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Come accennato il D.Lgs. 81/08 non prevede specifiche sanzioni penali per l’RSPP:
non vi è dunque uno specifico sistema di pene (per delitti: reclusione/multa; per
contravvenzioni: arresto/ammenda) che vada a sanzionare il comportamento di un
RSPP che non svolge adeguatamente il suo compito.
Il che non significa che il RSPP non possa incorrere in una responsabilità penale, anche
per reati piuttosto gravi.
Il quadro normativo attuale prevede che il datore di lavoro sia e rimanga titolare della
posizione di garanzia e, di conseguenza, il responsabile – salvi i casi che si diranno –
in caso di infortunio sul lavoro.
Anche la dottrina, dopo una iniziale adesione alle tesi giurisprudenziali pre-riforma, in
oggi si è attestata nel riconosce che il RSPP non può non dirsi esonerato da
un’eventuale responsabilità per colpa professionale: anzi, qualora l’errore non fosse
rilevabile dal datore di lavoro, quest’ultimo, in assenza di profili di colpa, potrebbe
andare persino esente da ogni responsabilità.
Pertanto, qualora il datore di lavoro non adotti una doverosa misura di prevenzione a
causa di un errato suggerimento o di una mancata segnalazione circa una situazione di
rischio da parte del RSPP, che abbia agito con imperizia, imprudenza o inosservanza
di leggi e discipline, quest’ultimo sarà chiamato a rispondere dell’evento dannoso
derivatone, essendo a lui ascrivibile a titolo di colpa professionale.
In certi casi, qualora tale colpa professionale sia tale da non poter essere riconosciuta
dal datore di lavoro (ad es. il RSPP consiglia una di adottare una misura che sembra
sufficiente ad eliminare il rischio, ma che poi non si rivela tale), la colpa del RSPP
addirittura può assumere un carattere esclusivo dovendosi presumere, nel sistema
elaborato dal legislatore, che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da
parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta
situazione (cfr. Cass. Pen Sez. IV 20.08.2010 n. 32195; Vass. Pen Sez. IV 27.09.2012
n. 37334.; Cass. Pen. Sez. IV 15.01.2010 n. 1834).
La designazione del RSPP da parte del datore di lavoro, pertanto, anche se obbligatoria,
non equivale ad una delega di funzioni.
Il ruolo del RSPP rimane comunque un “ruolo tecnico di staff, di natura consultiva e
propositiva” e la sua individuazione non è assolutamente idonea ai fini dell’esenzione
del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa
antinfortunistica.
Unica eccezione è il caso in cui un soggetto che rivesta la qualifica di RSPP riceva
anche la delega di alcune funzioni: in questo caso diventando l’alter ego del datore di
lavoro, il RSPP viene ad assumerne, rispetto a quelle stesse funzioni, gli stessi oneri e
le stesse responsabilità.
Due elementi, in ogni caso, devono essere presenti e sono sempre essenziali per
affermare la responsabilità del RSPP:
Questi due articoli parlano di “eventi” che si ha l’obbligo di prevenire e che, per
negligenza, imprudenza o imperizia nell’esecuzione dell’obbligo, invece, si verificano.
Ma che cosa sono questi “eventi”?
In una parola, nel caso che ci occupa, sono gli infortuni sul lavoro che, a seconda della
gravità, possono consistere in lesioni più o meno gravi (dalla semplice contusione o
graffio, sino all’amputazione di arti, paralisi ecc.) oppure degenerare in eventi mortali.
Questi “eventi” vengono generalmente imputati al datore di lavoro (e, nei limiti che
vedremo al RSPP) a titolo “colposo” in quanto si verificano a causa di una negligenza
o, più in generale, di una inosservanza di norme o regolamenti, senza che vi sia, da
parte del datore di lavoro, la coscienza e volontà di cagionare lesioni ad alcuno, ovvero
di cagionare la morte di alcuno.
Purtuttavia vi potrebbero essere casi più gravi in cui la condotta del datore di lavoro e
del RSPP viene posta in essere con la consapevolezza e l’accettazione del rischio che
si verifichino eventi molto gravi per la salute dei lavoratori: è il caso della cd. “colpa
cosciente” che si verifica nel momento in cui un soggetto è a conoscenza di un
determinato rischio, ma non fa nulla per prevenirlo nella speranza che “non accada
nulla” o che, comunque, il verificarsi di quel rischio sia “gestibile” con i mezzi in
dotazione.
