante a realizzare la presa di distanza necessaria
alla costruzione di nuovi saperi e alloro utilizzo in classe.

3.2 Obiettivi di formazione


Gli obiettivi fissati alla formazione erano i seguenti: si trattava di aiutare gli insegnanti:
- A comprendere le situazioni di lavoro, ad indentificare le loro componenti, ad analizzarle ed
interpretarle in funzione di teorie personali e collettive
- Ad allargare il loro repertorio di competenze professionali a aprtire dal confronto con altre
possibilità

3.3 Obiettivo della formazione


Gli obiettivi sono stati perseguiti in occasione della costruzione di un prodotto educativo da indurre
nelle classi da parte di insegnanti che partecipavano alla formazione. Si trattava di immaginare nuovi
utilizzi di software applicativi per i corsi di studio sull’ambiente negli anni 5° e 6° della scuola
primaria.
La procedura proposta per realizzare questo strumento presentava tre caratteristiche. Essa era:
- Partecipativa: gli insegnanti definivano le caratteristiche dei prodotti da costruire
- Regolata: c’era un’alternanza di fasi di concezione e di prova nelle classi
- Strutturata: un algoritmo che riprendeva diverse tappe ritmava la costruzione del prodotto
(analisi dei contenuti, sperimentazione, revisione) e guidava il lavoro del gruppo.

3.4 Strategie di formazione


All’inizio abbiamo pianificato la formazione attraverso cinque strategie:

1. L’esplicitazione e il confronto di pratiche professionali


Gli insegnanti sviluppano in gruppo uno strumento per i loro allievi. Il lavoro in équipe costituisce
l’occasione di esplicitare le proprie pratiche e di confrontarle con quelle dei colleghi.

2. L’esplicitazione degli apprendimenti realizzati dai tirocinanti durante la formazione


Per aiutare i tirocinanti a prendere coscienza degli apprendimenti realizzati e poter orientare così la
formazione futura, i formatori si sforzano di ricordare costantemente gli obiettivi della formazione e
incoraggiano i tirocinanti a prendere posizione rispetto ad essi. Questa strategia aiuta i soggetti in
formazione a prendere coscienza delle loro teorie personali.

3. Il legame tra l’oggetto della formazione e la pratica professionale


La costruzione di un prodotto educativo è stata scelta come oggetto di formazione in modo da
sollecitare l’interesse e l’esperienza anteriore degli insegnanti. La modalità di costruzione segue le
tappe di sviluppo di un prodotto di qualità. Permette di prendere avvio dal sapere pratico degli
insegnanti per sviluppare uno strumento adatto alla classe.

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4. I formatori assumono parecchi ruoli
Essi sono a volte analisti, a volte persone risorsa per favorire dei saperi utili al proseguimenti del
lavoro. Questa combinazione di diversi ruoli permette di rispondere alle esigenze della procedura di
costruzione dello strumento

5. Un’alternanza formazione-pratica
La formazione è concepita in modo da alternare i periodi di formazione e di pratica professionale,
facilitando il legame formazione-pratica. Questo dispositivo permette agli insegnanti di sperimentare
sul luogo di lavoro i prodotti realizzati in formazione.

3.5Una ricerca-azione-formazione
Questa formazione è costruita a partire da un’azione in interazione con una ricerca sulle strategie di
formazione continua sul campo. Queste tre strategie di ricerca, di azione e di formazione hanno tra loro
delle interazioni multiple.
Sulla base di una formazione, viene costruito un sapere. Informazioni provenienti dalla ricerca guidano
le decisioni di formazione (interazioni ricerca-formazione). Un’azione costituisce l’oggetto della
formazione (interazioni formazione-azione).
Questa articolazione tra ricerca-azione-formazione conduce talvolta a delle tensioni tra i diversi aspetti
del lavoro. Un esempio è che in certi momenti, i tre aspetti di ricerca, formazione e azione sono in
contraddizione. Superare questi dilemmi implica fare delle scelte, favorire un aspetto a scapito di un
altro.
Questa combinazione azione-ricerca-formazione sembra tuttavia adeguata al problema posto in quanto:
-la formazione si costruisce e acquista un senso rispetto all’azione. La costruzione di un prodotto
educativo struttura il lavoro in una serie di tappe
L’azione è l’occasione di esplicitare le pratiche e di costruire un materiale che permetta agli insegnanti
di sviluppare la capacità di riflettere a seguito della pratica
La ricerca permette entro certi limiti di attivare e regolare la formazione costruita.

3.6 Piste di formazione


Questa strategie di ricerca-azione-formazione ha permesso di proporre piste per una formazione
collegata alla pratica professionale.
Nel quadro di questo articolo, ne consideriamo cinque:

a) Una formazione organizzata su un progetto di gruppo


Nel quadro di una formazione organizzata su un progetto di gruppo, la scelta di quest’ultimo è
importante. Sembra che le caratteristiche esposte di seguito favoriscano un collegamento dalla
formazione alla pratica.
Il progetto è comune a un gruppo di insegnanti. Il progetto è il risultato di una volontà di un gruppo.
 Permette all’insegnante di prendere una distanza critica rispetto alla pratica
 Può essere pianificato in un tempo limitato (per esempio un anno scolastico, tempo
sufficientemente lungo per accompagnare i processi di apprendimento e corto perché
l’insegnante possa immaginare altri progetti in continuazione).
 Facilita il raggiungimento di obiettivi di formazione.
 Facilita l’espressione e il confronto delle pratiche tra colleghi

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b) Un ambiente di formazione aperto
 L’istruzione scolastica, luogo di lavoro e formazione => L’insegnante perfeziona la sua pratica
professionale esercitandola. Certe conoscenze sono perseguibili solo sul luogo di lavoro.
 l’istituzione scolastica, luogo aperto => Questo apprendimento sul luogo di lavoro è favorito
dall’accesso ad altre risorse: centri di documentazione delle università…

c) Una formazione integrata all’azione in un percorso di sviluppo professionale


La formazione fa parte del processo professionale dell’insegnante. Essa trae il suo significato dai
suoi errori e successi. Prende senso in funzione dei suoi progetti personali e professionali.
 Un collegamento degli apprendimenti al percorso professionale => Uno dei ruoli dei formatori
è di aiutare l’insegnante a integrare lla formazione nel suo percorso professionale.
 Una strategia coerente=> questo percorso individualizzato di formazione presuppone una
strategia di valutazione coerente con esso.

d) Una formazione legata al progetto pedagogico d’istituto


La formazione è un elemento di sviluppo personale e professionale dell’insegnante, ma partecipa
anche all’investimento che l’istituzione scolastica fa sul capitale umano. Passare da una concezione
individuale di formazione a quella di investimento istituzionale significa conciliare la necessità
individuale nel quadro dello sviluppo del progetto d’istituto.

e) Una professionalità allargata del formatore


Per generare formazione, le risorse dell’ambiente devono essere gestite. Questa gestione implica
una ridefinizione della professionalità del formatore e presuppone:
- La formulazione e revisione degli obiettivi di apprendimento individuale e di gruppo
- L’accompagnamento individualizzato dei processi
- Lo sfruttamento delle risorse di apprendimento accessibili

Capitolo 6. Procedura clinica, formazione e scrittura

1. Spazio della clinica


L’insegnamento si congiunge con altri mestieri denominati “mestieri dell’umano”. Ci si confronta con
delle situazioni sociali complesse, sottoposte al tempo, in cui si mescolano il sociale, l’istituzionale e il
personale.

1.1 Implicazione
In una relazione con un altro essere vivente, non si può essere estranei. I secoli passati hanno certo
potuto liberarci nel nostro rapporto con la natura perché si sono accumulate delle conoscenze che ci
permettono di non avere più paura di un temporale o di un lampo. Nel nostro rapporto con l’altro o con
il sociale siamo, in compenso, in un rapporto affettivo, nel quale siamo accecati da ciò che siamo.
Una tale implicazione è necessaria. si incontra l’altro solo attraverso una presenza. È la base
dell’incontro, i nostri sentimento non sono inopportuni della circostanza.
C’è, per qualsiasi “mestiere dell’umano”, un lavoro incessante di lucidità da condurre. Nulla ci
protegge da sbandamenti per sé e per l’altro.
Quando si lavora con un essere vivente, l’altro a volte ci tocca, spesso ci resiste. In questi mestieri, noi
proviamo sentimenti di amore e odio. L’amore può dimostrarsi distruttore: amore passione, che utilizza
l’altro come oggetto e lo lascia distrutto. I nostri sentimenti violenti non sono solo negativi. Lo sono

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quando mirano alla distruzione dell’altro, ma una collera può costituire un fatto nuovo e rivelarsi
portatrice di cambiamenti futuri.
Siccome non si può vivere sempre colpiti, ci si distanzia; si mettono, fra l’altro e noi, delle teorie, degli
strumenti tecnici, ci si protegge.

1.2 Intelligenza clinica


Ogni mestiere ha degli strumenti mediatori, delle teorie indispensabili. Il mestiere dell’insegnante
chiede senza alcun dubbio la capacità di programmare, di preparare ciò che dovrebbe essere. nella
nostra quotidianità, siamo in pilotaggio automatico. Poi interviene l’incidente. Da cui l’importanza
della predizione: “dovrebbe succedere così”, al quale segue ”Non è successo così”.
La sequenza programmata va ad incontrare quella tale variabile differenze, e la logica d’azione ne sarà
trasformata.
Nei “mestieri dell’umano” si fanno delle scommesse. Nell’incertezza, si prende tuttavia una decisione.
Essere clinici è precisamente partire da qualcosa di presente, da attese, da punto di riferimenti
preliminare e consentire tuttavia di essere sorpresi dall’altro, inventare sul momento, avere intuizione,
colpo d’occhio.

