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QUANDO GLI EBREI ERANO RIVOLUZIONARI E ANTISIONISTI

DUE SAGGI SUL BUND

Breve storia della


Unione Generale dei Lavoratori Ebrei in Lituania, Polonia e Russia

1. Israel Getzler: La lotta del Bund per la dignità umana

2. John Bunzl: Il Bund e il sionismo


Testi citati

-AA.VV., Gli ebrei dell’Europa orientale dall’utopia alla rivolta, 1984


Atti del convegno di Torino 23-24 gennaio 1984

-G. Aronson e al., Die Geshikte fun Bund, 1960 - 62

-David Balakan, Die Sozialdemokratie Und Das Judische Proletariat, 1905

-Ber Bochorov, Grundlage des Poale-Zionismus, 1905

-Robert Browder, Aleksandr Kerenskij, The Russian Provisional Government 1917, 1961

-Jonathan Frankel, Prophecy and Politics. Socialism, Nationalism and the Russian Jews,
1862-1917, 1981
(Gli ebrei russi tra socialismo e nazionalismo, 1862 – 1917)

-Boris Frumkin (pseud. B. Rosin), Die zionistisch-sozialistiche Utopie, 1909

-Arye Gelbard, Der Judische Arbeiter-Bund Russlands im Revolutionsjahr 1917, 1982

-Zvi Gitelman, Jewish Nationality and Soviet Politics: The Jewish Sections of the CPSU
1917 – 1930, 1972

-Chaim Y. Helfand (pseud A. Litvak, A.L.), Der Poale-Zionismus, 1906

-Bernard Johnpoll, The Politics of Futility: The General Jewish Workers Bund of Poland,
1917-1943, 1967

-Eugene Kamenka, The portable Karl Marx, 1893 (Il meglio di Marx, 1991)

-Lenin, I pogrom contro gli ebrei, in Opere complete ed. 1967, vol. XXIX, pp.229-30

-Julij Martov, Fjodor Dan, Storia della socialdemocrazia russa, 1923

-Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844

-Emanuel Melzer, No Way Out: The Politics of Polish Jewry 1935-1939, prima ed. 1975

-Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoriuscito, 1960

-Nikolaj Suchanov, Cronache della Rivoluzione, 1922-23

-Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia from its Origins to 1905, 1972

-Bernard Wasserstein, The Dream of the Bund, 1982


PRESENTAZIONE

I due contributi presentati sono tratti da altrettanti interventi al convegno


internazionale “Gli ebrei dell’Europa orientale dall’utopia alla rivolta”, tenutosi
nel lontano gennaio 1984 a Torino per iniziativa dell’Istituto di studi storici
Gaetano Salvemini, della Comunità ebraica e del dipartimento di storia
dell’Università di Torino.
Il fatto che in un convegno organizzato tra gli altri dalla comunità
ebraica torinese venissero ospitati interventi di tale approfondimento sul
movimento operaio e di analisi critica del sionismo e dello stato di Israele, è
segno di un livello di dibattito che oggi non è sufficientemente presente. Anche
per questo se ne ripropone la lettura.
L’epopea rivoluzionaria dell’Unione generale dei lavoratori ebrei
(Bund), con la sua lotta ideologica e politica contro il sionismo, è un esempio
storico prezioso di integrazione di una questione nazionale (nel caso specifico
la questione ebraica) nell’ambito del movimento socialista internazionale. Il
concetto bundista di autonomia nazional-culturale (e non territoriale) è un
esempio il cui studio può essere utile anche ai giorni nostri, per integrare le
questioni nazionali odierne (palestinese, curda) nel quadro della lotta
rivoluzionaria per un mondo “senza frontiere”.
A proposito del Bund polacco si consigliano anche i capitoli 20 e 21 del libro di
Lenni Brenner Il sionismo nell’età dei dittatori, reperibile al link:
http://www.forumpalestina.org/news/2016/Marzo16/Sionismo-Dittatori_1.pdf.

(Aprile 2016)

Israel Getzler (1920 – 2012) nacque a Berlino da una famiglia di


immigrati ebrei polacchi. In gioventù simpatizzante del movimento sionista
socialista Hashomer Hatzair, fu deportato in Polonia dai nazisti nel 1938. Nel
1939 con la famiglia era nella parte del paese occupata dai sovietici, e fu
deportato in Siberia. Alla fine della guerra si trasferì in Australia, laureandosi
in storia all’università di Melbourne, e poi in Inghilterra, dove fu allievo del
grande storico della rivoluzione russa Edward H. Carr. Nel 1971 andò a vivere
in Israele e a insegnare all’Università ebraica di Gerusalemme. Ha scritto i
libri Martov. Biografia politica di un socialdemocratico russo (1967) e L’epopea
di Kronstadt 1917 – 1921 (1983).

John Bunzl (1945-) si è laureato in sociologia all’università di Vienna e


ha lavorato presso l’Istituto austriaco di studi di politica internazionale. Nel
1997 ha scritto il libro Between Vienna and Jerusalem. Reflections and
polemics on Austria, Israel and Palestine.
BREVE STORIA DEL BUND

Il “Bund”, ovvero l’ Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Polyn un Rusland


(Unione Generale dei Lavoratori Ebrei in Lituania, Polonia e Russia) fu un partito
socialista ebraico fondato in Russia nel 1897. Elaborò una propria ideologia di difesa della
cultura, della lingua e dell’autonomia nazionale ebraica nel quadro di una lotta per i diritti
dei popoli e dei lavoratori di tutti i paesi, intrecciando la sua storia con quella più
complessiva del movimento rivoluzionario. La sua fu la filosofia del doykeyt (in yiddish
“essere qui”), e in tal senso si oppose sempre decisamente al sionismo e ad altre soluzioni
puramente nazionaliste alla questione ebraica.

PRODROMI

I primi passi di un movimento operaio ebraico furono mossi in Lituania, all’epoca


provincia dell’impero zarista e parte della vasta “Zona di Residenza” (Pale of Settlement)
in cui gli insediamenti ebraici costituivano significative minoranze rispetto al totale della
popolazione. Nella società ebraica lituana l’elemento operaio era particolarmente presente
(sia nell’artigianato che nell’industria). Le generali difficoltà economiche rendevano più
difficile che altrove la tendenza all’assimilazione degli ebrei con le altre popolazioni, e il
conflitto con le etnie russa, polacca, lituana, bielorussa aveva portato a un certo senso
identitario ebraico, espresso dall’alto livello culturale delle scuole ebraiche religiose
(yeshivah).
Nella città di Vilna negli anni ’70 dell’Ottocento Aaron Liebermann (1840 – 1880)
fece i primi tentativi di sviluppare le idee socialiste tra i lavoratori ebrei nella loro lingua.
Perseguitato dalla polizia zarista, fuggì in America, ove cambiò nome in Arthur Freeman,
e di lì a poco si tolse la vita. Sulla scorta dell’esempio di Liebermann negli anni ’80
nacquero a Vilna alcuni circoli nei quali gli intellettuali ebrei si proponevano di diffondere
le idee socialiste tra i lavoratori ebrei, anche se la lingua prevalente era il russo. Furono
aperte cooperative per l’assistenza ai lavoratori e giunse l’influenza dei primi marxisti
russi, in particolare di Georgij Plekhanov (1856 – 1918).
Negli anni tra il 1890 e il 1895 il numero dei circoli e dei loro membri aumentò
vistosamente, e una generazione di militanti guidò le lotte per la riduzione dell’orario di
lavoro nelle fabbriche tessili e di tabacco. In questi anni di crisi economica il governo
zarista favoriva l’antisemitismo per mettere gli operai non ebrei contro gli operai ebrei, e
da questo stato di tensione sociale scaturì la tendenza all’emigrazione all’estero,
soprattutto in America; e cominciava a farsi strada il sionismo, ovvero l’idea
dell’emigrazione in quella che era considerata “terra promessa” agli ebrei, la Palestina.
I leader dei circoli operai ebraici teorizzarono che la situazione di doppia
oppressione, etnica e di classe, rendeva possibile e necessaria la costituzione di un forte
movimento operaio ebraico, in grado di rivoltarsi contro il regime zarista. Si trattava di
passare in maniera più decisa ed estesa all’agitazione di massa, utilizzando anche
l’yiddish, il dialetto parlato dagli ebrei dell’Europa orientale, come collante identitario. La
lotta dei lavoratori ebrei doveva inserirsi nella lotta più generale del movimento operaio
che in Russia vedeva una forte ascesa.
Il nuovo programma venne sintetizzato in alcuni testi fondamentali: Sull’agitazione
(1893) di Arkadi Kremer (1865 – 1935), Lettera agli agitatori (1893) di Shmuel
Gozhanski (1867 – 1943) e il Discorso per il Primo Maggio 1895 di Julius Martov (1873 –
1923), quest’ultimo futuro leader della corrente menscevica nel POSDR, il Partito
SocialDemocratico Russo. Altre figure di punta di questa prima “generazione” di bundisti
furono John Mill (1870 – 1952), Isai Eisenstadt (1867 – 1937), Avrom Mutnik (1868 –
1930), Vladimir Kossovsky (1867 – 1941), Noah Portnoy (1872 – 1941). Le associazioni
per l’assistenza ai lavoratori vennero convertite in veri e propri sindacati (solo a Vilna nel
1896 ve ne erano almeno 32), e iniziò un’ondata di scioperi. Questi gruppi operai ebraici
nel 1896 inviarono propri rappresentanti al Congresso della Seconda Internazionale a
Londra. Fu costituito un “Gruppo dei socialdemocratici ebrei” e iniziarono le
pubblicazioni l’Yidisher Arbayter (Il lavoratore yiddish) e l’Arbayter Shtime (La voce del
lavoratore), futuri organi del Bund.

