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Approfondimenti unità 1

Lévi-Strauss ⟨ levì stròs⟩ , Claude. - Antropologo francese (Bruxelles 1908 - Parigi 2009). Massimo
teorico dello strutturalismo applicato agli studi antropologici, la sua opera è imprescindibile per spessore
cognitivo e profondità analitica, e costituisce uno degli assi cardinali delle scienze umane contemporanee.
Nel tentativo di cogliere le strutture profonde, universali e atemporali, che soggiacciono al pensiero
umano, L.-S. è giunto a postulare l'esistenza di una logica binaria che, allo scopo di classificare e ordinare
il mondo, costruisce categorie mediante un sistema bipolare di opposizioni o contrasti (caldo versus
freddo, crudo versus cotto, destra versus sinistra ecc.). Alla luce di questa fondamentale acquisizione L.-
S. ha indagato alcuni temi nodali dell'agire umano, quali i sistemi di parentela e il pensiero mitico:
attraverso lo studio dei primi ha proposto una ineguagliata lettura dell'incesto in quanto invarianza
transculturale, funzionale e necessaria allo scambio e alla comunicazione tra gruppi umani secondo le
modalità della reciprocità, mentre nel vasto corpus di miti amerindiani ha individuato il luogo potente di
una logica che informa il complesso sistema di relazioni tra individuo, struttura sociale ed ecosistema.
Vita e opere
Professore all'università di San Paolo in Brasile (1935-38), poi alla New school for social research di New
York (1942-45), all'École pratique des hautes études di Parigi (dal 1950), infine al Collège de France
dove (dal 1959 al 1982) ha insegnato antropologia sociale. Dal 1973 è accademico di Francia. Durante il
soggiorno in Brasile condusse ricerche etnografiche in zone ancora poco esplorate (Amazzonia, Mato
Grosso): frutto diretto di tali lavori è il volume La vie familiale et sociale des Indiens Nambikwara (1948;
trad. it. 1970). Negli anni del secondo conflitto mondiale, L.-S. soggiornò negli S.U.A., dove entrò in
contatto diretto con la tradizione etnografica di F. Boas e con le più generali prospettive teoriche
dell'antropologia culturale. Di estrema importanza fu l'incontro con la linguistica strutturale, e in
particolare con R. Jakobson (1942). Primi segni della fecondità dell'incontro si trovano già in alcuni saggi
(poi raggruppati nel volume Anthropologie structurale, 1958; trad. it. 1966), nei quali si applicano i
metodi dell'analisi strutturale in linguistica allo studio di fenomeni, come la parentela o il mito, che,
secondo L.-S., si prestavano facilmente a un simile tentativo. Fondata su una analoga assunzione teorica e
metodologica è la prima grande opera di L.-S., Les structures élémentaires de la parenté (1948; trad. it.
1969). In questo studio monumentale, che rappresenta un punto di riferimento teorico imprescindibile per
qualsiasi studio sull'argomento, L.-S. elabora una nuova teoria della parentela. Egli, partendo dall'analisi
di aspetti fino allora non ben comprensibili delle relazioni di parentela (il matrimonio preferenziale tra
cugini incrociati - figli di germani di sesso differente -; l'esclusione del matrimonio tra cugini paralleli -
figli di germani dello stesso sesso -; le organizzazioni dualiste), riesce a mostrare come tutti questi
comportamenti siano espressione di un unico modello strutturale elaborato a partire da alcuni principî
elementari. Per L.-S. l'elemento centrale nella costituzione delle unità e dei gruppi di parentela è l'unione
matrimoniale, che egli considera essere uno scambio, messo in atto dai maschi, delle donne e delle loro
capacità riproduttive. L.-S. coglie in questo modo alcuni principî elementari dell'organizzazione di tutte le
società umane, in primo luogo il principio bifronte dell'incesto e dell'esogamia. Gli uomini non possono
contrarre unioni sessuali e matrimoniali all'interno di una sfera, culturalmente variabile, ma socialmente
necessaria, di individui. Tutte le società umane, a partire da questa assunzione negativa, si danno regole
positive per definire un'area, più o meno ampia, di evitazione dell'unione matrimoniale. Per L.-S. il
divieto dell'incesto rappresenta il principio che consente ai gruppi umani di passare da una condizione
puramente naturale, pre-sociale, a una condizione culturale, di uscire dalla natura per collocarsi nella
cultura. Solo vietandosi alcune donne, quelle sulle quali hanno più stretto controllo, i maschi possono,
attraverso lo scambio, stabilire le prime relazioni sociali. Alla base dello scambio opera un principio
mentale elementare: l'idea di reciprocità, che consente, almeno idealmente, e fondandosi su un piano
inconscio, il realizzarsi stesso dello scambio delle donne. Fin da quest'opera troviamo espressi i principali
nodi problematici, e le scelte metodologiche, intorno ai quali si svolgerà il pensiero di Lévi-Strauss.
