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È mai esistita la ‘civiltà nuragica’?

Riflessioni sul metodo

Roberto Sirigu

1.
La scelta di porre questa domanda: è mai esistita la ‘civiltà nuragica’?
come titolo del presente contributo richiede qualche spiegazione.
Essa infatti può apparire così scandalosa da spingere il lettore a circo-
scriverne (e forse dunque neutralizzarne) il senso classificandola come una
semplice quanto inutile provocazione.
Ebbene, non nego affatto l’intento provocatorio che mi ha spinto a sce-
gliere questo titolo. Intendo infatti provocare in coloro (se vi saranno) che
avranno la pazienza di leggere queste brevi note un duplice effetto.
Innanzi tutto un effetto scandaloso nel senso etimologico del termine.
Skàndalon in greco significa appunto ostacolo, inciampo: ciò che intendo fa-
re è dunque porre una domanda che diventi occasione di inciampo nel nostro
abituale procedere scientifico, da cui possa scaturire un momento di rifles-
sione sul problema metodologico in ambito archeologico.
Come infatti osserva il filosofo Giorgio Agamben,
Chi ha familiarità con la pratica della ricerca nelle scienze umane sa che, con-
trariamente all’opinione comune, la riflessione sul metodo spesso non prece-
de, ma segue tale pratica. Si tratta, cioè, di pensieri in qualche modo ultimi o
penultimi, da discutere tra amici e addetti ai lavori, e che solo una lunga con-
suetudine con la ricerca può legittimare. 1

Ma possiamo classificare come ‘scientifica’ una prassi di ricerca che


consideri la riflessione sul metodo un tema “da discutere tra amici e addetti
ai lavori”? Possiamo considerare scientificamente fondati i risultati di una ri-
cerca che, collocando “i pensieri” dedicati al metodo tra gli “ultimi o penul-
timi” tra quelli che accompagnano il proprio agire scientifico, corra il rischio
di risultare autisticamente “legittimata” solo da “una lunga consuetudine”
con se stessa ?
La mia risposta è: no. Se vogliamo che il nostro agire professionale possa
meritarsi l’appellativo di ‘scientifico’ non possiamo e non dobbiamo lasciar-

1
ci irretire dalla confortevole e rassicurante fascinazione di nessun alveo pa-
radigmatico per il solo fatto che esso ci appare attualmente ‘in vigore’.
Occorre dunque reagire ogni qual volta si abbia la sensazione o la certez-
za che le cose nel proprio ambito di ricerca stiano prendendo o abbiano già
da tempo preso questa piega.
E l’unica reazione appropriata non può che consistere, a mio avviso, in
una riflessione sul proprio agire scientifico che coinvolga un numero quanto
più ampio possibile dei membri della comunità degli archeologi per esten-
dersi progressivamente a tutti coloro che si sentono appartenenti a quella
comunità che si è soliti (ancora, per fortuna) chiamare società civile e di cui
la comunità degli archeologi deve (anche se non sempre dimostra di voler)
essere parte integrante e vitale.
Più propriamente, ed è appunto questo il secondo ‘effetto’ che tento di
provocare con la mia domanda d’esordio, vorrei contribuire ad innescare un
processo critico che assuma i connotati di un cammino che, citando ancora
Agamben, possiamo chiamare regresso archeologico.
Anch’io infatti, come Agamben, credo fermamente che
[…] ogni ricerca nelle scienze umane – e quindi anche la presente riflessione
sul metodo – dovrebbe implicare una cautela archeologica, cioè regredire nel
proprio percorso fino al punto in cui qualcosa è rimasto oscuro e non tematiz-
zato. Solo un pensiero che non nasconde il proprio non-detto, ma incessante-
mente lo riprende e lo svolge può, eventualmente, pretendere all’originalità. 2

Partendo dunque dal tema del convegno – I Nuragici, I Fenici e gli altri
– e non potendo ovviamente affrontare, per motivi di spazio e di tempo, una
adeguata ‘regressione archeologica’ pertinente alle tre entità concettuali che
lo compongono, mi limiterò a prendere in esame la prima, nella convinzione
che una riflessione sul concetto di ‘Nuragici’ possa proiettare riverberi inte-
ressanti anche sulle altre due.
Più in particolare, cercherò di comprendere se qualcosa è rimasto oscuro
e non tematizzato nel percorso di indagine scientifica che ha condotto alla
definizione del concetto di civiltà nuragica.