NASCITA DEL BUND

Il Congresso costitutivo del Bund si tenne clandestinamente tra il 7 e il 9 ottobre


1897 a Vilna. Vi parteciparono 13 delegati (otto erano operai). Al successivo I congresso
del Partito Operaio SocialDemcratico Russo (POSDR), a Minsk nel marzo 1898, tre dei
nove delegati erano bundisti, e uno di essi, Arkadi Kremer, fu eletto nel comitato centrale.
L’organismo dirigente del Bund fu sempre il Congresso. Ecco la sequenza dei congressi
successivi al primo:
1898. Secondo Congresso in ottobre a Kovno.
1899. Terzo Congresso in dicembre a Kovno.
1901. Quarto Congresso in aprile a Bialistok.
1903. Quinto Congresso in giugno a Zurigo.
1905. Sesto Congresso in ottobre a Zurigo.
1906. Settimo Congresso in agosto-settembre a Lvov.
1917. Ottavo Congresso in dicembre a Leningrado.
Il congresso eleggeva un comitato centrale che svolgeva funzioni di direzione
politica e amministrativa. Furono creati specifici settori di lavoro che rispondevano al
comitato centrale, e anche i numerosi sindacati ebraici vennero inquadrati nel Bund.
Nei primi anni del Novecento il numero di aderenti al Bund fu mediamente di
30.000. Nel 1898 fu fondato un “centro estero” per tenere i contatti con il movimento
socialista internazionale, e un appoggio finanziario e politico veniva dagli operai ebrei
negli Stati Uniti attraverso un “central farband” che nel 1906 rappresentava 58
organizzazioni per 3.000 membri totali. Il Bund rifiutò di collaborare direttamente con i
partiti ebraici per evitare di scivolare in un eccesso di nazionalismo, tuttavia furono le sue
posizioni e i suoi militanti a ispirare la nascita del Partito Socialdemocratico ebraico in
Galizia (nel 1905) e della Federazione Socialista ebraica americana (nel 1912).
Dopo l’ondata di scioperi economici del decennio precedente, nei primi anni del
Novecento il Bund intraprese una linea d’azione più politica, volta a rivendicare i diritti
civili per il popolo sotto il tallone dello zarismo, e in particolare per il popolo ebraico
oggetto di feroci pogrom (come l’eccidio di Kishinev del 1903, organizzato dal ministro
dell’interno zarista von Plehve). Facendosi promotore dell’autodifesa ebraica contro i
pogrom, il Bund acquisì seguito nella classe media delle città di provincia, in Polonia e
nella Russia meridionale. Il governatore di Vilna von Wahl, che il Primo Maggio 1902
aveva fatto frustare in pubblico alcuni dimostranti, alcuni giorni dopo fu ferito a colpi di
pistola dal ventiduenne bundista Hirsh Lekert, che poi venne giustiziato e divenne una
sorta di eroe popolare.
Tra la metà del 1903 e la metà del 1904 il Bund tenne 429 meeting politici, 45
dimostrazioni, 41 scioperi politici, e pubblicò 305 opuscoli. Nel 1904 i bundisti prigionieri
nelle carceri dello Zar erano 4.500. Venne istituita anche un’organizzazione di
giovanissimi, il Klayner Bund.

Dal punto di vista politico il Bund manteneva un equilibrio tra le aspirazioni


autonomiste del popolo ebraico e gli ideali del movimento socialista mondiale, ispirandosi
in questo all’ “austromarxismo” del Partito SocialDemocratico d’Austria di Otto Bauer. Al
Quarto Congresso del 1901 venne approvata una risoluzione che suggeriva la
trasformazione della Russia in una federazione di nazioni senza però la definizione di
singoli rispettivi territori. Questa impostazione fu rigettata da Lenin nel celebre II
Congresso del POSDR del 1903, quello della scissione tra bolscevichi e menscevichi, e
allora il Bund si separò dal POSDR (nel 1906 vi sarebbe stata la riunificazione, fino alla
nuova spaccatura del 1912).
L’apertura all’autonomia nazionale in Russia non significava tuttavia identificare gli
ebrei come una nazione a livello mondiale. Come si è detto, in nome dei principi della
lotta di classe il Bund rifiutò la collaborazione con i partiti nazionalisti ebraici, e sempre
nel Quarto Congresso definì il sionismo un’ideologia reazionaria borghese o piccolo-
borghese, includendo nella sua critica i tre nascenti partiti della sinistra sionista: Poale
Zion, il Partito Socialista Operaio Ebraico (SERP) e il Partito Ebraico Sionista Socialista
(SSRP). Nel rapporto all’Internazionale del 1904 il Bund definiva il sionismo “il peggior
nemico del proletariato ebraico organizzato”.

1905 - 1917

Dopo l’ondata rivoluzionaria del 1905, nella quale il Bund ebbe un ruolo molto
importante, di certo maggiore dell’ancor piccolo partito bolscevico, seguì un periodo di
difficoltà legato alla feroce reazione zarista che si abbatteva su tutto il movimento operaio
russo. Le limitazioni nel campo politico e sindacale indussero il Bund, rientrato in un
POSDR riunificato, a concentrarsi sulla salvaguardia delle prerogative culturali ebraiche.
L’Ottavo Congresso nel 1910 decise di rivendicare il riposo al sabato e l’istituzione di
scuole in lingua yiddish. La ripresa delle agitazioni sindacali nel 1912 coincise con la
nuova spaccatura in seno al POSDR e l’avvicinamento tra il Bund e la corrente
menscevica, che rispettava l’idea di l’autonomia nazionale. Il Bund mantenne sempre una
posizione di neutralismo tra bolscevichi e menscevichi, soprattutto per iniziativa della sua
figura preminente in quel periodo, Vladimir Medem (1870 – 1923).
Nelle province polacche (la Polonia era spartita tra l’impero russo e quello tedesco)
in occasione delle elezioni della Duma il Bund presentò una lista di candidati insieme al
Partito Socialista Polacco, mentre si batteva contro il boicottaggio dei negozi ebrei
organizzando uno sciopero di massa l’8 ottobre 1913.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale fu tra le forze che si opposero al
tradimento della Seconda Internazionale, aderendo alle Conferenze contro la guerra di
Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916).

LA RIVOLUZIONE DEL 1917 E LA FINE DEL BUND RUSSO

Il Bund partecipò alla Rivoluzione di Febbraio, che segnò l’abdicazione dello Zar,
mentre pur essendo per la cessazione della guerra non seguì il partito bolscevico nella
presa del potere dell’Ottobre. Alla fine del 1917 il Bund contava 40.000 membri. La
guerra civile scatenata dalle potenze occidentali contro la rivoluzione bolscevica, con i
pogrom messi in atto dalle armate bianche, spinse i bundisti a schierarsi dalla parte
dell’Armata Rossa, e molti combattenti bundisti entrarono nei ranghi di quest’ultima. Alla
Conferenza di Mosca dell’aprile del 1920 la maggioranza del Bund votò per sganciarsi dai
menscevichi e unirsi al Partito Comunista Russo, pur mantenendo una base di autonomia
nazionale. Questa specificità fu rigettata dal Congresso della Terza internazionale del
luglio seguente, e nel marzo del 1921 a Minsk la maggioranza del Bund votò comunque
per lo scioglimento nei ranghi del Partito Comunista Russo. La minoranza formatasi alla
conferenza di Mosca del 1920 diede vita a un “Bund Social Democratico” che ebbe breve
durata in quanto di lì a poco venne soppresso dal governo sovietico nel corso
dell’involuzione autoritaria che avrebbe portato al potere Stalin.

IL BUND POLACCO
Mentre la dinamica della rivoluzione russa spingeva i bundisti russi allo
scioglimento, i bundisti polacchi si trovarono a operare in una Polonia che aveva acquisito
un’inaspettata indipendenza, con il governo nazionalista del maresciallo Pilsudski disposto
a collaborare con l’imperialismo inglese in chiave antisovietica. Il primo Congresso del
Bund polacco si svolse a Lublino alla fine dei dicembre 1917, e fu eletto un comitato
centrale autonomo. Nel 1920 il Bund polacco si unì al Partito SocialDemocratico ebraico
della Galizia.
Questa la sequenza dei Congressi successivi al primo: Secondo Congresso dicembre
1921 a Danzica, Terzo Congresso dicembre 1924 a Varsavia, Quarto Congresso gennaio
1929 a Varsavia, Quinto Congresso giugno 1930 a Lodz, Sesto Congresso febbraio 1935 a
Varsavia, Settimo Congresso novembre 1937 a Varsavia.
Durante i primi anni di esistenza il Bund polacco, pur essendo legale, fu duramente
perseguitato per la sua opposizione alla guerra delle armate nazionaliste di Pilsudski
contro la Russia sovietica. In seno all’organizzazione convivevano due correnti, una
favorevole e una contraria all’affiliazione alla Terza Internazionale (Internazionale
Comunista). I contrari prevalsero leggermente, e nel 1931 il Bund votò per l’adesione
all’Internazionale Socialista, riformatasi dopo la guerra.
Il Bund polacco mantenne sempre un’opposizione al sionismo e all’ortodossia
religiosa ma in alcune occasioni, nell’interesse dei diritti degli ebrei di fronte alla svolta
sempre più autoritaria di Pilsudski e dei colonnelli suoi successori, collaborò con altri
partiti ebraici come Poale Zion e con il Partito Socialista Polacco. Ebbe sempre un forte
controllo sui sindacati dei lavoratori ebrei, che nel 1921 contavano circa 46.000 iscritti e
nel 1939 circa 99.000.
Figure particolarmente importanti in questa fase furono quelle di Victor Alter (1890
– 1943) e Henryk Erlich (1882 – 1942). Negli anni ’30 Erlich accusò pubblicamente gli
esponenti di spicco delle organizzazioni sioniste, come Gruenbaum e Jabotinsky, di
favorire l’antisemitismo nel paese a causa delle loro campagne per l’emigrazione in
Palestina.
Tra il 1936 e il 1939 per la sua combattività contro il crescente antisemitismo il
Bund raggiunse il massimo dell’influenza politica in Polonia. Oltre alla lotta di strada
contro gli squadristi, nel 1936 promosse un “congresso operaio contro l’antisemitismo”, e
nel 1938 un congresso per la lotta della popolazione ebraica in Polonia. Pur avendo un
ufficio che si occupava dell’emigrazione, rimase sempre fedele al principio del “Doykeyt”,
dedicandosi alla difesa del popolo e dei lavoratori in loco.
Durante l’occupazione nazista della Polonia il Bund insieme ad altre forze fu
l’anima della Resistenza in Polonia, con alcune figure di combattenti come Abraham Blum
(1900 – 1943), Leon Feiner (1885 – 1945), Bernard Goldstein (1889 – 1959) e Marek
Edelman (1919 – 2009), quest’ultimo vice-comandante dell’Organizzazione ebraica di
combattimento durante la rivolta del Ghetto di Varsavia. Shmul Zygelbojm (1895 – 1943)
lasciò l’organizzazione clandestina per andare a rappresentare il Bund nel governo polacco
in esilio a Londra, e l’11 maggio 1943 si suicidò per protesta contro l’indifferenza degli
Alleati verso l’Olocausto degli ebrei in atto in Polonia.
Nel 1945 il comitato centrale del Bund pubblicò sottoforma di opuscolo un
manoscritto di Marek Edelman sull’occupazione nazista di Varsavia dal 1939 fino alla la
sconfitta della rivolta del ghetto (maggio 1943). Il titolo completo dello straordinario
documento militante è Getto walczy. Udział Bundu w obronie getta warszawskiego (Il
ghetto lotta. Il ruolo del Bund nella difesa del ghetto di Varsavia).
Seppure quasi annientato dall’Olocausto, il Bund polacco sopravvisse fino al 1948,
quando venne sciolto nel corso della Gleichschaltung impressa dall’URSS attraverso il
Partito Operaio Polacco Unificato.
Israel Getzler

