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Indice
Prefazione 7
Introduzione. Le spezie: una merce per il mercato globale 11
I. Le spezie e la cucina medievale 31
1. Ricette medievali. - 2. Mode culinarie. - 3. Il gusto della cucina medievale. -
4. Spezie, cibo e status. - 5. La cucina borghese: "Le ménagier de Paris".
II. Medicina: le spezie come farmaci 67
1. Dieta, salute e umori. - 2. Medicine esotiche e locali. - 3. I supposti effetti
dei farmaci.
III. Gli odori del paradiso 97
1. Gli aromi dell'Eden. - 2. La collocazione dell'Eden e dell'India.
IV. Traffici e prezzi 125
1. Le rotte delle spezie. - 2. Il commercio al dettaglio. - 3. Il costo delle
spezie.
V. Scarsità, abbondanza e profitto 151
1. La rarità circostanziale e il difficile raccolto del pepe. -
2. Forniture "normali" e raccolti. - 3. Una ricchezza iperbolica.
VI. "Quel maledetto pepe": le spezie e i rischi per la moralità 171
1. Spezie e immoralità.
VII. Alla ricerca dei reami delle spezie p. 191
1. La "pax mongolica". - 2. Carte, viaggiatori e l'ampliarsi delle conoscenze. -
3. Europa, islam, Cina e India: la situazione nel Quattrocento.
VIII. La scoperta dei reami delle spezie:
Portogallo e Spagna 221
1. Portogallo. - 2. Spagna.
Conclusioni. Ascesa e declino delle spezie 245
Carte 261
Note 267
Bibliografìa 289
Indice dei nomi 307
2
Prefazione
3
spezie. Ho parlato sul tema della domanda delle spezie all'Ottavo seminario
angloamericano sull'economia e la società del Medioevo, che si è tenuto a
Gregynog, nel Galles, nel 2004. Una versione delle tesi che espongo nel
quinto capitolo, sulla percezione medievale del rapporto fra rarità e prezzi alti,
è stata pubblicata in forma di articolo su "Speculum" (ottobre 2005), col titolo
Le spezie e le concezioni dell'Europa tardomedievale su scarsità e valore.
Nella raccolta delle informazioni, che ha comportato l'acquisizione di nozioni
e concetti bizzarri o curiosi del sapere medico, gastronomico e religioso, che
tanto hanno contribuito a produrre l'immagine medievale delle spezie,
nessuno mi ha fornito un aiuto più prezioso di John Friedman, professore
emerito dell'Università dell'Illinois. L'ampiezza, la versatilità e la profondità
della sua conoscenza e della sua comprensione del Medioevo mi hanno
lasciato stupefatto, così come mi ha molto colpito la sua disponibilità ad
aiutare quanti vogliano orientarsi nella cultura e nelle tradizioni popolari di
quell'epoca. Sull'industria moderna della produzione di essenze odorose e
profumi ho ricevuto una mole considerevole d'informazioni da Robert Beller,
grazie al quale ho potuto conoscere l'ambra grigia, uno dei materiali più
pregiati per i produttori medievali di profumi e medicine. Aiuto e consigli
preziosi mi sono inoltre venuti da Susan Einbinder, Mark Burde, Eric
Goldberg, Ilya Dines, Ellen Ketels, Kurt Weissen, Alain Touwaide, Michael
McVaugh, Christopher Woolgar, Walton Orvil Schalick III, Christine Reinle e
Christopher Dyer. Lisa Adams mi ha dato un aiuto incommensurabile nelle
diverse fasi editoriali, come pure nella correzione e nella stesura finale. Sono
grato a Lara Heimert e a Chris Rogers per l'incoraggiamento, l'entusiasmo, la
pazienza che hanno mostrato. Ho iniziato a studiare il Medioevo negli anni
Settanta e, per la mia dissertazione di laurea, ho scelto un tema di storia della
Catalogna medievale. Questo libro è dedicato ai miei amici catalani
Alexandre e Monserrat de Malia. La loro ospitalità, il loro affetto e la loro joie
de vivre sono stati di incoraggiamento e ispirazione all'inizio della carriera e
hanno continuato a sostenermi nei decenni successivi.
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Introduzione
Ciò da cui l'espansione europea ha preso avvio non ha nulla a che vedere
con la nascita di una qualche religione o con l'ascesa del capitalismo, ma ha
moltissimo a che fare col pepe. Henry Hobhouse, Seeds of Change: Five
Plants That Transformed Mankind Questo libro descrive l'evolversi della
domanda, per non dire del desiderio insaziabile, di spezie da parte del
mercato europeo, dall'anno Mille sino al 1513, quando i portoghesi
conclusero la loro esplorazione delle Isole delle spezie (ossia le Molucche), la
ricca fonte dei chiodi di garofano e della noce moscata, situate in quella che
oggi è la parte orientale dell'Indonesia (fig. 1). Gli storici, nel corso delle loro
ricerche sul commercio delle spezie, hanno mostrato come questo traffico
risentisse delle oscillazioni del prezzo, dell'emergere di guerre locali, del
variare delle rotte percorribili. Siamo però meno forniti di elementi che ci
permettano di capire i movimenti dalla parte della domanda; in primo luogo di
capire perché le spezie erano tanto popolari, perché il desiderio che la gente
ne aveva era tale da spingere i mercanti ad avventurarsi fino a quello che
allora appariva uno dei più remoti angoli del mondo, pur di portarle in Europa.
A quel tempo si aveva solo una vaghissima idea della collocazione dell'India,
la grande fonte e il grande magazzino di tutte le spezie, e non si sapeva
assolutamente nulla, almeno sino al Trecento, delle altre terre in cui le spezie
crescevano, come Giava, Sumatra o le Molucche; e tuttavia il desiderio dei
consumatori europei era talmente forte da far muovere i preziosi prodotti
aromatici da quei luoghi lontani e sconosciuti. In gran parte il loro potere di
fascinazione dipendeva dall'uso che se ne faceva per insaporire un tipo molto
raffinato di cucina. Il cibo dell'Europa medievale, o almeno quello che si
potevano permettere le classi economicamente più agiate, era profumato da
una grande varietà di spezie. I ricettari dell'epoca ci forniscono la
testimonianza del fatto che il cibo di gran moda, allora, era più speziato di
quello che l'Europa ha gustato dopo la fine del Medioevo. L'intensità della
domanda di spezie, però, non si può spiegare solo con le preferenze
gastronomiche. Alle spezie si attribuiva un'efficacia straordinaria, sia per
curare sia per prevenire le malattie; venivano bruciate come incenso nei
rituali religiosi e distillate nei profumi e nei cosmetici. Tenute in gran pregio
dai potenti e dai ricchi, le spezie erano un simbolo di agiatezza economica e
5
di prestigio sociale. La passione medievale per le spezie, che veniva
incoraggiata dalle loro origini misteriose e dagli alti prezzi, stimolava il
tentativo di raggiungere le terre da cui provenivano e di riuscire a controllarne
il commercio. Il bisogno di spezie ha alimentato la spinta espansiva
dell'Europa agli albori dell'epoca moderna. Il desiderio, la moda e il gusto
possono muovere gli imperi. Se, come ha sostenuto - con validi motivi -
Adam Smith, i due eventi più importanti nella storia del mondo sono stati i
due viaggi, quasi simultanei, che hanno visto Colombo giungere in America,
traversando l'Atlantico, e Vasco da Gama sbarcare in India, circumnavigando
l'Africa, allora si deve dire che il desiderio degli europei di trovare una via per
le spezie è stato una delle forze trainanti più significative che il mondo abbia
conosciuto1. Anche nell'era moderna la domanda dei consumatori riesce a
indurre movimenti di dimensioni globali: la tossicodipendenza in America ha
un impatto sull'Afghanistan e sulla Colombia, mentre il valore dei diamanti ha
devastato paesi africani come il Congo, l'Angola e la Sierra Leone. Dal
Cinquecento all'Ottocento, l'interazione tra le preferenze nei consumi
quotidiani e i grandi movimenti nell'economia globale fu lo sfondo su cui si
produsse il traffico transatlantico degli schiavi, che doveva fornire all'Europa
zucchero, indaco, tabacco e cotone, così come oggi è la richiesta di petrolio a
influire in misura determinante sugli equilibri e gli squilibri dei poteri politici in
tutto il mondo. Di tutte le merci del mondo, le spezie sono quelle che hanno
maggiormente inciso sulla storia, perché hanno avviato l'Europa su una
strada che finì per sfociare nel processo di conquista oltremare, un processo
che, tra successi e fallimenti, condiziona ancora oggi ogni aspetto della
politica mondiale. La passione delle spezie è alle radici dell'espansione
imperialista europea: una forza che ha rimodellato demografia, politica,
cultura, economia ed ecologia dell'intero pianeta. Il desiderio di spezie, però,
si stava già affievolendo, ben prima che l'espansione europea raggiungesse il
suo zenith. Già nel Settecento le preferenze alimentari degli europei erano
decisamente mutate, a favore di un gusto più ricco, ma anche più blando, e le
spezie non erano più presenti nelle pratiche mediche e religiose. Il loro
commercio non era più importante. Le spezie, pur mantenendo ancora oggi
un ruolo in quei tipi di cucina in cui si sperimentano fusioni fra tradizioni
diverse e ci si avventura in tentativi audaci ed eterodossi, hanno ormai da
molto tempo cessato di essere un prodotto di grande rilevanza economica.
Nell'estate del 2004 l'uragano Frances distrusse integralmente la produzione
di noce moscata di Granada, il maggior produttore mondiale di questo tipo di
spezia, e il sistema finanziario mondiale non fu minimamente scosso. In
6
effetti non se ne accorse nemmeno. Quella che una volta era una merce
importantissima ora è solo un additivo che insaporisce un po'. Timothy
Morton ha sintetizzato questa situazione in un'espressione icastica, nel suo
libro The Poetics of Spices: "Quello che ieri era l'ingrediente essenziale dei
banchetti diviene oggi un pizzico di polvere su una mela alla cannella della
Dunkin' Donuts"2. Non ci riesce quindi troppo facile capire come mai, nel
passato, le spezie possano aver avuto un'importanza così vitale e aver
attirato un desiderio così appassionato. In questo libro ci si prefigge di
presentare la cannella e le altre spezie nel momento in cui erano ai vertici
della loro fama, esercitavano sull'Europa un fascino irresistibile e ne
mettevano in moto le campagne d'oltremare, con la loro forza creativa e
distruttiva. In genere, quando si vuole spiegare l'amore medievale per le
spezie, ci si riferisce al fatto che bloccavano o rallentavano il processo di
putrefazione della carne, o almeno ne coprivano l'odore, quando esso fosse
già avviato. Questa tesi, assolutamente convincente ma falsa, è una sorta di
leggenda metropolitana, una di quelle storie così irresistibilmente attraenti
che la nuda realtà non basta a smentirla3. In realtà le spezie non sono
particolarmente efficaci, nella conservazione delle carni, in paragone ad altri
metodi, come salatura, salamoia, affumicatura o essiccazione. In ogni caso,
poi, non c'è proprio nulla, spezie o altro che sia, che possa mitigare il terribile
sapore della carne marcia. Il mito delle spezie come conservanti viene
direttamente smentito dalle condizioni effettive della deperibilità dei cibi. Gli
americani in genere danno per scontato che la carne, in assenza di un
sistema moderno di refrigerazione, marcisca quasi immediatamente, ma,
soprattutto nei climi freschi che predominano in Europa, le cose non stanno
così. Di certe carni, come quelle della selvaggina, si riteneva anzi che
dovessero essere lasciate riposare e frollarsi, prima di essere pronte per
essere cucinate. Mastro Chiquart, capocuoco del conte di Savoia all'inizio del
Quattrocento, chiedeva ai suoi fornitori di portare a corte tutta la selvaggina
che avevano raccolto con un largo anticipo, in modo che potesse restare
appesa a frollarsi per il tempo necessario (di solito più o meno una settimana)
per essere pronta per la preparazione4. Non ci teneva affatto alla freschezza
o a una consegna rapida. In ogni caso, nel Medioevo la carne fresca non era
poi tanto difficile da ottenere, per chi fosse ragionevolmente benestante. In
una società prevalentemente agricola, dove fra le città e le fattorie del
contado non si stendeva una cintura di sobborghi, c'era una grande
abbondanza di animali disponibili. Anche le persone di mezzi modesti
avevano la loro terra in campagna e allevavano i propri animali. I macellai si
7
trovavano molto più vicini ai loro fornitori all'ingrosso di quello che non capiti
ai loro colleghi moderni. La maggior parte di quello che vendevano al
bancone lo avevano ucciso e macellato nel retro del negozio. Le ordinanze
comunali di tutta Europa denunciavano e tentavano di disciplinare (con
risultati che sembrano piuttosto limitati) i macellai che sporcavano le strade di
sangue o con le interiora sgradite degli animali macellati in bottega. Chiunque
si potesse permettere di acquistare delle spezie poteva avere anche carne
più fresca di quella che gli abitanti delle città odierne possono acquistare nel
supermercato più vicino a casa. Le spezie erano molto costose e la carne
relativamente a buon mercato. Dal libro delle spese domestiche del conte di
Oxford nel 1431-32, risulta che si poteva ottenere un maiale intero per quattro
etti e mezzo della spezia meno costosa, il pepe5. Un consuntivo compilato
dall'amministratore della famiglia Talbot, nello Shropshire, mostra che le
spese mensili per l'acquisto di spezie corrispondevano quasi esattamente a
quelle destinate all'acquisto complessivo di carni bovine e suine. Nell'anno
fiscale 1424-25, la famiglia consumò 7,5 kg di pepe, quasi 6,5 kg di zenzero e
quasi 8 di altre spezie, tra cui 1,5 kg di zafferano6. Dati i costi, tentare di
migliorare una carne di dubbia commestibilità con chiodi di garofano o noce
moscata sarebbe stato un po' come aggiungere qualche fettina di tartufo
bianco d'Alba (che nel 2008 è arrivato a costare 600 euro l'etto) per ravvivare
il gusto di un cheeseburger acquistato in un fast-food. La popolarità delle
spezie non può essere spiegata in un modo così semplice: non ha nulla a che
vedere con la deperibilità della carne. Una spiegazione più corretta chiama in
causa il prestigio delle spezie, la versatilità dei loro usi e del loro significato, le
loro connotazioni sociali e religiose e le fonti di provenienza, che rimanevano
misteriose e affascinanti. La versatilità è particolarmente significativa, perché,
come già si è detto, le spezie non venivano utilizzate solo in cucina. Erano
anche considerate farmaci e strumenti efficaci di prevenzione medica, in una
società che era così spesso colpita da epidemie terrificanti. Non venivano
loro riconosciute soltanto proprietà curative, ma anche la capacità di
contribuire al benessere e all'equilibrio del corpo. Servivano, in particolare, a
bilanciare i fluidi interni, ossia gli umori, da cui dipendevano benessere fisico
ed equilibrio caratteriale ed emotivo di ogni individuo, e quindi non
contribuivano solo a garantire salute ed energia, ma anche un senso di
bellezza e di ricco splendore. Le spezie allietavano e arricchivano la tavola,
creando un ambiente raffinato, elegante e confortevole. Le si poteva
consumare come alimenti o inalare come profumi o incensi. L'odore delle
spezie aleggiava nelle case, grazie alle fumigazioni prodotte bruciando
8
essenze aromatiche, in una forma pionieristica di aromaterapia. Le chiese
erano permeate dall'odore delle spezie resinose, in particolare dell'incenso,
usato nei rituali della liturgia cristiana. Le connotazioni simboliche delle
spezie ne associavano le fragranze alla salute e anche al sacro: chi infatti era
in "odore di santità" vedeva confermata questa virtù dal meraviglioso profumo
di spezie esalato in vita e anche, diversamente da quello che solitamente
accade agli uomini comuni, dopo la morte. Come si vedrà nel terzo capitolo,
al giardino dell'Eden, il paradiso terrestre, veniva comunemente attribuito
questo profumo e gli si riconosceva il titolo di luogo d'origine di questi
meravigliosi prodotti aromatici. La collocazione del paradiso, che per la
maggioranza dei geografi si trovava in oriente, contribuiva ad accrescere il
fascino che nell'immaginazione degli occidentali di quel tempo già veniva
riconosciuto all'India e all'Asia orientale. Che le spezie provenissero
dall'Oriente serviva a rafforzare la convinzione che possedessero qualità
magiche, nonché l'interesse che su di loro si appuntava per la dispendiosità,
il mistero, la sacralità che le connotavano. Nelle leggende del Medioevo, i tre
re magi che giunsero a visitare il divino neonato erano sovrani di tre regni
orientali che avevano portato con sé, oltre all'oro, due spezie, incenso e
mirra, in segno di tributo (ricchezza) e adorazione (sacralità). Il fascino
esercitato dall'Oriente per il suo esotismo e la sua sacralità è manifesto in
una storia narrata da Tommaso di Cantinpré, un enciclopedista del Duecento,
che era anche autore di biografie di santi a lui contemporanei. Racconta di un
vescovo eccezionalmente austero che aveva ricevuto in dono una magnifica
coppa d'argento, piena di noci moscate. Il vescovo mandò indietro, come era
suo costume, il boccale d'argento, ma fece un'eccezione alla sua regola per
le noci moscate, che accettò in quanto esse erano - disse - il "frutto
dell'Oriente"7. Quando prese piede l'idea che le spezie non erano
semplicemente utili, ma avevano anche in sé qualcosa di meraviglioso, la loro
importanza venne accresciuta dalla necessità di esibirle. Come tutti gli altri
beni di lusso, le spezie erano uno strumento valido per ottenere, attrarre,
confermare uno status sociale elevato, ma proprio per questo il loro consumo
doveva essere ostentato pubblicamente.
9
con la principessa polacca Jadwiga fu ostentatamente accompagnato da una
lunga serie di banchetti. I resoconti dei festeggiamenti ci presentano la
quantità stupefacente di spezie che venne impiegata: 174 kg di pepe, 129 di
zenzero, 93 di zafferano, 92 di cannella, 47 di chiodi di garofano e solo 38 di
noce moscata8. Una parte di queste spezie può essere stata distribuita a
titolo di regalo per i convitati, e certo i festeggiamenti si prolungarono per
giorni e giorni, ma la quantità complessiva resta comunque sbalorditiva. Ben
oltre le preferenze culinarie, e certamente anche oltre la pura necessità
(come quella della conservazione delle carni), le spezie qui rappresentano
un'esibizione calcolata di ricchezza, prestigio, stile e splendore. In tempi più
vicini a noi, il filosofo francese Gaston Bachelard ha osservato che "la
conquista del superfluo genera un'eccitazione spirituale più grande della
conquista del necessario. L'uomo è una creazione del desiderio, non una
creazione del bisogno"9. Che questa affermazione sia vera o no dipende
dalle circostanze, in modo particolare dalla possibilità di permettersi delle
scelte che esulino dalla sfera della semplice necessità di sopravvivenza, ma
non è certamente possibile spiegare il fascino e i costi dei consumi di lusso,
se non si riconosce il peso determinante che in questo fenomeno assume il
desiderio umano del superfluo. Le spezie non avevano l'evidente visibilità dei
vestiti, dei bei cavalli, degli arazzi e di tutti gli altri elementi scenografici che
erano gli usuali strumenti d'ostentazione della nobiltà medievale, ma non
erano per nulla meno importanti e pregiate di tutto quell'apparato in quanto
simboli di status e di nobile eleganza. Erano oggetti del desiderio, ma non si
limitavano a essere un frivolo accessorio. Proprio come le vesti di seta,
l'equipaggiamento per la caccia o i titoli e il lignaggio, le spezie erano un
genere d'elite che conferiva benessere e anche distinzione sociale. Solo in
virtù di una sorta di snobismo alla rovescia o per l'adesione a una vita di
semplicità e di rinuncia alla vanità del mondo, una persona di alto rango
poteva decidere di non offrire ai suoi ospiti cibi abbondantemente speziati.
Non si trattava di una preferenza, ma di un obbligo. Le spezie non erano
necessarie per la sopravvivenza, ma non se ne poteva fare a meno, se si
intendeva dimostrare e conservare il proprio prestigio sociale. La
gratificazione generata dai prodotti aromatici proveniva in parte dalla loro
fragranza, dal loro sapore, dalla qualità di cibo tonificante e salubre che
veniva loro attribuita, ma era anche essenziale il fatto che fossero oggetti di
un consumo di lusso, che per definizione è il godimento di beni che, quando
vengono consumati in privato, danno una soddisfazione molto minore di
quella che si prova esibendoli agli occhi di amici e conoscenti. Jean
10
d'Hauteville, un poeta satirico della fine del XII secolo, in una diatriba
indirizzata contro l'orgoglio e la ghiottoneria, prese di mira le spezie. Jean, un
normanno che viveva in Inghilterra, compose il suo Archithrenius (il Principe
delle deprecazioni), una denuncia in tono moralistico delle abitudini
dell'epoca, nella forma di un viaggio allegorico immaginario. Il suo giovane
protagonista visita la terra di Venere e poi i territori della ghiottoneria raffinata,
dove vivono gli "adoratori dello stomaco". A parere di Jean, l'amore eccessivo
per il cibo, che già in sé è vizioso, viene ulteriormente aggravato se ad esso
si coniuga l'ambizione sociale. Si lamenta del fatto che la cucina venga
apprezzata per quanto può arrivare a costare e non in base al sapore. I
condimenti migliori sono sempre i più costosi, in modo tale che la ghiottoneria
(un istinto di basso livello ma pur sempre naturale) viene a essere
ulteriormente corrotta dall'arroganza, ossia dall'orgoglio che le si
accompagna (un vizio perverso e innaturale)10. Per quanto alte e intense
possano essere le deprecazioni dei moralisti e dei difensori di uno stile di vita
semplice e di buon senso, l'ostentazione di beni che siano
contemporaneamente costosi e di gran moda è un fenomeno sociale che si
ripresenta costantemente. A cambiare è la natura di tali beni. Quello che in
una determinata epoca produce piacere e prestigio sociale può uscire di
scena nell'epoca seguente. Ci sono, è vero, alcune specie durature di oggetti
di prestigio, come i bei vestiti e i gioielli, che continuano a segnalare una
differenza di classe sociale anche nel variare delle forme specifiche che la
moda assume nel tempo: non è mai esistito un tempo in cui i rubini non siano
stati preziosi. Il valore sociale attribuito alla maggioranza dei beni, però, è
esposto a un'altalena di ascese e tracolli. Talvolta questo dipende da una
maggiore diffusione della ricchezza o da una caduta dei prezzi, come nel
caso dei congelatori, che erano un segno di prosperità negli anni Cinquanta e
oggi non lo sono più, o in quello della carne di pollo, che oggi è cibo a buon
mercato, ma negli anni Venti era una pietanza prelibata. Nel momento in cui
queste pagine vengono scritte, i televisori a schermo piatto stanno
degradando dal rango di genere di lusso e ostentazione a quello di oggetti
d'uso comune. In altri casi, più semplicemente, la moda cambia. I sigari
cubani sono ancora oggi pregiati (e costosi), ma la maggior parte dei prodotti
derivati dalla lavorazione del tabacco e tutti gli accessori che li
accompagnano, come pipe, portaceneri e accendini, hanno perso negli ultimi
vent'anni il prestigio di cui godevano in precedenza. Le pellicce non hanno
più il valore che avevano fino a poco fa, perché il nostro atteggiamento nei
confronti degli animali è mutato. La cioccolata calda ha fatto furore per tutto il
11
Settecento e ci ha lasciato tracce innegabili della sua passata importanza in
collezioni di belle porcellane, ma oggi l'eleganza si è ristretta a una cerchia
ridotta di prodotti esclusivi o di alto artigianato, mentre la bevanda in tazza è
ormai limitata quasi esclusivamente ai bambini. Nel Medioevo le spezie erano
un segno di prestigio e di successo, ma oggi non hanno più questo ruolo, che
del resto avevano già perso diversi secoli fa. In Europa oggi servire un cibo
molto speziato può essere un mezzo per esibire una particolare abilità
culinaria o anche una coraggiosa propensione ad azzardarsi nella
preparazione di piatti difficili e arrischiati, ma le spezie di per sé non
conferiscono alcuna particolare forma di prestigio. Tra i generi di lusso del
Medioevo ce ne sono alcuni (la seta, i gioielli e l'oro) che mantengono
inalterato il loro prestigio anche nel mondo contemporaneo, mentre ce ne
sono altri (come le reliquie dei santi o le corna dell'unicorno, per esempio) il
cui successo e il cui fascino erano dovuti a ragioni che possiamo
comprendere solo con un certo sforzo di ricostruzione concettuale. La magia
delle spezie si basava, almeno in parte, sul valore intrinseco della loro
fragranza e della piacevolezza delle sensazioni prodotte dal loro consumo. Il
desiderio delle spezie veniva poi potenziato da fattori esterni, dalla loro rarità.
Anche se non era complicato procurarsele, pagando il prezzo dovuto (i
mercati, i venditori di spezie, i farmacisti erano forniti di ogni varietà di prodotti
esotici), venivano comunque viste come un prodotto raro, perché venivano da
molto lontano e la loro origine era misteriosa. Avevano soprattutto un prezzo
elevato, a partire da quelle che erano abbastanza care (come il pepe) sino ad
arrivare a quelle che erano favolosamente costose (come l'ambra grigia e il
legno di aloe).
12
una differenza cruciale. Le erbe, proprio come le spezie, infondono sapore e
aroma, ma in genere anche allora si tendeva a immaginarsele come verdi e
fresche, anche se, all'occasione, le si poteva essiccare. Erbe come la
borragine, l'acetosa, il prezzemolo erano usate sia in cucina sia in medicina.
Molte, come la mandragora, la digitale, la ruta, erano soprattutto o soltanto
dei medicinali. Alcune venivano raccolte nei campi e nei boschi, altre invece
venivano coltivate, ma ciò che in primo luogo le caratterizzava era il fatto che
fossero familiari, che facessero letteralmente parte del paesaggio. Le spezie,
d'altro canto, arrivavano in forma di prodotto essiccato o semilavorato. Sino
alla fine del Duecento, quando Marco Polo visitò l'India e altre zone dell'Asia
meridionale, gli europei non avevano alcuna familiarità con il pepe, la noce
moscata, i chiodi di garofano, nella loro forma botanica come pianta fresca.
Anche lo zenzero e i suoi affini, come la galanga o la zedoaria, dovevano
essere considerati prodotti secchi, dopo un viaggio che poteva durare anche
un anno. I manuali in cui venivano presentati i medicinali, quelli che oggi
vengono sovente chiamati "erbari", contenevano illustrazioni molto precise in
merito alle erbe europee, ma risultavano assolutamente fantasiosi nella
rappresentazione delle spezie tropicali. Le erbe locali, selvatiche o coltivate,
non avevano un grande valore commerciale. Venivano vendute nei mercati e
non erano quindi del tutto prive di valore economico, ma il loro prezzo non
era comparabile con quello delle spezie, che erano importate, venivano
vendute in negozi specializzati e distribuite con molta misura e in dosi ridotte
e costosissime a tutti, salvo coloro che, come i maggiordomi di Giorgio il
Ricco, potevano permettersi di acquistarne a carrettate. Nel secondo capitolo
si esamineranno le spezie nel loro uso medicinale, se ne discuteranno le
proprietà curative e si mostreranno le differenze che presentano con le erbe.
Qui basti dire che sia le erbe sia le spezie erano considerate ausili
farmacologici molto efficaci, destinati però ad aree distinte di applicazione,
nel senso che, ad esempio, le erbe erano preferite quando si trattava di
preparare pozioni come i filtri d'amore o i veleni. Lo zafferano non rientra
propriamente nella definizione delle spezie come prodotti aromatici
d'importazione, dal momento che si trattava di un prodotto locale; questo
però non gli impediva di essere visto come una pianta esotica e di
raggiungere prezzi da capogiro. Lo zafferano, che si ottiene essiccando gli
stimmi del pistillo di una particolare varietà di croco (il crocus sativus), è
probabilmente di origine mediorientale (attualmente i suoi maggiori produttori
sono l'Iran e il Kashmir). Nel Medioevo cresceva in tutto il mondo
mediterraneo ed era associato in particolare alla Toscana, dove se ne
13
trovavano i principali mercati soprattutto a Pisa e a San Gimignano11.
All'inizio dell'età moderna le regioni orientali della Spagna cominciarono ad
acquisire la reputazione, che ancora oggi conservano, di essere la zona di
produzione delle migliore qualità di zafferano. A differenza di tutte le altre
spezie medievali, il croco che produce lo zafferano era facilmente adattabile a
climi e terreni diversi. Come testimonia la località inglese di Saffron Walden
(bosco dello zafferano), si riescono a ottenere raccolti di questo croco anche
nell'Europa settentrionale. La difficoltà che presenta lo zafferano, e anche la
causa del suo costo, è che il raccolto comporta necessariamente l'operazione
lunga e tediosa di raccogliere solo gli stami e che per mettere insieme
un'unità standard di misura è necessario collezionare un numero altissimo di
piccoli filamenti. Lo zafferano veniva usato allora - come oggi - per insaporire
alcuni piatti, ma anche come aroma, come colorante e, quello che era
probabilmente il suo uso più importante, come prodotto medicinale. C'era un
ridotto numero di spezie originarie dell'Europa, ma in genere la loro
produzione era confinata in aree ecologiche molto ristrette. Il lentisco, per
esempio, una resina aromatica, viene prodotto da una specie di acacia che
cresce esclusivamente nell'isola di Chio, nell'Egeo. La maggioranza delle
spezie, però, veniva da climi molto più remoti, da quella che l'immaginazione
europea di allora concepiva come "India". Come risulterà evidente, sotto
questo termine geografico si poteva però raccogliere una congerie molto
vasta di territori, in parte reali in parte immaginari.
L'idea più chiara di cosa esattamente potesse significare il termine spezie per
i mercanti medievali ci viene fornita dai manuali nei quali si spiegavano
tecniche e regole della conduzione degli affari. Questi compendi di pesi e
misure, di massime proverbiali di saggezza, di informazioni e curiosità sui vari
mercati locali includono in genere anche elenchi di spezie, corredati da
opportuni consigli sul modo di valutare al meglio la qualità del prodotto nelle
trattative per l'acquisto di una grossa partita. Il più lungo di questi elenchi
compare in un manuale per il commercio composto poco prima del 1340 da
Francesco Pegolotti, un banchiere fiorentino che aveva a lungo frequentato
Cipro, uno dei grandi centri che smistavano in Europa le spezie provenienti
dall'Oriente. La pratica della mercatura di Pegolotti elenca 288 spezie
("speziere") diverse che fanno capo a 193 distinte sostanze (molte spezie
14
infatti si presentano in forme diverse; tre tipi di zenzero, due gradazioni di
cannella e così di seguito)12. Nell'elenco vanno raccolte sotto la definizione
di spezie sostanze che esulano dal nostro interesse attuale e possono quindi
venire messe da parte, come l'allume (usato per fissare le tinte e impedire
che i colori si stingessero e svanissero) o anche la cera (undici varietà).
Pegolotti le includeva nell'elenco perché tendeva a considerare ogni bene
importato non deperibile come una spezia. Il 90% del suo elenco è composto
di piante fragranti e di un numero ristretto di prodotti animali, alcuni
commestibili, altri più comunemente usati come medicinali o profumi. Non è il
caso di perderci nell'estenuante compito di esaminare tutte le minuzie di
questo compendio enciclopedico delle spezie; vale però la pena di dare una
scorsa alle categorie in cui si articola, per cercare di cogliervi la presenza di
qualche prodotto esotico poco comune e l'aura di grande valore e intenso
desiderio di cui allora appariva circonfuso.
15
ricette medievali è il pepe lungo, che non ha niente a che vedere col pepe
nero. Il frutto essiccato è estremamente pungente, nero e piuttosto grande,
delle dimensioni di uno di quei moderni croccantini secchi per i gatti o per i
cani. Questo prodotto è uscito dai ricettari della cucina europea nel corso del
Settecento e attualmente, al di fuori dell'Asia orientale e meridionale, risulta
completamente sconosciuto. Anche la zedoaria, un'altra radice aromatica che
ha qualche affinità con la curcuma, è ormai scomparsa ovunque tranne che in
India, mentre nell'Europa medievale veniva citata nei libri di cucina e le
veniva attribuito un aroma tanto attraente da farla includere fra le piante
fragranti nel magico giardino dell'amore con cui si apre il popolare poema
allegorico Il Romanzo della rosa14. Tra le nuove spezie che ebbero successo
nel Medioevo si trovava quella che i francesi chiamarono "grano del
paradiso", nota anche con la definizione più prosaica di pepe malagueta.
Questa spezia, come il pepe lungo, non è imparentata con il pepe nero. Ha
un sapore intenso e pepato, è di colore rosso scuro e cresce nell'Africa
occidentale. In Europa se ne fa menzione per la prima volta nel Duecento e la
sua designazione come "grani del paradiso" sembra essere un primo
esempio di campagna per il lancio e la commercializzazione di un prodotto. I
grani del paradiso conobbero un successo travolgente nel Trecento e
all'inizio del Quattrocento, ma nel periodo in cui i portoghesi scoprirono la
regione africana in cui venivano prodotti, stavano già passando di moda: in
Europa erano ormai destinati all'oblio, cui pervennero alla fine del
Cinquecento15. La più importante delle nuove spezie (cioè delle spezie che
erano rimaste ignote all'antichità) era lo zucchero, destinato poi a vivere per
suo conto una vita di successo come bene di consumo, ma incluso nel
Medioevo tra i generi d'importazione molto costosi. Lo zucchero, pur non
essendo propriamente un'essenza aromatica, veniva tuttavia catalogato fra le
spezie in virtù dei criteri con cui nel Medioevo si classificavano i beni importati
e le droghe, per il fatto cioè di essere un prodotto esotico, venduto in
modeste quantità, di grande valore e accreditato di proprietà miracolose. I
greci e i romani si erano serviti del miele, un dolcificante molto meno potente
dello zucchero di canna (la produzione dello zucchero dalle barbabietole e da
altre piante si deve agli sviluppi della tecnica moderna). Lo zucchero venne
inizialmente conosciuto come un altro dei generi importati dall'India, ma nel
corso del Quattrocento la canna da zucchero era già coltivata in Spagna, in
Sicilia, nelle isole Canarie e sulle coste orientali del Mediterraneo. In epoca
moderna lo zucchero è divenuto un ingrediente fondamentale e a buon
mercato nella produzione di bevande gassate, nei dessert, nei prodotti di
16
pasticceria, nonché un additivo essenziale nella lavorazione di una serie di
alimenti, dai condimenti per le insalate alle salse per il barbecue. Nel
Medioevo era un genere di lusso, che all'inizio era stato accolto come un
medicinale; ma in seguito venne utilizzato con una certa frequenza per
rafforzare il sapore di una grande varietà di piatti, non soltanto dei dessert (a
quel tempo non si distinguevano ancora dalle altre portate per il fatto di
possedere in esclusiva la caratteristica della dolcezza). Pegolotti elenca
tredici varietà di zucchero comunemente in commercio, tra le quali si trovano
lo zucchero candito, la zucchero insaporito da rose o violette e gli zuccheri di
Damasco, di Babilonia e di Caffa (un porto dei genovesi in Crimea). Lo
zucchero ha un sapore particolarmente piacevole, che continuò a garantirgli
un ruolo importante in medicina anche quando cominciava la sua carriera in
cucina, prima come accessorio utilizzabile a piacere, poi come elemento
indispensabile. Allora come oggi, lo zucchero copriva il sapore amaro dei
medicinali, ma era anche utile per fissare gli ingredienti, spesso volatili, di cui
erano composti i farmaci. Le medicine venivano mescolate con zucchero e,
mediante un processo di riscaldamento e raffreddamento, veniva data loro
una vasta serie di consistenze diverse: quella di una gomma, di un corpo
solido, di una pasta, di una sostanza morbida o facilmente masticabile.
Questi preparati medici allo zucchero, noti come "elettuari", sono all'origine
dei dolci canditi e di molti altri prodotti simili, in cui si combinano zucchero e
spezie16 A partire dal Settecento lo zucchero smise di essere considerato un
medicinale e si trasformò, da semplice insaporente nella preparazione del
cibo (è esattamente ciò che intendiamo con la parola spezia), in ingrediente
essenziale. Nello stesso periodo la fine delle pratiche culinarie medievali
comportò che i piatti dolci venissero separati da quelli salati, sicché l'ultima
portata (ossia il dessert) giunse a essere definita come un piatto zuccherato.
Per certi aspetti, quindi, il Medioevo usò lo zucchero, nei suoi menu, in modo
più ampio di quello che gli viene riservato oggi, ma in genere in quantità
molto inferiori.
17
3.2. Medicinali
18
UNA SPEZIA MEDICINALE: LA MUMMIA
Capitolo primo
1. Ricette medievali
Un libro di cucina inglese del Quattrocento riporta una ricetta per preparare il
merluzzo in una salsa nota come gyve (letteralmente "catena", "ceppo"), in
cui si trovavano chiodi di garofano, macis, pepe e una "grande quantità" di
cannella, insieme a uva passa, zafferano, legno di sandalo e zenzero. Lo
stesso compendio accoglie anche una ricetta per la preparazione di tartine di
carne di maiale, in cui quest'ultima si combina con ogni sorta di spezie (fra
cui ancora cannella in grande abbondanza), cui si aggiungono uova, fichi,
datteri, prima di coprire il tutto con una pasta dolce e di metterlo a cuocere.
Per rafforzare l'eleganza dell'effetto, le tartine potevano anche essere
ricoperte prima della cottura da una miscela di zafferano e latte di mandorle,
per far loro assumere un colore dorato (in un procedimento che è chiamato
appunto "doratura"). In un'altra raccolta inglese c'è una ricetta per la
preparazione del cigno, semplice (l'animale viene arrostito e tagliato), ma con
l'aggiunta, nel servire il piatto, di una salsa fra i cui ingredienti ci sono le
interiora del cigno, zenzero, galanga e pane colorato con il sangue
dell'animale. Nella gastronomia medievale le spezie erano presenti ovunque.
Nei libri europei di cucina, nel periodo che va dal Duecento al Quattrocento,
le spezie appaiono nel 75% delle ricette. I libri di cucina inglesi citano le
spezie in non meno del 90% delle ricette1. Col termine spezie non ci
22
riferiamo solo a uno o due condimenti comuni, come il pepe o lo zenzero.
Secondo Taillevent, chef del re di Francia alla fine del Trecento e autore del
Viandier, il libro di cucina più noto e più universalmente imitato del suo
tempo, il repertorio di ingredienti standard per i cuochi includeva venti spezie
diverse (senza tener conto delle misture, delle polveri ottenute per
combinazioni e delle salse)2. Le spezie venivano usate in modi che oggi
risulterebbero estranei e incomprensibili a ogni palato, tranne i più
avventurosi, in combinazioni da lasciare sbalorditi e su tutto l'arco del menu,
dal pesce ai dessert e anche oltre, sino ai prodotti canditi e al vino. Buona
parte delle nostre informazioni sul cibo medievale proviene dai circa 140 testi
di cucina che, redatti dal Duecento alla fine del Quattrocento, sono giunti sino
a noi, a volte in manoscritti contenenti anche opere a carattere medico, altre
volte compresi in miscellanee che includevano anche osservazioni su
passatempi come la caccia o testi scientifici o astrologici3. La maggior parte
di questi libri fu scritta in francese, inglese e altre lingue volgari, ma ve ne
sono alcune in latino, che rappresentano implicitamente la rivendicazione del
valore dell'arte culinaria come una delle forme superiori di conoscenza. I libri
di cucina non erano tanto dei manuali contenenti istruzioni, quanto
registrazioni delle abitudini o delle aspirazioni delle corti che in Europa
dettavano le regole del gusto. A comporli erano in primo luogo gli chef di più
alto livello, uomini come Taillevent, capocuoco del re di Francia. Il suo rivale
inglese, lo chef del re d'Inghilterra Riccardo II, fu autore del libro The Forme
of Cury (Il modo del cucinare), che divenne l'autorità indiscussa del mondo di
lingua inglese. Verso la fine del Trecento fecero la loro apparizione testi
composti da esperti di un livello inferiore, che presentavano maggiore varietà
geografica e linguistica. Raccolte importanti di ricette vennero prodotte in
tedesco, spagnolo, catalano e italiano. La Francia era, come al solito, arbitra
nell'arte culinaria, ma non deteneva più, nel dettare la moda e le regole
dell'eleganza, l'egemonia indiscussa che aveva esercitato dall'VIII sino al XII
secolo. L'entusiasmo francese per i grani del paradiso dell'Africa occidentale,
per esempio, riscosse altrove solo una tiepida attenzione4. Ci sono anche
altre fonti, oltre i libri di cucina, che ci forniscono qualche impressione su
quello che veniva mangiato: ad esempio i banchetti reali descritti nelle
cronache e quelli immaginari di cui si narra nella letteratura cavalleresca. I
libri in cui si tenevano i conti delle grandi casate, con l'elenco delle spese
fatte e la registrazione delle quantità di provviste acquistate o acquisite per
altre vie, ci forniscono informazioni dettagliate su quello che era richiesto sia
per i normali pasti quotidiani, sia per le occasioni speciali. Anche i libri di
23
suggerimenti e consigli, a partire dalle denunce contro la ghiottoneria sino ai
trattati medici, ci danno un'idea di quello che la gente consumava, come pure
delle scelte alimentari che riteneva più opportune per proteggere prestigio
sociale e benessere fisico.
Merluzzo in gyve
Pimento
2. Mode culinarie
28
cristiani dei crociati, stimolò la diffusione del cedro, del riso, della carta e di
altri prodotti orientali, insieme ad altre pratiche culinarie come l'uso del latte di
mandorla, dello zafferano, dell'acqua di rose, nonché la larga diffusione dello
zucchero. Fulcherio di Chartres, uno dei cronisti della prima crociata, osservò
con un senso di amara condanna, poco dopo il 1100, che l'attrazione
esercitata dai modi di vivere degli orientali aveva fatto sì che i coloni cristiani
giunti con le crociate "erano divenuti orientali più che uomini dell'occidente e
avevano dimenticato la nostra terra natale"11. Più di un secolo dopo
l'imperatore tedesco Federico II fu accusato dal papa di avere attorno a sé
una corte praticamente saracena, con un esercito privato formato da
musulmani di Sicilia e anche un serraglio di animali esotici. Tutta l'architettura
spagnola, sotto i conquistatori cristiani della penisola iberica, soprattutto in
Aragona e Andalusia, imitava lo stile dei musulmani, anche nella struttura e
nelle decorazioni del palazzo reale di Siviglia. Tuttavia, l'abitudine di usare
grandi quantità di spezie non fu un'importazione dal mondo islamico -
precede anzi nel tempo la nascita dell'islam e l'espansione degli arabi. Già
all'epoca del dominio romano, il gusto per una cucina dai sapori forti era
dominante in Europa. I romani non conoscevano certe spezie che divennero
popolari nei secoli del Medioevo, specialmente i chiodi di garofano e la noce
moscata, che in quel tempo venivano coltivate solo nelle isole Molucche,
nell'odierna Indonesia, ma avevano una vera passione per una spezia
nordafricana che chiamavano silphium (e che alla fine riuscirono a fare
estinguere), come per l'assafetida e la pasta di pesce (che oggi risultano
completamente estranee al gusto degli europei). Nell'unico testo di cucina
romano che ci sia rimasto, attribuito ad Apicio, più dell'80% delle ricette
richiede l'uso del pepe, in quantità rilevanti. Nel I secolo dell'era cristiana,
Plinio il Vecchio si chiedeva esasperato perché mai il pepe, che in effetti non
ha un sapore molto gradevole, ma è anzi piuttosto pungente, scatenasse un
tale entusiasmo tra i suoi contemporanei. Chi mai era stato, domandava, il
primo a decidere che si dovessero aggiungere al cibo tali forme di
allettamento, ben al di là delle necessità naturali dell'alimentazione? Per le
genti dell'India era normale consumare pepe e zenzero, perché laggiù le
piante crescevano selvagge, ma che i romani dovessero spendere oro e
argento a causa di questa passione per i gusti piccanti sembrava a Plinio solo
un segno della follia popolare. La ricerca archeologica ha mostrato che,
all'epoca dell'impero romano, la costa meridionale egiziana, sul mar Rosso,
aveva rapporti commerciali diretti e molto fitti con l'India, destinata in gran
parte all'importazione del pepe12. Il crollo dell'impero romano danneggiò
29
gravemente questo traffico, ma le spezie e altre droghe esotiche dell'Asia
orientale e meridionale continuarono a trovare una strada per giungere in
Europa e, in effetti, le prime notizie di spezie come i chiodi di garofano, la
noce moscata o il galanga, risalgono al periodo successivo alla caduta
dell'impero d'Occidente, ma precedente la conquista islamica, si collocano
cioè tra il V e il VII secolo13. Sulla misura del debito della gastronomia
dell'Europa medievale nei confronti dell'islam la discussione rimane aperta14.
