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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 1 di 23

Quaderni di Sociologia
26/27 | 2001 :
La società italiana
Lavoro, dirigenti, sindacati

La marcia dei quarantamila


(1984)
ALBERTO BALDISSERA
p. 307-336

Note della redazione


[Per ragioni di spazio disponibile, la versione qui riportata è stata ridotta rispetto al
testo pubblicato nel 1984].

Note dell'autore
Per informazioni, commenti e critiche ho un debito nei confronti di Luciano Gallino,
Diego Gambetta, Alberto Marradi, Angelo Pichierri, Luca Ricolfi e Pietro Rossi.

Testo integrale
I dati qui riportati sono tratti da due ricerche – promosse dal Cespe,
dall’Istituto Gramsci di Torino e dalla Federazione del Pci di Torino e dirette da
chi scrive – sugli atteggiamenti politici e industriali di due ampi campioni di
lavoratori manuali e non, occupati in diversi stabilimenti della Fiat. Ringrazio
l’Istituto di scienze economiche e sociali «Antonio Gramsci» di Torino – ente
proprietario dei dati – per avermi consentito l’accesso ai dati e per aver
sostenuto i costi di elaborazione.

L’Italia, dicevamo, digerisce tutto, la sua forza sta nella mollezza degli apparati,
nella pieghevolezza degli uomini politici, nelle capacità di adattamento degli
italiani. È un materasso, il sistema italiano, Pasolini avrebbe detto una ricotta.
O, se preferisce, flectar non frangar.
E noi, torinesi, ci siamo sempre sentiti un po’ stranieri in patria proprio per
questo: siamo una gente montanara, Torino ricorda le antiche città di
guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva

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venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto


presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche ed anche il profitto.
Giovanni Agnelli1

1. Oggetto e scopi

1.1. La marcia dei quarantamila


1 Il 14 ottobre 1980, un corteo di molte migliaia di persone attraversò il centro
di Torino dirigendosi verso le sedi del Municipio, della Regione Piemonte e
della Prefettura. Una parte di esse aveva in precedenza partecipato a
un’assemblea, svoltasi in un teatro cittadino, che i cronisti descrissero affollata
ed effervescente. Era nato così ufficialmente nel nostro paese «il partito della
voglia di lavorare, di produrre, di competere; il partito del rispetto e non della
sopraffazione» o, in altri termini, il movimento dei quadri intermedi.
2 La «marcia dei quarantamila» (uso questa espressione come etichetta, non
per designare con esattezza il numero, assai controverso, di coloro che vi
parteciparono) segna una svolta, e una svolta profonda, nel sistema delle
relazioni industriali del nostro paese. Il suo effetto immediato fu di indurre le
confederazioni sindacali e la Flm a ricercare in tempi brevi la soluzione a una
delle più lunghe, accese e accanite vertenze industriali del dopoguerra in Italia.
Poco dopo lo svolgimento del corteo, nelle prime ore del 15 ottobre, i
rappresentanti della Fiat e della Flm siglarono infatti il testo dell’accordo che
pose fine a trentacinque giorni di conflitto. Nei giorni successivi questo testo
verrà discusso nelle assemblee operaie convocate in tutti gli stabilimenti
aziendali, a Torino e in numerose altre città italiane. Una discussione accesa,
carica di emotività, in cui sostenitori e oppositori apparentemente si
equivalsero2. L’accordo venne comunque considerato approvato a maggioranza
– e questa decisione fu la seconda conseguenza immediata della mobilitazione
del 14 ottobre3.
3 In tempi più lunghi, questa manifestazione e i suoi sviluppi successivi
sembrano esercitare un’influenza rilevante sulle strategie dei partiti politici e
sulla struttura delle classi sociali nel nostro paese. Quest’ultima mi sembra la
conseguenza più importante e verrà discussa in seguito.
4 1.2. Rappresentazioni del mondo sociale, interpretazioni «complessive»,
spiegazioni
5 Anche se non precisamente sui punti indicati esiste ormai un consenso
ampio e consolidato sulla rilevanza, politica e sociale, della marcia dei
quarantamila. Il suo indicatore migliore è probabilmente costituito dalla massa
di articoli, pubblicati su quotidiani e periodici, dedicati alla manifestazione, alle
sue cause e alle sue conseguenze. È tuttavia improbabile che il lettore di questa
enorme quantità di carta stampata si imbatta in qualche tentativo di spiegare
l’azione collettiva considerata – laddove per spiegare non si intenda una
rassegna di argomenti ad hoc, ma l’esposizione di argomenti generalizzanti,
causali, il più possibile economici e corroborati da qualche brandello di
evidenza empirica significativa e/o di comparazione con fenomeni analoghi.
6 L’intimazione a non disperdere il proprio tempo in «inutili analisi
sociologiche» – tanto diffusamente propagandata negli anni ’70 – e a dedicarsi
a più proficue «analisi politiche» dei fenomeni sociali sembra essere stata
interiorizzata dalla maggior parte degli «esperti» (di destra, di centro e di