Insieme all'attenzione per i sistemi sociali e culturali colti nei loro elementi costitutivi e soprattutto nelle
reciproche relazioni, vi sono: la tematica filosofica del rapporto tra natura e cultura, e la corrispondente
attenzione all'agire di principî mentali, spesso inconsapevoli, universali, che informano l'organizzazione
dei sistemi di relazioni; la tematica psicologica, con la sua attenzione all'analisi di simili principî
elementari del pensiero umano; la ricerca di ambiti delle società umane nei quali sia più immediata la
possibilità di cogliere, nella loro capacità di organizzare sistemi di relazioni, simili principî elementari. Il
problema del rapporto tra natura e cultura, e quello a esso collegato del rapporto tra aspetti strutturali,
universali del funzionamento della mente umana e della società e aspetti storici, torna, esplicitato, in
alcuni scritti degli anni Cinquanta e Sessanta (Race et histoire, 1952, trad. it. 1967; Tristes tropiques,
1955, trad. it. 1962). Di particolare importanza la critica a una visione evoluzionistica delle società umane
che, in L.-S., sono connotate ognuna da una ritmicità storica peculiare. Alla contrapposizione etnocentrica
e ottocentesca di "primitivo" e "civilizzato", L.-S. oppone la famosa dicotomia tra "società calde" e
"società fredde", ovvero tra società caratterizzate da un elevato grado di accettazione e di accentuazione
della dinamicità, dell'evento, del mutamento, e società tese, invece, a congelare il fluire degli eventi, della
storia. Alcune rivoluzioni tecnologiche e culturali (in partic., quella neolitica) e particolari condizioni
sociali (la facilità di comunicazione tra società diverse e insieme vicine) rappresentarono, secondo L.-S.,
gli eventi che dovettero favorire la creazione di aree storiche particolarmente "calde". Il nodo cognitivo è
invece affrontato in due fondamentali lavori dedicati alle forme di pensiero che più sembrano
caratterizzare le società non occidentali: Le totémisme aujourd'hui (1962) e La pensée sauvage (1962;
trad. it. 1964). Anche in questo caso L.-S. si allontana dalle idee comunemente accettate per elaborare una
prospettiva che, rispettando e anzi meglio comprendendo le forme di vita non occidentali, le connette
profondamente a quelle che ci sono più familiari. Il "pensiero selvaggio" è una modalità del pensare
umano che, peculiare a tutti gli uomini di tutte le culture, caratterizza, per ragioni storiche e strutturali,
alcuni settori della nostra società e, soprattutto, le culture non occidentali. Si tratta di una forma logica di
pensiero che, piuttosto che agire per astrazione, classificazione e sublimazione di qualità, o per
gerarchizzazione logica di classi ideali, opera, partendo da una particolare attenzione alle qualità sensibili
del reale considerate nella loro capacità di fungere da segni, per produrre una continua rete di simboli e di
significati. In questa ottica i fenomeni di identificazione tra animali (o altri esseri e fenomeni naturali) e
individui e/o gruppi, noti come totemismo, divengono particolari espressioni di questa esigenza concreta e
classificatoria, logica e simbolica, del "pensiero selvaggio". La logica del "pensiero selvaggio" è colta da
L.-S. nel mito, fenomeno il cui studio, anticipato da saggi degli anni Cinquanta, ha occupato L.-S. tra il
1960 e il 1970 (Mythologiques, 1°: Le cru et le cuit, 1964, trad. it. 1966; 2°: Du miel aux cendres, 1966,
trad. it. 1970; 3°: L'origine des manières de table, 1968, trad. it. 1971; 4°: L'homme nu, 1971, trad. it.