IL BUND E LA LOTTA PER LA DIGNITA’ UMANA

La storia del Bund è stata chiamata, con benevola condiscendenza, la “politica della
futilità”1, o anche un “fallimento quasi completo”2. Ma una più attenta lettura della storia
del Bund mi sembra condurre a conclusioni assai diverse: è quanto cercherò di chiarire in
questo mio intervento.
In primo luogo, se è vero che il Bund russo cadde vittima del bolscevismo e il Bund
polacco fu distrutto nell’Olocausto, è ben difficile trovare una qualsiasi organizzazione o
movimento politico che siano riusciti a sopravvivere alla Gleichschaltung (livellamento)
bolscevica o allo sterminio nazista. Ci si può dunque chiedere se coloro che soccombettero
a disastri di natura così eccezionale possano, in tutta onestà, essere definiti dei falliti.
Direi, invece, che dopo la rivoluzione del febbraio 1917 il Bund russo aveva tutte le
ragioni di sentirsi pieno d’orgoglio e di fiducia: il principale articolo di fede del suo credo
rivoluzionario – l’idea che, nella Russia zarista, la rivoluzione e solo la rivoluzione
avrebbe dato agli ebrei l’emancipazione e le libertà democratiche – aveva trovato piena
conferma nei fatti. Di più: il programma di autonomia nazional-culturale del Bund
(l’elemento differenziatore di maggior rilievo della sua ideologia socialdemocratica
marxista) aveva ottime possibilità di essere adottato dalla coalizione menscevico-bundista-
socialista rivoluzionaria (SR) che dominò i soviet nel 1917 ed ebbe un ruolo importante in
seno al governo provvisorio finchè non fu rovesciata dai bolscevichi nell’ottobre dello
stesso anno. Se, alla fine, il Bund risultò soccombente, insieme ai suoi alleati menscevichi
e socialisti rivoluzionari, ciò non è attribuibile a ragioni specificamente bundiste, ma
piuttosto a quel fatale intreccio di azioni e di omissioni cui fu dovuta l’amara sconfitta del
socialismo democratico nella rivoluzione russa.
Quanto al Bund polacco, nelle elezioni amministrative svoltesi nel triennio
precedente alla seconda guerra mondiale esso raccolse la stragrande maggioranza dei voti
degli ebrei residenti nelle principali città della Polonia (mentre boicottò le elezioni del
Sejm3); esso era diventato il principale partito politico dell’ebraismo laico polacco, prima
di cadere vittima dell’Olocausto. Se la situazione degli ebrei nella Polonia antisemita non
fosse stata così disastrosa, quegli anni avrebbero segnato il trionfo del Bund, con il suo
grido di battaglia doikeyt (“stiamo qui!”), che esprimeva la volontà di radicarsi nel paese e
di battersi per esso.
In breve, sia il Bund russo che il Bund polacco erano diventati forti prima di essere
distrutti.
Resta, tuttavia, il giudizio secondo il quale il Bund rimase inchiodato al suo
dilemma fondamentale, che si dimostrò incapace di risolvere: l’adesione
all’internazionalismo socialista, da un lato, e la fedeltà al popolo ebraico, dall’altro.

1
Bernard Johnpoll, The Politics of Futility: The General Jewish Workers Bund of Poland, 1917-1943,
1967
2
Bernard Wasserstein, The Dream of the Bund, 1982
3
La Dieta, il parlamento nazionale.
Questo giudizio è sostenuto con forza da Jonathan Frankel nel suo libro Prophecy and
Politics. Socialism, Nationalism and the Russian Jews, 1862-1917. Egli così conclude la
sua indagine sulle ragioni che spiegano la gestazione straordinariamente lenta
dell’ideologia bundista:

I dirigenti, legati dagli stretti vincoli di fraternità cospirativa, non riuscirono mai a
tagliare il nodo gordiano, non seppero mai decidere se il loro primo dovere era di
dividere le sorti del proletariato internazionale o di lottare per la liberazione
nazionale. Sotto questo profilo, il Bund esprimeva forse più di ogni altro movimento le
due anime dell’intellettualità ebraica moderna4.

Secondo il mio tipo di lettura della storia del Bund, non mi sembra che i dirigenti
bundisti fossero particolarmente affetti dalla malattia delle “due anime dell’intellettualità
ebraica”. L’introspezione e il Weltschmerz (“dolore cosmico”) non erano, per quanto mi
consta, le reali preoccupazioni dei bundisti; essi erano, al contrario, uomini estremamente
attivi, fortemente impegnati e dotati di spirito pratico, assai più che teorici ed ideologi. Nel
complesso, mi sono sempre apparsi come uomini sicuri di essere nel giusto sia come
intellettuali socialisti sia come ebrei, persone perfettamente in pace con se stesse e con la
loro coscienza. D’altra parte, essi erano fieramente in guerra con nemici chiaramente
identificabili: lo zarismo e gli scatenatori dei pogrom, i nazionaldemocratici polacchi
antisemiti e il reazionario governo Ozon5, la borghesia ebraica e i sionisti e, più spesso di
quanto avrebbero gradito, gli stessi partiti socialisti fratelli, come il Partito operaio
socialdemocratico russo (RSDRP6) e il Partito socialdemocratico polacco (PSD) diretto da
Rosa Luxemburg, la quale – e i bundisti se ne rammaricavano – avrebbe dovuto avere più
buon senso.
Semmai (ed è solo una mia impressione), il Bund si trovò come preso in mezzo fra
due movimenti di rinascita: quello degli ebrei dell’Europa orientale - con la Haskalah
(l’illuminismo ebraico), il rilancio dell’ebraico e dello yiddish e il fiorire di tutta una
letteratura nell’una e nell’altra lingua, il sionismo, il populismo di Dubnov e il bundismo –
e quello delle nazioni dell’impero russo, con lo sboccio di una nuova letteratura e di una
nuova musica, con il formarsi di nuovi gruppi intellettuali, con lo sviluppo del socialismo
rivoluzionario e dei movimenti nazionali rivoluzionari. Come i loro più seri rivali, i
pionieri del sionismo socialista che costruirono lo stato di Israele (il tipo umano dominante
fu identico nei due movimenti), anche i bundisti beneficiarono di entrambi i moti di
rinascita. Ma non mi sento abbastanza competente in questo campo, e preferisco quindi
fermarmi qui.
Ciò che intendo fare è, invece, completare l’idea di Frankel di un Bund diviso
ideologicamente, ma organizzativamente unito. Anzitutto, vorrei avanzare l’ipotesi che ciò
che teneva unito il Bund (mentre tutti gli altri partiti socialisti si scindevano ripetutamente
per motivi ideologici) non era tanto il suo conclamato “patriottismo di partito” (anche i
bolscevichi di Lenin erano profondamente imbevuti di questo “spirito di partito”,
partijnost’, eppure non fecero altro che scindersi, almeno fino al 1917), quanto un
4
Jonathan Frankel, Prophecy and Politics. Socialism, Nationalism and the Russian Jews, 1862-1917,
1981
5
Il partito Ozon fu un blocco di unità nazionale promosso nel 1936 dai colonnelli polacchi alla morte del
maresciallo Pilsudski. Non vi erano ammessi gli ebrei.
6
Nei testi in italiano noto con l’acronimo POSDR.
profondo sentimento etico, intimamente vissuto e messo costantemente in pratica, un ethos
(assai più tipico dei movimenti giovanili e delle sette che dei partiti politici) il cui nucleo
essenziale era rappresentato da un coraggioso ed incessante sforzo di radicarsi fra le masse
proletarie ebraiche della “zona di residenza”, i paria dei paria di cui nessuno si interessava
o si curava. Il Bund cercò di risvegliarli dal loro stato di apatica sottomissione al destino e
alla servitù, facendone degli esseri umani con una dignità da difendere, legati alla loro
secolare cultura ebraica in lingua yiddish, capaci di lottare con coscienza ed energia contro
lo zarismo russo antisemita e contro il regime reazionario polacco dell’Ozon, per la libertà,
la democrazia e il socialismo e, più di tutto, per la propria dignità umana, cercando alleati
nei partiti socialisti di orientamento affine.
In secondo luogo, avanzerei l’ipotesi che l’ethos bundista sia nato e si sia formato
negli anni 1893-95 (cioè prima della vera e propria formazione del Bund, avvenuta nel
1897), in seguito al felice incontro di alcuni intellettuali socialisti ebrei come Arkadij
Kremer, Shmuel Gozhanskij, John Mill, Noah Portnoy e Julij Martov, che operarono –
sotto la duplice oppressione a cui erano soggetti come intellettuali e come ebrei – nella
Russia controrivoluzionaria degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, con i proletari
ebrei delle imprese artigiane di Vilna, anch’essi sottoposti a una duplice oppressione,
quella dello sfruttamento capitalistico e quello della discriminazione zarista. Cercherò di
individuare e delineare gli elementi essenziali di questo ethos (e i rudimenti dell’ideologia
bundista), così come si rivengono in quattro fondamentali documenti, tipici di questo
periodo proto-bundista: la Lettera agli agitatori (1893) di Shmuel Gozhanskij; l’opuscolo
Sull’agitazione (1894) di Arkadij Kremer; il Discorso per il Primo Maggio 1895 di Julij
Martov; l’opuscolo dello stesso autore Operai ebrei contro capitalisti ebrei (agosto 1895).
Il primo posto, in ordine di importanza, spetta al Discorso per il Primo Maggio di
Martov; non a caso il Bund lo pubblicò, cinque anni dopo, in russo e in yiddish col titolo
La svolta nella storia del movimento operaio ebraico. Benché in seguito lo stesso Martov
e – sulle sue orme – una pleiade di storici ne abbiano sminuito l’originalità e l’importanza,
esso rappresenta la carta costitutiva del Bund.
La prima idea proclamata e praticata dai bundisti nel periodo iniziale della loro
attività fu quella della centralità operaia ai fini dell’agitazione socialdemocratica: i
socialdemocratici dovevano acuire la contraddizione intrinseca al sistema capitalistico, il
quale, da un lato, “esige uomini ridotti ad automi che si sottomettano senza discutere alla
volontà del capitale”, ma, dall’altro, “crea le condizioni perché i lavoratori comprendano
quali sono i loro interessi” e li induce a pensare. L’agitazione avrebbe dovuto far leva,
inizialmente, “sui piccoli bisogni e le piccole rivendicazioni quotidiane degli operai” e sui
loro conflitti con gli imprenditori. Essa “insegnerà agli operai a lottare per i loro interessi e
darà loro coraggio e fiducia nelle proprie forze”; svilupperà la loro coscienza di classe e la
loro coscienza politica e farà di loro, infine, dei “combattenti operai”, in lotta – al tempo
stesso – contro il sistema capitalistico e contro l’autocrazia zarista.
Un’applicazione immediata del criterio della centralità operaia ai lavoratori ebrei
della zona di residenza consisteva nello svolgere un’attività socialdemocratica adeguata
alla loro condizione di ebrei, servendosi come lingua dello yiddish per le necessità
dell’agitazione e concentrando l’attenzione sui problemi specifici del proletariato ebraico.
Scriveva Martov:

Come operai, soffriamo sotto il giogo del capitale; come ebrei, soffriamo sotto il
giogo della discriminazione. Queste incapacità ci opprimono, ci rendono schiavi, ci
soggiogano…ci costringono ad abitare nella zona di residenza…fanno di ogni
poliziotto il nostro signore.