2.
Un adeguato punto d’avvio per la mia indagine credo possa essere la se-
guente domanda: cosa designano i termini ‘Nuragici’ e ‘civiltà nuragica’?

2
Ebbene, qualunque siano le nostre idee in merito a chi siano i ‘Nuragici’
e a cosa sia la ‘civiltà nuragica’, non possiamo e non dobbiamo dimenticare
che facciamo uso di termini che rinviano a concetti che appartengono e con-
corrono a definire un modello interpretativo.
Ma cosa sono i modelli, e quanti e quali tipi di modelli è possibile im-
maginare? Tra le tante e, non di rado, contrastanti proposte frutto della rifles-
sione epistemologica intorno a questo interrogativo, va ancora oggi conside-
rata fondamentale la classificazione elaborata dal filosofo Max Black, che
ora proverò brevemente a riassumere.
Il primo genere di modello preso in esame da Black è quello dei modelli
in scala:
Questa etichetta coprirà tutte le riproduzioni di oggetti materiali, di sistemi o
processi, reali o immaginari, che conservino le rispettive proporzioni. Esse in-
cludono esperimenti nei quali i processi chimici o biologici sono stati artifi-
cialmente rallentati («esperimenti al rallentatore») e quelli nei quali si cerca di
imitare i processi sociali in miniatura. 3

Dal momento che, come abbiamo detto, nessun modello può essere con-
siderato pienamente coincidente con la realtà di cui si ritiene essere appunto
un modello, occorre essere ben consapevoli dei rischi che l’uso di un model-
lo porta inevitabilmente con sé. Nel caso dell’utilizzo di ‘modelli in scala’
occorre essere consapevoli del fatto che
[…] le inferenze dal modello in scala all’originale sono intrinsecamente preca-
rie e hanno bisogno di una correzione e di una verifica supplementare 4

La seconda categoria di modelli individuata da Black è quella dei modelli


analogici:
Un modello analogico è un soggetto materiale, un sistema, o un processo desi-
gnati a riprodurre il più fedelmente possibile in un nuovo medium la struttura o
la trama di relazioni dell’originale . 5

Quali rischi comporta l’impiego di ‘modelli analogici’?


Il fatto sorprendente che lo stesso modello di relazioni, la stessa struttura, pos-
sano prender corpo in un’infinita varietà di media differenti, fa del modello ana-
logico uno strumento pericoloso e potente. I rischi di inferenze sbagliate dalle
inevitabili inesattezze e distorsioni del modello sono ora presenti in misura ag-
gravata. Ogni presunto uso scientifico di un modello analogico richiede con-
ferme indipendenti. I modelli analogici forniscono ipotesi plausibili, non dimo-
strazioni. 6

Una terza categoria di modelli è quella dei modelli matematici, il cui uso
risulta ancora una volta niente affatto privo di rischi:

3
quando usato senza particolari sottolineature, «modello» in tali contesti è spesso
niente più che un pretenzioso sostituto di «teoria» o di «procedimento matema-
tico». Generalmente, comunque, si accompagna alle tre seguenti idee: il campo
originale è pensato come «proiettato» sull’astratto dominio degli insiemi, delle
funzioni e affini e rappresenta il contenuto della teoria matematica correlata;
così si dice che le forze sociali sono «modellate» dalle relazioni fra entità ma-
tematiche. Il «modello» è concepito come più semplice e più astratto
dell’originale. Spesso c’è l’idea che il modello sia una specie di modello analo-
gico rarefatto, come se le equazioni matematiche si riferissero ad un invisibile
meccanismo le cui operazioni illustrano o anche spiegano parzialmente le ope-
razioni del sistema sociale originale in esame. Quest’ultima ide deve essere re-
spinta come un’illusione. 7