1974). Analizzato da una prospettiva strutturale, il corpus dei miti indigeni del continente americano si
rivela organizzato da una logica coerente, a sua volta pienamente comprensibile quando si assumano le
procedure cognitive del "pensiero selvaggio" e le si mostrino in specifici contesti ecologici, sociali e
culturali. Logica che rende comprensibili le trasformazioni cui i miti sono sottoposti nel loro propagarsi
da società a società. Terminata l'impresa delle Mythologiques, L.-S. ha affrontato problemi di natura
estetica, già analizzati negli anni Cinquanta (La voie des masques, 1975; trad. it. 1985), tornando poi a
riflettere sulla parentela (Le regard éloigné, 1983, trad. it. 1984; Histoire et ethnologie, 1983) e sul mito
(La potière jalouse, 1985, trad. it. 1987; Histoire de Lynx, 1991, trad. it. 1993). In Regarder, ècouter, lire
(1993; trad. it. 1994), l'autore individua, attraverso le proprie esperienze nei vari campi dell'arte, la rete di
corrispondenze che sono alla base del giudizio estetico.

Augé, Marc. - Antropologo francese (n. Poitiers 1935). Noto per le sue ricerche in Africa occidentale, è
passato poi ad occuparsi di un’antropologia dei mondi contemporanei e della dimensione globale e
cosmopolita che accomuna i popoli coloniali e l’Occidente. Già directeur d’études presso L’École des
hautes études di Parigi, è tra i pensatori più significativi dell'antropologia contemporanea.
Opere e pensiero. Acquisita una grande rinomanza in campo antropologico grazie alle sue ricerche sul
campo in Costa d’Avorio e nel Togo concernenti la malattia, la morte e i sistemi religiosi, ricerche poi
codificate nei suoi primi tre saggi (Le Rivage alladian, 1969; Théorie des pouvoirs et idéologie, 1975;
Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort, 1977; trad. it. 2003), si è orientato successivamente verso una
'antropologia del quotidiano' che ha trovato campo privilegiato di analisi negli spazi moderni (autogrill,
centri commerciali, alberghi e in senso generale tutti gli spazi topografici in cui si svolgono i riti
dell'afflusso e del consumo di massa) dominati dall’assenza di storia, identità, relazioni. In base a ciò, ha
elaborato la teoria dei 'nonluoghi' come spazi estranianti e deculturalizzati che giacciono concettualmente
all'estremo opposto del 'luogo antropologico', teoria che ha conosciuto la sua migliore espressione in
quelli che sono i suoi lavori più noti: Un ethnologue dans le métro (1985; trad. it. 1992) e Non-lieux:
introduction a une anthropologie de la surmodernité (1992; trad. it. 2005). Tra le sue altre opere va fatta
menzione di Le temps en ruines (2003; trad. it. Rovine e macerie. Il senso del tempo, 2004) e di La mere
d’Arthur (2005; trad. it 2005). Pensatore a tutto campo, le sue serrate analisi della contemporaneità (tra le
più recenti occorre segnalare ancora L'anthropologie, 2004; trad. it. L'antropologia del mondo
contemporaneo, 2006) hanno lasciato talvolta spazio a riflessioni sui valori di alcuni aspetti oggi desueti
della prassi umana (Eloge de la bicyclette, 2008; trad. it. 2008) o a testi fluidi e personalissimi quali
Casablanca (2007; trad. it. 2008), in cui il filo delle immagini filmiche riconnette l'autore alla corrente di
emozioni e ricordi del passato e lo conduce a indagare i singolari meccanismi della memoria. Nel saggio
Le métro revisité (2008; trad. it. 2009) A. è tornato a riflettere, a oltre venti anni di distanza da Un
ethnologue dans le métro, sulla metropolitana parigina come luogo privilegiato di un'indagine sulla
modernità, mentre in Où est passé l'avenir (2008; trad. it. 2009) ha denunciato in termini filosofici e
politici il rischio di un "dominio del presente" che comprime ogni profondità temporale ed espropria la
