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Dalla Lezione Magistrale tenuta a Tel Aviv.

Convegno Internazionale Studi Letterari.

La genesi di un atto di espressione è un processo di estrazione, uno spremere fuori.


Niente viene estratto se non da una materia originariamente grezza. L’uomo di norma
dà figure nuove a cose che ha sottomano. Allora fare un’opera è il far breccia di uomo
verso se stesso. E’ esatto ciò che ci dice il Sohar: il libro è infisso, in fondo a una
caverna, in una fessura nella roccia. E ci si è infissi anche noi. Si entra ora nel
purgatoriale mare di fuoco, fretum febris avanti l’alba, nel tempo onirico prima del
carnevale. Non c’è possibilità senza almeno all’inizio uno sprofondamento.
Nondimeno nella misura in cui si ha il coraggio pavido di proseguire, i movimenti di
sprofondamento e sotterramento fanno posto a movimenti laterali di slittamento,
perché uno scrittore lavora con le parole e fa di queste degli eventi che sono come
cristalli, diventano e crescono soltanto per i bordi, sui bordi. La lingua, quella vera,
divenuta vera e fatta vera, contrariamente alla musica, sta – e oscilla e trema
contemporaneamente. Sta in bilico. Lui scivola in lunghezza in modo che la
profondità ha senso solo se ridotta al senso inverso della superficie. Così si
comprende che la semplice fuoriuscita di materiale grezzo non può essere espressione.
Di solito non è chiaro allo scrittore all’inizio il rapporto tra superconscio e
subconscio. E’ nel compimento riuscito della sua opera che gli diviene chiaro come il
superconscio è lì pronto a riconoscere nella scrittura una coerenza che ne fa un
riflesso dell’Unità, il subconscio deve riconoscervi un modello su cui organizzare il
proprio caos. Il succo viene fuori quando gli acini sono schiacciati nel torchio. Ma il
succo non può venire fuori senza interagire con qualcosa di esterno a esso: i piedi
dell’uomo o il torchio pigiano. Anche nei modi d’espressione più automatici c’è
interazione con qualcosa che sembra esterno – il mondo, abitato dal linguaggio, per
cui noi esistiamo nel linguaggio ma non siamo linguaggio, linguaggio che ci divide
nelle due serie simultanee che non sono mai eguali. L’una rappresenta il significante,
l’altra il significato. Il significante è la solo dimensione di espressione che possiede in
verità il privilegio di non essere relativa a un termine indipendente, poiché il senso
come espressione non esiste fuori dall’espressione e le capacità espressive dei segni
sono illimitate sia nei modi combinatori sia nelle potenzialità di significato.
Nell’esistenza degli uomini non c’è niente di più sconvolgente della constatazione che
noi possiamo pensare e/o dire qualsiasi cosa. Questa libertà semantica ha come
conseguenza una varietà non circoscritta di approcci alla trasparenza
dell’intelligibilità che non è data o assicurata una volta per tutte. Nel caso del
linguaggio, in qualsiasi atto linguistico, le parole invitano altre parole. Così un
classico, ciò che fa grande un libro, è una forma significante che ci legge più di
quanto noi lo leggiamo. Non c’è nulla di esoterico in questo se si comprende che esso
sfida le risorse della nostra coscienza e della nostra mente e del nostro corpo (gran
parte della reazione estetica e persino intellettuale è corporale). Se non deborda il
presente, se si consuma immediatamente, mostrerebbe che non ha avvenire alcuno.
