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Lezione 1- parte 2 Neurologia 12/10/2018

NEUROLOGIA
1. INTRODUZIONE
In figura accanto Phineas Gage, un ferroviere che tiene in
mano la bacchetta che gli causò la perforazione del
cranio: questa, poggiata sui binari, gli venne scagliata
come un proiettile, pestata dal treno che in quel punto
stava giungendo. Sopravvissuto alla ferita, perché la
bacchetta perforato lo zigomo, il bulbo oculare ed uscita
centralmente al cranio, non attraversò delle zone che
motoricamente e sensorialmente erano importanti dal
punto di vista vitale, causando solamente un’alterazione
della personalità e del comportamento osservati nel
periodo successivo alla convalescenza. Il suo teschio ed il
bastone di ferro che ha causato il trauma cranico sono
esposti al pubblico nel museo della Harvard Medical
School.
In passato,si pensava che le zone anteriori dell’encefalo
fossero delle cosiddette zone vuote, prive di significato, cioè aree che possedevano delle funzioni
tipiche di altre aree e che in quelle zone riverberavano, quindi il venir meno delle stesse preservava
l’esistenza di quelle principali non comportando danni e di conseguenza l’insorgenza di sintomi
particolarmente importanti.
Si parlò solo successivamente di una definizione di funzione associativa di quelle aree, cioè
permettevano l’associazione di più modalità.
In realtà queste sono delle aree che hanno delle funzioni specifiche e ben definite, dato importante
pervenuto proprio dall’analisi dei cambiamenti della vita di Phineas Gage dopo l’incidente.
I lobi colpiti furono i lobi frontali, e precisamente, quello che si osservò dopo la convalescenza fu
un cambiamento importante della personalità del soggetto, riferito proprio dai familiari che, mentre
in un primo tempo lo avevano definito come un buon lavoratore, socievole, legato alla famiglia,
dopo l’incidente divenne completamente un’altra persona, abbandonando addirittura la famiglia e
andando a vivere da solo.
Ciò era dovuto alla distruzione in alcune zone prefrontali che controllano comportamenti soprattutto
di tipo programmatorio.

In neurologia l’associazione di più sintomi definisce le cosiddette sindromi, caratterizzate dalla


mancanza, perdita di alcune funzioni o dalle emergenze di uno di questi sintomi.
Una di queste sindromi è la sindorme di Lhermitte, o sindrome frontale. Lhermitte, uno studioso
francese, osservò che dei soggetti che avevano delle lesioni identiche a quelle subite da Phinaes
Gage, cominciavano a comportarsi in maniera strana, mostrando i cosiddetti comportamenti da
utilizzo o un contesto da utilizzo, che altro non è che un’evoluzione un po’ più marcata dello stesso
sintomo.
Comportamento da utilizzo: è tipico di quel paziente che tende ad utilizzare tutto quello che si trova
davanti: ad esempio, il soggetto che durante l’osservazione del medico trova una penna sulla

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scrivania e in maniera quasi forzata è portato a prendere la penna e comincia a scrivere, nonostante
gli si vieti di farlo. Tutto ciò pur razionalizzando che sta facendo qualcosa di strano.
Contesto di utilizzo: In gradi estremi, Lhermitte notò che facendo entrare gli stessi soggetti con
lesioni frontali nello studio, in sua assenza, il soggetto guardava il contesto dello studio, vedeva il
camice del medico appeso e lo indossava.In questo caso è come se il contesto o lo stimolo li
portasse a fare quell’azione.
Normalmente, ciò che vieta un soggetto normale a non attuare un comportamento del genere (ad
esempio entrare in aula e prendere il posto del professore o entrare in uno studio medico e prendere
il posto del medico) è soprattutto la percezione del fatto che quello non è il contesto o il momento
giusto per fare una cosa del genere e alla base di ciò vi è l’encefalo che analizzando tutte le possibili
azioni che possono essere fatte in quella determinata circostanza, ne permette solo qualcuna e ne
sopprime un’altra, funzionando quindi da filtro.
I soggetti che hanno lesioni nel lobo frontale perdono la capacità di inibire questi comportamenti,
che possono essere considerati in questo caso automatici: utilizzo la penna anche se non mi serve,
ce l’ho davanti quindi la devo utilizzare ( comportamento da utilizzo).

Il signor Gage dopo l’incidente mostrò questa serie di sintomi: ad esempio,ogni qual volta andava al
pub continuava a bere birra, nonostante non ne avesse voglia, vedeva il bicchiere di birra e lo
beveva tutto. Alla base si ha una mancanza di freni inibitori, un modo di dire, che in realtà è
altamente significativo dal punto di vista fisiologico. Infatti, come si vedrà con la malattia di
Parkinson, il modo per rendere efficiente una funzione, o un comportamento, per la corteccia è
quella di calcolare tutte le possibili varianti di quella funzione stessa: se io devo prendere la penna,
mi calcolo il modo più corretto per prendere quella penna, ad esempio nel modo in cui mi permetta
di scrivere. L’encefalo stranamente calcola anche tutte le altre posizioni per poter prendere la penna
e la risultante è la soppressione di tutte le possibili posizioni assurde e l’unico programma che viene
poi eseguito è quello che mi permette di prendere la penna in maniera corretta per scrivere.
Il tutto diventa più efficiente e più veloce: tutte le reazioni sono codificate come degli engrammi
possibili a livello di alcuni circuiti, edè più veloce spegnere tutto ciò che non è fattibile e codificare
la reazione che è già pronta. Quindi, sono rese possibili tutte le varianti, ma solamente una alla fine,
tramite questa sorta di filtro sarà messa in atto,perché è l’unica fattibile in quel determinato
contesto.Questo filtro risiede a livello della corteccia prefrontale, che elabora pure stimoli
d’attenzione, di tipo contestuale, emotivo perché anche in questo caso è utile dare un connotato di
contesto nell’esecuzione di funzioni semplici.
Il venir meno di quest’inibizione continua non fa altro che attivare costantemente le cortecce di più
basso livello, come quella motoria, e di creare in parte nei circuiti di tipo emotivo il rilascio
automatico di programmi anche incongruenti, cambio di personalità.
In tempi più moderni, questo tipo di evidenza sperimentale era stata utilizzata anche a livello
psichiatrico: c’erano pazienti con comportamenti violenti e che difficilmente erano gestiti dal punto
di vista farmacologico che negli anni ’50, soprattutto negli Stati Uniti, furono sottoposti ad un
intervento chirurgico di lobectomia(la lobectomia piramidale)rendendo questi soggetti, che erano
particolarmente aggressivi nei confronti del prossimo, completamente mansueti, dando la possibilità
di ridurre l’iperattività di alcuni circuiti, inibendoli in questo modo. Quindi la lobectomia frontale,