società contemporanea della sua storia e del suo futuro e in Pour une anthropologie de la mobilité (2009;
trad. it. 2010) ha indagato sul concetto di confine per cercare di comprendere le contraddizioni della storia
contemporanea. Tra le sue opere successive vanno citate: l'autobiografia intellettuale La vie en double
(2010, trad. it. Straniero a me stesso. Tutte le mie vite di etnologo, 2011); Journal d'un SDF. Ethnofiction
(2011), opera tra il racconto e il saggio sociologico tradotta nello stesso anno in Italia; il testo
breve pubblicato in Italia sotto il titolo Futuro (2012), sul concetto di futuro e sul suo rapporto con il
passato e la sua interpretazione; Les nouvelles peurs (2013; trad. it. 2013), saggio breve in cui vengono
analizzate le paure dell'Occidente ed enucleati i possibili sviluppi di tale malessere generalizzato;
L'anthropologue et le monde global (2013; trad. it. 2014), testo sugli effetti paradossali della
globalizzazione; Une ethnologie de soi. Le temps sans âge (2014; trad. it. Il tempo senza età. La vecchiaia
non esiste, 2014), riflessione sulla necessità di fondare un'etnologia della vita individuale basata sulla
soggettività; il saggio breve Eloge du bistrot parisien (2015; trad. it. Un etnologo al Bistrot, 2015). Nel
2016 sono stati editi in Italia Football. Il calcio come fenomeno religioso, traduzione di un saggio
pubblicato nel 1982 sulla rivista Le débat in cui l'antropologo analizza il tifo come fatto sociale che
sfugge a ogni indagine razionale, Prendere tempo. Un'utopia dell'educazione. Conversazione con Filippo
La Porta, e Le tre parole che cambiarono il mondo (ed. or. La sacrée semaine: qui changea la face du
monde, 2016), dissacrante riflessione sul sacro.

De Martino, Ernesto. - Storico delle religioni ed etnologo meridionalista italiano (Napoli 1908 - Roma
1965). A lui si devono un'interpretazione storicista delle manifestazioni religiose e alcune innovative
ricerche nel Meridione basate sull'osservazione partecipante e sul lavoro di équipe interdisciplinari.
Vita e pensieroAllievo di A. Omodeo, fu prof. di storia delle religioni nell'univ. di Cagliari. La sua
nterpretazione storicista delle manifestazioni religiose, basata su di una formazione filosofica di diretta
derivazione crociana, è in netta opposizione alle varie teorie di matrice funzionalista ritenute viziate da
un'impostazione naturalistica. De M. cercò anche di avviare una "storiografia delle società inferiori", che
permettesse un approfondimento della conoscenza della civiltà moderna mediante il confronto con quelle
tradizionali. Egli individua il prodursi del sacro nel superamento dei "momenti critici dell'esistenza",
ovvero delle crisi in cui, specie per quel che riguarda il mondo etnologico, è minacciata la presenza stessa
(intesa come centro operativo del pensare e dell'agire umani). Tale superamento viene operato mediante
l'iterazione rituale di un modello mitico originario, che sottrae quei momenti alla loro storicità.
Coniugando la tradizione storicista con istanze di matrice etico-sociale marxista, l'opera di De M.
costituisce una sintesi affatto originale nell'etnologia italiana, che ha ispirato e continua a ispirare
numerosi studiosi nei campi limitrofi della demologia, dell'etnomusicologia e dello studio della religiosità
popolare.
OpereTra le sue opere sono: Naturalismo e storicismo nell'etnologia (1941); Il mondo magico.
Prolegomeni a una storia del magismo (1948); Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958); Sud e
magia (1959); La terra del rimorso (1961); Furore simbolo valore (1962); La fine del mondo. Contributo
all'analisi delle apocalissi culturali (post., 1977).