Simultaneamente arriva l’intuito che dall’altro lato del versante l’atto di espressione
che costituisce un’opera d’arte è una costruzione nel tempo, non un’emissione
istantanea. Lo scrittore che tenta di percorrere la strada del compimento riuscito si
trova nella stessa situazione svolta in due tempi da molte specie (tutti i felini, ad
esempio) nell’azione cronodetica della cattura della preda – nel nostro caso la parola:
l’attesa dell’appostamento e lo scatto della presa. Lo scacco dello scrittore che fa
grande la letteratura è anticipazione della parola come calcolo quasi perfetto del punto
d’incontro di due traiettorie, analogamente a quanto si realizza con i sistemi
elettronici di puntamento. Ciò che viene a convegno e fa agire lo scrittore è la
costruzione di un’esperienza integrale attraverso l’interazione tra condizioni verbali
ed energie organiche e ambientali. Una prima annotazione deve farsi circa il rapporto
fra esperienza interna e sua verbalizzazione: il vasto strato immedesimativo implicito
che costituisce una delle componenti della doxicità diffusa è formato da conoscenze
traversanti che provengono dall’introspezione spontanea e dalla verbalizzazione della
propria interiorità. Ma verbalizzazione dell’interiorità significa – irrimediabilmente –
reificazione e introiezione della logica cosale. La parola deve necessariamente
reificare l’estrema complessità degli accadimenti interni che la coscienza riflettente
non può cogliere nella loro minutissima struttura. La parola non può perdere il
carattere originario ed intrinseco dei segni verbali che è quello di riferimento ad
eventi del mondo che sono macroscopici nel sistema di riferimento percettivo e
motorio proprio della scala dimensionale dell’uomo: ciò che interiormente fluisce e
che solo pre-riflessivamente può essere colto, viene ora scaraventato fuori dalla parola
e reso oggetto o macchina o energia oppure azione e quindi dramma, storia,
narrazione. L’altro aspetto è invece l’attesa, che non è solo necessaria affinché
l’azione dello scrittore sia portata nel momento opportuno, ma è altresì indispensabile
– nella sua riduzione minimale – per la ricognizione dell’ambiente, per il calcolo dei
parametri di traiettoria, per la realizzazione della giusta tensione. Tutte le attività
umane che prevedono precisione di esecuzione sono precedute da una pausa
cronodetica: questa delayed action, questo tempo fermo (Korzybski) che precede il
blitz dell’azione appropriata. La Semantica generale aveva fatto della delayed action
un aspetto importante del training non-aristotelico (The neurological importance of
consciousness of abstracting is based precisely on the fact that it automatically
involves a fraction of a second of psyco-logical delay, and thus is fundamentally
based on, and introduces in training, a wholesome inhibition: Korzybski) e dunque
una capacità eminentemente superiore rispetto alla reazione immediata. Il ritardo di
una frazione di secondo permette una migliore integrazione cortico-talamica ed è una
conseguenza operativa della formazione di una coscienza di astrarre.
Ciò significa conseguentemente che l’espressione del sé in e attraverso il medium, che
è costituitivo di una grande opera di letteratura, è essa stessa una interazione
prolungata di qualcosa che scaturisce dal sé con condizioni oggettive, un processo in
cui entrambi questi elementi acquisiscono una forma e un ordine che dapprima non
possedevano. L’oggetto espresso viene estorto all’autore dalla pressione esercitata da
cose oggettive sugli impulsi e tendenze naturali – essendo l’espressione ben altro che
il risultato diretto e incontaminato di questi ultimi elementi. Così, gli eventi – ad
esempio la luce del sole sulle foglie, il cielo azzurro, la morte di una persona – non
bisogna tradirli col linguaggio. Arte sarebbe aspettare, concentrarsi, finché questi
eventi divenissero da sé linguaggio. Lo scrittore si ferma di continuo nell’incedere e si
china sui piccoli e piccolissimi elementi e l’eccitamento che ne deriva mette in moto
una grande quantità di atteggiamenti e significati derivati dall’esperienza precedente.
Quante volte lo scrittore è dolorosamente solo sulla scena del suo interno, ed ecco che
finalmente arrivano altri, tu e lei, a volte i popoli della terra, un volto, una vecchia
notizia, e allora si sta insieme per dare spazio e calore a tutte le estrinsecazioni di vita.