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soprattutto delle area prefrontale,permetteva un cambiamento di personalità e le persone più


aggressive diventavano più “tranquille”.
Anche a livello filmografico: Jack Nicholson nella sua performance “Qualcuno volò sul nido del
cuculo” alla fine del film viene lobectomizzato: il protagonista che è un falso pazzo viene tenuto
calmo per evitare che possa comportarsi in maniera incongrua nel posto in cui vive.
La lobectomia veniva effettuata ovviamente per studiare le funzioni dell’encefalo, infatti prima nei
vari esperimenti si provocavano delle lesioni in determinate aree e si osservava ciò che poteva
essere alterato tenendo conto anche dei sintomi che il paziente manifestava ed in che modo
venivano modificati gli altri comportamenti. Questa è la revisione moderna di una concezione del
tutto sbagliata che si aveva all’inizio dell’800 in cui nell’encefalo venivano considerate residenti
alcune funzioni. Questa è la mappa degli studi di frenologia in cui si evidenzia che la casualità e la
possibilità di comparazione è a livello prefrontale, l’imitazione un po’ più posteriore. Ma in realtà
non è questo quello che noi vediamo anche se poi qualcuno ha cominciato a dire che una parte
della visione frenologicapossa essere non del tutto sbagliata.

2. NEURONI MIRROR
Neuroni Specchio, neuroni presenti soprattutto a livello della corteccia premotoria, aldilà della
corteccia motoria primaria, e che hanno la capacità di codificare azioni che possono essere elicitate
vedendo un’azione stessa. Esempio: io vedo un’altra persona che prende la penna e scrive,
quest’azione attiva i miei neuroni mirror, i quali mi segnalano come fare per poter scrivere.Questo
segnale motorio non viene mai lanciato e attuato però è presente.
Questo tipo di cellule si pensa siano quelle che hanno permesso e che permettono ai bambini di
imparare i comportamenti motori appresi: i bambini nella loro prima fase di vita non si muovono
ma guardano l’adulto che si muove. La capacità ed il poter maturare queste capacità visive e
conoscenze motorie (il vedere come fa il genitore e imparare da lui) permette poi, una volta lanciati
questi segnali e quindi reso possibile dall’output motorio, di poter eseguire il compito in maniera
corretta.
Dunque essi servono ad imitare. Nell’800 il frenologo aveva messo proprio la capacità di
imitazioneesattamente dove sono presenti i neuroni mirror nell’area F5 della corteccia motoria di
scimmia. In parte tutto ciò venne poi smentito da ulteriori conoscenze di neurofisiologia, per cui la
capacità mirror e non le cellule mirror, è una capacità diffusa: ci sono cellule mirror anche nella
corteccia uditiva e queste per esempio sono molto attive in soggetti absolute pitch (orecchio
assoluto), solitamente musicisti, soggetti in grado di capire quale sia la nota che viene lanciata e
quindi a riprodurla senza sapere assolutamente quale sia, senza bisogno di allenare questa capacità,
perché hanno quel determinato circuito che risuona esattamente all’emissione di quella frequenza.
Questa è una capacità di specchio, di riflesso di un’azione o di uno stimolo che viene evocato.
Quindi le capacità mirror sono presenti non solo in corrispondenza della corteccia motoria, ma
anche in quella uditiva, parietale, quindi di tipo somatosensoriale.
È ovvio che è stata scoperta in momenti particolari.
Le cellule mirror vennero scoperte casualmente durante un esperimento su cavie: era stato
scalottato un animale da esperimento e si erano calati degli elettrodi in profondità con viti
micrometriche che permettevano di poter andare ad esplorare la corteccia micron per micron, cioè si
aveva la possibilità di vedere quali erano le proprietà elettrico-fisiologiche della corteccia, facendo

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delle mappe. Durante l’osservazione della corteccia premotoria per vedere come erano organizzati i
gesti, si notò che esistevano già delle capacità particolari nella stessa, ovvero che i gesti venivano
organizzati in base allo scopo finale e non in base agli effettori; quindi tutte le volte che la scimmia
prendeva un pezzettino di uvetta (l’animale era tenuto vigile e sveglio durante l’esperimento) e
l’elettrodo era calato in corteccia premotoria, se la frutta era di determinate dimensioni si accendeva
la cellula e venivano inviati dei segnali nell’oscilloscopio ad una frequenza di scarica, se la frutta
era la mela invece quella cellula non si accendeva, si spostava più avanti l’elettrodo e venivano
inviati in quel punto dei segnali in presenza della mela ma non più per l’uvetta, quindi in quel
programma premotorio erano codificate le dimensioni, e a volte anche le superfici, quindi se la
frutta era rugosa si attivava una cellula, se era liscia se ne attivava un’altra, se era di un colore o un
altro succedeva lo stesso.
Ad un certo punto lo sperimentatore fece pausa e si accorse che mentre mangiava il panino, all’aprir
bocca dello sperimentatore per mordere il panino, il neurone dove era stato lasciato l’elettrodo
incominciava a dare dei segnali, che terminavano nel momento in cui iniziava a masticare. Questo
segnale si accendeva tutte le volte che apriva la bocca, a volte in maniera del tutto
indipendentemente al movimento stesso, ciò perché esso era correlato allo scopo: se c’era il panino
davanti inviava il segnale ma non veniva avviato in assenza del panino.
Venne quindi osservato che il neurone a livello della corteccia premotoria ha dentro di sé tutto
l’engramma dell’azione, correlata però allo scopo dell’azione e non l’azione di per sé e questo
livello più semplice non è nella corteccia premotoria, ma nella corteccia motoria perché in
quest’ultima ho l’apertura delle dita, la direzione di apertura.
Un altro studioso, ha studiato l’esistenza di alcuni neuroni che codificano per alcuni vettori, vettori
di forza o vettori spaziali, mentre in zone più complesse della corteccia viene analizzato lo scopo.
Quindi ad esempio se alleniamo ad imitare, alleniamo con la corteccia, quindi conosciamo e
sappiamo quale sia l’azione che stiamo facendo perché abbiamo quel gruppo di neuroni che stanno
codificando e sparando segnali per lo scopo finale che dobbiamo raggiungere, è facile che in quella
zona lì possa esserci contemplata la potestà di imitare.
Successivamente questo tipo di visione venne abbandonata perché una lesione localizzata avrebbe
provocato soltanto la perdita della capacità di imitare mentre tutto il resto sarebbe stato mantenuto,
perché risultato di una cooperazione di più funzioni di base codificate per lobi; fu notato però che
questo tipo di segmentazione di funzione corrisponde anche al cambio di anatomia della corteccia.

