Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
55-82
Eleonora Caramelli
1
Per un approfondimento della questione si rimanda a W. Marx, Absolute Reflexion
und Sprache, Vittorio Klostermann, Stuttgart 1967, a J.P. Surber, Hegel’s Speculative Sen-
tence, in «Hegel-Studien», Bd. 10, 1975, pp. 211-230 e a G. Wohlfahrt, Der speculative
Satz, de Gruyter, Berlin-New York 1981. Sulla medesima questione, in lingua italiana, si
rimanda a G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, Aracne, Roma 2005, pp. 62-72.
2
Per quanto concerne la letteratura sul linguaggio in Hegel si rimanda in primo
luogo alla studio esaustivo, che prende in considerazione tutto l’arco delle riflessioni
che Hegel dedica al linguaggio, da Jena a Berlino, di Th. Bodammer, Hegels Deutung
der Sprache, Meiner, Hamburg 1969; sempre in prospettiva generale anche D. Cook,
Language in the philosophy of Hegel, Mouton, L’Aia 1973. A partire dal linguaggio nella
Fenomenologia, per mettere capo ad una interpretazione del cruciale ruolo e senso
del linguaggio nella filosofia hegeliana, si veda J. Simon, Das Problem der Sprache bei
Hegel, Kohlhammer, Stuttgart 1967 e Id., Sprachphilosophosche Aspekte der neueren
Philosophigeschichte, in Aspekte und Probleme der Sprachphilosophie, hrsg. von J. Simon,
Alberg, Freiburgh/München 1974, pp. 31-48. Si veda poi anche il contributo di K.
http://www.fupress.com/adf
ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online)
© 2011 Firenze University Press
56 Eleonora Caramelli
Löwith, Hegel und die Sprache, «Neue Rundschau», 76, 1965, pp. 278-298; nonché uno
tra i più recenti contributi dedicati al tema, Hegel and Language, a cura di J.-P. Surber,
State University of New York Press, Albany 2006. Per una supervisione bibliografica
più esaustiva si rimanda a A. Ferrarin, Hegel e il linguaggio. Per una bibliografia sul
tema, «Teoria», 7, 1987, pp. 139-159; e – per una panoramica più recente – al primo
capitolo di M. Campogiani, Hegel e il linguaggio, La città del sole, Napoli 2001.
3
L’edizione critica di riferimento delle opere di Hegel è quella dei Gesammelte
Werke, a cura della Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften e della Deutsche
Forschungsgemeinschaft, Meiner, Hamburg 1968- (d’ora in poi GW). Per la Fenome-
nologia si veda dunque il t. IX, Phänomenologie des Geistes, a cura di W. Bonsiepen e
R. Heede, Meiner, Hamburg 1980, p. 64; per il riferimento in lingua italiana si veda la
Fenomenologia dello spirito, trad. it. e cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 71
(d’ora in poi FS). Le altre opere hegeliane sono citate con le seguenti abbreviazioni: ESF =
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, in tre tomi a cura di V. Verra e A. Bosi,
UTET, Torino 1981-; SL = Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, revisione di C. Cesa
(1968), Laterza, Roma-Bari 2008. Ästh. = Ästhetik, a cura di F. Bassenge, Aufbau, Berlin
1955; Est. = Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro (1963), Einaudi, Torino 1997.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 57
4
GW IX, p. 65; FS, p. 72
5
Ibid.
6
GW XX, §462, p. 460; ESF, p. 329.
7
Per una esposizione più puntuale dell’intero passaggio si rimanda al capitolo
relativo di Bodammer, Hegels Deutung der Sprache, cit. Per una problematizzazione
58 Eleonora Caramelli
sensibile in quanto parola parlata, cioè segno acustico dallo statuto pecu-
liare. La parola parlata è infatti quell’esistenza che, andando a dissolversi
nel proprio vibrare sempre più flebile, funziona come segno anche sotto
il rispetto per cui segno non è: il flatus vocis, come il segno, funziona
scomparendo. Nel secondo senso, però, per quanto la sensibilità dilegui
nella perdurante universalità del significato, il nome rimane pur sempre
una rappresentazione: «il nome è la Cosa [Sache], quale essa è presente
[wie sie vorhanden ist], e ha vigore, nel regno della rappresentazione»8.