In tali casi la “colpa” risulta aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 3 C.P. che disciplina il
caso in cui un determinato soggetto decida di agire (o di non agire) pur avendo previsto
la possibilità che un determinato evento si verifichi in conseguenza della sua azione o
omissione. In tal caso, al verificarsi dell’evento, le pene per il soggetto che, pur
prevedendo il rischio non si è attivato, sperando che non capitasse nulla vengono
aggravate sino ad 1/3.
I reati che possono configurarsi in capo al RSPP sono pertanto quelli che derivano dal
verificarsi di un infortunio sul lavoro e precisamente :
Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei
mesi a cinque anni.
Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione
stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della
reclusione da due a sette anni.
Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con
violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da:
1. soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’art. 186 comma 2 lettera c),
del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285 e successive modificazioni;
2. soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di
una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle
violazioni commesse aumentata sino al triplo, ma la pena non può superare gli anni
quindici.
Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione
fino a tre mesi o con la multa fino ad € 309.
Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da €
123 ad € 619, se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da
€ 309 a € 1239.
Se i fatti di cui al secondo comma sono commessi con violazione delle norme sulla
disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro la pena per le lesioni gravi è della reclusione da 3 mesi a un anno o della
multa da € 500 a € 2000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno
a tre anni. Nei casi di violazione delle norme sulla circolazione stradale, se il fatto è
commesso in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’art. 186 comma 2 lettera c), del
decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, e successive modificazioni, ovvero da
soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pena per le lesioni gravi
è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per le lesioni gravissime è della
reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la
più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena non può
superare gli anni cinque.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo i casi previsti nel primo e
secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano
determinato una malattia professionale.
Con riferimento al “grado” delle lesioni si considerano:
gravi: sono tali le lesioni che comportano una malattia che mette in pericolo
la vita, o una malattia o una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni
per un tempo superiore ai quaranta giorni. Sono altresì gravi le lesioni che
determinano l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.
gravissime: sono tali le lesioni che comportano una malattia certamente o
probabilmente insanabile o la perdita di un senso, o la perdita di un arto, o
una mutilazione che renda l’arto inservibile o la perdita dell’uso di un organo
o della capacità di procreare, ovvero la permanente grave difficoltà della
favella; o ancora la deformazione o sfregio permanente del viso.
Omicidio e lesioni colpose sono ovviamente i reati che, nella maggior parte dei casi,
possono essere configurati in capo al RSPP. Tuttavia è bene ricordare che non sono i
soli, per quanto nella maggior parte dei casi siano i più gravi.
E’ infatti opportuno ricordare che il RSPP molto spesso opera quale consulenti di
attività che di per sé possono considerarsi in un certo modo “pericolose”: si pensi alle
aziende della distribuzione di gas o carburanti, alle aziende chimiche che trattano
sostanze infiammabili, esplosive o tossiche; alle acciaierie, alle centrali
termoelettriche, ai porti. Ma, per restare più a contatto con la realtà quotidiana, le stesse
imprese edili, le imprese addette al movimento terra e le imprese di trasporti si trovano
spesso di fronte a situazioni in cui, in difetto di adozione di opportune precauzioni,
possono generarsi seri rischi per la salute o l’incolumità dei lavoratori o dei terzi. I casi
sono purtroppo frequenti: lo scoppio di un incendio che non si riesce a controllare, il
franamento di un fronte di scavo, lo sversamento accidentale di sostanze tossiche ecc.
Tutte queste ipotesi determinano in genere delle responsabilità penali che – di norma –
restano confinate alla figura del datore di lavoro o, in qualche caso, del direttore dei
lavori, del progettista o del collaudatore.
Si pensi ad esempio ad un incendio che si sviluppa in una fabbrica in cui il RSPP non
ha adeguatamente valutato il rischio “incendio” nelle fasi di produzione e/o non ha
adottato adeguate contromisure per prevenirlo. In tale caso è evidente che, se vi sono
morti o feriti, il RSPP risponderà per omicidio o lesioni colpose: ma, oltre a questi
reati, potrebbe vedersi imputato anche per reati (colposi) contro la pubblica incolumità
(art. 449 c.p.) quali incendio colposo (art. 423-449 c.p.) o, a seconda dei casi, frana,
inondazione, valanga, disastro ferroviario o altro disastro colposo.