1.3 Etica
Nell’agire si pone costantemente una domanda: “è bene, è male?”. È anche la prima nei principianti,
con la speranza di un giudizio che potrebbe separare e soprattutto proteggere dal male. Il nostro
intervento sembra più semplice quando agiamo su degli oggetti. La misura del mio gesto è data
dall’oggetto e dall’intenzione che avevo.
Sappiamo che ci sono sempre molteplici probabilità, che si deve operare una scelta e che dobbiamo
assumerla, con le sue conseguenze. Qualsiasi atto trasforma la situazione che continua ad evolvere.
C’è la necessità di una dimensione etica per l’atto di insegnare? Il pedagogo diffida, a causa della
morale di un tempo lasciare e che faceva dipendere l’atto pedagogico da norme rigorose.
L’attore deve considerare altri punto o porsi altre domande.

2. Formazione

Lo spazio clinico si distingue dal contesto del laboratorio ma non vi si oppone. Nella clinica si
utilizzano i risultato ottenuto nello spazio di un laboratorio, ma l’atteggiamento pertinente di fronte alla
realtà è diverso da quello sviluppano in laboratorio. Nella formazione, si ha sicuramente meno
sicurezza, perché formare un clinico non passa per vie sicure e lascia nell’ombra certi talenti di cui non
si sa molto bene come si acquisiscono ma che fanno l’eccellenza di certi esperti. Una tale formazione
implica di considerare l’articolazione tra saperi costituiti e saperi di esperienza.

2.1 Saperi acquisiti


Come considerare in un tale contesto l’uscita di saperi acquisiti? Acquisizione di contenuto?
Sicuramente, ma anche interrogazione sul processo di conoscenza. Nell’orientamento clinico, ciascuno
dovrebbe anche cogliere i limiti delle scienze umane rispetto all’azione.
Chiunque entri in questo mestiere dovrebbe orientarsi così nello statuto delle scienze umane, per
mettere al posto giusto questa ricerca del sapere e capire quale uso può farne nella pratica effettiva del
mestiere.

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2.2 Saperi di esperienza
In parallelo, si richiede un approccio sul campo attraverso l’azione e la riflessione sull’azione. Spesso
l’osservazione è soltanto a posteriori, quando si ritorna al come di un gesto, quando si può “osservare”
cosa è successo. A posteriori si abbozzano le ipotesi più che spiegare, si reperisce ciò che fu inventato
nell’istante, misurando insomma l’effetto della propria azione.
La nostra capacità di ritornare sull’esperienza passata si affina con il concorso di qualcuno che aiuta a
guidare ciò che ci si rifiuta di vedere. Si impara così a studiare la propria intuizione, senza rinnegare i
primi movimenti.

2.3 Saperi di alterità


Avere come punto di riferimento il “mestiere dell’umano” implica che si riservi un posto al portatore
dell’azione e alla sua relazione con altri esseri viventi. Quando si riconosce di essere portatori della
propria pratica come soggetto, si accetta che la parte si assume in qualsiasi azione.
Noi accettiamo di imparare dalla difficoltà, la nostra e quella dei bambini, avendo provato lo statuto
dell’errore in qualsiasi percorso di conoscenza.
Siamo da questo momento invitati a coniugare una pratica dell’alterità che esige una regolazione della
distanza rispetto agli avvenimenti, a questo o quell’allievo: una “buona” distanza che si elabora quando
sembriamo perderla sia per troppa confusione che per troppa indifferenza.

2.4 Tensioni
Esiste una tensione fra la logica del sapere preliminare delle scienze umane e quella della conoscenza
costruita a partire da un’esperienza. È qui che entra in gioco l’esperienza sul campo nella costruzione
delle conoscenze.
A volte si agisce come se uno studente debba apprendere i requisiti scientifici senza porsi delle
domande e senza capire il perché. Solo molto più tardi, diventato a sua volta esperto, potrebbe fare il
collegamento.

3. Formatori
La possibilità di una formazione clinica dipende dai formatori. Essi occupano la parte anteriore della
scena.

3.1 Responsabilità
Lo studente affronta la problematica inaugurata dalle principali discipline costituite dalle scienze
umane solo se il formatore se la pone ed esplicita la sua posizione.
Paradossalmente, un formatore proveniente da una disciplina come la sociologia, la psicologia o altre
ancora non deve negare la sua specialità; dovrebbe considerare con i futuri esperti come questo sapere
si mobilita nell’azione e ciò che non risolve.

3.2 Sapere clinico


Una procedura clinica è molto esigente. A dire il vero non è una formazione. Essa mira essenzialmente
allo sviluppo di una sensibilità che integra i saperi sperimentali nella relazione con l’altro. La
trasmissione di un atteggiamento clinico è difficile. Resta il fatto che, a seconda di quale disciplina si
riferisce, il riconoscimento dell’importanza di un atteggiamento clinico come competenza di insegnare
non è lo stesso.
Un atteggiamento clinico sfocia nella costruzione di un’etica delle situazioni singolare in cui è
costantemente interrogato il nostro rapporto con l’altro.

21
Quanto ai saperi di esperienze e di alterità, in un corso, il formatore può utilizzare i racconti della
pratica per circoscrivere le poste in gioco del mestiere, per lasciare intravedere come un professionista
riflette sulla pratica.

4. Scrittura
Se si apprende dall’esperienza e ci si forma, con quale scrittura si possono costruire delle conoscenze e
trasmetterle? C’è una scrittura specifica dell’esperienza e della clinica?

4.1 Autenticità
Un racconto non è né una somma di informazioni né la scrupolosa descrizione di un fatto esterno in cui
l’autore non è impegnato. La concezione del racconto rinvia necessariamente alla nostra concezione del
mestiere. Non può esistere nessun racconto, se il portatore dell’azione non assume la sua soggettività e
se nega l’impatto dell’effetto nel suo mestiere. Queste de condizioni sono particolari e associano il
racconto con l’espressione, l’autenticità e l’esposizione di un “io”.
Rendere conto delle pratiche significa che si accetta di parlare delle difficoltà incontrate.

4.2. Autore riflessivo


Cosa ricava colui che scrive un racconto a suo nome? il beneficio è solo affettivo? Secondo
l’orientamento teorico al quale ci si lega, non si sarà sorpresi della ponderazione dei fattori. Si tratta di
operare una divisione tra benefici cognitivi e benefici affettivi? Evidentemente no.
Ciò che era informe ha preso forma, ciò che era senza ordine temporale si è strutturato tra un prima e
un dopo. Gli avvenimenti continui prendono posto in un quadro. Si delimita ciò che sembrava non
avere né inizio né fine. Ne consegue una messa a distanza.
Il riconoscimento del racconto come modo di costruzione teorica si scontra, nel campo professionale,
con più di una difficoltà. Perché il racconto entri nell’ambito della scienza è importante che divenyti
pubblico e dunque pubblicato.

4.3 Gusto della scrittura


In una formazione clinica, qual è il ruolo del racconto? Un formatore vi può far riferimento nelle sue
lezioni. Per piccoli e grandi, si potrebbe dire, l’ascolto mi pare lo stesso. Un racconto che fa effetto
sembra essere quello che permette all’uditore o al lettore di operare delle intersezioni, di mettere in
modo delle associazioni che gli attraversano la mente.

Capitolo 7. Dal tirocinante all’esperto: costruire le competenze


professionali

Introduzione
C’è uno scarto importante tra ciò che l’insegnante esperto può spiegare spontaneamente a proposito
della sua azione e ciò che fa effettivamente. È necessario predisporre un’intervista specifica che renda
possibile un passaggio dal vissuto alla rappresentazione, poi alla verbalizzazione, affinché il soggetto
prenda coscienza delle operazioni mentali che effettua e delle conoscenze che mette in gioco nel corso
delle azioni mentali.

L’intervista di esplicitazione è una tecnica di aiuto alla verbalizzazione che permette precisamente
l’esplicitazione delle procedure intellettuali che operano in situazione. Fondata sulla teoria della presa
di coscienza di Piaget e sul ruolo della mediazione sociale di Vigotsky, la metodologia dell’intervista di
22
esplicitazione presuppone un atteggiamento di interpretazione nel corso della raccolta delle
informazioni. L’intervista mira ad una descrizione il più possibile precisa dello svolgimento delle
azioni materiali e mentali nella realizzazione di un compito. Attraverso un ascolto specifico che
raccoglie indizi verbali e non verbali tali da permettere una guida attiva delle verbalizzazioni, si aiuterà
il soggetto a tradurre in parole le informazioni raccolte e le operazioni effettuate in un momento
preciso.

1. In che cosa consistono le competenze professionali degli esperti?

[N.b. C’è tutta un’intervista da leggere. P. 135-136]

Consentendo la spiegazione delle conoscenze implicite contenute nell’azione, l’intervista di


esplicitazione mostra come ciò che gli esperti chiamano “l’intuizione”, riposi di fatto su delle
competenze di rilevazione di indizi molto precisi, legati ad una conoscenza approfondita sia del gruppo
classe nel suo insieme, sia di ogni bambini nella sua specificità e dei contenuti didattici di riferimento.

1.2 La verbalizzazione dei saperi esperti: una sfida per la formazione


Così verbalizzata, l’esperienza diventa comunicabile. La descrizione di modi di fare che non avrebbero
potuto essere verbalizzati spontaneamente, ma di cui il soggetto prende coscienza hrazie alla
mediazione di un’intervista di esplicitazione, è la prima tappa di una modellizzazione possibile del
mestiere insegnante.

a) Operazioni cognitive dello sviluppo di azione


Se si esamina dei comportamenti implicati nella presa di decisioni di Agnès su Baptiste, si possono
evidenziare:
 Un’azione orientata da uno scopo (fare in modo che ogni alunno arrivi alla lettura)
 Una raccolta di informazioni (il tono di voce non abituale di Baptiste, il carattere indiretto del
messaggio, la presenza inattesa di articoli nelle sue produzioni scritte)
 Un trattamento complesso e del tutto preriflesso dell’informazione
 Una presa di decisioni ed un passaggio all’osservazione osservabile “ho detto a Baptiste di
venire”

b) Un esempio di regolazione a partire da schemi di identificazione sensoriale


Questo secondo esempio proviene da un colloquio con un consigliere pedagogico relativamente alla
sua percezione del ritmo della classe, che gli permette di reperire momenti in cui conviene passare, ad
esempio, da un tempo di lavoro collettivo a delle attività individuali.