L’elemento rappresentativo che affetta il nome è il suo essere, in quanto
significato, una unità di riferimento astratta e isolata dalle altre. L’ordine
della rappresentazione, in tal senso, risente delle «forme nelle quali l’in-
telligenza è intuitiva»9, la dimensione dello spazio e del tempo in cui le
cose sono le une accanto alle altre – dove c’è una cosa non può essercene
un’altra – e le cose avvengono le une dopo le altre – ogni momento ‘t’
esclude gli altri; il Nebeneinander e il Nacheinander sono le dimensioni
che legano le rappresentazioni tra di loro, cioè propriamente l’impensato
del pensare rappresentativo medesimo. La verità dei nomi sarà allora
nell’insieme del linguaggio, cioè nella loro connessione. Quel che rimane
da levare è allora il collegamento tra il nome e il proprio significato, cosa
che avviene in virtù del Gedächtnis, quando la memoria è solo memoria;
nell’auswendig Lernen, «lo spazio universale dei nomi in quanto tali, cioè
delle parole prive di senso»10, il singolo nome è scardinato nel momento
stesso in cui il suo concatenamento con gli altri non dipende più dal suo
significato. Paradossalmente, l’operazione meccanica che tiene saldo il
fluire delle parole è al contempo la quintessenza del pensiero, ed il pen-
siero è ciò che tiene uniti i nomi. Il passaggio intrinseco dalla memoria
meccanica al pensare è il momento in cui si estingue il rimando ogni volta
singolo ad un significato determinato. In questo secondo senso, allora, è
quasi malgré lui che lo spazio delle parole prive di senso, suoni e nient’altro
che suoni, promuove il pensare: il sensibile al suo secondo grado, come
se bruciasse di autocombustione, è diventato etereo. Il collegamento tra
i nomi ha assunto adesso la forma del pensiero, è il pensiero, che non ha
più un significato nella misura in cui è il significato. Con la separazione
tra nome e significato viene superato l’ultimo residuo rappresentativo
11
Cfr. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, cit., p. 22, in cui il linguaggio
è ciò che «die dialektische Bewegung der “Phänomenologie” in Gang bringt» (ibid.).
12
GW IX, p. 68; FS, p. 76.
13
Ivi, p. 276; FS, p. 337.
60 Eleonora Caramelli
primo luogo, nel momento in cui viene enunciato, l’Io particolare come
questo io determinato scompare e ciò che si manifesta è la sua univer-
salità, che dell’Io è la vera natura e dunque ciò in cui l’Io permane. Ma,
in secondo luogo, la forza di questa permanenza affonda nell’elemento
sensibile in cui il linguaggio si esprime: la voce come suono. Nel momento
in cui è enunciato, infatti, l’Io viene vernommen, viene cioè percepito
in un modo che è al contempo spirituale. Quando la voce smette di
risuonare, l’esistenza ottenuta dall’io nell’elemento del suono verhallt,
dilegua, ed è proprio questa la peculiarità dell’esistenza dell’Io: l’Io esiste
mentre dilegua e il modo in cui l’Io esiste è questo dileguare. Il significato
peculiare del linguaggio è dunque legato allo statuto del suo momento
sensibile. Questo è tuttavia solo un aspetto di ciò per cui il linguaggio
compare qui nel suo significato peculiare. Per trovare l’altro aspetto più
recondito è necessario fare attenzione alle precise parole scelte da Hegel
in questa occorrenza: la singolarità per sé essente «tritt in die Existenz»14
nel linguaggio, che è però «das Daseyn des reinen Selbst als Selbst»15.
Il linguaggio è dunque una volta Existenz, un’altra volta è Daseyn, così
che si può pensare sia proprio questa duplicità a costituire qui il suo
significato peculiare. Per capire la differenza di significato che sussiste
tra i due termini sia lecito mutuare strumentalmente dal senso che essi
verranno ad assumere nella Scienza della logica. Il Daseyn è un termine
che ricorre nella logica dell’essere, mentre l’Existenz compare nella logica
dell’essenza e a questo livello ne è il correlato: l’Existenz è infatti una
determinazione della riflessione. L’Existenz è l’esistenza trasparente, in
cui il fondamento come essenza viene tutto in luce facendosi apparenza
(il Grund che al contempo si fa Abgrund).
L’esistenza [Existenz] non è qui da prendersi quasi un predicato o quasi
una determinazione dell’essenza, in modo da poter dire con una proposizione:
l’essenza esiste, ossia ha esistenza; – ma l’essenza è passata nell’esistenza; questa
è la sua assoluta estrinsecazione, al di là della quale l’essenza non è rimasta16.
14
GW IX, p. 276; FS, p. 337.
15
Ibid.
16
GW XI, p. 326; SL, p. 541.
17
Ivi, p. 59; SL, p. 100.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 61
proprio in ciò per cui quel qualcosa è un qualcosa, ed in tal senso è una
sorta di unità monadica: differentemente dalle categorie dell’essenza, che
sono relazione, le categorie dell’essere non sono che in relazione. Se il
linguaggio è per un verso solo il Daseyn di quel che in esso si esprime, ciò
significa che c’è una misura in cui il linguaggio non esprime l’exprimendum,
e questa misura corrisponde a quella per cui il linguaggio è linguaggio come
il qualcosa è qualcosa: questa è la misura in cui il linguaggio è in maniera
positiva, ha una trama e una tessitura, una sua peculiare figura. A differenza
dell’ascesi enciclopedica, in cui il carattere dileguante della parola parlata,
catalizzatore del movimento del pensare e dell’intelaiatura concettuale18,
finirà per eclissare nella sua trasparenza la coloritura propria della parola
in quanto tale, nella Fenomenologia il margine rappresentativo-figurativo
del linguaggio gioca un ruolo e incarna l’un volto della sua duplicità co-
stitutiva. Non sarà un caso se, proprio nel luogo del sesto capitolo in cui
il linguaggio emerge nel suo significato peculiare, cioè la sua duplicità,
Hegel dice che «lo spirito ottiene qui realtà effettiva»19. E non sarà ugual-
mente un caso se, ritornando alla conclusione della sezione sulla certezza
sensibile da cui eravamo partiti, il potere del linguaggio di invertire l’indi-
cibile Meynung viene definito come la sua «natura divina»20. Proprio quel
margine rappresentativo-figurativo, e quella duplicità, assolveranno un
ruolo fondamentale nella sezione sulla religione: il linguaggio, del divino,
è propriamente la figura. L’irrompere del linguaggio definisce dunque un
campo d’esperienza, che si dipana tra quei suoi due versanti che attengono
l’uno all’ordine della rappresentazione e l’altro all’ordine del concetto.