Se si considerano gli ingredienti e i principi generali dell'arte culinaria (come
l'uso generoso delle spezie) sembra che ci debba essere stata una stretta
connessione, ma ci si sorprende poi nello scoprire quanto poco, nelle ricette
europee, richiami direttamente i precedenti arabi e persiani. Le salse che nei
manuali occidentali vengono presentate come "saracene" si limitano ad avere
una colorazione rossa (cioè del colore che nell'arte medievale rappresenta
l'islam), oppure sono sì inconsuete in Europa, ma non hanno nulla a che fare
con un qualsiasi piatto orientale: una ricetta contenuta in un manuale
napoletano, della metà o della fine del Quattrocento, conservato nella Morgan
Library, arriva a definire saracena una salsa fatta con vino e carne di maiale,
entrambi assolutamente vietati dalle regole dietetiche islamiche15. Anche
qualcosa che ha effettivamente un'origine araba, come un piatto europeo
molto comune noto come mamonia - etimologicamente una derivazione
dall'arabo ma'miiniyya -, assunse una conformazione, una colorazione e un
sapore molto diversi dall'originale. Quello che era stato un disco bianco di
riso bollito e pollo addolcito (e talvolta profumato con muschio e canfora)
divenne, sul lato cristiano del Mediterraneo, qualcosa molto simile a un
pudding freddo, con acini d'uva tritati su latte di mandorla e vino e una grande
varietà di spezie e zucchero, a cui si aggiungeva una spolverata di carne
tritata di pollo o di montone. La mamonia a questo punto poteva assumere
qualunque colore si volesse darle16. Piuttosto che dare per scontato che
l'Europa occidentale abbia acquisito i suoi gusti culinari dal mondo islamico o
da altre influenze, dovremmo invece vedere l'amore per le spezie come
un'inclinazione diffusa e a lungo termine, condivisa dalla maggioranza degli
europei e degli asiatici per molti secoli. Il vero mistero che resta da spiegare,
non è l'origine dell'idea di preparare gli alimenti con una tale massa di
condimenti, ma perché mai l'Europa abbia abbandonato questa pratica
nell'epoca moderna, dirigendo le sue preferenze su altri gusti culinari. Si
tratta di un mistero che verrà preso in considerazione verso la fine di questo
libro. Nell'Europa del Medioevo, il gusto per il cibo molto speziato era parte di
uno stile internazionale, qualcosa che si ritrovava da un capo all'altro del
30
continente. La cucina piccante era caratteristica del gusto medievale nella
stessa misura dell'architettura gotica, o della letteratura cavalleresca. Nella
gastronomia, la Francia era il paese che esercitava la maggiore influenza, ma
le preferenze locali non si lasciavano sopraffare dalle tendenze generali, anzi
le modificavano. Nel Duecento gli inglesi usavano abbondantemente lo
zucchero in cucina, ma i francesi lo consideravano una medicina. Fra le
spezie dal sapore più pungente, gli inglesi avevano una preferenza per il
cubebe, mentre i francesi optavano per il pepe lungo; gli italiani erano meno
interessati allo zenzero dei francesi e degli inglesi, ma erano devoti allo
zafferano17. La cucina medievale era autonoma nel definire l'insieme delle
sue regole e il senso di ciò che era appropriato. Non si limitava a importare o
adattare indicazioni provenienti dalle tradizioni gastronomiche più antiche e
sofisticate dell'Oriente, ma si costruiva su un insieme specifico di gusti, in cui
avevano grande risalto, oltre alle spezie, anche la passione per la
magnificenza dell'esibizione, per i colori, la sorpresa, gli effetti speciali. Era
una cucina portata all'ostentazione sontuosa e a volte anche volgare, i cui
principi estetici miravano a divertire e a stupire con l'innovazione. Nella storia
della gastronomia, le cucine delle società ricche tendono a oscillare tra
l'artificio e l'autenticità. La cucina medievale si colloca con decisione nella
prima categoria e rappresenta il trionfo del virtuosismo sulla semplicità. I
cuochi del Medioevo non erano affatto interessati a lasciare che gli ingredienti
parlassero da se stessi, preferivano invece piatti complessi, con l'incontro di
molti sapori diversi e l'uso di ingredienti pesantemente elaborati, che spesso
comportavano diversi metodi e stadi di preparazione. Nei piatti consumati dai
ceti più elevati - ma non solo da quelli - prevalevano le carni (con una
preferenza per la cacciagione e le varietà esotiche del pollame) e il pesce
(d'obbligo nei molti giorni di contrizione e digiuno, nei quali la carne era
proibita). L'amore per l'artificio e le spezie, e lo scarso apprezzamento per le
verdure, anche se sottoposte a qualche trattamento, risulta evidente nella
ricetta di quella che viene chiamata una cretonnée di piselli novelli nel
Viandier di Taillevent. I piselli sono cotti, poi vengono ridotti a una purea, fritti
nel grasso di pancetta (in quello che va considerato come il passaggio
basilare, perché la parola cretonnée deriva dal termine latino che indica il
processo di frittura) e quindi si combinano col pollo bollito e poi fritto con
zafferano e zenzero. A questa mistura si aggiungono dei tuorli d'uovo,
formando così una specie di zuppa densa18. Una composizione interessante,
senza alcun dubbio, ma che non dà proprio l'impressione di essere la più
adatta per esaltare al massimo il sapore dei piselli novelli. Le spezie avevano
31
un ruolo centrale nella passione medievale per i sapori forti, l'esibizione,
l'artificio. Non ci si preoccupava molto di ostentare una qualche forma di
affettata semplicità: non soltanto si acconsentiva a che i sapori degli
ingredienti fondamentali di ogni ricetta venissero distorti, o almeno relegati in
secondo piano, dall'uso massiccio delle spezie, ma si studiava ogni piatto
perché producesse sorpresa e sbalordimento. Lo splendore della cucina
medievale, oltre che nella varietà delle sue combinazioni e nel fanatismo per
le carni e il pesce, si rivela con chiarezza nei resoconti dei grandi banchetti.
Ne rimane traccia sia nelle annotazioni dei cronisti, sia nelle più banali
registrazioni degli alimenti di cui ci si provvedeva. C'erano molti piatti di
contorno, con vegetali, zuppe, crema pasticcerà, persino pasta (di solito
servita con una spolverata preventiva di cannella e zucchero), ma i menu dei
banchetti si presentano come esempi estremi di una dieta ad alto contenuto
proteico. Ci sono due occasioni celebrative, per la presa di servizio di
funzionari ecclesiastici nell'Inghilterra quattrocentesca, in cui si rivela la
passione per i vari tipi di volatili e per le carni, mentre, nell'uso degli
ingredienti di altra natura, manca completamente la capacità combinatoria e
creativa che caratterizza, ad esempio, i menu dei grandi banchetti cinesi. Nel
settembre del 1465 Richard Neville si insediava come arcivescovo a York, in
una posizione che in Inghilterra era seconda solo a quella dell'arcivescovo di
Canterbury. Il banchetto che ne seguì si protrasse per più giorni, forse per
un'intera settimana e, fra ospiti e servitori, c'era una massa di due o tremila
persone che dovevano essere nutrite. Neville era fratello di Warwick, detto il
Kingmaker, cioè l'eminenza grigia che creava i re e che, in questa fase della
guerra delle Due rose, era alleato del re Edoardo IV di York. Si tratta quindi di
un evento che ebbe un certo richiamo e che mantenne notorietà anche in
seguito, a causa della straordinaria quantità di alimenti che richiese, ma la
sua eccezionalità si deve soprattutto alla lunghezza del suo protrarsi più che
alla novità e alla elaborata artificiosità dei piatti che vi vennero serviti, che
sostanzialmente ricadono in una delle due grandi categorie dell'esibizione del
lusso. Ce ne restano chiare le ordinazioni, più che l'esatta modalità della loro
preparazione. La quota della categoria carni (cacciagione esclusa) fu
relativamente modesta: 104 buoi, 1.000 pecore, 304 vitelli, 2.000 maiali, 304
porcellini da latte, 4.000 conigli, 204 capretti e 6 tori bradi. Questo equivale a
quasi 10 kg di carne a persona (ipotizzando tremila presenze). La caccia
grossa era ben rappresentata sotto il profilo della quantità, meno sotto quello
della varietà: 504 cervi, daini e caprioli, insieme a pasticci di cacciagione,
caldi e freddi. Ma l'attenzione delle centinaia di cuochi che erano impegnati in
32
questa preparazione si concentrava soprattutto sui volatili, dagli uccellini di
piccola taglia, come i tarabusi (200) alle specie più grandi e maestose, come i
cigni (400), i pappagalli (400) e le gru (204). Restava spazio per il pollame
domestico (2.000), i piccioni (4.000) e i capponi (7.000). C'erano poi quattro
focene e otto foche, insieme a una quantità non specificata di rombi, anguille,
storioni, aragoste e molti altri animali marini, da servirsi in tutti i giorni di
digiuno penitenziale che rientrassero nel periodo della celebrazione. È
possibile che molti degli animali più esotici siano stati serviti solo ai tavoli
principali, ma resta il fatto che la cifra di 400 pappagalli è decisamente
impressionante19. Il banchetto si tenne presso il castello di Cawood, vicino
alla città di York, sul fiume Ouse. Secondo la regola, la disposizione dei posti
a tavola seguiva un ordine gerarchico. C'erano sette tavole principali per gli
ospiti di maggior prestigio. L'arcivescovo appena insediato presiedeva una
Tavola Alta, collocata a una delle estremità del salone in posizione più
elevata rispetto alle altre, che le si stendevano dinanzi. Lì sedevano vescovi,
duchi e conti. Una seconda tavola accoglieva le autorità monastiche - abati e
priori. Lord e cavalieri occupavano la terza tavola. Il clero della cattedrale di
York, guidato dal suo decano, era seduto alla tavola quattro, mentre le
autorità della città di York occupavano la quinta. Alla sesta tavola sedevano
gli uomini di legge, come i giudici e i funzionari dello Scacchiere. All'ultima
tavola della sala si trovavano sessantanove esquires, giovani di un qualche
rilievo della corte regale che indossavano la livrea del re. Questa era solo la
prima delle sale del banchetto. Le altre sale, dopo il salone, erano occupate
dalle grandi dame della regione e molti locali più piccoli accoglievano i
notabili di minore importanza, dame e gentiluomini e importanti proprietari
terrieri locali. Una galleria ospitava i molti servitori di tutti i vari ospiti. Forse la
grandiosità della celebrazione era stata amplificata dalla precarietà della
situazione politica. Pochi mesi dopo quell'evento, i Neville operarono
un'inversione di campo e per un po' tennero prigioniero Edoardo IV: Warwick
lasciò l'Inghilterra per tentare di ricondurvi il re deposto, Enrico VI, lo
sfortunato candidato al trono dei Lancaster, che nell'aprile del 1471 furono
definitivamente sconfitti nella battaglia di Barnet. Anche Warwick venne
ucciso. Il fratello arcivescovo, a onta di tutti i suoi sforzi per adattarsi al nuovo
regime, fu arrestato e poi morì, nel 147620. Per quello che riguarda
l'insediamento del vescovo John Chandler di Salisbury, nel 1414, disponiamo
di migliori informazioni sull'ordine delle portate e sulla presenza di piatti che
non fossero solo basati sulla cacciagione e sui volatili21. Il primo piatto
òìfrumenty, cioè una pappa di grano con uova strapazzate, spesso servito,
33
come in questo caso, con accompagnamento di cacciagione, era usuale nel
Medioevo. In aggiunta ai capponi, cigni, fagiani e pappagalli che è lecito
attendersi, la prima portata includeva anche un piatto che illustra bene la
passione medievale per gli effetti illusionistici e sorprendenti: i pomys en gele,
che letteralmente si traduce "mele in gelatina". In effetti si trattava di polpette
rotonde di carne, colorate in verde con una salsa al prezzemolo, per dare
l'impressione di mele d'un verde vivace, servite in gelatina. In tutte e tre le
portate spiccavano inoltre preparazioni di carni di pollo sminuzzate su una
base di carne di maiale, insaporita con spezie e bagnata da una zuppa
bianca o da vino anch'esso speziato. C'era anche, nella terza portata, una
versione della già menzionata mamonia pseudoislamica (qui "mammenye").
Ogni portata, nel banchetto del vescovo Chandler, si chiudeva con una
finezza, una "sottigliezza" {sotelty), una rappresentazione teatrale di una
figura della storia sacra o profana, di un animale o, spesso, di un evento
storico. La sotelty, cioè subtlety, conosciuta sul continente come entremet, o
intermezzo, formava una specie di pausa nel servizio del banchetto, ma a
volte poteva essere parte integrante delle portate, magari come una sorta di
scultura di abbellimento che, in linea di principio, poteva anche essere
mangiata. In questo caso le sottigliezze erano rappresentate dall'Agnello di
Dio, da un leopardo e da un'aquila. È possibile che fossero prodotti di
pasticceria guarniti di decorazioni, ma nulla ci dice che fossero effettivamente
destinati a essere consumati. A un ricevimento di emissari del re di Francia,
organizzato dal cardinale Wolsey nel 1520, venne preparata una
"sottigliezza" che consisteva in una scacchiera fatta di dolciumi speziati (forse
del tipo del pane allo zenzero), con i pezzi fatti di zucchero e spezie, cioè
molto simile a quelli che erano stati serviti dal conte di Foix agli ambasciatori
ungheresi. Le sottigliezze mostrano quanto fosse importante l'aspetto visivo
dei banchetti per la creazione di un effetto di piacevole e divertente
grandiosità. Era anche possibile che ad accompagnare il banchetto
intervenisse la musica, non nella forma di un piacevole sottofondo, ma come
sonoro annuncio dell'arrivo delle portate. In Ser Galvano e il Cavaliere Verde,
la festa per l'anno nuovo alla corte di Re Artù ha inizio con una fanfara di
trombe, che si leva nel momento in cui vengono portati nel salone i piatti della
prima portata ed è poi seguita da un rullo di tamburi con accompagnamento
di pifferi22. Qualche volta gli effetti visivi si combinavano a quelli musicali.
Durante la festa del fagiano del 1454, un evento indetto per propagandare un
progetto di crociata per riconquistare Costantinopoli ai turchi, al duca di
Borgogna e ai suoi ospiti fu presentata, per divertirli, una gigantesca torta,
34
che, rimossa la crosta esterna, rivelò all'interno un gruppo di musicisti. In un
disegno, che compare su un codice miniato del 1378, è raffigurato un
banchetto, dato qualche anno prima dal re di Francia Carlo V in onore del
sacro romano imperatore Carlo IV e del di lui figlio (e successore) Venceslao
(fig. 7). Ci viene mostrata una serie di accessori da banchetto di eccezionale
splendore. Il re siede su un'alta piattaforma, attorniato dai suoi ospiti regali ed
ecclesiastici. Davanti a loro c'è del vasellame dorato finemente lavorato,
saliere e contenitori di spezie in forma di navi. Queste nefs (cioè navi), come
vengono definite, avrebbero adornato la tavola per tutto il pasto, non
limitandosi ad assolvere la semplice funzione di contenitori, ma finendo per
essere i pezzi centrali su cui si muoveva il servizio al tavolo. Un servo in
atteggiamento di sottomissione, con una calzamaglia a due colori, sta
tagliando il pane, mentre, attorno a lui, si effettua la presentazione di due
entremets: una nave che galleggia su una corrente d'acqua e una città
islamica attaccata dai crociati. Il tavolo, oltre che con le nefs, poteva essere
adornato da piccole fontane, o probae, utilizzate per scoprire la presenza di
veleni. Si riteneva che le gemme, i coralli e anche alcuni tipi di denti o corna
di animali cambiassero colore, o comunque fornissero un qualche segno
d'avvertimento, quando venivano posti a contatto col veleno, e per questa
ragione venivano usati per farne dei calici.
35
Maialini, capretto, gru, arrosto di cacciagione, heronsewes (giovani di airone),
pulcini farciti, pernice, "un leche" (una torta?), "crustade ryal" (del tipo di una
quiche, con un ripieno a base di uova). Chiusura con una sottigliezza
rappresentante un leopardo.
Gli eventi descritti finora erano grandi occasioni ufficiali, organizzate dalle
massime autorità pubbliche, e si può quindi avere l'impressione che la loro
esibita e volgare grandiosità si distaccasse nettamente dalla vita normale.
Tuttavia anche i moderatamente ricchi, allora come oggi, erano e sono, in
genere, in grado di fornire un'imitazione in scala ridotta degli spettacoli offerti
dai grandi. I benestanti non favolosamente ricchi non rinunciavano ai pasti più
carichi di spezie, di sorprese, di ostentazioni, che riusciva a permettersi.
L'Allodiere {Franklin) dei Canterbury Tales di Chaucer è un proprietario
terriero abbastanza agiato, che ha una particolare predilezione per il cibo
ricco. Nel Racconto dell'Allodiere uno dei protagonisti rievoca una cena in un
grande salone, durante la quale, per intrattenere i commensali, si è allestito
uno spettacolo di magia e una regata di barche da parata sull'acqua, un tipo
di esperienza che lo stesso Allodiere sarebbe stato ben lieto di vivere23. Ma
concentriamoci sull'ordine di servizio e sulla preparazione di alcuni piatti. I
pasti consistevano in una serie di portate, che però non erano così
nettamente distinte tra loro come in genere capita oggi. I menu paiono
tollerare la ripetizione, sicché è possibile che capponi, cacciagione o volatili
non d'allevamento vi compaiano più di una volta. Il principio che guidava
36
l'organizzazione del pasto non era il rispetto della natura degli ingredienti
primari (minestre, pesce, carni), quanto piuttosto il modo della loro
preparazione. Le teorie mediche dell'epoca concepivano lo stomaco come
una sorta di forno in cui il cibo veniva "cotto" o comunque trattato perché il
corpo potesse usarlo. Lo stomaco, di conseguenza, doveva essere preparato
o in qualche modo riscaldato. Questo imponeva che i piatti bolliti, di più facile
digestione, comparissero subito dopo l'inizio del banchetto, prima degli
arrosti, saporiti, ma anche più impegnativi per l'apparato digestivo, e che per
ultimi venissero i preparati che erano considerati più delicati (fritture e dolci).
Se carne, cacciagione e pesce si ripetevano invariabilmente a ogni portata,
era però straordinaria la varietà degli animali che venivano considerati
commestibili e appetibili. L'epoca in cui viviamo, con la tecnologia di cui
disponiamo per la conservazione e il trasporto degli alimenti, ci mette a
disposizione un intero mondo di prodotti esotici ma, per quanto grande possa
essere la capacità d'innovare che attribuiamo a noi stessi, i nostri menu a
paragone a quelli del Medioevo si sono piuttosto impoveriti, sia perché non
siamo più disposti a considerare commestibili alcune prelibatezze medievali,
sia perché la varietà delle forme della vita naturale si è ridotta. Non pare
proprio che ci sia oggi alcun interesse per i pappagalli, i delfini, le lamprede,
gli aironi, o gli uccellini dal bel canto (allodole, ortolani), che erano una
presenza obbligatoria in un menu medievale di qualche pretesa. I nostri
oceani sono sfortunatamente gravati dal peso di un'attività di pesca
eccessiva, molti laghi e fiumi sono inquinati, sicché è difficile per noi ripetere
la varietà dei piatti di pesce di mare e d'acqua dolce disponibili nel Medioevo,
ma, anche senza considerare il degrado dell'ambiente, c'è anche il semplice
fatto che non condividiamo più alcune delle loro passioni alimentari. Le
lamprede, grandi creature marine simili ad anguille giganti, erano uno dei
piatti più pregiati circa settecento anni fa, ma oggi sono in genere
dimenticate. La città di Gloucester, che andava famosa per le sue torte di
lampreda, ne offrì una a Elisabetta II per la sua incoronazione nel 1953,
preparata e presentata nel modo elegante richiesto dal cerimoniale. La
lampreda sopravvive anche come piatto tipico della regione di Bordeaux.
Come nelle ricette medievali, la preparazione della lamproie à la bordelaise,
richiede che l'animale venga eviscerato quando è ancora in vita e che se ne
lasci poi gocciolare il sangue nel vino rosso per un paio d'ore, prima della
cottura. Altri tipi d'anguilla gigante, come il grongo e la murena, erano una
presenza costante nei menu medievali, insieme alle focene e ai delfini. Le
creature di mare e di fiume erano cibo consentito nei giorni di digiuno (così
37
come le spezie) secondo un'interpretazione della norma che non comportava
un'assoluta astensione dal cibo, quanto piuttosto dalla sola carne, sicché i
menu di "magro" (dei giorni di digiuno) erano altrettanto elaborati di quelli dei
giorni di grasso e carne. I piatti tipici del cibo di magro, secondo mastro
Chiquart, cuoco del duca Amedeo VII di Savoia, comprendevano lamprede
arrosto, delfini freschi o sotto sale, bouillabaisse, cioè zuppa di pesce
aromatizzata alla cannella, anguille fritte in diversi tipi di brodi di pesce
speziati, salsicce fatte con le interiora e la gelatina di pesce. Nel 1483 un
pasto per il venerdì, servito nella Torre di Londra nel corso di un banchetto di
tre giorni per l'incoronazione di Riccardo III, comprendeva lamprede sotto
sale, zuppa di lucci, platessa in salsa saracena, granchi di mare, frittura di
pesce capone e grongo al forno, cui seguiva una seconda portata con tinca
alla griglia, spigola in pastella dolce, salmone in pastella dolce, sogliola a
fette, persico in pastella dolce, gamberetti, trote, arrosto di focena e ancora
pesce capone (questa volta infornato con mele cotogne). Le spezie che
accompagnavano il pasto erano pepe, zenzero, chiodi di garofano, grani del
paradiso, macis e una considerevole quantità di zucchero24. La cacciagione
presentava una grande varietà di specie, molte delle quali sono oggi divenute
troppo rare o sono considerate troppo inusuali per poter fare la loro
apparizione sulla tavola. Gli animali di grandi dimensioni, come i cervi o gli
orsi, erano pezzi d'esibizione, ma lo erano anche i piccoli uccelli. L'Europa di
quel tempo, rispetto a quella di oggi, era brulicante di selvaggina e gli uomini
che la governavano si impegnavano nello sforzo non certo disinteressato di
conservare l'habitat degli animali in libertà, proteggendolo dalle intrusioni
degli agricoltori e dalle incursioni dei bracconieri. Come abbiamo visto,
mastro Chiquart insisteva sul fatto che alla fornitura di cacciagione
indispensabile per una grande festa si doveva provvedere con un ampio
anticipo rispetto all'evento. Chiquart ordinava ai suoi incaricati
all'approvvigionamento di prepararsi, con quaranta cavalli, sei settimane o
anche due mesi prima prima di un banchetto di due giorni, per procurarsi
caprioli, lepri, pernici, fagiani, uccelletti ("di questi quanti se ne possano
trovare, senza numero"), colombi, gru e aironi. Per mantenersi all'altezza di
questa magnificenza, Chiquart chiedeva anche diverse centinaia di
chilogrammi di spezie (pepe, due varietà di zenzero, cannella, grani del
paradiso e quantità più ridotte di noce moscata, chiodi di garofano, galanga e
macis). Ordinava anche 8 kg di foglie d'oro per le decorazioni. Le spezie, gli
animali allo stato brado e le lamine d'oro sono tutti esempi tipici dell'eccesso
festivo dell'alta cultura culinaria del Medioevo. Qui abbiamo a che fare con
38
uno stile sofisticato e portato all'ostentazione. Niente è più lontano dalla
realtà dell'immagine popolare dei notabili medievali che fanno festa attorno a
una carcassa arrostita rusticamente allo spiedo. La tavola veniva
apparecchiata in modo elaborato, si prestava grande attenzione alla scelta di
tovaglie, coltelli, saliere, piatti, coppe, vasetti per le salse e scodelle. Spesso
il pane veniva collocato sulla tavola prima che gli ospiti vi prendessero posto
e di frequente lo si usava come una sorta di piatto per accogliere gli alimenti
o lo si spezzava in bocconi da inzuppare nelle salse. Le forchette non erano
del tutto ignorate, come comunemente si crede, ma venivano usate solo
raramente. Piers Gaveston, il favorito di Edoardo II d'Inghilterra, disponeva di
un set di forchette che usava solo quando mangiava delle pere, ma forse era
un personaggio portato all'eccesso di ostentazione, anche rispetto agli
standard del suo tempo (l'inizio del Trecento)25. Il coltello era la posata
principale: veniva utilizzato per tagliare, per offrire il cibo e per muoverlo nel
piatto, qualche volta col sussidio di un cucchiaio. I libri di buone maniere
insegnavano ai commensali a tenere fra loro una gentile conversazione, a
evitare di sputare e di leccarsi le dita. Al contrario, ancora una volta, di quello
che generalmente si crede, si stava ben attenti a lavarsi prima dei pasti,
un'attività cui ci si poteva dedicare accanto alla tavola prima di mettersi a
sedere, servendosi di scodelle che vi erano state collocate proprio a questo
scopo, oppure anche da seduti, attingendo l'acqua da speciali contenitori
forniti di un beccuccio chiamati aquamaniles, di cui ci è rimasto un certo
numero di esemplari, spesso nella forma di animali reali o mitologici, oppure
di rappresentazioni di massime morali o amenità26. Il pasto aveva numerosi
aspetti cerimoniali e lo status sociale dei vari ospiti veniva indicato dalla loro
collocazione a tavola e da quello che veniva loro servito. Nella misura in cui si
trattava di un'occasione pubblica, vi era ammesso anche un gruppo
selezionato di poveri perché si potessero nutrire. Particolarmente
emblematiche del rispetto che nel Medioevo si attribuiva all'abilità manuale, e
anche della propensione alle regolamentazioni elaborate, sono le cerimonie
rituali che regolavano il taglio delle porzioni. Nel caso delle portate importanti,
cioè degli animali difficili o molto complicati da tagliare, le bestie venivano
portate in tavola intere e le carni venivano tagliate in base alle indicazioni
definite in numerosi trattati, come il Boke of Kervynge, il libro dell'arte del
taglio inglese del Quattrocento. Questo manuale d'istruzioni, destinato al
personale di servizio di più alto livello, mostra come debbano essere tagliati e
serviti carni, pesci e specialmente il pollame di alta qualità, ed elenca le salse
più appropriate per accompagnarli. Probabilmente altrettanto importante della
39
capacità di eseguire il lavoro correttamente era quella di sapere sempre
quale verbo si dovesse usare, in un sistema di classificazione che si basava
sul tipo di animale su cui si doveva lavorare. Per esempio, non si doveva dire
genericamente "taglia quell'airone": gli aironi si smembrano {dismember). Il
Boke of Kervynge mette all'imperativo tutte le diverse istruzioni, sicché il
signore dovrebbe dire al suo siniscalco "spolpa quell'anatra" {unbrace that
mallard), ma "spunta quell'aragosta" {barb that lobster) e "trancia quello
storione" (franche that sturgeon). La conoscenza del termine giusto mostra
sicurezza e competenza professionale, gli errori indicano ignoranza e
confusione27. Naturalmente c'erano animali più difficili degli altri. John
Russell, autore di un libro tardo medievale meno specifico sulle modalità di
servire un pasto, scrive, con una concisa frustrazione che sembra prodotta da
un'esperienza diretta: "Crabbe is a slutt to kerve & wrad wight" (il granchio è
una bestia sozza da tagliare e una creatura infernale). Per lavorare sul
granchio, scrive, ci vuole tanto tempo che, una volta che si è dissezionato e vi
si sono aggiunte le spezie e l'aceto, bisogna riportarlo in cucina per scaldarlo
di nuovo28. Questo rispetto puntiglioso del cerimoniale non significa che non
ci potesse essere divertimento nella cucina medievale. Proprio il contrario: i
rituali della tavola erano parte di uno spettacolo in cui la solennità si
mescolava alla follia e la volgarità spesso trionfava sull'eleganza (almeno per
il nostro modo di pensare). Si mirava agli effetti speciali, sia per l'occhio che
per il palato. Allora come oggi, negli ambienti di alto livello sociale ci si
aspettava di vedersi servire certi piatti, in questo caso prelibatezze come il
cigno, il pappagallo o la testa di cinghiale, ma quello che si pregustava con
maggiore entusiasmo era l'inaspettato, le presentazioni in cui veniva esaltato
l'aspetto teatrale o, nella peggiore delle ipotesi, lo stravagante. I cuochi e i
loro signori si appassionavano agli esperimenti con il colore e specialmente
col trompe l'oeil, l'arte di far sì che un piatto appaia a prima vista come
qualcosa di completamente diverso da quel che è: come nel caso delle
"mele" verdi a base di carne che abbiamo già incontrato. Con un'ingegnosità
di più alto livello, le uova in quaresima consistevano di gusci d'uovo svuotati
del loro contenuto (proibito in tempo di Quaresima) e riempiti di latte di
mandorla, per il bianco, e da cannella mista con zafferano a imitazione del
tuorlo. Lo storione poteva essere preparato in modo tale da sembrare vitello,
la carne cotta poteva apparire cruda, con l'uso del sangue di lepre seccato e
ridotto in polvere. I volatili come i fagiani e le anatre selvatiche potevano
venire cotti e poi coperti di nuovo dal piumaggio originale e quindi serviti,
pronti per essere mangiati, ma a prima vista ancora vivi. Trucchi del genere
40
non mancano neppure nel nostro tempo, ma di solito si impiegano per
camuffare gli ingredienti di basso costo, rendendoli simili a quelli più pregiati,
come nel caso della falsa anatra cinese (fatta con fagioli cagliati) e il pezzo
forte della Depressione in America, la finta torta di mele, fatta di cracker Ritz.
Alle frontiere della cucina contemporanea, si realizza talvolta il processo
inverso e, in uno stile più affine a quello medievale, qualcosa di costoso viene
preparato in modo da apparire più modesto: a El Bulli, il celebre ristorante di
Ferran Adria in Catalogna, il foie gras viene congelato e poi ridotto in polvere,
per somigliare all'umile grano quinoa dell'America Latina (e servito col brodo).
Il colore, la forma, la spettacolarità venivano tenuti in gran conto, esattamente
come il sapore e l'odore. In buona parte, il piacere dei pasti eleganti e la
prova dell'abilità dei cuochi si fondavano sul livello di elaborazione e di
spettacolarità sorprendente con cui i piatti venivano presentati. La varietà e la
brillantezza dei colori erano stupefacenti. Come si è visto, alle torte salate di
carne di maiale veniva data una tinta dorata (venivano "dorate"), grazie
all'uso dello zafferano, importante anche per il sapore. Il giallo, un colore che
veniva giudicato obbrobrioso se si trattava di vestiti, appariva invece
desiderabile per gli alimenti. Il modo più grandioso per dare al cibo una
doratura era quello di avvolgerlo in lamine d'oro: da qui la richiesta di mastro
Chiquart di quegli 8 kg di foglie d'oro per il banchetto di due giorni di cui parla
nel suo manuale. Fra le sue grandi presentazioni, c'è un entremet che
consiste in una testa di cinghiale servita insieme ai piedi dell'animale e
accompagnata da un lato da salsa verde, dall'altra coperta da una lamina
d'oro. Questo piatto, simile a un'insegna araldica, mentre veniva portato in
tavola doveva emettere un soffio infuocato, grazie a uno stoppino acceso
inzuppato nella canfora30. Anche il rosso veniva considerato un colore
elegante per gli alimenti. Una spezia nota come il legno rosso di sandalo (un
cugino insapore del sandalo giallo aromatico) era usato per quei piatti
"saraceni" che, come abbiamo già visto, avevano ben poco a che fare con la
vera cucina araba. La moda, per quello che riguardava i colori, cambiava e
anche i piatti più rinomati erano soggetti a revisioni nel corso del tempo.
Sembra che la mamonia fosse colorata di indaco acceso nel 1325, di giallo
nel 1380 e di arancione tendente al rosso nel 1420. I lete lards, fette di crema
pasticcerà fatte col lardo, si presentavano in tutti i colori immaginabili o,
almeno, realizzabili. Un grande sforzo era necessario per la preparazione di
un piatto altamente spettacolare molto diffuso, in cui l'amore per la difficoltà
tecnica si univa a quello per l'esibizione: il "pesce cotto in tre modi e in tre
colori". Grazie a un'abile manipolazione, e mantenendo il pesce sempre
41
intero, la sezione della coda veniva bollita, mentre la parte centrale era
arrostita e la testa fritta. La porzione bollita doveva essere coperta con salsa
verde, mentre a quella centrale arrostita si aggiungeva una salsa arancione.
La testa fritta nuotava nella cameline, la salsa color cammello. Qualche volta
anche il pesce, nel momento in cui veniva portato in tavola "respirava fuoco".
Le paste commestibili potevano essere scolpite per assumere la forma di
animali o oggetti. "Istrici" glassati (che in Inghilterra venivano chiamati urchin,
cioè ricci, come quelli marini) fanno la loro comparsa in molti menu e manuali
di cucina. Consistevano di una base di carne, con cui si farciva uno stomaco
di pecora, al quale poi si dava la forma di un'istrice. Sul retro venivano
attaccati e allineati pezzi di mandorle (talvolta colorate con tinte diverse),
fornendo al tutto quello che a un osservatore moderno potrebbe apparire la
riproduzione di un piccolo stegosauro più che di un'istrice. Un'altra
lavorazione comica era il "Coqz Heaumez", un gallo arrosto collocato, come
se lo stesse cavalcando, su un porcellino da latte glassato in arancia (vedi fig.
17). Secondo la ricetta del Viandier di Taillevent, il pennuto dovrebbe reggere
una lancia con una bandiera e indossare un piccolo elmo di metallo31. Un
entremet commestibile nella forma di un castello con quattro torri, descritto da
mastro Chiquart, rappresenta bene l'altezza cui potevano giungere nel
Medioevo il culto dell'artificio culinario e l'amore per gli effetti speciali
divertenti. In cima a una delle torri c'è un luccio, preparato secondo la ricetta
che abbiamo ricordato: cotto in tre modi e con tre diversi colori. Una testa
glassata di maiale, un porcellino glassato e un cigno spellato e rivestito
presidiano le altre torri. Tutti, è quasi inutile dirlo, dovevano "respirare fuoco".
Nel cortile della fortezza, Chiquart piazzava una "fontana dell'amore" con un
getto di acqua di rose e vin brulé. Un'oca ammantata di penne di pappagallo
era collocata accanto alla fontana. Sulle mura, lungo la merlatura, v'erano
figure scolpite in carne e pasta di fagioli, raffiguranti, fra l'altro, cacciatori,
corna, cervi, aragoste, "istrici", delfini e balestrieri.
42
tutto l'apparato con cui tradizionalmente si organizzavano i banchetti. Il
castello di Chiquart, per esempio, ha bisogno di spezie per il vino che scorre
dalla fontana dell'amore, per la base di carne con cui si fanno gli istrici e per
tutti gli altri personaggi che compaiono sulle sue mura. Le salse del pesce
cotto in tre modi sono essenzialmente spezie ed erbe, addensate da pezzi di
pane. I grandi pasti offerti dai personaggi importanti dovevano impiegare le
spezie, sia in virtù di un'effettiva preferenza per i cibi piccanti, sia per il
bisogno sociale di esibire un chiaro segno di status. Le spezie erano
lussuose, esotiche, straniere e costose. Erano attributi di grazia e
sofisticatezza, ma stimolavano anche il piacere dei sensi. Solo un
attaccamento reale, fisico, basato su un intenso piacere del gusto, può
giustificare il fatto che le spezie siano rimaste un oggetto di consumo di gran
moda per tanti secoli. È però anche innegabile il loro ruolo nel rimarcare il
rilievo sociale e il livello dello stile di vita di quanti potevano consumarle. Le
spezie erano uno dei molti segni distintivi dell'appartenenza di classe, come i
modi, i vestiti, il linguaggio, il portamento e la prestanza fisica. Quando
prendiamo in considerazione le spezie e altri aspetti della gastronomia
medievale, ci riferiamo soprattutto al gusto di coloro che vivevano
nell'abbondanza, a gente che usava il cibo per distinguersi dalla massa dei
comuni mortali o anche da coloro che si limitavano a godere di una modesta
fortuna. Ogni cultura dispone di una gerarchia alimentare, che destina alcuni
cibi alle classi superiori e deprezza gli altri, come testimonianza di cattivo
gusto, povertà e ignoranza. Una famiglia moderna che abbia una minima
pretesa di vedersi riconoscere buon gusto assai difficilmente servirebbe ai
suoi ospiti bastoncini di pesce e fagioli in scatola. Ci sono alcuni cibi che
godono di un prestigio perenne: per esempio tartufi, aragoste o caviale, che
in genere sono prodotti costosi e molto richiesti. Tra gli alimenti tendono a
stabilizzarsi certe distinzioni - il prosciutto cotto in scatola è sempre stato
meno prestigioso di quello della Foresta Nera o dello Smithfield - ma qualche
volta le mode e i segnali distintivi dell'appartenenza di classe sono sottoposti
a bruschi cambiamenti. Gli organ meats, la carne delle interiora e dei tagli
meno pregiati, per esempio, negli Stati Uniti sono stati a lungo un cibo da cui
ci si teneva lontani, perché la classe media lo giudicava un alimento da
poveri, ma oggi ristoranti eleganti come Babbo a New York e St. John a
Londra ne hanno fatto un emblema di grande competenza culinaria. I
cosiddetti comfort foods, i cibi pronti, come il polpettone e il purè di patate,
hanno vissuto un momento paradossale di gran voga, quando negli ambienti
più sofisticati e blasé si è riscoperto il buon cibo casalingo degli anni
43
Cinquanta. Di norma, comunque, i confini che separano la cucina dei
benestanti da quella dei poveri sono stabili e nettamente delineati.
Nell'Europa medievale, i cibi che conferivano maggior prestigio erano le
carni, la cacciagione e il pesce. C'erano categorie di alimenti consumati sia
dai contadini sia dai nobili, ma la diversità di status veniva chiaramente
segnalata dalla loro qualità, o da quella che veniva percepita come differenza
qualitativa, rappresentata nel modo più evidente dal consumo di cereali. Il
pane bianco di farina era l'unico tipo di pane che in genere risultasse
accettabile per le classi alte. I contadini assai raramente consumavano pane
di questa sorta ed era molto più probabile che si dovessero arrangiare con la
segale, l'orzo, il miglio, l'avena o qualche altro cereale di minor valore e
finezza, panificato oppure, nella versione più povera, in forma di zuppa.
Anche i latticini erano considerati cibo da contadini. L'idea che l'elite si faceva
delle condizioni dei villici si può cogliere nel coro di una canzone scritta al
tempo della grande insurrezione dei contadini fiamminghi (tra il 1323 e il
1328), secondo la quale i contadini crescono e prosperano con latte cagliato,
pane e formaggio. Qualsiasi altro cibo li renderebbe incapaci di lavorare32. In
effetti, però, se si risale al Duecento si trova anche qualche formaggio che
veniva giudicato un cibo raffinato. Brie, Comté e Roquefort godevano già del
prestigio sufficiente per essere noti fuori delle loro regioni d'origine, ma è solo
nell'Italia del Quattrocento che si trova un esame ragionato dei formaggi
rivolto a un pubblico di gourmet. Nel testo di Pantaleone da Confienza, una
"summa" sui prodotti che si ricavano da latte, il formaggio appare per la prima
volta come una prelibatezza degna di commento e classificazione33. Un altro
cibo comune che si ritrova assai raramente alla tavola dei grandi signori
erano i salumi o qualunque carne fosse stata salata, essiccata, affumicata,
posta in salamoia, per accrescerne il sapore e prolungarne la durata. Anche
se per preservare la carne si fossero usate delle spezie (il che non
accadeva), gli alimenti così prodotti, che oggi sarebbero considerati delle
ghiottonerie, sarebbero stati allora considerati irrimediabilmente rustici, o
tutt'al più accettabili per la gente di medio ceto. Anche se oggi si dedica una
grandissima attenzione ai vari tipi di prosciutto iberico, italiano e tedesco,
come il jamóm jabugo, il Bùndnerfleisch, o il prosciutto, tutti questi prodotti in
origine erano stati pensati per conservare la carne durante l'inverno e non
incontravano quindi il favore di chi disponeva delle risorse per concedersi
carne fresca anche nei mesi più duri. Si pensava che i salumi venissero
soprattutto consumati dai cittadini più prosperi (mercanti e affini) o dai
contadini benestanti. Sembra che in ogni silografia tardomedievale o
44
rinascimentale in cui viene raffigurata una festa di nozze in campagna (ce ne
sono molte), gli ospiti stiano inghiottendo salsicce, mentre accanto a loro un
cane sta scappando, con in bocca una lunga fila di salsicciotti strappata dalla
tavola. La frutta costituisce una categoria a parte. La frutta essiccata e
zuccherata era tenuta in grande considerazione, specialmente quella
conservata in sciroppo di zucchero o trasformata in marmellata o pasta dolce
(simile alla cotognata liscia che si trova oggi in Spagna, il membrillo, o
all'apricot leather mediorientale). Un trattato catalano interamente dedicato a
queste "confetture" contiene istruzioni per la lavorazione con lo zucchero di
mele cotogne, mele, datteri, pinoli, mandorle e così via34. La frutta poteva
anche essere cotta o arrostita, ma la frutta cruda, in genere, si doveva
evitare. Per consenso comune dei medici tutta la frutta era pericolosa, a
meno che non fosse stata cotta o zuccherata, perché si riteneva che per il
nostro corpo fosse impossibile riuscire a digerirla completamente. Si temeva
quindi che potesse andare in putrefazione quando si trovava nello stomaco e
causare così una malattia all'organismo. Qualche volta le ciliegie e i frutti di
bosco si potevano mangiare anche freschi ed è pure probabile che la frutta
che si poteva mangiare in questo modo fosse più numerosa di quello che ci
mostrano i libri di cucina e i menu. Nel Quattrocento i meloni erano di moda in
Italia, ma i medici si opponevano a questa tendenza pericolosa,
considerandoli una frutta particolarmente portata a imputridire nello stomaco.