Un caso emblematico in questo senso è costituito dalla sentenza della Corte d’Assise
di Torino Sez. II del 14.11.2011 (il famoso caso dell’incendio alla ThyessenKrupp di
Torino) in cui il RSPP è stato condannato in primo grado alla pena di 13 anni e 6 mesi
di reclusione per omicidio colposo plurimo aggravato, nonché per incendio colposo,
poiché con il suo comportamento negligente aveva colposamente accettato il rischio
che si verificasse un incendio nella famigerata “Linea 5” mettendo così in pericolo un
numero indeterminato di persone.
La stessa sentenza si segnala anche per la condanna del RSPP per violazione dell’art.
437 c.p. perché il RSPP, in concorso con altri soggetti (la proprietà, il dirigente suo
superiore, i vertici aziendali di Torino e di Terni ecc.) avrebbe omesso dolosamente di
dotare l’area di ingresso della Linea 5 di un sistema di spegnimento incendi automatico.
Nella motivazione della sentenza in realtà non si comprende bene se la condanna del
RSPP derivi dal fatto che rivestiva tale qualifica o piuttosto dal fatto che lo stesso
soggetto indicato come RSPP era anche “dirigente di fatto” in quanto responsabile
dell’area Ecologia Ambiente e Sicurezza (sembrerebbe invero più per questa ultima
ragione…).
Una tale interpretazione pare invero un po’ troppo “forzata”: ritenere una responsabilità
per dolo di un soggetto che ha unicamente una funzione di consulenza e assistenza del
datore di lavoro presuppone infatti che il RSPP preveda un rischio, sia cosciente
dell’elevata probabilità che si verifichi un evento e, nonostante ciò, serbi il silenzio,
omettendo volontariamente di indicare quelle azioni correttive o quegli interventi
necessari se non ad eliminarlo, almeno a ridurlo. L’ipotesi pare più teorica che pratica.
Diverso è invece il discorso sulla versione “colposa” dello stesso reato, prevista
dall’art. 451 c.p.: in questo caso ben potrebbe ipotizzarsi che un RSPP poco scrupoloso
sia chiamato a rispondere per la propria negligenza o per la propria imperizia
nell’individuare situazioni di pericolo in azienda. Il reato, sia chiaro, incombe in primis
sul datore di lavoro o sui soggetti a cui egli delega, nei casi previsti dalla legge, le
proprie responsabilità, ma nondimeno potrebbe essere contestato anche ad un RSPP
particolarmente negligente, atteso che i soggetto attivo del reato può essere “chiunque”.
In conclusione.
Un RSPP che omette un’adeguata analisi dei rischi, omette di adottare opportune azioni
correttive nei confronti dei rischi individuati, ossia, in definitiva, omette di impedire
che il lavoro sia svolto in luoghi inidonei dal punto di vista delle norme sulla sicurezza,
risponde sempre penalmente dei reati che si verifichino a causa delle sue
mancanze o che, in ogni caso, trovino una con-causa nelle sue mancanze.
La responsabilità penale non esaurisce l’ambito delle responsabilità del RSPP il quale,
con l’assunzione dell’incarico, assume anche degli obblighi nei confronti del datore di
lavoro, specie se si tratta di RSPP esterno all’azienda o comunque di RSPP interno che,
per tale ruolo, riceve una specifica retribuzione.
Se dunque dalla sua consulenza derivano danni a qualcuno, il RSPP li deve risarcire.
La responsabilità civile del RSPP può dunque classificarsi in due grandi famiglie: la
responsabilità extracontrattuale (o “da fatto illecito” o “aquiliana”) e la responsabilità
contrattuale.
Responsabilità extracontrattuale.