1.3 Favorire la costruzione degli schemi professionali

a) Gli schemi si costruiscono grazie alle situazione vissute attraverso un’elaborazione


programmata
Lo schema è dunque la struttura dell’azione, mentale o materiale, l’elemento che non varia. Si possono
distinguere delle situazioni per le quali il soggetto dispone del suo repertorio di risposte adeguate sotto
forma di “routine”, delle situazione in cui il soggetto adatta sul momenti i suoi strumenti di trattamento
dell’informazione per improvvisare una risposta adeguata. Quando uno schema è inefficace,
l’esperienza conduce o a cambiare schema, o a modificare questo schema.

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b) Contestualizzare la formazione
È dunque nell’esperienza che si forgiano gli schemi di pensiero e di azione specifici ad un corpo
professionale, nel confronto con situazioni comparabili e allo stesso tempo sempre differenti. Senza gli
schemi, senza questa capacità di metabolizzare dei saperi, non ci sono competenze, ma solo
conoscenze. Per questa ragione le competenze professionali non possono costruirsi che attraverso una
formazione esperienziale.

c) Lavorare su pratiche riflessive, nel quadro di una formazione attraverso la riflessione


sull’azione
Lavorare sulle pratiche effettive non significa necessariamente lavorare in tempo reale o su dimensioni
reali. L’alternanza da realizzare non è quella della teoria e della pratica, ma quella della
sperimentazione e dell’analisi. Ciò che importa è che le fasi di analisi di pratiche siano ricche di
raccolte di informazioni varie: tracce dell’attività degli alunni e intervista a posteriori ai bambini,
registrazioni audio e video, sguardo del formatore o meglio dei formatori, interviste di esplicitazione.

2. I due assi della formazione


Proponiamo a partire dalle riflessioni che abbiamo sviluppato sui comportamenti esperti per strutturare
alcune piste di lavoro tali da rendere operativa una formazione professionale degli insegnanti. L’attore
pedagogico persegue i suoi obiettivi attraverso delle regolazioni continue derivanti da una successione
di trattamento di informazioni, di prese di decisione e di realizzazioni. Per rendere conto di questo
percorso circolare dell’attività cognitiva del soggetto durante l’azione che fa interagire la raccolta di
informazioni e le operazioni messe in atto, si possono definire due assi:
 Il primo asse è quello dell’orientamento dell’azione verso uno scopo
 Il secondo asse è quello della raccolta di informazione che il soggetto fa da un lato sul contesto
e dall’altro sulla sua azione.

2.1. L’asse diacronico dell’azione orientato verso uno scopo: costruire le competenze
professionali attraverso sperimentazioni/analisi/riprese
Alla domanda sul “come formare i nuovi insegnanti alla riflessione degli esperti”, una delle risposte
possibili è la realizzazione di dispositivi di formazione che riproducano la riflessione in azione degli
insegnamenti esperti, ma che amplino nello spazio e nel tempo la dinamica di equilibrio che
caratterizza la pratica insegnante.
Nei Laboratoires d’essais pédagogiques (L.P.) si preparano in piccolo gruppo (da quattro a sette
tirocinanti) dei progetti pedagogici e il dispositivo di osservazione che permetterà di valutarli, di
realizzare questi progetti con gli alunni e di registrarli in video,poi di analizzarli confrontando i diversi
punti di vista raccolti sulle situazioni messe in atto per dedurne gli elemtni da riprendere e da
trasformare in nuove situazioni.
Il L.P permette di sperimentare in modo privilegiato uno degli aspetti dell’atto di insegnare: la
competenza, a partire dalla raccolta di indizi sugli aspetti osservabili di una situazione pedagogica.
Oltre al fatto di dotare i tirocinanti di uno stock di esperienze che costituiranno altrettanti materiali per
ulteriori pratiche, i L.P contribuiscono in modo decisivo, attraverso un dispositivo allargato di
osservazione e di analisi, alla costruzione progressiva di questa capacità di raccogliere informazioni e
di trattarla nel corso dell’azione che è propria degli insegnanti esperti.

2.2. L’asse sincronico della raccolta di informazione sul sistema d’interazioni: apprendere
a osservare e ad analizzare

24
Quando inizia il mestiere, l’insegnante tirocinante non dispone di alcuno degli schemi di pensiero o di
azione che gli permetteranno di rispondere colpo su colpo alla situazione.
È dunque importante attivare nel corso di formazione delle condizioni protette di azione e di raccolta di
informazioni che permetteranno ai tirocinanti di cominciare a costituire quell’insieme di schemi
professionali che dovrebbero consentirgli non solo di aumentare lo stock delle routine disponibili, ma
soprattutto di raccogliere e di trattare in modo pertinente tutte le informazioni provenienti dalla propria
classe.

Come favorire la conoscenza dell’attività cognitiva degli alunni e la presa di coscienza da parte del
tirocinante del suo funzionamento in situazione?
Nei confronti dei bambini, la valutazione del principiante si basa spesso sui soli risultati osservabili,
senza sfiorare il problema della logica del funzionamento di ogni alunno di fronte al compito proposto.
Un decentramento è necessario affinché si costituiscano parallelamente la conoscenza dell’oggetto (in
questo caso la situazione pedagogica come sistema alunno/compito) e la presa di coscienza da parte del
soggetto delle modalità della sua azione.
Per meglio comprendere sia l’attività degli alunni sia quella del tirocinante, la videoregistrazione e
l’intervista di esplicitazione appaiono come due strumenti indispensabili e complementari della raccolta
d informazioni sulle situazioni pedagogiche.
La registrazione video fornisce al tirocinante delle informazioni su ciò che non aveva visto. In modo
del tutto complementare, l’intervista di esplicitazione permette la verbalizzazione e quindi dà al
tirocinante la possibilità di trattare l’informazione che raccoglie in classe e di attivare, attraverso questa
verbalizzazione, una presa di coscienza che modificherà la sua azione pedagogica successiva.

2.3. Cognizione e presa di coscienza


Quando si interroga sul funzionamento dell’alunno in situazione, il tirocinante si decentra dal proprio
comportamento per interessarsi all’”oggetto” che deve trasformare. Quando ripensa e verbalizza la sua
esperienza soggettiva, prende coscienza delle modalità della sua azione per modificarla.
Nel momento in cui l’insegnante-tirocinante cerca di capire meglio il sistema soggetto-compito che è la
situazione pedagogica, sembra che, ogni volta, nell’atto di analisi avvenga uno stesso processo formato
da un tempo di decentramento che permette la costituzione dell’oggetto di investigazione in quanto tale
e da un tempo di verbalizzazione che porta ad una possibile concettualizzazione.

Conclusione
L’insegnante gestisce simultaneamente il gruppo-classe e il caso particolare di ogni alunno allo stadio
in cui è con il suo apprendimento, nel contesto sempre unico di una situazione pedagocia in un
determinato momento. E tutto questo nel fuoco dell’azione, adattandosi agli imprevisti della dinamica
propria di ogni sequenza.
Il principiante, invece, per elaborare delle risposte adatte ai problemi che gli pone il comportamento di
classe, deve poter beneficiare di spazi di distanziamento che gli permettano di riflettere sulla sua pratica
e di appropriarsi di nuovi elementi di conoscenza che si integrano progressivamente nella sua azione
pedagogica. La caratteristica di una formazione attraverso l’azione e la riflessione sull’azione è di
fornire al tirocinante dei tempi di lettura dell’esperienza per poter analizzare ciò che è successo e
regolare in differita ciò che non sa ancora controllare nel momento dell’azione.
Richiede che i formatori siano nello stesso tempo loro stessi degli insegnanti esperti abituati
all’osservazione degli alunni, ma anche, per i tirocinanti, dei compagni e delle guide sul cammino delle
sperimentazioni e delle prese di coscienza.

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Capitolo 8. Competenze professionali privilegiate negli stage in video-
formazione

Introduzione
Ogni sapere scientifico si costruisce su paradigmi, cioè su nuclei di principi e di ipotesi fondamentali
che definiscono un determinato approccio a una realtà.
Il paradigma che attualmente domina nel campo della ricerca è quello dell’insegnante riflessivo.

1. Sei paradigmi relativi al mestiere di insegnante


1. Un docente istruito, che domina le conoscenze
2. Un tecnico, che ha acquisito sistematicamente delle competenze tecniche
3. Un esperto-artigiano che ha acquisito sul campo degli schemi d’azione contestualizzati
4. Un esperto riflessivo che si è costruito un sapere esperienziale sistematico e comunicabile più o
meno teorizzato
5. Un attore sociale impegnato in progetti collettivi e cosciente dell’importanza degli aspetti
antropo-sociali delle pratiche quotidiane
6. Una persona che opera un continui sviluppo di sé

Secondo i paradigmi adottati, non solo le prospettive sono differenti, ma soprattutto differiscono i modi
di agire.

1.1 Cosa deve conoscere un insegnante? [paradigma del docente istruito]


L’idea ancora dominante in alcuni ambienti di formazione di insegnanti è che l’insegnante è
innanzitutto un trasmettitore di conoscenze disciplinari. Per diventare un insegnante esperto bisogna
quindi prima di tutto conoscere le basi teoriche nel campo della didattica specifica, della metodologia
generale, della psicopedagogia prima di applicarle.
Questo paradigma del docente istruito ha delle conseguenze molto importanti nel modo di strutturare e
di organizzare una formazione iniziale. Così, gli apporti teorici riguardo alle discipline da insegnare
nonché i principi didattici e pedagogici si concentrano all’inizio della formazione e gli esercizi didattici
e gli stage sono rimandati di conseguenza alla fine della formazione.