Alla fine fu l'approvazione del gusto popolare a spazzare via obiezioni come
queste35. I segni più vistosi di abitudini alimentari contadine erano i vegetali,
ancora più dei latticini o dei salumi e delle salsicce. Possiamo anche
supporre che, come nel caso della frutta, i nobili e i ricchi delle città
mangiassero più verdure di quello che le nostre fonti ci fanno vedere, ma non
ci sono dubbi sul fatto che la dieta delle classi superiori fosse decisamente
sbilanciata a favore della carne e delle proteine. Sulla base di 1.466 ricette
ricavate da vari manuali medievali, si è calcolato che solo 48 di queste, cioè il
3,3%, prevedevano la presenza di vegetali (fagioli inclusi)36. Tra le verdure le
radici dall'odore forte, come le rape, le cipolle e la pastinaca, erano oggetto di
un particolare disprezzo, perché considerate tipiche della dieta dei poveri
delle campagne. Il biografo di Odilone di Cluny, monaco del X secolo, ricorda
di essere stato rampognato dal santo, nel corso di un loro viaggio a Roma,
perché si manteneva ostentatamente a distanza da uno dei pellegrini del loro
gruppo, che recava con sé una provvista di cibo dall'odore sgradevole e forte
che conteneva, fra l'altro, aglio e cipolle troppo mature. Sono molti gli
elementi che segnalano il degrado della vita dei contadini, a parere di quelli
45
che sono loro superiori: gli abiti inzaccherati, i tratti volgari del viso, la
sporcizia, ma anche quello che mangiano. Un poema comico tedesco del
Duecento racconta del giovanotto di un villaggio, molto popolare con tutte le
ragazze; la sua spavalda sicurezza viene però ben presto frenata, quando
sposa una donna che lo rimprovera e lo tormenta. Il segno emblematico della
sua condizione di servitù è l'alta considerazione da lui nutrita per una dieta di
cavolo e rafano. Tra le espressioni denigratorie utilizzate contro i contadini ce
ne erano molte che prendevano di mira la loro misera alimentazione:
"mangiarape" in Germania, "mangiapiselli" in Francia. Secondo l'opinione
della gente dabbene, non si trattava solo del fatto che i contadini si dovessero
adattare a un cibo sgradevole: il problema era che piaceva loro davvero e
che non riuscivano ad apprezzare il cibo decente, anche quando avevano
l'opportunità di consumarne. C'è una novella francese su un prospero
agricoltore che arriva a sposare una donna di condizione sociale superiore
alla sua. La sua nuova moglie borghese prepara varie prelibatezze, ma il
marito, fedele alle sue origini contadine, trova che questo cibo raffinato non è
adatto a lui. La moglie, quando capisce la causa del suo disagio, cambia i
menu familiari e comincia a servire fagioli, piselli e pane inzuppato nel latte. Il
marito si sente molto meglio e diviene decisamente più affabile nei suoi
confronti. Questo è il nutrimento appropriato per gli appartenenti alle classi
lavoratrici, anche quando riescono a sollevarsi oltre le loro origini. Le spezie,
preferite dalle persone distinte, erano potenzialmente pericolose per la gente
di basso ceto, o almeno così credevano i ricchi e potenti. Un'altra storia
comica francese ha come protagonista un contadino che sta guidando un
carretto di letame attraverso il centro di Montpellier, uno dei più famosi
empori europei delle spezie. Mentre attraversa il mercato delle spezie, quel
semplice campagnolo è sopraffatto dagli strani profumi aromatici e stramazza
a terra come morto. Tutti gli sforzi di farlo rinvenire falliscono, finché a uno dei
presenti non viene l'idea brillante di mettergli sotto il naso qualche palla di feci
di vacca. Immediatamente riportato in vita dal confortante odore di casa, il
contadino riprende la guida del carro e lo porta via, permettendo al traffico di
tornare a scorrere liberamente37. In realtà, però, sappiamo che, proprio al
contrario di quello che trasmette questa immagine del villano gettato nella più
totale confusione dalla spezie, i contadini, quando se ne presentava
l'opportunità, usavano le spezie d'importazione, non solo l'aglio e le erbe, per
aromatizzare il loro cibo. In Inghilterra c'erano spezie in vendita per una
clientela in gran parte rurale, anche in villaggi molto piccoli38. Per la gente
comune il pepe era di gran lunga la spezia favorita ed era anche la più
46
economica che fosse possibile trovare. La sua popolarità si diffuse a tal punto
che nel Quattrocento finì per assumere il ruolo di condimento preferito per i
ceti bassi e si trovò così esposto al rischio di perdere la sua posizione di
gusto di alta classe. Un autore di testi medici di quell'epoca affermò che il
pepe era un condimento adatto ai villani39. Nelle ricette del Viandier di
Taillevent, il pepe ha un ruolo inferiore allo zenzero e ai grani del paradiso,
più costosi e prestigiosi. Nella poesia di Eustache Deschamps, un francese
morto del 1404, moralista, viaggiatore, diplomatico e poeta di corte, il pepe è
un segno di rusticità contadina quanto gli ortaggi. Si lamenta delle trattorie nel
paese, nelle quali tutto quello che si trova da mangiare è roba disgustosa
come il cavolo e il porro stagionati con pepe nero40. Tutto ciò dà più
informazioni in merito al variare della moda del pepe, e alla sua
destabilizzante disponibilità, che non sui modi del suo impiego. Le smisurate
quantità di pepe importate nel Quattrocento ne mostrano la persistente
popolarità in tutte le classi sociali, ma c'è una connessione tra il prezzo degli
alimenti e il loro prestigio. Nel Novecento la carne di pollo, quando il prezzo
cominciò ad abbassarsi, cessò di essere un lusso destinato alle occasioni
speciali e finì per riassumere in sé l'immagine di un cibo tipicamente
ordinario. In generale, i generi di prima classe perdono molto del loro
splendore se la gente comune riesce a procurarseli con una certa facilità, una
carta di credito accreditata del titolo "gold" non significa niente se chiunque è
in grado di possederne diverse. Anche se alcuni cibi rimasero rigidamente
relegati a una categoria di livello inferiore, e quindi fuori questione per i palati
più riccamente nutriti, era sempre possibile condire gli alimenti preferiti dalla
plebe, indulgendo a quelli che potrebbero essere considerati gli equivalenti
medievali dei nostri comfort foods. Un manuale di cucina napoletano del
Quattrocento presenta una ricetta per degli umili baccelli, resi un po' più
sofisticati dall'aggiunta di spezie e zucchero. Questo era a stento passabile in
Italia ma, nelle versioni settentrionali del libro, la ricetta venne esclusa. Fra gli
altri esempi di accettazione o di trasformazione degli ingredienti più comuni e
modesti troviamo formaggi e qualche altro piatto, come la già ricordata
cretonnée di piselli novelli41. Se ci concentriamo sui consumi della gente di
ceto più elevato, dobbiamo operare ulteriori distinzioni tra ciò che veniva
ritenuto semplicemente ammissibile e ciò che era giudicato veramente
desiderabile. Alla carne, eccettuata la cacciagione, non veniva attribuito di
per sé un eccezionale prestigio. La carne di manzo, contrariamente a quello
che ci si potrebbe aspettare, non era un cibo particolarmente richiesto, anche
se certo restava rispettabile. La carne di maiale era importante nella
47
alimentazione di tutti coloro che disponessero di beni e fortune in misura un
po' più che semplicemente discreta (ne danno testimonianza tutti i maiali e i
porcellini da latte sterminati per l'insediamento dell'arcivescovo di York), ma
la carne salata di maiale, largamente usata dalla gente comune e da quella
che si fermava a un grado di prosperità senza grandezza e pretese, era
interdetta ai ceti superiori. D'altro canto, tutti i tipi di pollame erano accettabili,
anche se fra di essi vigeva una precisa gerarchia. Volatili domestici comuni
come le galline vennero consumati in gran numero al banchetto
d'incoronazione del re Riccardo III (dove però vennero senza alcun dubbio
dorati) e anche al banchetto di Neville. I capponi occupavano la prima
posizione nella gerarchia del pollame domestico. Tra la selvaggina e tutti gli
altri volatili non domestici, erano estremamente apprezzati quelli più grandi e
vistosi, come i pappagalli e i cigni. La considerazione in cui veniva tenuto il
pappagallo era tanto grande che la sua carne era ritenuta quasi incorruttibile
e insomma tale da non richiedere alcun intervento per la sua conservazione,
secondo un'antica opinione che risale fino alla parola autorevole di
sant'Agostino. Il pappagallo si identificava col coraggio ed era quindi il cibo
più essenzialmente appropriato per il nutrimento degli ardimentosi, secondo
quanto viene affermato in un famoso poema, in cui i cavalieri che partecipano
a un banchetto promettono di compiere grandi gesta nel nome del pennuto
disteso su un piatto dinanzi a loro42. Gli uccelli che venivano più spesso
considerati il sostentamento naturale della nobiltà erano le pernici. Nel 1404,
per esempio, ser Lapo Mazzei, un notaio di Firenze, scrisse al grande
mercante Francesco di Marco Datini ringraziandolo del dono di alcune
pernici, ma ricordandogli che quegli uccelli erano in effetti un cibo troppo
elegante per un uomo della modesta condizione sociale di un Lapo Mazzei. È
anche vero che un tempo Lapo era stato membro del corpo che governava
Firenze e quindi era stato allora non solo suo privilegio, ma suo dovere
mangiare le pernici, che adesso, tornato alla condizione di uomo comune,
risultavano per lui inappropriate. Per le persone di estrazione veramente
bassa, poi la pernice poteva anche risultare assolutamente nociva sul piano
della salute fisica. Un medico di Bologna, in un trattato sull'alimentazione,
sostiene che i villici se la passano veramente male se capita loro di
assaggiare carne di pernice. I nobili, d'altro canto (a quanto sosteneva
Florentin Thierriat, esperto nelle regole dei gusti aristocratici), mangiavano
più pernici di coloro che nobili non erano "e questo ci dona un'intelligenza e
una sensibilità più sottili di quelli che mangiano manzo e maiale"43. Che cosa
accadeva se, ad onta di tutte queste avvertenze, la gente di rango mediocre,
48
ma con buone risorse finanziarie, cominciava a richiedere pappagalli e
pernici, violando le presunte naturali preferenze alimentari del proprio ceto
sociale? Durante tutto il Medioevo, ma in modo particolare verso la sua fine e
agli inizi della modernità, i governi si sforzarono di porre un limite
all'ostentazione e allo spreco esibitivo della ricchezza, specialmente da parte
di quelli che venivano giudicati come nuovi ricchi e che quindi non derivavano
dalla tradizionale nobiltà del lignaggio il privilegio di indulgere in questi
comportamenti. Questa legislazione sui consumi nasceva in parte anche dal
timore che si scatenassero forme rovinose di competizione, ma un ruolo più
importante vi veniva giocato dall'angoscia che finissero per erodersi i confini
che definivano le gerarchie sociali e dal desiderio di prevenire la decadenza
morale che già si cominciava a intuire nel consumo indiscriminato dei generi
di lusso. La maggior parte delle regolamentazioni emanate dalle città e dagli
stati ha a che fare con le vesti: quali gioie potessero essere indossate (o, per
essere più precisi, non dovessero essere indossate) dalle diverse classi. Una
particolare attenzione veniva pure dedicata alle guarnizioni in pelliccia e alla
seta. Ma venivano anche presi in considerazione i banchetti e i piatti che vi
venivano serviti, per proibire ai ceti inferiori l'ostentazione inappropriata di
creazioni culinarie simbolicamente superiori a quello che la condizione
sociale consentisse (da qui le preoccupazioni di ser Lapo sulle pernici che gli
erano state regalate). I regolamenti suntuari inglesi del 1517, per esempio,
permettevano ai cardinali di servire nove piatti in un singolo pasto, mentre
coloro le cui proprietà garantivano un reddito annuo compreso tra le quaranta
e le cinquecento sterline dovevano limitarsi a soli tre piatti. In queste
regolamentazioni si manifesta un'attenzione ossessiva rivolta al consumo del
pollame e alla qualità e alla precisa quantità dei volatili che era consentito
servire in tavola in ogni portata. Per la gru, il pappagallo o il cigno il limite
inderogabile era un solo capo. In aggiunta, ai cardinali erano consentiti sei
uccelli di lusso più piccoli (pernici e picchi), mentre altri signori dovevano
limitarsi a quattro. La nobiltà secolare, però, poteva sempre consolarsi con le
quaglie, sino a otto, e con le allodole, che potevano arrivare sino alla dozzina.
Tutto questo può dare l'impressione di essere un po' troppo severo, ma non è
molto probabile che queste regole venissero rigidamente rispettate in tutte le
occasioni. In questa legislazione ci si aspetterebbe di trovare delle regole più
severe anche per l'uso delle spezie, ma questo invece non era un argomento
trattato con particolare attenzione. La spezie erano importanti come generi di
moda, oggetti di consumo esibitivo, ma era più facile controllare la gioielleria
e gli abiti, oppure, nell'ambito dell'alimentazione, il contenuto delle portate
49
principali, che l'acquisto delle spezie, per quanto fossero costose. Quello che
è importante è soprattutto mettere in evidenza come la passione per le spezie
non fosse confinata ai livelli sociali più elevati; non era in alcun modo
confinata nelle corti regali o principesche. Inoltre, non si trattava di
un'infatuazione passeggera, destinata a durare solo pochi anni o qualche
decennio. La popolarità delle spezie e della cucina piccante e fortemente
saporita iniziò a estinguersi solo molto dopo la fine del Medioevo.
50
padrona di casa alle sue future figlie (Prologo, 4; 1, 6, 43 e 61). Il libro è una
specie di album che rappresenta l'assemblaggio pluridecennale di
conoscenze, come la serie di ricette, consigli, osservazioni, ritagli informativi
che un genitore moderno dovrebbe mettere insieme come dono di nozze per
la figlia o come sintesi delle esperienze della vita. Non era destinato alla
circolazione pubblica e quindi, privo di grandi abbellimenti o non gravato dalla
preoccupazione del giudizio dei posteri, rappresenta in modo realistico le
ambizioni di una famiglia prospera, ma di rango sociale non particolarmente
elevato. L'autore del Ménagier dovrebbe aver tenuto nella sua casa una
dozzina circa di servitori a tempo pieno. In occasioni particolari ne venivano
assunti degli altri, sicché, almeno nei pasti offerti per la celebrazione di feste,
come i banchetti per i matrimoni, ci dovevano essere tra le dieci e le venti
persone, impegnate nel solo servizio del pasto, in cucina e in sala. Questo
non è certo tipico di una vita semplice, ma in fondo non è neppure più di
quello che ci si doveva attendere da un uomo della sua posizione, secondo i
criteri in uso nel mondo preindustriale. Le ricette coprono poco meno della
metà del libro. Le precede una serie di consigli su vari temi, come la
valutazione della qualità e dell'età del pollame, le stagioni più adatte per la
trota e l'alosa, il modo migliore per uccidere galline e capponi. Nella parte del
ricettario sono anche comprese la presentazione di generi di lusso e di
preparazioni elaborate, tipiche delle corti, molte delle quali possono essere
derivate dai grandi testi di cucina come il Viandier, pur non essendo proprio
altrettanto complicate e spettacolari. Le pernici debbono essere servite con
una salsa di acqua di rose, succo d'arancia e vino. Compare anche il "cigno
rivestito delle sue piume", di difficile preparazione. I pollastrini possono
essere preparati in modo tale da sembrare pernici, ma questo non comporta
una particolare destrezza negli effetti di trompe l'oeil, basandosi sul trucco
abbastanza semplice di fare apparire più corte le zampe (2, 5, 241). Anche la
carne di manzo può essere preparata in modo da farla sembrare cacciagione
o orso (2,5, 86, 87 e 147). L'autore consiglia di pepare il cinghiale fresco e fa
sapere che per accompagnare il cinghiale salato è preferibile la mostarda (2,
5, 89), ma al posto della testa araldica di cinghiale abbiamo invece, più
modestamente, una testa di pecora, con una decorazione minimale (2, 5,
358). Non mancano i pesci aristocratici come la lampreda e lo storione, ma
nemmeno i modesti cavoli e le salsicce. L'autore rifiuta esplicitamente certi
piatti, perché troppo costosi o di preparazione eccessivamente lunga: niente
montone ripieno (non vale la fatica che richiede), né gli "istrici" (costo
eccessivo e un gran lavoro per un risultato modesto); nessuna gallina ripiena
51
e dorata, "che richiede una preparazione enorme e non è opera adatta per
uno chef di un borghese o di un semplice cavaliere, così la lascio da parte"
(2, 5, 364-66). In coerenza col suo rifiuto della pura ostentazione, l'autore del
Ménagier propone anche qualche suggerimento per risparmiare denaro,
come un condimento alla mostarda e alle spezie che è già stato usato per
aggiungere sapore all'ippocrasso (2, 5, 272). In nessun modo, però, l'autore
può essere considerato come il difensore coerente di una semplicità priva di
pretese. Una cena con ventitré piatti in sei servizi comprende salsicce, ma
anche pernice arrosto, cappone, anguille tritate e speziate, vitello, aiosa e
pàté d'anguilla e una portata finale di pere cotte, dragées speziate, noci,
cialde dolci e ippocrasso (2, 4, 28). Per un grande banchetto prevede
l'acquisto di salsa camelina e ippocrasso già pronti, ma anche grandi quantità
di zucchero, zafferano, due diversi tipi di zenzero, chiodi di garofano misti a
grani del paradiso e due etti e mezzo di cannella (2, 4, 55). Per altri pasti ci si
deve procurare polvere bianca di spezie (mezzo chilogrammo) e polvere
"fine" di spezie (due etti e mezzo). Se si pensa che nel sistema culinario del
Ménagier de Paris le spezie abbiano un'importanza eccezionale non si corre
il rischio di sbagliare. Quali che siano le modalità di risparmio suggerite
dall'autore quando si tratta di spezie, queste non devono mai mancare e anzi
se ne deve disporre di una buona quantità. La salsa camelina, ad esempio,
può anche comprarla già pronta, in qualche occasione, ma ne presenta due
versioni distinte, quella estiva e quella invernale. La sua salsa verde non è
una semplice preparazione di prezzemolo ed erbe, ma una mistura
complessa, composta da zenzero sottoposto a una leggera bollitura, grani del
paradiso e chiodi di garofano, ridotti in polvere assieme a maggiorana,
prezzemolo e acetosa. All'inizio del prologo della sezione del ricettario,
afferma compendiosamente "conosci le tue spezie" {cognoistre espices). Le
ricette impiegano circa venti spezie diverse, tra cui la galanga, i grani del
paradiso, la zedoaria e qualche altra fuori del repertorio usuale. Nelle sue
istruzioni per gli acquisti, l'autore del Ménagier ci fornisce una buona idea di
quali fossero le spezie di base e quelle preparate e i prodotti speziati che si
potevano trovare da un venditore di spezie {especier): delicatezze che
includono le melagrane, lo zucchero a cristalli di roccia, le noci candite, il
cedro e un dolciume popolare noto col nome di manus Christi (mano di
Cristo), un confetto bianco fatto di zucchero e zenzero, di consistenza soffice,
della lunghezza di un dito. Un altro mercante, che trattava specificamente le
salse, forniva la mostarda e la salsa camelina (2, 4, 59). Questi acquisti
venivano fatti, in occasioni speciali, per risparmiare tempo e fatica, non
52
perché fosse impossibile preparare questi prodotti a casa. L'autore, infatti,
presenta le ricette di tutte queste specialità, tranne la manus Christi. Il
significato del Ménagier è che l'autore si mantiene fedele alla tradizione della
grande gastronomia, rappresentata da Chiquart, Taillevent e gente del loro
calibro, anche nell'inclusione delle spezie sia nei piatti festivi sia in quelli
ordinari. La passione delle spezie non era solo una posa ostentata dal
ristrettissimo gruppo formato dall'elite ammessa nelle corti, ma piuttosto un
carattere essenziale dell'estetica culinaria del Medioevo. In quell'estetica si
bilanciavano le esigenze della salute e dell'equilibrio con quelle
dell'ostentazione e dell'adesione alle mode. Può sembrare strano, data
l'importanza che si attribuiva nel Medioevo all'ostentazione e a quello che, in
base agli standard odierni, potrebbe apparire un insieme di preferenze che si
traducono in un fastoso e pericolosissimo attacco contro la salute dei
commensali. Le ricette e i menu dei banchetti, però, si basano su un corpo di
conoscenze teoretiche e di regole pratiche di medicina che attribuiscono alle
spezie un ruolo sia nella preservazione della salute sia nella cura delle
malattie. Nel capitolo successivo si esamineranno le spezie nel loro aspetto
di protettrici dell'equilibrio del corpo umano, in particolare si esaminerà la
funzione che viene loro riconosciuta dalla teoria dei fluidi corporei, cioè degli
umori. Vedremo poi in che modo le spezie potessero essere considerate dei
medicinali per le capacità terapeutiche loro attribuite, quando l'equilibrio
ottimale del corpo umano era stato compromesso da una malattia. Il mondo
del cibo e del piacere sfuma nella preoccupazione per quello che veniva
chiamato "benestare", oltre che nella paura delle malattie. È una misura
dell'importanza loro attribuita nel Medioevo il fatto che le spezie fossero allora
contemporaneamente emblemi del piacere e della salute fisica, simboli
dell'esibizione lussuosa e, nello stesso tempo, anche medicine.
Capitolo secondo
64
disponevano di fontane di soda anche quando le bevande frizzanti erano
ormai totalmente distinte dai medicinali da cui erano originate. Per certi
aspetti, la proliferazione attuale della terapia con le erbe, dei vari tè e infusi di
prodotti botanici cui si attribuiscono proprietà calmanti, distensive e anche
rigeneranti e riequilibranti, rappresenta un ritorno all'ambiguità degli
insaporenti medicinali. Nel campo delle medicina, come in quello
gastronomico, l'importanza e l'utilità delle spezie e delle erbe erano colte con
grande chiarezza, ma era altrettanto acuto il senso della differenza che
esisteva tra le due. Le spezie erano giudicate "esotiche" dal sapere
tradizionale dei farmacisti, in quanto distinte dalle erbe indigene dell'Europa,
come il rosmarino, la borragine, la ruta o il timo. Sia le spezie asiatiche sia le
erbe indigene apparivano nei manuali di farmacopea e nelle raccomandazioni
dei medici. C'era qualche discussione sui loro rispettivi poteri. Le spezie
erano considerate più forti e certamente più prestigiose, ma non
necessariamente più efficaci. Un intero settore di ricette mediche tratta di
quelle che venivano chiamate Euporista (il titolo di un libro di Oribasio,
medico dell'imperatore Giuliano nel IV secolo), istruzioni per l'identificazione e
l'uso delle erbe comuni più efficaci. In ossequio alla teoria della sostituzione,
"quid prò quo", le piante locali possono rimpiazzare, sul piano delle loro
proprietà curative, i prodotti d'importazione. Oltre al loro valore come sostituto
delle spezie, le erbe avevano alcune proprietà loro proprie, che le spezie non
possedevano. Le erbe erano specialmente utili nella medicina femminile,
soprattutto quando si trattava di ottenere effetti considerati illeciti. Alla menta
romana, alla ruta e all'artemisia si attribuiva la capacità di prevenire il
concepimento e anche quella di indurre l'aborto. In questa categoria l'unica
spezia che figura è la mirra, il che è in contraddizione col fatto che le autorità
medievali la considerassero anche utile per favorire il concepimento13. Erano
le erbe, non le spezie, a costituire gli ingredienti attivi nelle pozioni cui ci si
affidava contro le maledizioni di streghe malevole o per rafforzare il potere di
sagge donne benintenzionate. Nel Roman de Tristan, la principessa irlandese
Isotta riceve da sua madre una pozione che deve assicurare un mutuo amore
col futuro sposo. La pozione contiene erbe, fiori e radici; quindi anche una
regina si affidava alle erbe europee, piuttosto che alle spezie d'importazione,
per produrre una bevanda magica. Le cose andarono male, perché un servo
inavvertitamente diede la pozione a Isotta prima che la donna incontrasse
l'uomo che le era predestinato, il re Marco. Così, invece che del re, Isotta
cadde fatalmente innamorata dell'emissario che lo rappresentava, Tristano,
sicché, anche se il matrimonio con Marco non andò molto bene (per usare un
65
eufemismo), non ci sono dubbi sull'efficienza della pozione, che agì proprio
come un incantesimo. Le erbe si rivelavano più versatili ed efficaci delle
spezie anche a un livello più sinistro, quello della preparazione dei veleni. Si
sapeva che l'aconito (l'elleboro), la cicuta e la digitale erano velenose, mentre
le spezie non presentavano questo rischio (anche se l'arsenico, citato nei
manuali medici come realgar poteva essere elencato tra le spezie nei
manuali dei mercanti)14. Sia le erbe sia le spezie contribuivano in larga
misura alla composizione di un gran numero dei rimedi descritti nei manuali
farmaceutici, la nostra più fruttuosa fonte d'informazione sulle medicine
medievali. Queste elencazioni di farmaci e dei loro effetti sono un genere di
scritti medici e botanici che risale sino al modello greco, stabilito nel I secolo
d.C. da Dioscoride, un medico che compose un accurato elenco di sostanze
utili sul piano medico, la maggioranza delle quali, anche se non proprio la
totalità, proveniva da piante. I successivi compendi di materiali medici, che
oggi sono spesso noti col nome di "erbarii", erano organizzati per tipologia
delle fonti originarie - animale, vegetale, minerale - o in ordine alfabetico o
con qualche altro criterio. Nella loro struttura base, questi manuali
consistevano di un elenco di ingredienti dotati di qualche proprietà
terapeutica, chiamati "semplici" per distinguerli dai prodotti più complessi che
risultavano dalla loro combinazione. Altro tipo di manuali, noti come
"antidotarii", fornivano ai farmacisti istruzioni sulla combinazione di questi
elementi base nella preparazione di farmaci dotati di molte e diverse
proprietà. Un terzo genere di manuali era formato da un tipo di opere in cui,
nella tradizione dell'Euporista, i costosi prodotti esotici venivano sostituiti da
erbe comuni. Tali libri, come per esempio il Thesaurus Pauperum (Il tesoro
dei poveri) di Pietro Ispano (che divenne papa col nome di Giovanni XXI)
miravano a mostrare alla gente comune, priva di competenze specifiche,
come rinvenire piante medicinali utili. Questo manuale contiene 526 semplici,
di cui 366 sono di origine botanica, 111 derivano da animali e 49 sono
minerali15. L'Europa medievale derivava buona parte della sua conoscenza
dei farmaci dalla mediazione degli arabi e dei bizantini, più che da una diretta
conoscenza dei testi greci. Gli arabi furono i primi a considerare l'attività del
farmacista come un mestiere, o un commercio, dotato di autonomia e distinto
dagli altri. Le conoscenze degli islamici arricchirono il testo di Dioscoride,
tanto che in uno dei trattati sui semplici di maggiore rinomanza, quello di Ibn
al-Baytar, si trovano elencate non meno di 2.324 sostanze. Agli arabi si deve
anche l'introduzione di nuove sostanze esotiche, sconosciute al mondo
classico, come l'ambra grigia e altri ingredienti affini ai profumi. Svilupparono
66
nuove tecniche nella preparazione dei medicinali, introducendo fra l'altro l'uso
dello zucchero e il processo di cottura degli sciroppi e del giulebbe (entrambe
queste parole sono di origine araba), dei canditi e degli elettuari. La scienza
islamica, inoltre, favorì la persistenza e la diffusione della teoria umorale, nel
corso di quella che è stata denominata la "nuova rivoluzione galenica". Tra il
XII e il XIII secolo vennero tradotti in latino circa 300 testi arabi di medicina16.
Tra gli elenchi medievali forniti di annotazioni, il compendio base di semplici
più largamente diffuso fu il già menzionato trattato latino Circa Instans,
attribuito a Matteo Plateario, composto verso il 1160 e successivamente
tradotto in francese come Livre des simples médecines. Il Circa Instans
elenca 270 sostanze, perlopiù estratte da piante. Mostra una preferenza per
le spezie e per altri prodotti esotici, ma concede un certo spazio anche a erbe
europee, come il prezzemolo, le peonie, il cipresso, le rose e la salvia. Tutte
le spezie più comunemente usate in cucina sono presenti nel Circa Instans:
l'autore ne descrive le proprietà umorali, il tempo di conservazione e gli usi
ottimali. Il pepe nero, per esempio, serve a liberare il torace dall'accumulo di
flemma (specialmente se cotto con fichi e vino) e a curare l'asma. Se
polverizzato, si può usare sulle piaghe. La cannella è utile in caso di problemi
digestivi come la "debolezza" di stomaco e fegato e nei cali di appetito.
Rinfresca l'alito e, se cotta nel vino, mantiene le gengive in buona salute. Per
i disturbi gastrici è efficace anche la noce moscata (fig. 2), specialmente se
cotta con vino e lentisco (la gomma resinosa dell'isola di Chio, che ha un
sapore un po' simile a quello dei pinoli). Mista a cumino, anice e vino, la noce
moscata serve anche a ridurre l'accumulo di gas intestinali e i dolori e la
flatulenza che ne conseguono Le spezie d'uso gastronomico servivano a
bilanciare meglio la dieta ed erano di per sé direttamente terapeutiche, ma, in
questo ruolo, erano ugualmente se non più importanti anche altri generi
esotici d'importazione che venivano utilizzati più come aromatizzanti che
come ingredienti. Si pensava che il loro aroma meraviglioso fosse un chiaro
segno della loro efficacia terapeutica e che servisse inoltre a produrre, con la
sua sola forza, un certo stato di benessere. Abbiamo già descritto alcuni di
questi prodotti aromatici, considerati spezie sia dai mercanti sia dai
farmacisti: resine come l'incenso, la mirra, il lentisco e il balsamo, insieme
alle quattro essenze animali profumate: ambra grigia (fig. 5), gibetto,
castorino (fig. 16) e muschio. I prodotti animali erano indubbiamente esotici.
Erano originari di terre molto remote e queste origini, lontane e curiose,
mostravano la complessità dell'ordine della natura, che nascondeva tali
prodotti aromatici e salutari nelle ghiandole e nelle secrezioni degli animali.
67
Queste due caratteristiche, la straordinaria fragranza e la provenienza
insolita, conferivano a queste sostanze un'aura quasi miracolosa di potenza
terapeutica, rafforzata dal loro altissimo costo. L'ambra grigia era ritenuta il
principale farmaco preventivo nei confronti della peste. In uno dei primi trattati
composti a seguito della catastrofe della Morte Nera nel 1348, un'epidemia
che uccise da un quarto a un terzo della popolazione europea, il medico
catalano Jacme d'Agramunt, rivolgendosi al re d'Aragona, si raccomandava
che delle pillole aromatiche venissero bruciate, come si fa con l'incenso, per
tenere lontana la malattia. Gli ingredienti delle pillole, destinate ai "grandi
signori", comprendevano ambra grigia, legno di aloe (da non confondersi con
la pianta comune conosciuta come aloe vera, che ancora oggi si usa in
prodotti come saponi e creme per le mani, fig. 3), la mirra, l'incenso, lo
storace, i petali di rosa essiccati e il legno di sandalo. La fragranza dell'ambra
grigia combatteva il fetido miasma che veniva allora considerato la causa
delle epidemie, specialmente della peste. In una relazione di carattere simile,
ma più esaustiva, redatta dopo la conclusione della Peste Nera, la facoltà di
medicina dell'università di Parigi raccomandava di portare con sé degli
ingredienti dall'odore gradevole in quelli che venivano chiamati "pomi
d'ambra" {pommes d'ambre, l'origine della parola inglese pomander, che
indica appunto questo tipo di contenitore). Si trattava di palle di metallo, cave
e provviste di un'apertura, che potevano essere riempite da combinazioni di
sostanze aromatiche, varianti in dipendenza delle ricette, delle disponibilità
delle sostanze e delle possibilità economiche di chi le usava. Le si poteva
facilmente portare con sé e accompagnavano quindi il proprietario, quando si
avventurava in strade pericolosamente infette, come non sarebbe stato
possibile con l'incenso medico. Lo house blend, la particolare miscela per i
pomander studiata dalla facoltà parigina, comprendeva storace, mirra, legno
di aloe, ambra grigia, macis e legno di sandalo. Ci sono ricette per questi
contenitori che prevedono combinazioni di aromi di una certa complessità.
Come capita spesso, però, i più elevati livelli di prestigio (e di presunta
efficienza) si raggiungevano con una quieta e costosa semplicità. Il re e la
regina di Francia, a parere dei dottori, avrebbero dovuto portare nei loro
preziosi pomi una massa di sola ambra Gli erbarii, oltre alle spezie
insaporenti e aromatizzanti, comprendevano anche un gruppo di sostanze
animali e minerali, ristretto, ma di grande impatto (fig. 5). Tali sostanze vi
compaiono come spezie, in virtù dell'alto costo unitario e delle origini
esotiche. I lapislazzuli, pietre semipreziose che nel Medioevo venivano
importate dall'Afghanistan, erano una presenza costante nelle guide
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farmaceutiche e venivano collocate tra le spezie nel libro della mercatura di
Francesco Pegolotti, insieme al "sangue di drago", al muschio e alla
mummia, come abbiamo visto prima. Una copia del Livre des simples
médecines, che si trova a San Pietroburgo, e un'altra conservata a Parigi
(probabilmente trascritta dallo stesso manoscritto originario) illustrano
l'importanza che si attribuiva alle sostanze non botaniche. In entrambe le
copie compare l'immagine di una bottega di farmacista, in cui gli scaffali
dietro il bancone sono riempiti da sostanze identificate da un'etichetta che
non sono rinchiuse in un vaso, come ci si potrebbe aspettare, ma sono
invece esposte nella forma originale. Sono in vista alcune sostanze botaniche
aromatizzanti, come lentisco, mirra, macis e prugne indiane essiccate
chiamate myrobolans, ma l'illustratore, il grande miniaturista francese Robinet
Testard, ha qui soprattutto messo in evidenza i rimedi che spiccano per
forme, colori, potenza d'impatto visivo, come il corallo, le cartilagini della
seppia, il vetriolo verde (zolfato di ferro), le perle, l'azzurrite, il vetro, l'urina
solidificata della lince (la piene de lynce, che si riteneva avesse profonda
affinità con l'ambra). La mummia viene presentata nella totalità della sua
massa, cioè nella sua forma "integra", un cadavere che riposa in una bara
aperta (fig. 4) Le gemme erano un altro tipo di oggetto non botanico di valore
(enorme valore, in questo caso), di provenienza esotica e accreditato di poteri
terapeutici. La forza occulta delle gemme e le proprietà curative che venivano
loro attribuite diedero origine a un intero genere di opere chiamate "lapidari",
in cui venivano catalogate le pietre preziose e le loro proprietà. I gioielli, come
le spezie, possedevano le qualità umorali del caldo, del freddo, dell'umido e
del secco. Le loro diverse colorazioni erano segno delle diverse forze che da
esse si irradiavano, in armonia con la diversità delle influenze planetarie in
astrologia. A parere di Marbodio, vescovo di Rennes in Bretagna e autore di
un lapidario dell'XI secolo, il potere delle pietre preziose somiglia a quello
delle spezie e delle erbe. Fra i gioielli d'uso medico erano compresi il topazio,
che leniva le emorroidi, e l'elitropia, che, tritata e mista a succo di melograna
era considerata benefica per gli occhi. Il cristallo nero, semiprezioso, veniva
ridotto in polvere e sparso poi in una stanza come fumigante per provocare
l'inizio delle mestruazioni (fornendo quindi un'assicurazione contro le
gravidanze non desiderate). Si utilizzava anche nei test di verginità e come
antidoto contro gli effetti di un incantesimo maligno20. Le perle erano
particolarmente importanti, perché erano meno dure delle altre pietre
preziose e potevano quindi essere frantumate e inghiottite per bloccare le
emorragie, riprendersi dopo un mancamento e alleviare la diarrea. Le perle
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ridotte in briciole erano anche utili per stimolare la montata lattea nelle madri
in allattamento21. Secondo un manoscritto tardomedievale erroneamente
attribuito a Arnau de Vilanova, una medicina che avrebbe assicurato la
perenne giovinezza, da prendersi due volte al giorno conteneva sia spezie
(ambra grigia e muschio) sia piccoli pezzi di materiali preziosi (perle, zaffiri,
rubini, corallo).
Il regime che deve essere osservato contro l'aria pestilenziale, in sette parti,
la prima delle quali tratta della purificazione dell'aria marcia e corrotta... I
grandi signori possono trarre beneficio da un profumo fatto dei seguenti
ingredienti: legno d'aloe e ambra grigia (due dramme [g. 3,5] ciascuno), la
mirra più selezionata e incenso puro (un'oncia), canfora, storace (un'oncia),
petali di rosa esssiccati (due dramme), legno di sandalo "Makassarene" e
foglie di mirto (un'oncia). Si polverizzi tutto più o meno insieme con resina
[lapadano nell'originale, cioè probabilmente una resina prodotta dal Cistus
creticus, che cresce a Cipro, a Creta e in Turchia, da non confondersi col
laudanum oppiato] o acqua di rose di Damasco in cui si sia dissolta della
canfora. Se ne possono fare pillole o pastiglie. Che le perle possiedano
proprietà terapeutiche può apparire del tutto assurdo a chi abbia una
mentalità orientata in senso anche modestamente scientifico, ma si tratta di
un'idea che resta ampiamente accettata, specialmente per quello che
riguarda la credenza che i cristalli possano curare certe malattie o migliorare
comunque l'umore o la profondità della percezione. Le sostanze che
emanano luci e bagliori sembrano trasmettere un'immagine di salute e
armonia. Solo uno dei molti esempi possibili: in un numero recente di una di
quelle riviste d'affari che si suppongono destinate a gente con i piedi per
terra, si propaganda un "sistema di microdermoabrasione" (scrub del viso), a
base di gemme triturate, che viene venduto con l'etichetta "Gemme della
salute" Tutte queste sostanze - piante, prodotti animali, gemme erano
"semplici" e potevano essere combinate per formare vari composti. I
farmacisti dovevano sapere come ridurre in polvere e mescolare gli elementi
semplici, in base alle prescrizioni dei medici e alla propria ingegnosità. Il
dosaggio e la miscelatura di questi prodotti aromatici era un compito tedioso
e finì per divenire uno dei simboli dell'arte e del lavoro dell'esperto di spezie
medicinali o gastronomiche, del farmacista e del cuoco. Il mortaio, uno degli
70
emblemi delle cucine medievale più sofisticate, è rimasto come simbolo
preminente dei farmacisti, così come la parola "ricetta" {recipe), nella
maggioranza delle lingue, serve a indicare sia le istruzioni destinate ai cuochi
sia le prescrizione per i farmacisti, in un richiamo alla somiglianza delle due
professioni sul piano concettuale. Le composizioni possibili venivano elencate
negli antidotarii, come l'Antidotarium Nicolai, un trattato del Duecento che
generò molte imitazioni ed elaborazioni. Nelle sue diverse versioni,
l'Antidotarium Nicolai fornisce da 110 a 175 rimedi ottenuti per composizione
di semplici. Un altro antidotario, composto da Armengaud Blaise intorno
all'anno 1300, elenca medicine, in un numero che varia da 49 a 73 (a
seconda dei diversi manoscritti), che ordina e distingue a seconda della loro
tipologia: sciroppi, elettuari, pillole e così via. Alcuni di questi composti danno
l'impressione di essere modi elaborati e costosi di lenire disturbi e fastidi
abbastanza banali. Una potio muscata, muschio e corallo marino in un
decotto d'anice e fichi secchi, serviva a lenire i disturbi prodotti dai gas
intestinali. Un altro noto come yera pigra abbatis combina aloe, lapislazzuli e
mela amara (colloquinta) ed è utile in caso di dolori di stomaco e malinconia.
Le pillole fatte di sangue di drago, sommacco e oppio sono buone per
l'insonnia La regina di tutti questi composti era la "teriaca", una vera panacea,
a causa del carattere straordinario del numero, della qualità e, in molti casi,
della particolare natura dei suoi ingredienti. La teriaca nacque in epoca
classica come antidoto al veleno e in seguito le venne attribuita la capacità di
curare e prevenire le malattie. Nel Medioevo la varietà di teriaca più famosa
veniva da Montpellier, sede di una delle scuole mediche più famose. La
teriaca di Montpellier non conteneva meno di ottantatré ingredienti, per lo più
prodotti aromatici d'origine esotica, e ogni anno si teneva una cerimonia nella
quale tutti questi ingredienti venivano pubblicamente esibiti e quindi
solennemente mescolati, per dare assicurazione a tutti che solo gli ingredienti
genuini venivano usati Sono "medicine" poco rassicuranti come queste ad
aver dato al Medioevo la sua reputazione di perversa stranezza, ma varrebbe
forse la pena di ricordare che la sperimentazione medica moderna ha
prodotto cose come il Byetta, un farmaco per la cura del diabete, di recente
approvazione, che si ottiene dal veleno del Mostro di Gila; il sangue del
granchio reale (che individua i batteri pericolosi per il funzionamento di certi
impianti medici, come le valvole cardiache artificiali) e la pelle di cadavere
(che nei trattamenti estetici viene utilizzata per distendere le rughe). Quello
che veramente rende diverso il Medioevo è che tutte queste spezie, gioielli,
pozioni ed elettuari erano sia generi di gran lusso sia medicinali. Le medicine
71
sono costose anche oggi, non c'è alcun dubbio, ma non c'è nessuno che lasci
una prescrizione medica molto costosa sul pianoforte o sul tavolino del caffè
per rendere note al prossimo la raffinatezza del proprio gusto e l'ampiezza
delle proprie disponibilità finanziarie. In alcuni circoli può darsi che si discuta
sulla qualità delle droghe con un esibizionismo da snob, ma, dato che si tratta
di prodotti illegali, è difficile che vengano pubblicamente esibiti. La medicina e
la soddisfazione personale possono congiungersi felicemente in specialità
come la chirurgia estetica o la medicina sportiva e c'è anche gente che parla
volentieri, o addirittura con entusiasmo, della propria psicoterapia, ma è raro
per noi che si ritrovi nella stessa categoria dei gioielli, dei vestiti,
dell'oggettistica alla moda o di altri beni di consumo. Nel Medioevo, invece, le
élite, anche nel mezzo di un'epidemia, non rinunciavano a esibire il proprio
status con oggetti preziosi come i bei contenitori d'essenze in argento e l'aura
frastornante e risanante dei profumi, degli incensi e dei medicinali che
potevano permettersi. Non esistevano confini che dividessero il benessere
dal lusso. Anche i romanzi cavallereschi creavano un'atmosfera
opportunamente aristocratica, ma anche seducente e misteriosa, con
l'evocazione di farmaci di gran lusso. Come si è già visto, a Percival, nel
Castello del Graal, furono servite medicine zuccherate (elettuari) e, dopo il
pasto, cordiali consistenti in composti medicinali. Nel poema cavalleresco
Girart de Roussillon, i principi di Francia si offrono di servire l'imperatore a
Costantinopoli e costui li tratta con grande dignità e considerazione. Per
ordine dell'imperatore vengono alloggiati presso la grande chiesa di Santa
Sofia e le loro stanze sono addobbate con drappi di seta e profumate con
fumigazioni di balsamo, chiari segni della generosità del sovrano e della sua
nobile prodigalità, "perché nessun altro principe poteva competere con la sua
ricchezza". Non pago, l'imperatore assegna loro altri doni, spezie, gemme,
pelli di zibellino, anelli, spille e vasi di balsamo e teriaca26. Persino la
mummia può essere un genere di consumo prestigioso ed elegante. Otello,
un moro che conosce bene l'Oriente, possiede un fazzoletto (in effetti è il
fazzoletto fatale donato a Desdemona) "intinto nella mummia". Proviamo a
scendere, dall'altezza da capogiro di questi oggetti esotici e preziosi, alla
modestia delle erbe locali, per cercare grazie anche all'aiuto di un effetto di
contrasto, di farci un'idea di quello che le spezie potevano e non potevano
fare. I dottori distinguevano le erbe e i prodotti esotici e riconoscevano che la
loro professione comportava che ai poveri venissero prescritte modeste erbe
locali e ai ricchi spezie raffinate e costose. In una poesia in latino dell'XI
secolo si legge: "in cambio di sole parole [di gratitudine], diamo erbe di
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montagna, ma per vera moneta raccomandiamo spezie ed essenze
aromatiche". Non è che le erbe fossero meno efficaci: dopo tutto, molti dei
composti farmaceutici contenevano sia erbe sia spezie e nei manuali
comparivano le foglie, le erbe e i fiori dell'Europa. A volte gli ingredienti
costosi venivano considerati più forti o più affidabili, ma il motivo per cui li si
considerava più appropriati per i facoltosi era solo il loro prezzo. Si può
vedere in questo anche un segno del desiderio dei medici di trarre profitto da
quello che prescrivevano, ma questo tipo di ingredienti era esattamente
quello che le élite si attendevano. Perché mai prescrivere la salvia, quando si
poteva ottenere il sangue di drago a un prezzo dieci volte superiore? Perché
si dovrebbe comprare un orologio da cinquanta euro quando un modello che
ne costa cinquemila è altrettanto preciso? Capitava che a volte i ricchi
rivelassero una pietà sprezzante davanti all'impossibilità dei poveri a
procurarsi le migliori medicine. Nel 1426, in una versione poetica delle
prescrizioni dei medici parigini contro la peste, il francese Olivier de la Haye
scrive che i poveri, che non possono permettersi la sfera preziosa di misture
raccomandata dalla facoltà di medicina, dovranno arrangiarsi con le
preghiere28. In genere, però, le erbe erano considerate sostituti "generici"
efficaci delle spezie e, come nel caso dei veleni e dei filtri d'amore, c'erano
cose per cui le erbe erano anche più efficaci. Un elenco del qui prò quo tra i
prodotti esotici e le erbe si trova in una lettera scritta nel 1147 da Wibald,
abate di molti importanti monasteri (Stavelot, Corvey e Monte Cassino) a un
amico colpito da un raffreddore. L'abate promette di inviargli una medicina
nota come dicalamentis (una mistura di comuni piante da giardino, come il
prezzemolo, l'erba gatta, il sedano di montagna, il sedano, la menta romana,
il timo selvatico e il finocchio. Assicura anche che il dicalamentis, "anche se
di basso prezzo, ha la stessa efficacia del diamargariton", un composto molto
più costoso di perle ridotte in polvere, chiodi di garofano, cannella, galanga,
aloe, noce moscata, zenzero, avorio e canfora Un altro esempio di
sostituzione si trova nelle direttive per un'operazione fornite da John Arderne,
un chirurgo inglese del Duecento che aveva perfezionato un trattamento per
le fistole anali, una condizione che nel Medioevo veniva considerata
particolarmente pericolosa. Una volta che si fosse aperta la fistola, il
problema era arrestare il flusso del sangue. Il chirurgo poteva impiegare gli
antiemorragici esotici più comunemente usati, come il sangue di drago, il bolo
armeno (una specie di terra gialla compattata) o l'aloe epatico. Poteva però
ricorrere anche a rimedi più casarecci: il sambuco nano o parietaria
of/icinalis, le penne di gallina bruciate o le polveri ricavate dal rogo di una
73
lepre avvolta in vecchi panni di lino. John dice ai chirurghi di utilizzare le
medicine più costose e "nobili" con l'aristocrazia, ma dice esplicitamente che i
prodotti locali agiranno altrettanto bene, se non meglio. In particolare
attribuisce al sambuco nano eccellenti poteri terapeutici. Nelle sue opere
John, basandosi sulla propria personale esperienza, spiega al lettore come e
dove cercare erbe nella campagna inglese. Ci si aspetta chiaramente che il
medico faccia rifornimento di una certa quantità di elementi botanici. Negli
ultimi stadi del recupero, dopo l'eliminazione della fistola anale, John
raccomanda l'uso di un composto medicinale chiamato sangue di Venere. La
varietà da giardino del sangue di Venere viene estratta da un'erba chiamata
alcanna o buglossa (Alkana tinctoria), ma c'è anche una mistura più rara,
destinata alla nobiltà, il cui ingrediente attivo è il sangue prelevato a una
vergine di diciannove anni, quando la luna si trova nella costellazione della
Vergine e il sole nei Pesci. Entrambe le misture sono efficaci, quale scegliere
dipende solo dalla posizione sociale del paziente30.