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sinistra) che ci illuminano quotidianamente sulla dinamica della società


italiana. Enunciati constatativi che pretendono il rigore della scienza,
classificazioni morali del mondo sociale scambiate per evidenze di fatto, prese
di posizione politica travestite da ipotesi: questo e altro viene
indifferentemente immolato sull’altare dell’«interpretazione complessiva» di
questo o di quel fenomeno particolare.
[…]
7 Scopo di questo lavoro è, anzitutto, esaminare criticamente alcune delle
interpretazioni alternative offerte per spiegare la marcia dei quarantamila.
Questa analisi sarà preceduta dall’indicazione di alcuni interrogativi che
dovrebbero essere posti in relazione all’evento. […] Il paragrafo successivo è
dedicato ad alcune stime della composizione sociale ed etnica del corteo.
Indicherò infine, prima delle conclusioni, un’ipotesi sulla natura del conflitto
industriale svoltosi negli stabilimenti torinesi della Fiat negli anni 1960-80.

2. I problemi
8 La marcia dei quarantamila pone una serie di interrogativi tra loro connessi,
ai quali sono state sinora fornite risposte contrastanti o insoddisfacenti. La
prima controversia riguarda la stima più attendibile del numero dei
partecipanti al corteo. Un servizio giornalistico trasmesso dalla radio parlò di
quarantamila persone; quello televisivo di ventimila; il quotidiano «La
Stampa», a cui si deve il più ampio servizio giornalistico sull’evento, stimò in
trentamila i partecipanti al corteo. È probabile che una stima attendibile sarà
disponibile solo agli storici futuri, quando potranno avere accesso ai rapporti
della polizia. È tuttavia significativo che, per designare la manifestazione, si sia
imposta l’etichetta più favorevole agli interessi dei suoi organizzatori. È un
sintomo del riconoscimento, anche da parte degli oppositori, dell’importanza
dell’avvenimento e delle sue conseguenze.
9 Un secondo interrogativo riguarda la composizione del corteo. I partecipanti
furono solo o prevalentemente lavoratori occupati alla Fiat o anche persone
esterne all’azienda?4 Anche ammettendo che la prima risposta sia la più
attendibile, quale fu la composizione professionale del corteo? Il cronista de
«La Stampa» indica «capi, impiegati, operai»; quello de «l’Unità» afferma:
«Non sono (solo) i capi-squadra, i capi-reparto o i dirigenti, magari
accompagnati da mogli e figli: ci sono anche gli impiegati..., i tecnici; ci sono
anche molti operai».
10 Su questa eterogeneità professionale dei partecipanti al corteo esiste un
consenso pressoché unanime da parte di tutti gli osservatori. Nessuno di loro
ha tuttavia azzardato una stima del contributo percentuale assicurato al corteo
da ciascun gruppo occupazionale5. Lo stesso si può dire a proposito della
composizione etnica (o, se si preferisce, linguistica) dei partecipanti. Si trattò,
come sostenne qualche osservatore, di un corteo formato prevalentemente da
torinesi o vi parteciparono anche persone originarie di altre regioni italiane?
11 Interrogativi riguardano anche il linguaggio della mobilitazione e, in
particolare, i rituali adottati dai partecipanti. Le cronache ci riferiscono che il
corteo si svolse in silenzio, rotto solo dalla lettura al megafono del testo del
documento che gli organizzatori consegnarono al prefetto e ai responsabili
degli enti di governo locale. Questo rituale collettivo, in netto contrasto con la
concitazione e l’effervescenza che caratterizzarono l’assemblea precedente,
venne mantenuto dai partecipanti anche quando furono esposti alle