Non da ultimo, poiché nel linguaggio si manifesta l’essenza medesima, si
può concludere che tra quei due versanti, che sono il momento estetico e
quello speculativo, vive e oscilla anche la vita dello spirito.
18
Sul rapporto tra rappresentazione e concetto si vedano, su prospettive tra loro
molto diverse, A. Nuzzo, ‘Begriff’ und ‘Vorstellung’, «Hegel-Studien», Bd. 25, 1990 e,
di particolare rilievo per quanto concerne il rapporto tra religione e rappresentazione,
P. Ricoeur, Le statut de la Vorstellung dans la philosophie hégélienne de la religion, in
Qu’est-ce que Dieu?, a cura di Y. Bonnefoy, Publications des facultés universitaires Saint-
Louis, Bruxelles 1985, pp. 185-206. Sempre con particolare attenzione alla religione, ma
a partire dal problema del linguaggio, si veda anche M. Clark, Meaning and language in
Hegel’s philosophy, «Revue philosophique de Louvain», 58, 1960, pp. 557-578.
19
GW IX, p. 276; FS, p. 337.
20
Ivi, p. 70; FS, p. 79.
62 Eleonora Caramelli
21
GW IX, p. 365; FS, p. 447.
22
Ivi, p. 366; FS, p. 447.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 63
23
Ibid.; FS p. 447
24
Ivi, p. 369; FS, p. 452.
25
Ivi, p. 370; FS, 454
26
Ibid.
27
Gli interpreti collegano generalmente il culto dell’essenza luminosa di cui qui
tratta Hegel alla religione persiana di Zoroastro; il riferimento alla luce, altresì, sembra
richiamare, il che non sarebbe privo di significato, anche la religione di Israele. Se la
prova ex post può avere in tale contesto una qualche cogenza, è proprio tramite il rife-
rimento al luminoso che, nelle più tarde lezioni di filosofia della religione, Hegel pensa
il divino di Israele: «la luce è la tua veste, che tu indossi» recita rivolgendosi al Signore
il salmo 104 da Hegel richiamato (cfr. Id., Lezioni di filosofia della religione II, trad. it.
e c. di R. Garaventa e S. Achella, Guida, Napoli 2009, pp. 60 sgg.). Tra gli interpreti,
propendono decisamente per questa ipotesi W. Jaeschke (cfr. Id., Die Vernunft in der
Religion, Frommann-holzboog, Stuttgart, pp. 212-214) e H.S. Harris (cfr. Id., Hegel’s
Phenomenology of Religion, in Thought and Faith in the Philosophy of Hegel, a cura di
J. Walker, Kluwer, Dordrecht 1991, pp. 88-95); in lingua italiana l’ipotesi è presa in
considerazione anche da M. Pagano, Hegel. La religione e l’ermeneutica del concetto,
Esi, Napoli 1992 (pp. 120-121).
64 Eleonora Caramelli
28
GW IX, p. 371; FS, p. 455.
29
Ivi, p. 372; FS, p. 455.
30
Si veda per questo il classico saggio di E. Auebarch, Figura, in Id., Studi su
Dante (1964), trad. it. di M.L. De Piri Bonino, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 176-240.
Non è possibile sviluppare qui la possibile utilità del concetto cristiano di figura per la
comprensione dello statuto e del ruolo della Gestalt religiosa nella Fenomenologia, ma
valga la pena notare che non solo la Gestalt è tendenzialmente figura nel senso che a
tale termine attribuiva la classicità latina, materia disegnata, compenetrazione di forma
e contenuto, nonché fictura come copia sensibile necessariamente fallace, ma anche nel
terzo senso storico-religioso, dove la figura è ciò che suscita e prefigura l’incarnazione,
trovando in essa il proprio compimento.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 65
dato vita: come veniva detto nella sezione sulla frenologia «l’individualità
che si affida agli elementi oggettivi, diventando opera, si espone ad essere
alterata»31. Nel rapporto che l’agente intrattiene con la propria opera si
dà quindi un momento negativo che l’opera in quanto cosa positiva non è
in grado di incarnare in sé e restituire. Il punto allora è che, come risulta
dalla sezione dedicata a autonomia e non autonomia della coscienza, «il
rapporto negativo verso l’oggetto» deve diventare «forma dell’oggetto
stesso»32. Nel momento in cui il rapporto negativo verso l’oggetto si fa
forma dell’oggetto medesimo questo restituirà il momento negativo del
fare coscienziale così come il momento negativo del divino, diventandone
figura adeguata.
