Secondo i racconti dei mercanti medio orientali, esisteva un’isola nelle Indie,
completamente ricoperta da foreste di pepe e popolata da mostruosi serpenti,
che avevano il potere di tramutare in pietra gli esseri umani solo con il loro
sguardo. Al mercante restava, quindi, di incendiare completamente le foreste
per mettere in fuga questi strani e pericolosi esseri, ma facendo ciò, si
sarebbero distrutti ettari ed ettari di foresta, rendendo difficile
l’approvvigionamento di pepe nel futuro. Prova di questa impresa, era lo stesso
aspetto del pepe: nero e rugoso per via del fuoco. Ed è così che, condizioni
ardue, difficoltà di approvvigionamento e mistero, rendevano questo prodotto
così prezioso e desiderato.
“mare delle isole indiane dove si trovano le spezie. In questo mare navigano
navi di molte nazioni. Qui si trovano anche tre tipi di pesce chiamati Sarenas,
dei quali uno è metà donna metà esce e l’altro è metà donna e metà
uccello.”(1)
Lo stesso profumo che emanavano le spezie richiamava alla mente il senso del
sacro: profumata era l’aria che si respirava nel paradiso secondo alcune fonti,
profumate erano le reliquie dei santi, spezie ed erbe profumate venivano
bruciate o offerte alle divinità come omaggio, profumi intensi si avvertivano
quando il sacro si manifestava all’uomo, immagini, queste, che sono continuate
nei secoli, fino ad arrivare a noi.
I monaci: spezie e immoralità
Contrapposto al senso del sacro e del miracoloso, però, vi era il lato oscuro
delle spezie, simbolo del piacere dell’effimero, dell’ingordigia,
dell’ostentazione. Severamente vietato era il consumo delle spezie agli uomini
di Dio, soprattutto ai monaci, che, però, come ci raccontano le fonti, non di
rado si concedevano a vini speziati e banchetti opulenti.
Nel monastero di Cluny, come ci racconta San Bernardo nella sua “Apologia”
l’appetito veniva stimolato dalle ricche e variegate portate e dalle sostanze
piccanti, che accendevano la voracità e non solo:
“Veniva servita una portata dopo l’altra e, in luogo di un unico, grande piatto di
carne, dalla quale ci si astiene, ci sono due grandi portate di pesce. E quando
tu sei sazio della prima, se tocchi la seconda, ti parrà di non aver ancora
assaggiato pesce. La ragione è che sono preparate con tale cura e maestria da
cuochi che, divorate quattro o cinque portate, la prima non chiude l’accesso
all’ultima e la sazietà non lo chiude all’appetito. Perché il palato,sin tanto che
venga stimolato da nuovi condimenti, gradualmente perde attrazione per ciò
che è familiare e viene ricondotto pieno di brama nel suo desiderio delle spezie
straniere.”(2)
Note
(1) L’atlas Català de Cresques Abraham, Barcellona, 1975
(2) Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelum Abbatum, in S.Bernardi
Opera, III, Roma, 1963.