1.2. Cosa deve poter fare un insegnante [Paradigma del docente tecnico]
A partire dagli anni ’60, si sono sviluppati numerosi programmi di formazione professionale,
applicando le procedure classiche di job analysis. L’attività di lavoro è scomposta in funzioni e queste
in compiti.
I programmi di formazioni degli insegnanti definiti in funzione delle competenze attese sono spesso
troppo meccanicistici.

1.3. Come agisce un docente esperto in attività? [Docente artigiano]


L’analisi dei sistemi esperti permette di evincere le procedure, i modi di agire, le azioni in un
determinato campo. Così, l’insegnante di mestiere può essere considerato come qualcuno che fa da sé,
o piuttosto un artigiano che eccelle nell’arte di raccogliere i materiali disponibili e di strutturarli in un
progetto che acquista significato intuitivamente.

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1.4. Come agisce un professionista dell’insegnamento [Docente riflessivo]
Nella maggior parte die paesi occidentali, il mestiere di insegnante tende ad essere considerato una
“professione”. Cosa significa? Un professionista realizza in autonomia delle operazioni intellettuali non
routinarie che impegnano la sua responsabilità. Il professionista è autonomo non solo perché è in grado
di autocontrollare il suo operato, ma anche di guidare, allo stesso tempo, il suo apprendimento
attraverso un’analisi critica delle sue pratiche e dei risultato di queste.
Come dice Perrenoud, la professionalizzazione è anche la capacità di accumulare l’esperienza, di
riflettere sulle proprie pratiche per poterle riorganizzare. Questa concezione è stata sviluppata in molti
lavori odierni a proposito dell’esperto riflessivo. Attraverso la riflessione sulla propria pratica e i suoi
effetti, l’esperto si crea un sapere d’esperienza in continua evoluzione. Dunque, un professionista è un
analista di situazioni singole e un decisore esperto.
Se l’analisi e la riflessione sono metodiche ed approfondite, è possibile operare il passaggio
dall’esperto riflessivo all’esperto ricercatore? In realtà, non c’è una rottura, ma una continuità tra
l’esperto riflessivo e l’esperto ricercatore.
Le strategie da privilegiare per formare degli esperti riflessivi sono: realizzare una diagnosi della
situazione; preparare delle lezioni chiarendo le scelte effettuate; associare gli studenti alla valutazione
dei loro stage.
Il punto critico della formazione di un insegnante riflessivo attraverso gli stage è l’organizzazione
dell’accompagnamento da parte di formatori esperti, a loro volta abituati a riflettere sulle proprie
pratiche.

1.5. Quale dovrebbe essere il ruolo sociale degli insegnanti? [insegnante come attore sociale]
Nella scuola che si rinnova, il mestiere dell’insegnante cambia. Consiste sempre più nella
partecipazione a progetti comuni sia di gruppo che a livello di istituto. Ciò implica un impegno come
attore sociale a livello locale. È attore sociale l’insegnante impegnato in progetti collettivi (es classe-
laboratorio, progetti interdisciplinari…), ma anche l’insegnante impegnato in dibattiti per definire un
progetto d’istituto e partecipare alla sua gestione. Tale responsabilità nei progetti e negli ingranaggi di
una istruzione esige un nuovo profilo: poter analizzare il sistema nelle sue molteplici dimensioni
(organizzative, politiche, ideologiche…), fondare le basi di un progetto su questa analisi, attuare questo
progetto, aggiustarlo e valutarlo…
Quali strategie mettere in atto per formare degli attori sociali così definiti? Condurre i futuri insegnanti
a costruire progetti collettivi e strumenti per aiutare la realizzazione di ogni tappa, a esplicitare la
procedura seguita.
Essere un attore sociale significa anche “vedere al di là del proprio naso, e le mura della propria
scuola”; cioè essere coscienti che la scuola è attraversata da conflitti di valore: è importante perciò che
gli insegnanti possano analizzare i problemi sociali che investono la scuola.

1.6. come “essere” insegnante e come “vivere” il proprio mestiere? [insegnante come persona]
L’evoluzione della società ha provocato una modificazione delle funzioni della scuola e di conseguenza
dei ruoli dell’insegnante.si assiste dunque ad un profondo disagio presso il personale insegnante. Gli
insegnanti vivono dei conflitti d’identità. Per loro è difficile sviluppare un’immagine positiva del sé
professionale.
Secondo il paradigma personalista, l’insegnante è innanzitutto una persona: una persona in evoluzione
e alla ricerca di un diventare se stesso, una persona in relazione con gli altri. Naturalmente non esiste
un profilo tipo della persona insegnante e l’evoluzione non è comandata dall’esterno. È tuttavia
necessario, a partire dalla formazione iniziale, avviare un processo verso uno sviluppo personale e
relazionale.
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2. Pratiche di micro-insegnamento e di video formazione: competenze e strategie privilegiate
(M.C. Wagner)
L’apparecchio video può intervenire nell’apprendimento professionale degli insegnanti in diversi
momenti in molti modi.

3.1. Formare un “insegnante-tecnico”


Innegabilmente numerose pratiche di micro-insegnamento derivano da questo paradigma. Le pratiche
attuali si inseriscono spesso in programmi di formazione modulare relativamente limitati nella
copertura oraria.
Ci sono quattro-parametri che caratterizzano questo modello di insegnante-tecnico.

a) Obiettivi prioritari – Durata e momento delle attività


Gli obiettivi essenziali consistono nel permettere agli studenti in formazione, prima dello stage in
situazione reale, di acquisire un minimo di saper-fare ma anche un saper-vedere e saper-far-fare. È un
apprendimento volto a dominare competenze precedentemente identificate, ma anche un
apprendimento all’osservazione.

b) Tipi di attività
Si tratta di sperimentazioni realizzate e filmate in situazioni simulate (laboratorio con i pari). Un
ventaglio di attitudini è presentato e discusso all’inizio della formazione. Lo studente sceglie
liberalmente la funzione o le attitudini che gli sembrano più pertinenti e significative. Gli esercizi sono
registrati e la loro visione sostiene l’auto-analisi di colui che li ha realizzati.

c) Modalità di supervisione
Se gli obiettivi possibili, gli strumenti di osservazione e i percorsi di analisi sono proposti dal
formatore, la scelta degli obiettivi viene fatta dallo studente. Il formatore svolge essenzialmente il ruolo
di guida e consigliere durante questa fase di lavoro.

d) Articolazione teoria-pratica
Considerando due logiche di rapporto tra teoria e pratica: una logica di passaggio o di trasformazione
(quella del passaggio reciproco da una modalità di conoscenza ad un’altra), e una logica di confronto
(quella del confronto dialettico), vengono identificati quattro assi di ricerca sul ruolo del video nella
costruzione delle competenze professionali (trasformazione delle conoscenze teoriche in pratiche e
viceversa; passaggio alla teoria nella formazione delle conoscenze pratiche e passaggio alla pratica
nella formazione delle conoscenze teoriche).

3.2 Formare un “esperto-riflessivo”


Il paradigma dell’insegnante riflessivo riguarda sia l’insegnante che riflette sulle sue azioni
analizzandone gli effetti, sia colui che produce degli strumenti innovativi.

a) Obiettivi prioritari e principi


La gamma di obiettivi è piuttosto larga:
- Concezione e sperimentazione pedagogiche
- Messa a punto di metodi d’osservazione
- Allenamento dell’analisi e della realizzazione

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Tre principi metodologici caratterizzano il lavoro che si effettua in questo spazio di mediazione che è il
laboratorio di sperimentazione pedagogica.
Il principio di variazione: Ciò che si fa è sempre modificabile e trasformabile, che si tratti di una
strategia pedagogica o del modo stesso di analizzarla.
Il principio di riflessività: Tutte le attività (la preparazione, la realizzazione, la sua osservazione…)
diventano oggetto di analisi riflessiva e di ricostruzione.
Principio di operatività: Ogni membro del gruppo deve assumere un compito nel dispositivo
d’insieme.

b) Tipi di attività
1. Nei laboratori di sperimentazione pedagogica si tratta essenzialmente di:
- Condurre delle sequenze pedagogiche mettendo alla prova delle ipotesi costruite
individualmente o in gruppo;
- Immaginare e costruire delle alternative

2. Procedure organizzate da Tochon in Quebec


Questo tipo di attività può essere visto come intermedio tra il modello di lavoro aperto, e quello
di un modulo centrato sulla formazione di un insegnante tecnico. Infatti, alcuni strumenti sono
proposti ai tirocinanti (per esempio, l’uso di una mappa concettuale come uno dei mezzi per
pianificare la materia ed esporla); altri scelgono dilavorare su una o due competenze
pedagogiche di base che servono come strumento concettuale per riflettere sulle situazioni
vissute.

c) Modalità di supervisione e di valutazione.


La valutazione è formativa e interattiva; essa necessita di una grande disponibilità da parte del
professore animatore che effettua con i tirocinanti degli incontri personali

3.4 Formare una persona


Ogni progetto di evoluzione personale, di sviluppo delle proprie capacità di comunicazione, passa
attraverso questa esigenza di realismo accresciuto nei confronti di se stessi: in ciò, la registrazione
video svolge un ruolo importante.
a) Per Postic, il tirocinante in formazione potrà prendere coscienza di ciò che lo tocca, sul piano
dei comportamenti, osservando e analizzando una situazione registrata al videoregistratore. Un
mezzo essenziale per capire questo progetto è quello dell’osservazione di sé, delle situazioni
educative, delle esperienze condotte.
b) Per Atlet, la ricerca sugli stili di insegnamento permette di costruire uno strumento di
formazione all’autoanalisi. Permettendo agli insegnanti, in fase di formazione iniziale e in
formazione continua, di farsi un’immagine più obiettiva del loro stile di insegnamento
attraverso la video-formazione, si può sperare di portarli a tentare di modificare le loro pratiche
per creare delle migliori situazioni di apprendimento per i loro allievi.