I socialdemocratici debbono perciò insegnare agli operai a difendersi e a lottare; i


lavoratori non debbono dar retta al maggid (predicatore) di Vilna, che li esorta a
sottomettersi per non provocare un ulteriore inasprimento dell’oppressione governativa. Al
contrario, sosteneva Martov, “quanto più terremo la bocca chiusa, quanto più chineremo la
testa, tanto maggiore sarà l’oppressione che graverà su di noi”, perché “una classe operaia
che si sottomette al suo destino di essere una razza inferiore non si ribellerà contro il suo
destino di classe subalterna”. Inoltre, nella sua lotta – che aveva carattere particolare e
specifico perché doppiamente motivata – il proletariato ebraico poteva contare solo su se
stesso per opporsi sia alle leggi zariste “che negano che un ebreo sia un uomo”, sia allo
sfruttamento capitalistico. Per quanto riguarda il proletariato russo e polacco, esso non
avrebbe certo dato la priorità alla lotta per l’emancipazione degli ebrei; quanto alla
borghesia ebraica – “la più sordida e spregevole del mondo” – essa non sapeva far altro
che intrigare nel modo più abietto per qualche parziale privilegio e corrompere i funzionari
zaristi. Il proletariato ebraico doveva, perciò, creare “la sua organizzazione operaia ebraica
autonoma, che avrebbe educato e guidato il proletariato ebraico nella sua lotta per
l’emancipazione economica, civile e politica”.
Il paria dei paria ebreo, trasformatosi in combattente proletario, sarebbe così
diventato il campione per eccellenza di quella che Gozhanskij chiamava “la lotta politica
nazionale ebraica”; doveva essere proprio il proletariato, e non la borghesia, ad assumere
questo ruolo. Così, infatti, poneva la questione Martov, con il tipico linguaggio marxiano:

Ma noi lavoratori (ebrei) ci troviamo al di sotto di tutte le altre classi, e non


possiamo quindi ottenere per noi soli l’abolizione di tutte quelle forme di oppressione
che gravano sull’intera nazione (ebraica). Quando, grazie alla nostra lotta, le catene
che ci avvincono saranno infrante, esse cadranno anche dalle braccia di coloro che ci
stanno seduti addosso e ci schiacciano sotto il peso dei loro sacchi di denaro. Ecco
perché, quando lottiamo per l’uguaglianza dei diritti, portiamo sulle spalle anche i
nostri oppressori (ebrei)…Quando respireremo l’aria tonificante della libertà, ce li
scuoteremo facilmente di dosso.

Cercando, come ho fatto, di ricavare dai passi citati alcuni embrionali ma duraturi
elementi dell’ethos bundista, comuni a tutti i suoi dirigenti ed attivisti (quelli con una
mentalità più nazionalista, come John Mill e Mark Liber, quelli più orientati verso
l’internazionalismo, come Timofej Kopelson e Isai Eisenstadt, e quelli che si trovano a
mezza strada tra gli uni e gli altri, come il “neutralista” Vladimir Medem), ho trovato in
tutti una schietta e fiera volontà di lottare contro i mali della Russia zarista e della Polonia
antisemita, benchè le due lotte fossero separate da una quarantina d’anni. Vi era, inoltre,
una costante, profonda dedizione al metodico e paziente lavoro di organizzazione e di
educazione delle calpestate masse proletarie ebraiche, per fare di quegli uomini dei
combattenti coscienti della loro dignità e dei loro diritti e dei retti ebrei. Vi è come un filo
rosso che percorre tutta la storia del Bund: una sollecitudine quasi ossessiva per la dignità
dell’uomo e dell’ebreo, e un feroce disprezzo per il servilismo e l’autoumiliazione,
soprattutto quelli che venivano colti – e osservati con gioia – nella classe nemica, la
borghesia ebraica.
I successi della pratica bundista produssero negli attivisti e nei militanti una
straordinaria esaltazione e un profondo senso di attaccamento al partito. Dicevano i versi
dell’inno Di shvue (Il giuramento):

Al Bund giuriamo tutta la nostra fedeltà


Perché il Bund solo può far libero chi è schiavo;
Del Bund leviamo alta la bandiera,
Al Bund giuriamo fedeltà fino alla morte.

Se furono necessari circa dieci anni perché il Bund definisse chiaramente il suo
programma di autonomia nazional-culturale extraterritoriale, che costituiva l’asse centrale
della sua ideologia7 (la quale, sotto ogni altro aspetto, era identica a quella della
socialdemocrazia russa), e perché elaborasse il suo democraticissimo statuto8, la ragione è
semplice: l’ethos bundista, il “patriottismo di partito” e l’intensa pratica sociale del Bund
bastavano a tenere legati i militanti, evitando le definizioni ideologiche foriere di divisioni
a meno che queste non fossero imposte dall’esterno, da destra o da sinistra.
Per illustrare ciò che affermo a proposito dell’ethos bundista ho scelto alcuni temi
ed episodi della storia del Bund russo e polacco.
Cominciamo dal “patriottismo di partito”. I bundisti erano estremamente fieri del
loro partito e della sua base di massa. Insistevano energicamente sulla sua indipendenza
dalla socialdemocrazia russa, tanto che abbandonarono il RSDRP nel 1903, in occasione
del suo secondo congresso, quando fu loro negata l’autonomia come rappresentanti del
proletariato ebraico. Il Bund insisteva anche sulla necessità che i sindacati fossero
sottoposti al controllo del partito e, nel 1905, che i soviet fossero diretti dal partito 9. Del
pari, i bundisti si rifiutarono più volte di rinunciare alle loro posizioni antiborghesi e
anticlericali e alla loro intransigente opposizione al regime zarista quando furono invitati
ad aderire ad altre organizzazioni ebraiche. Per esempio rifiutarono l’adesione alla
“Società per l’emancipazione degli ebrei”, perché non poteva essere considerata
un’organizzazione rivoluzionaria10, e solo nel 1916 accettarono finalmente di entrare a far
parte delle organizzazioni assistenziali e culturali ebraiche11.
Questa tendenza ad autoisolarsi, sia pure con un atteggiamento di apertura a sinistra,
può essere attribuita alla lotta su due fronti che il Bund doveva condurre come movimento
proletario di rivoluzione sociale, da un lato, e come movimento di liberazione nazionale,
dall’altro. Forse c’era anche il timore di turbare il delicato e, a mio parere, felice equilibrio
che il Bund aveva saputo creare fra il suo impegno socialista rivoluzionario e i suoi
obiettivi nazionali ebraici. Aveva dinanzi agli occhi i due esempi ammonitori del
nazionalista Partito Socialista Polacco (PPS) di Pilsudski e dell’antinazionalista PSD.
Vediamo ora come si manifestava la profonda sollecitudine del Bund per la dignità
degli ebrei e per la dignità umana in generale, una sollecitudine intimamente commossa
alla quasi mistica dedizione dei bundisti alla lotta, compresa la lotta armata di autodifesa
contro i pogrom russi e polacchi e compresi gli atti terroristici compiuti per reagire alle

7
Cfr. la risoluzione approvata al Sesto Congresso del Bund nel 1905, che è riassunta in G. Aronson e al.,
Die Geshikte fun Bund, 1960 - 62.
8
Approvato al Settimo Congresso, settembre 1906 a Leopoli.
9
G. Aronson e al., Die Geshikte fun Bund, 1960 - 62
10
ibidem
11
Arye Gelbard, Der Judische Arbeiter-Bund Russlands im Revolutionsjahr 1971, 1982
umiliazioni cui erano sottoposti gli ebrei. Ecco alcuni esempi, fra i tanti che si potrebbero
citare.
Quando, alla fine del 1901, il duro nuovo governatore di Vilna, Viktor von Wahl,
emanò nuove norme restrittive sulle dimostrazioni e le riunioni politiche, e avvertì
minacciosamente la comunità ebraiche che, se le attività dei rivoluzionari ebrei non
fossero cessate, tutti gli ebrei ne sarebbero stati ritenuti collettivamente responsabili, sulla
stampa fu pubblicata la seguente Risposta al governatore di Vilna:

Il proletariato ebraico, negli ultimi dieci-quindici anni, è cambiato fino a diventare


irriconoscibile. Il proletariato yidl, timido e oppresso, che si inchinava strisciando ed
era abituato a tremare davanti a ogni simbolo del potere, non esiste più. Al suo posto
è sorto il proletario combattente, che ha imparato a consocere il valore della dignità
umana, ha imparato a lottare per i suoi diritti. Questa incessante lotta di liberazione
dalle catene economiche e per la conquista dei diritti civili e politici, il proletariato
ebraico la conduce a fianco del proletariato russo, lituano, polacco e lettone12.

Quando, il 1 maggio 1902, il Bund di Vilna organizzò – insieme agli operai polacchi
– una dimostrazione che rappresentava una sfida all’autorità, von Wahl la fece disperdere
da una carica di cosacchi e agenti di polizia; 26 dimostranti (20 ebrei e 6 polacchi, gli uni e
gli altri oggetto dell’implacabile odio del governatore) furono fustigati sulla pubblica
piazza. La misura era colma. Di fronte a una simile umiliazione, si levò il grido: “Violenza
contro violenza! Terrore contro terrore!”. Il comitato centrale del Bund emanò il seguente
proclama:

Noi rivoluzionari abbiamo sempre e dovunque, anche nelle più difficili circostanze,
difeso la nostra dignità di uomini. Abbiamo risposto all’insulto con l’insulto, alla
violenza con la violenza. Non possiamo ora voltare le spalle a quanto è accaduto a
Vilna. Un desiderio di rivincita, un grido di vendetta si leva da migliaia di cuori in
difesa della dignità umana…E’ vero, il partito si è sempre opposto al terrorismo
politico nella lotta contro l’autocrazia; ma ora siamo certi che dal seno del
proletariato ebraico sorgerà il vendicatore, che laverà col sangue l’umiliazione
inflitta ai suoi fratelli13.

Il vendicatore fu il giovane calzolaio Hirsh Lekert, che sparò a von Wahl, ferendolo,
e per questo suo gesto fu impiccato.
“Onore e gloria al vendicatore, che si è sacrificato per i suoi fratelli!”, dichiarò un
nuovo proclama del comitato centrale del Bund. In tutte le commemorazioni e gli elogi
funebri del Bund le parole chiave furono “dignità umana”, “riscatto della dignità
calpestata”; il comitato di Vilna affermò con orgoglio che era stato “un lavoratore, un
ebreo”, a vendicare i suoi fratelli14.
Sulla scia del caso Lekert, le principali organizzazioni bundiste – riunitesi a
Berdicev nell’agosto 1902 – si impegnarono a condurre “un’energica resistenza contro
tutte le forme di umiliazione dei rivoluzionari…Ad ogni atto di umiliazione si dovrà

12
G. Aronson e al., Die Geshikte fun Bund, 1960 - 62
13
ibidem
14
ibidem
rispondere con atti organizzati di vendetta e di protesta”15. L’ethos bundista aveva finito
col prevalere sull’ideologia socialdemocratica, che respingeva gli atti terroristici16.
Al tempo stesso, il Bund cominciava a costituire le sue unità di combattimento per
lottare contro i pogrom e gli attacchi delle “centurie nere”. Dopo il primo grande pogrom
dell’agosto 1920 a Czestochowa, fu creata un’unità di autodifesa del Bund “per difendere
l’onore del popolo ebraico”. Ben presto, unità di autodifesa bundiste sorsero in tutti i
principali centri ebraici; il culmine fu raggiunto nell’ottobre 1905, quando circa millecento
combattenti (boeviki), appoggiati da sei-settemila riservisti, costituirono le BO (squadre di
combattimento), a carattere paramilitare17.
Il via era stato dato dal giornale bundista Arbeter Shtime il 12 settembre 1902:

Dobbiamo comportarci come persone coscienti della propria dignità umana. La


violenza, da qualunque parte provenga (anche da lavoratori cristiani), non deve
essere tollerata. Se siamo attaccati…dobbiamo reagire con le armi in pugno e
combattere fino alla nostra ultima goccia di sangue; solo se ci mostreremo forti
costringeremo tutti a rispettare il nostro onore18.