Gobineau ‹-nó›, Joseph-Arthur conte di. - Diplomatico e scrittore francese (Ville-d'Avray 1816 - Torino
1882). Entrato nella carriera diplomatica nel 1849, fu segretario a Berna (1849-54), poi ministro di
Francia in Persia (1855-58), in Grecia (1864-68), in Brasile e in Svezia (1872-77). Scrisse varie opere fra
cui La Renaissance (scene storiche, 1877), l'Histoire des Perses d'après les auteurs orientaux, grecs et
latins (1869), libri di viaggio come Trois ans en Asie (1859), romanzi come Les Pléiades (1874), poemi
come Amadis (1876). Ma l'opera che gli diede celebrità è l'Essai sur l'inégalité des races humaines (1853-
55), in cui, all'interno di uno studio sulla nascita e la decadenza delle civiltà, cercò di dimostrare l'innata
diversità di carattere dei singoli popoli, sostenendo il primato della razza "aria" e, in essa, dell'elemento
germanico. Tale concezione, che rese G. famoso in Germania, ove nel 1894 si costituì a Friburgo una
Gobineau-Vereinigung, è stata talora considerata premessa teorica del razzismo nazista.

Gall, Franz Joseph. - Medico (Tiefenbronn 1758 - Montrouge, Parigi, 1828). Creatore della frenologia.
Studiò medicina prima a Strasburgo e poi a Vienna, dove si laureò nel 1785. Fra il 1796 e il 1801
propagandò a Vienna i suoi punti di vista sui rapporti mente-corpo in seminarî aperti al pubblico e in
incontri dimostrativi. Accusato di immoralità, materialismo e ateismo dalle autorità, e diffidato dal
continuare le sue lezioni pubbliche, insieme a J. C. Spurzheim, suo collaboratore dal 1800, inframezzò
l'attività di laboratorio con frequenti viaggi scientifici in Svizzera, Olanda e Francia. Nel 1819 si trasferì
definitivamente a Parigi assumendo la cittadinanza francese. Sostenne che le facoltà morali e intellettuali
sono innate, che il cervello è l'organo di tutte le inclinazioni, tendenze, facoltà, ed è composto di organi
differenti corrispondenti alle singole inclinazioni, tendenze, facoltà. Il suo lavoro neuroanatomico mise in
chiaro che il sistema nervoso si compone di una serie gerarchicamente ordinata di gangli separati ma in
rapporto tra loro, che le strutture più alte si sviluppano dalle più basse ricevendo apporti dai nervi
afferenti e che la materia grigia è matrice dei nervi, mentre la materia fibrosa bianca ha una funzione di
conduzione. Scoprì inoltre l'origine dei primi otto nervi cranici e le connessioni delle fibre del midollo
allungato con i gangli basali. In collaborazione con Spurzheim pubblicò Recherches sur le système
nerveux en général et sur celui du cerveau en particulier (1809); Anatomie et physiologie du système
nerveux en général et du cerveau en particulier (4 voll., 1810-19; trad. it. 1835); Observations sur la
phrénologie ou la connaissance de l'homme moral et intellectuel (1810).

Tylor ‹tàilë›, Sir Edward Burnett. - Antropologo ed etnologo britannico (Camberwell 1832 - Oxford
1917). Insieme allo statunitense L. H. Morgan è considerato il fondatore dell'antropologia moderna.
Nell'opera Primitive culture (1871), vero fondamento teorico dell'antropologia evoluzionista, T. elaborò
la prima definizione scientifica della nozione di cultura. T. inaugurò, inoltre, il campo della comparazione
interculturale, prendendo in considerazione sia evoluzioni parallele e indipendenti, sia la diffusione di
complessi di tratti culturali.
VitaCompiuti gli studi in una scuola di quaccheri (tali erano i genitori) a 16 anni si occupò nella
fonderia/">fonderia di metalli paterna dove si era occupato anche il fratello Alfred, geologo. Ma nel 1855
per ragioni di salute fu costretto a viaggiare; all'Avana conobbe l'etnologo H. Christy che seguì al
Messico, dove si dedicò sotto la sua guida a studi di archeologia ed etnografia. Dopo aver lavorato al
Museo Pitt-Rivers di Londra, fu il primo titolare di una cattedra di antropologia in Gran Bretagna
(Oxford, 1896). La sua opera ebbe enorme popolarità e ne fece uno dei protagonisti della vita intellettuale
britannica; anche per questo fu nominato baronetto nel 1912.