3. AREE DI BRODMANN
Brodmann studiò la corteccia dal punto di vista istologico: prelevando di volta in volta pezzetti di
corteccia si accorse chela qualità e la quantità di specifiche cellule cambiava, avendo dei pattern
caratteristici. Inoltre all’interno di un’area il pattern cellulare era sempre lo stesso.

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Come si nota in figura, nella corteccia dallo strato più esterno a quello più interno i pattern cellulari
sono diversi: nella parte superiore ci sono le cellule granulari, più in giù ci sono le cellule
piramidali, con forma appunto piramidale. Questo tipo di pattern cellulare a seconda della zona
analizzata cambia, per esempio possono essere presenti solamente le cellule granulari o quelle
piramidali.
Le cellule granulari, essendo cellule di tipo ricettivo, sono maggiormente rappresentate nella
corteccia parietale perché è una corteccia di tipo sensitivo; le cellule piramidali, invece, cellule di
output motorio, sono per esempio più rappresentate nella corteccia frontale, particolarmente
nell’area motoria primaria, area in cui è necessario avere grossi gruppi di neuroni in grado di
mandare dei segnali in periferia attraverso un assone che arrivi fino al midollo spinale. Le vie
piramidali sono dei circuiti bineurali, in cui c’è un neurone centrale e un neurone periferico,
quindila macchina cellulare (il corpo del neurone) dove avviene tutto il metabolismo di
quell’assone,necessario per il trasporto vescicolare, il trasporto dei nutrienti, deve essere ben grossa,
quindi da qui l’enormità di queste cellule.
Al contrario le cellule granulari ricevono dei segnali e quindi non necessitano di macchine
neurochimiche importanti per poter trasformare il segnale, devono solamente ritrasmettere il
segnale alle cellule di competenza oppure associare più segnali tra di loro.
Brodmann per poter costruire la mappa non faceva altro che prendere dei pezzettini di corteccia,
osservarle al microscopio e vedere come questi pattern cellulari cambiassero man mano che si
spostava da un punto all’altro, indicando le varie aree con dei numeri: il primo pezzo di corteccia
che analizzò era a livello della corteccia parietale ascendente, quindi nella corteccia sensitiva, poi
alternando avanti e dietro in tutta la corteccia ha etichettato le varie aree. Da lì ha fatto poi le aree
associative mettendo numeri più alti (questo è il razionale per cui si trova questo disordine nelle
mappature delle aree di Brodmann).

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Gli studi di Brodmann vennero validati anche in fisiologia dagli studiosi che successivamente
hanno affrontato il problema. Tutte le volte che Brodmann trovava un cambiamento di pattern
cellulari, poi successivamente è stato notato un cambiamento anche di funzione di quella
determinata area. Quindi l’architettura delle cellule che stanno alla base, permette l’esecuzione di
una funzione.
Tutto ciò è importante anche dal punto di vista clinico, perché ad esempio in relazione ai territoridi
distribuzione di alcune arterie periferiche è possibile preventivare quale potrebbe essere il danno
funzionale residuo.

3.1.Irrorazione ed ictus delle arterie cerebrali


Le arterie principali che irrorano la corteccia sono tre: l’arteria cerebrale media, anteriore e
posteriore. Le prime due, cerebrali media e anteriore, sono di pertinenza carotidea, mentre l’arteria
cerebrale posteriore è di
pertinenza della vertebro-
basilare.
In realtà queste arterie sono
imbricate tra di loro nel
cosiddetto poligono del Willis,
per cui esistono delle
anastomosi che funzionano da
compenso nel caso in cui in una
parte della periferia il sistema
circolatorio vada incontro ad
alterazioni.

Questo, però, non è sempre


vero perché le anastomosi
hanno numerosissime variabili
anatomiche, non tutti nasciamo
con un poligono del Willis così come idealmente rappresentato, e a volte entrano in gioco fenomeni
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di compenso emodinamico per cui un’arteria riceve più sangue rispetto ad altre magari perché ha
una funzione preponderante rispetto ad altre, quindi ha una necessità di sottrarre più ossigeno
rispetto a quella circostante.
E’ di pertinenza dell’arteria cerebrale media quasi tutto l’encefalo, ad eccezione del polo frontale e
di una striscia che è sulla sagittale mediana che è di pertinenza della cerebrale anteriore;
posteriormente è di pertinenza della cerebrale posteriore la corteccia occipitale e una parte basale
della corteccia temporale. Quindi se dividiamo in quarti: ¾ sono di pertinenza della cerebrale media
e una parte residua è di pertinenza dell’arteria cerebrale anteriore e posteriore. È ovvio che l’arteria
cerebrale media ostruita alla sua origine dia un quadro sintomatologico diverso rispetto a quella che
si ha in caso di un’ostruzione periferica. Una delle ostruzioni periferiche è quella che determina
l’afasia di Broca, che è di pertinenza dell’arteria cerebrale media, così come l’afasia di Wernicke.
Anche il lobo temporale è irrorato dall’arteria cerebrale media, ma da un suo altro ramo.
Così come alcuneparesi o paralisi emisomatiche (emisomatiche perché è sempre contro laterale
rispetto al territorio di irrorazione) possono essere espressivamente più importanti se viene chiusa
l’arteria cerebrale all’origine piuttosto che in periferia.