Il primo lavoratore spirituale, però, è un Werkmeister che lavora in
maniera istintiva. L’artefice prende in prestito e approfitta delle forme
geometriche naturali per conferire loro una intelligibilità rarefatta e
astratta, ma una forma del genere «non è in se stessa il proprio significa-
to, non è il Sé spirituale»33. Anche quando piega e forza il naturale allo
spirituale, mescolando le forme vegetali a quelle umane, l’aspetto esterno
dell’opera, più che esprimere lo spirito, ne è una sorta di scorza, non ne
è che l’involucro, die Hülle: l’aspetto artificiale, künstlich, è ancora em-
brionale e perciò non ancora compiutamente künstlerisch. Dipendendo
ancora dell’elemento naturale esterno, il negativo dello spirito è presente
nella sua figura solo come mancanza duplice: è il rapporto negativo tra
l’in-sé lavorato e il per-sé del lavoratore spirituale, che nell’opera non
può riconoscersi, e il rapporto negativo tra la forma dell’opera e il suo
significato, che al momento la trascende.
All’opera mancano ancora la figura e l’esistenza determinata in cui il Sé
esiste in quanto Sé; a mancarle è ancora questo: l’intrinseca capacità di enun-
ciare [aussprechen] il proprio racchiudere un significato interiore; le manca il
linguaggio, l’elemento in cui è presente il senso stesso che la riempie34.
31
GW IX, 179; FS, p. 218. È da rilevarsi, tuttavia, che solo dopo il periodo jenese,
a partire dall’Enciclopedia di Norimberga del 1808, quando il movente storico-filosofico
degli anni precedenti viene soppiantato da quello sistematico che preannuncia già le
tre versioni del compendio enciclopedico, la finitudine diventerà il limite costituivo e
insopprimibile dell’opera, una sorta di sua malattia originaria (cfr., ivi, §§203-206 in
particolare); dal che, negli anni ’20 e ’30, a risultare problematica sarà la stessa colloca-
zione sistematica dell’arte: per quanto venga concepita come la prima forma in cui lo
spirito assoluto è oggetto a se stesso, dato il limite originario che è la sua finitudine, essa
non dovrebbe poter esprimere che lo spirito finito. Cfr., su questo, P. D’Angelo, Hegel
e l’estetica, in Hegel: guida storica e critica, a cura di P. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1992,
pp. 120-151, in particolare pp. 142-145.
32
GW IX, p. 115; FS p. 135.
33
Ivi, p. 373; FS, p. 457.
34
GW IX, p. 375; FS, p. 459.
66 Eleonora Caramelli
35
L’argomento è sostenuto da Wohlfahrt, Der speculative Satz, cit., pp. 109-110.
36
GW IX, p. 375; FS, p. 459.
37
Ivi, pp. 379-380; FS, p. 465.
38
Ivi, p. 379; FS, p. 464.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 67
Il cantore epico canta le sue storie per dissolversi in esse, la sua par-
ticolarità e la sua personalità non emergono mai nel racconto a filtrarne
giudizi e prospettive. A mediare tra la particolarità del narratore e il divino
di cui racconta il mondo c’è l’eroe, l’individualità universale, così che in
questo epos «si presenta [stellt sich dar] in generale alla coscienza […]
il rapportarsi del divino all’umano»42. Se prima l’artista, nella figura del
divino, provava ad oggettivare il proprio fare, adesso è il fare medesimo in
quanto rapporto tra umano e divino a diventare oggetto della rappresenta-
zione. L’agire dell’individualità eroica, infatti, è il risultato dell’interazione
tra il contributo umano e il contributo divino. Il problema dell’epica
è però proprio la rappresentazione dell’azione nella sua intersezione
puntuale tra il lato dell’individuale e il lato della potenza sostanziale che
anima l’atto. Se l’azione fosse il frutto esclusivo dell’individualità agente, le
deità si rivelerebbero entità superflue, ma se fosse animata esclusivamente
dalle potenze divine si rivelerebbe tremendamente inutile il doloroso
39
Ivi, p. 388; FS, p. 475
40
Ibid.
41
Ivi, p. 389; FS, p. 476
42
Ivi, p. 390; FS, p. 477
68 Eleonora Caramelli
43
Ivi, p. 391; FS, p. 479.
44
Ivi, p. 392; FS, p. 479.
45
Ivi, p. 377; FS, p. 462.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 69
46
Ivi, p. 392; FS, p. 479.
47
Ibid.
48
Ibid.
49
Ivi, p. 252; FS, p. 308.