Lo sforzo auto difensivo del Bund si scontrava, talvolta, con i maneggi e le manovre
di corridoio che i capi delle comunità ebraiche locali, appartenenti alla borghesia ebraica,
portavano avanti nei confronti dei funzionari e governatori zaristi: per prevenire i pogrom
anitebraici, quei capi cercavano spesso di corrompere i prefetti di polizia.
Molti di questi casi di corruzione furono segnalati e denunciati dalla stampa
bundista19. Quasi volesse ricollegarsi al Discorso per il Primo Maggio di Martov, il Bund
non si stancò mai di scagliarsi contro il servilismo della borghesia ebraica. Il comitato di
Vilna così poneva la questione in un volantino del gennaio 1904:

La borghesia ebraica...crede che la sua abietta autoumiliazione e il suo animo


servile possano attenuare l’odio del governo russo per gli ebrei...ma duemila anni di
persecuzioni antiebraiche dovrebbero averle insegnato una semplice verità: che il
piegare la schiena, se suscita la pietà dei deboli, non fa che accrescere l’odio dei forti.
Baciare il bastone del nemico non è di alcun vantaggio. Solo uomini fieri e dignitosi si
fanno rispettare, anche dai nemici. Un’uguaglianza di diritti che ci venisse concessa
in nome della pietà e dell’amore per il prossimo sarebbe tale solo di nome. Solo la
lotta coraggiosa può assicurarci dei veri diritti, che ci rendano uguali a tutti gli
altri20.

L’“anno rosso” della rivoluzione del 1905 segnò l’apogeo dello slancio
rivoluzionario del Bund, della sua crescita quantitativa e della sua influenza politica: il
movimento raggiunse, in quel momento, la sua piena maturità, presentandosi come uno dei

15
ibidem
16
Nella redazione del giornale socialdemocratico Iskra Lenin avrebbe voluto condannare il ricorso del
Bund al terrorismo, ma Martov e Vera Zasulic si opposero strenuamente, e non se ne fece nulla. Cfr.
lettera di Lenin a Plechanov 2 luglio 1902.
17
Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia from its Origins to 1905, 1972
18
G. Aronson e al., Die Geshikte fun Bund, 1960 - 62
19
ibidem
20
ibidem
maggiori partiti rivoluzionari dell’impero russo, e sicuramente delle sue regioni
occidentali.
Rafail Abramovic così commentò la “domenica di sangue”:

In nome del socialismo abbiamo per lunghi anni combattuto il potere del capitale e
dell’autocrazia, che hanno risposto a tutte le nostre richieste con lo staffile, le
pallottole, i pogrom e i massacri. Il giorno della rivoluzione è giunto...(abbandoniamo
il lavoro), scendiamo tutti nelle strade e spieghiamo al vento la bandiera
rossa!...Armiamoci...Che ogni strada diventi un campo di battaglia...Versiamo il
sangue dei nostri cuori e conquistiamoci i diritti che spettano ad ogni essere umano21.

Nel corso del 1905 il Bund fece ogni sforzo per mantenere “intatto uno stato
d’animo di appassionato furore”22 per mezzo di dimostrazioni, assemblee di massa e
scioperi. Insieme ad altri partiti socialisti, trasformò Lodz e Odessa in autentici campi di
battaglia. In queste due città, boeviki e operai organizzati bundisti ebbero un ruolo di
grande rilievo sulle barricate e nelle battaglie di strada contro i cosacchi, l’esercito e la
polizia: centinaia di essi furono uccisi o feriti23.
Quando, il 28 giugno, la corazzata Potemkin gettò l’ancora nel porto di Odessa, uno
dei principali oratori dell’incontro tra i marinai ammutinati e la città in rivolta fu la
giovane bundista Anna Lipsic. Decine di migliaia di persone l’ascoltarono affascinate, e né
i cosacchi né i poliziotto osarono interromperla, perché i potenti cannoni della corazzata
erano puntati contro di loro. Quando due agenti di polizia cercarono di suscitare sentimenti
antisemiti nei confronti della “Gaponsa” (come era chiamata l’oratrice), vennero linciati
dalla folla: uno fu ucciso con un colpo d’arma da fuoco e l’altro fu annegato24.
Per qualche tempo, anche dopo la disastrosa insurrezione di Mosca del dicembre
1905, il Bund cercò – come i boscevichi – di mantenere alta la tensione rivoluzionaria
invocando il boicottaggio attivo delle elezioni della Duma: “O la rivoluzione o la Duma:
su ciò non è possibile alcun compromesso!” fu il su grido di guerra25.
Ma ben presto i bundisti riconobbero il loro errore e, insieme ad altri
socialdemocratici, parteciparono – sia pur riluttanti – alle elezioni delle varie Dume.
La sconfitta della rivoluzione del 1905 lasciò il Bund, come gli altri partiti socialisti,
debole ed esausto. Negli anni di pseudocostituzionalismo e di semilegalità che
precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale e la rivoluzione del 1917, il Bund
concentrò tutte le sue energie nella creazione di scuole e istituzioni culturali e nella
pubblicazione di giornali e di libri in lingua yiddish, cercando in tal modo di porre le basi
del suo programma di autonomia nazional-culturale. Fece uno sforzo supremo per elevare
lo yiddish – il disprezzato gergo delle masse popolari (circa il 90% degli ebrei russi lo
considerava la propria madrelingua) – alla dignità e al rango di lingua nazionale: “la lingua
colta di un popolo colto”.
Nell’area dei partiti socialisti, il Bund aderì nel 1906 al RSDRP unificato e cercò di
fungere da mediatore nella contesa fra bolscevichi e menscevichi che lacerava e
paralizzava la socialdemocrazia russa.

21
Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia from its Origins to 1905, 1972
22
ibidem
23
G. Aronson e al., Die Geshikte fun Bund, 1960 - 62
24
ibidem
25
ibidem
Ciò mi spinge a prendere in considerazione un altro elemento essenziale dell’ethos
bundista: l’interesse per il “qui” ed l’ “ora” nell’attività culturale, educativa e sociale e per
quello che essi chiamavano il doikeyt.
Per il Bund, le attività culturali non erano soltanto parte integrante della sua
concezione laica, proletaria e yiddish del rinascimento ebraico, ma erano anche una
componente del suo programma di autonomia nazional-culturale extraterritoriale, della sua
soluzione del problema della nazione ebraica dispersa. Ciò faceva del Bund una rara
combinazione, un partito che lavorava al tempo stesso per il miglioramento immediato
delle sorti delle masse proletarie ebraiche e per un rinascimento culturale basato sulla
lingua e la letteratura yiddish.
Doikeyt era la parola d’ordine bundista, diretta contro i sionisti e i territorialisti che
cercavano la soluzione del problema ebraico in paesi lontani, fuori dai confini della Russia
e dell’Europa orientale, e in questo modo – pensavano i bundisti – pugnalavano nella
schiena il popolo ebraico.
Il Bund lottava per il diritto degli ebrei all’uguaglianza e al pieno sviluppo nazionale
nel loro specifico focolare russo e polacco, e si opponeva energicamente all’idea - diffusa
dagli antisemiti o dai sionisti (che i bundisti chiamavano talvolta “antisemiti di lingua
yiddish”) – secondo cui gli ebrei sarebbero stati dei “semplici ospiti” nei rispettivi focolai
nazionali. Non vi è quindi da stupirsi se i bundisti si sentirono profondamente offesi
quando nel 1903, poco dopo il pogrom di Kishinev, Theodor Herzl si incontrò con il
famigerato ministro degli interni Plehve per ottenere il suo appoggio alla carta per la
Palestina, e forse gli promise che avrebbe cercato di raffreddare l’ardore rivoluzionario
degli intellettuali e dei giovani ebrei26.
Quando nel 1917 scoppiò la rivoluzione, il suo esito fu appagante per il Bund. Non
solo essa abbattè d’un colpo il regime zarista che i bundisti odiavano con grande intensità,
ma conferì immediatamente agli ebrei l’uguaglianza politica e inserì i dirigenti e i quadri
bundisti nell’elite di governo della “democrazia rivoluzionaria”. Il 25 febbraio (due soli
giorni prima che l’ammutinamento della guarnigione di Pietrogrado desse il via alla
rivoluzione), Nikolaj Suchanov, incomparabile cronista della rivoluzione russa, arringando
un gruppo di operai dinanzi ai cancelli della fabbrica così riassumeva laconicamente
quello che – a parere dei bundisti – doveva essere il programma dei rivoluzionari: “Essi
vogliono il pane per tutti, la pace coi tedeschi e l’eguaglianza di diritti per gli ebrei!”27. E
quando, il 3 marzo, il governo provvisorio illustrò il suo programma politico, dettatogli
quasi parola per parola dal soviet di Pietrogrado, uno dei punti programmatici prometteva
“l’abolizione di tutte le discriminazioni di classe, religione e nazionalità”, perché –
secondo la formulazione del successivo decreto del 20 marzo – “in un paese libero tutti i
cittadini devono essere uguali davanti alla legge”28.
E’ naturale quindi che il Bund si rallegrasse nel suo convegno dell’aprile 1917,
persuaso com’era che la sua linea antizarista e il suo orientamento rivoluzionario avessero
trovato piena conferma nello sviluppo degli avvenimenti.

Il Bund ha sempre sostenuto che solo la lotta per la completa distruzione


dell’autocrazia distruggerà l’ineguaglianza civile.