Qui c’è il famoso omuncolo di Penfield, quello sensitivo e quello motorio: questi hanno i propri
bilanciamenti territoriali in base alla densità di innervazione, la mano per esempio ha delle catene di
innervazione più puntuali, più ricche, più raffinate e quindi ha necessità di un numero maggiore di
neuroni corticali per una proiezione punto a punto. La stessa cosa succede alla parte sensitiva. Il
tronco, invece, che ha una superficie più elevata, una massa muscolare più grande, ha una
rappresentazione a livello corticale differente. Se si rapporta tutto questo al punto di vista clinico ci
si accorge che la parte superiore è di pertinenza dell’arteria cerebrale anteriore, mentre tutta la parte
in basso è di pertinenza dell’arteria cerebrale media (dove c’è l’arto superiore).

3.1.1. Arteria cerebrale anteriore

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Quindi se il paziente ha un deficit di irrorazione nell’arteria cerebrale anteriore, ad esempio un


ictus, come manifestazione clinica, considerando i danni a livello della corteccia motoria, avrà una
paresi con una distribuzione ed un’intensità di sintomi particolari: non cammina, arriva al pronto
soccorso o allo studio del medico sulla sedia a rotelle, ma ha la possibilità di muovere il braccio in
maniera corretta e magari parla bene, descrivendo lui stesso cosa gli sia successo “all’improvviso
mi è ceduta la gamba”.

Davanti ad un quadro clinico tipico, il neurologo o il medico di pronto soccorso esegue la manovra
di Mingazzini, ponendolo in posizione antigravitaria su una barella: il paziente viene messo
disteso con la faccia all’insù e gli si chiede di sollevare le braccia in posizione simmetrica: a quel
punto, una volta raggiunta la posizione (con le dita in estensione) gli si chiede di chiudere gli occhi;
dal punto di vista propriocettivo ma anche muscolare, il paziente deve controllare quella posizione
per almeno 1 minuto e non slivellare.

Se slivella dal lato paretico sottoslivella perché non ha la capacità di recuperare. ATTENZIONE!
Bisogna sempre fare attenzione che tenga gli occhi ben chiusi perché se tiene gli occhi aperti magari
ha l’ipostenia, ma recupera e fa il giochino di alzare il braccio non appena si accorge che quello
paretico si è abbassato, perché capisce che il braccio non va e riprende la posizione.
In conclusione tramite questa manovra si osserverà un sottoslivellamento, dovuto ad una debolezza
marcata, o una leggera pronazione, nel caso di una lieve debolezza, dal lato paretico.
La stessa cosa si fa con gli arti inferiori: sempre con il paziente a faccia in su si invita a mantenere
la gamba flessa sulle ginocchia e tutte e due allo stesso livello per almeno un minuto, senza nessun
ausilio.

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Il tempo di un minuto è inserito nei protocolli internazionali di valutazione del paziente, il


cosiddetto NI-age score (mi sembra dica così ma non sono riuscito a trovare nulla su internet), cioè
lo score internazionale per cui si dà un punteggio ai pazienti per poter valutare il deficit di forza e
che viene anche utilizzata nei casi della trombolisi, nel caso di infarto al miocardio. Sono cioè una
serie di inattivatori della cascata coagulativi che vengono ad essere inattivati, il plasminogeno in
particolare, e il soggetto per circa un’ora è completamente coagulato. Questa possibilità permette al
trombo se di piccole dimensioni di sciogliersi completamente e quindi di riperfondere la zona che
era a valle dell’ostruzione, ovviamente quando si è di fronte ad un ictus di tipo ischemico.
Questa è una tecnica abbastanza moderna, in Sicilia modernissima perché la rete territoriale per
l’assistenza dello stroke è stata attivata tre anni fa. In realtà queste cose sono ben più vecchie, tant’è
che oggi nelle parti del mondo dove è stata attivata prima, si sta cominciando a pensare che non
serve a niente perchè si è visto che la procedura migliore per poter disostruire il paziente non è
quella chimica o farmacologica ma è la meccanica, in cui tramite un catetere si arriva alla regione di
localizzazione del trombo e meccanicamente viene frullato e mandato via.
Quest’ultimo procedimento dà maggiore possibilità di successo anche perché così si possono
affrontare trombi di grandi dimensioni, mentre la trombochinasi da solo il sollecito.

3.1.2. Arteria cerebrale media


Nel caso di un’occlusione dell’arteria cerebrale media, invece, il paziente avrà una compromissione
dell’arto superiore o addirittura della parola. Il paziente arriva in pronto soccorso o in ambulatorio
con le proprie gambe, ma afasico e/o col braccio cadente.
In termini medici neurologici si dice che questi soggetti hanno i cosiddetti gradienti di forza. Si
parla di ipostenia come gradiente di forza crescente, cioè il deficit cresce a livello cranio-caudale,
quindi dalla testa ai piedi nel caso dell’ostruzione dell’arteria cerebrale anteriore (quindi sul referto
del neurologo ci sarà scritto “emiparesi a gradiente crescente cranio-caudale sinistra/destra, sospetto
di ictus dell’arteria cerebrale anteriore”, oppure “gradiente decrescente (crescente in senso caudo-
rostrale), sospetto di ictus dell’arteria cerebrale media”). Questo tipo di diagnosi può essere fatta già
a livello pre- radiologico. Non è detto, infatti, che per poter diagnosticare un ictus di tipo ischemico
sia necessario eseguire prima una diagnosi strumentale, perché in questo caso esiste una fase
iniziale della malattia in cui non c’è danno anatomico ma solamente danno funzionale, e questo
rende conto anche della presenza dei TIA (attacchi ischemici transitori), un’ischemia che determina