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che, in un mondo pieno di malattie potenzialmente letali, possono sembrare
disturbi di minore importanza. I manuali di farmacologia danno più importanza
alle emorroidi che al vaiolo, all'emicrania che alla peste. In parte questo
dipende dai limiti, implicitamente riconosciuti, delle prescrizioni mediche, al
fatto che i rimedi per il mal di stomaco o per curare piaghe e cicatrici avevano
un'efficacia relativa ma reale, diversamente dalle vane e pompose pretese di
guarire malattie che spesso erano letali. I problemi della gente che soffre di
mali fastidiosi ma non gravi sono, in certo modo, più importanti per chi
esercita la professione di medico, dal momento che sono proprio questi i
pazienti che sopravvivono e quindi possono ritornare. I dolori o le condizioni
che appaiono umilianti o che riducono in qualche modo l'autonomia fisica
delle persone provocano spesso un'attenzione maniacale, più del flagello
costituito da quei mali terribili contro i quali si può fare poco o nulla. Anche la
teriaca, la panacea universale, era ritenuta più efficace contro flussi e vapori
non specifici che contro i disturbi più gravi. Questo non significa che i trattati
sulla peste e gli altri tentativi di affrontare i peggiori flagelli ignorassero le
spezie e gli altri farmaci; è solo che dedicavano maggiore attenzione alla
prevenzione di queste piaghe che al loro trattamento. Contenevano più
indicazioni per tenere lontana la malattia che prescrizioni per curarla una
volta che la si fosse contratta e, a causa della teoria che individuava negli
odori fetidi (rilasciati magari da un terremoto verificatosi in qualche zona
remota) la causa dello scatenarsi di un'epidemia, i prodotti aromatici erano
mezzi ovvi di prevenzione. In genere, le spezie sembrano farmaci versatili,
ma non molto specifici. Sul fatto che fossero dotate di grande potere c'era un
consenso indiscusso, ma c'erano grandi variazioni nel modo di prescriverle e
di utilizzarle. Se ci si limitava all'obiettivo modesto di mantenere l'equilibrio del
corpo, le qualità calde e secche delle spezie erano chiaramente utilizzabili e
le regole per il loro uso, per quanto complesse, erano codificate. D'altra parte,
però, le spezie, anche se gli esperti medici paragonavano i poteri loro
attribuiti e gli effetti inesplicabili (in base alla scienza dell'epoca) da loro
prodotti all'azione attrattiva di un magnete, non sembravano essere poi così
sicuramente affidabili, come si può riscontrare nella molteplicità delle loro
varie e spesso contrastanti ricette. Questo è importante, non solo per
mostrare le deficienze della farmacologia medievale, oggi immediatamente
evidenti, ma per farsi un'idea di quello che la gente allora si aspettava di
ottenere, o sapeva di non poter sperare, dall'uso dei farmaci. Non ci si può
limitare all'ovvia risposta che le medicine curano o prevengono la malattia,
perché allora i farmaci non venivano usati solo per questo, ma anche per
75
creare una più generale e piacevole atmosfera di benessere. Per quanto
attiene al raggiungimento del benessere e alla protezione dalla malinconia,
ma non alla difesa dai disturbi potenzialmente letali, un ruolo prominente
veniva assunto dal rafforzamento del desiderio e dal trattamento delle
disfunzioni in campo sessuale. L'equilibrio degli umori influiva sulle
prestazioni sessuali, così come sugli stati d'animo e sulla predisposizione alle
malattie. L'impotenza poteva essere anche il prodotto d'un incantesimo o
dell'azione di altre forze sovrannaturali, ma l'indifferenza al sesso o
l'incapacità di dare piena soddisfazione al desiderio venivano in genere
attribuite a un'insufficienza di calore corporeo e a un corrispondente eccesso
di umori più freddi. Un caso eccezionalmente problematico era la malinconia,
perché rappresentava una combinazione di freddo e secco che deprimeva sia
il desiderio sia la fertilità. Secondo le teorie mediche era il calore a
caratterizzare fisicamente la spinta della pulsione sessuale, in un modo che
ancora oggi sopravvive nella forma metaforica in cui si parla del desiderio
come "ardente" o di una persona dotata di forte attrazione come "calda". In
modo simile si riteneva, con un ragionamento che aveva dell'analogia
istintiva, che l'umidità fosse associata alla fecondità e alla produzione di
sperma. Le spezie, ritenute secche e calde, erano quindi accreditate del
potere di rafforzare la potenza sessuale, però lo stimolante ideale doveva
essere umido, oltre che caldo. La zenzero, che presentava questa inusuale
combinazione, era probabilmente la spezia afrodisiaca di maggiore
importanza. In un trattato sul rapporto sessuale {De coitu), un monaco
benedettino nonché traduttore dall'arabo noto come Costantino l'Africano
(morto nel 1087) elenca diciotto prodotti farmaceutici, tra rimedi per problemi
sessuali e stimolanti per il miglioramento delle prestazioni, per la maggior
parte elettuari, con l'aggiunta di qualche unguento. L'inconsueta formazione
di Costantino, un cristiano dell'Africa settentrionale che conosceva bene
l'arabo, gli aveva dato la capacità di tradurre quelli che in origine erano stati
antichi testi greci, ignoti in precedenza nell'Occidente medievale, ma già
tradotti in arabo. Costantino tradusse anche trattati medici arabi originali,
come il compendio di Ibn al-Jazzar "provvigione per il viaggiatore e
nutrimento per il sedentario" (del 900 circa), che offre molte indicazioni per i
disturbi o le difficoltà sessuali degli uomini e delle donne. Può apparire strano
che un monaco di Monte Cassino, il primo monastero fondato da san
Benedetto, si sia dovuto occupare di un'opera sulla sessualità, ma il De coitu,
dopo tutto, si inseriva in una diffusa rinascita del sapere classico ed era
comunque rivolto a un pubblico laico piuttosto che al clero. Tutti i farmaci
76
rafforzanti la potenza sessuale che Costantino cita impiegano spezie, perché
le loro proprietà umorali servono a mitigare la freddezza che viene indicata
come la causa fondamentale dell'impotenza. Zenzero, cannella, chiodi di
garofano, insieme a varie erbe, vengono raccomandate in diverse
combinazioni. Un elettuario utilizzabile per l'impotenza dovuta a una natura
eccessivamente umida (che colpisce chi ha un temperamento malinconico o
flemmatico) contiene anice, pepe lungo, pepe nero, zenzero, cannella,
galanga, lentisco e liquirizia. E pure efficace una semplice combinazione di
chiodi di garofano e latte. Si avverte il paziente di astenersi dai cibi freddi,
come cetrioli, lenticchie, pesci e meloni, che riducono la produzione del seme
e deprimono il desiderio Il nome e la fama di Costantino non restarono
relegate nella relativa oscurità del mondo degli esperti in medicina. Nel
Racconto del Mercante nei Canterbury Tales, Chaucer menziona qualcuno
dei rimedi tipici per rafforzare l'energia sessuale. Come nel caso del chierico
goloso di Eiximenis, il personaggio che assume questi farmaci è visto con un
certo disprezzo, o almeno risulta patetico: il vecchio Gennaio del Racconto
del Mercante che sposa la giovane Maggio. Nella sua prima notte di nozze.
Gennaio si rafforza con vini speziati accompagnati da elettuari in base alle
ricette stilate da Costantino, che in quell'epoca aveva una reputazione un po'
dubbia.
Il nobile francese Jean de Joinville scrisse la storia della vita del re santo
Luigi IX, che regnò sulla Francia dal 1226 al 1270. San Luigi guidò due
crociate, il cui fallimento ebbe l'effetto di accrescere la sua aura di santità
anziché sminuirla. La prima si risolse in un attacco sul delta del Nilo, che si
concluse con la cattura del re nel 1243. Joinville descrive questa settima
fallimentare crociata e fornisce anche una breve descrizione dell'Egitto.
Secondo lui, il Nilo trascina nel suo corso le spezie giù dal paradiso terrestre,
dove il fiume ha origine. Questa collocazione delle sorgenti del Nilo è
convenzionale, si basa sul libro della Genesi (2,11-14), dove si dice che sono
quattro i fiumi che traggono origine dal giardino dell'Eden. Uno di questi è
chiamato "Geon" e, a cominciare dal commentatore biblico Jophephus, venne
identificato col Nilo. A parere di Joinville, le genti che vivono ai confini
meridionali dell'Egitto traggono profitto dall'origine del fiume: Prima che il
fiume entri in Egitto, la gente che è usa a questo lavoro getta le proprie reti
alla sera nelle acque del fiume e lascia che esse vi si distendano. Quando
giunge il mattino, costoro trovano nelle loro reti cose che sono pesate e
vendute e importate quindi in Egitto, come, ad esempio, zenzero, rabarbaro,
aloe e cannella. Dicesi che tali cose vengano dal paradiso terrestre, perché in
quel luogo celestiale il vento tira giù i rami degli alberi, come fa con la legna
secca nelle foreste delle nostre terre, e la legna secca degli alberi del
paradiso che in tal modo cade nel fiume è venduta a noi da mercanti in quel
paese21. Questa descrizione è ovviamente inesatta, ma è tipica di una lunga
tradizione di dotta sapienza. Come nel caso dell'odore della santità, che
91
giustificava l'utilizzo rituale dell'incenso, ci viene presentata l'idea che le
spezie evochino un altro mondo, o ne siano il simbolo, un mondo
trascendente e d'eterno riposo. Questa volta, però, non si tratta di un mondo
esclusivamente spirituale, ma di un mondo fisico, effettivamente presente
sulla terra, una località reale anche se magica e lontana. Il giardino dell'Eden
era il paradiso creato da Dio sulla terra per i primi esseri umani. Secondo
sant'Efrem di Siria (306-373), gli alberi dell'Eden (come quelli che si trovano
nel paradiso celeste) lasciano sgocciolare unguenti di mirabile fragranza. È
questa a fornire tutto il nutrimento necessario. Adamo non aveva bisogno dei
cibi comuni, perché veniva nutrito da questo profumo. Il poeta romano e
cristiano Prudenzio (348-405) descrive il paradiso come un luogo di balsamo,
nardo e "cinnamomo"22. Dopo l'espulsione di Adamo ed Eva, il giardino
divenne inaccessibile al resto della terra e ai suoi abitanti. Secondo una
leggenda, un angelo armato di spada fu posto a guardia del suo ingresso;
secondo un'altra, il paradiso venne circondato da mura impenetrabili o da una
barriera di fuoco (fig. 18). All'ambiente sono stati poi aggiunti altri ritocchi, per
scoraggiare chi intendesse visitarlo. Secondo Onorio Augustodunense (1080-
1137 circa), un monaco tedesco autore di una serie di opere enciclopediche
di larga diffusione, il paradiso terrestre è circondato da una vasta terra di
nessuno, arida e pullulante di bestie selvagge e serpenti. O forse è collocato
sulla cima di una montagna di inaccessibile altezza. Johannes Witte de Hese,
autore di un fantasioso resoconto su un viaggio in Oriente che avrebbe
dovuto aver luogo nel 1389, sostiene di aver visto le mura del paradiso, sulla
cima del "monte Edom", brillare nel cielo del tramonto come una stella23.
Oppure, come pensa Dante, ha sede sulla cima della montagna del
purgatorio, nell'emisfero meridionale. Il paradiso terrestre era intatto ma
disabitato, oppure con una popolazione limitata al massimo a due persone, i
profeti Enoch ed Elia. Nella Bibbia si dice che questi saggi uomini non sono
mai morti, ma sono stati condotti da Dio fuori dal nostro mondo. Elia venne
trasportato sul carro infuocato di Dio, mentre di Enoch fu detto che "fu
trasportato via, in modo da non vedere la morte e non lo si trovò più, perché
Dio lo aveva portato via" (4 Re 2,11-12; Gn 5,24; Eb 11,5). Non è possibile
che siano stati condotti nel paradiso celeste, perché nessun uomo ancora in
vita può risiedervi, sicché, in virtù di una sorta di processo per eliminazione, si
concludeva che Enoch ed Elia dovessero essere i residenti a lungo termine
dell'Eden, testimoni della fondamentale volontà salvifica di Dio. Questo
paradiso semideserto era pieno di piante aromatiche, ma non era però
ritenuto la sola zona di produzione delle spezie di tutto il mondo terreno. Se
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veramente tutto il traffico delle spezie fosse dipeso dai relitti arborei portati
giù con la corrente dai fiumi del paradiso, il rifornimento ai mercati sarebbe
stato ancora più ridotto di quanto già non fosse. Spezie erano prodotte anche
in altre parti dell'Asia, soprattutto in India, ma la ragione per cui fiorivano in
quei luoghi fortunati era la loro prossimità alla benefica influenza del
paradiso. Il paradiso è l'archetipo del regno magico in cui abbondano cose
meravigliose, specialmente quelle che sono rarissime in Europa, come le
gemme, l'oro e le spezie. Quando esaminiamo la forma assunta da queste
leggende sul paradiso delle sostanze aromatiche, rivolgiamo lo sguardo al
punto d'incontro fra santità e commercio: l'associazione delle spezie con la
bontà e la bellezza eteree si ricongiungeva qui a quelle che in definitiva erano
le concrete informazioni e teorie geografiche di cui si servirono i primi
esploratori europei. Le teorie sull'origine supposta delle spezie ci dà più
informazioni in merito alle concezioni medievali sull'ordinamento del mondo
che indicazioni corrette sulla loro reale area botanica di produzione. Il
giardino dell'Eden era tagliato fuori dall'esistenza terrena, ordinaria e
degradata, fatta di lavoro, malattia, decadenza e morte, ma qualche contatto
continuava a esistere tra quel mondo e il nostro, in virtù dei quattro principali
fiumi del mondo, che trovavano tutti la loro origine nel paradiso perduto. La
Bibbia dice che il Tigri, l'Eufrate, il Pison e il Ghicon sgorgano dall'Eden. Il
Ghicon era il Nilo, mentre del Pison si credeva che fosse il Gange o l'Indo. La
collocazione di questi fiumi era nota, o lo era qualche notizia sulle rispettive
posizioni, almeno quel tanto che bastava a far comprendere quando fosse
difficile che fiumi che si trovavano in Mesopotamia, India e Africa potessero
avere un comune luogo d'origine. Tra la fine del IV e l'inizio del V secolo della
nostra era, sant'Efrem di Siria e sant'Agostino si applicarono con ingegnosità
alla soluzione di questo problema, arrivando a concludere che i fiumi
dovessero seguire un percorso sotterraneo per buona parte della loro
lunghezza, riemergendo poi in quelli che sembrano essere i luoghi terreni
delle loro rispettive sorgenti (le montagne dell'India, l'Africa a sud
dell'Egitto)24. Una delle carte del mondo che nel Medioevo raggiunsero la
maggiore notorietà, composta attorno al 1300, mostra il paradiso terrestre
come un'isola posta all'estremità orientale dell'Asia. Nella carta compaiono
Adamo ed Eva, la prima volta quando vengono tentati dal serpente, in
seguito quando sono approdati sulla massa continentale dopo la cacciata,
sorvegliati da un angelo che li guarda con disapprovazione. Il paradiso è
chiuso da una cinta di mura, con una porta fortificata, su cui è scritto "Porte
del paradiso". I quattro fiumi si diramano dall'isola, per poi scomparire e
93
ricomparire altrove sulla carta, col Nilo che si divide in più rami e in parti del
mondo assai lontane tra loro. il libro della Genesi di fatto non dice molto della
flora aromatica del paradiso. L'unica spezia di cui viene fatta menzione è il
bdellio, una resina odorosa che si suppone diffusa in una terra chiamata
Avìla, posta sui confini del paradiso (Gn 2,12). Avìla è nota come la terra
bagnata dal Pison, quindi di solito viene identificata con l'India25. In base a
questi pochi cenni, gli scrittori cristiani attribuirono al giardino dell'Eden
un'atmosfera specificamente aromatica e non semplicemente addolcita dalla
presenza di fiori. Un geografo del IV secolo sostenne che il paradiso era
effettivamente abitato dal popolo dei cosiddetti "Camarini", che si nutriva del
pane che cadeva giù dal cielo, aggiungendovi miele e pepe26. Secondo il
padre greco della Chiesa Filostorgio di Cappadocia, che scriveva verso il
425, gli alberi che producono i chiodi di garofano derivano dai polloni di alberi
che, in origine, esistevano solo nel paradiso terrestre27. Anche il Tigri e
l'Eufrate erano fiumi del paradiso e i territori loro circostanti, come Babilonia o
i monti del Caucaso, qualche volta venivano collocati vicino all'India o al
giardino dell'Eden. La fragranza del paradiso venne chiamata in causa anche
nella controversia che si aprì in merito alla collocazione dell'Armenia. Un
anonimo geografo ravennate, all'inizio dell'VIII secolo, mise in dubbio la
credenza che il Tigri e l'Eufrate avessero le loro sorgenti nelle montagne
dell'Armenia. Se le cose stavano veramente così, argomentò il geografo,
allora si sarebbe dovuta aggiungere l'Armenia al paradiso terrestre, ma in
effetti era ben noto il carattere freddo e arido di quella terra, in cui non si
percepiva nessun profumo dolce e fragrante che segnalasse la vicinanza del
paradiso28. L'aroma del paradiso poteva diffondersi oltre la cerchia delle sue
mura, ma il modo di comunicazione più efficace con questo reame tagliato
fuori dal mondo temporale erano senza dubbio i quattro fiumi. L'insieme di
racconti e leggende cristiane sui quattro fiumi era stato arricchito da una
tradizione risalente all'antichità classica relativa ai fiumi dell'India, che
avrebbero trasportato, da qualche remota località, i tesori che si trovavano
nelle regioni più basse fra quelle abitate dagli uomini. Il primo autore greco a
descrivere l'India era stato Ctesia, un medico che aveva passato diversi anni
alla corte dei re di Persia e il cui resoconto, Indika, era stato scritto nel 400
a.C. Secondo Ctesia c'era un fiume, chiamato Iparco, che trasportava ambra
nella sua corrente, per un periodo di trenta giorni all'anno. Gli indiani dicono
che gli alberi che crescono nelle montagne producono "lacrime" resinose, in
un particolare periodo dell'anno e che queste poi cadono nel fiume dai rami
sovrastanti, indurendosi infine nella forma dell'ambra29. Questo racconto, in
94
seguito, fu ripreso e rielaborato dagli scrittori greci e dai romani interessati
all'India, dopo le grandi imprese di Alessandro Magno, le cui conquiste, alla
fine del IV secolo a.C. si spinsero sino al fiume Indo, portando l'Occidente in
diretto ma intermittente contatto con i tesori dell'Asia meridionale. Plinio il
Vecchio (che morì nell'eruzione del Vesuvio, nel 79 a.C), uno straordinario
compilatore di vicende e avventure umane, tradizioni e conoscenze riferì che
le pietre preziose venivano prese dai fiumi dell'India, specialmente il Gange e
l'Acesine (l'attuale Chenab, in quello che oggi è il Pakistan). Plinio non
sapeva che l'ambra proveniva dall'Europa settentrionale e non dall'India30.
Nel Medioevo le due diverse tradizioni delle leggende sull'Oriente, quella
biblica e quella classica, spesso si combinavano. Secondo quel racconto
popolare che cominciò a circolare del XII secolo, in base a una storia ebraica,
Alessandro Magno aveva deciso di andare alla ricerca del paradiso, una volta
che il suo esercito era giunto alle rive del Gange. Alessandro e i suoi
compagni si ritrovarono a sfilare con le loro barche lungo le mura di
un'immensa città fortificata che pareva non avere alcun punto d'ingresso.
Dopo tre giorni, giunsero vicino a una finestra, in cui apparve un uomo, a
informarli che quella era la dimora destinata agli eletti e che non era possibile
entrarvi. L'uomo diede ad Alessandro, perché la portasse indietro con sé, una
pietra che, se pesata, risultava maggiore di qualsiasi quantità d'oro si
ponesse sull'altra bilancia, ma che diveniva estremamente leggera, se la si
cospargeva di polvere. Era un simbolo del destino della gloria e della fama
dinanzi alla morte e Alessandro comprese la lezione di umiltà che gli veniva
impartita31. Per quanto riguarda le pietre di maggior valore economico,
l'Oriente e i suoi fiumi erano veramente la fonte delle gemme di maggior
pregio. Le pietre preziose, oltre alla rarità e alla bellezza, hanno anche la
qualità di essere dure e chimicamente stabili, tanto da restare intatte quando i
materiali più teneri e reattivi che le circondano si disgregano. L'oro, il piombo
e gli altri elementi, o le rocce di un qualche valore che formano dei filoni
(come i lapislazzuli) venivano estratti nelle miniere già in epoca premoderna,
ma per le gemme non era così. Sino alla scoperta di gemme in Brasile e in
Sudafrica tra Sette e Ottocento, la maggior parte dei gioielli del mondo veniva
dall'India32. Una realtà geologica - il fatto che le gemme venissero estratte
dai corsi d'acqua, grandi e piccoli, dell'India - aveva dato credibilità alle più
fantasiose credenze che le spezie e altri oggetti esotici e preziosi
galleggiassero sulla corrente di quei corsi d'acqua, in un Oriente
generalizzato che comprendeva Egitto, Mesopotamia, Etiopia e tutte le terre
bagnate dai fiumi del paradiso. Quella che a prima vista sembra essere una
95
bizzarra supposizione di Joinville, cioè che spezie come lo zenzero o il legno
di aloe si estraessero dal fiume, rappresenta in effetti le convinzioni ortodosse
accolte da gran tempo dal sapere scientifico, sulla base del movimento delle
pietre preziose. Non è quindi sorprendente che nel Circa Instans si affermi
che il legno d'aloe si trovi nei fiumi di quella che era nota come Alta Babilonia
e che questi fiumi siano collegati a quelli che escono dal paradiso terrestre.
C'è chi, in accordo con l'autore del Circa Instans, dice che questo legno cade
nel fiume già nel paradiso, mentre per altri proviene da un territorio desertico
adiacente al paradiso. La raccolta dell'aloe è splendidamente esemplificata
dalle illustrazioni di Robinet Testard per il Livre des simples médecines (circa
1500). Per la voce legno di aloe, dipinge un uomo con turbante che pesca
pezzi del prezioso legno con una rete, che la donna che lo accompagna
sistema poi entro delle scatole. Il paesaggio attorno pare quello di una zona a
clima temperato, ma il turbante dell'uomo mostra chiaramente che ci troviamo
in una terra esotica (fig. 8)33. Il legno di aloe era, di tutte le spezie, quella che
veniva più spesso immaginata galleggiare nei fiumi del paradiso. Questo si
deve al fatto che il suo valore era estremamente alto e che, trattandosi di
legno, la sua presenza sulla superficie dei fiumi risulta plausibile. Secondo
John Mandeville, autore di un'opera sui viaggi della metà del Trecento che
godette di un'entusiastica popolarità, il legno di aloe ci viene portato dai fiumi
del paradiso, il Nilo e il Phison. Un viaggiatore vero, il missionario
francescano Giovanni dei Marignolli, l'ultimo dei frati inviati dal papa a
convertire i mongoli, visitò l'India e la Cina tra il 1339 e il 1353. Sostenne che
le gemme e l'aloe vengono dai fiumi del paradiso, che è collocato ad alta
quota, su una montagna di Ceylon. Gli abitanti dell'isola (il moderno Sri
Lanka) raccolgono questi materiali preziosi nei fiumi delle terre di pianura,
alimentati dai torrenti montani. In un altro resoconto di viaggio immaginario,
quello che veniva attribuito al fratello del principe portoghese Enrico il
Navigatore, il legno di aloe è stato visto galleggiare sulle acque del
Ghion/Nilo, in prossimità del paradiso34. Come dimostra la relazione di
viaggio di Joinville, anche altre spezie venivano raccolte dai fiumi del
paradiso. Nel romanzo del ciclo del Graal, Parzival di Wolfram von
Eschenbach, il custode misterioso e tormentato del Graal, il Re Pescatore
Anfortas, soffre di una ferita così grave che neppure le spezie (Wùrzen)
raccolte dai fiumi del paradiso servono a guarirla. Le sostanze aromatiche
erano pescate dai fiumi, in punti così vicini al paradiso che la loro fragranza
meravigliosa aleggiava sul fiume, ma anche questa vicinanza non conferiva
alle spezie la forza sufficiente a guarire, o almeno a lenire, la tremenda piaga
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d'origine soprannaturale35. Al leggendario re cristiano dell'India, il Prete
Gianni, un personaggio creato dall'immaginazione europea su cui torneremo
per trattarlo in maggior dettaglio, veniva attribuita una favolosa fortuna,
consistente in gran parte in pietre preziose provenienti dal fiume "Idono", la
cui sorgente si trova nel paradiso. Oltre a smeraldi, zaffiri e topazi, il fiume
trasporta anche un'erba chiamata assidio, che tiene lontani i demoni. Nella
terra del Prete Gianni crescono foreste di pepe, intorno a una fontana che si
trova a tre soli giorni di cammino dal paradiso. L'acqua di quella fonte cambia
costantemente sapore e chi ne beve non si ammala mai. Anche se la durata
della sua vita non muta, il suo aspetto e le sue condizioni di salute sono
sempre quelle di un uomo sano di trentatré anni, ossia l'età che aveva Cristo
al momento della crocifissione36. 2. La collocazione dell'Eden e dell'India
Ma dove si trovava esattamente il giardino aromatico proibito? Non era un
problema che interessasse solo gli esperti della più remota antichità, perché,
essendo in continua crescita il traffico delle spezie ed essendo la domanda
costantemente superiore all'offerta, il problema dell'origine delle spezie
attirava un'attenzione interessata, per la speranza di un possibile profitto.
Mentre rimaneva improbabile che il giardino dell'Eden potesse mai giungere
a divenire un fornitore diretto di spezie, era invece assolutamente logico
pensare che fosse possibile raggiungere e sfruttare il raccolto dell'India o
delle altre terre contigue o vicine al paradiso. Il paradiso inizialmente era visto
come un luogo dell'Asia che esercitava il suo influsso sui territori vicini,
rendendoli eccezionalmente ricchi in oro, gioielli e spezie. La collocazione del
paradiso e quella dell'India erano due problemi correlati, che avevano
implicazioni importanti sia per i sapienti sia per i mercanti. Una minoranza
collocava il paradiso a ovest dell'Europa, al largo dell'Atlantico. Una storia
romanzata della vita del monaco irlandese san Brendano, scritta fra il IX e il X
secolo, descrive come il santo e i suoi compagni partirono, su piccole barche
di pelle di bue, dal loro monastero di Clonfert nella contea di Galway per
trovare la "terra promessa dei santi", un'isola appartenente a un mondo altro
dal nostro, collocata a ovest della costa irlandese. Dopo molte avventure, fra
le quali quelle occorse in un'isola di fabbri che si rivelarono demoni e un
approdo improvvido su una strana isola che si rivelò essere una balena (fig.
14), raggiunsero infine una terra di eterna felicità, ma fu loro detto di tornare a
casa. I loro viaggi erano stati ispirati da un'altra figura sacra d'Irlanda, l'abate
Barind, che aveva detto a Brendano di aver visitato abitualmente, insieme al
figlio Mernoc, l'isola atlantica in cui è posto il paradiso. Una volta tornati nella
comunità di Mernoc risposero a un monaco, che chiedeva dove fossero
97
andati, con le parole "non vedete dalla fragranza delle nostre vesti che siamo
stati nel paradiso di Dio?". I monaci riconobbero che doveva essere proprio
così, perché sapevano che Mernoc era già tornato più volte da viaggi
misteriosi, con le vesti impregnate dello stesso delizioso odore, che avevano
mantenuto per quaranta giorni37. Nel VII secolo, comunque, per comune
consenso degli studiosi, il paradiso era collocato nell'Asia orientale. Genesi
2,8 fa supporre che Dio abbia posto l'Eden in Oriente. Nel IV secolo
sant'Atanasio, noto soprattutto come il difensore dell'ortodossia contro
l'eresia ariana, sostenne la collocazione a oriente del paradiso in base a
un'analisi del libro della Genesi, ma anche per il fatto che è noto a tutti come
l'aria divenga profumata quando ci si avvicina all'India, che si trova vicino al
paradiso, molto a est, rispetto al Mediterraneo romano38. Isidoro di Siviglia,
autore nel VII secolo di quella che fu per secoli la summa enciclopedica
definitiva di tutte le conoscenze naturalistiche, collocava il paradiso nelle
regioni orientali dell'Asia, unendo gli insegnamenti cristiani e quelli classici sui
fiumi dell'Oriente e mescolando le idee cristiane sul paradiso con quelle
romane e greche sull'India. Per Isidoro, il paradiso era semplicemente una
"provincia" dell'Asia, aggiunta agli elenchi usuali dei geografi classici, che
includevano India, Persia, Asia Minore e così via39. Per buona parte del
Medioevo, il problema della collocazione del paradiso incideva anche
sull'immagine che si aveva dell'India e sulle speculazioni che si facevano
sulla sua collocazione. Sia l'uno sia l'altra si trovavano all'estremità orientale
dell'Asia, e anche se l'India, carente di guardie angeliche, era più accessibile,
nessuno aveva mai preteso di esservi giunto provenendo dall'Europa prima di
Marco Polo, verso la fine del Duecento. La posizione dell'India sulle carte
diveniva essenziale per la comprensione medievale del commercio delle
spezie. Il possesso di migliori informazioni sulla sua collocazione anche
rispetto alle altre parti dell'Asia e, in definitiva, all'Europa, avrebbe contribuito
ad avviare i viaggi di esplorazione e di conquista che si svolsero alla fine del
Medioevo. Per questo motivo torneremo a parlare più in dettaglio delle
informazioni geografiche raccolte per finalità pratiche nella parte finale di
questo libro, quando verranno presi in esame i tentativi fatti dagli europei di
trovare i percorsi che potessero condurli alle zone d'origine delle spezie. Al
momento ci stiamo interessando dell'idea che gli europei avevano dell'India,
indipendentemente dal problema di riuscire a giungervi. Questa terra, che
sintetizzava in sé l'esotico in tutti i sensi, buoni e cattivi, esercitava un ruolo
fondamentale nell'immaginario geografico e nel senso del meraviglioso degli
europei40. Prima che tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento l'Asia
98
iniziasse ad aprirsi agli occhi degli europei, l'India si collocava in prossimità al
paradiso terrestre. Brunetto Latini, maestro di Dante e autore di un
compendio di conoscenze di uso pratico, collocava il paradiso all'interno
dell'India, ma l'opinione più comune era che invece si trovasse nei dintorni del
giardino chiuso dell'Eden41. Un trattato geografico in rima molto popolare
della metà del Duecento, intitolato L'image du Monde, colloca l'India sul lato
del paradiso più lontano da noi, cioè quello orientale. Di solito, però, si
pensava che l'India si trovasse invece sul lato opposto, sui confini occidentali
del paradiso. A cominciare dalle carte che accompagnavano il commentario
sull'Apocalisse di Beato di Liébana, un monaco ispanico dell'inizio del IX
secolo, l'India è contigua al paradiso ed è questa la tradizione che continua a
riflettersi nella Mappa di Hereford e nella maggioranza delle descrizioni
medievali del mondo (fig. 18). L'India era popolosa, ricca e piena di oro,
gemme, spezie, come pure di animali straordinari, fra cui gli elefanti e gli
unicorni. Contemporaneamente, l'Oriente era anche un luogo di esotici
pericoli. L'India era favorita dalla sua prossimità al paradiso terrestre, ma, a
differenza di quel luogo incontestabilmente benedetto, era anche una terra in
cui si mescolavano meraviglie buone e cattive, una terra di estremi, cioè il
contrario dell'Europa, immaginata come temperata, normale e priva degli
aspetti più meravigliosi della natura. Nella sua breve descrizione dell'India,
Brunetto Latini dice che essa è fortunata e straordinaria, sia per il clima, che
la rende in parte inabitabile a causa del calore, sia perché è una terra d'oro e
d'argento, sia perché è patria di barbari semiumani42. Secondo il frate
domenicano Jourdain de Sévérac, uno dei primi viaggiatori europei in India
(1320-28 e poi di nuovo, dal 1330 sino alla morte nel 1336), tutto, in India, è
meraviglioso. L'India è un mondo completamente diverso. Il francescano
Odorico da Pordenone (che fu in India tra il 1320 e il 1330 e poi nello stesso
periodo di Jourdain) concordava: "Perché nell'intero mondo non vi sono
meraviglie come in quel reame"43. Queste fantasie dell'immaginario
medievale sulle meraviglie dell'Oriente si basavano in buona parte sulla
tradizione classica che si era accumulata dopo le conquiste di Alessandro44.
I resoconti sulle gesta di Alessandro in India, ben lungi dallo smentire le
fantasie più mirabolanti, erano andate ad aggiungersi alla massa di storie in
cui si esaltava l'opulenza e la stranezza del subcontinente. In questi racconti
di meraviglie spiccavano in modo particolare i fantastici personaggi
semiumani che si riteneva popolassero certe zone della penisola indiana,
nazioni raccolte successivamente sotto l'etichetta di "razze mostruose"45. La
codificazione definitiva delle razze mostruose, quella che avrebbe
99
condizionato la concezione europea degli estremi confini del mondo sino al
Seicento, era stata opera del naturalista romano Plinio il Vecchio. Nei
trentasei volumi della sua Storia naturale, Plinio, tra i ventimila fatti che
sostiene di aver raccolto dalla consultazione di un centinaio d'autori, elenca
una quarantina di popolazioni, alcune delle quali già presenti in precedenti
opere greche, altre si ritrovavano forse in testi greci andati poi perduti e altre
ancora erano il frutto di informazioni o teorizzazioni più recenti. Secondo
Plinio questi umanoidi si riproducevano in India e in Etiopia. In effetti, gli
"etiopi" erano fra le razze su cui Plinio aveva ereditato informazioni dai suoi
predecessori greci, che li definivano, con qualche confusione, come una
popolazione di neri dell'India. Fra gli altri popoli di questo raggruppamento la
cui esistenza sia reale o plausibile figurano i pigmei e i cannibali. Più
fantasiose erano popolazioni come i cinocefali, con la testa di cane; i
blemmyae, che, non avendo testa, si trovavano il volto nella pancia; gli
"odoratori di mele" (astomi), che avevano la testa, ma non la bocca e che si
nutrivano aspirando l'odore delle mele e gli sciopodi, che avevano un'unica
grande gamba, su cui si muovevano saltellando e che usavano per ripararsi
dal sole tropicale46. Vale la pena di soffermarsi un po' su questi aspetti
particolari dell'immaginario medievale dell'Oriente, perché le razze mostruose
finirono per trovarsi legate in uno stretto rapporto con le spezie e con altri
preziosi prodotti orientali: anche Colombo, quando si mise alla ricerca dei
regni di questi beni pregiati, era stato stimolato anche dai racconti sugli
uomini dalla testa di cane e da altri semiumani di consolidata tradizione47.
Dove si trovavano costoro, credeva, c'erano anche le spezie. Questa
mescolanza alternata di affascinante e spaventoso risulta evidente anche in
un'altra famosa carta medievale, il cosiddetto Atlante Catalano del 1335-37.
Nell'atlante, preparato a Maiorca per il re di Francia, si può cogliere la nuova
apertura dell'Europa all'Asia, resa possibile dalle conquiste dei mongoli e
dalla scoperta della Cina. L'atlante, con le sue citazioni da Marco Polo,
mostra una precoce consapevolezza della posizione delle isole delle spezie,
a oriente dell'India. Queste "isole dell'India", che secondo l'atlante sarebbero
7.548 (Marco Polo ne aveva fissato il numero a 7.448), sono ricche di oro,
argento, spezie, pietre preziose e anche strani umanoidi. Nel mare che le
circonda vivono tre specie di pesci semiumani, chiamati Sirene, afferma
l'atlante, che però ne descrive solo due: la prima una combinazione di donna
e pesce, la seconda metà donna metà uccello. L'isola di "Trapobana" o
Taprobane (solitamente identificata con Ceylon, anche se in questo caso si
tratta probabilmente di Sumatra), è ricca di oro, argento e pietre preziose,
100
ma, si dice, è anche abitata da giganti neri che mangiano i bianchi. Su
un'altra isola, "lana" (forse Giava o Ceylon), crescono spezie meravigliose, fra
cui legno di aloe, canfora, galanga, noce moscata cannella e macis, ma una
parte dell'isola è governata dalle donne (essendo le Amazzoni un'altra razza
mostruosa di fama consolidata). Se l'India veniva vista come un territorio di
ricchezza e di mistero, popolata da bizzarri individui o creature umanoidi, la
sua immagine sul piano religioso non era meno ambigua. C'erano malvagi
pagani, come i cannibali, ma si credeva anche che in India vivessero dei
cristiani, uniti nella fede all'Occidente, ai quali ci si sarebbe potuti rivolgere
per un comune sforzo contro i musulmani. L'idea dell'esistenza di un'India
cristiana offriva una spinta determinante al tentativo di trovare una via per le
spezie, perché rafforzava, o legittimava, i sogni di ricchezza con la
prospettiva cristiana di un'alleanza per la crociata. Una delle fonti che
alimentavano questo particolare ottimismo era il corpo delle leggende che
circolavano sull'apostolo Tommaso, che si credeva avesse soggiornato in
India e vi avesse operato molte conversioni. Si supponeva che fosse sepolto
in India - a Mylapore, a sud di Madras (oggi Chennai), secondo alcuni - dove
molti miracoli si verificavano, nei pressi della sua tomba. A parere di alcune
autorità cristiane, il re e la popolazione locale erano cristiani. Esisteva
effettivamente, in India, un gruppo cristiano, significativo anche se non
grandissimo, sulla costa del Malabar (lo stato moderno del Kerala), dove era
collocata gran parte dei quartieri generali che dirigevano gli scambi delle
spezie. I cristiani di quella regione ancora oggi definiscono se stessi cristiani
di san Tommaso, anche se è più probabile che i loro antenati siano stati
convertiti nel IV o V secolo da missionari siriani e non all'epoca degli apostoli.
Nel XII secolo una nuova leggenda su un potente sovrano cristiano
dell'Oriente, confermò l'immagine di un'India fantasticamente ricca ed
entusiasticamente cristiana. Verso il 1165 iniziò a circolare in Europa una
lettera, attribuita al Prete Gianni, che vi si definiva "Imperatore delle tre
Indie"48. Il Prete Gianni si presentava ai monarchi dell'Occidente e, in
particolare, all'imperatore bizantino, cui la lettera era indirizzata. Il tono è
abbastanza sprezzante nei confronti del sovrano bizantino e mostra una
magniloquenza altezzosa, che ben si adatta a chi regna su non meno di
settantadue re.
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UN'ANTICA DESCRIZIONE DELL'OCEANO INDIANO
Mare delle isole indiane dove si trovano le spezie. In questo mare navigano
navi di molte nazioni. Qui si trovano anche tre tipi di pesci chiamati Sarenas,
dei quali uno è metà donna e metà pesce, e l'altro metà donna e metà
uccello. Jana [Giava o Ceylon] Sull'isola di Jana si trovano molti alberi: legno
di aloe, canfora, legno di sandalo, buone spezie, alberi di galanga, noce
moscata, cannella dai quali vengono le ricche spezie di tutta l'India. Anche il
macis e le "foglie" (folli). Illa Trapobana [Sumatra] L'isola di Taprobane. Dai
tartari è chiamata Magno-Caulij. È l'ultima terra a oriente nell'oceano. Su
questa isola vi sono uomini diversi da ogni altro. In certe montagne dell'isola
vi sono uomini d'eccezionale grandezza che sono alti 12 ells [più di 13 metri]
come giganti. Sono molto neri e del tutto sprovvisti di ragione. Mangiano gli
uomini bianchi e gli stranieri che vengano in loro potere. Su questa isola vi
sono due estati e due inverni. Ivi fiori e erbe fioriscono due volte all'anno. È
l'ultima delle isole indiane, ricca di oro, argento e gemme. Fonte: L'Atlas
Català de Cresques Abraham, Barcelona, 1975. C'erano già state altre
testimonianze su questo favoloso sovrano. Nel 1122 un uomo che si faceva
chiamare Giovanni, vescovo dell'India, apparve alla corte del papa Callisto II
e descrisse l'opulenza di un regno cristiano, protetto dalle reliquie di san
Tommaso e nutrito dal fiume Phison, che trascinava con sé gioielli
provenienti dal paradiso terrestre. Il monarca cui effettivamente spettava il
nome o il titolo di Prete Gianni venne menzionato per la prima volta alla metà
del XII secolo, da Ottone di Frisinga, un fratellastro di Federico Barbarossa,
autore di una storia universale. In essa il Prete Gianni è sia un sacerdote sia
un sovrano (viene chiamato, in tedesco, Priester, cioè "prete"), ha battuto i
musulmani della Persia e porta uno scettro di smeraldo come simbolo della
sua straordinaria ricchezza. La lettera del 1165 amplifica queste prime notizie
e fornisce ulteriori dettagli sulla combinazione di ricchezze e strane
meraviglie che si realizza nella terra di questo potenziale alleato. Il suo vasto
regno è collocato vicino al paradiso terrestre e abbonda in gioielli, animali
esotici (i centauri, la fenice) e in strani esseri, fra i quali giganti, pigmei,
amazzoni e uomini con la testa di cane. Uno specchio magico gli consente di
osservare tutto quello che avviene in ogni angolo dei suoi molti regni. Durante
il giorno viene consumato un unico pasto, ma nel suo grandioso palazzo
vengono servite trentamila persone. La maggior parte dei suoi vassalli sono
pagani e il suo regno quindi non è integralmente cristiano, ma al suo interno
ognuno è giusto e non si danno casi di menzogna, adulterio o ruberia. La
102
natura è tanto generosa nei suoi doni da giungere a forme di spreco e
dissipazione. "La nostra munificenza si espande copiosa e risplendente di
tutte le ricchezze della terra". Le spezie vengono descritte in modo meno
ossessivo dei gioielli, ma c'è un'intera foresta di pepe e le lampade del
palazzo vengono alimentate esclusivamente col balsamo. L'intenzione
originale che produsse questa lettera va probabilmente più cercata nelle
ragioni della propaganda papale e imperiale che in un qualche progetto di
rafforzare le speranze di reperire in Oriente un potente alleato per la
cristianità occidentale. Gianni è cristiano, ma non sembra che riconosca il
papa, né pare che nel suo reame esista qualcosa come una casta
sacerdotale. La lettera esprime il desiderio occidentale di un grande alleato.
Quale che fosse il contesto in cui nacque, ha conosciuto una lunga vita. Nel
1177, il papa Alessandro III inviò un suo emissario al Prete Gianni, ma non se
ne ebbero mai più notizie. Nel corso dei tre secoli successivi, la collocazione
del regno del Prete Gianni oscillò tra l'India e l'Etiopia e la sua ricerca finì per
identificarsi con quella delle spezie. Al momento di partire, nel 1497, Vasco
da Gama aveva con sé lettere del re del Portogallo indirizzate al Prete
Gianni. L'immagine fantastica dell'India continuò a persistere, ma il periodo
che intercorse tra la lettera del Prete Gianni e lo sbarco a Calicut delle navi di
Vasco da Gama vide una grande crescita delle conoscenze europee
sull'India e l'approdo in quel paese dei primi visitatori europei dai tempi
dell'impero romano. Il fascino della fragranza e dei prodotti aromatici influì
sulla relazione, apparentemente immutabile, tra paradiso, India e immagine
complessiva dell'Oriente. La richiesta di spezie avrebbe anche sollecitato
innovazioni che alla fine avrebbero reso possibile raggiungere quei profumi
inebrianti.
103
Capitolo quarto
Traffici e prezzi
104
venivano percepite le forze economiche sottostanti: un modo che poteva
certo essere fantasioso, ma che proprio per questo eccitava e alimentava il
desiderio di raggiungere le Indie. Le spezie che giungevano nel Mediterraneo
orientale per rifornire i mercati europei erano solo una piccola parte del
commercio globale di questa merce. L'importanza delle sostanze aromatiche
nella cucina, nella medicina e nelle abitudini di vita dei ceti ricchi e raffinati in
India, Cina e nelle regioni islamiche faceva sì che la maggior parte del traffico
e del consumo delle spezie avesse luogo in zone dell'Oriente molto distanti
dal Mediterraneo. L'Europa aveva un ruolo secondario, era piuttosto l'India a
trovarsi al centro di una rete commerciale che accoglieva i prodotti
dall'Indonesia e dall'Indocina e li portava verso oriente, per rifornire la Cina, e
a occidente verso la Persia, il golfo Persico, il mar Rosso e l'Egitto, per
diramarsi poi verso il Medio Oriente islamico e proseguire sino a concludersi
in Europa. Il subcontinente indiano si trovava, nelle parole della storica
economica Janet Abu-Lughod, "sulla strada che porta ovunque" e non, come
immaginavano gli intellettuali europei, agli estremi confini del mondo1. La
costa del Coromandel, nella parte sudorientale dell'India, manteneva un
traffico sostanzioso con Ceylon e le Indie orientali, importando noce moscata,
macis e chiodi di garofano, che crescevano solo nelle isole Molucche (oggi
nella parte orientale dell'Indonesia). Queste spezie venivano spedite nei porti
di smistamento, soprattutto Malacca (nell'odierna Malaysia), da mercanti
giavanesi e malesi, e di lì poi trasferite in India, su vascelli in larga
maggioranza indiani. La regione del Coromandel trafficava anche con la
Cina, rifornendola di spezie indiane (soprattutto pepe), di spezie indonesiane
e di gioielli, in cambio di seta e porcellana. L'estremità occidentale dell'India
comprendeva due principali aree commerciali, la costa del Malabar a sud, e il
Gujarat, più lontano a nord, vicino a quello che oggi è il Pakistan. Il Gujarat si
era trovato in diretto contatto con l'impero romano ed era la zona di
smistamento delle esportazioni del pepe del Malabar. Nel Medioevo, una
buona parte del traffico proveniente dal Gujarat riforniva la Persia e l'odierno
Iraq di spezie, ma anche di cotone, utensili in metallo, tessili, alimenti
essiccati e altri prodotti esportati in grandi quantità. Una parte delle spezie
che giungevano in Europa erano portate da mercanti che venivano da città
come Baghdad e che avevano acquistato il prodotto nel Gujarat, oppure da
mercanti del Gujarat che si erano spinti sino al golfo Persico. Il Malabar e i
suoi porti, fra i quali Quilon, Cochin e Calicut, accoglievano navi che
provenivano dalla Cina, dal golfo Persico e dal mar Rosso. Il grande raccolto
di pepe dell'India veniva trasferito dal Malabar in ogni direzione. Il traffico
105
diretto con gli occidentali era prevalentemente controllato da mediatori arabi.