La responsabilità extracontrattuale del RSPP trova fondamento in una delle norme più
importanti dell’intero ordinamento giuridico che è contenuta nell’art. 2043 del Codice
Civile: “Qualunque fatto, doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto,
obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Si tratta insomma di una responsabilità che si rivolge a 360° a tutti i soggetti che, a
causa della negligenza del RSPP possano lamentare dei danni, sia di natura
patrimoniale (perdite nel patrimonio, mancato guadagno ecc.) sia di natura non
partrimoniale (danni qualificati come morali, alla salute, biologici, esistenziali, alla vita
di relazione ecc.)
Non si limita infatti al risarcimento del danno direttamente subito dal soggetto
infortunato, ma può estendersi anche (senza pretesa di esaustività):
Responsabilità contrattuale.
L’affidamento da parte del datore di lavoro e l’accettazione da parte di un soggetto,
dell’incarico di RSPP, si configura in genere come un contratto a prestazioni
corrispettive in cui il nominato RSPP assume l’obbligo di svolgere i compiti propri a
tale figura, a fronte di un compenso da parte del datore di lavoro.
Il RSPP, in quanto soggetto qualificato in virtù dei corsi che ha frequentato e della
formazione che ha ricevuto, è tenuto pertanto ad assolvere alle obbligazioni contrattuali
legate al suo ruolo con la diligenza del buon professionista.
Ne consegue che, laddove il RSPP non svolga con la dovuta diligenza l’incarico che
gli viene affidato, il datore di lavoro che subisca un danno può contestare
l’inadempimento contrattuale e, eventualmente, protestare i danni che abbia subito.
In caso di responsabilità contrattuale opera solo fra i soggetti che sono parti del
contratto (datore e RSPP) e il risarcimento trova una limitazione a quei danni
essenzialmente patrimoniali che sono conseguenza prevedibile dell’inadempimento
contrattuale, con la tendenziale esclusione di danni di natura non patrimoniale.
In questo caso, il datore di lavoro che avesse subito un danno avrebbe unicamente
l’onere di dimostrare che si è verificato un danno e che lo stesso deriva da una difettosa
consulenza del RSPP: incomberebbe invece su quest’ultimo dimostrare di aver
adeguatamente prestato la propria attività di consulenza, ossia di aver correttamente
adempiuto agli obblighi imposti dalla legge al suo ruolo.
Resta inteso, infine, che i due tipi di responsabilità potrebbero anche coesistere fra loro.
il caso: vengono tratti a giudizio il RSPP e il direttore del servizio manutenzioni di una
ASL della Regione Sardegna, in relazione alle lesioni subite da un paziente ricoverato
in una struttura ospedaliera e sottoposto a terapia mediante un apparecchio
elettromedicale che, a causa di una sovratensione dell’impianto, aveva subito una
scossa elettrica che lo aveva fatto cadere dal letto, perdendo i sensi e riportando lesioni
(ferite lacero contuse dovute alla caduta). Il RSPP aveva segnalato che l’impianto
elettrico non era a norma, ma, pur se a conoscenza delle problematiche di
sovratensione, non aveva suggerito azioni correttive immediate (sarebbe bastato che
gli apparecchi elettromedicali fossero collegati ad un banale gruppo di continuità),
atteso che l’ASL era in attesa, da tempo, di un finanziamento per la messa a norma di
tutto l’impianto.
è interessante perché: affronta il tema della responsabilità del RSPP e del contenuto
della prestazione di “consulenza” che lo stesso è tenuto a fornire; affronta il tema dei
“soggetti” che possono essere offesi dal reato di lesioni imputato all’RSPP (solo i
“lavoratori” o anche i “terzi”?); affronta il tema della responsabilità del RSPP in
relazione alla responsabilità del datore di lavoro.
cosa ha stabilito la Corte: “la mancata previsione del rischio e dei mezzi per
contenerlo è stata individuata come causa incidente sulla mancata adozione di
adeguati presidi oggettivi, di adeguata informazione e in definitiva come causa
efficiente nella determinazione dell’evento reato (in proposito Cass. Pen. Sez. 4A
26/10/2007 n. 39567). E’ pur vero, come rileva la Corte distrettuale, che fu proprio il
M. (cioè l’RSPP – N.d.R.) a sollevare la questione della presenza delle buche e di
adottare idonei accorgimenti per evitare il pericolo di caduta, ma è altrettanto vero
che, una volta effettuata la copertura delle stesse con le lamiere metalliche, non se ne
poteva più non interessare, nè poteva omettere di verificare l’adeguatezza (come
dimostrata dall’infortunio in concreto verificatosi) del rimedio da altri adottato.
