La genesi di un atto di espressione è un processo di estrazione, uno spremere fuori.
Niente viene estratto se non da una materia originariamente grezza. L’uomo di norma dà figure nuove a cose che ha sottomano. Allora fare un’opera è il far breccia di uomo verso se stesso. E’ esatto ciò che ci dice il Sohar: il libro è infisso, in fondo a una caverna, in una fessura nella roccia. E ci si è infissi anche noi. Si entra ora nel purgatoriale mare di fuoco, fretum febris avanti l’alba, nel tempo onirico prima del carnevale. Non c’è possibilità senza almeno all’inizio uno sprofondamento. Nondimeno nella misura in cui si ha il coraggio pavido di proseguire, i movimenti di sprofondamento e sotterramento fanno posto a movimenti laterali di slittamento, perché uno scrittore lavora con le parole e fa di queste degli eventi che sono come cristalli, diventano e crescono soltanto per i bordi, sui bordi. La lingua, quella vera, divenuta vera e fatta vera, contrariamente alla musica, sta – e oscilla e trema contemporaneamente. Sta in bilico. Lui scivola in lunghezza in modo che la profondità ha senso solo se ridotta al senso inverso della superficie. Così si comprende che la semplice fuoriuscita di materiale grezzo non può essere espressione. Di solito non è chiaro allo scrittore all’inizio il rapporto tra superconscio e subconscio. E’ nel compimento riuscito della sua opera che gli diviene chiaro come il superconscio è lì pronto a riconoscere nella scrittura una coerenza che ne fa un riflesso dell’Unità, il subconscio deve riconoscervi un modello su cui organizzare il proprio caos. Il succo viene fuori quando gli acini sono schiacciati nel torchio. Ma il succo non può venire fuori senza interagire con qualcosa di esterno a esso: i piedi dell’uomo o il torchio pigiano. Anche nei modi d’espressione più automatici c’è interazione con qualcosa che sembra esterno – il mondo, abitato dal linguaggio, per cui noi esistiamo nel linguaggio ma non siamo linguaggio, linguaggio che ci divide nelle due serie simultanee che non sono mai eguali. L’una rappresenta il significante, l’altra il significato. Il significante è la solo dimensione di espressione che possiede in verità il privilegio di non essere relativa a un termine indipendente, poiché il senso come espressione non esiste fuori dall’espressione e le capacità espressive dei segni sono illimitate sia nei modi combinatori sia nelle potenzialità di significato. Nell’esistenza degli uomini non c’è niente di più sconvolgente della constatazione che noi possiamo pensare e/o dire qualsiasi cosa. Questa libertà semantica ha come conseguenza una varietà non circoscritta di approcci alla trasparenza dell’intelligibilità che non è data o assicurata una volta per tutte. Nel caso del linguaggio, in qualsiasi atto linguistico, le parole invitano altre parole. Così un classico, ciò che fa grande un libro, è una forma significante che ci legge più di quanto noi lo leggiamo. Non c’è nulla di esoterico in questo se si comprende che esso sfida le risorse della nostra coscienza e della nostra mente e del nostro corpo (gran parte della reazione estetica e persino intellettuale è corporale). Se non deborda il presente, se si consuma immediatamente, mostrerebbe che non ha avvenire alcuno. Simultaneamente arriva l’intuito che dall’altro lato del versante l’atto di espressione che costituisce un’opera d’arte è una costruzione nel tempo, non un’emissione istantanea. Lo scrittore che tenta di percorrere la strada del compimento riuscito si trova nella stessa situazione svolta in due tempi da molte specie (tutti i felini, ad esempio) nell’azione cronodetica della cattura della preda – nel nostro caso la parola: l’attesa dell’appostamento e lo scatto della presa. Lo scacco dello scrittore che fa grande la letteratura è anticipazione della parola come calcolo quasi perfetto del punto d’incontro di due traiettorie, analogamente a quanto si realizza con i sistemi elettronici di puntamento. Ciò che viene a convegno e fa agire lo scrittore è la costruzione di un’esperienza integrale attraverso l’interazione tra condizioni verbali ed energie organiche e ambientali. Una prima annotazione deve farsi circa il rapporto fra esperienza interna e sua verbalizzazione: il vasto strato immedesimativo implicito che costituisce una delle componenti della doxicità diffusa è formato da conoscenze traversanti che provengono dall’introspezione spontanea e dalla verbalizzazione della propria interiorità. Ma verbalizzazione dell’interiorità significa – irrimediabilmente – reificazione e introiezione della logica cosale. La parola deve necessariamente reificare l’estrema complessità degli accadimenti interni che la coscienza riflettente non può cogliere nella loro minutissima struttura. La parola non può perdere il carattere originario ed intrinseco dei segni verbali che è quello di riferimento ad eventi del mondo che sono macroscopici nel sistema di riferimento percettivo e motorio proprio della scala dimensionale dell’uomo: ciò che interiormente fluisce e che solo pre-riflessivamente può essere colto, viene ora scaraventato fuori dalla parola e reso oggetto o macchina o