Capitolo 9. Il lavoro sull’habitus nella formazione degli insegnanti.


Analisi delle pratiche e presa di coscienza
Noi non sappiamo costantemente ciò che facciamo. E anche se ne abbiamo vagamente coscienza, non
sappiamo sempre perché agiamo in un certo modo. Questa incoscienza non è necessariamente il
prodotto di una repressione. Spesso si tratta di un “incoscienza pratica”, secondo la formula di Piaget.

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Le nostre abitudini ed i nostri automatismi non riguardano solamente i nostri gesti, i nostri atti concreti,
osservabili; concernono anche le nostre percezioni, le nostre emozioni.
Si conosce la nozione piagetiana di schema: le azioni, in effetti, non si succedono a caso, ma si ripetono
e si applicano in modo simili a situazioni comparabili. Più precisamente, esse si riproducono tali e quali
se, agli stessi, corrispondo delle situazioni analoghe, ma si differenziano o si combinano in modo
nuovo se i bisogni o le situazioni cambiano. Noi chiameremo schemi d’azione ciò che c’è di comune
alle diverse ripetizioni o applicazioni della stessa azione.
La nozione di habitus generalizza la nozione di schema. Il nostro habitus è costituito dall’insieme dei
nostri schemi di percezione, di valutazione, di pensiero e di azione. Grazie a questa struttura, noi siamo
capaci di far fronte, al prezzo di piccoli aggiustamenti, ad una grande varietà di situazioni quotidiane.
Gli schemi permettono al soggetto di adattare solo marginalmente la propria azione alle caratteristiche
della ogni situazione corrente; egli innova solo per tener conto di ciò per cui essa è singolare. Quando
l’adattamento è piccolo o eccezionale, non c’è in genere apprendimento, la coordinazione di schemi
esistenti si stabilizza, creando nuovi schemi. L’habitus si arricchisce e si diversifica.
Possiamo noi, pertanto, nella formazione degli insegnanti, astenerci da dispositivi di formazione di un
habitus professionale? In realtà, essi esistono: ogni curriculo, esplicito o implicito, ogni istituzione
educativa, forma e trasforma l’habitus, attraverso l’esercizio del mestiere di alunno o studente.
Che si voglia o no, l’habitus si forma.

1. Un’azione pedagogica che attiva l’habitus


L’azione pedagogica è costantemente sotto il controllo dell’habitus, secondo almeno quattro
meccanismi:
- Una parte dei gesti del mestiere sono delle routine che, senza sfuggire completamente alla
coscienza del soggetto, non esigono più l’attivazione esplicita di saperi e di regole;
- Anche quando si applicano delle regole, quando si attivano dei saperi, l’identificazione della
situazione e del momento opportuno rivelano l’habitus;
- La parte meno cosciente dell’habitus interviene nella microregolazione di ogni azione
intenzionale e razionale, di ogni direzione di progetto;
- Nella gestione dell’urgenza, l’improvvisazione è regolata da schemi di percezione, di decisione
e di azione che attivano debolmente il pensiero razionale e i saperi espliciti dell’attore.

1.1. La trasformazione degli schemi d’azione in routine


Un insegnante costruisce durante le ore di insegnamento un numero considerevole di routine. All’inizio
della carriera esse non sono ancora acquisite; l’insegnante in formazione iniziale tenta ancora di
mettere in opera saperi procedurali. Già a questo stadio, tuttavia, l’habitus interviene nella messa in
opera di queste procedure o schemi d’azione. A pocoa poco si accrescerà la parte routinaria sotto il
controllo della parte meno cosciente dell’habitus.
I saperi procedurali evolvono in relazione all’avanzamento professionale. I più espliciti subiscono
diversi destini:
- Alcuni si cancellano o sfumano, in assenza di pertinenza o d’uso;
- Altri si aggiungono alla routine ed estendono l’habitus;
- Altri ancora restano rappresentazioni vive ed esplicite, perché sono mantenuti a questo livello
dalla complessità e dalla resistenza del reale o da un investimento intellettuale particolare (es.
preferenza della didattica o della sociologia).

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1.2 Il momento opportuno
Molti saperi analitici poggiano non tanto sulla situazione ma sul nostro modo di reagire ad essa. Saperi
di secondo grado, saperi sulla difficoltà di mettere in pratica al momento opportuno, controllando le
proprie pulsioni e le proprie reazioni spontanee, saperi procedurali di primo livello.
Per esempio, anche uno psicanalista che conosce Freud e altri grandi della psicanalisi a memoria e
possiede una immensa cultura teorica, dipende in ultima istanza dalla mobilitazione dei propri saperi, di
risorse cognitive di altra natura, che a volte si chiamano intuizione, fiuto, feeling, altrettanti modi
correnti di nominare ciò che, nell’habitus, funziona in parte a nostra insaputa.

1.3 La parte dell’habitus nella microregolazione dell’azione razionale


Ogni azione complessa fa appello ad alcune conoscenze e ad una parte di ragionamento. L’azione
deliberata è fortemente segnata di saperi e di razionalità. C’è, dunque, nell’analisi delle competenze
degli insegnanti, un largo spazio per la ragione pedagogica e i saperi. Ciò non significa che l’agire
razionale sia estraneo all’habitus. Dapprima perché la logica naturale di un soggetto è sotto-insieme dei
suoi schemi, dunque parte del suo habitus. In secondo luogo perché altre componenti dell’habitus
permettono di far fronte agli imprevisti nello svolgimento degli avvenimenti, per conciliare l’azione
razionale con ciò che gioca nel registro relazionale ed emozionale.
In classe, l’insegnante non può essere totalmente sorpreso quando una consegna non è capita, quando
un allievo commette un errore insolito, quando un’attività fallisce. Questi imprevisti sono
paradossalmente prevedibili: sono cose che possono capitare un giorno o l’altro. Tuttavia, quando
capita, ciò avviene in un momento e sotto una forma inaspettati.
Di fronte a tali imprevisti, l’inesperto reagisce in funzione di un habitus talvolta poco adeguato
all’ambiente scolastico. Poi, con l’esperienza, l’insegnante costruirà altri schemi, più adatti.
Gli schemi che permettono di far fronte agli incidenti critici si ancorano in una pratica professionale
sempre più ricca, formando un nuovo strato dell’habitus, la cui genesi proviene da una esperienza in
classe.
Altra forma di genesi dell’habitus: l’azione pedagogica è orientata da finalità esplicite e da valori, ma
anche da investimenti affettivi e dai gusti. Alcune si rapportano a dei saperi: esistono parole, idee,
regole che un professore non accetta di vedere sfigurate, perché sono per lui importanti. Esistono
quindi, ai suoi occhi, degli errori meno perdonabili di altri, in funzione dell’attaccamento ai saperi o
alle regole in gioco.
Tuttavia, gli investimenti affettivi ed i gusti si dirigono sulle persone e sui gruppi che fanno parte delle
relazioni intersoggettive. Vi sono delle classi o degli allievi che il professore ama, altre che detesta e
altre che gli sono indifferenti.
Poiché è il principale vettore della propria azione didattica, l’insegnante è dipendente da tutto ciò che è,
da tutto ciò che ama o detesta. Senza dubbio, l’etica, la formazione professionale, l’esperienza evitano
le interferenze più clamorose.

1.4. La gestione dell’urgenza e l’improvvisazione regolata

Vi è una parte dell’imprevisto in qualunque azione pianificata. In una giornata in classe, un insegnante
prende centinaia di piccole e grandi decisioni. Quando un allievo inizia una risposta sbagliata o alza la
mano per porre una domanda, occorre decidere immediatamente.
Per agire nell’urgenza, l’attore a volte mobilita dei “riflessi” nel senso proprio del termine, o degli
schemi che provengono da non si sa dove, e che non lasciano minimamente spazio alla riflessione. Egli
pensa allora che si reagisce istintivamente, o spontaneamente. Bourdieu ha insistito sul fatto che noi
non reagiamo a caso, ma in funzione del nostro habitus, quindi nell’illusione della spontaneità e della
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libertà. In un primo tempo, e a volte in modo definitivo, l’insegnante, come qualsiasi altro attore in
caso d’urgenza, viene agito dal suo habitus, piuttosto che agire come soggetto autonomo. La nostra più
forte dipendenza è nei confronti della parte meno esplicita e riconosciuta del nostro habitus.
Anche al di fuori della presenza degli allievi, manca il tempo per pensare tranquillamente a tutto, in
dettaglio. Una parte dei preparativi didattici si fa nell’urgenza, a grandi tratti, e a volte non si fanno
nemmeno, per mancanza di tempo o di energia. Per avere del materiale, delle idee didattiche,
occorrerebbe lavorarci dei giorni. anche per l’insegnante più coscienzioso, ciò è impossibile. L’habitus
si investe nella preparazione delle lezioni e nella correzione dei compiti, così come nel tempo in classe,
anche se sono altri gli schemi che entrano in gioco.