Continua la Corte che, a maggior ragione, nel caso di specie, era doveroso per il M.
attivarsi per la mancanza di una segnalazione volta a rappresentare una situazione di
pericolo per i lavoratori. Per quanto riguarda le posizioni del MA. e del P., l’uno
capocantiere della Impregilo s.p.a., committente, e l’altro capocantiere della EDIMO
METALLI, appaltatrice dei lavori di carpenteria metallica, i giudici del merito ne
hanno ritenuto la responsabilità, come contestata, richiamando la giurisprudenza di
questa Corte, secondo cui alla figura del capocantiere, prevista dall’ordinamento
giuridico a tutela dell’incolumità dei lavoratori, è demandato il ruolo di vegliare
sull’esatta applicazione delle norme previste dai rispettivi ordinamenti interni e di
essere presente alla esecuzione dei lavori, affinchè gli stessi vengano eseguiti in
conformità dell’organizzazione dei lavori stessi e con il rispetto di tutte le norme che
la prevenzione degli infortuni e di quelle suggerite dalla comune prudenza. Motivano
il convincimento di colpevolezza sulla considerazione che, essendo il MA. ed il P. a
conoscenza della situazione di pericolo de qua, proprio in ragione del ruolo di
capocantiere da ciascuno di essi ricoperto, non potevano rimanere inerti di fronte ad
una situazione di pericolo, ma dovevano attivarsi per segnalarla sia agli operai, sia al
responsabile della sicurezza. E’ bene precisare che se la legislazione antinfortunistica
ha voluto estendere alle varie figure presenti sul luogo di lavoro (preposti,
responsabile della sicurezza, coordinatore della sicurezza, etcc) quelli che sono gli
obblighi del datore di lavoro per una maggiore e più puntuale tutela del lavoratore dai
rischi derivanti dall’attività lavorativa cui è adibito, va però affermato che un
personalizzato, equo giudizio d’imputazione può essere fondato solo sulla precisa
delineazione delle numerose posizioni di garanzia individuate dal sistema della
sicurezza del lavoro. Tale opera definitoria costituisce lo strumento per evitare la
proliferazione delle imputazioni, che in qualche caso finisce con l’obliterare non
trascurabili differenze di ruoli e di sfere di responsabilità. Ordunque, il richiamo in
sentenza alla giurisprudenza di questa Corte (Sezione 4A sentenza n. 15557
dell’1.10.1990, De Niro, Rv. 185854), ancorchè afferente al caso di specie, appare
alquanto generalizzato non tenendosi conto di alcune considerazioni riferibili al caso
concreto e che cioè il capocantiere è pur sempre un esecutore di ordini, ed anche se
su di lui incombe l’obbligo di segnalazione di una situazione di pericolo, una volta
espletato tale compito non può certo sindacare la scelta antinfortunistica di colui che
ha precipua competenza in materia, quale il preposto al servizio di prevenzione e
sicurezza. Nel caso di specie è provato che sia il MA. che il P. erano a conoscenza che
la scelta del sistema di copertura delle buche era stato attuato su indicazione del
responsabile della sicurezza, M., non si poteva certo chiedere agli stessi un loro parere
sulla adeguatezza di esso; in sostanza non era esigibile da parte dei due imputati una
condotta che andasse al di là di quelli che erano i compiti ad essi demandati. Si trattava
di opinare da parte loro se la copertura, con lamiere pesanti metalliche, rispondeva
alle caratteristiche richieste dalla legge (D.P.R. n. 346 del 1955, art. 10);
diversamente, se la copertura fosse stata palesemente inidonea o apposta malamente,
in quel caso, in ragione dell’obbligo di sorveglianza cui si è fatto riferimento sulla
esecuzione dei lavori conformi all’organizzazione dei lavori stessi e con il rispetto di
tutte le norme per la prevenzione degli infortuni e di quelle suggerite dalla comune
esperienza, sarebbero dovuti intervenire per segnalare la nuova situazione di pericolo
o provvedervi essi stessi mediante l’adozione di presidi urgenti (ad es. recinzione
dell’area).