Ecco quali vantaggi e quali rischi comporta l’uso di tali modelli:


[…] I vantaggi delle precedenti procedure sono quelli derivati dall’introduzione
dell’analisi matematica in ogni campo d’indagine empirica, fra di essi la preci-
sione nella formulazione delle relazioni, la facilità d’inferenza attraverso il cal-
colo matematico, e la comprensione intuitiva delle strutture rivelate […]. I peri-
coli presenti sono ugualmente ovvi. Le semplificazioni drastiche che si richie-
dono per il successo dell’analisi matematica comportano il rischio serio di con-
fondere la precisione matematica con la forza della verifica empirica del campo
originale. È essenziale ricordare che il procedimento matematico non fornisce
spiegazioni. Non ci si può attendere che la matematica faccia di più che tirare le
conseguenze delle assunzioni empiriche originali. […] possiamo dire, se prefe-
riamo, che la matematica pura fornisce la forma di una spiegazione, mostrando
quali tipi di funzioni si adatterebbero approssimativamente ai dati conosciuti.
Ma le spiegazioni causali devono essere ricercate altrove. 8

Tale avvertenza non vale invece per un altro genere di modelli: i modelli
teorici. Tali modelli differiscono dagli altri presi in esame sinora per i se-
guenti, cruciali motivi:
Sia che venga adottata l’interpretazione euristica o quella esistenziale vi è un
aspetto cruciale per cui il senso del modello qui in questione diverge nettamente
da quelli discussi precedentemente […]. I modelli in scala e i modelli analogici
devono essere di fatto messi insieme: un modello architettonico puramente «i-
potetico» non significa proprio nulla e gli immaginari modelli analogici non ci
mostrerebbero mai come le cose funzionino su vasta scala. Ma i modelli teorici
(trattati come reali o come ipotetici) non sono letteralmente costruiti: il cuore
del metodo sta nel parlare in un certo modo. Pertanto è plausibile affermare,
come fanno certi scrittori, che l’uso di modelli teorici consiste nell’introdurre
un nuovo tipo di linguaggio o idioma, suggerito da una teoria comune, ma este-
so ad un nuovo dominio d’applicazione. Tuttavia questa ipotesi tralascia il pro-
blema che il nuovo idioma è sempre una descrizione di un qualche oggetto o si-
stema definito (il modello stesso). Se c’è un cambiamento nel modo di esprime-
re e di rappresentare, anche la relativa descrizione di un oggetto o sistema spe-
cifico conduce ad un’ulteriore indagine.

Ma i pericoli in cui possiamo incorrere quando facciamo uso di ‘modelli


teorici’ non sono finiti. Infatti:
Il modello teorico non ha bisogno di essere costruito; è sufficiente che sia de-
scritto. Ma la libertà di descrizione ha anch’essa dei limiti. L’inventore di un
modello teorico non è distratto da proprietà irrilevanti o accidentali dell’oggetto

4
che fa da modello, che deve avere solo le proprietà che egli gli assegna: ma è
privato del controllo che si impone quando se ne tenta la costruzione effettiva.
Anche la richiesta elementare della auto-consistenza può essere sottilmente vio-
lata a meno che non siano possibili tests indipendenti; e cosa si sia voluto dire
con «realtà del modello» diviene misterioso. 9