Essere infiammati da un pensiero o una scena significa essere ispirati, spesso una
ispirazione dolorosa, perché non soffriamo di incomunicazione, soffriamo a causa
delle forze che ci obbligano a esprimerci quando non abbiamo granché da dire, così
non turbiamo i divenire.
Ciò che è arroventato non può che incenerirsi o metter capo a un materiale che lo
trasforma da metallo grezzo in un prodotto raffinato. Più di una persona è scontenta,
agitata interiormente, perché non dispone o non riesce nell’arte di compiere azioni
espressive. Quello che in condizioni più felici consente di vincere l’ispirazione
dolorosa mercé l’entusiasmo e che potrebbe essere usato per trasformare un materiale
oggettivo nel materiale di una esperienza intensa e chiara, ribolle all’interno in un
tumulto sregolato che alla fine si spegne, eventualmente dopo una disgregazione
intensa.
L’autore, in quanto corpo percipiente, vissuto, soggetto simbolico, animale di parole,
non rispecchia la realtà in se stessa secondo una fantasia metafisica di un’essenza
rispecchiante, piuttosto fa testimonianza di una realtà sulla base della focalizzazione
dei modi espressivi e degli usi linguistici che mette in atto. Invenzione e scoperta non
si respingono, ma risultano solidali, collaborativi per fissare una modalità specifica di
espressione e di interpretazione del mondo. Un’invenzione letteraria significa che
posso seguitare a inventare: l’invenzione non finisce, non si consuma, non ha termine
(soltanto questo segnala che è valida).
Per effetto della sua connessione con il mondo naturale lo scrittore diviene il teatro di
un flusso di percezioni, immagini, cognizioni, trame e parole che si aggregano in
modo immanente e intransitivo fra loro – avanti alla decisione o prima del progetto
deliberato di un io consapevole e razionale – grazie al traffico occulto della metafora
che unisce fra loro componenti irrelate della realtà. In questo senso anche la parola
letteraria non è un prodotto generato dall’intelligenza, perché questa parola anziché
essere qualcosa di artefatto, artificiale, di inventato ex nihilo e di arbitrario, genera il
nuovo proprio in quanto riscopre una costellazione, una sequenza di connessioni
esperite in un antefatto pre-logico, pre-concettuale dell’esperienza interna ed esterna,
nella condizione della non-presenza e di un vuoto, nella direzione secondo cui si cerca
una traccia.
C’è quindi un Tempo della scrittura che ossessiona il discorso, che non si parla, dove
ogni ora evoca un allora o un’altra volta, ogni qui un là. Stato intermedio, di
dormiveglia o di semirisveglio, che può nello scrittore essere paragonato alla reverie
del passeggiatore solitario, in cui ognuno, il più grande soprattutto, scrive per
afferrare con il e nel testo qualcosa che non sa scrivere. Che non si lascerà scrivere, lo
sa. Questo è un momento di evocazione che l’ispirazione compone di materiali che
vanno soggetti a combustione per contatti ravvicinati e per resistenze esercitate l’uno
nei confronti dell’altro. L’atto di espressione non è qualcosa che sopravviene
sull’ispirazione già compiuta. E’ il portare avanti il completamento dell’ispirazione
servendosi del materiale oggettivo della percezione e dell’immaginario. E’ allora che
l’io compare come una palla di cannone sparata su dal mare e ci si butta da parte per
disgusto. Disgusto? E’ piuttosto coscienza concentrata, uno scoppiare di tutte le
fattualità, il disgusto della consapevolezza, di quella che ci dice che siamo nudi.
Lo scrittore per generare deve mettere in gioco qualcosa, qualcosa che sia importante
e incerto – come l’esito di uno scontro o le previsioni su un avvenire. Una cosa certa
può suscitare emotività ma non ci scuote emotivamente. Molte delle concezioni errate
della natura dell’espressione letteraria nascono dall’idea per cui un’emozione sarebbe
compiuta in se internamente, ed andrebbe quindi a collidere con un materiale esterno
solo quando viene esternata.