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una disfunzione di una parte della corteccia transitoriamente, nell’arco temporale delle 24 ore: se il
danno funzionale supera le 24 ore non si è più davanti ad un TIA perchè oltre al danno funzionale
subentra anche il danno anatomico documentabile tramite una TC nel caso di
un’ischemia.Mentrealla TC, nella prima fase della malattia, si vedrà al limite un’iperdensità,
un’iperintensità dell’arteria che è occlusa che manda in sofferenza il territorio irrorato, oppure una
sorta di rigonfiamento aspecifico. Se non c’è danno ischemico alla TC in questo caso si vedrà con
un segnale ipodenso.
Esiste però una metodica strumentale, la diffusion- perfusion, una risonanza d’emergenza, che deve
però essere eseguita precocemente nell’arco delle 4 ore permettendoci di studiare direttamente la
perfusione.Ma purtroppo in Sicilia le risonanze d’emergenza non sono da nessuna parte, nessun
presidio ospedaliero ha la possibilità, se non sollecitato, di avere in immediato una diffusion-
perfusion in risonanza, che tra l’altro è lo standard che viene utilizzato in tutte le stroke-unit, unità
di emergenza della malattia vascolare acuta, da Roma in su.

DIGRESSIONE:In Sicilia, per mancanza di personale e non per mancanza di capacità tecniche
questa possibilità è limitata soltanto ad alcuni centri Hub: nel caso della Sicilia occidentale il
capofila di questa rete di assistenza è l’ospedale Civico di Palermo mentre nel caso della Sicilia
orientale sono due, uno a Messina e uno a Catania, tutti centri Spoke. Tutta l’assistenza territoriale
anche per singola patologia, viene definita in centri Hub e Spoke, centri di riferimento che erogano
la prestazione d’emergenza che però nella complicazione dell’intervento fanno riferimento al centro
primario. Tutto ciò serve per minimizzare i costi di assistenza. Tutto questo purtroppo ha anche un
contenzioso legale. La cosa comunque importante è assistere il paziente e trattare la patologia
dopodiché traslare la incapacità al centro riferimento e attivarsi per trasferire il paziente in altra
parte.
Esempio: Il centro di riferimento di Caltanissetta è Palermo. Un paziente con ictus ha necessità di
essere trattato per una trombo lisi entro la finestra temporale di 4,5 ore, definita dai protocolli
internazionali. Considerato però che il paziente da casa sua all’ospedale per capire che si tratta di
qualcosa di grave ci impiega 1h /1,5h, poil’ambulanza perde un’altra mezz’ora, al pronto soccorso
perde un’altra mezz’ora per fare le visite, dopodiché deve essere trasferito al centro di riferimento
(l’elicottero ci impiega ¼ d’ora ma tutto il trasferimento dura leggermente di più), il tutto
deveessere fatto entro le 4,5 ore. Questa finestra temporale è importante perché più precocemente
viene lisato il trombo e minore estensione di fenomeni necrotici avremo.
Per la trombectomia meccanica il limite temporale è 6 ore e nel circolo posteriore addirittura è 1
giorno perché il danno potenziale è maggiore rispetto al danno eventuale.
La neurologia nel trattamento dello stroke è diventata la principale causa di denunce e di
contenzioso legale.

Ricapitolando, quindi conoscendo i territori d’innervazione delle varie arterie cerebrali, e valutando
i sintomi che il paziente presenta, ancora prima di eseguire una TC, sarà possibile fare diagnosi. La
TC diventerà positiva dopo 24h.
Fatta diagnosi si instaura una terapia precoce, magari non la trombolisi ma la classica terapia
antiaggregante, con acido acetilsalicilico ad alte dosi, garantendo una riperfusione più veloce ed
efficace rispetto al paziente non trattato.

Sbobinatore: Marisa Gelo Signorino


Controllore: Davide Macaluso 10
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Questo è importante anche per effettuare un giudizio di prognosi: a seconda del danno, del deficit
funzionale, si potrà sospettare che è occluso un vaso più o meno grosso.
Nel caso di un paziente che ha una paresi ad un braccio, ma parla correttamente, non è il territorio
di distribuzione completo dell’arteria cerebrale mediaad essere interessato, ma è un territorio
periferico chepermetterà di formulare una prognosi più favorevole per questo paziente rispetto ad
altri.

4. Aprassia
I sintomi possono essere prevalenti per danno anatomico, per esempio l’aprassia ideomotoria al di
sopra del giro angolare cioè quello che fa da cartuccia alla scissura di Silvio.
L’aprassia è un deficit del gesto finalizzato che può essere con o senza significato, l’incapacità di
poter capire il gesto e di poter riprodurlo, di effettuare i cosiddetti gesti intransitivi (gesti con
nessuna finalità): un soggetto con aprassia ideomotorio non saprà organizzare ed apprendere gesti di
nuova esecuzione e non saprà fare per esempio gesti che hanno un significato simbolico, ad
esempio il gesto del saluto. Il saluto militare è un normale gesto simbolico tipico di una determinato
contesto culturale.
Per la diagnosi dell’aprassia esiste un test, il test di De Renzi (colui che ha approfonditolo studio di
questo problema). Il test prevede l’esecuzione di una serie di gesti, su imitazione, che sono dei gesti
intransitivi, privi di significato, ma che solo un soggetto normale sarà in grado di ripetere, perché ha
trasformato visivamente quello che ha visto nelle coordinate motorie per riprodurlo. Il paziente con
l’aprassia ideomotoria non sa riprodurlo, soprattutto con la mano sinistra.

Differente è l’aprassia ideativa, in cui esiste una sorta di transazione del movimento sull’oggetto, si
osservano frequenti errori di omissione, uso erroneo, errata localizzazione, goffaggine, perplessità e
errori di sequenza nella presa di un oggetto.
Classico test daeseguire in questo caso è quello in cui si chiede al soggetto di far vedere su
imitazione come si accende una candela: normalmente per accendere una candela con una scatola di
fiammiferi, apriamo la scatola prendiamo il fiammifero lo strofiniamo, lo avviciniamo alla candela
e lo accendiamo. Il soggetto con aprassia ideativa prenderà la scatola, la sbatterà contro la candela,
perchénon sa organizzare la sequenza esatta dei gesti, non sa ideare la sequenza esatta dei gesti.