Vi è infine un ultimo ma non meno importante genere di modelli: si tratta


di quelli che Black chiama “«archetipi concettuali» o, più brevemente, «ar-
chetipi»”:
Con archetipo intendo un repertorio sistematico di idee per mezzo delle quali
un dato pensatore descrive, per estensione analogica, un dominio al quale quel-
le idee non si applicano immediatamente e letteralmente. In questo modo, una
dettagliata descrizione di un particolare archetipo richiederebbe una lista delle
parole-chiave ed espressioni, con affermazioni delle loro interconnessioni e dei
loro significati paradigmatici nel campo dal quale furono originariamente tratti.
Questo potrebbe venire poi integrato dall’analisi dei modi in cui i significati o-
riginali «si estendono» nel loro uso analogico. 10

Benché si presenti potenzialmente assai fecondo, anche l’uso degli ‘ar-


chetipi’ non è esente da alcune possibili ‘controindicazioni’:

Certamente, c’è il rischio, sempre presente e costante, che l’archetipo venga u-


sato in modo metafisico così da tenere sempre lontane dalla confutazione empi-
rica le sue conseguenze. Più persuasivo l’archetipo, più grande è il pericolo che
esso diventi un mito che si autolegittima. Ma un buon archetipo può essere ar-
rendevole alle domande dell’esperienza; anche se incanala il pensiero del suo
signore, non è necessario che lo faccia in modo tanto inflessibile.
L’immaginazione non dev’essere confusa con una giacca stretta. 11

3.
Questo breve esame della proposta classificatoria elaborata da Max
Black ci consente di formulare alcune considerazioni.
Innanzi tutto mi pare legittimo affermare che i cinque tipi di ‘modelli’
condividono alcune importanti proprietà.
La prima: nessun modello può essere considerato pienamente corrispon-
dente alla realtà di cui è, appunto, modello.
La seconda: la non totale corrispondenza tra modello e realtà non dipen-
de dall’efficacia concettuale e/o operativa del modello, non dipende cioè da
quanto esso possa apparirci un ‘buono’ o ‘cattivo’ modello.
La terza: anche nel caso che la loro elaborazione sia finalizzata ad una
realizzazione concreta (come nel caso dei ‘modelli in scala’ o dei ‘modelli
analogici’), tutti i modelli devono primariamente essere considerati “stru-
menti speculativi” 12 che noi elaboriamo per riuscire a pensare, cioè gestire

5
concettualmente ciò che chiamiamo ‘realtà’ (qualunque cosa sia ciò che de-
signiamo con questo termine).
Ora, dal momento che tali proprietà caratterizzano qualunque genere di
modello, ciò significa che esse saranno proprie anche di quel particolare mo-
dello interpretativo che risponde al nome di ‘civiltà nuragica’.
Dunque mi pare legittimo affermare che ciò che siamo soliti chiamare
‘civiltà nuragica’ è uno strumento speculativo che è stato elaborato per riu-
scire a pensare, cioè gestire concettualmente, la realtà culturale (qualunque
cosa si intenda con questa espressione) che riteniamo abbia prodotto in pas-
sato una determinata e specifica serie di frammenti di realtà materiale a cui
noi oggi attribuiamo la funzione di segni archeologici; 13 è evidente, alla luce
di quanto detto finora, che tale modello non può in alcun modo essere consi-
derato perfettamente coincidente con la realtà culturale di cui si vuole sia il
(o quanto meno un) modello, e ciò a prescindere dalla maggiore o minore
validità esplicativa e/o rappresentativa del modello rispetto alla realtà di cui
il modello è, appunto, un modello. Possiamo così rispondere alla nostra do-
manda iniziale: la civiltà nuragica esiste nella misura in cui noi l’abbiamo
creata.
Poniamoci ora un’altra domanda: in quale casella possiamo collocare il
‘modello interpretativo’ che chiamiamo ‘civiltà nuragica’ nel quadro tasso-
nomico proposto da Max Black?
Ebbene, credo che tale ‘modello’ non possa che essere classificato come
un archetipo, ovvero come un repertorio sistematico di idee per mezzo delle
quali un dato pensatore (ovvero chiunque si serva di tale ‘strumento specu-
lativo’) descrive, per estensione analogica, un dominio al quale quelle idee
non si applicano immediatamente e letteralmente.
Ma, a ben vedere, nessun archetipo – e quindi nemmeno l’archetipo ‘ci-
viltà nuragica’ – agisce isolatamente. L’efficacia esplicativa e/o rappresenta-
tiva di ogni archetipo viene amplificata dall’utilizzo di una costellazione di
altri modelli: modelli in scala, modelli analogici, modelli matematici e mo-
delli teorici, il cui impiego è finalizzato a descrivere e/o dare spiegazione a
singoli problemi o aspetti della ricerca.
È evidente che l’uso corretto di tale corollario di modelli deve implicare
l’elaborazione di adeguati correttivi capaci di arginare i rischi che l’utilizzo