26
Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia from its Origins to 1905, 1972
27
Nikolaj Suchanov, Cronache della Rivoluzione, 1922-23
28
Robert Browder, Aleksandr Kerenskij, The Russian Provisional Government 1917, 1961
Ma questo era solo il principio. Il Bund esortò i lavoratori ebrei a continuare “la loro
energica partecipazione al movimento generale rivoluzionario, che porterà al popolo
ebraico non solo l’emancipazione civile, ma anche quella nazionale”. In termini pratici,
ciò significava “l’immediata realizzazione dell’autonomia nazional-culturale del popolo
ebraico”29.
Il Bund, legato strutturalmente ai menscevichi e, insieme ad essi, compartecipe del
blocco menscevico-SR che dominò i soviet fino alla rivoluzione d’ottobre, apparteneva –
attraverso i suoi dirigenti Mark Liber e Henryk Erlich – al nucleo essenziale della
dirigenza sovietica. Liber e Rafail Abramovic furono gli esperti e i relatori sulla questione
nazionale; nel giugno essi riuscirono a far approvare dal I Congresso dei soviet una
risoluzione che adottava il punto di vista bundista sul problema delle nazionalità; inoltre,
fu approvata all’unanimità una risoluzione sull’antisemitismo30. I membri del Bund
svolsero un analogo ruolo dirigente, e con identico successo, al Congresso di unificazione
menscevico dell’agosto 191731: la piattaforma menscevica sul problema delle nazionalità,
preparata in vista delle elezioni dell’Assemblea costituente, avrebbe potuto essere scritta
dai bundisti (e forse lo fu davvero). Poiché la piattaforma SR sul problema delle
nazionalità era molto vicina a quella menscevica, e il blocco menscevico-SR aveva la
maggioranza assoluta all’Assemblea costituente, il programma bundista di autonomia
nazional-culturale per gli ebrei sarebbe stato molto probabilmente approvato, se
l’assemblea non fosse stata sciolta con la forza dai soldati bolscevichi il 6 gennaio 1918.
Se è vero che non c’era posto per nessun partito socialista di opposizione nel quadro
della dittatura monopartitica bolscevica (tanto che, alla fine del 1920, SR, SR di sinistra e
menscevichi erano tutti passati alla clandestinità o erano andati in esilio), è anche vero che
il Bund, un tempo così saldamente unito e così geloso della propria indipendenza, si
scisse: nell’aprile 1920 la sua maggioranza entrò a far parte della sezione ebraica del
partito comunista panrusso. Una prima ragione che spiega questo atteggiamento (ragione
che i bundisti ebbero in comune con Martov e con i menscevichi) è che, nel corso della
guerra civile fra rossi e bianchi, i bolscevichi apparvero come i difensori di una
rivoluzione che, quando fu seguita da quella del 1918 in Germania, sembrò destinata a
dilagare nell’Europa centrale e occidentale. Ma un secondo e ancor più importante motivo
della decisione bundista fu il fatto oggettivo che l’Armata rossa, ed essa sola ormai,
difendeva le masse ebraiche dall’antisemitismo e dai pogrom; quali che fossero, sul piano
ideologico, democratico e nazional-culturale, le obiezioni che molti dirigenti bundisti
muovevano ancora ai bolscevichi, l’esperienza dei pogrom (che essi avevano in comune
con le masse ebraiche) esercitò su di loro un’influenza dominante.
Scriveva uno di loro:

(I bolscevichi) sono ora i portatori armati del socialismo, l’unica forza in grado di
opporsi ai pogrom…per noi non c’è scelta…questa è la via migliore, e forse l’unica,
per lottare contro gli orribili pogrom antiebraici32.

29
Cfr. la risoluzione sulla questione nazionale al X Congresso del Bund nell’aprile 1917, in Arye
Gelbard, Der Judische Arbeiter-Bund Russlands im Revolutionsjahr 1917, 1982
30
Arye Gelbard, Der Judische Arbeiter-Bund Russlands im Revolutionsjahr 1917, 1982
31
ibidem
32
Zvi Gitelman, Jewish Nationality and Soviet Politics: The Jewish Sections of the CPSU 1917 – 1930,
1972
Per la cronaca, è opportuno ricordare che uno dei pochi discorsi di Lenin incisi e
radiotrasmessi nel marzo e nell’aprile 1919 fu un appassionato intervento in cui venivano
denunciati “i maltrattamenti e i pogrom contro gli ebrei”33.

Passando ora a considerare il Bund polacco, che ebbe una sua storia autonoma
molto vivace, mi limiterò a qualche breve cenno relativo al suo periodo eroico, agli anni
che precedettero immediatamente la seconda guerra mondiale.
In quegli anni gli ebrei polacchi, che ammontavano a circa tre milioni e mezzo, si
trovarono chiusi in una situazione senza speranza di feroce antisemitismo e di politica
coercitiva da parte del governo. Tale politica, a cominciare dall’estromissione degli ebrei
dalla vita economica polacca, mirava apertamente a provocare l’esodo di massa della
popolazione ebraica, proprio in un momento nel quale l’emigrazione in America e in
Palestina si era ridotta a un misero stillicidio.
Fu il Bund che in quegli anni condusse una lotta decisa contro la politica mirante a
impoverire e strangolare gli ebrei polacchi. Sulla scia del piccolo pogrom di Przytyk del 9
marzo 1936, il Bund, con l’aiuto dei sindacati controllati dal PPS, organizzò uno sciopero
generale e pubblicò il seguente appello, che ben riassume, con la sua aggressività, la
posizione bundista34:

In risposta all’orribile…attacco scatenato contro la popolazione ebraica in Polonia,


abbiamo deciso di proclamare, per martedi 17 marzo, uno sciopero generale di
protesta di mezza giornata; chiamiamo l’intera classe operaia polacca a parteciparvi.
I principali obiettivi dello sciopero di martedi sono:
1. Contro l’antisemitismo dell’Endeks (Nazionaldemocratici) e della Sanacja (blocco
governativo), contro i continui pogrom e lo sterminio fisico della popolazione ebraica.
2. Contro la reazione nazionalista e clericale ebraica.
3. Contro il boicottaggio ai danni dei lavoratori ebrei, contro l’estromissione degli
ebrei da tutte le posizioni economiche, contro la politica di affamamento delle masse
ebraiche.
4. Contro la persecuzione a cui sono state sottoposte le scuole in lingua yiddish e la
cultura yiddish delle masse ebraiche; contro i tentativi di creare un ghetto ebraico
nelle università; contro ogni forma di persecuzione nazionale.
5. Contro la reazione, il fascismo e il capitalismo.
6. Per la piena eguaglianza della popolazione ebraica a tutti i livelli della vita
economica, politica e sociale polacca.
7. Pane, lavoro e libertà per tutte le nazionalità della Polonia.
8. Per la solidarietà proletaria internazionale.
9. Per un’efficace autodifesa della popolazione ebraica contro ogni tentativo di
pogrom.
10. Per un governo operaio e contadino, per il socialismo.

33
Lenin, I pogrom contro gli ebrei, in Opere complete ed. 1967, vol. XXIX, pp.229-30
34
Bernard Johnpoll, The Politics of Futility: The General Jewish Workers Bund of Poland, 1917-1943,
1967
Allo sciopero generale il Bund fece seguire un’azione di autodifesa durante il
pogrom di Brest-Litovsk del maggio 1937 e, in alleanza con le unità antifasciste del PPS,
respinse gli antisemiti di destra che attaccarono in forze gli ebrei in altre città polacche35.
Fu il Bund che, con l’appoggio di insegnanti universitari generosi e del PPS, guidò
la campagna politica per lo sciopero generale di due giorni contro la discriminazione
antiebraica (il “ghetto dei banchi”) nelle università polacche36.
E’ naturale, quindi, che il Bund si sentisse gravemente oltraggiato quando, verso la
fine del 1936, Vladimir Jabotinskij se ne andò in giro per la Polonia smerciando – dietro le
spalle dei dirigenti ebrei polacchi – i suoi grandiosi piani di evacuazione e intrigando con
il governo antisemita polacco, affinchè quest’ultimo premesse sul governo inglese e ne
ottenesse il consenso all’immigrazione di massa degli ebrei in Palestina 37. Mentre la
stampa antisemita salutava con entusiasmo i piani di Jabotinskij ed elogiava la sua
ingegnosa capacità di utilizzare “l’antisemitismo per la rapida realizzazione dell’ideale
sionista”38 il Bund riaffermava il diritto degli ebrei ad avere il loro focolare nazionale in
Polonia.

Il nostro partito ha sempre cercato, e cerca tuttora, di far comprendere alle masse
ebraiche che il loro destino e il destino del paese in cui vivono sono inseparabili; ha
sviluppato e sviluppa nelle masse ebraiche la convinzione che gli ebrei sono cittadini
polacchi, e che non solo hanno gli stessi diritti degli altri cittadini, ma anche gli stessi
doveri; (il Bund) ha legato e lega in modo sempre più stretto le masse ebraiche alla
vita della Polonia e alle lotte delle masse lavoratrici polacche per un avvenire
migliore e per una più piena liberazione nell’ambito della patria comune39.

Gli ebrei polacchi di orientamento laico, compresi molti sionisti e non socialisti, si
identificarono sempre più col Bund, perdonandogli tutte le sue idiosincrasie: la
predilezione fanatica per lo yiddish, l’antisionismo ossessivo, il carattere proletario e
l’internazionalismo. Così, fra il 1936 e il 1939, il Bund ottenne nelle elezioni
amministrative la maggioranza assoluta dei voti ebraici in tutte le maggiori città polacche,
con la sola notevole eccezione di Cracovia e Leopoli40. I dirigenti bundisti Victor Alter e
Henryk Erlich interpretarono questi risultati come una manifestazione di sfiducia verso
tutti quelli che essi chiamavano “gli emigrazionisti, gli evacuazionisti e i collaborazionisti
(col governo polacco)”, i quali avevano l’audacia di dire agli ebrei che erano stranieri in
patria e “gente in soprannumero”, dando così una mano all’aggressivo antisemitismo
polacco41.
Il dirigente sionista polacco Moshe Kleinbaum – che in seguito diventò capo
dell’Haganah con il nome di Moshe Sneh e, più tardi ancora, capo del Partito comunista
(ebraico) dello stato di Israele – riconobbe che il voto era l’espressione della sfiducia delle

35
ibidem
36
ibidem
37
Emanuel Melzer, No Way Out: The Politics of Polish Jewry 1935-1939, prima ed. 1975 nuova ed. 1997
38
ibidem
39
Bernard Johnpoll, The Politics of Futility: The General Jewish Workers Bund of Poland, 1917-1943,
1967
40
ibidem
41
Emanuel Melzer, No Way Out: The Politics of Polish Jewry 1935-1939, prima ed. 1975 nuova ed. 1997
masse ebraiche nella capacità dei politici sionisti di lottare per i diritti degli ebrei42. Il
dirigente sionista laburista Josef Sprinzak (che in seguito fu il primo presidente della
Knesset, il parlamento israeliano), in una lettera inviata in Palestina alla fine del 1937,
tirando le somme della sua visita in Polonia, contrappose la frammentazione e la paralisi
quasi totale dei partiti sionisti al vigore e al prestigio di cui godeva il Bund. Attribuì il
successo dei bundisti “alla loro serietà e ai loro sforzi sistematici, alla relativa mancanza in
loro di arrivismo, e forse anche alla loro maggiore cultura”. Sprinzak sperava (forse aveva
anche pregato per questo!) che “la forza crescente del Bund avrebbe predisposto
quest’ultimo compito che lo attendeva nella lotta per la difesa del popolo ebraico
perseguitato”43. Provenendo da un dirigente sionista laburista molto impegnato, anche se
molto equilibrato, questo giudizio era assai più di un complimento a mezza bocca: era
un’invocazione disperata.
Ho cercato di presentare un Bund che, attraverso le vicissitudini della sua storia
nella Russia zarista e nella Polonia antisemita, seppe rimanere fedele al suo ethos
originario. In questo, il Bund fu solidale con il giovane Marx, che sentì come proprio ethos
o – per citare le sue parole – come suo “imperativo categorico” quello di “rovesciare tutti i
rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole” 44,
e anche con il Marx maturo, che nelle “confessioni” del 1865 alle figlie Jenny e Laura
dichiarava che la principale dote del suo carattere era la sincerità dei propositi, la sua idea
di felicità era la lotta, la sua idea dell’infelicità la sottomissione, il vizio che più detestava
il servilismo, ed il colore preferito il rosso45.
Questo stesso ethos marxiano animava lo storico socialista e combattente
antifascista Gaetano Salvemini il quale, nel novembre 1925, nella lettera di dimissioni
inviata al rettore dell’Università di Firenze scriveva:

La dittatura fascista ha soppresso ormai completamente, nel nostro paese, quelle


condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia –
quale io lo intendo – perde ogni dignità, perché deve cessare di essere strumento di
libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante, oppure a
mere esercitazioni erudite, estranee alla coscienza morale del maestro e degli
alunni46.