Altro tipo di aprassia è quella d’abbigliamento: scombina i bottoni, non sa metterli al giusto livello
oppure proprio non lo sa fare.
Tutte queste sono capacità di tipo combinatorio, organizzativo in cui esiste una capacità
propriocettiva, una capacità di elaborare l’oggetto bersaglio, la capacità di organizzare una serie di
movimenti per cui se il gesto non è finalizzato allo scopo che si è prefissato, diventa aprassico.

5. Atassia
Il soggetto atassico è un soggetto con disordine di coordinazione motoria, con difficoltà, ad
esempio, nell’esecuzione del cammino.
Un tipo di atassia è l’atassia cerebellare, in cui il paziente cammina male, non coordina il passo e
sembra che sia disordinato o che lo faccia in maniera goffa. Il cervelletto infatti è il centro di
coordinazione dei movimenti muscolari, ha la capacità di organizzare la sequenza esatta, per

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apprendimento dei gesti, raffinando il gesto e portandolo al minimo sforzo.L’alterazione del suo
funzionamento porta ad un gesto disorganizzato che cambia di volta in volta e che dipende dal venir
meno delle funzioni cerebellari.

6. Anartria e disartria
L’anartria, differente dall’afasia, è l’incapacità ad articolare le parole e può essere sia corticale che
non corticale, può essere anche periferica, ad esempio nel caso di un ascesso dentario che determina
difficoltà di apertura e chiusura della bocca, per paura di sentir dolore, comporta il parlar male del
paziente, una disartria periferica in questo caso.
La disartria periferica è molto spesso causa di errata diagnosi nella medicina d’emergenza, in cui il
paziente magari confuso perché ha un danno metabolico, o anche un semplice mal di denti, o è
soporoso, nel linguaggio appare disartrico ed erroneamenteviene visto come espressione di un
danno cerebrale da localizzazione del danno in corrispondenza delle aree motorie. In realtà la
confusione è data da una scarsa capacità di vigilanza oppure da un’incapacità ad aprire
correttamente la bocca perché si ha una minore efficienza nel fare questo tipo di movimenti e il
danno, che può essere linguistico, in realtà è di tipo periferico. Quindi bisogna prestare particolare
attenzione a ciò e discriminare in maniera corretta la disartria periferica da quella centrale e questa
dall’afasia.
La disartria può essere il cerebellare, così come nell’atassia cerebellare, in questo caso il paziente
avrà un deficit di coordinazione dei muscoli della bocca, da cui ne deriva un suono delle parole
alterato.

7. MECCANISMI DI VISIONE E AGNOSIA


I meccanismi di visione possono essere considerati sia a un livello semplice che come una
complessità di funzioni concomitanti.
L’agnosia è l’incapacità di riconoscere una determinata cosa. Si distinguono diversi tipi di agnosia:
agnosia per i colori; agnosia per le forme; per i volti, la cosiddetta prosopagnosia.
A proposito di quest’ultima, i soggetti prosopagnosici sono coloro che presentano un deficit di
capacità di riconoscimento dei volti anche familiari. Essi riconoscono solitamente i volti familiari
solo dal tono della voce o dal suono della voce, ma nell’immediato non riconoscono il familiare che
può anche essere un genitore, un marito, una moglie un figlio, se non dopo un attenta analisi dei
dettagli, ad esempio osservando gli occhi, la bocca, allora lì riconoscono ma nel complesso il volto
non viene percepito e riconosciuto.
Il tutto perché la memoria dei volti è una funzione specifica del lobo temporale.
Questo tipo di disturbi vengono diagnosticati attraverso test nei quali vengono mostrate fotografie
di familiari insieme a quelle di sconosciuti, chiedendo di indicare i volti familiari: il soggetto con
prosopagnosia non saprà riconoscerli. Un altro test utilizzato è quello dei volti famosi.

Altre forme di agnosia, invece, sono caratterizzate da deficit di funzioni più semplici che possono
essere definiti come l’incapacità di percepire le forme, ma anche i colori o i movimenti.
Sul movimento per esempio, esiste un area, l’area medio- temporale, o area MT, che elabora una
serie di informazioni che provengono dal lobo occipitale, quindi dall’area visiva, e le invia al lobo