50
Sull’unilateralità del pathos tragico, incarnato in particolar modo da Antigone, si
veda P. Vinci, L’Antigone di Hegel, in Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Don-
zelli, Roma 2001, pp. 31-46, in cui si rileva come il limite di Antigone sia quello di non
riuscire a passare dalla negazione dell’altro al suo riconoscimento, ciò per cui ella non
sa assumere su di sé la differenza in cui è incappata e che nondimeno le è propria, così
che il suo essere pathos incarna i limiti del Sé greco in generale. Sulla figura di Antigone
70 Eleonora Caramelli
nell’opera del 1807 si veda anche G. Severino, Antigone nella Fenomenologia di Hegel,
in «Giornale critico della filosofia italiana», 1971, pp. 83-100. Una prospettiva singolare
sulla riflessione che Hegel dedica ad Antigone è quella di H-C. Lucas, Zwischen Antigone
und Christiane. Die Rolle der Schwester in Hegels Biographie und Philosophie, «Hegel-
Jahrbuch», 1984/1985, pp. 409-442, mentre sull’interpretazione hegeliana dell’Antigone
cfr. anche M. Nussbaum, La fragilità del bene (1986), trad. it. di M. Scattola, Il Mulino,
Bologna 1996, pp. 157 sgg; sull’incorporamento della vicenda tragica nell’andamento
fenomenologico d’obbligo anche il rimando a G. Steiner, Le Antigoni (1984), trad. it. di
N. Marini, Garzanti, Milano 1990, pp. 35-42 in particolare.
51
Nell’Estetica Hegel dirà infatti che «le figure tragiche di Sofocle sono dotate di
vitalità, e possono essere comparate, nella loro plastica conchiusone, alle immagini della
scultura» (Ästh., p. 254; Est., p. 268).
52
GW IX, p. 392; FS, p. 480.
53
Ibid.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 71
vita divina»54. Cantando le lodi delle divinità come se ognuna fosse sola
e separata dalle altre, il coro, anziché ricomporre nel discorso la poten-
za manifestatrice del divino, lascia che quelle immagini scoloriscano e
«vadano disperdendosi [laufen auseinander]»55, allontanandosi sempre
di più le une dalle altre.
Il rapporto negativo reale è preparato e messo in scena a partire dalle
molteplici scissioni che la tragedia rappresenta. Si tratta qui della scissione
della sostanza secondo il contenuto – il diritto umano e il diritto divino – e
della scissione secondo la forma – il sapere e il non sapere. È su queste
scissioni che era imperniata la dialettica tragica della sostanza e dell’indi-
vidualità etica nella sezione ‘A) Lo spirito vero’ del capitolo sesto. Dacché
la sostanza etica si suddivideva in due masse, afferenti l’una all’ordine
dell’umano, l’altra all’ordine del divino – l’ordine del noto e l’ordine della
Verborgenheit -, la sostanza diventava «un’entità duplice [das Zwiefache]»56,
in cui il lato manifesto e visibile rendeva invisibile il lato sottostante ma ad
esso inscindibilmente legato: ogni lato conteneva dunque tutta l’eticità, ma,
di volta in volta, sempre con una parte interiore, un lato interno, come i
due volti di un medesimo corpo, l’uno rivolto all’esterno, l’altro all’interno.
Essendo gli individui etici il Gegenschein della sostanza, ogni individuo
rifletteva soltanto una faccia, e soltanto una faccia vedeva; nessun individuo
sapeva la loro inscindibile unità, ed è questo il margine di non sapere che
permea e struttura ogni coscienza etica in quanto tale. Sebbene il divino
fosse per essenza il reale in quanto nascosto e ignorato, anche coloro che
riflettono il lato luminoso di quel che è di pubblico dominio ignorano una
parte per struttura, e in questo modo ogni coscienza etica era insieme di
sapere e non sapere. Nella trattazione collocata nel capitolo settimo Hegel
ci dice che il linguaggio tragico rappresenta anche la scissione del sapere,
poiché al sapere e al non sapere conferisce un rispettivo volto e una fisio-
nomia: «l’una individualità riceve la figura del dio che rivela; l’altra quella
dell’Erinni che si mantiene nascosta»57. In realtà tra i due termini se ne dà
un terzo, la terza divinità che è Zeus, «la necessità del rapporto reciproco
tra i due lati»58, ma su questo torneremo più avanti. Ora, così esposte tutte
le dicotomie in gioco, la tragedia mette in scena quel che all’epica non
riusciva di raccontare, cioè l’azione nella sua verità e secondo il concetto.
L’azione tragica dischiude le antitesi, sia quella della sostanza in quanto
immediata, sia quella della coscienza tra sapere e non sapere.
54
Ibid.
55
Ibid.
56
Ivi, p. 241; FS, p. 291.
57
Ivi, p. 394; FS, p. 484.
58
Ibid.
72 Eleonora Caramelli
59
Ivi, p. 384; FS, p. 484.
60
Ivi, p. 255; FS, p. 312.
61
Sulla coappartenenza di azione e linguaggio cfr. anche Wohlfahrt, Der speculative
Satz, cit., p. 161 e sgg. Sulla struttura dell’agire per come in generale viene trattata nella
Fenomenologia, e non solo, si veda F. Menegoni, Soggetto e struttura dell’agire in Hegel,
Verifiche, Trento 1993.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 73
62
GW IX, p. 396; FS, p. 485.
63
Ivi, p. 393; FS, p. 480.