6
di ciascuno di essi comporta, senza la messa in atto dei quali il pericolo che
l’archetipo si trasformi in un mito che si autolegittima non può che accre-
scersi.
Se le cose stanno effettivamente in questo modo (come credo risulti dif-
ficilmente contestabile), dobbiamo allora chiederci, seguendo le avvertenze
indicateci da Black come antidoto dal rischio di un uso improprio degli ar-
chetipi: è mai stata proposta una dettagliata descrizione di questo particolare
archetipo che chiamiamo ‘civiltà nuragica’ attraverso la presentazione di
una lista delle parole-chiave ed espressioni, con affermazioni delle loro in-
terconnessioni e dei loro significati paradigmatici nel campo dal quale furo-
no originariamente tratti, integrato dall’analisi dei modi in cui i significati
originali «si estendono» nel loro uso analogico? Siamo riusciti a (o per lo
meno abbiamo avvertito la necessità di) arginare il rischio, sempre presente
e costante, che l’archetipo venga usato in modo metafisico così da tenere
sempre lontane dalla confutazione empirica le sue conseguenze? Siamo riu-
sciti ad evitare che l’archetipo, rivelatosi potentemente persuasivo, diventas-
se un mito che si autolegittima?

4.
Rispondere a queste domande non è facile e soprattutto sono domande a
cui deve essere la comunità scientifica nel suo insieme a dare risposta. Ma
(non dimentichiamolo) il concetto di ‘comunità scientifica’ fa riferimento ad
un’astrazione: la realtà è composta da singoli ricercatori, ciascuno dei quali
deve sentirsi investito dall’imperativo etico di comprendere se il paradig-
ma 14 di riferimento all’interno del quale egli opera possa essere considerato
“un buon archetipo”, che si dimostri “arrendevole alle domande
dell’esperienza”.
Perché ciò avvenga, occorre che chiunque sia impegnato nella ricerca o-
peri per uscire fuori dal genere di logica che Paul Watzlawick, John H. We-
akland, Richard Fisch, ricercatori del Mental Research Institute di Palo Al-
to, hanno chiamato la soluzione del “più di prima”.
Ecco la descrizione di tale atteggiamento:
Di solito, a promuovere il cambiamento […] è la deviazione da qualche
norma. Quando arriva l’inverno e la temperatura comincia a scendere, le
stanze debbono essere riscaldate e bisogna uscire di casa con abiti pesanti
per proteggere il corpo dal freddo. Se la temperatura si abbassa ancora di

7
più, occorreranno abiti ancor più pesanti e bisognerà riscaldare di più pure la
casa. Detto altrimenti, il cambiamento diventa necessario per ristabilire la
norma perché sono in gioco sia il benessere che la sopravvivenza. Il cam-
biamento desiderato si ottiene applicando l’elemento opposto a quello che ha
prodotto la deviazione (ad es. si oppone il caldo al freddo) in accordo con la
proprietà d dei gruppi[ 15 ].se tali correttivi dovessero risultare insufficienti, al-
la fine si ottiene l’effetto desiderato applicando più di prima le misure nor-
malizzatici. Tale tipo, semplice e ‘logico’, di soluzione del problema non so-
lo viene applicato in molte situazioni della vita quotidiana, ma si trova alla
radice di innumerevoli processi interattivi in fisiologia, neurologia, fisica,
economia e in molti altri campi. 16