E’ davvero una felice circostanza che al nome di Gaetano Salvemini sia intitolato
l’istituto storico sotto i cui auspici (insieme a quelli della comunità israelitica e
dell’università di Torino) ci siamo riuniti per ricordare ed onorare coloro che a Varsavia,
nell’aprile 1943, insorsero contro i nazisti e combatterono per la dignità umana, e solo per
essa.

42
ibidem
43
ibidem
44
Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844
45
Eugene Kamenka, The portable Karl Marx, 1893 (Il meglio di Marx, 1991)
46
Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoriuscito, 1960
John Bunzl

IL BUND E IL SIONISMO

Questo mio contributo è diviso in due parti. Nella prima cerco di analizzare i
contrasti fra il Bund (Unione generale dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania),
fondato nel 1897, e le varie correnti di sinistra del sionismo nel periodo antecedente la
prima guerra mondiale. Nella seconda parte esamino il significato attuale di quel dibattito.

Parte prima. La “vecchia controversia” fra bundisti e sionisti

1. Le correnti territorialiste all’interno del movimento operaio ebraico. Vari fattori


contribuirono alla formulazione delle teorie che indicavano il concentramento degli ebrei
in un determinato territorio come uno dei compiti della classe operaia ebraica:
a. l’intento dei sionisti di minare la posizione egemonica del Bund antisionista fra
gli operai ebrei organizzati;
b. l’incapacità della politica sionista borghese di far breccia nelle file del proletariato
ebraico;
c. le difficoltà oggettive e soggettive con cui si scontrò, intorno al 1905, il
movimento operaio ebraico.
Dopo alcuni tentativi delle forze sioniste di sinistra di costituirsi in forma autonoma
e indipendente dall’organizzazione generale sionista, tre raggruppamenti si formarono nel
corso della rivoluzione del 1905: a. i sionisti socialisti (SSRP); b. il Partito operaio
socialista ebraico (SERP); c. il Partito operaio socialdemocratico ebraico – Poalè Zion
(Operai di Sion).
Queste correnti territorialiste avevano in comune la convinzione che la questione
ebraica dovesse essere analizzata essenzialmente da un punto di vista economico-sociale.
Esse erano giunte concordemente alla conclusione che lo sviluppo nazionale del
proletariato ebraico fosse impossibile senza un territorio proprio; in mancanza di un
territorio, la lotta di classe degli operai ebrei sarebbe stata priva di efficacia. Di
conseguenza, questi gruppi indirizzarono le loro rivendicazioni principalmente verso
obiettivi di carattere territoriale dedicando scarsa attenzione ai problemi della diaspora,
dell’esilio. Delle loro analisi faceva parte integrante il concetto di “piramide capovolta”,
elaborato con maggiore ampiezza da Ber Bochorov: la struttura sociale del popolo ebraico
nella diaspora era anomala, perché caratterizzata dall’assenza di un vasto strato rurale e dal
predominio di elementi borghesi e semiborghesi. (Borochov fu il fondatore e il principale
teorico del Poalè Zion).
Il Poalè Zion, l’unica formazione fra quelle indicate che svolse un effettivo ruolo
storico (in quanto fu la matrice originaria di alcuni partiti operai israeliani), voleva
“correggere” la struttura “anomala” della società ebraica prima di qualsiasi discorso sulla
trasformazione di questa in senso socialista. Borochov chiedeva un territorio per il popolo
ebraico affinchè questo potesse sviluppare una struttura di classe “normale” e disporre così
delle condizioni necessarie a una “reale” lotta di classe. A tal fine, grande attenzione fu
rivolta ai movimenti migratori ebraici.
Bisognava superare il carattere caotico del processo migratorio e trasformarlo in una
colonizzazione cosciente della Palestina, dove la società ebraica sarebbe diventata una
società “produttiva” e legata alla terra. Come “marxisti”, gli aderenti al Poalè Zion
pretendevano che la loro scelta della Palestina non fosse motivata da sentimenti di
carattere religioso; essi affermavano che il sottosviluppo della regione, in contrasto con i
tradizionali paesi di emigrazione, facilitava il conseguimento di un’autonomia territoriale,
e quindi anche politica.
“Invece di trasferirci in paesi con un più alto grado di sviluppo economico,
dobbiamo andare in paesi il cui sviluppo sia largamente inferiore al livello della
produzione ebraica. In questo modo, gli ebrei diventerebbero la forza dominante del paese
e non rimarrebbero più confinati a lavori marginali, come nelle vecchie comunità ebraiche
e nei paesi di emigrazione. E’ necessario che la trasmigrazione ebraica perda le sue
caratteristiche di semplice immigrazione e diventi una colonizzazione”47.
In sostanza, i seguaci del Poalè Zion volevano isolare l’emigrazione ebraica dal più
generale flusso migratorio e indirizzarla consapevolmente verso un paese semirurale, dove
una colonizzazione basata sul lavoro avrebbe creato le condizioni demografiche, politiche
ed economiche per la costituzione di uno stato ebraico indipendente.
Secondo Bochorov, gli ebrei immigrati non si sarebbero scontrati con la rivalità
nazionale della popolazione indigena: al contrario, la maggioranza dei contadini fellahin
sarebbe stata assimilata in una Palestina ebraica (previsione che suonava assai strana in
bocca a un fervido oppositore dell’assimilazione degli ebrei europei).

2. Le risposte al sionismo in seno al movimento operaio ebraico. Le posizioni


territorialiste furono tutte concepite come una sfida al Bund. Il sionismo borghese non era
considerato dal Bund come un rivale; ma i bundisti cominciarono ben presto ad aspettarsi
che i sionisti si sarebbero rivolti agli operai “travestiti da socialisti”.
Perciò i seguaci del Bund, già prima del 1905, ebbero qualcosa da dire contro i loro
oppositori e potenziali rivali: una Palestina borghese avrebbe sfruttato gli operai in modo
qualitativamente non diverso dalla Russia di allora. Ma proprio in Russia i sionisti
predicavano una totale indifferenza nei confronti delle lotte sociali48; essi inoltre
consideravano come “stranieri” gli ebrei che vivevano nell’Europa orientale.
Il IV Congresso del Bund (1901) condannò la propaganda sionista fra gli ebrei e
vide nell’ideologia del sionismo: a. una reazione di tipo borghese all’antisemitismo; b. una
deviazione nazionalista che cercava di distogliere gli operai ebrei dalla lotta di classe; c.
un elemento di divisione fra ebrei e non ebrei49.
A partire dal 1901, i bundisti dedicarono maggior attenzione alle attività sioniste,
soprattutto dopo che Zubatov, il capo della polizia segreta zarista, aveva cercato di
collaborare con i sionisti. Nel suo rapporto all’Internazionale Socialista (1904), il Bund
giunse al punto di definire il sionismo “il peggior nemico del proletariato ebraico
organizzato” che lottava sotto la bandiera socialdemocratica del Bund50.

47
Ber Bochorov, Grundlage des Poale-Zionismus, 1905
48
Giudizio riportato nel Rapporto del Bund al II Congresso del Partito operaio socialdemocratico russo.
49
Henry Tobias, The Jewish Bund in Russia from its Origins to 1905, 1972
50
ibidem
Il sionismo fu definito “un movimento della piccola borghesia ebraica, sottoposto
alla duplice pressione del grande capitale, da un lato, delle leggi eccezionali zariste e della
repressione governativa, dall’altro. Il sionismo, partendo dall’idea che l’antisemitismo sia
un fenomeno permanente, tende a creare uno stato classista in Palestina e tenta di occultare
le contraddizioni di una classe dietro il paravento di un generale interesse nazionale”51.
Per i bundisti, dunque, il sionismo rappresentava fondamentalmente gli interessi
della piccola borghesia ebraica declassata e di una parte degli intellettuali ebrei, ma non
aveva una reale incidenza sul proletariato e sulla grande borghesia. Quest’ultima non
sarebbe stata affatto entusiasta di trasferire i propri capitali in Palestina52.
La comparsa di alcune tendenze sioniste di sinistra, soprattutto dopo il pogrom di
Kishinev (1903), e la loro incipiente influenza sui lavoratori, costrinsero i bundisti a
misurarsi più da vicino con la sfida che venne loro rivolta sul piano teorico e pratico. Ma
essi seppero solo ripetere che anche i seguaci di Poalè Zion volevano allontanare i
proletari dal loro posto di lotta e sospingerli verso la collaborazione di classe fino alla
conquista della Palestina. Per gli operai ebrei dotati di coscienza di classe non aveva
importanza il luogo nel quale si doveva condurre la lotta.
In una prima fase, i bundisti ignorarono sostanzialmente gli argomenti economico-
sociali avanzati dai loro rivolai territorialisti, ai quali opponevano semplicemente la
fiducia che la conquista delle libertà democratiche in Russia avrebbe risolto tutti i
problemi. In seguito, i bundisti cercarono di spiegare che gli artigiani ebrei erano proletari
nel senso marxista del termine, e che il passaggio dell’economia ebraica dalla fase della
manifattura a quella della grande industria capitalistica era impedito solo da ostacoli di
natura giuridico-politica. Tutti questi ostacoli, compresi i pogrom e la necessità di
emigrare, sarebbero scomparsi con il crollo dell’autocrazia zarista. “Gli ebrei sanno che la
loro lotta di classe realizzerà il socialismo qui, nel galuth (diaspora). Il galuth non sarà più
un galuth: perché allora, dovremmo ancora occuparci di Sion?”53. La lotta per un territorio
non sarebbe mai stata una lotta di classe; al contrario, essa era un mezzo per distogliere i
lavoratori da questa lotta. I territorialisti vedevano le cose in modo troppo statico: lo
sviluppo capitalistico e l’autonomia nazional-culturale nei paesi abitati dagli ebrei
avrebbero confutato il territorialismo, espressione della disperazione del presente 54. Anche
l’isolamento degli operai ebrei e la loro separazione dagli operai non ebrei erano visti dai
bundisti come fenomeni temporanei e dipendenti dallo sviluppo economico. Questo
sviluppo avrebbe elevato la coscienza di classe degli operai non ebrei e li avrebbe indotti a
superare il frequente atteggiamento di rifiuto nei confronti del loro colleghi ebrei.
I bundisti, pur non essendo riusciti a confutare tutti gli argomenti dei territorialisti e
ad impedirne la penetrazione nelle file della classe operaia ebraica, furono tuttavia tra i
primi a mettere in guardia contro le inevitabili difficoltà che sarebbero insorte in Palestina.
Balakan previde nel 1905 che “gli espropriati (gli arabi) non sarebbero rimasti seduti a
braccia conserte”55. Notò anche i riprovevoli tentativi dei sionisti di allearsi con qualsiasi
potenza imperialista che avesse il controllo del Medio Oriente. Per esempio, al VII
Congresso sionista (1905) Max Nordau fece il quadro di una popolazione numerosa e ben

51
David Balakan, Die Sozialdemokratie Und Das Judische Proletariat, 1905
52
Boris Frumkin (pseud. B. Rosin), Die zionistisch-sozialistiche Utopie, 1909
53
Chaim Yankel Helfand (pseud A. Litvak, A.L.), Der Poale-Zionismus, 1906
54
ibidem
55
David Balakan, Die Sozialdemokratie Und Das Judische Proletariat, 1905
organizzata…che non tollera alcun attacco alla sovranità del sultano”. Un altro critico
bundista previde (nel 1906!) che il capitale avrebbe preferito, in Palestina, il lavoro arabo a
buon mercato: “o invece i socialisti sionisti pensano di creare una speciale zona di
residenza per i beduini e di emanare leggi eccezionali contro l’immigrazione dei lavoratori
non ebrei?”56.