Una carta veneziana che risale al 1450, disegnata da Fra Mauro, contiene
un'annotazione relativa al porto di Ormuz, sul golfo Persico, dove giungevano
le navi provenienti dall'India, con perle, pepe, zenzero e altre specie. Tutto
questo veniva poi trasferito via terra a Baghdad e in Asia Minore2. Quando il
capitano portoghese Pedro Àlvarez Cabral confiscò due navi musulmane a
Calicut, nell'anno 1500, probabilmente i mercanti che risiedevano in città non
erano meno di quindicimila. Due quadri, presenti in un compendio francese di
meraviglie basato sui viaggi, reali e immaginati, di Marco Polo, John
Mandeville e Odorico da Pordenone, mostrano il modo in cui gli europei
s'immaginavano il commercio asiatico delle spezie. Una, che accompagna il
racconto di Marco Polo su Cail (Quilon), mostra degli uomini piccoli e di pelle
scura che portano pepe a un mercante musulmano che lo sta assaggiando o
annusando (fig. 20). Nello stesso manoscritto, in un'altra illustrazione, questa
volta relativa ai viaggi di Mandeville, il pepe viene raccolto nei pressi della
città di Polomb (ancora Quilon) e portato da un mercante, che pare
musulmano, a un sovrano che ha più l'aria di essere europeo (fig. 21). I
mercanti europei non godevano di un accesso diretto a questi traffici, se non
in circostanze eccezionali. Nell'era dell'egemonia dei mongoli, dal 1260 circa
sino al 1350, i mercanti occidentali riuscirono a raggiungere la Cina e anche
a stabilirvi qualche piccolo insediamento. Furono anche attivi nella parte
occidentale dell'Asia centrale, in località come Tabriz e Sultaniyeh (nel
moderno Iran) e Urgenj (una cittadina che oggi si trova in Turkestan, da cui
deriva il termine che indica i tessuti d'organza). Un gruppo di mercanti
veneziani appartenenti alla famiglia Loredano visitarono Delhi, dopo essere
transitati per Urgenj, nel 1338, ma prima di da Gama la maggioranza dei
visitatori occidentali in India erano stati missionari e c'erano state poche
spedizioni di commercio3. Questa naturalmente è un'impressione prodotta
dal tipo di testi che furono allora scritti, e che sono sopravvissuti fino a noi. Un
incontro occasionale mostra che c'erano europei sulle coste dell'India, al
tempo di da Gama. La terza spedizione portoghese in India, affidata a Joào
de Nova, nel 1502 riportò indietro due europei che vivevano sulla costa del
Malabar: un veneziano chiamato Benvenuto d'Albano (vecchio e povero), che
era stato in India per venticinque anni, e uno spagnolo di Valencia, di cui
viene detto che si chiamasse Antào Lopes e che fosse vissuto là per quindici
anni4. Quali che siano stati i contatti segreti che possano aver avuto luogo,
non c'era sicuramente nulla che potesse somigliare a un'infrastruttura
commerciale. Nessuno che provenisse dal Malabar, per non parlare di zone
106
spostate più a est, ha mai fatto un viaggio in Europa a scopi di commercio, e
non si ha notizia di nessuno che, provenendo dall'Europa medievale prima di
Marco Polo, cioè verso la fine del Duecento, abbia visitato l'India, un paese di
cui era incerta anche l'esatta collocazione per i geografi europei. Solo verso
la conclusione di questo periodo ci si rese conto (ancora una volta a partire
da Marco Polo) che c'erano delle isole dell'Estremo Oriente che producevano
delle spezie. Abbiamo a che fare, quindi, con europei il cui desiderio di spezie
era così forte da spingerli ad attraversare un mondo totalmente sconosciuto. I
produttori e la maggior parte dei mediatori mercantili non avevano alcuna
idea di quali fossero i destinatari finali del loro prodotto, mentre i consumatori
europei, dal canto loro, pensavano che questi tesori provenissero da un
magico reame perduto nella lontananza dello spazio, forse le terre delle razze
mostruose o il regno del Prete Gianni o un'India immaginaria. I principali
intermediari tra l'Europa e l'India reale erano gli arabi, ed erano proprio i
mercanti e i viaggiatori arabi ad avere l'esperienza e le conoscenze
necessarie per comprendere l'intera sequenza del transito commerciale delle
spezie. Una pittura alquanto insolita, in un manoscritto che oggi si trova a
Modena, mostra un mercante chiaramente presentato come straniero e molto
probabilmente islamico, impegnato a vendere cannella a un europeo, in uno
dei grandi empori commerciali arabi nell'area mediterranea. Le conoscenze
dei geografi e dei viaggiatori arabi, come Ibn Battuta o Ibn Khaldun, non si
estendono proprio sino alle Molucche, che in un testo arabo vengono citate
per la prima volta verso il 1460, ma nel mondo islamico si sapeva che Giava,
Sumatra e Ceylon erano produttrici di spezie, in un periodo in cui in Europa si
era convinti che l'India fosse l'unica zona di produzione. Questo non significa
che il commercio nell'oceano Indiano fosse, in qualche modo, un monopolio
islamico. C'erano fasi e attività differenziate, di scarico, partizione, divisione e
consolidamento, nella rotta dall'Indonesia all'Egitto, ma il grosso del
commercio arabo trasferiva le spezie dall'India al golfo Persico (al porto di
Siraf, per esempio), al mar Rosso (dove Aden era il principale centro di
smistamento) e ad Alessandria. C'erano altre strade e altre possibilità per un
contatto almeno indiretto con le zone d'origine delle spezie. Nel periodo in cui
gli europei regnavano sui territori siriani e palestinesi che i crociati avevano
strappato dalle mani dei musulmani (dal 1099 al 1291), le spezie e altri generi
di lusso dell'Oriente venivano trattate nel mercato di San Giovanni d'Acri e in
altri porti di quell'area. In una raccolta di poesie, riccamente illustrata, in
celebrazione dei miracoli della Vergine Maria, prodotta e, a quel che si crede,
personalmente composta dal re Alfonso X "il Saggio" di Castiglia, alla metà
107
del Duecento, viene raffigurata una spedizione a fini commerciali ad Acri e si
possono vedere dei mercanti che esaminano spezie e anche tappeti, oggetti
d'oro, gioielli e altri generi di lusso orientali. Le spezie che in tal modo
venivano accumulate negli avamposti cristiani erano giunte via terra,
attraverso la Persia, o erano transitate per il mar Rosso. Là gli intermediari
erano musulmani, ma i depositi in cui i mercanti occidentali andavano a fare i
loro acquisti di spezie erano allora sotto il controllo cristiano (fig. 6). Prima di
allora, dal IX al XII secolo, il grande centro di rifornimento dei prodotti
dell'Asia era stata Costantinopoli. Liutprando di Cremona, emissario
dell'imperatore d'Occidente alla corte dell'imperatore bizantino nel 949 e nel
968, si lamentava amaramente, nel racconto della sua seconda missione, del
fatto che la seta a tintura di porpora che aveva acquistato gli era stata
confiscata dalle autorità bizantine al momento del ritorno, perché la seta di
quel colore era riservata al "vero" imperatore romano, che risiedeva a
Costantinopoli, e non ai parvenus dell'Occidente5. Col declino di Bisanzio, il
mar Nero divenne un luogo importante per il commercio e per
l'organizzazione di spedizioni in Asia centrale e Cina nel periodo
dell'egemonia dei mongoli. Trebisonda, sulla costa settentrionale dell'Asia
Minore, e vari porti nella penisola di Crimea, collegavano Costantinopoli e
l'Europa occidentale con Tabriz, in Persia, e con Bokhara, Samarcanda e
Kashgar, sulla famosa Via della seta, in aree che oggi appartengono
all'Uzbekistan e alla parte occidentale della Cina. I genovesi, già nel 1155,
avevano ottenuto da Costantinopoli dei privilegi e nel Trecento si erano
solidamente attestati in Crimea, grazie al possesso della base di Caffa,
trovandosi quindi in grado di commerciare con i mercanti della Via della seta
e con i sovrani mongoli della Persia. Venezia, la più accanita rivale di
Genova, aveva controllato il commercio di Costantinopoli per buona parte del
Duecento, ma i tentativi veneziani di spingersi più a est erano meno convinti
e meno sostenuti di quelli dei genovesi. Il periodo dell'impero mongolo,
dall'inizio del Duecento sino alla metà del Trecento, fu un momento cruciale
nella storia del commercio, non tanto perché abbia prodotto dei mutamenti
persistenti - nel Trecento l'Asia sarebbe tornata a chiudersi agli europei, per
la ripresa della potenza islamica e la scelta isolazionistica dei cinesi - quanto
per il fatto che incise profondamente sull'idea europea della disposizione
generale dell'Asia e della sua ricchezza, temi su cui torneremo nei prossimi
capitoli. Mercanti di Venezia, Genova, Barcellona, Marsiglia e di qualche altra
città mercantile dell'Europa mediterranea erano abitualmente in rapporto
commerciale con i porti musulmani sulle coste orientali e meridionali del
108
Mediterraneo, nonostante il divieto emanato dalla Chiesa dopo la caduta di
Acri, ultima fortezza crociata sulla terraferma, nel 1291. Ma anche il papato,
che aveva proclamato questo divieto, acconsentiva a qualche eccezione, così
come facevano i re e altri sovrani, sicché si può dire che, al più tardi alla metà
del Trecento, l'embargo imposto al commercio con l'islam era divenuto
semplicemente un modo per estorcere denaro ai mercanti. Trattare con una
cultura diversa dalla propria, sotto il profilo religioso e politico, comportava,
oltre che dei costi, anche certi pericoli, e non c'era modo di assicurarsi dalle
sorprese, come mostra un rapido episodio di conquista e saccheggio
cristiano di Alessandria, nel 1365, che vide come protagonista una
spedizione partita da Cipro. In realtà, però, con gli egiziani e nel commercio
delle spezie, c'erano anche familiarità e una stabilità di lunga data, per cui chi
disponeva di esperienza e dei giusti contatti poteva ragionevolmente contare
su profitti sostanziosi. I grandi centri commerciali europei erano in grado di
negoziare e sottoscrivere, con i porti islamici, dei trattati che regolavano tutte
le questioni fondamentali, dal pagamento delle dogane alla sicurezza,
dall'autoregolamentazione alla risoluzione delle controversie. Ai mercanti
delle città del Mediterraneo veniva garantita una qualche misura di immunità,
autonomia e personalità giuridica. Risiedevano, con i loro beni, nel fonduq (al
plurale fanàdiq, italianizzato poi in fondaco), una struttura stabile di servizi
commerciali non troppo diversa dalle zone di libero scambio dei porti moderni
e dai quartieri assegnati agli stranieri in tutti quelli premoderni. Anche
Venezia e gli altri centri commerciali europei avevano dei fondaci, come nel
caso del Fondaco dei Tedeschi, che è ancor oggi visibile vicino a Rialto6. Il
fondaco aveva fatto la sua prima apparizione nella forma di una locanda in
cui venivano alloggiati gli stranieri. La segregazione di costoro dalla
popolazione locale mirava, almeno in parte, a garantire la loro incolumità, ma
permetteva anche alle autorità locali di imporre agli ospiti le proprie
regolamentazioni e di tassarli. La separazione favoriva la nascita di un senso
d'appartenenza comunitaria, lontano da casa, permetteva il costituirsi di una
fitta trama di rapporti commerciali e garantiva una maggiore correttezza,
perché tutte le transazioni venivano accentrate in una stessa sede. Nella
misura in cui le regole cui era sottoposto non erano eccessivamente intrusive
o restrittive, il fondaco era un'istituzione vantaggiosa per entrambe le parti e
quindi finì per espandersi, accogliendo magazzini, attività sociali e caritatevoli
e uffici doganali. Il fondaco possedeva un po' il carattere di extraterritorialità
delle moderne ambasciate e ci si sforzava di tenerlo separato dalla
popolazione locale che non fosse interessata professionalmente al
109
commercio. Di solito nessuno poteva entrare nel fondaco, o uscirne di notte
oppure di venerdì, il Sabbath dei musulmani. Poteva accogliere anche
mercanti cristiani di diversa nazionalità, se i destinatari non avevano
occupato tutti i posti, ma a musulmani ed ebrei non era consentito risiedervi.
La comunità straniera veniva rappresentata, agli occhi delle autorità locali, da
un console, cui il proprio governo (Venezia o l'Aragona-Catalogna) aveva
attribuito il potere di condurre negoziati commerciali e stabilire forme di
collaborazione, anche politiche. Il console catalano ad Alessandria, per
esempio, era nominato dalla municipalità di Barcellona per un periodo di tre
anni. Era suo compito essere presente all'atto della pesatura delle merci in
caso di dispute. Questo funzionario doveva occuparsi del contenzioso
all'interno della comunità mercantile catalana, rappresentando al contempo i
mercanti davanti al sultano e ai suoi funzionari come ambasciatore de facto.
Era un lavoro che poteva anche risultare pericoloso in qualche occasione,
come, ad esempio verso il 1415, quando il console catalano fu duramente
colpito dagli uomini del sultano, non solo a causa di un assalto di pirati
catalani, ma anche perché aveva invitato i mercanti suoi compaesani a
fuggire per evitare la rappresaglia del sultano. Un console catalano di
Damasco perse una considerevole quota dei propri beni a opera di un emiro
nel 1405, ma l'emiro in questione stava anch'egli fuggendo, davanti a un
ritorno dei mongoli sotto Tamerlano7. Ad Alessandria i fondaci erano grandi
edifici a due piani, disposti intorno a un cortile interno. Ogni comunità di
mercanti aveva una sua sede: una per i catalani di Barcellona, Valencia e
Majorca, una per i provenzali di Marsiglia, per i veneziani e per i genovesi.
Erano edifici con una sola entrata, e ben difesa, per assicurare protezione in
caso di rivolte o altri tumulti, ma questo era un carattere comune a tutti gli
edifici che ospitassero beni di valore che appartenessero a musulmani, ebrei
o cristiani. Il piano terra veniva destinato alle stalle e ai magazzini che
accoglievano le merci acquistate, in attesa delle navi che le avrebbero
trasportate in Europa. I piani superiori erano destinati agli alloggiamenti. Le
spezie e gli altri beni orientali venivano accumulate nelle stanze di deposito in
contenitori di tipo diverso, a seconda del loro valore. Le spezie relativamente
poco costose come pepe, zenzero e zucchero venivano infilate in grandi
sacchi del peso medio di una quarantina di chilogrammi. Quelle più rare, che
all'ingrosso venivano vendute in libbre, in genere arrivavano in scatole di una
ventina di chilogrammi, avvolte in tela (di norma si faceva così con la
cannella), oppure in giare (chiodi di garofano, che erano più facilmente
deperibili e più costosi). Le sostanze profumate, volatili e di altissimo valore
110
(muschio, ambra grigia) erano chiuse in piccole scatole di metallo, dove
rimanevano, una volta acquistate, sino al momento dell'imbarco. I mercanti
europei che operavano sui mercati di Alessandria, Beirut, Damasco o delle
altre città del vicino Oriente, dovevano essere in grado di riconoscere la
freschezza, le proprietà aromatiche e le possibili adulterazioni delle spezie
che trattavano. Un manuale mercantile veneziano, chiamato Zibaldone da
Canal, contiene alcuni suggerimenti sul modo di distinguere le spezie di
buona qualità. Non si preoccupa tanto dei casi di frode deliberata, quanto del
deterioramento del prodotto. Ben pochi tra i prodotti aromatici in vendita nel
Mediterraneo orientale potevano essere presentati come appena colti. Si
dava una grande importanza al fatto che i singoli pezzi fossero "grossi", col
che presumibilmente si intendeva che dovessero essere integri e non
avvizziti o sbriciolati. Le canne della cassia (un lassativo affine alla cannella)
dovrebbero risultare "intriege e grosse e greve" e non dovrebbero emettere
rumore, quando vengano scosse. La gomma arabica deve essere grossa,
bianca e lucente. Lo zenzero deve apparire lungo, solido e grosso. Lo si
dovrebbe aprire, per assicurarsi che sia bianco e non scuro. Le noci moscate
si debbono acquistare solo quando siano grosse e solide e la parte ancora
non pienamente matura non deve mai superare un quarto del pezzo intero.
Quando se ne perfora il guscio con un ago, dovrebbe scaturirne una piccola
quantità d'acqua, "et inn alltra magnerà non val"8. Questi manuali dedicano
anche una particolare attenzione ai diversi tipi di pesi e misure, che variano,
come le monete, col variare delle città e dei beni trattati. Ci volevano abilità e
competenza per comparare i vari prezzi per unità di peso, dato il numero
immenso delle possibili permutazioni. Anche quando le misurazioni si
operavano con una scala ragionevolmente uniforme, le fluttuazioni locali
erano considerevoli. Secondo lo Zibaldone da Canal, il pepe ad Alessandria
veniva venduto con un'unità di peso chiamata carica, che equivaleva a 715
"libbre leggere" di Venezia (214 kg), ma lo zenzero, lo zucchero e l'incenso si
misuravano su un'unità di peso, il cantaro o cantere, equivalente a 145 libbre
leggere (43,5 kg). I dinar d'oro di Alessandria (che i veneziani chiamavano
bizanti) avevano oscillazioni costanti nel cambio con i dirham d'argento e, per
complicare ulteriormente le cose, c'erano anche dei periodi in cui la moneta
di riferimento, sul mercato di Alessandria, diveniva il ducato d'oro, di conio
veneziano9. I mercanti dovevano anche affrontare il problema
dell'oscillazione dei prezzi delle spezie nei grandi depositi del Mediterraneo
orientale. Erano molti i fattori esterni che condizionavano i prezzi, a partire
dalle condizioni del raccolto asiatico sino ai problemi che guerre, instabilità
111
politica, naufragi o pirateria potevano creare nei trasporti. Marco Polo
sosteneva che, per ogni nave europea che veniva caricata di pepe ad
Alessandria, ce ne erano cento scaricate nel porto di Zaiton (l'odierno
Quanzhou) nella Cina meridionale10. Questa è molto probabilmente
un'esagerazione, ma mostra quanto fosse globale il desiderio di spezie e
quanti fossero i fattori che potevano influire sul segmento europeo,
relativamente modesto, del loro commercio. Le abbondanti informazioni di cui
disponiamo sul prezzo locale delle spezie, ad Alessandria e negli altri porti, e
il riscontro di una sostanziale coerenza tra il peso e le diverse monete
utilizzate ci consentono di dimostrare che le variazioni di prezzo erano
considerevoli. Nel 1355, per esempio, una sporta alessandrina di pepe (circa
220 kg) costava 163 dinar d'oro, un prezzo molto alto per il periodo. Undici
anni dopo il pepe costava meno della metà di quella cifra - fra i 75 e gli 86
dinar. Cadde ancora al prezzo, decisamente poco elevato, di 60 dinar nel
1386, ma nel 1392 (per ragioni che ignoriamo) era già arrivato a 88 dinar in
aprile e poi era lievitato sino a 129 nell'agosto dello stesso anno. Fino al 1400
oscillò tra i 60 e i 100 dinar, ma si alzò sino a un prezzo vertiginoso di 200
dinar nel 1412, prima di iniziare un nuovo lungo declino11. Pur con tutte
queste emergenze, il commercio delle spezie riusciva a garantire profitti in
misura tale da attrarre i mercanti che potevano giovarsi di un ricarico
sostanzioso, scaricando sui loro clienti la levitazione dei propri costi. È molto
difficile comparare il prezzo delle spezie all'origine con quello che
raggiungevano a fine corsa, sui mercati all'ingrosso d'Europa. Per quello che
riguarda i chiodi di garofano si è valutato che, nel periodo 1496-98, il prezzo a
Venezia fosse cento volte superiore a quello che gli acquirenti pagavano
nelle Molucche, il che ci dà un'idea approssimativa di quanto elevati fossero i
costi di trasporto e trasferimento, ma anche della dimensione dei profitti12. Si
deve anche tener bene in mente che il prezzo di Venezia era poi destinato a
crescere ulteriormente, e molto, quando il prodotto veniva portato nell'Europa
settentrionale e venduto al dettaglio. Risulta più semplice farsi un'idea dei
profitti che si realizzavano trasportando le spezie dai porti del Mediterraneo
orientale nell'Europa cristiana. Nel 1343 mercanti di Barcellona comprarono
spezie a Cipro e le rivendettero nella loro città con un profitto del 25% per il
pepe, del 41% per la cannella e del 20% per i chiodi di garofano. All'inizio del
Quattrocento i veneziani riuscivano a vendere i chiodi di garofano a un
prezzo superiore del 72% a quello che avevano pagato nel Levante e
ricavavano dalle noci moscate un profitto del 400%13. Questi introiti venivano
raccolti grazie a un'attività commerciale sostenuta, non in base alla vendita
112
occasionale di qualche scatola di miscele esotiche. In un anno normale, nel
corso del Quattrocento, i mercanti di Venezia ottenevano almeno 400
tonnellate di pepe dai fornitori di Alessandria e altre 104 da Beirut.
Occasionalmente si presentava l'opportunità di acquisire delle forniture anche
maggiori. Nel novembre 1496, nello stesso momento in cui i portoghesi
stavano scoprendo la propria rotta marittima per l'India, giunsero a Venezia
quattro galee provenienti da Alessandria, che trasportavano quelle che
secondo una stima (forse un po' eccessiva) erano 2.000 tonnellate di spezie,
in prevalenza - ma non esclusivamente - pepe. Nello stesso anno arrivò
anche un altro convoglio, accreditato di un carico di 900 tonnellate, di cui la
metà consisteva in grani di pepe14. È possibile che questi arrivi, e le scene
della loro accoglienza, siano stati simili a quello che molto più tardi fu
descritto da Samuel Pepys, nel suo diario del 1665. Fra i suoi compiti di
funzionario di dogana a Londra c'era anche quello di ispezionare le navi con
carico di spezie che entravano in porto ed egli racconta il suo esame di un
vascello olandese catturato, proveniente dalle Indie orientali, pieno di "pepe
che sbuca da ogni fessura, ci si cammina sopra e mi sono mosso nei chiodi
di garofano e nella noce moscata che mi arrivavano sopra alle ginocchia -
stanze intere completamente piene". La nave olandese avrà avuto stazza e
pescaggio superiori a quelli di una galea veneziana medievale, ma le quantità
dei due tipi di nave da carico sono comparabili, anche se, probabilmente, i
veneziani erano più ordinati nella cura dello stivaggio15.
2. Il commercio al dettaglio
113
l'Europa centrale, era Norimberga. Ancora oggi la città è rinomata per il suoi
dolci natalizi speziati e per il suo pane allo zenzero. I mercanti al dettaglio
non si presentavano esclusivamente come venditori di spezie. L'ambiguità di
fondo delle spezie, condimenti e medicinali allo stesso tempo, si rifletteva
nelle scelte dei consumatori e nei punti di vendita al dettaglio. Il mercante di
spezie (lo speziale, o spicer, come veniva chiamato nell'Inghilterra
medievale), poteva anche assumere il ruolo di farmacista, di dispensatore più
o meno autorizzato di medicinali. Ci fu anche un cambiamento nella parola
grocer, o droghiere, che in Inghilterra era nata per indicare un mercante di
spezie all'ingrosso o che comunque ne trattava grandi quantità (e per questo,
quindi, il termine rimanda a gross), ma che poi finì per estendersi a chi
trattava ogni tipo di prodotti commestibili. La stessa trasformazione semantica
si è verificata in Francia, dove épicier è passato dal denotare un mercante di
spezie per finire a designare il proprietario di una piccola rivendita di
alimentari (épicerie). A Londra i mercanti di spezie si organizzarono in gilde,
all'inizio (la prima menzione è del 1180) come pepperers (venditori di pepe),
un po' più tardi come spicers (speziali) e apothecaries (farmacisti). Non si
trattava di categorie fisse e ben definite e la stessa persona poteva figurare in
registrazioni distinte una volta come farmacista, una come speziale e un'altra
come pepperer. Un tal Simon Gut compare nei registri di Londra con tutti
questi titoli professionali. Fu anche chiamato grocer (droghiere)17. Nel 1400
la compagnia dei droghieri di Londra si era assunta la gestione del
commercio di spezie, medicinali e altri beni esotici, sino a quando i farmacisti
non operarono una scissione definitiva, nel 1617, in un'epoca cioè in cui gli
attributi culinari delle spezie e quelli medicinali si erano ormai
concettualmente separati. Fra i sindaci di Londra nel periodo che va dal 1231
al 1341 vi furono nove pepperers. Settanta speziali vengono menzionati nelle
fonti del Due e del Trecento18. A Barcellona, alla fine del Trecento, c'erano
111 especiers19. I mercanti che fornivano medicine vendevano anche le
spezie che si potevano usare per scopi diversi, così come i mercanti di spezie
che rifornivano le cucine dispensavano anche medicinali. In un trattato
politico medievale francese si trova una miniatura che rappresenta una strada
cittadina in cui campioni delle merci in vendita sono esposti all'ingresso delle
botteghe. Il mercante di spezie ha esposto un'insegna che comunica "buon
ippocrasso" e offre anche zucchero e altri prodotti terapeutici, depositati nelle
piccole giare all'interno della farmacia. Un dipinto murale all'ingresso del
castello d'Issogne in Val d'Aosta, composto intorno all'anno 1500, presenta
l'interno della bottega di un farmacista, riccamente fornita. A destra, un
114
assistente poveramente vestito pesta delle spezie in un mortaio. Un'altra
immagine delle transazioni che avvenivano nelle farmacie si ricava da una
serie di meditazioni sulla vita di Gesù Cristo, che andavano sotto il nome del
grande filosofo e mistico del Duecento, san Bonaventura. Questo manoscritto
dello pseudo-Bonaventura fu composto in Italia alla metà del Trecento e una
delle sue immagini rappresenta Maria Maddalena nell'atto di acquistare delle
spezie per ungere il corpo di Cristo (in un tipico vasetto, Mt 27,61 e Le 23,55-
56). La donna è in piedi, fuori dalla bottega, mentre il farmacista le offre una
mistura, avendo accanto a sé le bilance, il mortaio e i pestelli che sono le
insegne del suo lavoro (fig. 9). I mercanti di spezie o i farmacisti del Medioevo
danno l'impressione di aver trattato tutta una serie di prodotti diversi, le cui
relazioni reciproche non sono tanto chiare: spezie commestibili, medicinali,
dolci (fra cui preparati medici, ma anche frutta candita, noci e spezie ricoperte
di zucchero, torroni, confetture di tutti i tipi), cordiali (vini speziati e rafforzati),
cera (candele e blocchetti di cera per sigilli), carta e inchiostro. Queste
botteghe potevano anche vendere pasta e polvere da sparo20. I regolamenti
per la gilda dei profumieri che vennero adottati a Costantinopoli mostrano
quanto il commercio delle fragranze e quello dei materiali per le tinture
finissero per sovrapporsi o coincidere. Ai membri della gilda veniva
raccomandato di tenere sempre a disposizione una fornitura di generi esotici
che comprendesse spezie commestibili, sostanze per fumigazioni e agenti
per tinture, oltre agli ingredienti dei profumi (figg. 10-13). Possiamo farci
un'idea di quali tipi di prodotti terapeutici e altri generi i farmacisti o i mercanti
di spezie tenessero a portata di mano grazie agli inventari di proprietà che
venivano compilati dagli esecutori testamentari dopo la morte di un mercante.
Un mercante di spezie perugino, morto nel 1431, lasciò un deposito
abbastanza modesto di beni che comprendevano spezie commestibili, come
pepe e zenzero, ma anche sangue di drago, legno di aloe, olio di lentisco e
corallo, che venivano soprattutto utilizzati come medicinali (anche se il
sangue di drago era usato come tintura per colorare in rosso, il legno di aloe
era importante per la creazione di profumi e l'olio di lentisco era
probabilmente usato a fini più cosmetici che terapeutici). Questo mercante
trattava anche "mirabolani", un tipo di piccole prugne essiccate e importate
dall'India e usate come lassativo, per purgare un eccesso di bile o flemma, e
riscaldare gli stomaci "freddi". Più o meno nello stesso periodo, nel 1439, un
farmacista di Digione aveva in negozio, al momento della morte, ventiquattro
"spezie" diverse, insieme a molti altri ingredienti e composti. Fra le spezie
c'erano prodotti esotici: perle, coralli, legno di aloe, mirabolani, canfora,
115
ambra grigia, incenso. L'inventario comprendeva i prezzi, dai quali si vede
che il pepe e i mirabolani erano relativamente a buon mercato, mentre la
canfora era tre volte più costosa del pepe, l'ambra grigia cinque volte e il
muschio raggiungeva un prezzo astronomico, venticinque volte più elevato di
quello del pepe21. Un elenco simile (stilato nel 1353) per un negozio di
Barcellona registra più di un centinaio di tipi diversi di erbe, spezie, acque
profumate, olii e altri preparati. Tra le spezie, si trovano gomma arabica,
galanga, cannella, cubebe, lentisco, sangue di drago e noce moscata22.
Registrazioni post mortem effettuate nelle botteghe di Londra durante il regno
di Riccardo II (1377-99) mostrano che, oltre alle spezie e ai medicinali, vi si
potevano vendere sapone, miele, allume, olio per lampade, granaglie, pece e
catrame. Questi mercanti diversificavano le loro sfere d'azione e portavano
avanti sia un commercio di distribuzione (importando le spezie che dovevano
essere vendute ai mercanti della provincia) sia un commercio d'esportazione
della lana, che per molti anni era stata il principale prodotto inglese sul
mercato internazionale23. Un quadro più dettagliato di quello che farmacisti e
speziali effettivamente vendevano ai loro clienti si può ricavare da un libro di
conti tenuto da un mercante di Barcellona, Francese ses Canes, dal 1378 al
1381, gli ultimi anni della sua vita. Fra i suoi migliori clienti c'era il conte di
Empùries, che ordinava, fra altre cose, medicine per il suo leoncino, tra cui
pane zuccherato e olio di rose24. Francese trattava prodotti medicinali e
spezie culinarie, ma anche vini speziati, salse (soprattutto al pepe, con
aggiunta di altre spezie), acque profumate, cera per sigilli, inchiostro e carta.
Vendeva medicinali in molte forme: unguenti, sciroppi, oli, lozioni, gessi,
conservati sotto zucchero (elettuari) e preparati per i clisteri (supposte o
iniezioni anali). Nelle registrazioni di ses Canes hanno un rilievo particolare i
generi di lusso zuccherati, come le mele cotogne glassate o candite, l'anice,
le mandorle, lo zenzero, persino i piccoli uccelli (per esempio, le allodole). Di
queste ultime sembra che il conte di Empùries ne ordinasse molte, quando
aveva per invitati ospiti illustri, come il figlio maggiore del re, il vescovo di
Valencia o un ambasciatore papale25. E difficile distinguere i medicinali dai
dolci di gran lusso negli ordini di spezie comunicati dagli agenti del conte di
Empùries. La stessa indistinzione era presente nel castello del Graal nel
Perceval, dove agli ospiti durante il banchetto venivano serviti frutta, canditi,
elettuari e cordiali medicinali. Francese ses Canes vendeva più di duecento
prodotti diversi e almeno un centinaio di prodotti aromatici, confezionati in
forme diverse per diversi usi. Una tale varietà di prodotti veniva fornita anche
da un farmacista di metà Quattrocento ad Arles (Provenza). Raymond di
116
Tarascona trattava medicinali nel corso di tutto l'anno, concentrando nella
stagione autunnale la vendita di spezie gastronomiche (perché l'inverno,
secondo la teoria degli umori, richiede cibi più caldi e più secchi). Come
Francese ses Canes, la sua controparte catalana, anche Raymond poteva
fornire un certo numero di vini speziati, polveri e salse (ad esempio quelle
che accompagnavano le lamprede) già pronte26. Anche i farmacisti di
provincia potevano tenere a portata di mano un numero sorprendente di
rimedi terapeutici. Uno di loro, nella città di Manresa, a nord-ovest di
Barcellona, morì nel 1348 (presumibilmente falciato dalla Morte Nera) e in
quel momento aveva in bottega 133 medicinali diversi27.
Ogni profumiere dovrà avere una propria bottega e non invadere quella di un
altro. I membri della gilda hanno il dovere di osservarsi l'un l'altro con
attenzione, per evitare la vendita di prodotti adulterati. Non debbono
accumulare nelle loro botteghe beni di bassa qualità: un odore buono e un
odore cattivo non stanno assieme. Debbono vendere pepe, spiganardo,
cannella, legna di aloe, ambra grigia, muschio, incenso, mirra, balsamo,
indaco, erbe per colorazione, lapislazzuli, sommacco, storace e in breve ogni
articolo usato nella profumeria e nella tintura. Le loro postazioni debbono
disporsi su una fila che va dalla pietra miliare alla riverita icona di Cristo posta
sopra il Portico di Bronzo, cosicché l'aroma che da esse si sprigiona possa
salire sino all'icona e allo stesso tempo riempire il vestibolo del Palazzo
Reale. Fonte: Il libro dell'Eparca, in Flowers of Byzantium, a cura di Andrew
Dalby, Totness, 2003, p. 40. Non tutte le spezie venivano vendute tramite i
farmacisti o attraverso gli esercizi autorizzati dalle gilde. La gente comune,
specialmente nelle zone rurali, non poteva avere un accesso facile e costante
a questi prodotti particolarmente costosi, ma il gusto delle spezie,
specialmente nella loro qualità di prodotti terapeutici, non si fermava al livello
delle classi più elevate. Venditori ambulanti portavano con sé erbe medicinali
e spezie, tra i generi che mettevano in vendita. Una poesia francese anonima
del Duecento, intitolata Le dit du Mercier (Il detto del merciaio), fornisce una
versione divertente e non del tutto irrealistica del modo in cui un ambulante si
rivolgeva al suo pubblico di paesani sempliciotti. Costui vende paccottiglia
d'ogni genere, guanti, borse, mantelli, ditali e anche reliquie, ma anche
117
zenzero, galanga, zafferano, pepe e cumino. Un'altra opera appartenente allo
stesso genere, del ben noto poeta comico Rutebeuf, alterna versi e prosa per
un ciarlatano ambulante specializzato in cure mediche: nel suo Dit de
l'Herberie (Detto dell'erborista) un sedicente "dottore" ha erbe che sostiene
provengano dalla Sicilia e dall'Italia meridionale (cita pure il centro medico di
Salerno), ma anche piante esotiche, "dai deserti dell'India e dall'isola di
Lincorinde". Di questo paese misterioso si dice, confusamente, che sia
circondato "dall'acqua di tutte le parti del mondo", il che ha indotto certi
commentatori a ritenere che si stia parlando di Ceylon, altri a pensare
piuttosto a una sorta di isola mobile, restando fermo in ogni caso che si tratta
di una località di fantasia28. La linea divisoria tra ciarlatani ambulanti, speziali
e farmacisti autorizzati non era sempre definita in modo netto. I regolamenti
delle gilde potevano fornire protezione e limiti a certe forme di traffico, come
quello degli speziali, ma a vendere spezie c'erano anche altri mercanti.
Nell'allegorico Piers Plowman di William Langland, "Glutton", il goloso, pensa
di andare in chiesa per purgarsi dei suoi peccati ma, quando si mette in
marcia, viene accostato da ogni sorta di venditore, compresa una donna che
produce birra. Costei gli chiede se non gli piacerebbe gustarne un po' e lo
invita ad aggiungersi alla compagnia, nel suo laboratorio. Glutton le chiede se
ha "spezie ben calde" per insaporire la birra e, davanti alla risposta
affermativa di lei, che assicura di disporre di pepe, peonia e semi di finocchio,
cambia la sua precedente intenzione e torna alle vecchie abitudini29. Come
ci mostra questo esempio, non ci dovremmo immaginare che i mercanti se ne
restassero tranquillamente nei propri magazzini in attesa che i clienti ne
varcassero la soglia. Le strette strade cittadine somigliavano molto più a un
bazar che a un moderno centro commerciale. I dettaglianti esibivano le loro
merci in mezzo alla strada, sperando di attrarre i passanti e per noi è
possibile farci un'idea delle loro postazioni di vendita dalla poesia London
Lickpenny, in cui il narratore impoverito vaga per Londra andando a sbattere
in mercanzie e servizi d'ogni tipo, che non può assolutamente permettersi. Il
ritornello che chiude ogni stanza è un patetico "Per mancanza di denari
muovo passi lenti e rari". La poesia contrappone comicamente la ricchezza
della città con la povertà individuale. Passando dalle corti di Westminster a
Cheapside nella City, il narratore viene accostato da un venditore di spezie
che in tutti i modi lo spinge a comprare pepe, zafferano, grani del paradiso, e
anche farina di riso, tutta merce per cui non ha il denaro sufficiente30.
L'immagine degli speziali era condizionata dal loro ruolo di farmacisti e dal
loro rapporto, spesso non facile, con i medici. Dal punto di vista di questi
118
ultimi, i farmacisti erano poco più di venditori ambulanti, quale che potesse
essere la loro posizione nella gilda. I medici li accusavano di essere poco
accurati nella preparazione delle medicine e di avere una certa
predisposizione a imporre le loro proprie prescrizioni. Allora come oggi il
commercio dei medicinali offriva ottime possibilità di guadagno e i dottori si
sforzavano di strappare il controllo di questo mercato dalle mani dei
farmacisti, cercando di far valere a proprio vantaggio i limiti della loro
competenza medica e i pericoli che comportava l'affidamento a costoro del
potere di raccomandare sostanze dotate di così grandi poteri. Verso il 1271 la
facoltà di medicina di Parigi proibì sia agli speziali sia ai venditori ambulanti la
vendita dei medicinali ottenuti con prodotti botanici31. Comunque, quale che
fosse il venditore, quello delle frodi nella vendita al dettaglio delle spezie era
un problema enorme. Il merciaio e il venditore ambulante di erbe delle poesie
francesi sono evidentemente ciarlatani che manifestano abbastanza
chiaramente la propria natura, dinanzi al loro credulo pubblico. Anche quando
ai consumatori venivano risparmiati i globi aromatizzanti di falso argento e le
reliquie fatte di ossa di animali, l'acquisto delle spezie era sempre
un'operazione azzardata. C'era, in primo luogo, il problema della freschezza.
Le spezie sono un prodotto resistente, e le loro virtù aromatiche si
conservano anche quando il frutto sia essiccato, perché basta aprirlo per farle
sprigionare, ma non sono incorruttibili. Dopo una serie di viaggi che, con i
successivi trasferimenti dall'India o dall'Indonesia sino all'Europa, potevano
richiedere anche anni, le condizioni dei carichi di spezie non erano ideali. Il
Circa Instans e la sua traduzione francese, il Livre des simples médecines,
offrivano informazioni sulla durata delle diverse medicine. Che la noce
moscata possa resistere per sette anni è certamente credibile, ma la tesi che
il pepe si conservi per quaranta sembrerà ottimistica a chiunque abbia pulito
di recente la piccola scansia in cui ripone le sue spezie. Freschezza e qualità
intrinseca erano già temi essenziali e scottanti nelle contrattazioni per gli
acquisti all'ingrosso che si tenevano nei mercati di Alessandria e Beirut, e gli
eventuali difetti ben difficilmente avrebbero trovato un qualche giovamento
dagli ulteriori trasporti per mare e dagli spostamenti in terraferma. Il problema
che richiedeva la massima attenzione dei dettaglianti, e che quindi veniva da
costoro trasmesso ai clienti, era l'adulterazione, che veniva praticata sia per
"spalmare" ovunque gli ingredienti migliori sia per abbellire artificialmente
quelli più scadenti. Poche merci si prestano così facilmente all'adulterazione
come le spezie. I gioielli possono essere falsi, ma riescono difficilmente a
ingannare gli esperti e, essendo oggetti che prima dell'acquisto vengono
119
sottoposti a un esame individuale, un pezzo alla volta, non è facile
confonderli in una massa indistinta: i diamanti si comprano a pezzi singoli e
non, come i chiodi di garofano, in sacchi di 2 o 20 kg. L'aura fortemente
aromatica che rende le spezie attraenti consentiva alla gente di pochi scrupoli
di mascherare ingredienti di valore inferiori o fasulli in mezzo a quelli genuini,
la noce moscata o i grani di pepe. Ci si aspettava che il carico delle navi
contenesse anche un po' di materiale estraneo e che anche questo entrasse
a comporre il prezzo della merce al dettaglio. Le spezie dovevano essere
selezionate e poi ripulite dalle impurità, in un processo di setacciatura
chiamato garbling. La gilda dei venditori di pepe di Sopers Lane, la strada
delle spezie nella City, a Londra, sceglieva degli specialisti per ispezionare le
spezie e certificarne la purezza, prima che venissero pesate32. Le spezie
avevano un tale valore che persino il residuo di scarto, quello che i mercanti
italiani chiamavano garbellatura, non veniva semplicemente buttato via, ma
messo in vendita come la versione più economica e di minore qualità di un
prodotto intrinsecamente prezioso. Il manuale commerciale di Francesco
Pegolotti elenca le spezie che venivano normalmente sottoposte alla
garbellatura e compara i prezzi dei prodotti inferiori della setacciatura con la
sostanza aromatica di maggiore purezza. La garbellatura di lentisco vale un
quinto del prezzo del lentisco di prima qualità. Per il pepe il rapporto è di un
terzo: per lo zenzero la metà, per la noce moscata di un terzo se non c'era
polvere nella garbellatura33. Nel Piers Plowman, poema narrativo inglese di
fine Trecento, il personaggio Liar (il bugiardo) decide di diventare mercante di
spezie. Si tratta di una scelta appropriata non solo perché di lui si dice che
sappia un bel po' sulle "gomme" aromatiche, ma anche perché conosce le
tecniche truffaldine per accrescerne la quantità34. La mescolanza di spezie
false e genuine occupa un suo posto nelle narrazioni tradizionali degli
americani. Una leggenda infatti narra che sbrigativi mercanti del Connecticut
avessero perfezionato la tecnica di produzione di noci moscate false da
aggiungere a quelle vere, coprendo l'inganno con l'abilità della riproduzione
artificiale e con l'aroma potente delle vere noci. A dare diffusione popolare a
questa storia fu Thomas Chandler Halliburton (1796-1865), un giudice
canadese della Nuova Scozia, che aveva scritto storie folkloristiche su Sam
Slick, un venditore ambulante yankee che vendeva, oltre a noci moscate
vere, un'abbondanza di imitazioni artefatte. Il racconto riscosse un successo
tale che lo stato adottò l'insolita denominazione di "Stato della noce
moscata", che la dice lunga sul come l'ammirazione per il successo negli
affari possa prevalere sugli austeri principi di rigore etico35.