64
Nella contrapposizione tra le leggi, che sono come due livelli di esistenza di cui
la coscienza non sa l’intima unità, «dal punto di vista dell’agire, alla luce del giorno,
v’è soltanto un lato, quello della decisione in generale; ma quest’ultima, in sé, è quel
negativo che contrappone all’agire – che è il sapere – un’alterità che gli è estranea» (GW
IX, p. 255; FS, p. 255) – è questo il caso di Edipo, il quale non sa quello che fa. Tuttavia
«la coscienza etica è più completa, e la sua colpa è più pura, quando essa conosca già
74 Eleonora Caramelli
realizzata e insieme tolta dall’azione, che porta tutto allo scoperto: «il
movimento del fare dimostra la loro unità nel reciproco declinare di quelle
due potenze e dei caratteri consapevoli di sé»65. Alla fine del capitolo
sesto, chiudendo sull’esito della dialettica dell’etico condotta secondo
il filo dello sviluppo tragico, era l’edificio etico tutto a dovere andare a
fondo; per quanto i due lati, in virtù dell’agire, giacessero infine l’uno
accanto all’altro, essi non potevano più reggere: ogni lato ha infatti pari
diritto e pari torto. Quel che viene sottolineato nel capitolo settimo è
una ragione ancor più radicale di questo necessario crollo. Il linguaggio
tragico, infatti, non dispone di una figura, di un’istanza superiore di cui
le due potenze possano essere declinazione. «La riconciliazione dell’an-
titesi con se stessa è la Lete del mondo infero nella morte, oppure la Lete
del mondo superno»66. Entrambe le alternative consistono nell’oblio in
cui le individualità della sostanza dileguano, perché né l’una né l’altra,
per quanto siano entrambe venute in luce, assolvono l’essenza nella sua
pienezza. Tanto il mondo che attiene all’ordine del divino quanto quel-
lo che attiene all’ordine civile dell’umano si rivelano partizioni morte,
così come morte si mostrano le divinità che si sono guadagnate pari
rispettabilità in virtù del decorso tragico. La pari onorabilità – e Hegel
allude qui evidentemente alla conclusione delle Eumenidi – non è che
«l’indifferente mancanza di effettività attribuiti del pari ad Apollo e alle
Erinni»67. Il destino, altresì «onnipotente e giusto»68, è il «destino terribile
che inghiotte tutto nell’abisso della propria semplicità»69, non è che una
coltre nera che su tutto si stende senza nulla salvare. In un altro luogo,
nella dialettica del piacere, Hegel aggiungeva che il destino è «necessità
vuota ed estranea, realtà effettiva morta»70. A questo punto dobbiamo
ricordare che in realtà le figurazioni tragiche del divino, oltre ad Apollo
prima la legge a cui si viene a contrapporre; quando le scambi per violenza e per torto,
come un’accidentalità etica, e commetta il delitto scientemente, come fa Antigone» (ivi
p. 255; FS p. 255). Mediante l’atto, poi, «il compimento dello spirito visibile si tramuta
nel contrario», e la coscienza «sperimenta che il suo supremo diritto è il torto supremo,
e che la sua vittoria costituisce, piuttosto, il suo proprio declino» (ivi, p. 258; FS p. 315).
Sulla contrapposizione delle leggi e sulla dinamica tragica in generale si vedano, in lingua
italiana, C. Ferrini, Legge umana e legge divina nella sezione VI A della Fenomenologia
dello spirito, «Giornale di metafisica», 3, 1981, pp. 393-405, e G. Pinna, Pathos ed esisten-
za. La teoria della tragedia tra romanticismo e idealismo, «Giornale critico della filosofia
italiana», 1992, pp. 405-421.
65
GW IX, p. 396; FS, p. 485.
66
Ibid.
67
Ibid.
68
Ivi, p. 256; FS, p. 313.
69
Ivi, p. 251; FS, p. 307.
70
Ivi, p. 200; FS, p. 246.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 75
e alle Erinni, erano tre, la terza essendo Zeus in quanto mediazione tra le
altre due e loro istanza superiore. In chiusa di paragrafo, però, scopriamo
che il ritorno delle due potenze in conflitto nella semplicità di Zeus non
è che un ritorno «nell’unità immota del destino»71. Il destino, allora,
non è figura di alcunché, ed è il limite intrinseco del linguaggio tragico
in quanto figura del divino, il punto che in esso non può riflettersi e in
esso non può dirsi, il che deriva dallo statuto della tragedia in quanto
rappresentazione. Solo il concetto, infatti, tiene insieme le scissioni della
rappresentazione, mentre il destino, in quanto cortina che su tutto cala
e tutto unifica in questo buio e in questo oblio, è l’unità delle parti come
unità estranea. Questa estraneità è precisamente il margine di negatività,
l’ultimo, che la rappresentazione veicola come contraccolpo ma che non
riesce a esprimere, l’ultima riserva di negativo da cui l’opera dipende ma
che non può abbracciare. Questo margine ultimo, che la rappresenta-
zione non può rappresentare, è il margine di separatezza che costituisce
il portato rappresentativo medesimo72. Questa riserva di negativo è la
potenza senza volto del destino, in cui le figure che entrano in scena «non
si riconoscono, trovandovi pertanto il proprio declino»73. Se il destino non
ha volto, però, è perché un volto non ce lo può avere; essendo l’unifica-
zione di tutti i momenti cui il linguaggio tragico ha singolarmente dato
voce, solo dal punto di vista del concetto questi momenti possono essere
tenuti insieme, ed il concetto non ha più figura. Il destino è il limite che il
linguaggio tragico della rappresentazione porta in sé, un limite che gli è
dunque interno ed esterno: il concetto è il destino della rappresentazione
e, se nell’ultima tappa dell’opera d’arte spirituale la commedia supera la
tragedia, la commedia è il destino della tragedia.