3. I sionisti di sinistra rispondono ai loro critici. Senza affrontare seriamente la


“questione araba”, i sionisti di sinistra mantennero ferma la loro tesi: l’emancipazione
borghese non avrebbe abolito il ghetto economico-sociale in cui vivevano gli ebrei. Le
rivendicazioni bundiste erano insufficienti perché attribuivano troppa importanza ai
problemi linguistici e culturali (come emergeva dal programma di autonomia nazional-
culturale) e sottovalutavano le ragioni economiche dell’oppressione nazionale. La cultura
non doveva essere vista come isolata dalle condizioni economico-sociali, ma piuttosto
come il loro prodotto.
Il Bund era accusato di guardare alle conseguenze, e non alle cause del conflitto
nazionale. Per Bochorov le cause erano radicate nella debole “posizione strategica” del
proletariato ebraico. I limiti e le anomalie di questa posizione scompariranno – egli
scriveva – solo se e quando “avverrà, nella vita degli ebrei, una radicale trasformazione
delle condizioni produttive e quando il popolo ebraico avrà ottenuto un proprio territorio:
quando gli ebrei opereranno nelle sfere decisive della produzione e non produrranno più
soltanto dei valori d’uso, ma anche dei mezzi di produzione, allora il proletariato ebraico
costituirà l’elemento determinante della vita economica del paese. Quando i centri
essenziali della vita economica saranno in mano agli ebrei, la struttura del proletariato
ebraico si svilupperà in modo normale ed autonomo, senza più dipendere necessariamente
dalle organizzazioni operaie delle popolazioni circostanti. Allora la lotta di classe del
proletariato non si rivolgerà più contro una borghesia impotente – come ora avviene
nell’ambito dell’economia ebraica – ma contro una potente borghesia, che dirigerà la
produzione del paese”57.

4. Conclusioni. I seguaci del Poalè Zion ritenevano che l’isolamento economico e la


lotta per l’identità nazionale fossero aspetti permanenti della vita degli ebrei. Essi
consideravano questi aspetti come il punto di partenza di una strategia radicalmente
“separatista” e mostravano, quindi, scarso interesse per le possibilità di una lotta comune
con i non ebrei e per una generale trasformazione della società che portasse al
superamento delle dolorose condizioni di esistenza degli ebrei della diaspora.
L’isolamento non era soltanto un presupposto, ma anche una necessità della loro politica.
Questo mio contributo si limita a disegnare solo i lineamenti di una “vecchia
controversia”; oggi si dovrebbe tener conto di molti altri eventi storici di grande
importanza. Ne cito alcuni:
a. la deludente e frustrante esperienza sovietica in tema di questione ebraica;
b. l’incapacità del movimento operaio internazionale di impedire l’avvento del
nazismo;
c. la profonda influenza dell’Olocausto sulla struttura psicologica e sulle idee
politiche degli ebrei;

56
Chaim Yankel Helfand (pseud A. Litvak, A.L.), Der Poale-Zionismus, 1906
57
Ber Bochorov, Grundlage des Poale-Zionismus, 1905
d. il grande significato della creazione dello stato di Israele, come tentativo di
soluzione della questione ebraica e come parte della questione stessa.

Parte seconda. Alcune riflessioni sull’identità ebraica e sullo stato di Israele oggi

1. L’ “antica controversia” fra bundisti e sionisti non era un conflitto tra sionismo e
assimilazionismo, ma era sostanzialmente un contrasto fra due diverse prospettive di una
lotta per un destino collettivo del popolo ebraico. Il contrasto investiva anche il problema
del luogo in cui tale lotta doveva svolgersi.
Coloro che difendevano per prospettive della diaspora sostenevano che i loro
oppositori trascuravano i problemi quotidiani delle masse ebraiche e non mostravano alcun
interesse ad opporsi all’antisemitismo. A loro giudizio, le trasformazioni politiche dei
paesi della diaspora avrebbero comportato libertà e uguaglianza per tutti; di conseguenza,
la lotta per questo obiettivo sarebbe stata una lotta comune agli ebrei e ai non ebrei.

2. I “territorialisti”, cioè coloro che ponevano come obiettivo il concentramento del


popolo ebraico in un determinato lembo di terra, promuovevano una strategia tendente ad
isolare le masse ebraiche dall’ambiente circostante e a spingerle verso una particolare
forma di emigrazione: la colonizzazione della Palestina, con la formazione di una
maggioranza ebraica e, da ultimo, la creazione di uno stato ebraico in quel territorio.

3. L’Olocausto e la formazione dello stato di Israele sembrano aver deciso il


dibattito (che fu essenzialmente un dibattito esteuropeo) in favore dei “territorialisti”. Ma,
in realtà, quei due eventi hanno soltanto ampliato l’ambito del problema, coinvolgendo la
maggior parte degli ebrei viventi oggi al mondo.

4. Il disagio che la maggior parte degli ebrei laici e progressisti prova oggi nei
confronti del sionismo e dello stato di Israele deriva essenzialmente dal fatto che lo stato
ebraico si è in qualche modo assunto il compito di “risolvere” anche i nostri problemi. La
sua semplice esistenza rappresenta un costante appello alla solidarietà e/o all’emigrazione;
la maggior parte degli ebrei prova nei suoi confronti un sentimento di gratitudine, realizza
per suo tramite la propria identità, lo considera un compenso a tante inenarrabili sofferenze
e un possibile rifugio. D’altro lato, lo stato di Israele pretende di parlare “a nome degli
ebrei”, e il mondo tende a identificare gli ebrei, dovunque essi siano, con Israele.

5. Il comportamento specifico di questo stato è legato al compito, che esso si è dato,


di “risolvere la questione ebraica” e di “raccogliere gli esuli”. Lo stato di Israele è, per sua
stessa definizione, uno strumento di questo processo, che rappresenta
contemporaneamente un processo di espropriazione e di estromissione dei palestinesi dalle
loro terre.
Nel loro atteggiamento verso lo stato di Israele, ebrei e non ebrei spesso non
comprendono il rapporto di stretta interdipedenza fra questi due processi e si richiamano a
ragioni di ordine morale tratte dall’esperienza europea della sofferenza ebraica. Questo
atteggiamento deriva da una commistione di esperienze europee e di realtà mediorientali e
dell’incomprensione degli inesorabili meccanismi del processo sionista di colonizzazione.
6. La tutela che Israele esercita sulle comunità ebraiche della diaspora è il risultato
del ruolo che viene soggettivamente attribuito a questo stato dalla coscienza degli ebrei
che ne sono al di fuori, e delle esigenze di questo stato stesso. Tali esigenze sono ambigue.
Da un lato, è necessario reclutare degli immigranti/coloni; dall’altro, bisogna mantenere
dei gruppi di pressione all’interno dei rispettivi paesi. Il reclutamento dovrebbe basarsi
sulle attrattive dello stato di Israele (o sulla “mancanza di attrattive” della diaspora); ma le
attuali condizioni di Israele offrono ben poco di attraente alla maggior parte degli ebrei
della diaspora. Diventa sempre più chiaro che le condizioni di esistenza in Israele e nella
diaspora sono diversissime, per non dire opposte. Mentre lo stato sionista è costretto a
usare la forza per autoconservarsi in Palestina, le comunità ebraiche sparse nel mondo
sono profondamente interessate a conservare un carattere di tollerante pluralismo nelle
società in cui vivono. Contrariamente a tale interesse, la tutela di Israele assume sempre
più la forma dell’imposizione di assurde idee scioviniste a queste comunità. Perciò molte
di esse provano un senso di intimo disagio, che suscita accese discussioni, quanto meno
sugli attuali governanti di Israele. Anche se sarebbe erroneo attribuire a Israele la capacità
di manipolare le tendenze antisemite presenti oggi nel mondo, alcune forze israeliane sono
sicuramente interessate all’esistenza di condizioni che alimentino un’immigrazione di
massa in Israele. Tutte queste circostanze sono oggetto di ampio dibattito fra gli ebrei.
“Noi” dovremmo cercare di formulare una prospettiva ebraica alternativa.

7. Il sionismo e il bundismo furono delle forme di attività collettiva degli ebrei, dei
tentativi di influenzare il corso della storia con un’azione autonoma e cosciente. Questo
aspetto dev’essere considerato pienamente valido, contro l’illusione assimilazionista e
contro altre illusioni. Diverso è il problema dell’orientamento politico di questa attività. A
mio parere, l’unica soluzione giusta consiste nel cercare di integrare le aspirazioni degli
ebrei all’emancipazione in una più generale lotta di liberazione dei popoli (per quanto
astratto ciò possa sembrare), e nel combattere l’illusione che gli ebrei possano trovare
rifugio in qualche angolo di questa terra.
Ciò significa provare interesse per la comunità ebraica che vive nel territorio di
Israele/Palestina e per le prospettive di emancipazione degli ebrei che ne sono al di fuori;
significa considerare gli ebrei di Israele come un’importante comunità ebraica fra le altre
comunità ebraiche e appoggiare coloro che, in quel paese, lottano contro l’oppressione e la
brutalizzazione.

8. E’ una posizione molto difficile da assumere oggi, e psicologicamente molto


onerosa, perché significa – per l’ebreo – scegliere volontariamente la condizione di un
“paria” (Hannah Arendt) non solo nei confronti dei gentili, ma anche nei confronti della
società ebraica ufficiale. E’ una condizione che grava pesantemente non solo sui nostri
rapporti sociali e politici, ma anche su quelli di natura individuale e personale, perché è
proprio a questo insieme di rapporti che spetta l’oneroso compito di darci il senso della
nostra identità e appartenenza, così difficile da realizzare altrove. E’ una sfida, molto seria,
a considerare questa identità e appartenenza, e il concetto stesso di “patria”, come
qualcosa che non esiste ancora, qualcosa che deve essere creato dagli sforzi umani; e a
vedere nella partecipazione a questi sforzi il significato fondamentale della vita per ogni
ebreo e per ogni essere umano.
la Zona di Residenza degli ebrei nell’Europa orientale, 1900 circa

In copertina: manifestazione del Bund il Primo Maggio 1936 a Varsavia

Fipvsottavio20torinoaprile2016

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