Nella realtà un’emozione è diretta a, o derivante da o relativa a qualcosa di oggettivo,
effettivamente o idealmente. Un’emozione è coinvolta in una situazione il cui esito è
sospeso e in cui il sé che si muove nell’emozione è implicato vitalmente. Le situazioni
possono essere deprimenti, intollerabili, minacciose, trionfali, ma è il carattere unico,
irriproducibile di eventi e situazioni di cui si è fatta esperienza a impregnare
l’emozione suscitata. E’ da tutto ciò che comincia il Fuoco delle immagini, il fuoco
della lingua. Il fuoco ordito in intreccio di parole, nello sfavillio che s’apre come un
ventre in gestazione. Scrivere diventa allora un modo di reagire, di vivere, di resistere,
perché inventare non è comunicare, scrivere è un modo dell’interpretazione simbolica
del mondo e di se stessi con la testa china su questa Terra ove l’umanità intera
sprofonda mentre tu altro non vedi che l’ombra immensa. Tutto è tortuoso, vibratile,
si tratta di affrontare le idee come se provenissero da una lontananza in cui sono
depositate le tracce che hanno poi animato il pensiero conscio e diurno.
Narrare, scrivere, parlare sono modi di vita sostanziali che espongono l’uomo, sempre
a propria insaputa, a un processo nel quale si forma in lui un nuovo paesaggio
interiore, e conseguentemente si è sempre esposti all’irruzione di nuove parole, che
non poteva cercare, che non poteva inseguire, ma piuttosto che hanno inseguito lui per
tutta la vita, che sono emerse sul suo orizzonte riordinando l’ordine delle sue
percezioni, dei suoi valori, prefigurando nuovi volti, nuovi vertici dai quali guardare il
mondo. Che cosa avverrebbe se una pianta dirigesse consapevolmente, pianificasse la
sua crescita? Svilupperebbe soltanto le foglie o i rami o il tronco, non potrebbe mai
attingere l’armonia naturale. Le buone intenzioni sono necessariamente punite
innanzitutto per la delicatezza dell’impresa, per la fragilità propria delle superfici.
Bisogna levarsi di dosso il vizio del pensare prima; il pericolo si corre quando la
mente corre troppo avanti.
Se pensiamo al motivo per cui certi libri ci disturbano, è molto probabile che la causa
sia nell’assenza di un’emozione sentita di persona che guidi la selezione e la raccolta
dei materiali presentati. Si avverte che l’autore sta cercando di conformare la natura
dell’emozione suscitata a un’intenzione calcolata. Ci si irrita perché sentiamo che egli
sta manipolando il materiale per ottenere un effetto deciso in anticipo. La
caratteristica che rende e identifica le opere banali ed effimere in letteratura, è proprio
il fatto che esse possono essere classificate e capite una volta per tutte. In un senso
certamente razionale e pragmatico, un atto significante serio – verbale – non può
essere esaurito dalla somma delle sue interpretazioni. Non lo si può inchiodare e
dargli una collocazione fissa. Per quanto riguarda il linguaggio, nessun dizionario è
definitivo. Cambiano le definizioni e i campi semantici delle parole. La grammatica,
nervo del pensiero, ha la sua ricchezza storica, fatta di tensioni dialettiche fra
correttezza e sovversione, fra retaggio e innovazione. Non c’è lettore, per quanto
navigato ed equipaggiato, capace di esaurire la lettura di un classico. C’è una
differenza fra il volere, desiderare leggere e il mero voler sapere. D’altra parte lo
sforzo diretto nell’autore di intelligenza e volontà di per sé non ha mai dato origine a
qualcosa che non fosse meccanico: la loro funzione è necessaria e probabilmente in
altri campi può bastare, ma nella creazione letteraria deve lasciare agire alleati che
esistono al di la de loro scopi.
In questo senso imprendibile la letteratura dimostra di essere sovrana sugli esseri
umani e si apre alla possibilità indeterminata di interferire negli eventi umani e sui
mutamenti che ne possono derivare.

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