Non è difficile riconoscere che anche in ambito archeologico (e, più in


generale, scientifico) l’applicazione del principio del ‘più di prima’ trova as-
sai spesso applicazione.
Se ci limitiamo a prendere in esame il problema della verifica
dell’effettiva validità scientifica di un dato paradigma scientifico, non è dif-
ficile constatare che tale verifica viene non di rado condotta utilizzando
strumenti concettuali ed operativi elaborati all’interno dello stesso paradig-
ma che si intende sottoporre a verifica.
Può così accadere che un processo di verifica condotto con l’utilizzo di
tali strumenti giunga a mettere in discussione singoli punti del paradigma
senza però giungere ad intaccarne la struttura profonda, determinando la
conferma della validità del paradigma nella misura in cui esso si è dimostra-
to capace di apporre dei correttivi a se stesso.
In realtà, è evidente che in questi, come in casi analoghi, stiamo agendo
all’interno della logica del ‘più di prima’:
la soluzione ‘più di prima’ non è solo il maggiore dei […] problemi, ma è
proprio il problema, perché senza la ‘soluzione’ non ci sarebbe alcun pro-
blema. Ed è curioso dover constatare che si continua a ricorrere a questo tipo
di soluzione, malgrado la sua palese assurdità, come se coloro da cui dipende
il cambiamento fossero incapaci di trarre dalla storia le conclusioni necessa-
rie. 17

Per superare questo genere di impasse concettuale e, conseguentemente,


operativo occorre, a detta di Watzlawick, Weakland e Fisch, rompere il cir-
colo vizioso in cui ci si è venuti a trovare, tentando di proporre una nuova
configurazione del problema.
Basandosi sui principi applicativi della teoria dei tipi logici 18 in ambito
comportamentale e, più in generale, biologico, avanzata da Gregory Bate-
son, 19 Watzlawick, Weakland e Fisch propongono come soluzione a questo
genere di problemi il passaggio da quello che loro chiamano cambiamento1,

8
ossia un cambiamento che si manifesta allo stesso livello logico interno al
sistema nel quale si è manifestato il problema (il ‘più di prima’), al cambia-
mento2, ovvero un cambiamento che agisce ad un livello logico superiore,
un livello cioè in cui il sistema problematico appaia non più isolato (cioè
chiuso in se stesso e quindi prigioniero della propria struttura logica), ma in-
serito in un insieme più ampio (una classe) di fenomeni di cui è parte inte-
grante, un insieme regolato da una differente struttura logica. 20
Ciò consente di uscire dal livello problematico del sistema, all’interno
del quale qualunque soluzione non farebbe altro che aggravare il problema
che si intende risolvere, ‘rompendone’ così la logica problematica per passa-
re ad un livello logico in cui il sistema problematico possa essere osservato
da un punto di vista differente. Si ottiene così un radicale mutamento di pa-
radigma che produce alcune importanti conseguenze.
Ciò che propongo è dunque questo: un dibattito che passi dalla verifica
dell’attendibilità dei singoli risultati acquisiti utilizzando lo ‘strumento spe-
culativo’ che chiamiamo ‘civiltà nuragica’ (che non potrà generare che
cambiamenti1) ad un dibattito che prenda in esame la possibilità (se non la
necessità) di innescare un radicale cambiamento2 ossia, per essere più espli-
citi, un cambiamento del paradigma oggi vigente nell’ambito degli studi
sulla ‘civiltà nuragica’.
Ma come è possibile innescare un processo critico che giunga a determi-
nare un simile cambiamento?