1.5. Dr. Jakyll e Mr. Hyde?

Peggio sarebbe vedere l’insegnante come una specie di schizofrenico professionista, a momenti un Dr.
Jakyll cosciente di ciò che sta facendo, sostenuto dalla scienza e dalla ragione, ed in altri momenti Mr.
Hyde, preso dalla follia, che segue solo i suoi impulsi. In realtà, Dr. Jakyll e Mr. Hyde coesistono e
cooperano ad ogni istante e ciascuno riconosce l’esistenza dell’altro.la maggior parye delle loro azioni
dipende al contempo, in proporzioni diverse, dal pensiero razionale guidato da saperi e dalla reazione
governata da schemi meno coscienti, prodotti sia dalla loro storia di vita, sia dalla loro esperienza
professionale.
Non esiste ragione per rigettare l’habitus nel lato delle pulsioni. Il nostro io e la nostra parte di ragione
mettono ugualmente in gioco degli schemi di pensiero, di giudizio di cui non abbiamo coscienza netta.
L’habitus non si oppone ai saperi con l’istinto si opporrebbe alla ragione. Esso traduce la nostra
capacità di funzionare senza sapere, in un automatismo economico o per far fronte alle urgenze del
quotidiano. Ciò non significa che non funzioniamo senza sapere, senza rappresentazioni della realtà
passata, attuale, desiderabile. In ogni azione complessa, anche in una situazione d’urgenza o nel quadro
di una routine, manipoliamo delle informazioni, delle conoscenze personali. L’insegnante non si stanca
di trattare, creare, registrare informazioni e saperi. Ma è l’habitus che governa queste elaborazioni.

2. Presa di coscienza e trasformazione degli schemi


Riconoscere la parte dell’habitus nell’azione pedagogica costituisce un passo verso il realismo nella
descrizione del modo in cui gli insegnanti esercitano il loro mestiere. Ma come formarli nei registri in
cui la loro azione dipende in larga misura da schemi incoscienti? Due strategie possibili:
1. Trasformare le condizioni della loro pratica, per indurre un’evoluzione del loro habitus;
2. Favorire la presa di coscienza dei loro funzionamenti ed il passaggio di certe azioni sotto il
controllo della ragione

2.1. Alterare le condizioni della pratica


L’alterazione delle condizioni della pratica si manifesta per una serie di ragioni che, senza essere
fortuite, non rispondono ad alcuna logica di formazione: cambiamento di programmi e di metodi, delle
attese delle famiglie, del livello degli allievi. Nel corso degli anni, gli insegnanti cambiano istituto,
classe, ambiente materiale. Anche se restano sul posto, il mondo cambia attorno a loro.
Si può, ai fini della formazione, alterare intenzionalmente le condizioni della pratica? In formazione
continua, si possono suggerire delle prove, delle esperienze. Le cose sono diverse quando si parla di
formazione iniziale.
Seguendo il principio secondo cui “si apprende a nuotare nuotando”, ci si limita in generale ad
organizzare delle situazioni di esercitazione di certe competenze. Certo, si gioca sulla responsabilità

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limitata, non chiedendo al tirocinante di risolvere, in un colpo e nello stesso tempo, i problemi di un
lungo periodo. In questo modo, si forma l’habitus, ma in maniera tradizionale.

2.2. Condizioni ed effetti della presa di coscienza


Prendere coscienza di ciò che si fa non è così evidente. Certi atteggiamenti, certi modi di fare in classe
sono difficili da riconoscere, perché la presa di coscienza rivelerebbe un passato doloroso. Così, un
certo insegnante può prestare un’attenzione eccessiva a allievi che fanno rivivere in lui una
colpevolezza o una gelosia antiche, o che esercitano su di lui una sorta di fascino.
Si salvaguarda l’immagine di sé. numerose prese di coscienza sono inibite non perché risveglierebbero
direttamente un passato sepolto, ma perché metterebbero in luce dei comportamenti e delle attitudini
poco confessabili rispetto a quanto si pensa o si vorrebbe essere. Meglio però prenderne coscienza e
lavorare per dominare ciò che, nel nostro habitus, ad un certo momento della storia, infligge delle
sofferenze all’altro o ferisce noi stessi.
Che la presa di coscienza passi attraverso un lavoro su di sé e obblighi a superare delle resistenze più o
meno forti, impone semplicemente delle precauzioni, un metodo ed una etica.
Anche quando la presa di coscienza non è troppo sfuggente e diviene una vera conoscenza di sé, essa
non cambia i modi di fare governati dall’habitus. Tuttavia, se la presa di coscienza si ripete o se il suo
ricordo si attualizza, l’insegnante è capace di prendersi in flagranza di reato e di controllarsi. Interviene
allora lo sforzo volenteroso di non seguire la propensione più forte.
La presa di coscienza cambia l’habitus perché lo combatte in tempo reale e in situazione. Quando
questo cambiamento si ripete, il controllo diventa automatico e prende a sua volta la forma di quello
che si potrebbe chiamare “contro-schema”. Il nostro habitus è costituito da strati successivi di schemi,
di cui i più recenti inibiscono, prima in modo volontario, poi meno cosciente, la messa in opera di
schemi precedenti. L’accoppiamento tra uno schema d’azione ed uno schema inibitore forma a poco a
poco uno schema nuovo.

3. Dispositivi di formazione
Quali sono i dispositivi suscettibili a favorire la presa di coscienza e le trasformazioni dell’habitus? Se
ne distinguono 10:
1. La pratica riflessiva
2. Lo scambio sulle rappresentazioni e le pratiche
3. L’osservazione reciproca
4. La metacomunicazione con gli allievi
5. La scrittura clinica
6. La videoformazione
7. Il colloqui esplicativo
8. La storia di vita
9. La simulazione e i giochi di ruolo
10. La sperimentazione e l’esperienza

3.1. La pratica riflessiva


Si designa una forma di riflessività: un soggetto prende la propria azione, i propri funzionamenti
mentali per oggetto della sua osservazione e della sua analisi, egli tenta di percepire e di comprendere il
proprio modo di pensare e di agire.
È chiaro che ogni essere umano è dotato di riflessività; è una condizione di regolazione della propria
azione. Tuttavia, ciò diviene una vera leva di formazione solo se questo funzionamento riflessivo viene
valorizzato mediante strumenti.
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3.2. Lo scambio sulle rappresentazioni e le pratiche
Ogni confronto di rappresentazioni e di pratiche favorisce la presa di coscienza. Ciò che qualcuno
sperimenta come buon senso, può non esserlo per qualcun altro.
La fenomenologia ha insistito sulla parte del taken for granted (dato per scontato) nella nostra
costruzione della realtà. Noi attiviamo degli schemi, delle routine, dei metodi per addomesticare il
reale. È scoprendo altre culture che si comprende che sorride, alzare o abbassare la testa non hanno lo
stesso significato in tutte le società.
Occorre tuttavia, perché queste prese di coscienza si realizzino, creare un clima che permetta di
raccontare ciò che si fa senza temere il ridicolo, la disapprovazione.

3.3. L’osservazione reciproca


Si tratta ovviamente di un completamento allo scambio sulle pratiche. Vedersi funzionare
reciprocamente in classe permette un interrogarsi reciproco che va al di là di quanto si possa chiedere
agli altri in un gruppo di analisi delle pratiche, perché fa riferimento ad una realtà condivisa, che la
persona osservata non controlla quindi totalmente.
L’esperienza può essere abbastanza dura: quando un’insegnante che non occupa mai la sua cattedra
(perché non vuole esercitare la funzione magistrale) si arrabbia con un alunno se si siede al suo posto,
lei non vede necessariamente la contraddizione. Salvo se qualcuno l’osserva. È importante che
l’osservazione reciproca sia garantita dalle regole del gioco accettate di comune accordo e che
definiscano gli obiettivi dell’osservazione e le modalità del feedback.
L’osservazione tra pari non è facile da creare. Nella formazione iniziale, l’osservazione non è
simmetrica; il tirocinante osserva il formatore sul campo che lo accoglie e quest’ultimo osserva il
tirocinante; ma non hanno gli stessi diritti, gli stessi obiettivi¸ tuttavia, in un tirocinio guidato, ciascuno
ha parecchie occasioni per osservare l’altro in situazioni che non controlla costantemente e che alterano
la sua serenità.

3.4. La metacomunicazione con gli allievi


Persino gli alunni molto giovani non si lasciano sfuggire nulla. Essi sono particolarmente sensibili a dei
comportamenti apparentemente senza importanza dei loro insegnanti, per due motivi:
- Rispetto agli adulti sono meno presi dalla preoccupazione di gestire la classe, azione che rende
ciechi alle cose piccole
- Il senso della loro vita a scuola dipende da queste piccole cose
Così, gli allievi sanno meglio dell’insegnante quando e perché lei urla, come si sposta, come manifesta
il suo fastidio ecc… per ascoltarli, occorre naturalmente che la relazione pedagogica sia globalmente
positiva e che il contratto permetta tali scambi.
Quando si fanno parlare gli alunni su ciò che provano, del clima, del loro rapporto con il sapere, essi
dicono molte cose che rimandano all’insegnante, una immagine nitida dei modi in cui egli funziona,
tratta gli errori, i disordini: tutto ciò attraverso cui la faccia più nascosta dell’habitus si rivela.

3.5. La scrittura clinica


Viene dimostrata l’importanza della concretezza nella formazione degli insegnanti, quindi la legittimità
dei formatori che assicurano la mediazione tra l’ambiente professionale e l’università. Per mostrare che
si può formare a partire dalle storie vissute, senza raccontare la propria storia, i laboratori di scrittura
sono dei luoghi privilegiati.
Scrivere sulla propria pratica didattica è un altro modo di parlare a se stessi. Esistono mille forme di
scrittura. La scrittura permette di mantenersi a distanza, di tentare delle interpretazioni.
Si può immaginare una scrittura privata, vicina al diario di bordo.
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3.6. La videoregistrazione
Nella formazione degli insegnanti, non è che il video sia fuori moda, piuttosto la speranza di poter
allenare alcuni comportamenti senza passare attraverso l’analisi. In questo senso le esperienze di
videoformazione facilitano la presa di coscienza piuttosto che modellare i comportamenti. Bisogna
insistere sulla forza dell’immagine per farci comprendere le nostre maniere di parlare, di muoverci, di
comunicare attraverso dei segni non verbali l’interesse o la noia? Per prendere coscienza, ad esempio,
dei dilemmi della comunicazione in classe un video è più efficace di un discorso.