energia oppure azione e quindi dramma, storia, narrazione. L’altro aspetto è invece l’attesa, che non è solo necessaria affinché l’azione dello scrittore sia portata nel momento opportuno, ma è altresì indispensabile – nella sua riduzione minimale – per la ricognizione dell’ambiente, per il calcolo dei parametri di traiettoria, per la realizzazione della giusta tensione. Tutte le attività umane che prevedono precisione di esecuzione sono precedute da una pausa cronodetica: questa delayed action, questo tempo fermo (Korzybski) che precede il blitz dell’azione appropriata. La Semantica generale aveva fatto della delayed action un aspetto importante del training non-aristotelico (The neurological importance of consciousness of abstracting is based precisely on the fact that it automatically involves a fraction of a second of psyco-logical delay, and thus is fundamentally based on, and introduces in training, a wholesome inhibition: Korzybski) e dunque una capacità eminentemente superiore rispetto alla reazione immediata. Il ritardo di una frazione di secondo permette una migliore integrazione cortico-talamica ed è una conseguenza operativa della formazione di una coscienza di astrarre. Ciò significa conseguentemente che l’espressione del sé in e attraverso il medium, che è costituitivo di una grande opera di letteratura, è essa stessa una interazione prolungata di qualcosa che scaturisce dal sé con condizioni oggettive, un processo in cui entrambi questi elementi acquisiscono una forma e un ordine che dapprima non possedevano. L’oggetto espresso viene estorto all’autore dalla pressione esercitata da cose oggettive sugli impulsi e tendenze naturali – essendo l’espressione ben altro che il risultato diretto e incontaminato di questi ultimi elementi. Così, gli eventi – ad esempio la luce del sole sulle foglie, il cielo azzurro, la morte di una persona – non bisogna tradirli col linguaggio. Arte sarebbe aspettare, concentrarsi, finché questi eventi divenissero da sé linguaggio. Lo scrittore si ferma di continuo nell’incedere e si china sui piccoli e piccolissimi elementi e l’eccitamento che ne deriva mette in moto una grande quantità di atteggiamenti e significati derivati dall’esperienza precedente. Quante volte lo scrittore è dolorosamente solo sulla scena del suo interno, ed ecco che finalmente arrivano altri, tu e lei, a volte i popoli della terra, un volto, una vecchia notizia, e allora si sta insieme per dare spazio e calore a tutte le estrinsecazioni di vita. Essere infiammati da un pensiero o una scena significa essere ispirati, spesso una ispirazione dolorosa, perché non soffriamo di incomunicazione, soffriamo a causa delle forze che ci obbligano a esprimerci quando non abbiamo granché da dire, così non turbiamo i divenire. Ciò che è arroventato non può che incenerirsi o metter capo a un materiale che lo trasforma da metallo grezzo in un prodotto raffinato. Più di una persona è scontenta, agitata interiormente, perché non dispone o non riesce nell’arte di compiere azioni espressive. Quello che in condizioni più felici consente di vincere l’ispirazione dolorosa mercé l’entusiasmo e che potrebbe essere usato per trasformare un materiale oggettivo nel materiale di una esperienza intensa e chiara, ribolle all’interno in un tumulto sregolato che alla fine si spegne, eventualmente dopo una disgregazione intensa. L’autore, in quanto corpo percipiente, vissuto, soggetto simbolico, animale di parole, non rispecchia la realtà in se stessa secondo una fantasia metafisica di un’essenza rispecchiante, piuttosto fa testimonianza di una realtà sulla base della focalizzazione dei modi espressivi e degli usi linguistici che mette in atto. Invenzione e scoperta non si respingono, ma risultano solidali, collaborativi per fissare una modalità specifica di espressione e di interpretazione del mondo. Un’invenzione letteraria significa che posso seguitare a inventare: l’invenzione non finisce, non si consuma, non ha termine (soltanto questo segnala che è valida). Per effetto della sua connessione con il mondo naturale lo scrittore diviene il teatro di un flusso di percezioni, immagini, cognizioni, trame e parole che si aggregano in modo immanente e intransitivo fra loro – avanti alla decisione o prima del progetto deliberato di un io consapevole e razionale – grazie al traffico occulto della metafora che unisce fra loro componenti irrelate della realtà. In questo senso anche la parola letteraria non è un prodotto generato dall’intelligenza, perché questa parola anziché essere qualcosa di artefatto, artificiale, di inventato ex nihilo e di arbitrario, genera il nuovo proprio in quanto riscopre una costellazione, una sequenza di connessioni esperite in un antefatto pre-logico, pre-concettuale dell’esperienza interna ed esterna, nella condizione della non-presenza e di un vuoto, nella direzione secondo cui si cerca una traccia. C’è quindi un Tempo della scrittura che ossessiona il discorso, che non si parla, dove ogni ora evoca un allora o un’altra volta, ogni qui un là. Stato intermedio, di dormiveglia o di semirisveglio, che può nello scrittore essere paragonato alla