120
PROBLEMI RELATIVI ALLA QUALITÀ DELLE SPEZIE
Le spezie dovevano conservare aroma e sapore nel corso dei mesi e anche
degli anni che potevano trascorrere tra il momento del raccolto e quello in cui
venivano consumate in Europa. Mercanti, cuochi, dottori e tutti gli altri che ne
facevano uso si preoccupavano della loro freschezza, perché anche le spezie
più resistenti finiscono per perdere le loro proprietà. Si acclude qui un elenco
che indica la durata di alcune spezie, in base al Livre des simples médecines:
Cardamomo 10 anni
Canfora 40 anni
122
indicazioni dei prezzi sono giunte sino a noi, ma non è affatto facile
determinarne il significato in termini di potere d'acquisto o in comparazione
con le complessive spese familiari. Il problema nasce in parte anche
dall'incredibile varietà di pesi e misure in uso nel Medioevo, sia per la
diversità dei termini utilizzati e quindi delle unità di misura, sia perché quella
che pare una stessa misura come un pence o una libbra inglese muta di
valore effettivo da città a città e da un sovrano all'altro. In parte però il
problema dipende anche dal tipo di beni per cui i consumatori erano disposti
a spendere il loro denaro. Vestiti, armi, servitori e spezie comportavano
spese considerevolmente più importanti allora che non adesso. Ovviamente,
oggi è possibile spendere grandi quantità di denaro per cose che nel
Medioevo non esistevano - automobili fuori serie, oggetti d'arte dal costo
astronomico, scuole prestigiose, per fare qualche esempio - ma i servitori (nel
senso dei "professionisti dei servizi"), le opere di carità e i gioielli continuano
ad avere un'incidenza maggiore, e ancora significativa, nel bilancio delle
famiglie di alto livello sociale. Cibo e vestiario, però, non coprono oggi una
quota percentuale delle nostre spese paragonabile a quella che era loro
destinata nel Medioevo. Non si tratta tanto del fatto che allora le spezie
costassero moltissimo - in un certo senso è così anche oggi. Una libbra (poco
meno di mezzo chilogrammo) di noce moscata oggi costa un centinaio di
euro circa, ma quanti sono in Occidente i ricchi che comprano chilogrammi di
noce moscata? Il fatto che nel Medioevo la noce moscata fosse usata in
grandi quantità, sia in cucina sia in medicina, significa che la quota che allora
le veniva destinata nelle spese del bilancio familiare era ampiamente
superiore a quella odierna. Gli storici che hanno studiato le spese giornaliere
delle famiglie regali hanno mostrato che l'acquisto di spezie copriva una parte
sostanziosa del bilancio complessivo destinato all'alimentazione dei re e del
loro ampio entourage, sia nella permanenza a corte sia negli spostamenti nel
territorio del regno. Venivano acquistate in quantità sostanzialmente modiche,
ma a prezzi altissimi e con grande frequenza. Sembra che i re di Aragona-
Catalogna abbiano offerto e consumato fiumi di vino speziato, mentre nelle
corti inglesi il veicolo favorito per la comparsa delle spezie in tavola erano più
probabilmente le salse41. L'importanza delle spezie nei bilanci
dell'aristocrazia e dei re dipende dal costo unitario del prodotto e dal fatto che
se ne acquistavano e consumavano grandi quantità. Ci si può fare un'idea del
valore delle spezie comparandone i prezzi ai costi complessivi della vita e agli
introiti medi della popolazione. John Munro, uno storico economico
dell'università di Toronto, ha calcolato i prezzi delle spezie in Inghilterra
123
nell'anno 1439, servendosi del guadagno giornaliero medio di un artigiano
londinese come metro di comparazione. L'artigiano poteva guadagnare otto
pence al giorno. Con un penny poteva comprare un gallone, cioè quattro litri
e mezzo, di latte, una pinta, cioè un po' più di mezzo litro, di burro o lardo
oppure un quarto di staio, circa nove litri, di carbone. Cinque metri e mezzo di
lana di buona qualità gli costavano più o meno dieci giorni di lavoro, cioè
ottantaquattro pence, ma la stessa quantità di una stoffa pregiata, come il
velluto, avrebbe avuto un costo stratosferico, equivalente al guadagno
complessivo di duecento o trecento giorni di lavoro. Una libbra di zucchero
costava diciassette pence, quindi un paio di giorni di lavoro. Nel 1439 il pepe
costava un po' di più, lo zenzero un po' meno. Una libbra di chiodi di garofano
sarebbe costato quattro giorni e mezzo di lavoro, tre giorni la stessa quantità
di cannella. Per una libbra di zafferano, però, ci volevano almeno quindici
scellini, l'equivalente di un mese di lavoro42. Il piccolo regno di Navarra, nella
parte occidentale dei Pirenei, sull'odierna linea di confine tra Francia e
Spagna, ci fornisce un esempio dell'andamento dei prezzi in un ambiente
meno cosmopolita di Londra. I re di Navarra erano sovrani importanti, con
forti contatti sia con il sud della Francia che col nord della Spagna. Tra il 1408
e il 1412 i registri dei conti della famiglia reale mostrano che il prezzo del
pepe raddoppiò da otto a diciassette sueldos carlines per libbra. Lo stesso
quantitativo di zenzero, merce un po' più costosa del pepe, rimase stabile su
un valore medio corrispondente a tre giornate e mezzo del lavoro di un
carpentiere, mentre il prezzo dei chiodi di garofano salì da cinque a sei
giornate lavorative dello stesso artigiano. Anche i libri di conti dei mercanti e
gli inventari dei beni dei dettaglianti di spezie prodotti dagli esecutori
testamentari ci dicono qualcosa sull'andamento dei prezzi. I conti di Francese
ses Canes a Barcellona nel periodo 1378-81 fanno vedere quello che i
consumatori dovevano effettivamente pagare. Sembra che una libbra di pepe
costasse cinque sous. Lo zafferano giunge a ottanta sous e i chiodi di
garofano restano di poco sotto. Lo zenzero, nelle sue varie gradazioni, va dal
prezzo economico di quattro soldi, equivalenti a pochi centesimi, per la
varietà "Mecca", sino a sette soldi per la varietà "Belledi", più chiara. Il prezzo
della canfora era, come sempre, estremamente elevato, cioè 176 soldi la
libbra. Se questi pezzi vengono comparati con la valutazione operata nel
1348 sui beni di un altro farmacista della zona, nella cittadina catalana di
Manresa, appare chiaro come alcuni prezzi fossero rimasti stabili (il prezzo
del pepe a Manresa nel 1348 era lo stesso che a Barcellona tra il 1378 e il
1381), mentre altri avevano ampie fluttuazioni (lo zafferano a Manresa
124
costava solo dieci soldi alla libbra nel 1348, mentre a Barcellona, trent'anni
dopo, ne costava fino a ottanta)43. Da queste registrazioni, dettagliate ma
non sempre esaustive e non facili da valutare, ricaviamo chiaramente una
buona documentazione sulla varietà delle spezie presenti sul mercato e sul
largo volume del loro traffico. Il prezzo era alto, ma non era né uniforme per
tutti i tipi di spezie, né stabile nel corso del tempo, a causa dei molti fattori
che ne condizionavano la fornitura. Le spezie erano suddivise in quattro
fasce di prezzo. Nella prima troviamo le spezie fondamentali, che costituivano
il grosso del commercio medievale e che erano costose ma anche
relativamente abbordabili: pepe, zenzero e zucchero. Una seconda categoria
comprendeva spezie comuni, ma molto pregiate e costose come la cannella,
il pepe lungo e la galanga. Un gruppo di spezie commestibili anche più
costose e molto richieste era quello dei prodotti provenienti dalle Molucche, in
particolare i chiodi di garofano e la noce moscata. Le spezie dal prezzo più
stravagante erano quelle della quarta categoria, composta di sostanze
medicinali preziose, come ambra grigia, canfora e muschio, ma anche dallo
zafferano che, per certi aspetti, occupava un posto a parte rispetto alle altre,
perché era sia estremamente costoso sia largamente usato. Lo zafferano era
un prodotto europeo oltre che asiatico, e perciò violava tutte le distinzioni
concettuali con cui le spezie venivano classificate. A questo punto si presenta
la domanda su cui in sostanza ruota l'intero libro: perché le spezie avevano
tanto valore? I primi capitoli hanno descritto il loro utilizzo in cucina e nella
preparazione dei medicinali, nonché la loro mistica ineffabile: il fatto che
venissero da molto lontano, la loro associazione con i paesi esotici, persino
col paradiso terrestre, il fascino che nasceva dalla combinazione del lusso
costoso, del potere risanatore, del sapore e del prestigio. Nel prossimo
capitolo ci occuperemo del loro valore economico e della loro rarità, non in
puri termini di prezzo o disponibilità, ma piuttosto alla luce dell'idea che della
rarità avevano i contemporanei e delle spiegazioni con cui giustificavano l'alto
prezzo del prodotto. Questo non ci aiuterà solamente a comprendere le
ragioni di fondo della domanda di spezie (quale sia il significato
dell'affermazione che il loro valore si doveva alla loro rarità), ma anche a
determinare perché gli europei si siano avventurati su mari ignoti,
esponendosi a un rischio considerevole, per trovare qualcosa che già
potevano tranquillamente procurarsi grazie a un sistema di traffici già
consolidati con il Mediterraneo orientale. Se già veneziani e genovesi
raccoglievano spezie in grandi quantità nel porto di Alessandria, perché mai
affrontare i terribili rischi delle malattie, dei naufragi e ogni altro genere di
125
pericoli per far vela verso le Indie? La risposta ha a che fare con il modo in
cui allora vennero percepite le opportunità dell'impresa e con la convinzione
che erano possibili profitti sbalorditivi, molto superiori al già rispettabile
guadagno che riuscivano a garantirsi i mercanti italiani.
Capitolo quinto
L'albero del pepe nasce in India, sulle pendici orientali del Caucaso. Le sue
foglie sono simili a quelle del ginepro. Le foreste formate da tale albero sono
custodite da serpenti, però gli abitanti della regione, quando il pepe è maturo,
lo incendiano mettendo in fuga i serpenti con il fuoco. Il pepe, quindi, è reso
nero dalle fiamme, essendo per natura bianco. Il suo frutto si presenta con
differente aspetto: ancora acerbo è chiamato pepe lungo; quando non è
corrotto dal fuoco è detto pepe bianco; quando, infine, la sua superficie
diviene rugosa e ruvida, prende colore e nome dal calore del fuoco. Il pepe,
se leggero è vecchio, se pesante, invece, novello. Ci si deve, però, guardare
dalla frode dei mercanti, soliti bagnare il pepe più vecchio e mescolarlo con
spuma d'argento o piombo per dargli un peso maggiore. Fonte: Isidoro di
Siviglia, Etimologie o Origini, a cura di Angelo Valastro Canale, Torino, 2004,
129
vol. II, p. 439 (XVII, 8, 8). Autori di epoca successiva osservarono che, se per
raccogliere il pepe si dovevano bruciare gli alberi, allora doveva anche essere
necessario trasferire altrove l'intera piantagione, presumibilmente con
ulteriore aggravio di sforzi, perdite di tempo e costi. L'autore del manuale
farmacologico Circa Instans dice apertamente che questo è un motivo
sufficiente per mettere in dubbio l'intera storia, ma ci furono anche in seguito
molti commentatori ed esperti che ripeterono, rielaborarono ed esaminarono
sotto ogni aspetto il problema dell'infestazione dei serpenti nelle piantagioni
di pepe, una leggenda che si protrasse per un periodo incredibilmente lungo
e che era nata già qualche secolo prima di Isidoro5. Si è avuta una lunga e
persistente tendenza ad associare le sostanze preziose a delle creature
pericolose; quello stesso accoppiamento di fascino e pericolo che
caratterizza l'esotico e che si riscontra nei racconti sul paradiso terrestre,
circondato da deserti o da razze mostruose, si ripete con l'India, opulenta ma
pullulante di animali spaventosi, esseri bizzarri e strane usanze. Sin
dall'epoca di Erodoto, che scriveva nel V secolo a.C, serpenti e altri pericoli
rendevano difficile l'acquisto delle spezie. L'incenso, secondo Erodoto, è
custodito da serpenti, mentre a fare la guardia alla cassia provvedono
creature pericolose simili a pipistrelli. La cannella non è protetta da guardiani
pericolosi, ma cresce su montagne inaccessibili dell'Arabia. L'unico modo per
procurarsela è quello di far lavorare astutamente a proprio vantaggio una
certa specie di uccelli della regione, che costruiscono il nido con bastoncini e
rametti della pianta della cannella. I nativi dell'Arabia lasciano in giro dei pezzi
di carne, adescando così gli uccelli che li portano nel loro nido. Il peso della
carne è sufficiente per far cadere il nido, che piomba a terra, dove i preziosi
rametti possono essere raccolti6. Tre secoli dopo, Pausania, autore di una
specie di guida turistica delle principali località religiose, artistiche e storiche
della Grecia, mette in evidenza il fatto che in Arabia il prezioso balsamo della
resina aromatica cresca circondato da vipere. Pausania approfondisce
questa notazione tradizionale spiegando al lettore la ragione per cui i serpenti
sono tanto attaccati a questa pianta aromatica. Pare che si alimentino di
questo balsamo e che anzi, subendone la felice influenza, divengano così
docili che il loro morso perde il suo carattere velenoso7. Sicché il balsamo
appare piuttosto facile da raccogliere, se lo si confronta con le spezie citate
da Erodoto. Tutti questi racconti sui serpenti, e sui modi di eluderli o giocarli,
risultavano utili ai mercanti quando dovevano spiegare o giustificare l'alto
prezzo del prodotto. I dettaglianti chiamavano spesso in ballo, anche
esagerandole, le difficoltà di ottenere prodotti esotici (veri o supposti) o
130
ingredienti di alta qualità prodotti botanici "rari" per i profumi, cuoio
"selezionato a mano" o "ben pieghevole" per i sedili sui carri, pettini di mare
raccolti da un "palombaro". Quando poi l'origine di un bene prezioso non è
affatto chiara, questo tipo di mistificazione diviene ancora più plausibile,
suggestiva e attraente. Gli scrittori romani ed ellenistici, come il naturalista
Plinio e il botanico Teofrasto, ridicolizzarono le "favole" di Erodoto e la
credulità con cui lo storico aveva accolto dicerie diffuse dalle genti dell'Arabia
e delle altre regioni in cui crescevano le spezie al solo scopo di tenere alti i
prezzi. Tuttavia, nelle loro opere, Plinio (che non è particolarmente noto per
aver tenuto un atteggiamento scettico verso i racconti di meraviglie) e
Teofrasto descrivono piante aromatiche custodite da serpenti o prendono in
esame, senza alcun commento derisorio, l'abitudine di costruire il proprio
nido con bastoncini di cannella comunemente attribuita alla fenice8. Il fascino
esercitato da queste storie, però, non può essere attribuito esclusivamente
all'abilità dei mercanti a esagerare per il proprio tornaconto. Si prenda in
considerazione, per esempio, il racconto di Erodoto sull'usanza di servirsi di
carne per ottenere beni di pregio, in questo caso gioielli, non spezie. Epifanio,
che nel V secolo fu vescovo della città cipriota di Costanza (l'attuale
Famagosta), scrisse un trattato sulle gemme che venivano menzionate nella
Bibbia, senza avere né investimenti né interessi personali nel commercio.
Epifanio commenta, fra l'altro, il libro dell'Esodo dove, nelle complicate
istruzioni che vengono date per le forniture al Tempio di Gerusalemme, viene
presentato un elenco delle gemme che debbono ornare la piastra pettorale
che fa parte dell'abbigliamento rituale dei sacerdoti (Es 28,15-20; 39,8-13).
L'importanza di queste gemme viene ribadita e rafforzata dalla loro
ricomparsa nel libro dell'Apocalisse, che descrive le mura e le fondamenta
della Gerusalemme celeste, decorate o interamente costituite di topazi,
smeraldi, perle e altre pietre preziose e semipreziose (Ap 21,18-21). Nel suo
lapidario, Epifanio, scrivendo del gioiello biblico conosciuto come giacinto (da
identificare probabilmente con lo zircone), riferisce che per tirare fuori queste
pietre sprofondate in gole inaccessibili della Scizia, si gettano dei pezzi di
carne in quei burroni. Le gemme si attaccano alla carne, che in seguito degli
uccelli appositamente addestrati riportano agli abitanti del luogo, che così
possono facilmente prelevare le pietre9. In Epifanio si riflette la fondamentale
associazione tra i prodotti esotici e le difficoltà, nonché la peculiarità, del loro
reperimento. Può darsi che il suo racconto derivi da quelli messi in giro dai
mercanti, ma è chiaro che vive anche di una sua vita propria. Nessuno può
sostenere che gli studiosi del periodo medievale mancassero
131
d'immaginazione. Ancora più significativa di questo strano frammento di
sapienza tradizionale è la misura della sua persistenza e della sua forza di
fascinazione, rimaste immutate nel trascorrere dei secoli e delle culture. Le
rielaborazioni successive del racconto di Epifanio e di altre versioni della
storia delle pietre nei burroni aggiunsero al quadro tradizionale i serpenti,
rendendo le gole ancora più inaccessibili. Il racconto si diffuse muovendo
verso oriente, per riemergere nella storia di Sinbad nelle Mille e una notte,
come pure nelle credenze popolari di cinesi e bizantini. Un trattato medievale
sulle gemme, falsamente attribuito ad Aristotele, dice che è lo sguardo dei
serpenti, non il loro morso, a risultare letale. Alessandro Magno fece porre sul
posto degli specchi, affinché i serpenti, rimirando in essi la propria immagine,
ne morissero. Per maggiore sicurezza, comunque, al momento di prelevare le
gemme, si affidò al metodo che si ritrova in Epifanio, servendosi di pezzi di
carne di pecora10. Le gole infestate di serpenti ricompaiono nella descrizione
della raccolta dei diamanti in India fatta da Marco Polo: i diamanti infatti si
trovano soltanto in profondi crepacci, in una zona dell'India. Tali fenditure di
roccia sono infestate di serpenti velenosi, per cui delle aquile bianche
vengono addestrate a recuperare carne e diamanti. I diamanti, poi, vengono
staccati dalla carne facendo impaurire e fuggire i volatili, oppure ci si limita a
recuperare quelli che cadono al suolo11. Le difficoltà della raccolta di gemme
e spezie erano curiosità che potevano essere parzialmente o del tutto
rigettate, ma l'attrattiva di questi racconti era così grande che li ritroviamo nei
libri di viaggi, nelle raccolte di fatti curiosi, nei trattati di geografia e nelle note
che accompagnano carte ed enciclopedie12. Questa storia rifioriva
continuamente perché aveva un significato per chi usava spezie e gioielli.
Beni che già possedevano il fascino dell'esotismo vedevano rafforzato il loro
prestigio dalle curiose e terribili difficoltà che si erano dovute superare per
procurarseli. Queste leggende, con tutta la forza immaginativa che
sprigionano, hanno implicazioni di carattere economico. Come si è già detto,
la scarsità del pepe, nella formulazione classica data da Isidoro, non è
assoluta, perché dopo tutto ci sono intere foreste di alberi carichi di pepe, è
invece circostanziale, perché per prenderlo si debbono correre seri pericoli e
ci vogliono molte fatiche e non poca abilità. Per compensare adeguatamente
tutti questi sforzi, quindi, il costo del pepe deve essere abbastanza cospicuo,
nella stessa India, anche senza mettere nel conto il fatto che dovrebbe anche
compensare i lunghi periodi che inevitabilmente separano un raccolto
dall'altro, se ogni volta gli alberi debbono essere bruciati. Se si avesse la
certezza che i serpenti ci sono davvero e che veramente gli alberi vanno
132
bruciati, allora anche i benefici ricavati dal tagliare fuori gli intermediari e
rivolgersi direttamente ai produttori dovrebbero essere ridimensionati e
questo, a sua volta, scoraggerebbe chiunque avesse progettato il tentativo di
stabilire quel contatto diretto, visti i rischi e le difficoltà dell'impresa. Il periodo
che, alla fine del Medioevo, vide la nascita dei viaggi d'esplorazione, del
commercio e del colonialismo degli europei vide anche il trionfo di idee
diverse, più ottimistiche, anche se non necessariamente più precise, sulle
forme di approvvigionamento delle spezie e di altre merci preziose. Entro
queste nuove convinzioni venivano sottolineate sia la disponibilità, in termini
di natura, di questi beni preziosi (il pepe cresce e si raccoglie in modo non
troppo dissimile da quello di tutte le altre piante), sia, addirittura, la loro
abbondanza e la facilità quasi assurda con cui, con una spesa minima, si
potevano acquistare beni che in Europa avevano un valore altissimo (i miti
dell'El Dorado e delle città lastricate d'oro). Sia i racconti, ormai scevri
d'esotismo, che presentavano le spezie come un prodotto abbastanza
comune, sia le fantasie di un'immensa abbondanza ebbero un ruolo
importante nello spronare gli europei a scoprire i luoghi in cui le spezie
crescevano, ma fu soprattutto il secondo tipo di convinzione, benché
irrealistica, ad avere l'impatto più forte: fu soltanto l'aspettativa di
un'abbondanza di tipo magico, non quella di un approvvigionamento un po'
più consistente, a muovere uomini come da Gama e Colombo e a
suggestionare i loro regali patroni quel tanto che era necessario a convincerli
a metter mano alla borsa per finanziare queste avventure.
133
in cui le acque del Nilo trasportano legno di aloe e cannella caduti dagli alberi
del paradiso terrestre, così come rami e frutta ben poco eccitanti cadono
dagli alberi europei più comuni. Uno dei primi visitatori europei dell'India, il
francescano Odorico da Pordenone, nella versione italiana del suo racconto
dice che, sulla costa del Malabar, in India, il pepe abbonda come il grano in
Europa. Marco Polo, il primo europeo che abbia descritto il Giappone,
sosteneva (senza esserci mai stato) che in quel paese l'oro era così
abbondante che nel tetto del palazzo imperiale veniva utilizzato per gli stessi
scopi per cui, nel tetto delle chiese europee, si impiega il piombo14. Con un
rovesciamento di prospettiva, si potrebbe anche immaginare che qualunque
oggetto d'uso quotidiano in Europa potrebbe essere considerato raro e
prezioso in terre molto lontane da noi. Secondo san Girolamo (e Isidoro di
Siviglia, che lo segue nelle sue Etymologiae) la comunissima menta europea
in India costa più del pepe. In una poesia sui giardini, il monaco del IX secolo
Walafrid Strabo corresse di poco l'informazione, dicendo che in India la
menta e il pepe avevano esattamente lo stesso prezzo15. Si credeva anche
che in Cina l'olio d'oliva fosse raro ed enormemente apprezzato come rimedio
medico sovrano16. Questo relativismo tende a fare apparire meno bizzarre le
usanze degli stranieri e rende più comprensibile, anche se esotica, la vita
degli abitanti dell'India. I primi europei che riferirono della loro visita in India
non tolsero proprio ogni credito alla storia dei serpenti e degli alberi di pepe,
ma ne offrirono visioni più verosimili. Marco Polo, senza far parola di serpenti
e fuoco, si limitava a riferire che il pepe era una pianta coltivata che cresceva
nel Malabar e veniva raccolto tra maggio e luglio. Nel racconto sui diamanti
dell'India, però, chiama in causa le gole inaccessibili e i serpenti velenosi.
Odorico da Pordenone, più di venti anni dopo, descrive realisticamente (e
accuratamente) il pepe comparandolo a piante che il pubblico europeo
conosce bene. Il pepe cresce su delle piante rampicanti, non sugli alberi. Le
foglie della pianta somigliano a quelle dell'edera. I suoi filari si stendono tra gli
alberi, come quelli dell'uva, che hanno bisogno di allacciarsi a qualcosa su
cui poter crescere. Odorico ha visto che il pepe non viene seccato dal fuoco,
ma dall'esposizione al sole. Secondo Odorico, le forniture di pepe sono
ridotte a causa del fatto che l'unica zona di produzione in tutto il mondo è il
Malabar. D'altro canto, però, l'unica foresta di pepe esistente ha una tale
estensione che un uomo per traversarla ha bisogno di diciotto giorni di
cammino, sicché la produzione di fatto è immensa. Le piantagioni sono
infestate da animali pericolosi: coccodrilli (che Odorico considera una specie
di serpenti) infestano i fiumi. In uno dei manoscritti del testo di Odorico, i
134
coccodrilli vanno cacciati col fuoco: è evidente che non siamo ancora fuori
dalle nebbie delle leggende, ma questi rettili sono timidi e sembra che per
metterli in fuga bastino le braci dei fuochi degli accampamenti e non ci sia
bisogno di un grande incendio17. Un autore che scriveva più o meno nello
stesso tempo, il frate domenicano Jourdain de Sévérac, comparò la pianta
del pepe a quella dell'uva selvatica. Il frutto è verde quando è acerbo, ma alla
fine si fa nero e grinzoso. Jourdain aveva un'autentica passione per le
meraviglie (in effetti il suo manuale sui viaggi è intitolato Mirabilia descripta),
ma qui respinge sprezzantemente l'idea che il pepe venga cotto o bruciato da
fuochi accesi per cacciare i serpenti, dicendo che si tratta di una bugia. John
Mandeville, i cui presunti viaggi condotti dal 1322 al 1336 erano pura
invenzione (come il suo nome), ricorre alla descrizione del raccolto del pepe
per mostrare quanto tenga all'accuratezza (in una narrazione che è una serie
ininterrotta di fatti meravigliosi). Gli alberi non debbono essere bruciati
davvero, poiché questo comporterebbe di necessità una serie di anni senza
alcun raccolto. Ci sono effettivamente casi d'infestazione di serpenti velenosi,
pensa Mandeville, ma non è difficile proteggersene. I serpenti vengono messi
in fuga da un repellente fatto di succo di limone, lumache e altri ingredienti
non specificati18. Il missionario francescano Giovanni dei Marignolli ritornò in
Europa nel 1353 dopo una lunga permanenza asiatica, prima in Cina e in
seguito in India. Giovanni tendeva a cercare spiegazioni più semplici e
concrete, non miracolose, per i fenomeni che si presentavano come
particolarmente strani. Così, per esempio, le storie inventate sugli sciopedi,
esseri mostruosi con un solo piede di eccezionale grandezza, che viene
usato anche per darsi ombra sotto il sole cocente, sono considerate un
fraintendimento dell'uso indiano di portare con sé ombrelli per proteggersi dal
sole e dalla pioggia. Per quello che riguarda il pepe, Giovanni fornisce il
resoconto più aderente alla realtà: ripete quello che era stato detto da
Jourdain e Odorico sulla pianta del pepe come rampicante affine alle vigne
europee, ma specifica che essa cresce in normali piantagioni, non nel mezzo
dei deserti come alcuni credono. Il pepe viene poi raccolto in un modo
assolutamente normale, senza incendi o attrezzi speciali, e Giovanni
testimonia di aver assistito personalmente alla sua raccolta (fig. 20):
l'operazione è così poco esotica che la descrizione che ne viene data rende
gli indigeni più simili a noi, e anzi si dice che siano persino cristiani! Come
Odorico, Giovanni sostiene che l'intera produzione mondiale di pepe viene
dall'India e che viene esportata attraverso il porto indiano di Quilon, sulla
costa del Malabar19. Queste descrizioni più realistiche di un'abbondante
135
produzione di pepe, fornite da persone che avevano visitato l'India, non
riuscirono a scalzare definitivamente la venerabile leggenda della scarsità. Il
cardinale Pierre d'Ailly (1350-1420), autore di molte importanti opere di
teologia, filosofia e teoria politica della chiesa, fu anche un influente geografo.
Le sue argomentazioni, esposte in un libro intitolato Imago mundi,
confermarono Colombo nella convinzione che solo un breve tratto d'oceano
separasse l'estremità occidentale dell'Africa dall'Estremo Oriente. D'Ailly
riporta la storia dei serpenti che custodiscono gli alberi di pepe senza alcun
commento. Lo stesso si può dire dell'erudito Enea Silvio Piccolomini (1405-
1464), che prese il nome di Pio II quando fu eletto papa nel 1458. Nella sua
opera di geografia, nota come Cosmographia, si afferma che in India gemme
e altri prodotti preziosi abbondano. Non c'è stata un'opera che Colombo
avesse letto con un'attenzione maggiore di quella che aveva dedicato a
questa Cosmographia, che contribuì ad alimentare le sue speranze di trovare
un'India di favolosa ricchezza, ma nel libro i serpenti continuano ad attorniare
gli alberi del pepe, riproponendo ancora una volta la tesi della scarsità
prodotta da circostanze meravigliose20. Il mercante veneziano Niccolò de'
Conti, che viaggiò in India e si spinse a est sino a Giava, ritornò in Europa nel
1440 dopo una permanenza in Asia di venticinque anni. Fu sottoposto a un
accurato interrogatorio dal segretario del papa, l'umanista Poggio Bracciolini,
che riuscì anche a fargli ottenere l'assoluzione per la sua apostasia e forzata
conversione all'islam quando si trovava in Egitto. Conti confermò quello che
Marco Polo aveva raccontato sulla ricchezza e l'estensione della Cina e
sull'importanza delle isole situate a est dell'India. Riprese anche il racconto di
Marco Polo sui diamanti indiani estratti da burroni infestati da serpenti. Fu più
preciso nel descrivere la geografia dell'India, individuando la regione posta
all'interno del regno meridionale di Vijayanagar ("Bezengalia") da cui
provengono i diamanti. Quanto al pepe, Conti sapeva che cresceva a
"Taprobane" (con cui qui si intende Sumatra) come anche in India. I serpenti
del Malabar (dove, oltre al pepe, fioriscono anche lo zenzero, la noce
brasiliana e la cannella) non sono così pericolosi in confronto a quelli delle
valli diamantifere. Sono inoffensivi se non vengano provocati, e possono
essere catturati e domati con incantesimi conosciuti dai nativi21. La
sopravvivenza della credenza che la raccolta dei diamanti fosse ostacolata
dai serpenti non significa affatto che, alla vigilia delle esplorazioni, ci fosse in
Europa un diffuso consenso sulla scarsità di tali beni preziosi. A quell'epoca
le responsabilità dell'alto prezzo delle spezie venivano attribuite a fattori
economici e non a qualche interferenza meravigliosa, a scelte e operazioni
136
umane che potevano essere aggirate e non a condizioni naturali
immodificabili. In questa prospettiva, l'acquisizione delle spezie e i progetti
che si potevano escogitare per garantirsela non venivano ostacolati da
qualche forma di scarsità intrinseca o circostanziale, ma piuttosto dalla
lunghezza e dalla frammentazione del viaggio di trasferimento in Europa, che
favoriva le speculazioni di molti mediatori. Una spiegazione eccezionalmente
chiara e dettagliata del costo delle spezie in Europa si trova nelle annotazioni
del più antico mappamondo che sia giunto sino a noi, creato nel 1492 da
Martin Behaim, un cartografo che lavorava a Norimberga22. La raffigurazione
del globo di Behaim è considerata da molti come la visione più aggiornata
della geografia del pianeta prodotta alla vigilia dei grandi viaggi di scoperta.
Anche se non si hanno prove del fatto che Colombo conoscesse quest'opera,
si tende in genere a ritenere che l'immagine che il navigatore si era fatto della
disposizione degli oceani e dei continenti aderisse molto strettamente a quel
modello. Behaim continua ad accettare l'esistenza di alcune delle meraviglie
associate ai prodotti preziosi e alle difficoltà del loro reperimento. Per
esempio, diamanti e gemme abbondano in India, ma sono custodite da
serpenti. La maggior parte delle annotazioni relative alle spezie, però, danno
una spiegazione esclusivamente umana del loro alto prezzo: le pratiche
monopolistiche degli intermediari. I molti punti di smistamento delle spezie,
nella loro rotta dalle zone asiatiche d'origine sino all'Europa, offrono occasioni
di profitto a mercanti e governi, elevando il prezzo a ogni tappa del lungo
cammino. Behaim sapeva che le spezie crescono anche fuori dall'India,
anche se il suo elenco dei luoghi di produzione è piuttosto eccentrico. Vi
include Giava, l'Indocina e Sumatra, che effettivamente producono spezie,
ma anche il Giappone e le isole Nicobar nell'oceano Indiano, che non ne
producono. La ragione per cui le spezie sono così costose, secondo Behaim,
non è la scarsità, ma il costo delle transazioni che il loro trasferimento
implicava. Le spezie, prima di arrivare nel paese natale di Behaim, la
Germania, devono percorrere non meno di dodici tappe. Dapprima gli abitanti
di un'isola che egli chiama "Giava Maggiore" (Giava, o forse il Borneo)
raccolgono le spezie dalle altre isole e le vendono a mercanti giunti da
Ceylon. Una volta a Ceylon, le spezie vengono vendute a mercanti
provenienti dal leggendario "Chersoneso d'Oro", oscuro toponimo che
potrebbe riferirsi alla penisola malese (perché Kherson, l'antico nome della
Crimea, poteva essere utilizzato come termine generale per indicare qualsiasi
penisola). Il prodotto, poi, viene nuovamente trasferito ai mercanti di
Taprobrane (probabilmente Sumatra). Sino a qui abbiamo una descrizione
137
molto elaborata, ma imprecisa, di un tortuoso movimento di spezie in Asia
orientale. Più puntuale è la ricostruzione del tragitto verso occidente delle
spezie, trasportate da "pagani musulmani" attraverso Aden e il Cairo. I passi
successivi sono quelli della distribuzione delle spezie attraverso Venezia,
Francoforte, Bruges, per giungere infine ai dettaglianti tedeschi. Tutte queste
tappe di trasferimento comportano esazione di tasse a opera delle autorità
pubbliche e offrono opportunità di profitto ai privati. I soli diritti di dogana,
sostiene Behaim, costituiscono una quota ragguardevole dell'astronomico
costo finale. La conclusione è succinta: "Si deve sapere che le spezie delle
isole dell'India orientale debbono transitare per molte mani prima di giungere
qui, nella nostra terra... Non c'è da stupirsi se le spezie da noi si pagano a
peso d'oro".
Capitolo sesto
1. Spezie e immoralità
145
a cosa dovesse essere considerato attaccamento indecente per
un'alimentazione raffinata ebbe luogo nel mondo monastico (fig. 22). Da un
certo punto di vista questo può apparire sorprendente, perché le grandi
occasioni per gli eccessi nel consumo di spezie si verificavano ovviamente
nei banchetti della nobiltà, ma ci si aspettava che l'aristocrazia mantenesse
un certo stile di vita e i suoi vizi, che comprendevano ogni sorta di atti violenti,
non stupivano nessuno. I monaci, che si aveva diritto di credere avessero
rinunciato al mondo e la cui dieta, in teoria, doveva essere limitata a
ingredienti semplici ed essenziali, potevano però abbandonarsi a qualche
trasgressione alimentare: quello dell'alimentazione era un ambito in cui
deviare dalla regola era sicuramente più facile che nella sessualità. Il
confronto, in particolare, si accese tra i monasteri francesi di Cluny e di
Chiaravalle, nel XII secolo, su quale fosse la forma corretta della vita
comunitaria monastica. Nel X e nell'XI secolo l'abbazia di Cluny aveva
rappresentato un modello, in virtù dell'esecuzione, splendidamente
organizzata, delle preghiere, che venivano giudicate un potente ausilio non
solo per la comunità, ma anche per i nobili, generosi sowenzionatori
dell'istituzione e desiderosi di rendersi graditi a un Dio che le loro forme di
vita, bellicose e materialistiche, offendevano abitualmente. La magnificenza
di Cluny crebbe via via che l'abbazia diveniva la sede principale di una
grande famiglia di monasteri che offrivano spettacoli liturgici splendidi, nello
scenario di edifici maestosi, forniti di molte dotazioni che ci si sarebbero
potute attendere nei palazzi. L'abbazia di Cluny, nel XII secolo, includeva, nei
suoi edifici monastici, la più grande di tutte le chiese d'Europa. Una tale
grandiosità era, sotto un certo profilo, appropriata, perché i pii sowenzionatori
volevano che le preghiere dei monaci fossero cantate e recitate in ambienti di
particolare bellezza, ma la generosità minacciava di interferire con
quell'austerità che avrebbe dovuto caratterizzare la vita monastica e rendere
efficaci quelle preghiere. San Bernardo, abate di Chiaravalle e direttore
dell'ordine relativamente recente dei Cistercensi, era critico nei confronti
dell'opulenza e della magnificenza di Cluny, ponendo in questione l'aderenza
agli ideali originari del fondatore del monachesimo occidentale, san
Benedetto. Gli arredi sontuosi, le raffinate sculture e le belle vesti dei monaci
di Cluny suonavano offensive per Bernardo, le cui chiese cistercensi erano
ampie ma semplici, persino spoglie. Gli standard elevati della cucina di Cluny
e l'indulgere dei monaci a pasti con molte portate, complicate e riccamente
speziate, erano scandalosi, a parere di san Bernardo. In effetti Cluny aveva
avuto un ruolo pionieristico nello sviluppo della cucina medievale, in parte a
146
causa delle sue stesse dimensioni, della sua ricchezza e della presenza di un
certo interesse per la gastronomia. La storica della cucina medievale
Johanna Maria van Winter ha osservato che Cluny ha insegnato all'Europa
come si doveva cucinare e, nella misura in cui tale osservazione corrisponde
a verità, era proprio questa innovazione a risultare particolarmente grave agli
occhi di san Bernardo3. Il fatto che Cluny rifuggisse dal consumo della carne
tranne che per la finalità terapeutica di dare maggior forza agli infermi,
comportava in realtà un incremento dell'ingegnosità in cucina: le modalità
complesse e succulente di preparazione del pesce si attenevano alla lettera
della legge, ma rendevano una finzione derisoria il professato rispetto
dell'austerità. Nella sua Apologia, scritta nel 1125 per rispondere a chi lo
accusava di aver calunniato Cluny, san Bernardo si dilunga sugli eccessi
culinari del monastero, denunciandone con indignazione i pasti a più portate,
nei quali la quantità dei piatti e la prelibatezza della preparazione sono per lui
scandalose4. L'appetito dei monaci viene stimolato dalla varietà di quei piatti
raffinati e dall'effetto delle sostanze piccanti, che stimolano e costantemente
riaccendono la voracità. Viene servita una portata dopo l'altra e, in luogo di
un unico grande piatto di carne, dalla quale ci si astiene, ci sono due grandi
portate di pesce. E quando già tu sei sazio della prima, se tocchi la seconda,
ti parrà di non avere ancora assaggiato pesce. La ragione è che sono tutte
preparate con tale cura e maestria dai cuochi, che, divorate quattro o cinque
portate, la prima non chiude l'accesso all'ultima e la sazietà non lo chiude
all'appetito. Perché il palato, sintanto che venga stimolato da nuovi
condimenti, gradualmente perde attrazione per ciò che è familiare e viene
ricondotto pieno di brama nel suo desiderio dalle spezie straniere, come se
sino a quell'istante avesse digiunato5. I monaci di Cluny mangiano più di
quanto sarebbe sufficiente a mettere alla prova le capacità del proprio
stomaco di provare piacere, dice Bernardo. Egli condanna le spezie in quanto
sono una sorta di stimolante gastronomico, simile a un afrodisiaco, che
favorisce l'ingordigia, offrendo sensazioni sempre nuove e riaccendendo il
desiderio. Sono forme d'allettamento particolarmente perverse, perché sono
straniere (presumibilmente le erbe locali non avrebbero questo effetto).
Bernardo si indigna per questo fanatismo per le spezie, soprattutto nella
misura in cui favorisce la degustazione di vini addolciti e speziati, nei
momenti in cui i monaci di Cluny si riuniscono per celebrare le festività più
importanti. Come è possibile che si lascino andare a questa sconsiderata
debolezza? Non sono certo malati (che sarebbe l'unica giustificazione per
l'assunzione di quei tonici). Si riteneva che il modo di vivere monastico
147
dovesse combattere e imbrigliare la sensualità ma, una volta trovata una
scappatoia dall'obbligo del digiuno, si apriva una strada ancora più ampia ai
piaceri illeciti dei sensi. In una precedente lettera di rimostranza a un cugino
che aveva preferito Cluny ai Cistercensi, Bernardo denunciava
l'apprezzamento delle spezie dell'ordine rivale con espressioni che non
chiamano in causa solo la golosità. Pepe, zenzero, cumino e "un migliaio di
condimenti di quella sorta" non si limitano a stimolare l'appetito in un modo
sconveniente, ma accrescono il desiderio sessuale. Sulle spezie gravava
l'accusa di possedere proprietà afrodisiache ma, a parere di Bernardo, il vero
problema era che una forma di autoindulgenza verso il piacere dei sensi,
l'ingordigia, ne avrebbe inevitabilmente incoraggiata un'altra, la lussuria6. Il
riferimento al ruolo delle spezie nel coniugare i piaceri della gola ai desideri
sessuali appare anche nell'opera di un altro cistercense, Alano di Lilla (1130-
1203 circa). Nel suo Lamento della Natura, Alano fa denunciare, dal
personaggio allegorico di Natura, tutte le forme di sensualità che
interferiscono col suo dovere di accrescere la popolazione della terra. In
quella che è un'elaborata lode del sesso procreativo e un'altrettanto elaborata
condanna del piacere sessuale fine a se tesso, Alano prende di mira
soprattutto l'omosessualità, in cui vede un vizio stimolato dall'ingordigia. La
disponibilità del clero alle relazioni omosessuali non era favorita soltanto dalle
regole che proibivano il contatto con le donne, ma anche dalla diffusa
passione per la gastronomia raffinata. Alano attacca i chierici che facevano
"torturare" ai propri cuochi il luccio e il salmone, insieme alle carni rosse e al
pollame, preparandoli con le spezie: "Sulla stessa tavola gli animali della
terra sono sommersi in un fiume di pepe, il pesce nuota nel pepe, il pollame è
tenuto prigioniero nella stessa sostanza appiccicosa"7. Vera o falsa che
fosse la convinzione che i monaci avevano a cuore i piaceri della tavola più
dei laici, era uso comune ironizzare sulla loro ghiottoneria e gli stessi
cistercensi non erano esenti da critiche. Reagirono con l'istituzione di nuove
regole, dirette in particolare contro il consumo delle spezie. Uno statuto
cistercense, da datarsi probabilmente tra il 1133 e il 1147, vietava ai monaci
l'uso del pepe e della cannella. Si riteneva che, se usate al posto di questi
generi decadenti d'importazione, le buone erbe "che la nostra terra produce"
dovessero bastare Un ultimo esempio di denuncia della passione dei monaci
per le spezie e per la stretta associazione tra ghiottoneria e lussuria, ci viene
dal Libro de buen amor, un capolavoro castigliano di poesia comica del
Trecento. In uno dei suoi episodi, un personaggio abbastanza ambiguo,
chiamato Trotaconventos (Trottaconventi) racconta al poeta degli anni da lui
148
trascorsi in un convento di suore dove, insieme ad altri amici maschi
illecitamente ospitati, otteneva digestivi, cordiali, elettuari e altre prelibatezze
mediche dalle sorelle. Tutto il brano è un elenco accurato di preparati e
composti di tipo medico, soprattutto del tipo di quelli con cui si curavano gli
effetti dell'ingordigia alimentare. Vengono citati nove digestivi, tra cui lo
sciroppo di rose al miele, la garriofilata (un composto elettuario su una base
di chiodi di garofano) e Yestomacón (un altro composto, specifico per i
disturbi di stomaco, come si capisce dal nome). C'è anche un classico
afrodisiaco, il disanturión, una ricetta di grande rinomanza e tradizione
composta di più di venticinque ingredienti, tra cui molte spezie9. Il gusto degli
alimenti di lusso era qualcosa di più di una piccola forma di autoindulgenza
monastica: piuttosto una fase preparatoria per peccati ancora più gravi.
Secondo il riformatore inglese del Trecento John Wycliffe, le spezie e gli altri
alimenti di gran lusso erano il simbolo di un livello di pervasione del male
letteralmente apocalittico. Il fatto che Wycliffe negasse la transustanziazione
nell'eucarestia e che anteponesse il potere secolare a quello della Chiesa gli
guadagnò una condanna, postuma, per eresia. Wycliffe si trova d'accordo
con Bernardo di Chiaravalle nel denunciare i monaci che si davano conforto
con i vini speziati. In un libello sull'Anticristo e il suo corteggio, Wycliffe
sostiene che l'Anticristo è già fra noi ed è riuscito ad allontanare gli uomini
dalla verità. Lo provano l'avidità, l'ipocrisia e l'amore per il lusso ostentato da
tanti suoi seguaci, chiaramente identificabili per la loro passione per le carni
delicate, le spezie calde, le salse e gli sciroppi10. Anche se erano soprattutto
gli uomini del clero a essere oggetto di denuncia, il peccato della gola non
restava chiuso nei ben forniti refettori delle chiese e dei monasteri più ricchi.
Per i laici, in questo caso, non si trattava tanto di ipocrisia, perché non erano
vincolati a vivere seguendo una rigida regola d'ascetismo. Era piuttosto la
propensione a un'eccessiva e folle autoindulgenza che poteva distoglierli dai
valori essenziali della vita e farli sguazzare nel fango di effimere distrazioni.
Come nel caso della bramosia di ricchezza o del pungolo delle brame
sessuali, non è l'oggetto del desiderio a essere in sé un male, ma è il fatto di
ostinarsi perversamente nella ricerca affannosa di beni inferiori ed effimeri, un
atteggiamento in cui rischiano di restare imprigionati cristiani d'ogni
condizione. Il costo delle spezie, lo sforzo necessario per procurarsele e
usarle, la rapidità con cui venivano consumate ne facevano un bersaglio
ideale per i moralisti e i critici delle debolezze secolari. Le spezie venivano
spesso viste come un segnale di decadenza, un segno del disgregarsi di
un'originaria virilità a causa dei piaceri e degli eccessi. In una storia, in gran
149
parte immaginaria, del popolo danese composta tra il 1186 e il 1218, Saxo
Grammaticus condannò la "stravagante riottosità" e "l'effemminata lascivia"
della Danimarca, la cui virtù veniva minata dall'introduzione del gusto tedesco
della cucina elaborata e delle "raffinate spezie"11. La funesta combinazione
di piacere sensuale e del desiderio di distinguersi socialmente è presentata
da Dante nel canto XXIX dell'Inferno, in cui si parla della punizione degli
alchimisti. Capocchio, che è stato cittadino senese, è coperto dalle pustole
della lebbra, che emanano un orribile fetore, paragonato da Dante a quello di
un ospedale, in totale contrasto con le prelibate spezie che Capocchio e i
suoi amici avevano entusiasticamente consumato, facendo parte di una
brigata di degustatori spendaccioni, che nutrivano una particolare
predilezione per i chiodi di garofano.