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parietale, permettendo di eseguire dei calcoli riguardo al tempo impiegato per eseguire quel
determinato movimento.
Questo tipo di informazioni possono essere studiate perché è stata individuata una sorta di doppia
via anatomica che porta alla codifica del segnale visivoin relazione all’output finale, si parla infatti
di dorsal stream o ventral stream.
L’informazione visiva che noi percepiamo può essere utilizzata per dire dov’è un oggetto o cos’è
quell’oggetto, poi da queste informazioni per esempio possiamo dare delle informazioni precise di
quell’oggetto. Tutto questo perché nel corso della vita l’acquisizione di informazioni relative ad un
oggetto, vengono memorizzate nella corteccia temporale e confrontando quelle immagini già
memorizzate con quello stesso oggetto che si ha davanti, si avrà la capacità di definire
quell’oggetto: nel caso della penna (oggetto preso in esempio dal Prof), nel corso del tempo
abbiamo memorizzato la forma della penna, confrontando quelle immagini di penna che abbiamo
già immagazzinato possiamo dire che anche l’oggetto che abbiamo davanti è una penna.
Per calcolare, invece, la localizzazione della penna per prenderla si dovrà solo calcolare la distanza
tra noi e la penna, quanto è lungo il nostro braccio, se la possiamo prendere da seduti o da alzati per
poter raggiungerla e poi atteggiare la mano per poterla prendere. Queste informazioni visive hanno
un’altra finalità: le informazioni visive per il movimento vengono codificate nelle due vie differenti,
quella che dalla retina proietta alla corteccia visiva primaria e poi sale verso la corteccia parietale,
chiamata dorsal pathway o via visiva dorsale, che ha nel suo contesto come stazione di arresto
l’area medio-temporale, che serve per calcolare la velocità del movimento e la distanza spaziale.
Questa via ha già una sua segmentazione anatomica a livello retinico in cui sono identificate le vie
paracellualre e magno-cellulare, e proietta lo stesso segnale su aree corticali differenti che
estrapolano quel segnale per produrre un ulteriore segnale che poi viene “mangiato” dalle aree
frontali, nel caso delle vie dorsali, per produrre il movimento.
Differente è invece il segnale elaborato dalle vie ventrali che viene utilizzato per riconoscere quel
tipo di oggetto. C’è quindi una sorta di separazione tra la via del what e quella del where: a me
interessa per fare il movimento sapere dov’è l’oggetto, mentre per dire “quella lì è una penna”, mi
interessa conoscere quelle informazioni che provengono dalla via del what.
Le due vie pare che non comunichino tra di loro e questo è stato codificato da osservazioni cliniche
di due pazienti, uno con atassia ottica e compromissione del lobo parietale, l’altro con atassia visiva
e una lesione in una determinata area del lobo temporale. I soggetti mostrarono una dissociazione
del comportamento lesionale. I pazienti con agnosia visiva che hanno avuto un ictus, una lesione a
livello di una via infero-temporale e che come sintomatologia mostrano un comportamento
dissociativo dato dall’incapacità di riconoscere l’oggetto, ma sanno esattamente quale sia la
funzione di quell’oggetto specifico: nel caso della penna, non sapranno cos’è ma sanno che servirà
per la scrittura. La via interessata in questo caso è la ventra lpathway, più ventrale.
Il soggetto che ha avuto invece la lesione della via dorsale al contrario sa riconoscere l’oggetto ma
non sa come utilizzarlo: nel caso della penna sa riconoscerla, ma non sa utilizzarla, la prende in
maniera errata e soprattutto è deficitario nella capacità di costruire il cosiddetto spazio di
opposizione, cioè lo spazio necessario per mantenere ferma la penna tra le dita.Il soggetto che ha
questo tipo di deragliamento del gesto, che viene chiamata atassia ottica ed è data da una lesione
nel parietale apre tutta la mano ma riesce a scrivere perché recupera le informazioni, che la via
visiva non dà, tramite l’esperienza tattile. Questi soggetti, come se fossero ciechi, vanno a tentativi

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a cercare l’oggetto e una volta che l’hanno identificato e a livello propriocettivo recuperano la
forma, calcolando esattamente le dimensioni riescono a prenderla correttamente.
La diagnosi del disturbo era stata eseguita in Canada, anche se i soggetti che la presentavano erano
italiani. In Canada erano stare effettuate una serie di analisi di cinematica e si erano accorti che si
trattava di pazienti prototipo, data la difficoltà a trovare pazienti con singole o piccole lesioni che
compromettono solo una determinata area, perché di solito con l’ictus vengono colpite più aree
contemporaneamente, per cui diventa a volte impossibile fare una diagnosi corretta per la
sovrapposizione di deficit che magari avranno manifestazioni cliniche simili.

7.1.Illusioni ottiche
Dagli studi sul comportamento dissociativo, sono state associate, poi, alcune osservazioni di tipo
comportamentale attraverso altre evidenze sperimentali, che hanno permesso di effettuare studi più
che altro di tipo psicologico che di tipo neurologico, le cosiddette illusioni ottiche.
Esse sono la rappresentazione del fatto che tutto ciò che vediamo sia dinamico e che anche le
mancanze delle funzioni corticali superiori sono dinamiche.
Noi percepiamo le immagini sulla base di quelle che sono le componenti emotive, esperienziali.

Ad esempio in figura, che è una classica illusione ottica in cui si vede il vaso e i volti. La visione
dell’uno o dell’altra immagine dipende da quello che stiamo focalizzando l’attenzione, giocando sul
lobo parietale. La nostra visione ci fa vedere l’immagine come una sorta di flip flop, una volta ci fa
vedere i volti, una volta il vaso, non li vediamo mai contemporaneamente perché non abbiamo una
capacità analitica meccanica.

Lo stesso su questo tipo di immagine, in cui vediamo dei pesci di cui magari si nota un particolare
che ci sollecita di più, come l’occhio, la bocca, mentre la rana viene considerata come uno sfondo o
viceversa. Anche in questo caso è il lobo parietale
che ci fa focalizzare una parte della figura piuttosto
che in un’altra.

Ancora più rimarchevole è questa figura, in cui si


vedono una vecchia e una giovane donna, addirittura
alcuni psicologi affermano che la visione della
vecchia come prima immagine sia segno di
senescenza giovanile. Quello che ci fa vedere la
vecchia o la giovane sono gli stimoli che ha il nostro

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giudizio. Il tutto dipende prima da questione di tipo esperienziale, magari abbiamo visto una
persona che somigliava alla figura, poi perché alcune cose catturano la nostra attenzione più di altre
e quindi possiamo giudicare di volta in volta. Anche in questo caso non è un processo statico,
computerizzato, ma costruttivo, con particolare influenza anche di tipo emotivo. Quindi il nostro
encefalo non ci fa vedere cose così come sono, ma ci aggiunge qualcosa di suo che è il suo
contenuto esperienziale.

Anche quest’altra foto ad esempio in cui si vedono due tizi con un cane oppure la testa di un
anziano, il nostro cervello ci fa vedere sia l’uno che l’altro o uno delle due per un processo
dinamico, tra l’altro anche in periferia ci sono delle figure che non si notano perché si tende a
focalizzare l’attenzione sulla figura centrale.