5.
Ciò che occorre, a mio avviso, è innanzi tutto restituire ai nostri ‘modelli’
la funzione e il valore che loro competono: occorre cioè tenere bene a mente
che ogni modello non può che svolgere la funzione di ipotesi o abduzione.
Ecco come il filosofo Charles S. Peirce descrive tale fondamentale concetto:
2.624. Abbiamo un’ipotesi quando troviamo qualche circostanza curiosa, che
sarebbe spiegata dalla supposizione che fosse la conseguenza di un caso ascri-
vibile a una regola generale, e perciò adottiamo questa supposizione. Oppure
quando troviamo che due oggetti presentano una forte somiglianza sotto certi
rispetti e inferiamo che essi devono somigliare fra loro anche sotto altri rispet-
ti. 21

Data la propria natura logica, da un’inferenza ipotetica non derivano dun-


que mai conclusioni certe, ma sempre e solo conclusioni che necessitano di

9
essere sottoposte ulteriori verifiche. Ciò vale, ovviamente e a maggior ra-
gione, per i ‘modelli’ in generale e per gli ‘archetipi’ in particolare, che pos-
siamo considerare come vere e proprie macroipotesi.
In quanto tali, esse dovranno essere sottoposte a quel tipo particolare di
verifica che Umberto Eco ha denominato meta-abduzione:
a) Meta-abduzione. Consiste nel decidere se l’universo possibile delineato dal-
le nostre abduzioni di primo livello è lo stesso universo della nostra espe-
rienza. Nelle abduzioni iper e ipocodificate, questo meta-livello di inferenza
non è indispensabile, poiché ricaviamo la legge da un bagaglio di esperien-
za di mondi effettivi già controllati. In altre parole, noi siamo autorizzati
dalla conoscenza del mondo comune a pensare che la legge è già stata co-
nosciuta come valida (e si tratta di decidere se è la legge giusta per spiegare
quei risultati). Nelle abduzioni creative non abbiamo questo tipo di certez-
za. Noi tiriamo ad indovinare non solo intorno alla natura del risultato (la
sua causa) ma anche intorno alla natura dell’enciclopedia (cosicchè, se la
nuova legge viene verificata, la nostra scoperta porta a un cambiamento di
paradigma). […] la meta-abduzione è fondamentale non solo nelle scoperte
scientifiche “rivoluzionarie” ma anche (e normalmente) nell’indagine cri-
minale. 22

Ecco dunque quale sfida, a mio avviso, ci attende: verificare o, meglio


ancora, falsificare 23 se (e se sì, in che misura) l’universo possibile che ab-
biamo chiamato ‘civiltà nuragica’ sia lo stesso universo che l’esperienza di
ricerca sul campo ci ha restituito. E ciò si può fare solo esercitando una pre-
ziosa risorsa della mente umana: l’immaginazione. Lo stesso strumento, non
dimentichiamolo, che Giovanni Lilliu ha utilizzato per cominciare ad ‘im-
maginare’ la ‘civiltà nuragica’ più di cinquant’anni fa così come noi siamo
abituati a ‘pensarla’ oggi. 24
Recepiamo dunque l’esempio di Lilliu come fondamentale insegnamento
metodologico e torniamo a fare ricorso alla nostra immaginazione per im-
maginare scientificamente il passato. “Perché – come ci ricorda Max Black
– la scienza, come le discipline umanistiche, come la letteratura, è un pro-
blema di immaginazione”. 25