159
Capitolo settimo
Alla ricerca dei reami delle spezie Le grandi spedizioni alla fine del
Quattrocento, i viaggi che segnarono l'inizio dell'estensione dell'influenza
europea su tutto il pianeta, furono mossi dal desiderio delle spezie. Nel 1497,
il re Manuel del Portogallo autorizzò Vasco da Gama a intraprendere un
viaggio di circumnavigazione della punta meridionale dell'Africa con
destinazione finale in India, "in cerca di spezie". I portoghesi avevano
frequentato per decenni le coste dell'Africa, spingendosi sempre più a sud
con le loro navi e penetrando più a fondo nell'interno del continente, via via
che riuscivano a trovare nuove tecniche per far fronte alle avversità
presentate da venti, correnti e climi sconosciuti agli europei. Erano già riusciti
a mettere stabilmente in piedi attività da cui traevano profitti, soprattutto la
tratta degli schiavi africani, ma le possibilità commerciali offerte dalle spezie e
il tentativo di servirsi dell'Africa come via d'accesso diretta all'India si
presentavano come prospettive ancora più attraenti. Quando le tre navi
portoghesi riuscirono ad approdare a Calicut, nel luglio del 1498 (dopo che
era passato quasi un anno esatto dal giorno in cui erano salpate da Lisbona),
il primo uomo inviato da da Gama sulla spiaggia venne accostato da mercanti
di Tunisi, con i quali riuscì a conversare in spagnolo. "Che il diavolo vi
prenda, cosa vi ha portato qui?" chiesero i mercanti musulmani. La secca
risposta fu: "Cerchiamo cristiani e spezie". Questo primo scambio può dare
l'impressione di un clima di scontro, ma in realtà la conversazione era
amichevole, nella modalità cordialmente canzonatoria che i mercanti
utilizzavano con i loro concorrenti, quando li conoscevano bene. I tunisini
lodarono le ricchezze e le opportunità d'affari di Calicut e augurarono buona
fortuna ai colleghi portoghesi1. La storia rivela il desiderio di spezie dei
portoghesi e mette anche in evidenza come fosse ormai un fatto consolidato
la presenza in India di mercanti musulmani provenienti dal Medio Oriente,
abituati a muoversi per affari attraverso l'Egitto e il mar Rosso su percorsi
sbarrati per l'Europa cristiana. L'arrivo dei portoghesi non costituì quindi
proprio una "scoperta" di un punto di accesso all'India, quanto piuttosto quella
del modo di raggiungerla saltando i punti di transito tradizionali. I resoconti di
Colombo sui suoi quattro viaggi transatlantici tornano continuamente sul tema
della ricerca delle spezie e sulla convinzione dell'autore, un po' troppo
ottimistica, di averle trovate. Non si trattava di una sua ossessione privata,
perché quello era precisamente lo scopo con cui tanti altri giustificavano ogni
tentativo di raggiungere l'Asia orientale. Il dottore e geografo fiorentino Paolo
160
Toscanelli (1397-1482) era il principale fautore della rotta occidentale verso
"le Indie", in base a una stima delle dimensioni del globo terrestre che, come
poi si vide, era troppo riduttiva, ignorando ovviamente l'esistenza di un intero
emisfero tra Europa e Asia. Si pensa che Toscanelli abbia risposto a una
lettera di Colombo, lodando l'intenzione dell'esploratore di cercare le terre
dove crescono le spezie. In una lettera precedente (del 1474) al chierico
portoghese Fernào Martins, Toscanelli aveva parlato della rotta occidentale
che avrebbe condotto alle terre ricche di spezie e di gemme2. Abbiamo già
visto come gli europei si immaginassero la terra e le sue potenziali ricchezze,
come il crescente desiderio di stabilire un contatto diretto con l'India e altre
favolose terre asiatiche venisse sempre più stimolato da storie fantasiose di
abbondanza che ne rimpiazzavano altre, altrettanto fantasiose, di scarsità, e
come le spezie fossero oggetto dell'attenzione degli europei e dei loro
ambiziosi progetti espansionistici. Poiché abbiamo già visto come appariva
l'India nell'immaginazione degli europei, dobbiamo adesso occuparci delle
modalità in cui quelle attese di profitto e ricchezza si concretarono in progetti
pratici e realizzabili. La ricerca delle spezie aveva bisogno di risposte da
parte dei geografi e, sotto questo profilo, il progresso era reso
paradossalmente possibile dal grado ineguagliato di potere cui giunsero i
mongoli nel Duecento, costruendo l'impero più vasto che mai il mondo
avesse conosciuto. I mongoli, distruttori di città e civiltà, riuscirono in seguito
a governare in modo efficace e pacifico i vasti territori conquistati, offrendo
agli europei l'opportunità senza precedenti di viaggiare tra i popoli che si
trovavano oltre le terre islamiche e acquisirne una maggiore conoscenza. Nel
periodo del regno dei mongoli, dal 1240 circa al 1360, per la prima volta i
viaggiatori europei visitarono l'India e acquisirono familiarità con la Cina e con
gli altri regni a oriente del subcontinente indiano. Da questa nuova
conoscenza prese avvio il desiderio di organizzare spedizioni commerciali di
maggiore scala per lo sfruttamento delle ricchezze dell'Asia. Un progresso
decisivo nella comprensione europea della geografia dei territori asiatici si
verificò un po' meno di 250 anni prima della partenza di da Gama, col viaggio
dell'inviato francescano Guglielmo di Rubruck nell'Asia centrale, nel 125355.
Guglielmo era stato scelto da Luigi IX di Francia in un momento di ottimismo
nei confronti dei mongoli, che si ritenevano prossimi alla conversione al
cristianesimo e all'alleanza con gli europei in una crociata antislamica.
Circolavano infatti delle voci di una conversione di Sarraq, figlio del signore
dei mongoli occidentali. Guglielmo si spinse per quasi cinquemila chilometri a
oriente di Costantinopoli, sino alla capitale dei mongoli nelle steppe del
161
Karakorum, tornando poi indietro tramite un percorso più a meridione, in cui
traversò Persia, Armenia e il sud della Turchia. Dei circa cento intrepidi
europei dei quali c'è qualche testimonianza di un viaggio in Asia, tra il 1240 e
il 1360, Guglielmo fu probabilmente l'osservatore più attento e acuto. Marco
Polo fece un viaggio assai più ampio e fu il primo a descrivere le dimensioni e
la ricchezza della Cina, ma Guglielmo manifesta una più attenta capacità di
visione e una sorprendente adattabilità. Osservò con precisione gli usi e la
cultura materiale dei mongoli e arrivò a trovare delizioso, oltre che energetico,
il comos, cioè il latte di giumenta fermentato, bevanda nazionale mongola. Fu
il primo europeo a riferire del buddismo e a capire che i caratteri cinesi sono
ideogrammi e non lettere. Servendosi delle proprie esperienze e degli
informatori locali, smentì antiche autorità, come Isidoro di Siviglia, che aveva
asserito che il mar Caspio si versava nell'oceano. Guglielmo era scettico
sull'esistenza di razze mostruose. Per il futuro della ricerca delle spezie, le
osservazioni più importanti di Guglielmo erano quelle relative alla posizione
geografica dell'India. Fu il primo europeo a capire che l'India non era
collocata all'estremità orientale del mondo, ma che invece si trovava a
occidente della capitale mongola ed era spostata ancora più a ovest rispetto
alla Cina. Alla corte del gran khan Mòngke, dove sostenne uno straordinario
dibattito con rappresentanti del buddismo e dell'islamismo, Guglielmo
incontrò degli inviati provenienti dall'India che recavano in dono leopardi e
levrieri. Chiese loro quale fosse la collocazione dell'India rispetto a
Karakorum e annotò, nella sua relazione a re Luigi, che costoro gli indicarono
l'occidente. Fece il viaggio di ritorno accompagnandosi per un tratto a questi
inviati indiani, con cui si mosse per tre settimane verso ovest, prima che le
loro strade si separassero3. Guglielmo non ha nulla da dire sulle spezie,
perché aprire un percorso per questo prodotto non era la sua principale
intenzione, ma anche perché l'impressione dominante prodotta in lui dal suo
difficile cammino nel regno dei mongoli era quella di una grande desolazione,
di spazi vuoti e pressoché inabitabili. A questo punto, cioè alla metà del
Duecento, la possibilità di esplorare un mondo di grandissima estensione,
reso accessibile dalla conquista mongola, era ormai nota agli europei, e anzi
l'opportunità era stata già sfruttata, ma ci volle ancora del tempo prima che
venissero scoperte le zone dell'Asia che si ritenevano più ricche e che le
spezie fossero correttamente localizzate.
162
1. La "pax mongolica"
163
sfiorato la catastrofe, dopo la sconfitta del 1241, gli europei mutarono
atteggiamento nei confronti dei mongoli. Costoro ispiravano ancora una certa
salutare paura, ma ora destavano anche una certa curiosità e persino
speranza, avendo progressivamente acquisito la fisionomia di nemici dei
musulmani, piuttosto che di oppositori giurati della cristianità. La distruzione
epica di Baghdad, capitale del califfato, nel 1258, insieme all'impressione che
i mongoli non avessero una vera dottrina religiosa, rese plausibile la
prospettiva di un'alleanza comune contro l'islam o anche di una conversione,
in cui avrebbe trovato infine realizzazione piena, anche se in forma indiretta,
la leggenda del Prete Gianni. I mongoli proposero alleanze ai sovrani
occidentali in varie circostanze, come nel caso di Hùlegù, sovrano del regno
mongolo occidentale della grande Persia, nel 1262, che, in un messaggio
inviato al re Luigi IX di Francia, propose un attacco combinato, per terra e per
mare, contro l'Egitto. I negoziati per realizzare progetti di questo tipo furono
avviati dagli europei con un senso crescente d'urgenza, dal momento che i
territori crociati assediati dagli islamici in Terrasanta continuavano a
indebolirsi, ma non ne venne fuori nulla. La differenza culturale era enorme, i
problemi militari insormontabili (i giorni delle crociate internazionali su grande
scala dell'Occidente stavano ormai tramontando) e scontri ed egoismi interni
rendevano grandi alleanze di questo tipo fra i mongoli e l'Europa poco
probabili, anche nella migliore delle ipotesi. L'impossibilità di una specifica
alleanza aggressiva, però, è secondaria, rispetto alle possibilità indirette che i
mongoli aprivano agli europei. Il paradosso fondamentale, in prospettiva
europea, è che i mongoli, una volta chiuse le loro campagne di conquista
d'indiscutibile brutalità, avevano imposta quella che in seguito venne
chiamata "pax mongolica", nel ricordo della pax romana di un precedente
impero. Dal mar Nero sino all'oceano Pacifico, dai confini di Ungheria e
Polonia sino alla Cina, dal golfo Persico sino al mare Artico, si estendeva
un'area di relativa stabilità e libertà di commercio5. Certo, agli occhi europei i
mongoli apparivano ancora spaventosi. Giovanni di Pian de' Carpini, un
francescano che aveva completato un viaggio sino alla corte del Gran Khan
otto anni prima di Guglielmo di Rubruck, descrive la desolazione di Kiev, otto
anni dopo il saccheggio e il massacro degli abitanti. Tuttavia, per il periodo di
quasi cent'anni che seguì il viaggio di Guglielmo di Rubruck, l'Asia centrale
era aperta ai viaggiatori, al commercio, alle idee. In Occidente i mongoli
erano visti come violenti e primitivi, ma anche come coloro che avevano
liberato l'Europa dalla minaccia islamica. Gradualmente le storie terrificanti su
Gengis Khan lasciarono il posto all'immagine di Kublai Khan (che regnò dal
164
1260 al 1294), magnifico, saggio e giusto autocrate. L'impero mongolo
raggiunse i suoi limiti massimi e definì la sua enorme configurazione verso la
metà del Duecento, anche se erano già iniziati i contrasti e le divisioni interne
tra i suoi signori. Tra il Due e il Trecento ci fu una certa stabilità in quel
territorio di dimensioni enormi. Non è che in precedenza non ci fossero stati
viaggi attraverso l'Asia centrale. Per secoli i mercanti avevano percorso la
famosa Via della seta, che congiungeva la Persia con la Cina. La novità,
nell'era dei mongoli, era un facile collegamento con l'Occidente, di fatto la
prosecuzione della via della seta sino al mar Nero, dove nella penisola di
Crimea si stanziarono i genovesi. I mercanti occidentali potevano anche fare
affari nel territorio controllato dai mongoli, in città come la persiana Tabriz o,
più a est, a Urgeny, località in precedenza sottoposte al controllo di signori
musulmani che erano impegnati in continue guerre tra loro, ma si
mantenevano però sempre ostili agli stati cristiani. Alla fine, l'egemonia
mongola permise agli europei di gettare per la prima volta uno sguardo sulla
Cina e sulle isole delle Indie, che erano la terra d'origine di quelle spezie da
loro tanto apprezzate. I percorsi che, dal Mediterraneo orientale o dalla
Crimea, si dirigevano verso la Cina erano sempre stati pericolosi e
continuano a esserlo anche oggi - specialmente oggi, in verità. Confrontate il
pericolo di un viaggio attraverso il territorio di Turchia, Iraq, Iran, Afghanistan,
e via di seguito col movimento facile (anche se certo lento) descritto dal
mercante fiorentino Pegolotti all'inizio del Trecento6. Pegolotti dice che il
viaggio via terra da Tana, nella penisola di Crimea, a Pechino dovrebbe
durare circa nove mesi, con transito per Saray (ossia Sara, in Uzbekistan),
Urgenj, Otrar e Almalik (Organci, Ioltrarre, Armalecco, tutte in Turkmenistan),
nella Cina occidentale. Pegolotti assicura il lettore che "Il cammino d'andare
dalla Tana al Gattaio (il Catai, la Cina) è sicurissimo, e di dì e di notte".
L'unico problema era che se un mercante moriva in Cina, i suoi beni venivano
confiscati7. Questa strada non era proprio così tranquilla come la dipinge
Pegolotti ed era certamente lunga, ma, nell'era mongolica, un numero
significativo di mercanti, prevalentemente italiani, fecero quel viaggio e alcuni
presero residenza per lunghi periodi di tempo in Cina e nelle città incontrate
sul percorso, tutte sotto la protezione dei mongoli. I viaggiatori veneziani
diretti a Delhi, di cui abbiamo parlato nel quarto capitolo, per esempio,
partirono da Urgenj. All'inizio del Trecento c'erano in Cina due vescovi
cattolici (a Zaiton/Quanzou e Canbalac/Pechino) e colonie di mercanti
genovesi e veneziani, composte da un numero non alto ma abbastanza
consistente di persone, erano insediate a Quinsay e Zaiton8. A parte pochi
165
avventurieri, come i mercanti Loredano a Delhi e qualche individuo isolato,
perlopiù missionari, c'erano pochi legami commerciali diretti tra Europa e
India, anche nella scala modesta dei contatti italiani con la Cina. Jourdain de
Sévérac ha sostenuto di averne incontrati a Quilon, nella costa del Malabar,
ma quello che i mercanti europei in Asia trattavano, durante il periodo dei
mongoli, erano soprattutto sete e porcellane acquisite in Cina, piuttosto che
spezie comprate direttamente in India9.
166
regni crociati in Terrasanta fece sì che, nel corso del XII e XIII secolo, grandi
porti franchi del Mediterraneo orientale sotto controllo cristiano, come San
Giovanni d'Acri, accogliessero i carichi di spezie che venivano dall'Asia
orientale attraverso il golfo Persico, o per via di terra, attraverso la Persia e
l'Arabia. La caduta di Acri, ultimo avamposto cristiano in Terrasanta, nel
1291, venne in qualche misura compensata dalla varietà di strade nuove
aperte dalla pax mongolica. Sappiamo che nel Trecento le spezie giungevano
ai mercanti europei per via di terra, in Crimea, sul versante settentrionale del
mar Nero, e a Trebisonda, a sud, sulla costa turca. Venivano anche raccolte
da mercanti che operavano in zone precedentemente islamiche, ma ora
controllate da dinastie mongole, soprattutto quella nota col nome di Ilkhanato
(il-khan signfica khan subordinato, o di rango minore), che corrisponde
all'incirca ai territori compresi nella Grande Persia. Gli effetti dell'egemonia
mongola si manifestarono più direttamente nel commercio della seta che non
in quello delle spezie, tuttavia la pax mongolica aveva un effetto importante,
consentendo agli europei una certa intensità di scambi e opportunità di
viaggiare. La loro conoscenza della geografia dell'Asia riuscì quindi a
superare i limiti dell'antichità classica e delle convinzioni di tipo quasi biblico,
sino a giungere all'acquisizione di tre fatti fondamentali: dimensioni, ricchezza
e confini della Cina (che per i greci e i romani non era stata nulla di più che
un lontano e non ben definito reame in cui si produceva la seta); le rispettive
collocazioni di India e Cina; la localizzazione delle aree di produzione di una
buona parte delle spezie in territori, isole e aree continentali, a est dell'India e
a sud della Cina. La progressiva disintegrazione dell'unità dell'impero
mongolo e la ricostituzione di una Cina autonoma sotto la dinastia dei Ming a
metà del Trecento bloccò quasi completamente gli spostamenti dall'Europa
all'Asia centrale e alla Cina e pose praticamente fine ai contatti diretti tra
l'Europa e i regni orientali non islamici. La dinastia mongola Yuan venne
sostituita dai Ming, che chiusero la Cina al commercio con l'Occidente. I
sovrani dell'Hkhanato di Persia, dopo qualche indecisione, si convertirono
definitivamente all'islam e si allearono con i loro vecchi nemici, i sovrani
mamelucchi d'Egitto, nel 1322, poco prima del collasso della dinastia
mongola nel 1335. Anche se un arcivescovato cristiano venne formato in
Persia, a Sultaniyeh, e vi rimase sino alla fine del secolo, le speranze di una
grande alleanza contro l'islam, e in particolare contro la Siria e l'Egitto,
svanirono. Il ritiro dei mongoli e il ritorno del potere islamico misero
gradualmente fine agli sforzi missionari degli europei e, verso la fine del
Trecento, anche alla rete commerciale che i mercanti europei avevano
167
realizzato in Asia. Nel Quattrocento la maggioranza delle spezie consumate
dagli europei veniva acquistata da mercanti mediterranei nelle città islamiche
di Alessandria, Beirut o Damasco. Le piccole aree cristiane del Mediterraneo
orientale, come Cipro, erano centri di deposito importanti, ma Martin Behaim,
il cartografo di Norimberga, era corretto nelle annotazioni apposte al suo
mappamondo: l'intero commercio europeo delle spezie dipendeva da un
numero di vie d'accesso molto ristretto e sottoposto al controllo degli stati e
dei mercanti musulmani. Nel Quattrocento non esisteva in pratica nessun
contatto diretto tra l'Europa da una parte, e la Cina e l'India dall'altra. Il mar
Rosso era in mano agli egiziani, che ne chiudevano l'accesso al commercio
occidentale. Non c'era più un percorso via terra che conducesse, dal
Mediterraneo, verso l'interno dell'Asia, o almeno non ce n'era uno in cui gli
europei agissero come gli operatori più importanti. Fra Mauro, nella mappa
disegnata verso il 1450, dice che una volta le spezie giungevano
regolarmente nei porti del mar Nero, ma che ormai non arrivavano più così
lontano. Imputava questo fenomeno al peggioramento delle condizioni delle
strade più che al mutamento del quadro politico, ma esprimeva il suo
rimpianto per il clima economico precedente che, anche da punto logistico,
risultava molto migliore10. Restava, in genere, il ricordo del tempo in cui un
numero significativo di viaggiatori determinati, ma non necessariamente
eroici, poteva fare affidamento sulle corti dei khan e poteva anche contattarle.
In quella che sembra essere una bizzarra fantasia, cioè l'idea che avrebbe
trovato il regno dei khan, Colombo non era molto di più che un prodotto del
ricordo di questa pax mongolica. I khan che Marco Polo, Odorico da
Pordenone e John Mandeville avevano descritto come signori formidabili
quando erano al massimo del loro potere, dovevano ancora essere in carica,
o almeno così sembrava, anche se gli ultimi resti del loro potere in Cina
erano stati spazzati via nel 1368. Il commercio dei generi di lusso
dell'Oriente, e in particolare quello delle spezie, tornava sotto controllo
musulmano e Alessandria tornava ad assumere la sua posizione dominante
nel giro della fornitura di spezie, essendo anche in grado di prevenire la
realizzazione dei progetti con cui vari operatori europei pensavano di potersi
inserire nelle correnti di traffico tra mar Rosso, India, oceano Indiano e il resto
dell'Asia orientale di cui ora si era a conoscenza. Questa situazione andava
bene ai mercanti italiani, specialmente veneziani e genovesi, che potevano
trarre profitto dal loro controllo dei traffici con Alessandria e gli altri centri del
Mediterraneo orientale coinvolti nel commercio delle spezie, ma per gli altri,
come i mecenati portoghesi di da Gama o quelli spagnoli di Colombo, era
168
l'immagine dell'Asia, come era apparsa nel periodo della sua apertura, tra
1240 e 1350, a rappresentare un miraggio profondamente stimolante. Per
loro, una via di accesso diretto alle Indie avrebbe permesso di tagliare fuori
veneziani, turchi e tutti gli altri intermediari, per poter trovare, a proprio
esclusivo benificio, le terre in cui crescevano le spezie.
169
Marco Polo, il cui viaggio ebbe luogo negli ultimi decenni del Duecento, fu il
primo a riferire: le dimensioni della Cina e delle sue molte città, l'esistenza di
Giappone, Birmania, Indocina e Indonesia. A quel che si sappia, fu il primo
europeo che abbia visitato l'India dopo l'epoca classica e il primo a dare una
descrizione della Cina che rimpiazzasse i racconti molto vaghi in cui si
favoleggiava di pacifici tessitori di seta, laggiù, nel remoto Oriente. Ai fini della
comprensione effettiva dei movimenti del traffico delle spezie, l'aspetto
significativo dell'opera di Marco Polo è l'identificazione di terre produttrici
distinte dall'India, in particolare le 7.448 (in base ai suoi conti) isole a sud
della Cina e a est dell'India che costituiscono il complesso che oggi
chiamiamo Indonesia. Queste isole delle Indie sono i maggiori e produttori
delle spezie più varie, secondo Marco Polo. Descrive l'isola di Giava (di cui
ha sentito parlare, ma che probabilmente non ha personalmente visitato)
come la principale fonte di spezie che esista al mondo, anche più importante
dell'India. Polo cita in particolare pepe, noce moscata, spiganardo, galanga,
cubebe e chiodi di garofano. Non è proprio giusto, dal momento che la
produzione del pepe indonesiano si concentrava soprattutto a Sumatra, e che
un ristretto gruppo di isolette, nelle Molucche, coprivano da sole la
produzione mondiale della noce moscata e dei chiodi di garofano, ma
l'identificazione di Giava e dell'arcipelago indonesiano era comunque un
immenso passo in avanti per gli europei. Il ritorno di Marco Polo in Occidente,
nel 1295, seguiva di poco il disastro della caduta di San Giovanni d'Acri, nel
1291, in un momento in cui ogni speranza di alleanza con i mongoli stava
svanendo. Ancora prima che i viaggi di Marco Polo venissero pubblicati e
accettati come resoconto affidabile, gruppi di strateghi europei progettavano
piani contro il commercio islamico. Il papato, in risposta alla caduta dei regni
crociati, aveva proibito ogni accordo con le autorità islamiche e, anche se
questo editto era frequentemente violato da veneziani, genovesi e altri ancora
(di fatto, secondo una modalità abbastanza tipica della finanza pubblica
medievale, il papato, in seguito, vendette esenzioni a questo divieto),
l'embargo aveva comunque il potere di stimolare la creazione di piani
visionari per giungere alle terre delle spezie aggirando le regioni controllate
dagli islamici, piani che avrebbero dovuto attendere due secoli per essere
realizzati. Nonostante la tendenza delle mappe, come nell'esempio di quella
di Hereford, a collocare il mar Rosso in Asia orientale, si riusciva però a
capire in una prospettiva d'uso pratico che quel ristretto braccio di mare
portava dal Mediterraneo all'oceano Indiano e che era possibile chiuderne
l'accesso a sud. I mercanti e i crociati capirono che dall'Egitto era abbastanza
170
agevole raggiungere l'India via mare e che proprio quella era la rotta seguita
dalla maggioranza delle spezie nel loro viaggio verso l'Europa. Già nel 1182,
quasi un secolo prima della caduta di Acri, il crociato notoriamente violento
Reynald de Chàtillon tentò di portare a realizzazione un piano per controllare
il mar Rosso, con la fortificazione di un porto nel golfo di Aqaba, cioè in un
braccio del mar Rosso, a Eilat, che oggi è un'importante base strategica
navale in territorio israeliano. Reynold costruì cinque navi e si mise ad
attaccare i mercanti e i pellegrini musulmani che viaggiavano tra Egitto,
Arabia e India. Se i suoi sforzi avessero avuto successo, Reynald avrebbe
veramente potuto interferire col traffico delle spezie e minare la forza
commerciale e militare dell'Egitto. L'impresa però non giunse a nulla, poiché il
capo dei musulmani, Saladino, prese la precauzione di avviare una
campagna contro Eilat, che distrusse nel 1183. Reynald si trovò tra i
prigionieri catturati da Saladino dopo la battaglia decisiva, ad Hattin, nel
1187, e fu giustiziato. Nel 1291, per la prima volta, si ha un primo accenno di
realizzazione di un piano alternativo per sfuggire al controllo egiziano del
commercio delle spezie, aggirandolo. Una misteriosa spedizione partì da
Genova, guidata dai fratelli Ugolino e Guido Vivaldi. Le loro due galee
superarono lo stretto di Gibilterra e entrarono nell'Atlantico, probabilmente
con l'intento di circumnavigare l'Africa, o almeno di esplorarla fino
all'estremità meridionale. Anche se è possibile che le navi si siano spinte sino
alle isole Canarie (note agli antichi, ma poi dimenticate dagli eu ropei) di loro,
in seguito, non si seppe mai più nulla. Il fallimento della spedizione, e
l'oscurità che circondava la sua destinazione e il suo scopo, le garantirono in
seguito una certa notorietà. Si è talvolta ipotizzato che il ritratto che Dante fa,
nel canto XXVI dell'Inferno, di Ulisse, mai sazio di avventure, sia stato ispirato
dall'episodio dei Vivaldi, perché Ulisse e i suoi uomini, stanchi, dopo tante
peripezie, ma ancora desiderosi e avidi di conoscenza, superano le Colonne
d'Ercole e vanno infine ad affondare sull'isola del Purgatorio, nell'emisfero
meridionale.
Quando l'uomo si parte di Ciamba [Indocina] e vien tra mezzodie e siloc [sud-
sud-est] ben. md. miglia, sì viene a una grandissima isola ch'à nome Java. E
dicono i marinai ch'è la magior isola del mondo, che gira ben iij [3.000] miglia
E' sono al grande re; e sono idoli [idolatri], e non fanno trebuto a uomo del
171
mondo. Ed è di molto grande richezza: qui à pepe e noci moscade e spig[o] e
galinga e gherofani e tutte care spezie. A quest'isola viene grande quantità di
navi e di mercatantie, e fannovi grande guadagno; qui è molto tesoro che non
si potrebbe contare. E di quest'isola i mercatanti di Zaiton e de li Mangi [nella
parte meridionale della Cina] n'ànno cavato e cavano grande tesoro.
Nel Trecento ci sono tracce di entrambi i piani: mettere navi nel mar Rosso e
nell'oceano Indiano per disturbare il traffico tra Egitto e India, oppure
circumnavigare l'Africa ed evitare così al contempo un diretto scontro con il
Medio Oriente musulmano. Nel 1318, Guglielmo di Aden, un frate
domenicano che divenne in seguito arcivescovo della diocesi persiana di
Sultaniyeh, propose il piano uno: blocco cristiano del mar Rosso e del golfo di
Aden con l'impiego di galee genovesi (perché, disse, i genovesi erano sia
esperti sia avidi). Guglielmo metteva in gran risalto i vantaggi, militari e
commerciali, del suo piano: Tutto quello che si vende in Egitto, come pepe,
zenzero e altre spezie, oro, e pietre preziose, sete e quei ricchi tessuti
colorati con tinture indiane, tutti quegli oggetti di pregio, per i quali i mercanti
di questi paesi [europei] vanno a comprare ad Alessandria e si espongono
alla trappola della scomunica [a causa dell'interdizione papale], tutte queste
cose giungono all'Egitto dall'India. Guglielmo credeva anche che fosse
almeno possibile girare attorno all'Africa ed entrare nell'oceano Indiano, ma
preferiva il mar Rosso, come area strategicamente più vicina e diretta per uno
scontro con l'islam12. Il piano del blocco aveva almeno un altro sostenitore in
Jourdain de Sévérac, il missionario francese che aveva passato tanti anni in
India e aveva liquidato come una menzogna la leggenda dell'uso del fuoco
per cacciare via i serpenti dalle piantagioni di pepe. Nel 1329, Jourdain
scrisse direttamente al papa, per raccomandargli di far sì che nell'oceano
Indiano stazionassero delle galee, per operare scorrerie e incursioni in Egitto
e nell'islam in generale13. Una versione più elaborata dello stesso progetto fu
avanzata da Marino Sanudo il Vecchio, il veneziano autore di un trattato per
la rinascita del movimento crociato, presentato a due papi in due diverse
versioni. Una terza versione, scritta tra il 1321 e il 1333, venne fatta circolare
tra diversi principi europei, accompagnata da una mappa, disegnata
probabilmente da Pietro Vesconte, uno dei primi cartografi professionisti14.
Nella mappa di Vesconte si ritrovano gli effetti di alcune delle nuove
informazioni sull'Asia e sull'impero di Kublai Khan, vi si mostra il regno del
Catai e vengono citati i mongoli ("tartari"). Il mar Caspio non è più aperto
172
sull'oceano nella parte settentrionale, ma, come aveva asserito Guglielmo di
Rubruck, è un lago chiuso. Ci sono alcune isole nell'Asia sudorientale (non
proprio le migliaia del corredo completo di Marco Polo) e una di loro viene
presentata come "l'isola del pepe". In questa mappa, però, lo zenzero e la
noce moscata crescono sulle coste dell'Africa orientale. Nella mappa di
Vesconte si manifestano anche i propositi di Sanudo sull'Egitto. In contrasto
con la concezione tradizionale, rappresentata dalla Mappa di Hereford, qui la
posizione del mar Rosso rispetto all'Egitto è corretta e viene pure rilevata la
posizione strategica della penisola del Sinai, che controlla il passaggio del
Mediterraneo al mar Rosso. Le prime versioni del trattato di Sanudo
presentavano i problemi dell'Europa cristiana in quest'area, inquadrandoli in
una prospettiva più strettamente commerciale. Veniva sottolineata
l'importanza dei due porti indiani che smistavano la maggior parte del
commercio mondiale di spezie, "Mahabar" (Ma'abar) sulla costa del
Coromandel (il versante orientale della parte meridionale dell'India) e
"Cambeth" (Cambay) nel Gujarat, sulla costa nordoccidentale. La ricchezza,
l'onore e l'"esaltazione" del sultano d'Egitto derivavano dalle spezie che
costui riceve dall'India, sicché colpire il traffico di spezie dell'oceano Indiano e
del mar Rosso avrebbe avuto l'effetto di indebolire gravemente l'Egitto senza
impegnarsi in un attacco diretto contro quel paese, uno sforzo la cui futilità (o
almeno alta dispendiosità) era già stata verificata nel secolo precedente.
Sanudo proponeva un blocco dei traffici dell'Egitto con l'India e la diversione
del flusso delle spezie indiane su altri canali d'accesso (presumibilmente
percorsi via terra spostati più a nord). Nelle ultime versioni, Sanudo si
concentrò sempre più sul progetto di crociata e meno sul contesto
commerciale, proponendo, in un progetto più convenzionale, un vero e
proprio attacco militare contro l'Egitto, coordinato e finanziato dal papa e
supportato dalla marina veneziana15. Niente di tutto ciò era destinato ad
accadere. A quel tempo il papa risiedeva ad Avignone, non a Roma, e veniva
quindi considerato uno strumento della politica e degli interessi francesi, non
più l'arbitro imparziale delle vicende dei cristiani, come nel Duecento.
Progressivamente, nel corso del Trecento, le divisioni interne alla cristianità,
l'indebolirsi dei mongoli e la nascita di una nuova potenza islamica, quella dei
turchi, chiusero agli europei, una dopo l'altra, ogni finestra aperta sull'Asia. La
fine della pax mongolica rese la Cina inaccessibile e, con l'estendersi del
controllo turco sull'Asia Minore e quindi sui Balcani, Costantinopoli entrò in
una fase di debolezza che era destinata a essere terminale e il mar Nero non
offrì più alle iniziative dei genovesi, che per primi l'avevano utilizzato per il
173
transito della seta e delle spezie, i vantaggi che la sua collocazione aveva
garantito con gli assetti politici precedenti. Ci fu, dal punto di vista degli
europei, qualche successo di breve durata, come il sacco di Alessandria a
opera di una spedizione partita da Cipro nel 1365, ma adesso l'Egitto veniva
ridimensionato dalla crescita della potenza turca, il cui controllo sui Balcani e
la parte nordorientale del Mediterraneo venne definitivamente sancito dalla
disastrosa sconfitta patita da un esercito cristiano, composto essenzialmente
di francesi e borgognoni, a Nicopoli, sul Danubio, nel 1396. All'inizio del
Quattrocento una crociata in Terrasanta del tipo tradizionale era solo una
chimera: a quanto pareva la cristianità era circondata da tutti i lati. L'unica
regione in cui si erano registrate vittorie cristiane sull'islam era la penisola
iberica, dove i regni di Spagna e Portogallo avevano ridotto l'area controllata
dai musulmani a un residuo di ristrette proporzioni, il regno di Granada. Alla
fine, sarebbero state proprio delle iniziative avventurose partite da questi
territori, agli estremi confini occidentali dell'Europa, a portare a compimento
alcuni dei piani visionari progettati nei secoli precedenti. Le frustrazioni del
Trecento non riuscirono veramente a far perdere alle spezie il loro potere
d'attrazione, né chiusero la strada al progresso delle conoscenze e delle
tecniche. La coincidenza, o la riconciliazione delle vecchie e delle nuove
immagini dell'Europa, dell'Asia e del mondo si possono riscontrare nella
produzione di nuove carte, in cui appaiono le informazioni raccolte nel
periodo della pax mongolica. Tra il 1375 e il 1377 un ebreo di Maiorca,
convertitosi al cristianesimo, Abraham Cresques, disegnò una mappa del
mondo immensa e splendida, destinata al re di Francia, probabilmente come
dono offertogli dal re di Aragona. Date le sue grandi proporzioni, la mappa
era stata divisa e ripartita in diverse cartelle, in modo da formare una serie
completa di carte che venne conosciuta col nome di Atlante Catalano.
Ovviamente, la sua accuratezza diminuisce progressivamente via via che ci
si allontana dall'area mediterranea. In Asia, l'Atlante Catalano presenta ed
esamina sirene, giganti, cannibali e insomma tutto il corredo di oggetti e
creature immaginarie che una lunga tradizione annette alle gemme e alle
spezie d'India e d'Oriente. In Asia, però, si nota anche un certo numero di
innovazioni: il paradiso terrestre è scomparso e in genere quest'opera
rappresenta la prima produzione cartografica a noi nota in cui si registrino le
informazioni relativamente nuove fornite da Marco Polo. Cambalac (Pechino),
la capitale della Cina sotto i mongoli, viene descritta in una lunga nota. L'India
appare chiaramente come una penisola, collocata a sudovest della Cina e a
est dell'Arabia. A est dell'India e a sud della Cina, ci sono le isole che Marco
174
Polo fece conoscere agli europei. L'atlante afferma che questo "mare delle
isole indiane" è "dove sono le spezie". Le carte del Quattrocento modificano
in modo radicale l'immagine tradizionale della terra trasmessa dalla Mappa di
Hereford e dalle altre risalenti alle fasi precedenti del Medioevo. Furono due i
fattori che determinarono questo cambiamento: la riscoperta degli antichi
cartografi greci Tolomeo e Strabone e il continuo afflusso di nuove
conoscenze sull'Asia e sull'Africa. La Geografia di Tolomeo, un'opera del I
secolo d.C, fu portata in Italia da Costantinopoli, allora sottoposta ad assedio,
da Emanuele Crisolora, uno studioso venuto a rifugiarsi in Occidente tradotta
in latino nel 1406. Le opere di Strabone erano comparse in Europa per la
prima volta poco dopo la caduta definitiva di Costantinopoli in mano ai turchi,
nel 1453. La riverenza per la cultura classica che caratterizzava sia la cultura
scolastica medievale sia quella secolare del Rinascimento italiano può servire
a spiegare la popolarità di Tolomeo e Strabone tra gli intellettuali ma, in
termini pratici, è importante il fatto che le loro idee sui continenti e gli oceani
del mondo corrispondessero con le esperienze e le convinzioni dei navigatori
e degli armatori, i cui piani per scoprire le terre "dove sono le spezie"
venivano ulteriormente incoraggiati dalla più chiara visione dei collegamenti
globali offerta dai cartografi antichi. Un cambiamento veramente radicale era
costituito dal fatto che adesso, grazie a Tolomeo e Strabone, si pensava che
nel mondo la massa oceanica, rispetto a quella dei continenti, fosse molto più
ampia di quella che risultava dalle carte tradizionali. Nella Mappa di Hereford
e in tutte le altre carte del mondo precedenti, e persino nell'Atlante Catalano,
l'oceano si limita a costeggiare un gigantesco supercontinente. Questa
massa di terra s'interrompe per la frattura operata da un Mediterraneo
piuttosto ristretto e da qualche spazio d'acqua, completamente chiuso, come
il mar Rosso. Ma non si ha mai il senso dell'esistenza di continenti separati
da grandi tratti di mare. Sino ad allora, la lettura della Bibbia pareva suggerire
che il mondo fosse costituito soprattutto da grandi distese di terra piuttosto
che da grandi superfici di mare. Negli Apocrifi nell'Antico Testamento, il
quarto libro di Esdra dice che Dio creò il mondo in modo tale che le terre
emerse ne occupassero sei settimi della superficie: "Il terzo giorno Tu hai
comandato alle acque di riunirsi e raccogliersi nella settima parte della terra;
sei parti invece le hai asciugate acciocché una parte d'esse potesse essere
seminata e coltivata e servirTi" (4 Esd 6,42, la cosiddetta Apocalisse di
Esdra). Questa affermazione non aveva un'autorità incontestabile, poiché
questo libro di Esdra non fa parte della Bibbia canonica, ma era nondimeno
abbastanza credibile perché in molti fossero disposti ad accoglierlo per vero.
175
Prima del 1400 le carte medievali riproponevano questo rapporto
sproporzionato di acque e terre. La scoperta della Cina e di altre parti
dell'Asia non ebbe altro effetto che quello di accrescere le dimensioni già
immense accreditate al continente dai cartografi, per accogliere i nuovi
territori, quelli reali e quelli leggendari. Le carte che erano state prodotte in
Europa prima dell'arrivo delle nuove informazioni sulla Cina e sui mongoli
erano già abbastanza affollate. Tanto per cominciare, dovevano includere il
paradiso, la terra dell'Albero Secco (Ez 17,24), le miniere d'oro di Ophir, le
Dieci Tribù Perdute di Israele (2 Re 17,6), San Tommaso in India, il Regno
dei magi e le nazioni selvagge apocalittiche di Gog e Magog, il cui rilascio
sarebbe stato il segnale della fine del mondo (Gn 10,2, Ez 38,15, Ap 20,8). A
questo sapere biblico e medievale, l'apertura dell'Asia all'Occidente
aggiungeva il Catai, il Prete Gianni, le razze mostruose, i mongoli e le
Indie16. Tolomeo dava una base scientifica alla collocazione delle località
dividendo in gradi la circonferenza della terra e sezionandola con latitudine e
longitudine. Le informazioni più recenti sul mondo presentavano un sistema
di comunicazioni marittime più aperto di quello che sarebbe stato possibile
realizzare via terra. Anche la stima di Tolomeo della misura degli oceani in
rapporto alle terre emerse continuava a restare bassa, soprattutto per
l'inclusione di una grande massa di terre che, a sud, collegavano Africa e
Asia, ma un grande mare interno (corrispondente, più o meno, all'oceano
Indiano) mostrava come Arabia, India e una Ceylon di dimensioni esagerate
(che egli identificava con Taprobane) fossero collegate via mare. L'oceano
Indiano di Tolomeo, essendo un mare chiuso, rendeva impossibile un
progetto europeo di accesso all'India con la cicumnavigazione dell'Africa.
Strabone rafforzava questo quadro tolemaico, relativamente aperto, di
interconnessioni oceaniche e aggiungeva un numero considerevole di dettagli
all'elenco e alla descrizione dei luoghi. Anche in Tolomeo il territorio asiatico
a oriente dell'India era molto esteso, benché non vi fosse riconosciuta
specificamente l'esistenza della Cina e delle Indie orientali. L'India di
Strabone e Tolomeo doveva essere adattata alle informazioni su Catai,
Tartaria, Tibet e Sudest asiatico fornite da Marco Polo e dai missionari,
mercanti, viaggiatori che lo avevano seguito, oppure, come divenne sempre
più chiaro nel corso del Quattrocento, una parte del quadro tracciato da
Tolomeo doveva essere completamente respinta. Tolomeo collocava sotto la
linea dell'equatore una parte considerevole dell'Asia e alcune isole asiatiche,
contribuendo così ad alimentare il già crescente scetticismo tardomedievale
nei confronti delle leggende secondo le quali le "zone torride" vicine
176
all'equatore non potevano essere abitate e neppure attraversate. Secondo i
calcoli di Tolomeo, la circonferenza dell'equatore doveva ammontare a
180.000 stadi, con una netta riduzione rispetto al calcolo più corretto di
Eratostene, che l'aveva fissata a 259.000 stadi. Questa misura avrebbe
incoraggiato i piani di coloro che, come Colombo, credevano che l'oceano
che a occidente separava l'Europa dalle propaggini orientali dell'Asia potesse
essere traversato senza troppe difficoltà. Oltre alla riscoperta della geografia
dei classici, il Quattrocento si giovò di qualche ulteriore informazione
sull'Asia, anche se i giorni in cui i viaggi via terra verso oriente erano
relativamente agevoli erano ormai finiti. Non si hanno prove dell'esistenza di
un solo europeo che abbia visitato la Cina nel corso di tutto il Quattrocento,
anche se il viaggio di Niccolò de' Conti in India e, più a est, verso le isole
dell'Indonesia, che durò dal 1415 al 1440, rappresenta una tappa intermedia
importante tra l'accumulo di conoscenze del periodo dei mongoli e i grandi
viaggi della fine del Quattrocento. Le scoperte di Niccolò furono comunicate
al mondo degli studiosi grazie all'opera dell'umanista fiorentino Poggio
Bracciolini. Il trattato di Poggio sul variare della fortuna, pubblicato nel 1447,
comprende (come quarto libro) il suo racconto dei viaggi di Niccolò. Ai fini
della comprensione del quadro complessivo dei movimenti del commercio
delle spezie, il contributo più significativo di Niccolò de' Conti fu
l'individuazione delle Isole delle spezie, collocate a est di Giava. Abbiamo già
visto come Marco Polo fosse stato il primo a dire che una quota sostanziosa
delle spezie che circolavano nel mondo non venisse dall'India, ma da isole
spinte ancora più a oriente. Niccolò sosteneva che Giava era il deposito
principale o il principale punto di smistamento del traffico delle spezie nel
Sudest asiatico, ma notò anche che noce moscata e chiodi di garofano non
crescevano a Giava (come invece aveva sostenuto Marco Polo), ma piuttosto
su due piccole isole, "Sondai" e "Banda". Sondai produce noce moscata e
macis e Banda è il solo luogo che produca chiodi di garofano. In effetti,
Niccolò faceva un po' di confusione: a quel tempo il piccolo arcipelago di
Banda produceva tutta la noce moscata e il macis del mondo, mentre i chiodi
di garofano si trovavano esclusivamente in un gruppo di poche isole nelle
Molucche settentrionali (soprattutto Ternate e Tidore). Per "Sondai" sono
state ipotizzate molte isole possibili (non ce n'è una con quel nome), ma
quello che è importante qui è la separazione delle Isole delle spezie, zona
d'origine delle spezie commestibili più pregiate, dal resto dell'Indonesia17.
Una mappa che risente dell'influsso di Tolomeo, Marco Polo e Niccolò de'
Conti fu iniziata da Fra Mauro di Venezia e portata a termine dai suoi
177
collaboratori, poco dopo la sua morte nel 1459. Qui le terre emerse occupano
ancora la maggior parte della superficie del pianeta, ma l'oceano separa
l'Europa dall'Asia. Fra Mauro era disposto a contraddire l'autorità degli
antichi, poiché, seguendo Niccolò, identificava la leggendaria isola di
Taprobane con Sumatra, piuttosto che con Ceylon (come faceva Tolomeo).