Opere e pensieroIn Primitive culture, T. propose tre stadi dell'evoluzione sociale che intese come stadi
evolutivi della religione, dall'animismo al politeismo e infine al monoteismo. Formulò anche il concetto
di cultura in senso etnografico quale insieme di "conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costumi e
qualsiasi altro prodotto e modo di vivere propri dell'uomo che vive in società". Con il saggio On the
method of investigating the development of institutions (1889) T. inaugurò e fondò teoricamente il metodo
comparativo in antropologia. All'interno dell'evoluzionismo sociale, l'opera di T. si caratterizza per la
centralità da lui attribuita alla dimensione culturale della storia evolutiva delle società umane,
differenziandosi in questo da studiosi come L. H. Morgan o H. Spencer, che privilegiarono invece
l'evoluzione delle forme di organizzazione sociale.

Boas ‹bóoas›, Franz. - Etnologo tedesco (Minden 1858 - New York 1942). Si laureò in fisica nel 1881 a
Kiel. Un viaggio, con una missione geografica, nella Terra di Baffin (1883-84) gli permise di studiare i
costumi degli eschimesi in relazione di ambiente (Baffin-Land: Geographische Ergebnisse, 1885; The
central Eskimo, 1888), e d'individuare nell'etnografia il proprio terreno di studio. Assistente al Museum
für Völkerkunde di Berlino, dopo una missione etnografica sulle coste del Pacifico settentrionale decise
di stabilirsi negli USA, dove ebbe diversi incarichi universitarî e fu tra i fondatori dell'American
antropological society (1902). Per suo impulso l'American ethnological society promosse le ricerche sulle
culture e le lingue degli Indiani del Nord America poi confluite nello Handbook of American Indian
languages. Ad opera del B. si è delineata negli studî antropologici una posizione divergente
dall'evoluzionismo e dalla metodologia comparativa (The limitations of the comparative method of
anthropology, 1896; trad. it. 1970): ogni cultura è vista come il risultato di una crescita interna e di
relazioni con culture vicine. In The mind/">mind of primitive man (1911; trad. it. 1972) B. polemizzò
contro il razzismo di J. A. Gobineau, H. S. Chamberlain, M. Grant, affermando la sostanziale uguaglianza
della mente in tutti i gruppi umani. Altre opere del B.: Primitive art (1927); Anthropology and modern
life/">life (1928); General anthropology (1938); e la raccolta di saggi Race, language and culture (post.,
1948).

Mezza America di oggi è passata di qui: Ellis Island, nella parte alta della baia di New York. Più di 12
milioni di persone sono infatti entrate nel Paese attraverso l’isola tra il 1892 e il 1954. È stato il principale
punto d’ingresso per i migranti che sbarcavano negli Stati Uniti ed anche il più grande e il più moderno
complesso pubblico degli Stati Uniti. Donne, uomini e bambini - dalla Germania, dai Paesi Bassi,
dall’Italia, dall’Irlanda, dalla Grecia, dall’Algeria, dalla Russia - arrivavano a Ellis Island per cercare di
ottenere il visto per diventare cittadini statunitensi. Cercavano la fortuna. Un futuro migliore. Scappavano
dalle guerre e dalle persecuzioni religiose. Esattamente quello che vediamo oggi. Gli immigrati, coloro
che hanno gettato le fondamenta dell’America contemporanea, scendevano dai traghetti con indosso i loro
costumi tradizionali. Come documentano queste affascinanti istantanee, scattate dal fotografo dilettante
Augustus Sherman che, dal 1892 al 1925, lavorava come funzionario nell’ufficio addetto alla
registrazione dei nuovi arrivati. Gli immigrati venivano fotografati, registrati e sottoposti a diversi
controlli medici. Le persone con disabilità fisiche e mentali, gli analfabeti e i bambini senza genitori non
potevano entrare negli Stati Uniti.