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contestazioni di gruppi di operai e delegati durante il percorso. Perché questo


comportamento collettivo?
12 Un quarto problema riguarda il tema e i bersagli della manifestazione. Il
tema era la tutela di interessi specifici o la affermazione di diritti ingiustamente
calpestati? e, in questo caso, calpestati da chi? Le risposte a questi interrogativi
sono utili a comprendere i processi di definizione dell’identità collettiva,
morale e politica, dei partecipanti – o almeno di parte di essi – nonché quelli
riguardanti l’individuazione dell’avversario. Identità e opposizione, com’è noto,
interagiscono: l’opposizione serve a rafforzare l’identità – e viceversa.
13 Un ulteriore problema riguarda gli incentivi selettivi utilizzati per motivare i
partecipanti, nonché la provenienza e l’entità delle risorse di ogni tipo utilizzate
per organizzare la mobilitazione. Tra queste particolare interesse rivestono le
reti di comunicazione utilizzate per trasmettere le informazioni e/o rafforzare il
loro significato.
14 Un’altra domanda riguarda il momento in cui la «marcia» fu svolta: perché
proprio il 14 ottobre e non prima o dopo quella data? Come vedremo, esiste un
precedente – il corteo a Rivalta il 9 ottobre – che può aiutarci a intravedere una
risposta a questo interrogativo. Ancora: come mai lo svolgimento della marcia
dei quarantamila giunse così inatteso alle rappresentanze sindacali, tanto da
indurle ad affrettare i tempi del negoziato e a cercare una rapida (e
probabilmente affrettata – se misurata in relazione alle aspettative iniziali)
conclusione della vertenza? Da che cosa dipende questo singolare difetto di
previsione delle possibili reazioni di altri soggetti sociali?
15 Un interrogativo solo apparentemente curioso riguarda il luogo di
svolgimento della manifestazione: perché proprio Torino, e non – poniamo –
Milano, Genova o Ivrea? Il saggio di impiegatizzazione delle aziende industriali
in queste ultime citta è notevolmente superiore a quello esistente alla Fiat. Se
consideriamo la concentrazione di lavoratori non manuali su un certo territorio
come condizione che può facilitare la loro mobilitazione collettiva, le chances di
quest’ultima sono senz’altro superiori, da questo punto di vista, in quelle città
piuttosto che a Torino. Va ricordato in proposito che una delle più significative
azioni collettive dei lavoratori non manuali dell’industria italiana del secondo
dopoguerra si svolse in alcune aziende industriali milanesi (Sit-Siemens,
Asgen, Dalmine, Snam Progetti, ecc.) nel 1968-69. Ci fu anche un corteo nelle
vie cittadine, il 13 febbraio 1969, composto da 5000-6000 tecnici e impiegati.
16 Obiettivi, rituali, parole d’ordine e significati furono apparentemente in
opposizione nei due cortei: a Milano, tecnici e impiegati sfilarono per
appoggiare la loro piattaforma rivendicativa, il cui punto fondamentale era la
richiesta di valorizzazione delle capacità professionali; a Torino il diritto
rivendicato fu la libertà di lavorare, diritto che si riteneva calpestato da una
vertenza sindacale che si opponeva ai licenziamenti collettivi. Ma anche a
Torino viene fatta sventolare la bandiera della professionalità: minacciata
questa volta dalla politica delle organizzazioni sindacali, non da quella degli
imprenditori. Quali sono le cause di queste differenze? Più specificamente, qual
è l’origine della marcia dei quarantamila? Quali erano gli interessi, industriali e
politici, dei partecipanti alla manifestazione? Quali conseguenze, a medio e
lungo termine, essa può presumibilmente avere?
[…]