71
Ivi, p. 386; FS, p. 485.
72
In tal senso, come sottolinea Garelli (Lo spirito in figura, cit., p. 205), «la carenza
spirituale della tragedia è quell’ulteriore integrazione con la vita reale che va al di là delle
passioni di paura e compassione suscitate nello spettatore, e che prelude di fatto alla stessa
autonegazione del portato rappresentativo proprio dell’arte». Sebbene il divino si sia
manifestato come attività spirituale grazie alla decisiva mediazione del linguaggio, con la
tragedia l’arte giunge al proprio limite nella capacità, nei confronti del divino, di dargli
figura: «l’integrazione che sembrava garantita dall’arte ha finito quasi per rinnegare se
stessa» (ivi, p. 216). Il processo di razionalizzazione della coscienza innescatosi conduce
a che lo spirito si produca nella soggettività consapevole di sé che il mondo etico non
consentiva ancora.
73
GW IX, p. 397; FS, p. 486.
76 Eleonora Caramelli
74
Ibid.
75
Ivi, p. 397; FS, p. 487.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 77
capitolo sesto, infatti, ciò per cui la coscienza «seguendo il sapere ma-
nifesto ne sperimenta l’inganno»76 è da ascriversi alla parziale e tuttavia
strutturale cecità della coscienza in quanto immediatamente etica; nel
capitolo settimo, invece, Hegel sottolinea che il sapere manifesto, das
offenbare Wissen, non è tale solo in quanto coincide con la parte visibile
della configurazione etica sostanziale, bensì lo diventa nel momento in
cui viene svelato dal dio: «proprio colui che era stato capace di risolvere
l’enigma della Sfinge come pure colui che s’era attenuto alla fedeltà filiale,
vengono mandati in rovina da quanto il dio loro rivela»77. È per questo
che la coscienza espia «la propria fiducia in un sapere la cui ambiguità,
costituendone la natura, doveva darsi anche per la coscienza, ed esserle
di monito»78. Ci sembra che l’immagine tragica del linguaggio con cui il
dio rivela qualcosa all’eroe – Hegel pensa qui a Edipo e a Oreste – rive-
lando se medesimo, non sia foggiata solo da una mancanza strutturale del
sapere coscienziale, ma rimandi alla modalità intrinseca con cui il divino
si manifesta e si dà figura. In tal senso, ancora una volta, il linguaggio
tragico riflette in sé, per quanto simbolicamente e rappresentativamente,
quella che altrimenti è una condizione della figuralità medesima ma ad
essa esterna, di nuovo il negativo che non è in grado di assorbire ma con
cui esso stesso coincide. Se Hegel può dire che «questa sacerdotessa, per
bocca della quale parla il bel dio, non è per nulla diversa dalle ambigue
sorelle del destino che, con le loro promesse, inducono al delitto, e che
nel linguaggio bifido [zweizüngig] di ciò che esse spacciano per sicuro
ingannano colui che si è fidato del sapere manifesto»79, mettendo così
sullo stesso piano la Pizia e le streghe di Macbeth, la Zweizüngigkeit della
manifestazione è da ricondursi a ciò per cui essa avviene nel linguaggio
e, quando le due cose vanno di pari passo, l’inganno è inevitabile, anzi
necessario. Colui che invece è più puro di Macbeth e più assennato di
Oreste saprà bene di dover prendere le distanze dalle rivelazioni degli
spiriti, sotto le cui spoglie potrebbero celarsi anche i dèmoni, senza con
ciò potersi risolvere a porre mano alla vendetta, ma Amleto è un eroe
moderno, ormai aduso al gioco delle ombre e del concetto80.
76
Ivi, p. 395; FS, p. 484.
77
Ivi, p. 394; FS, p. 482.
78
Ivi, pp. 395-396; FS, p. 484.
79
Ivi, p. 394; FS, p. 483.
80
Anche solo da quest’accenno alla figura di Amleto si capisce che, in questa
pagina di difficile interpretazione e in generale nel passaggio tra tragedia e commedia,
sullo sfondo si staglia il problema della poesia tragica e del superamento del tragico in
generale, strettamente legato a quel che Hegel definirà poi «il carattere di passato» dell’arte
e che condurrà alla dialettica storica dei generi poetici. Su questo versante d’obbligo il
riferimento a P. Szondi, La poetica di Hegel (1974), trad. it. di A. Marietti, introduzione
78 Eleonora Caramelli
di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007. Sulla tragedia nella Fenomenologia dello spirito e
nell’evoluzione del pensiero hegeliano in generale si vedano i paragrafi relativi in C.
Gentili, G. Garelli, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 133-143. Sul rapporto tra la
considerazione del tragico nella Fenomenologia e l’evoluzione sistematica della questione
si veda anche R. Pietercil, De la “Phénomenologie de l’esprit” aux “Léçons d’Estéthique”.