Altra figura illusoria caratteristica, utilizzata anche per capire come funziona la via ventrale e la via
dorsale, è l’illusione di Muller Lyer, che ci illude nel
giudicare le due rette centrali differenti, una più piccola,
l’altra più grande, anche se in realtà sono uguali. Quello
che ci fa sbagliare è l’orientamento delle alette, centrate
nel primo e distanziate nell’altro, è come se sommassimo
la distanza tra Ae B considerando anche le alette e
diciamo che la B è più grande perché le alette ricadono
all’esterno. L’illusione ottica è maggiore se le vediamo in
maniera sequenziale una dopo l’altra.
In questo caso, per valutare il grado di illusione, si chiede al paziente di eseguire il compito di Point
cioè di puntamento, cioè mettere il dito indice sulla linea A e l’altro sull’altra linea: il paziente che
percettivamente è illuso eseguirà il compito motorio comunque in maniera corretta, perché la sua
corteccia motoria ha programmato un movimento corretto che non ha tenuto conto dell’illusione
ottica.
Questo significa che quindi ci sono due stream, due canali d’informazione che inviano le
informazioni in due punti diversi che fanno una computazione di quelle informazioni per finalità
diverse, in modo diverso, una è quella illusa e l’altra no: quella viso-percettiva è illusa, ma la viso-
motoria è corretta.
La viso-percettiva è il ventralpathway, ventralstream o infero-temporale, mentre quella non illusa è
la dorsalstream, quella che dal lobo parietale proietta le sue afferenze sul lobo frontale per il
movimento.
Questo è stato osservato contemporaneamente in pazienti che hanno il danno lesionale e ci ha dato
un’informazione importante su cosa e su come funzionano i circuiti per la programmazione e
l’esecuzione del movimento.

Altro esempio di distorsione. Se noi teniamo conto di ciò che vediamo, ci sono due triangoli grandi,
ma in realtà non ce n’è nemmeno uno, perché quello bianco è delineato, ma non esiste, mentre il
primo con la figura con lo sfondo nero è parziale, pensiamo che sia in parte nascosto dal triangolo
bianco, cioè pensiamo che sotto ci sia un triangolo con bordo nero e sopra un triangolo che
nasconde quello sotto, ma con bordo bianco, in realtà il triangolo nero con bordo nero non esiste,

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non è disegnato da nessuna parte, e quello che noi illusoriamente vediamo lo deduciamo da tutto
quello che ci sta attorno. Stiamo in realtà creando, immaginando un triangolo, non lo stiamo
vedendo, in maniera costruttiva, in maniera logica, ma non esiste, così come non esiste nemmeno il
triangolo bianco. Il computer, ad esempio, non riconoscerebbe nessun triangolo.

Altra immagine, in cui in realtà vediamo degli scarabocchi, mentre nell’immagine dopo vediamo
delle lettere B coperte dall’inchiostro, in realtà sono le stesse figure, la parte ocra che ci da le lettere
B è uguale in entrambe quello che cambia e che costruisce le B è la macchia di colore, stiamo cioè
facendo un processo di interpolazione, stiamo immaginando che utilizzando questo ragionamento la
macchia stia nascondendo una parte della lettera B, che in realtà non è nascosta.Il colore della
macchia che prima era bianco adesso è nero, quindi è un dato esperienziale che abbiamo noi. È
possibile che una macchia di inchiostro sia caduto in un puzzle di lettere B e ha alterato l’immagine,
io vi costruisco eliminando la parte mancante facendo un processo di immaginazione che è
produttivo, che ci dà informazione che in realtà non esistono.

Questa è un po’ più semplice come illusione e ci dà un’informazione su come ragiona la nostra
corteccia. Ci sono una serie di cerchi, messi nella figura accanto in maniera rovesciata. Ciò che ci
compare saranno palline con convessità e concavità, in realtà sono uguali, è la stessa striscia
rovesciata, con la parte più scura messa sopra. In questo caso stiamo immaginando che una sorgente
luminosa, messa sopra, urtando la penombra disegni la concavità o convessità della pallina.
Anche questo è un dato illusorio dato dalla nostra esperienza.

Questo è un altro errore famoso che ci viene dato dall’esperienza, la prospettiva ed il punto di fuga,
utilizzato dagli artisti per dare la prospettiva degli oggetti.
In questo caso stiamo guardando due persone sedute in un corridoio, una davanti la propria classe e
l’altra più indietro davanti alla successiva porta, diremo che sono due donne, delle stesse dimensioni
perché stiamo costruendo uno spazio che in realtà a livello computeristico non esiste tant’è che
nell’immagine successiva vedremo la differenza reale quale sia, come una figura sia più piccola
rispetto all’altra se portata in avanti.

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Questa è un illusione di tipo prospettico.


Questo tipo di illusione invece ci dà un altro tipo di informazione, cioè non è solo la nostra
esperienza che ci porta ad illuderci, ma è solamente come è fatta la nostra corteccia, nel senso che
già di per sé noi calcoliamo le porzioni di spazio considerandole tridimensionali e profonde, e
quando ci troviamo di fronte ad un errore dato dalla bidimensionalità di una rappresentazione, che
illusoriamente trasporta nello stesso spazio, però nel punto di fuga che utilizzano i pittori, non
siamo capaci di razionalizzare,di misurare in maniera corretta le distanze.
Secondo alcuni psicologi le nostre esperienze neurosensoriali sono in realtà complessive ed
interagenti l’una con l’altra e questo perché il nostro cervello funziona per blocchi, non analizzando
in maniera selettiva le singole informazioni. Questo è vero a livello visivo ma anche vero a livello
motorio: se pensiamo di dover prendere una tazza, disporremo le mani in modo tale da facilitare la
presa della tazza e non in modo diverso perché altrimenti non riusciremmo a prenderla, e
riusciremmo a fare lo stesso gesto anche se non è presente la tazza e dobbiamo immaginare di
prenderla, perché nel nostro cervello abbiamo immagazzinato le informazioni necessarie.

Tutto questo ci serve per capire come diverse sindromi, caratterizzate da un eziopatogenesi
differente, in realtà, possono manifestarsi con le stesse manifestazioni cliniche se le aree encefaliche
colpite sono le stesse.
La stessa cosa, in parte, viene di solito studiata in neuropsicologia, cioè quando esistono delle
possibilità di testare le singole funzioni con dei test neurofisiologici per far venir fuori determinati
sintomi.

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