Secondo Fra Mauro, Tolomeo aveva confuso erroneamente le due isole. Fra
Mauro accoglieva anche la descrizione dell'Indonesia fatta da Niccolò,
individuando correttamente nell'arcipelago di Banda una delle zone d'origine
delle spezie, ma confondendo poi il monopolio della noce moscata esercitato
da Banda con una ricca produzione di chiodi di garofano, che crescono
invece solo più a nord. Secondo il cartografo le spezie abbondano a "Giava
minore" e sulle numerose isole dell'oceano Indiano, "molto fertile in spezie
preziose e in molte altre cose nuove"; "Bandan" è una piccola isola, prossima
all'oscurità (ossia a un regno delle tenebre), dove c'è abbondanza di chiodi di
garofano, mentre "Sondai", un'isola vicina a Bandan, produce noce moscata
(fig. 23 )18. Fra Mauro era innovativo anche per un altro importante aspetto:
mostrava l'Africa circondata da un oceano e sosteneva esplicitamente,
ancora una volta contro Tolomeo, che l'oceano Indiano era aperto e non
chiuso come un enorme lago. L'autorità su cui si basava per fare questa
affermazione era, da una parte, l'autore classico Solino, celebre tessitore di
storie di meraviglie, il che renderebbe meno audace la sua rottura con la
tradizione classica ma, d'altra parte, anche Plinio, che aveva detto che le
spezie giungono in Spagna dall'Arabia passando intorno all'Africa, e anche
un certo Fazio degli Uberti, autore di un trattato di geografia del 1360, che
aveva sostenuto sostanzialmente la stessa cosa. Fra Mauro osserva che la
possibilità di circumnavigare l'Africa è confermata da uomini avveduti che
hanno fatto questo percorso19. Per quanto riguarda la mappa dell'Africa
meridionale, Fra Mauro cita anche un altro recente sostenitore della sua tesi,
il re del Portogallo, le cui navi, dice, hanno esplorato le coste africane e
hanno scoperto porti, fiumi, golfi e promontori ai quali tutti hanno messo un
nome. Sostiene anche di possedere una copia delle carte portoghesi
dell'Africa, ma in effetti il suo racconto qui si fa confuso e l'unico argomento di
qualche peso che usa per provare che qualcuno ha effettivamente
circumnavigato l'Africa è tratto da un antico scrittore romano, Pomponio Mela,
che aveva detto che un uomo di nome Eudosso aveva viaggiato da
Alessandria a Cadice, in Spagna, girando attorno all'Africa ed entrando nel
Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra20. Fra Mauro non era stato il
primo produttore di carte a mostrare un oceano Indiano aperto e connesso
178
all'Atlantico, e, come egli stesso dimostra, citando Fazio degli Uberti, l'idea
era stata in circolazione per un bel po' di tempo. Il fatto però che chiami in
causa l'esperienza dei navigatori recenti e delle esplorazioni portoghesi
testimonia di un grado di vigore ed entusiasmo che eccede il livello della pura
speculazione astratta. C'era una discussione abbastanza accesa sulla
possibilità di sottrarsi al controllo islamico sul traffico delle spezie, cercando
una rotta per l'Oriente con il periplo dell'Africa, un progetto che i portoghesi, a
scadenze ricorrenti, cercavano in effetti di attuare e che trovò piena
realizzazione quarantanni dopo la morte di Fra Mauro. Una mappa senza
annotazioni didascaliche, composta nel 1489, mostrava due possibilità di
aggirare il controllo islamico. Henricus Martellus, un cartografo tedesco che
lavorava a Firenze, riproduceva le isole sudorientali menzionate per la prima
volta da Marco Polo. La sua è anche la prima mappa, fra quelle che ci
rimangono, in cui si mostri il Giappone ("Zipangu"), una grande isola a
qualche distanza dal Catai, la cui posizione, vista nella distribuzione della
massa oceanica di Tolomeo, incoraggiava la speranza di raggiungere l'Asia
muovendo verso occidente. L'India, però, risultava accessibile (se pur con
qualche difficoltà) anche con un periplo dell'Africa. Quest'ultima si estende
molto verso sud, ma c'è una sorta di canale d'acqua che la contorna. A sud
dell'estremità orientale dell'Asia c'è poi una lunga penisola, che si piega,
tornando indietro, verso ovest e assumendo una forma che è stata definita a
"zampa di tigre", sicché l'oceano Indiano risulta chiuso da tre lati. Comunque,
in base a questa mappa, le Indie si dovrebbero poter raggiungere con due
rotte alternative, o lungo l'Africa meridionale o attraverso l'Atlantico
occidentale. Infine, nell'esame delle teorie implicite o esplicite su cui si
basavano le carte del mondo, ritorniamo a Martin Behaim di Norimberga, il
cui globo con annotazioni del 1492 conteneva, come abbiamo visto, una
spiegazione in termini economici dell'alto costo delle spezie. Nella
distribuzione di continenti e oceani il suo globo è in genere tolemaico ma,
come capita anche con Martellus, Martin Behaim non accetta la convinzione
di Tolomeo che l'oceano Indiano sia un mare chiuso. In base alla sua mappa,
è almeno possibile progettare un viaggio per mare dall'Europa all'India, o per
la rotta africana (verso est) o navigando verso occidente in Atlantico. Il rilievo
che Martin dà al commercio delle spezie è in grado di fornire maggiori dettagli
rispetto agli altri cartografi, ma problemi come la collocazione dei centri di
produzione delle spezie, la distinzione delle aree di produzione delle singole
spezie e la posizione di questi luoghi in relazione al resto del mondo erano
ormai da tempo stabilmente al centro delle preoccupazioni e delle
179
speculazioni degli europei, anche a causa della difficile situazione economica
e dell'accesso alle nuove informazioni sull'Asia e i suoi prodotti di maggior
pregio, che avevano iniziato a giungere nel mondo cristiano occidentale a
partire dal Duecento.
180
chiodi di garofano, spiganardo e galanga erano usualmente trattati, in grandi
quantità21. Non si ha l'impressione di trovarsi di fronte a una preziosa
informazione strategica sull'economia europea - si registra soltanto un fatto
curioso. Non si formò nessuna coalizione musulmana, per tenere gli europei
lontani dall'India. Nel Tre e nel Quattrocento l'oceano Indiano era affollato di
mercanti islamici, provenienti da Arabia, Egitto e golfo Persico, che gestivano
il flusso dei prodotti indiani verso ovest e trattavano con molte altre
popolazioni islamiche in zone orientali più remote, così come trattavano con
la Cina e l'Indonesia. Anche se i geografi musulmani non sono precisi nella
localizzazione delle Isole delle spezie, conoscevano però abbastanza bene
Giava, Sumatra e i porti sullo stretto di Malacca, attraverso cui transitava la
maggior parte del traffico indonesiano diretto in India. Tutti questi paesi
avevano popolazioni con forte presenza musulmana. Se si dà un'occhiata ai
resoconti di viaggio di Ibn Battuta (1304-1368), il cui viaggio dal 1325 al 1349
lo portò da Tangeri all'Africa orientale e poi in India e Cina, si ha l'impressione
che si sentisse a casa in qualunque luogo si trovasse. È una persona dalla
mentalità rigida e capita che talvolta ci siano località e popoli che lo irritano,
ma trova ovunque delle comunità musulmane e le sue avventure, pur in una
grande varietà di luoghi e circostanze, hanno sempre luogo in uno spazio che
gli è sostanzialmente familiare, o che comunque non gli crea particolari
disagi. Sull'altro fronte, cioè per i cristiani, il mondo dell'oceano Indiano era un
paese delle meraviglie, "un orizzonte onirico", per usare le parole di Jacques
Le Goff22. Per i musulmani e tutti gli altri coinvolti nelle operazioni di un
traffico complesso, l'oceano Indiano era un'area di competizione economica
largamente pacifica. Non c'era stata un'unica grande potenza che fosse
riuscita a garantirsi l'egemonia su quell'area, e nemmeno nessuna che lo
avesse tentato. I mercanti islamici si potevano incontrare ovunque, ma il
controllo esercitato dai non islamici - dalla Cina, dagli stati dell'India e da
marinai e mercanti delle isole orientali - era compatibile con un sistema di
coesistenza che ebbe fine solo con l'arrivo dei portoghesi23. Che poi nel
commercio mondiale delle spezie le posizioni di maggiore forza fossero
occupate da potenze islamiche era un fatto che non dispiaceva a tutti gli
europei. Per i veneziani, i genovesi e gli altri mercanti del Mediterraneo, il
sistema che si era venuto a creare aveva molti vantaggi. Costoro
controllavano l'accesso dell'Europa ai grandi mercati generali, come quello di
Alessandria, e avevano sviluppato tutta una serie di contatti e accordi nei
grandi depositi musulmani. I divieti papali contro questo commercio non
erano mai stati un problema preoccupante e nel Quattrocento erano divenuti
181
irrilevanti. Individualmente ci potevano essere dei veneziani o dei genovesi,
come i Vivaldi o Colombo, che si ribellavano contro questo accomodamento,
ma lo facevano come agenti liberi, andando contro gli interessi delle
oligarchie delle loro città. Gli sforzi per trovare la zona d'origine delle spezie
non furono quindi una reazione a una crisi generalmente riconosciuta. Per
secoli l'Europa aveva continuato a pagare prezzi molto alti per le spezie, nei
tempi cattivi come in quelli buoni, e, in effetti, avrebbero continuato a farlo
anche dopo che i portoghesi riuscirono ad appropriarsi dei profitti di quel
commercio. La scoperta di una rotta marittima delle spezie, quindi, era più
un'opportunità che una necessità. Che il Portogallo e la Spagna siano stati i
primi regni coinvolti in questo progetto si deve a ragioni logiche, tra cui il
fastidio per i successi commerciali degli italiani e la situazione geografica
della penisola iberica sull'Atlantico e sulle coste occidentali del Mediterraneo,
però coloro che di fatto avviarono le scoperte e ne trassero profitto furono
anche mossi da circostanze imprevedibili e accidentali. I viaggi di Colombo,
da Gama e dei loro successori non furono tentativi per scoprire dove fosse
l'India la collocazione dell'India era nota sin dai tempi di Marco Polo ma di
trovare un percorso diretto, ed esclusivamente marittimo, per cogliere i frutti
di questo commercio, sfidando in primo luogo l'islam, ma anche Venezia e
Genova. I recenti progressi tecnici della cartografia furono essenziali, come
quelli della strumentazione dei naviganti, come i compassi e i portolani.
Furono anche realizzati nuovi tipi di nave, che coniugavano la velocità dei
modelli mediterranei con le dimensioni e la resistenza delle navi da carico del
nord. Ma questo è un classico esempio di come il ruolo della tecnologia
consista nell'offrire delle possibilità, piuttosto che in quello di determinare con
le sue sole forze il corso della storia. Se la tecnologia fosse stata il fattore
determinante, i cinesi avrebbero assunto il controllo di tutto il settore delle
spezie e anzi dell'intero sistema delle attività mercantili dell'oceano Indiano. Il
Quattrocento non è solo l'epoca in cui l'Europa preparò le fondamenta per la
sua successiva espansione coloniale, ma anche il periodo in cui la Cina riuscì
a raggiungere la sua massima espansione e poi decise, per suo conto, di
ritirarsi. L'ammiraglio Zheng He (circa 1371-1430) intraprese sette viaggi per
ordine degli imperatori Ming nell'Asia sudorientale, in India e in Africa24.
Zheng He, un eunuco di religione musulmana, era al comando di un'armata
molto più ambiziosa di quello che gli europei potessero anche solo sperare di
mettere insieme prima dell'età moderna. La prima spedizione del 1405, a
Champa (oggi Vietnam meridionale) e in Indonesia, era stata pensata come
una dimostrazione di forza agli occhi dei vicini della Cina. Era sicuramente
182
imponente, dal momento che comprendeva non meno di 317 navi, una flotta
straordinaria, se confrontata con le tre navi con cui salpò Colombo e con le
quattro che da Gama aveva ai suoi comandi quando partì. Le grandi navi che
contenevano il tesoro della flotta di Zheng He e la guidavano avevano nove
alberi, mentre l'ammiraglia di Colombo, la Santa Maria, ne aveva solo tre e
superava di poco, in lunghezza, i 35 metri. La Santa Maria era governata da
un equipaggio di 40 marinai e Colombo era partito con un totale di 70 uomini.
Pare che la prima armada di Zheng He ne avesse 28.870, mettendo nel
conto, oltre ai marinai e ai soldati, anche gli studiosi, gli artigiani e i naturalisti.
Zheng He era specialmente interessato alle isole che si trovavano a sud della
Cina e all'India, ma noi siamo meglio informati sul suo quarto, sesto e settimo
viaggio, con cui si spinse a ovest sino a raggiungere l'Africa, grazie al diario
tenuto da un altro musulmano, Ma Huan, che fungeva anche da traduttore
dall'arabo25. Ma Huan stilava un inventario dettagliato di ogni località che
incontrava, prendendo nota della sua distanza dalla Cina, e dei suoi signori,
costumi, prodotti pregiati e animali esotici. A quello che scrive, la spedizione
era stata allestita per visitare le terre dell'"oceano occidentale", per darvi
comunicazione degli ordini imperiali ed elargirvi doni in cambio di altri oggetti,
offerti come apertura di scambi e atti di tributo vassallatico. Furono portati in
Cina molti prodotti esotici, ma quella che sembra avervi destato la maggior
sensazione fu una giraffa africana, che divenne un'occasione per
manifestazioni di stupore e la composizione di poesie celebrative. Zheng He
morì nel 1430, nel corso dell'ultimo di questi viaggi. Immediatamente dopo la
sua morte, la corte dei Ming perse ogni interesse in queste spedizioni,
estremamente costose: si ha l'impressione che abbia finito per ritenere che il
paese fosse già ben fornito, grazie ai livelli e all'organizzazione raggiunti dal
commercio cinese, e non abbisognasse quindi di conquiste coloniali o
ulteriore espansione. I motivi per cui la Cina non ha sfruttato il vantaggio
tecnologico e organizzativo di cui godeva nel Quattrocento sono l'oggetto di
una vasta e non sempre convincente opera di indagine e teorizzazione,
mirata soprattutto a studiare l'opposizione tra spirito imprenditoriale e
tendenze isolazioniste o a cogliere qualche supposta lezione dalla storia. Si
pensa che l'incapacità della Cina di sfruttare le opportunità offerte da queste
spedizioni esemplifichi un fatale rifiuto a entrare in reale contatto col mondo,
o una mancanza di curiosità. Viene anche addotta come esempio degli
svantaggi delle imprese statali, condotte su grande scala, rispetto al tipo di
tentativi individuali, più flessibili e meno programmati, tipici
dell'intraprendenza degli imprenditori europei. L'imperatore poteva decidere
183
di mettere in piedi tali colossali operazioni oppure di bloccarle a suo esclusivo
piacimento, mentre le idee e i progetti degli europei, che al confronto risultano
così modesti e informali, hanno avuto la possibilità di evolvere, sino a quando
non hanno raggiunto la forma che ne ha garantito il successo. La differenza
tra la Cina e l'Occidente, in quella fase cruciale della storia, non consisteva
tanto nel livello di spirito imprenditoriale, quanto in una diversità di
valutazione nella scelta dei metodi da adottare per assicurarsi la fornitura
delle spezie. In Cina l'entusiasmo per i profumi e le spezie era grande come
in qualunque altro luogo del mondo. I cinesi erano avidi quanto noi di
meraviglie come le giraffe e di fragranze particolari come l'ambra grigia. Un
manuale duecentesco, scritto da un ufficiale cinese delle dogane, Zhao
Rugua, descrive esattamente le stesse spezie che erano di gran voga in
Europa: per esempio, legno di aloe, noce moscata, pepe, legno di sandalo,
incenso e cardamomo. Gli imperatori Ming non hanno girato le spalle al
mondo, hanno invece continuato a importare sostanze esotiche, dal sud e
dall'ovest26. Dopo la morte di Zheng He la canfora e i chiodi di garofano
continuarono a entrare in Cina proprio come avevano fatto quando era in vita.
Fra la Cina e l'Europa c'era una radicale opposizione nella visione della
situazione commerciale. A differenza degli europei, i cinesi sapevano dove
trovare le spezie a prezzi sostenibili. Gli europei, con l'eccezione dei
veneziani e dei genovesi, non erano soddisfatti delle condizioni in cui si
svolgeva il commercio. Anche se non era in atto alcuna crisi nella fornitura
delle spezie, il desiderio di incrementare il commercio era molto forte, pur se
non disperato, ma comparativamente era anche forte lo sgomento provocato
dai prezzi che erano costretti a pagare, a causa della dipendenza da una
quota assai ristretta della produzione complessiva. La decisione cinese di
lasciare ad altri attori il controllo del commercio delle spezie dipendeva da un
atteggiamento culturalmente determinato, non da una decisione basata sulla
tecnologia o sulle informazioni geografiche. Anche la pervicacia europea nel
tentare di aggirare gli ostacoli che si frapponevano alla possibilità di stabilire
un contatto diretto con i regni delle spezie, e di trarne profitto, dipendeva da
atteggiamenti condizionati dalla storia e dalla cultura. Torniamo qui a quanto
si è osservato sopra, nel quinto capitolo, relativamente all'importanza
dell'immaginazione, della cattiva o scarsa informazione e delle prospettive
esagerate dei profitti e delle opportunità. I viaggi di Zheng He avevano
arricchito il repertorio delle conoscenze cinesi sui luoghi in cui le spezie e gli
altri generi esotici venivano prodotti. I cinesi valutavano che non valesse la
pena di assumersi il controllo di questa estesissima rete commerciale per
184
volgerla a proprio esclusivo beneficio e che il sistema esistente già garantisse
i loro bisogni. In Europa, invece, tutta la conoscenza accumulata a seguito
dell'apertura al transito garantita dai mongoli potè far ben poco per smentire i
vecchi miti dell'abbondanza, la convinzione dell'esistenza di una ricchezza
incalcolabile e delle possibilità di sfruttarla. L'Europa era frastornata dal
sapore, dall'aroma e dall'aura delle spezie, ossessionata dal desiderio di
scoprirne l'origine e ansiosa di scoprire un modo per trarre profitto dal diretto
contatto con i produttori. Come sprone per le iniziative economiche,
l'ignoranza aveva la stessa forza della conoscenza. C'è un confronto
interessante da fare: quello tra il modo in cui il viaggio epico di da Gama
venne celebrato e la memoria cinese delle imprese di Zheng He, un confronto
in cui si rivelano delle opinioni contrastanti sulle spedizioni coloniali. I Lusiadi
di Luis Vaz de Camòes, il poeta nazionale del Portogallo, fecero la loro
apparizione del 1571 e vi si narrava la storia di da Gama nella forma di
un'avventura epica, sul modello dell'Eneide virgiliana. Camòes vedeva in da
Gama lo strumento con cui Dio aveva accordato il suo favore al Portogallo,
come colui che, con le sue imprese, aveva aperto una nuova era. La ricerca
della fama e della ricchezza era legata al destino di espansione della
cristianità, la missione cui si era votato il Portogallo. Nel poema riecheggia la
fragranza di tutte le spezie acquistate e commercializzate nel sistema
portoghese. L'impresa era commerciale ma anche religiosa.
E vi sono altre isole innumeri, come vedi, sparse nei mari d'Oriente. Qui è
Tidore, e qui Ternate, col suo vulcano eruttante colonne di fuoco. Puoi
riconoscere gli alberi dei chiodi di garofano, che il Portogallo paga col proprio
sangue. Questa è la dimora dell'uccello del paradiso, che mai tocca terra e
che vi si trova solo quando è morto. Queste altre sono le isole Banda, gaie
per il fiore multicolore della noce moscata, da cui varie specie di uccelli
traggono il loro tributo. E qui è Borneo, ove gli alberi versano gocce di pianto,
di una resina densa, che ha nome canfora e che ha reso famoso il nome
dell'isola.
Fonte: Luis Vaz de Camòes, I Lusiadi, trad. di Silvio Pellegrini, Torino, 1934,
canto IV, ottave 132-133.
185
Un romanzo scritto nel 1597 da Luo Maodeng, intitolato Viaggio dell'eunuco
San Bao, fornisce una versione meno eroica e meno pittoresca delle
avventure di Zheng He. I viaggi offrono al viaggiatore l'occasione di
raccontare aneddoti divertenti e fantastici e si giunge anche a far credere che
l'ammiraglio abbia visitato l'altro mondo, ma la flotta viene vista solo come
una pura curiosità storica, più o meno nel modo in cui oggi si potrebbe
parlare dei primi aerei monoposto in tela o degli idrovolanti. Nel romanzo,
Zheng He non rappresenta l'atto di fondazione di un impero nella misura di
quello di da Gama, né le sue missioni vengono esaltate come un momento
epocale di radicale cambiamento27. I cinesi avevano in comune con gli
europei l'infatuazione per le spezie, ma non la brama di divenire ricchi
controllandone il commercio. Queste ambizioni di portata planetaria, per
quanto povero potesse essere il supporto logistico su cui si sostenevano,
avrebbero ispirato le avventurose spedizioni dei regni iberici, ben presto
seguiti da molte delle altre nazioni europee.
Capitolo ottavo
1. Portogallo
2. Spagna
199
contemporaneamente la caduta di Granada, l'espulsione degli ebrei dalla
Spagna e l'avvio del primo viaggio di Colombo. Un'atmosfera messianica, o
almeno di grande aspettativa, avvolge questi tre eventi paradigmatici. La vera
personalità di Cristoforo Colombo non corrisponde né all'ideale ottocentesco
del testimone eroico della verità scientifica contro l'oscurantismo della
superstizione, né al personaggio tormentato e ossessionato descritto nelle
biografie moderne. Era un uomo di ambizioni grandiose e di determinazione
straordinaria, ma era anche un uomo dotato di cultura e un esperto marinaio,
che aveva navigato tutto il Mediterraneo e accompagnato in Africa le navi
portoghesi. Le sue conoscenze geografiche si erano formate attraverso i
viaggi e le molte letture23. Fu estremamente audace nella determinazione di
mettere alla prova le sue teorie in quattro pericolosi viaggi, ma non fu affatto il
primo a concepire una visione del mondo cui nessuno si era mai avvicinato.
Come quella di da Gama, la spedizione di Colombo fu un'impresa di scala
ridotta, che non godeva di un grande sostegno finanziario. La differenza era
che i viaggi di da Gama erano stati preceduti da decenni di intensa ricerca
sulla geografia dell'Africa, mentre la Spagna aveva sposato il progetto di
Colombo all'ultimo momento, senza mai essersi interessata alle ricerche della
strada per le Indie, e neanche all'esplorazione dell'Africa, eccezion fatta per i
legami tra il Marocco e Granada. Di fatto, Colombo vendette il suo piano alla
Spagna dopo che era stato rifiutato altrove, per esempio in Portogallo. Lo
presentò a Ferdinando e Isabella per la prima volta nel 1491 e, pur avendo
subito molti dinieghi e incontrato molti ostacoli, riuscì a mettere in atto la sua
idea nel giro di due anni. La sua idea era quella di raggiungere le Indie
navigando verso occidente. Che si potesse trovare l'India più facilmente
navigando verso ovest, invece di affrontare il lungo e difficile periplo
dell'Africa per virare poi a est, era un'idea che trovava sostegno in teorie
vecchie e nuove. I calcoli di Tolomeo, che attribuivano alla terra una
circonferenza ridotta, facevano pensare che l'estremità occidentale
dell'Europa fosse relativamente vicina (più di quanto lo sia in realtà) alla costa
orientale dell'Asia. Inoltre l'immagine di masse continentali, prive di sbocchi
sul mare, prodotta da Tolomeo e, soprattutto, dai cartografi del Quattrocento,
favoriva la supposizione dell'esistenza di percorsi marittimi di collegamento
tra i continenti. Martin Behaim descrive, a oriente, nell'estremo nord e
nell'Africa meridionale, delle terre totalmente ignote a Tolomeo, ma presenta
anche continenti e isole mutuamente accessibili secondo un modello che
equivale a quello di Tolomeo, ma è più aperto. Sul suo mappamondo afferma
"che ogni parte può essere raggiunta con navi". Questo contrasta con le
200
convinzioni precedenti, esemplificate in Mandeville, per esempio, per le quali
ci si può muovere via terra in una qualsiasi direzione e riuscire sempre a
tornare via terra in Europa. Ovunque, secondo Mandeville, i viaggiatori
troverebbero persone, terre, isole e città, ma un giro del mondo si
svolgerebbe essenzialmente sulla terra ferma24. Naturalmente era
essenziale che gli oceani non fossero così aperti o estesi che traversarli
risultasse impossibile. Quello che nella vicenda di Colombo affascina
l'immaginazione è il rischio evidentemente implicito nel fatto di continuare a
navigare verso ovest finché non si tocca terra, una sorta di azzardo in cui ci si
giocava il tutto per tutto, se si confronta con la lenta, attenta esplorazione
delle coste africane condotta dai portoghesi. Colombo si sentì riconfortato dal
calcolo tolemaico della circonferenza della terra e forse anche dalle teorie del
geografo fiorentino Toscanelli sulla rotta occidentale. Toscanelli optava per la
circonferenza ridotta postolemaica, e quindi per una distanza ridotta tra
Europa e Asia, ma difendeva anche l'ipotesi che tra le due masse continentali
ci fossero delle isole, cosa di cui Tolomeo non aveva mai parlato.Quelle isole
avrebbero reso più breve la traversata in mare aperto e quindi reso possibile
la scoperta delle Indie. Colombo prevedeva che, prima di arrivare alle isole
delle spezie e alle grandi città della Cina, avrebbe toccato le isole atlantiche a
occidente dell'Europa25. Si fermò a Gomera, nelle Canarie, prima di salpare
per le Indie. Mentre si trovava nelle Canarie, ricordò nel suo diario che si
raccontava come a volte da Gomera, guardando l'orizzonte verso occidente,
si potesse vedere emergere una terra e come la stessa cosa potesse
capitare anche guardando dalle isole portoghesi, Madera o le Azzorre. Non si
trattava dell'Asia, ma di "Antillia", un'isola perduta nel centro dell'Atlantico,
che si supponeva colonizzata, all'inizio dell'VIII secolo da cristiani spagnoli o
portoghesi, in fuga dall'invasione islamica della penisola iberica. I contatti con
l'Europa si erano interrotti e da secoli non si era sentito più niente di quelle
isole. Nel mappamondo di Martin Behaim si afferma che i rifugiati erano
guidati dall'arcivescovo di Porto in Portogallo e da altri sei vescovi. Una nave
spagnola si avvicinò a quell'isola, si afferma, nel 1414 e, anche se non
attraccò, non incontrò alcun pericolo nell'approssimarsi alla costa. Il lascito
permanente di questa leggenda è il nome di Antille dato alle isole delle Indie
occidentali, essendo la stessa espressione "Indie occidentali" il prodotto di
una confusa mescolanza di conoscenze geografiche vecchie e nuove. Antillia
era estremamente importante per Toscanelli, perché fungeva da stazione di
transito sulla breve rotta per l'Asia che aveva progettato. In base alle
ricostruzioni fatte della sua carta, oggi perduta, che accompagnava la lettera
201
del 1474 a Fernào Martins, Antillia si troverebbe a metà strada tra le Canarie
e la grande isola del Giappone (Cipangu). Nella lettera, Toscanelli dice: "Ma
da Antillia, a te nota, all'isola famosissima di Cipangu ci sono dieci spazi
[segnati sulla carta]. Quindi non v'è un grande spazio da doversi superare su
acque sconosciute." Questi dieci spazi erano l'equivalente di 2.500 miglia. La
lettera di Toscanelli è affascinante non solo per le teorie geografiche che
espone, ma anche per l'intensità con cui si concentra su quello che era il vero
fine di tutte le sue teorizzazioni: le ricchezze che si possono trovare in Asia.
Toscanelli inizia col dire di aver parlato spesso di una rotta marittima per
l'India, "la terra delle spezie", un percorso che sarebbe assai più breve di una
discesa lungo le coste dell'Africa ("via Guinea"). Fa vedere come la sua carta
mostri che le spezie crescono in terre che si trovano vicine alle estremità
occidentali dell'Europa e dell'Africa. Ripete le osservazioni di Marco Polo sul
porto cinese di Zaiton e sulla immensa quantità di pepe che importa. Il Catai
è un regno pacifico e popoloso, governato dal benevolo Gran Khan. È la terra
più ricca del mondo, poiché vi si trovano oro, argento, pietre preziose e,
soprattutto, spezie. Dall'isola di Cipangu, con i suoi tetti d'oro, si giunge
facilmente alla gigantesca città cinese di Quinsai, con le sue migliaia di ponti
di marmo. Marco Polo ha riferito dell'esistenza del Giappone, ma lo ha
collocato molto più lontano dalla costa cinese di quanto effettivamente sia e
gli ha anche attribuito, come si è già visto più volte, il possesso di una
enorme massa d'oro. Toscanelli si affida molto a queste due basilari
informazioni, entrambe scorrette, collocando Cipangu molto a est rispetto alla
Cina e a una distanza assolutamente percorribile da Antillia, ma anche
dall'Europa, con un percorso diretto, e dalle isole Canarie. Anche i cartografi
tedeschi Martellus e Behaim collocavano il Giappone a una distanza
impressionante (per la sua brevità) dall'Europa, esagerandone sia le
dimensioni, sia la lontananza dalla massa continentale asiatica. Non
sappiamo in che misura Colombo abbia tenuto conto della carta di Toscanelli,
così come non sappiamo quanta confidenza avesse con le carte di Behaim e
Martellus o con l'opera di Marco Polo, prima di iniziare il suo viaggio.
Condivideva sicuramente l'idea di un Atlantico relativamente piccolo e ricco di
isole, oltre il quale si stendeva il continente asiatico. Tra la fine di settembre e
l'inizio di ottobre del 1492, Colombo era convinto di aver superato Antillia e di
stare puntando diritto su Cipangu. Quando raggiunse Cuba per la prima volta,
dopo aver superato le piccole isole dell'arcipelago delle Bahamas, era
convinto di essere arrivato a Cipangu, anche se in seguitò cambiò idea e
pensò invece di essere nel Catai, perché Cipangu doveva essere Hispaniola.
202
Nella sua avvincente e stimolante ricerca sulla cultura e le convinzioni di
Colombo, Valerie Flint ci fornisce due carte, contrastanti tra loro, che
mostrano dove Colombo credeva di trovarsi (in base a calcoli fatti sulla carta
di Behaim) e quale, invece, fosse stata effettivamente la rotta che aveva
seguito26. Fra Cipangu e il corpo continentale della Cina si trovano molte
isole delle "Indie". L'India stessa è rivolta verso l'Africa, spostata di poco
verso ovest, rispetto alla Cina (con tanti saluti all'osservazione di Guglielmo di
Rubruck fatta quasi 250 anni prima). Mentre navigava attorno a quelle isole
che in seguito furono denominate Indie occidentali, Colombo era convinto di
aver trovato molti tipi di spezie, ciò che lo confermò nella convinzione di
essere giunto in Asia. Le voci che gli giunsero sulla presenza d'oro, spezie,
lentisco e rabarbaro medicinale lo convinsero che Haiti era Cipangu.
Successivamente considerò l'ipotesi che Hispaniola potesse essere un'isola
araba o indiana, ma era sicuro che contenesse quantità considerevoli di
cannella, zenzero, muschio e rabarbaro27. Ammetteva che l'albero del
lentisco non sembra produrre nulla durante l'inverno e che non aveva trovato
ancora legno di aloe, anche se sapeva che si sarebbe dovuto trovare lì
vicino. Scoprì qualche esemplare interessante dal punto di vista botanico, ma
confuse le piante del Nuovo Mondo con quelle aromatiche che stava
cercando, scambiando l'agave con il legno di aloe, il gumbo-limbo con il
lentisco e le prugne americane con i mirabolani indiani28. I risultati del primo
viaggio di Colombo furono sia spettacolari sia ambigui. Di fatto non aveva
trovato le città del Catai, per non parlare del Gran Khan, e non tornò con le
navi colme di pepe e cannella. Aveva comunque toccato un qualche territorio
collocato a occidente e tenuto la Spagna ancora in gioco nella competizione
col Portogallo. Nel 1479, prima dell'unificazione della Spagna col matrimonio
di Isabella e Ferdinando, la Castiglia e il Portogallo erano giunti a un accordo
col trattato di Alcàcovas, che aveva riconosciuto il possesso castigliano delle
Canarie, in cambio della mano libera concessa ai portoghesi per
l'esplorazione della costa africana. Al Portogallo fu concesso il possesso di
qualsiasi territorio avesse scoperto in futuro in direzione di "Guinea",
stabilendo così un precedente nella modalità di ripartizione di territori non
ancora demarcati e neppure "scoperti". Nel marzo 1493 Colombo fece ritorno
in Europa, attraccando a Lisbona, prima di rendere visita ai re cattolici a
Barcellona. Riferì al re portoghese Giovanni II del suo viaggio e assicurò che
le terre che aveva scoperto non si trovavano affatto vicine all'Africa, la sfera
d'influenza che era stata riconosciuta ai portoghesi nel trattato di Alcàcovas.
Di questo Giovanni II non era del tutto convinto, ma promise che avrebbe
203
affrontato la questione di una nuova ripartizione di sfere d'influenza a breve
termine, con i sovrani di Spagna. I portoghesi, convinti che la via più breve
per le Indie fosse sempre quella che andava a est e a sud intorno all'Africa
(una via percorribile, come Dias aveva già dimostrato) erano interessati
soprattutto a salvaguardare il loro controllo dell'Africa e di tutto quello che si
trovasse a oriente di una certa linea. Gli spagnoli volevano la libertà di
proseguire la loro marcia nei territori posti a ovest di quelli che avevano già
scoperto, di qualsiasi tipo fossero. Con la mediazione ufficiale del papa
Alessandro VI, ma in realtà grazie a una serie di negoziati tra i due regni, il
trattato di Tordesillas, nel giugno 1494, stabilì che tutto quanto si trovava a
occidente di un meridiano posto a trecento miglia di distanza dalle isole di
Capo Verde appartenesse alla Spagna e tutte le terre scoperte a oriente di
quella linea appartenessero al Portogallo. Quella linea divisoria venne poi
spostata a mille miglia di distanza da Capo Verde. Poiché non erano ancora
ben chiare né le esatte dimensioni della terra, né la precisa collocazione dei
territori scoperti da Colombo, il trattato fu una specie di gioco d'azzardo per le
due parti, ma permise comunque ai portoghesi di garantirsi una strada sicura
per l'India e anche di mantenere il possesso del Brasile, una volta che si
cominciò a capire cosa effettivamente Cabral aveva incontrato sulla sua rotta
poco accurata del 1500. Il problema si fece più urgente quando i portoghesi
raggiunsero le Isole delle spezie, le Molucche, nel 1511-13. Dal punto di vista
europeo, i portoghesi ne erano gli "scopritori", ma queste isole non si
trovavano di poco al largo della costa dell'India, come ci si aspettava, ma
sfortunatamente molto più in là, nei pressi di quello che adesso veniva
sempre più diffusamente riconosciuto come un continente in precedenza
ignoto agli europei. Ben lungi dall'essere vicino all'India, le "Indie orientali"
risultarono essere spostate molto più a est - quasi, si pensava, vicino alla
costa del Messico e forse addirittura in quella metà del mondo a ovest della
linea divisoria che era stata assegnata agli spagnoli. Le dimensioni della terra
continuavano a essere sottostimate, non perché non si conoscesse
l'esistenza delle masse continentali americane, piuttosto perché si ignorava
l'estensione dell'oceano Pacifico. Gli spagnoli erano determinati a strappare
ai portoghesi il controllo del traffico delle spezie. La reale collocazione delle
Isole delle spezie in rapporto al resto del mondo e le vere e inaspettate
dimensioni della sfera terrestre furono dimostrate dall'eroico e terribile viaggio
della flotta di Magellano, nel 1519-22. Lo scopo di questa spedizione,
secondo Massimiliano Transilvano, che fu il primo a scriverne, era "cercare le
isole in cui crescono le spezie"29. Magellano, un navigatore portoghese, era
204
finanziato da investitori tedeschi (in particolare dai Fugger, famiglia di
mercanti e banchieri) e incaricato dal governo spagnolo, un'associazione di
potentati internazionali che rispecchiava bene le accese rivalità della ricerca
delle rotte per le spezie. Magellano non sopravvisse al viaggio, che coprì una
distanza quindici volte superiore a quella del primo viaggio di Colombo. In
effetti solo 18 uomini, su un equipaggio iniziale di 260, riuscirono a fare
ritorno. La spedizione provò che era possibile raggiungere le spezie facendo
vela verso ovest e doppiando l'estremità meridionale dell'America del sud, ma
la distanza e la difficoltà del percorso erano state evidentemente
sottostimate. Indicativo della misura in cui poteva essere redditizio il
commercio delle spezie è il fatto che anche questa spedizione disastrosa
abbia realizzato un profitto, sul piano strettamente finanziario. L'unica nave
superstite, la Victoria, portò in patria più di 23 tonnellate di chiodi di garofano,
sufficienti per produrre, in teoria, un profitto del 2.500%, da dividere tra i pochi
sopravvissuti, gli investitori e la corona30. La Spagna adesso poteva
sostenere che le isole delle spezie e anzi tutte le Indie orientali si trovavano
nell'emisfero che il meridiano di Tordesillas le assegnava, insieme alla
maggior parte del continente americano. Negli anni che seguirono il rientro di
quel che restava degli equipaggi di Magellano, esausti ma trionfanti, il
sovrano di Spagna, Carlo I, difese con energia gli interessi spagnoli in Asia,
anche se, con un accordo firmato a Saragozza nel 1529, riconobbe i diritti
portoghesi sulle isole in cambio di un sostanzioso rimborso in moneta. Il suo
successore, Filippo II, tentò di mantenere un impero di dimensioni planetarie
sotto il controllo spagnolo. Fu in suo onore che le uniche isole asiatiche che
la Spagna riuscì a controllare a lungo termine, le Filippine, ricevettero la loro
denominazione. La Spagna era disposta a lasciar cadere le sue
rivendicazioni sull'Asia, in seguito al successo ottenuto con le imprese nel
Nuovo Mondo. La conquista del Messico e del Perù e la scoperta di grandi
quantità d'oro e d'argento distolsero l'attenzione degli spagnoli dall'Asia.
Come avrebbe potuto l'oro di Cipangu, che non era ancora stato scoperto,
rivaleggiare con quello delle Ande? I portoghesi, sulla base della scoperta di
una via d'accesso alle spezie asiatiche, costruirono un impero. Gli spagnoli
costruirono il loro su una rotta che si rivelò sbagliata e successivamente
concentrandosi più sulla ricchezza delle Indie occidentali (lo zucchero) e delle
masse continentali dell'occidente (i metalli preziosi) che sulla ricerca delle
spezie. La Spagna assunse il controllo del Portogallo e del suo impero dal
1580 al 1640, il periodo in cui la sua espansione imperiale giunse al culmine
ma, a causa della difficoltà e, infine, dell'impossibilità di tenere insieme
205
domini così vasti sparsi sul globo, sia la Spagna sia il Portogallo dovettero
cedere il passo ad altre potenze, specialmente l'Olanda e l'Inghilterra, nella
ricerca di spezie e profitti.
Conclusioni
Il ruolo cruciale esercitato dalla noce moscata all'inizio della storia del
colonialismo è ben difficile da riconciliare col barattolo polveroso che la
maggioranza degli americani tira fuori dalla scansia alla fine dell'anno per
guarnire l'Eggnog.
2. La richiesta di spezie
Il declino delle spezie tra Sei e Settecento permette di capire con molta
chiarezza la loro importanza nel periodo precedente. È importante ricordare
ancora una volta come quella delle spezie non fosse una moda o
un'infatuazione momentanea. Per tutto il periodo che va dai tempi della
Grecia classica sino alla conclusione del Rinascimento italiano, le spezie
mantennero un ruolo fondamentale in cucina e in medicina. Qualche specifica
spezia, come qualche specifica tradizione culinaria, poteva essere soggetta
alle oscillazioni della moda. I romani ignoravano la noce moscata e i chiodi di
garofano, mentre i cuochi e gli intenditori medievali non hanno mai saputo
nulla del silphium (o silfio, una pianta ormai estinta, simile forse a una sorta di
finocchio gigante) e della pasta di pesce, ma la passione dei ricchi per i
sapori forti e il cibo piccante non è mai tramontata. Abbiamo aperto questo
libro chiedendoci perché nel Medioevo la domanda di spezie fosse tanto alta
e adesso siamo in condizione di capire se abbiamo risposto in modo
adeguato. La ragione che rende questo problema importante sul piano
storiografico è il fatto che la richiesta di generi di lusso ha dato avvio a
fenomeni epocali come le imprese ispano-portoghesi di esplorazione e
conquista. Inoltre, la storia del gusto e delle sue variazioni ci dice di più, in
merito a una società, al suo carattere, alla trama delle relazioni che la
costituiscono, di quel che faccia il puro elenco dei dati socioeconomici più
immediatamente evidenti (come il prodotto lordo prò capite o gli aspetti
demografici). La storia delle spezie nel Medioevo rientra nella storia specifica
della cultura e del gusto, ma naturalmente le spezie concorsero a
214
determinare grandi eventi politici e militari, che dipendono dalle concezioni
che gli europei dell'epoca avevano del mondo, delle sue ricchezze e del
modo di trarne profitto. Come è chiaro il desiderio di spezie va spiegato in
primo luogo alla luce dei gusti gastronomici. Non ci sono ragioni di tipo
strumentale per spiegare la passione per il cibo speziato: le spezie non
venivano usate per la preservazione delle carni o per coprire il cattivo sapore
della loro deteriorazione. L'influenza islamica, la presenza di gusti perduranti,
risalenti a epoche precedenti quella romana, una particolare predilezione per
sapori molto elaborati sono tutti fattori che hanno certamente avuto un ruolo
nel mantenere le spezie in auge per tutto il Medioevo, in diverse cucine nel
costante fluire di mode che, di volta in volta, portavano prodotti specifici
diversi a emergere sulla cresta dell'onda. Come si è visto, però, questa
passione alimentare non basta a spiegare il grande rilievo assunto allora dal
commercio delle spezie. Queste ultime erano infatti considerate anche dei
medicinali, sulla base di convinzioni e di pratiche che risalivano sino
all'antichità. Si credeva che fossero utili nella dieta, per garantire un corretto
equilibrio degli umori, ma venivano anche raccomandate come farmaci, cui si
attribuivano molte e diverse proprietà nella cura di una varietà di disturbi. E
inoltre, anche al di là da questo campo di applicazioni terapeutiche e
specifiche, le spezie, nella mentalità degli studiosi e dei consumatori
medievali, venivano associate a quella che noi definiremmo una condizione di
"benessere", a un modo di vivere sia elegante sia salutare. La loro fragranza
significava piacere, buon gusto (nel senso dello stile di vita) e capacità di
creare uno spazio di raffinata beltà e purezza. Forse è proprio questa serie di
immagini simboliche l'aspetto più importante del fenomeno delle spezie, ma
anche quello più difficile da cogliere, perché l'evidenza fisica, sensoriale del
prodotto è così forte, che le implicazioni e le suggestioni che
l'accompagnano, sul piano dell'immaginazione e dei significati culturali,
sembrano meno importanti. Le spezie erano ricercate e godute per le
sensazioni benefiche che provocavano ed evocavano, ma anche perché
erano costose, esotiche e persino dotate di una certa misteriosa sacralità. Il
fatto che fossero costose faceva sì che il loro ostentato consumo, sia nei
banchetti sia nella forma di medicinali, fosse una sorta d'affermazione di
status, forse una forma indispensabile di distinzione sociale. Non si trattava di
qualcosa che tutti si potessero permettere, soprattutto nel caso dei prodotti
più pregiati come la noce moscata o i chiodi di garofano o i profumi al
muschio e all'ambra grigia, sicché dare pubblica dimostrazione del fatto di
essere avvezzi a vivere nella loro fragranza significava esibire il proprio
215
potere e il proprio prestigio, il possesso di quello che in termini culturali era un
capitale cospicuo. E tuttavia, come abbiamo visto parlando della scarsità, non
è vero che tutti i prodotti costosi siano, o debbano, essere sempre oggetti
d'esibizione. Non basta, a questo fine, la scarsità di un prodotto sul mercato:
a quest'ultima si deve aggiungere un'aura particolare, un potere di
fascinazione. Alle spezie questo veniva garantito dalla loro origine esotica.
Erano esotiche perché venivano da molto lontano, da terre misteriose, ricche
e magiche. Questi luoghi - India, Isole delle spezie, Cipango - reali o
immaginari che fossero, erano affascinanti. Sempre, anche se con diversa
intensità, l'Oriente era stato per gli europei la fonte d'origine di ciò che è
meraviglioso, un territorio traboccante di meraviglie, tanto bizzarre quanto
affascinanti. L'immagine medievale delle spezie, però, non si limita a essere
un capitolo nella storia dell'Orientalismo, un altro prodotto del misterioso
Oriente. Le terre in cui le spezie crescevano non erano solo lontane e
diverse, erano anche graziate da una particolare fortuna. Si credeva che
Kublai Khan e il Prete Gianni regnassero su paesi pacifici in cui crimine,
povertà, malattia erano rarissimi o banditi per sempre. Queste terre poi, o
erano cristiane, e quindi facevano parte di quella grande e ben nota comunità
di cui gli europei si sentivano membri, o erano sottoposte al governo di
pagani virtuosi, i cui principi si differenziavano da quelli della cristianità solo
per il fatto di essere più efficamente rispettati e seguiti. La vera patria delle
spezie e il loro simbolo di maggior fascino e potenza era il paradiso terrestre.
Alla lontananza, al fascino, alla salubrità di quei luoghi si aggiungeva l'odore,
letterale, della santità. Alcune spezie giungevano nel mondo profano dei
mortali uscendo direttamente dal giardino dell'Eden, diceva Joinville,
trascinate dalle acque dei quattro fiumi del paradiso. Si sapeva, comunque,
che la maggior parte di quanto era importato proveniva dall'India, anche se il
significato concreto di questa informazione, in termini d'immaginazione e
ricostruzione geografica, cambiò in misura radicale nel grande arco di tempo
che va da Alessandro Magno, nel IV secolo prima di Cristo, ai tempi di Vasco
da Gama. Le spezie occupavano una posizione del tutto particolare, non
essendo soltanto generi di consumo altamente desiderabili, ma anche oggetti
sacri o, almeno, circonfusi da un'aura di santità. Possedevano delle virtù, sia
nel senso che erano dotate di poteri curativi, sia in un senso sostanzialmente
morale, perché erano simboli di una morte in condizioni di sanità, di rinascita,
di superamento dei limiti della realtà temporale. E la loro natura di simboli non
si manifestava solo nelle immagini ma nel loro stesso aroma, che attingeva i
centri profondi dei desideri umani, anche se solo per qualche momento.
216
L'importanza della fragranza, dei profumi mirabili e intossicanti in un mondo
di odori sgradevoli, di degrado e infermità, è talmente grande che non esiste
per noi il pericolo di sopravvalutarla. Non tutti i consumatori di spezie
sarebbero stati in grado di riconoscere in dettaglio le implicazioni e le
suggestioni che abbiamo presentato, ma furono proprio queste a garantire ai
prodotti del loro consumo il loro potere e la lunga durata del loro successo: fu
il senso di promessa, di piacere e di virtù ch'essi trasmettevano, oltre l'uso
inevitabilmente profano cui erano immediatamente destinati. Le spezie erano
contemporaneamente merci di pregio, demarcatori sociali di gusto ed
eleganza, sostanze piacevoli e tuttavia anche vettori di un significato più
elevato, persino sacro, attraverso la loro fragranza, a volte dolce, a volte
aspra, a volte ricca e a volte quasi impossibile da descrivere, ma sempre
deliziosa. Le spezie non procuravano dipendenze, neppure nella forma molto
attenuata del tè e del caffè, non alteravano gli stati mentali come l'oppio o
anche il tabacco. Sì, continuavano a creare una sorta d'incanto, che però era
un'infatuazione mondana, con una sottile vena di spiritualità. La loro natura
mondana, terrestre (dopo tutto, erano merci di alto prezzo) avrebbe avuto un
impatto straordinario sulle vicende storiche. Ma a renderli prodotti
commerciali di così gran pregio fu soprattutto il magico incantesimo dei loro
sapori, dei loro profumi, del loro potere di fascinazione.
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