Continuité et évolution de l’interprétation hégélienne de la tragédie, «Revue philosophique
de Louvain», 36, vol. 77, 1979, pp. 659-677.
81
GW IX, p. 396; FS, p. 484.
82
Cfr. anche D. Bremer, Hegel und Aischylos, «Hegel-Studien», Beiheft 27, 1986,
pp. 225-245, in cui la riflessione hegeliana su questo «amphibolisches Doppelwesen»
(ivi, p. 232) viene ricondotta all’influenza della Weltanschauung eschilea, incentrata
sull’intuizione della duplicità del divino in quanto tale.
83
GW IX, p. 398; FS, p. 487.
84
Ivi, p. 277; FS, p. 338.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 79
ciò per cui la sostanza si sacrifica simbolicamente nella luce della sua
manifestazione – abbiamo trovato la dimensione dell’estetico: la duplicità
del linguaggio sta qui nella sua dimensione simbolica, in cui rimane un
margine non detto di negatività, il limite per cui ogni figura è una finzione
e in parte un tradimento. Il margine di negativo che il linguaggio tragico
esprime senza poterlo rappresentare corrisponde al margine di negativo
che quel linguaggio è. La dimensione tragica dell’estetico sta proprio nella
duplicità del carattere figurale del linguaggio, in cui il negativo si è fatto
presenza: è il Daseyn in cui abita il senso, e in cui la coscienza spettatrice
fa – artisticamente, simbolicamente – l’esperienza del linguaggio in quanto
Vorstellung con la sua divina duplicità.
85
Ivi, p. 397; FS, p. 486.
86
Ibid.
80 Eleonora Caramelli
in scena comica è in tal senso una ironia al secondo grado, che in quanto
tale corrisponde al duplice passaggio che essa mette a segno. L’ironia
oggettiva sta in ciò per cui la rappresentazione che doveva manifestare la
sostanza ha rovesciato la sostanza medesima, che non è infine nient’altro
da quel che la rappresentazione ha portato in luce: la Vorstellung adeguata
che al contempo, ironicamente, è Verstellung. «L’ostentata esibizione [das
Aufspreitzen87] dell’essenzialità universale», però, «si tradisce e palesa
nel Sé»88. La rappresentazione, tesa fino allo spasimo e riflessa in sé, si
spacca e si tradisce da sola, il che costituisce il duplice tradimento che
corrisponde all’ironia al secondo grado.
L’essenza si mostra imprigionata in una realtà effettiva e lascia cadere la
maschera proprio quando pretende di essere qualcosa di giusto89.
87
Da notarsi, circa questo vocabolo, come si evince dalla voce sul lessico dei fratelli
Grimm (Bd I, Sp. 743), che il verbo denotava in origine – il che sembra significativo in
relazione al rapporto di cui sopra tra la sostanza e la sua rappresentazione – l’azione con
cui, mediante l’aiuto di asticelle, si teneva aperto l’animale macellato (da cui poi l’asse:
‘spalancare’, ‘allargare’, ‘spiegare (le ali)’, ‘gonfiare (le penne)’ e da qui la valenza affine
a intumescere nel senso di superbire. Si vedano in merito anche le osservazioni di H.
Schneider, Hegels Theorie der Komik und die Auflösung der schönen Kunst, «Jahrbuch
für Hegelforschung», vol. I, 1995, pp. 81-110, in cui il punto è trattato in relazione al
problema del carattere di passato dell’arte.
88
GW IX, p. 397; FS, p. 487.
89
Ivi, p. 398; FS, p. 487.
90
Lo spunto interpretativo è liberamente tratto da M. Belhaj Kacem, Ironie et vérité,
Nous, Caen 2009, dove il principio è testato nell’analisi delle commedie di Marivaux.
91
GW IX, p. 398; FS, p. 487.
Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel 81
92
Ivi, p. 398; FS, p. 488.
93
Ibid.
94
Ibid.
95
Ivi, p. 399; FS, p. 489.
96
Ibid.
97
Per una contestualizzazione del rapporto tra filosofia speculativa e tragedia, e il
ruolo che la riflessione su di essa gioca nel pensare di Hegel, si veda O. Pöggeler, Hegel.
L’idea di una fenomenologia dello spirito (1973), trad. it. di A. de Cieri, Guida, Napoli
1986, in particolare pp. 127-133.
82 Eleonora Caramelli
98
Non da ultimo sembra opportuno rilevare che tutto il percorso dell’arte spiri-
tuale – culminante nel passaggio tra tragedia e commedia – non solo prefigura qualcosa
che verrà soltanto dopo, ma, essendo quello il percorso in cui vengono assolte tutte le
condizioni affinché lo spirito si dia figura, lo stesso sapere assoluto può venire pensa-
to, ex post, a partire da quella chiave di volta. Per queste osservazioni, nel contesto di
una riflessione circa il sapere assoluto, si veda R. Dottori, Che cos’è il sapere assoluto?
Osservazioni conclusive sulla Fenomenologia dello spirito, «Il cannocchiale», 3, 2007,
pp. 244-282, in particolare pp. 250 e 270.