3.7. Il colloquio clinico


Si potrebbero sviluppare dei colloqui di formazione meno impegnativi, ma realizzabili da numerosi
formatori, compresi i formatori sul campo. Il fondamento di questa pratica poggia sul postulato chenoi
sappiamo più di quanto crediamo, ma abbiamo una consapevolezza confusa dei nostri atti e dei loro
motivi.
Si può sognare di trasformare a poco a poco il rapporto tra tirocinante e formatore sul campo in un
colloquio incrociato di esplicitazione. Questo presuppone che ciascuno abbia il diritto di interrogare
l’altro con una certa insistenza, per ricondurlo a riconosce la “grammatica generatrice” delle sue parole
e dei suoi gesti.

3.8. La storia di vita


Ci si volge verso una memoria più a lungo termine, che aiuta a ricostruire l’origine di certe reazioni, a
viverne in qualche misura la genesi, prima che esse si automatizzino. Può essere che si accaduto a sei o
otto anni che un futuro insegnante si sia abituato, prima di entrare in un negozio o affrontare degli
sconosciuti, a costruirsi uno scenario, nella speranza, ogni volta smentita, che così si sarebbe meglio
controllata la situazione. Ciò permette di comprendere perché, venti o trenta anni più tardi, egli entra
ancora in classe prigioniero di uno scenario dettagliato e si trovi sempre così sconcertato quando non si
sviluppa come previsto.

3.9. La simulazione e i giochi di ruolo


Molto utilizzata in altri percorsi di formazione, la simulazione resta marginale nella formazione degli
insegnanti. Tuttavia permette di commisurarsi con la complessità di una situazione realtà, ma fittizia,
dunque con un distacco più grande, con la possibilità di osservarsi con curiosità.
I giochi di ruolo non necessitano di tanta informazione, obbligano ad improvvisare a partire da una
situazione appena abbozzata, assumendo il ruolo di uno dei personaggi implicati. Il carattere ludico
della pratica permette le messe in situazione più insolite. Così, in un gioco simulante un incontro tra un
insegnante e i genitori di un alunno, gli interventi inattesi di quest’ultimo, interpretati da un insegnante,
destabilizzano gli adulti e rivelano il loro funzionamento autoritario, che smentisce il loro discorso
centrato sul bambino.

3.10 La sperimentazione e l’esperienza


Che cosa fa un professore quando, chiamato al telefono durante una lezione, ritrova l’aula vuota? O
occupata da allievi sconosciuti? Egli misura la forza delle proprie certezze e la natura delle proprie
paure.
[continua ma boooh]

4. Formare alla lucidità?


Il ruolo dell’esperienza nella genesi dell’habitus, immaginato a partire da una prospettiva sociologica,
dovrebbe essere analizzato alla luce dei lavori sui processi di apprendimento.
35
In ogni campo di sapere esperto, all’interno di ogni didattica di una disciplina, c’è posto per l’habitus
sotto i suoi lati più nascosti: in rapporto al sapere, all’errore, all’incertezza, alla coerenza, ciascuno
mobilita non solo la sua logica naturale, ma anche altri schemi che, pur se trattano di saperi, si
ancorano in una storia, in relazioni, gusti, affetti.
Si dà il caso che solamente alcuni tratti dell’habitus siano attivati da una grande varietà di situazioni,
perché rimandano a processi abbastanza generali in un gruppo di insegnamento, mentre altri schemi
hanno pertinenza solo in un repertorio molto particolare di funzionamento.
Nei mestieri dell’umano la lucidità è una competenza professionale. Si può sperare di svilupparla in
maniera metodica, di inscriverla nell’habitus? Non serve a nulla in effetti decidere a priori di essere
lucido.

Capitolo 10. L’insegnante come “attore razionale”: quale razionalità,


quale sapere, quale valutazione?

Che cosa bisogna intendere per “sapere” quando questa espressione è utilizzata in espressioni come: “il
sapere degli insegnanti”, “il saper insegnare”? In effetti, che cos’è il “sapere”? Che cos’è un “sapere”?
Si tenta di analizzare il “sapere degli insegnanti” secondo una prospettiva socio-storica centrata, da un
lato, sullo studio dell’evoluzione dei contenuti e delle forme di questi saperi all’interno della scuola e
delle istituzioni scolastiche; dall’altro, sull’analisi del lavoro dell’insegnante come quadro socio-
professionale a partire dal quale questi stessi saperi sono sottoposti a vincoli diversi che ne determinano
la natura e l’uso.

1. Giochi di potere e posta in gioco del sapere nella ricerca


Le interrogazioni attuali relative ai saperi professionali, alle professioni, all’insegnamento ecc… sono
diventate al giorno d’oggi in qualche modo delle metaquestioni e delle trans-questioni. Si tratta in
effetti di questioni primarie, di principio (“meta”), dalle quali derivano innumerevoli questioni
importanti. Allo stesso tempo, esse nutrono e attraversano (“trans”) molte problematiche e molte
discipline. Per esempio, pensiamo alle questioni dell’expertise e dell’esperto che attraversano
attualmente la psicologia e la sociologia cognitiva, l’intelligenza artificiale ecc…
Qual è il costo che le nostre società sono pronte a pagare per credere nei loro esperti? Questa questione
dell’esperienza è, dunque, anche una questione di potere, una questione socio-politica.

1.1 Necessità di un percorso critico


Tali questioni potranno forse sorprendere alcuni, che le troveranno troppo critiche. Pensiamo che è
necessario oggi provocare uno spostamento di prospettiva in rapporto a questi oggetti di conoscenza,
divenuti ormai “ipervisibili” nello spazio delle scienze dell’educazione, e che costituiscono nello stesso
tempo dei campi di azione in seno ai quali si dispiegano oggi diversi progetto più o meno concorrenti di
trasformazione e di miglioramento delle pratiche professionali e delle pratiche di formazione. Ora, di
fronte a questa ipervisibilità e a questa saturazione, noi crediamo che un tale esercizio critico possa
rivelarsi utile soprattutto sul piano di una pedagogia della conoscenza.
Un professionista dovrebbe essere in grado di analizzare delle situazioni complesse in riferimento a
molte griglie di lettura, di fare delle scelte rapide e riflessive di strategie adatte agli obiettivi.

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1.2. Due eccessi della ricerca
Ci sembra che le ricerche sul sapere dell’insegnante, la professione e la formazione degli insegnanti
siano caratterizzati da due eccessi: (a) “l’insegnante è uno scienziato” e (b) “tutto è sapere”.

a) L’insegnante è uno scienziato


Il primo di questi eccessi risiete nell’idea che l’insegnante si definisce essenzialmente come un attore
dotato di razionalità fondata solo sulla conoscenza. Nelle scienze dell’educazione, molti concetti attuali
del sapere dell’insegnante si fondano su un modello dell’attore che essi dotano di una razionalità
definita come un repertorio di competenze pensati in termini quasi esclusivi di saperi, di conoscenze.
Questo modello comporta, alla maniera della vecchia ideologia comportamentista, una visione
scientifica dell’insegnamento

b) Tutto è sapere
Il secondo aspetto è quello che si può definire approccio etnografico. L’eccesso etnografico consiste
nel tasformare tutto in sapere, cioè nel trattare ogni produzione simbolica, ogni pratica orientata ecc…
come se procedessero dal sapere. In questo spirito, tutto diventa sapere: le abitudini, le emozioni,
l’intuito, i modo di fare… ma allora a che scopo parlare di sapere se tutto è sapere? Questa nozione
perde così ogni significato. Il problema non consiste nel sostenere l’esistenza di saperi informali,
quotidiani, esperienziali…, consiste nel disegnare questi diversi saperi con l’aiuto di una nozione vaga,
indefinita. Di fatto, nessuno è capace di produrre una definizione di sapere che soddisfi tutto, perché
nessuno sa in modo certo cos’è un sapere.

2. Le concezioni del sapere: le idee di esigenza di razionalità e il suo interesse per la ricerca
È tuttavia possibile proporre una definizione del sapere che, senza essere accettata da tutti, possieda
una forte validità, almeno nella tradizione intellettuale occidentale. Nel quadro della cultura della
modernità, il sapere è definito in tre modi, in funzione di tre “luoghi”: la soggettività, il giudizio,
l’argomentazione.

2.1. Tre concezioni del sapere


a) Il soggetto, la rappresentazione
Si può chiamare sapere il tipo particolare di certezza soggettiva prodotta dal pensiero razionale
(Decartes). Questa concezione del sapere la oppone agli altri tipi di certezze soggettivo, fondate, per
esempio, sulla fede o sulla convinzione. Essa si oppone al dubbio, all’immaginazione ecc… Secondo i
sostenitori di questa concezione, la soggettività è considerata come il “luogo” del sapere. Sapere
qualcosa, è possedere una certezza soggettiva razionale.
Da un punto di vista globale, le scienze cognitive s’interessano allo studio delle regole che reggono i
processi cognitivi (memoria, apprendimento…) assimilati a dei fenomeni rappresentativi, cioè a
simboli legati da una sintassi. In questo senso, il sapere cognitivo è un sapere soggettivo: è una
costruzione generata dall’attività del soggetto. Infine, il sapere cognitivo ideale è strettamente
concepito secondo il modello delle scienze empiriche della natura e della logica matematica. In questa
concezione del sapere, l’ideale della razionalità è il pensiero logico-matematico e il sapere ideale è la
matematica.

b) Il giudizio, il discorso assertivo


Si può chiamare spesso il giudizio vero, cioè il discorso che afferma con razione qualcosa di qualcosa.
Il giudizio è per così dire il “luogo” del sapere. Il giudizio rinvia alla dimensione assertiva del sapere.