reverie del passeggiatore solitario, in cui ognuno, il più grande soprattutto, scrive per afferrare con il e nel testo qualcosa che non sa scrivere. Che non si lascerà scrivere, lo sa. Questo è un momento di evocazione che l’ispirazione compone di materiali che vanno soggetti a combustione per contatti ravvicinati e per resistenze esercitate l’uno nei confronti dell’altro. L’atto di espressione non è qualcosa che sopravviene sull’ispirazione già compiuta. E’ il portare avanti il completamento dell’ispirazione servendosi del materiale oggettivo della percezione e dell’immaginario. E’ allora che l’io compare come una palla di cannone sparata su dal mare e ci si butta da parte per disgusto. Disgusto? E’ piuttosto coscienza concentrata, uno scoppiare di tutte le fattualità, il disgusto della consapevolezza, di quella che ci dice che siamo nudi. Lo scrittore per generare deve mettere in gioco qualcosa, qualcosa che sia importante e incerto – come l’esito di uno scontro o le previsioni su un avvenire. Una cosa certa può suscitare emotività ma non ci scuote emotivamente. Molte delle concezioni errate della natura dell’espressione letteraria nascono dall’idea per cui un’emozione sarebbe compiuta in se internamente, ed andrebbe quindi a collidere con un materiale esterno solo quando viene esternata. Nella realtà un’emozione è diretta a, o derivante da o relativa a qualcosa di oggettivo, effettivamente o idealmente. Un’emozione è coinvolta in una situazione il cui esito è sospeso e in cui il sé che si muove nell’emozione è implicato vitalmente. Le situazioni possono essere deprimenti, intollerabili, minacciose, trionfali, ma è il carattere unico, irriproducibile di eventi e situazioni di cui si è fatta esperienza a impregnare l’emozione suscitata. E’ da tutto ciò che comincia il Fuoco delle immagini, il fuoco della lingua. Il fuoco ordito in intreccio di parole, nello sfavillio che s’apre come un ventre in gestazione. Scrivere diventa allora un modo di reagire, di vivere, di resistere, perché inventare non è comunicare, scrivere è un modo dell’interpretazione simbolica del mondo e di se stessi con la testa china su questa Terra ove l’umanità intera sprofonda mentre tu altro non vedi che l’ombra immensa. Tutto è tortuoso, vibratile, si tratta di affrontare le idee come se provenissero da una lontananza in cui sono depositate le tracce che hanno poi animato il pensiero conscio e diurno. Narrare, scrivere, parlare sono modi di vita sostanziali che espongono l’uomo, sempre a propria insaputa, a un processo nel quale si forma in lui un nuovo paesaggio interiore, e conseguentemente si è sempre esposti all’irruzione di nuove parole, che non poteva cercare, che non poteva inseguire, ma piuttosto che hanno inseguito lui per tutta la vita, che sono emerse sul suo orizzonte riordinando l’ordine delle sue percezioni, dei suoi valori, prefigurando nuovi volti, nuovi vertici dai quali guardare il mondo. Che cosa avverrebbe se una pianta dirigesse consapevolmente, pianificasse la sua crescita? Svilupperebbe soltanto le foglie o i rami o il tronco, non potrebbe mai attingere l’armonia naturale. Le buone intenzioni sono necessariamente punite innanzitutto per la delicatezza dell’impresa, per la fragilità propria delle superfici. Bisogna levarsi di dosso il vizio del pensare prima; il pericolo si corre quando la mente corre troppo avanti. Se pensiamo al motivo per cui certi libri ci disturbano, è molto probabile che la causa sia nell’assenza di un’emozione sentita di persona che guidi la selezione e la raccolta dei materiali presentati. Si avverte che l’autore sta cercando di conformare la natura dell’emozione suscitata a un’intenzione calcolata. Ci si irrita perché sentiamo che egli sta manipolando il materiale per ottenere un effetto deciso in anticipo. La caratteristica che rende e identifica le opere banali ed effimere in letteratura, è proprio il fatto che esse possono essere classificate e capite una volta per tutte. In un senso certamente razionale e pragmatico, un atto significante serio – verbale – non può essere esaurito dalla somma delle sue interpretazioni. Non lo si può inchiodare e dargli una collocazione fissa. Per quanto riguarda il linguaggio, nessun dizionario è definitivo. Cambiano le definizioni e i campi semantici delle parole. La grammatica, nervo del pensiero, ha la sua ricchezza storica, fatta di tensioni dialettiche fra correttezza e sovversione, fra retaggio e innovazione. Non c’è lettore, per quanto navigato ed equipaggiato, capace di esaurire la lettura di un classico. C’è una differenza fra il volere, desiderare leggere e il mero voler sapere. D’altra parte lo sforzo diretto nell’autore di intelligenza e volontà di per sé non ha mai dato origine a qualcosa che non fosse meccanico: la loro funzione è necessaria e probabilmente in altri campi può bastare, ma nella creazione letteraria deve lasciare agire alleati che esistono al di la de loro scopi. In questo senso imprendibile la letteratura dimostra di essere sovrana sugli esseri umani e si apre alla possibilità indeterminata di interferire negli eventi umani e sui mutamenti che ne possono derivare.