10
1
AGAMBEN 2008: 7.
2
AGAMBEN 2008: 8.
3
BLACK 1962, trad. it. 1983: 68.
4
BLACK 1962, trad. it. 1983: 70.
5
BLACK 1962, trad. it. 1983: 70.
6
BLACK 1962, trad. it. 1983: 70.
7
BLACK 1962, trad. it. 1983: 72.
8
BLACK 1962, trad. it. 1983: 74. Le ‘avvertenze d’uso’ dei modelli in campo scientifico suggeriteci da Max Black sono
pienamente valide anche per ciò che concerne il loro impiego in ambito archeologico così come descritto in CLARKE
1968, trad. it. 1998: 35-37.
9
BLACK 1962, trad. it. 1983: 78-79.
10
BLACK 1962, trad. it. 1983: 93.
11
BLACK 1962, trad. it. 1983: 94-95.
12
RICHIARDS 1955, cit. in BLACK 1962: 88.
13
Ho affrontato un esame delle implicazioni semiotiche nell’approccio archeologico all’analisi della realtà materiale,
nei miei seguenti lavori: SIRIGU 2002, SIRIGU 2004b SIRIGU 2005, SIRIGU 2006.
14
Nel parlare di ‘paradigma’ faccio riferimento al concetto elaborato dal filosofo Thomas Kuhn, per il quale, ricordiamo-
lo: “Da un lato, esso rappresenta l’intera costellazione di credenze, valori, tecniche, e così via, condivise dai membri di
una data comunità. Dall’altro, esso denota una sorta di elemento di quella costellazione, le concrete soluzioni-di-
rompicapo che, usate come modelli o come esempi, possono sostituire regole esplicite come base per la soluzione dei
rimanenti rompicapo della scienza normale” (KUHN 1970, trad. it. 1978: 212). In SIRIGU 2004a ho affrontato come tema
specifico l’analisi delle implicazioni derivanti dall’uso in ambito archeologico del concetto kuhniano di ‘paradigma’.
15
“Ogni elemento del gruppo deve avere il suo reciproco o inverso che composto con l’elemento stesso dà l’elemento di
identità; per esempio: 5+(-5)=0, dove la legge di composizione è l’addizione. Ancora una volta è evidente che la com-
posizione da una parte produce un netto cambiamento, ma che d’altra parte il risultato è esso stesso un elemento del
gruppo (nell’esempio fatto, i numeri naturali positivi e negativi, zero incluso) ed è quindi contenuto nel gruppo” (WA-
TZLAWICK/WEAKLAND/FISCH 1974: 22-23).
16
WATZLAWICK/WEAKLAND/FISCH 1974: 45.
17
WATZLAWICK/WEAKLAND/FISCH 1974: 47.
18
Teoria proposta nella sua forma più completa da Bertrand Russell e Albert North Whitehead nei Principia Mathema-
tica (WHITEHEAD/RUSSELL 1910-1913).
19
BATESON 1972, trad. it. 1976: 303-338.
20
WATZLAWICK/WEAKLAND/FISCH 1974: 87-100.
21
PEIRCE 2003: 465.
22
ECO 1983, pp. 245-246. Per un esame delle potenzialità applicative in ambito archeologico delle inferenze abduttive,
mi permetto di rinviare al mio SIRIGU 2005.
23
Per una presentazione esaustiva del concetto di ‘falsificazione’ è d’obbligo rinviare a POPPER 1968.
24
Illuminante in tal senso è la lettura di LILLIU 1955.
25
BLACK 1962, trad. it. 1983: 95.

11
BIBLIOGRAFIA

AGAMBEN 2008: G. AGAMBEN, Signatura rerum. Sul metodo, Torino, 2008.


BATESON 1972: G. BATESON, Steps to an Ecology of Mind, New York, 1972 (trad. it.: Verso
un’ecologia della mente, Milano, 1976).
BLACK 1962: M. BLACK, Models and Metaphors. Studies in Language and Pilosophy, Ithaca-
London, 1962 (trad. it.: Modelli, archetipi, metafore, Parma, 1983).
CLARKE 1968: D.L. CLARKE, Analytical Archaeology, London, 1968 (trad. it.: Archeologia
analitica, Milano, 1998).
ECO 1983: ECO 1983: U. ECO, “Corna, zoccoli, scarpe. Alcune ipotesi su tre tipi di abduzione”, in:
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