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In effetti, noi chiamiamo saperi i discorsi che affermano qualcosa di bero sulla natura della realtà o di
tale fenomeno particolare.
A differenza della prima concezione, il sapere risiede dunque nel discorso, un certo tipo di discorso,
piuttosto che nello spirito soggettivo. Notiamo che in questa concezione, solo i discorsi che vertono sui
fatti possono essere definiti come saperi in senso stresso: il sapere si limita la giudizio di fatto ed
esclude i giudizi di valore, il vissuto, l’impegno politico: questi sono esclusi dall’ordine positivista del
sapere.

c) L’argomento, la discussione
Secondo questa concezione, sipuò chiamare sapere l’attività discorsiva che consiste nel tentare di
confermare con l’aiuto di argomenti e di operazioni linguistiche, una proposizione o un’azione.
L’argomentazione è dunque il “luogo” del sapere. Sapere qualcosa è non solo assumere un giudizio
vero su qualche cosa, è anche essere capaci di stabilire per quali ragioni questo giudizio è vero. Il
sapere implica sempre l’altro, cioè una dimensione sociale fondamentale, nella misura in cui il sapere è
appunto una costruzione collettiva di natura linguistica generata da discussioni, scambi discorsi tra
esseri sociali.

2.2. Sapere ed esigenze di razionalità


Malgrado le differenze importanti, queste tra concezioni hanno qualcosa in comune: esse collegano
sempre la natura del sapere a delle esigenze di razionalità. In un caso, queste esigenze hanno per
fondamento il pensiero di un soggetto razionale; nell’altro, esse hanno per fondamento l’atto di
giudicare; infine, nell’ultimo caso, esse si fondano su argomentazioni, cioè su razionalizzazioni.
Si propone, dunque, di ricongiungere in modo globale la nozione di sapere a questa idea di esigenze di
razionalità; da ciò deriva un certo numero di conseguenze intellettuali importanti per la ricerca sui
saperi degli insegnanti.
1. Chiamiamo d’ora in poi sapere solo i pensieri, le idee, i giudizi, i discorsi, che obbediscono a
certe esigenze di razionalità.
2. Diremo che queste esigenze sono rispettate ad un livello minimo quando l’attore al quale ci
indirizziamo è capace di fornire delle ragioni
3. ???
4. Il metodo migliore per accedere a queste esigenze di razionalità in atto presso il locutore/attore
è quello di interrogarlo sul perché, cioè sulle cause, le ragioni, i motivi del suo discorso o della
sua azione. Quest’idea di esigenze di razionalità rinvia ad un modello intenzionale dell’attore
umano, cioè essa procede dall’idea che la gente agisca non come una macchina, ma in funzione
di scopi, di mezzi.
5. Ne discende che una delle principiali strategie di ricerca in accordo con questa visione del
sapere consiste nell’osservare degli attori e/ parlare con loro, ma interrogandoli sulle ragioni di
agire o discutere, cioè sui saperi sui quali essi si fondano per agire o discutere.

2.3. Razionalità, saperi comuni e impliciti


Quest’ultima idea è importante, perché afferma che lo studio delle ragione dell’agire o del discutere
permette di accedere ai saperi degli attori. Quando discutiamo su un argomento qualunque, qualcuno si
può domandare: “perché dite questo?”. Lo stesso accade per i nostri atti: “perché fate ciò?”. Quando
siamo di fronte a queste domande, noi possiamo tentare di rispondere servendosi di argomentazioni
destinate a giustificare le ragioni dei nostri detti o dei nostri atti. In tal caso, adottiamo sempre un
atteggiamento “argomentativo”.

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Inoltre, in campo scientifico o altrove, è impossibile dubitare di tutto (come Cartesio), o non sapere
nulla (Socrate). Un sapere è contestato e contestabile a partire da un altro sapere. Se si contesta la
razionalità di un discorso o di un’attività, è perché ci si riferisce a una certa idea di ciò che è razionale.

2.4. L’interesse di questo approccio per lo studio del sapere degli insegnanti
Ma a che cosa è pertinente introdurre questa idea di esigenza di razionalità per definire la nazione di
“sapere degli insegnanti”?
Pensiamo che gli attori sociali sono essi stessi dotati di razionalità, cioè della capacità di agire,di
parlare e di pensare, ordinando un ordine di ragioni per orientare la loro pratica. Gli attori sociali sono
dotati, per la loro appartenenza ad un contesto di vita sociale, di competenze estremamente
diversificate, che si traducono concretamente in procedure e in regole d’azione che essi usano per
orientarsi nelle diverse situazioni sociali. Inoltre, l’uso di queste procedure non si fa meccanicamente,
ma esige dagli attori sociali una “riflessività”, cioè la capacità linguistica di “dimostrare” e di
“ritornare” sulle procedure e sulle regole dell’azione, di modificarle e di adattarle alle numerose
circostanze concrete delle situazioni sociali. Si può dunque affermare, senza dubbio, che l’educazione
attuale presenta un contenuto razionale molto forte.
I saperi dei docenti esperti sono dei sapere a fondamento razionale e non dei saperi consacrati: essi
traggono il loro valore dal poter essere criticati, migliorati, resi più esatti.

3. Il sapere insegnante: una ragione pratica, sociale e rivolta verso gli altri
Come vediamo l’insegnante?

3.1. Un professionista dotato di ragione e messo a confronto con dei vincoli contingenti
Gli insegnanti vengono qui considerati come dei professionisti dotati di ragione; inoltre si pensa che
siano portatori di giudizi, prendano decisioni in quei sistemi di azione complessi che sono le classe.
Come la gran parte dei lavoratori e dei professionisti, l’insegnante sa nella maggior parte dei casi
perché egli dice o fa qualcosa, nel senso in cui egli parla e agisce in funzione di ragioni, di motivi che
gli servono a determinare i suoi giudizi professionali nel suo contesto di lavoro.
Per raggiungere le finalità pedagogiche inerenti al suo lavoro, l’insegnante deve prendere decisioni in
funzione del contesto che è il suo. Ora, prendere delle decisioni è giudicare. Questo giudizio si basa sui
saperi dell’insegnante, cioè su delle ragioni che lo inducono ad esprimere tale giudizio e ad agire di
conseguenza.

3.2.L’insegnante non è uno scienziato: gamma dei giudizi


Seguendo questa visione, l’insegnante non è uno scienziato, cioè il suo scopo non è la produzione di
nuove conoscenze e nemmeno la conoscenza di teorie esistenti. L’insegnante non è nemmeno uno
scienziato, nel senso che i suoi giudizi non si riducono a dei giudizi empirici, ma coprono uno spettro
molto più largo di giudizi.
Il saper insegnare, dunque, rinvia ad una pluralità di saperi. Questa pluralità di saperi si forma in
qualche modo “un serbatoio”, nel quale l’insegnante attinge le sue certezze, dei modelli semplificati di
realtà, delle ragioni, per confermare i suoi giudizi in funzione della sua azione.
L’insegnante si basa su più tipi di giudizi per strutturare ed orientare la sua attività professionale. Per
esempio, egli si basa spesso su dei valori morali o delle norme sociali per prendere una decisione.

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3.2. L’idea di giurisprudenza: una pista promettente per la pedagogia
I ricercatori in educazione che si interessano alla formazione degli insegnanti dovrebbero osservare lo
stabilirsi di una giurisprudenza della pedagogia. Questa espressione significa che l’attività
dell’insegnante non deriva da giudizi scientifici, ma si avvicina per molti aspetti alle modalità del
giudizio giuridico; quindi, i saperi pedagogici hanno qualcosa a che vedere con i saperi giuridici.
Mentre il giudizio scientifico si concentra sullo stato della realtà, il giudizio giuridico è sempre un
giudizio sociale. Il giudizio dell’insegnante è anch’esso un giudizio sociale, nella misura in cui il suo
dominio di giurisdizione è costituito dalla sfera delle interazioni tra l’insegnante e gli allievi.
Il giudizio giuridico non pretende il rigore scientifico né una sua universalità. I giudizi dell’insegnante
non hanno la durata e la stabilità dei giudizi scientifici poiché i loro campi di applicazione cambiano, i
gruppi e gli allievi variano ecc…; essi devono di conseguenza adattarsi a delle situazioni nuove,
chiarire delle circostante nuove che si presentano alla pratica pedagogica.

3.3. La ragione pedagogica e i suoi contenuti


Si insiste sui contenuti e sulla specificità del giudizio dell’insegnante. Quali sono gli oggetti dei saperi
dell’insegnante?

a) Un postulato: i saperi sono legati al lavoro?


La questione dei saperi è strettamente legata alla questione del lavoro dell’insegnante nel contesto
scolastico, alla sua organizzazione, ai vincoli oggettivi e soggettivi che implica per i docenti esperti. È
allo stesso modo legata ad ogni contesto sociale nel quale si inserisce la professione insegnante e che
determina in modi diversi i saperi richiesti e acquisiti dall’esercizio del mestiere.

b) Il rapporto con gli altri


L’azione professionale dell’insegnate è strutturata da due serie di vincoli: i vincoli legati alla
trasmissione della materia (vincoli di tempo, di valutazione…) e i vincoli legati alla gestione
dell’interazione con gli allievi (ex. Mantenimento della disciplina). Il lavoro dell’insegnante nel
contesto scolastico consiste nel fare convergere queste due serie di vincoli.
La trasmissione e la gestione sono delle funzioni così importanti che tutta l’organizzazione scolastica è
congegnata per facilitare la loro convergenza e offrire agli insegnanti un quadro di lavoro già
strutturato in funzione di queste due serie di vincoli.
Per poter essere incisivo, l’insegnante deve “corteggiare il consenso dell’altro in vista di vincere la
sfida dell’apprendimento”. Questo rapporto con l’uditorio è al centro spesso della concezione
argomentativa del sapere dell’insegnante. Insegnare è obbligatoriamente entrare in relazione con gli
altri.

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