La chiusura di Ellis Island, 60 anni fa


La storia e la fine che ha fatto il più importante e conosciuto punto di ingresso per chi voleva immigrare
negli Stati Uniti: ci passarono 12 milioni di persone tra il 1892 e il 1954
Il 12 novembre 1954, esattamente 60 anni fa, chiudeva il centro di immigrazione di Ellis Island, che fu il
principale punto d’ingresso per i migranti che sbarcavano negli Stati Uniti. Si stima che più di 12 milioni
di persone siano entrate nel paese attraverso l’isola tra il 1892 e il 1954.
Per 62 anni le persone arrivarono a Ellis Island da tutto il mondo per cercare di ottenere il visto per
diventare cittadini statunitensi: dopo l’attracco dei traghetti, gli immigrati sbarcavano sull’isola ed
entravano nell’aula addetta alla registrazione dei nuovi arrivati, dove i medici controllavano se avessero
problemi fisici e i funzionari si accertavano che i loro documenti fossero legali. Quasi la metà della
popolazione americana attuale ha almeno un antenato che è arrivato negli Stati Uniti attraverso Ellis
Island, ma non era il solo punto di entrata nel paese: c’erano anche i porti di Philadelphia, Boston e
Baltimora.
Nel 1820 il Dipartimento di Stato federale americano cominciò a tenere statistiche ufficiali
sull’immigrazione, poiché precedentemente non c’erano molti controlli su chi entrava nel paese. La prima
struttura per la registrazione degli immigrati – chiamata Castle Garden – fu aperta nel 1855 dalo Stato di
New York su un’isola a sud-est di Manhattan. Nel 1876 la Corte Suprema emanò una legge che stabiliva
che l’immigrazione dovesse essere sotto il controllo federale, così il governo fece un accordo con lo Stato
di New York per gestire insieme Castle Garden. L’accordo resse solo fino al 1890, quando il governo
federale volle assumere il controllo diretto dell’isola: dopo il rifiuto dello Stato di New York, il governo
decise allora di utilizzare il Barge Office, una vecchia struttura in Whitehall Street, vicino a Manhattan: fu
operativa dal 18 aprile 1890 al 31 dicembre 1891, quando venne completata la nuova struttura
permanente di Ellis Island.
Ellis Island, che è situata nella parte alta della baia di New York, era in realtà costituita da tre piccole
isole, che furono destinate alla costruzione di una grande struttura per accogliere e registrare i migranti:
un’isola fu utilizzata come base per l’edificio amministrativo, una seconda per un grande ospedale e la
terza per un piccolo ospedale per malattie infettive. Il 1 gennaio 1892 arrivò la prima immigrata che passò
da Ellis Island per ottenere il visto per gli Stati Uniti: era Annie Moore, una ragazzina di 15 anni che
arrivava dal’Irlanda. Quel giorno passarono dal centro immigrazione circa 700 persone, per arrivare a un
totale di 450mila immigrati soltanto nel corso del primo anno di apertura.
Il 15 giugno 1897, con 200 immigrati presenti sull’isola, si sviluppò un grande incendio sull’isola, che
distrusse completamente le strutture di legno degli edifici. Non ci furono morti, ma bruciarono tutti i
vecchi dati di registrazione degli immigrati dal 1840 al 1890 e anche alcuni della stessa Ellis Island. Il
centro di immigrazione fu spostato di nuovo al Barge Office, fino alla ricostruzione in mattoni, e in altri
materiali resistenti agli incendi, delle strutture a Ellis Island, che fu riaperta il 17 dicembre 1900. Fino al
1920 l’isola fu utilizzata per registrare i migranti, mentre in seguito passarono di lì soltanto le persone che
venivano trattenute per qualche ragione, prima di essere ammesse negli Stati Uniti: gli altri passeggeri
delle navi, con i documenti a posto, venivano registrati direttamente a bordo.
Il 12 novembre 1954 Ellis Island fu chiusa, e gli edifici andarono in rovina per il disuso. Nel 1990 fu
avviato un programma di interventi per restaurare i vecchi edifici e le strutture che facevano parte della
storia americana: fu anche fondata, nel 1999, un’organizzazione chiamata “Save Ellis Island” (Salviamo
Ellis Island). Oggi Ellis Island è aperta al pubblico, con un museo e un centro per i visitatori, dove le
persone possono cercare negli archivi – digitalizzati – i nomi delle persone che passarono dal centro di
immigrazione.

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