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3. Le ipotesi della mobilitazione


dall’alto

3.1. L’ipotesi della cospirazione


17 Le prime reazioni degli osservatori ostili alla marcia dei quarantamila hanno
sottolineato con energia la coincidenza di interessi e obiettivi esistente tra
direzione aziendale e quadri intermedi. Sulla base di questo assunto furono
elaborate un insieme di ipotesi interpretative, il cui scopo principale era di
indicare nella volontà del management della Fiat (spesso raffigurato in forme
antropomorfiche) il principale, se non l’unico, fattore causale dell’azione
collettiva.
18 Queste interpretazioni, che senza timore di distorsioni possono essere
etichettate come «cospirative», hanno assunto forme diverse. Le principali
sembrano essere le seguenti:

i. la più semplice, assai diffusa tra i militanti di base della Flm e del Pci,
afferma che capi e quadri intermedi si sarebbero «venduti» alla
direzione aziendale e avrebbero agito come docili strumenti nelle sue
mani6.
ii. Più sofisticata è invece l’interpretazione secondo la quale i
partecipanti al corteo avrebbero «avuto come un ruolo che non si
prefiggevano». Essi sarebbero stati «protagonisti inconsapevoli» di una
manovra di cui ignoravano i fini. Non sarebbero quindi «usciti per
rivendicare un ruolo autonomo», ma si sarebbero «semplicemente
limitati a schierarsi con la Fiat».
iii. Altri infine, pur riconoscendo che l’azione collettiva era – almeno in
parte – il frutto degli sforzi organizzativi dell’associazione dei quadri e
dei capi intermedi, hanno energicamente sottolineato il ruolo della
direzione aziendale come «regista» della stessa7.

19 Non è difficile individuare gli assunti impliciti di questo insieme di


interpretazioni. Essi sono sostanzialmente due:

• la partecipazione al corteo è stata il frutto di motivazioni irrazionali o


emotive, sicché l’azione collettiva può essere considerata una
manifestazione di «falsa coscienza» o una somma di comportamenti
privi di senso;
• la marcia dei quarantamila è il risultato dell’aggregazione di individui
atomizzati, manipolati dalla volontà di una ristretta élite di agitatori
professionisti.

20 Questo modello di interpretazione dell’azione collettiva ha antecedenti storici


illustri, teorici e ideologici. Da Le Bon a Tarde sino ai teorici statunitensi della
società di massa, esiste una tradizione sociologica che ha fortemente
sottolineato le componenti irrazionali dei comportamenti collettivi, l’influsso
della suggestione, l’infinita propensione dei partecipanti a lasciarsi manipolare
in cerimoniali diretti a esasperare i sentimenti e soddisfare oscuri bisogni
psichici primari. Fu proprio questo, d’altra parte, il modello dominante
utilizzato dalla borghesia imprenditoriale per dar conto degli (e interpretare

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gli) scioperi operai – a partire dall’inizio del Novecento e, in Italia, almeno sino
alla fine degli anni ’508.
21 Il fatto che esso sia stato così prontamente adottato dalle organizzazioni del
movimento operaio a Torino potrebbe essere considerato come una conferma
empirica dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ideologia dal substrato di
relazioni sociali strutturali. Altri potrebbero invece scorgervi l’influenza
egemonica delle ideologie della classe dominante (in questo caso, d’antan)sulle
rappresentazioni del proletariato. La prontezza con la quale interpretazioni di
questo tipo furono criticate e abbandonate dai rappresentanti del movimento
operaio a Torino non dovrebbe tuttavia far ritenere che loro residui siano ancor
oggi del tutto assenti nel senso comune di militanti politici e sindacali, a Torino
e altrove. D’altro canto, questo arsenale analitico non sembra essere del tutto
incongruente, come vedremo, con la costellazione di credenze e
rappresentazioni del mondo sociale che hanno orientato l’azione di gran parte
del movimento operaio a Torino negli anni ’70.
22 Un elemento verosimile di questo insieme di interpretazioni è la possibilità
che la direzione della Fiat abbia rafforzato le reti di comunicazione a
disposizione degli organizzatori, facilitando in questo modo la partecipazione al
corteo9.

3.2. Ipotesi sugli incentivi a partecipare


23 Un secondo gruppo di interpretazioni, anch’esse riconducibili all’ipotesi di
una mobilitazione foraggiata dall’alto, fa invece riferimento ai processi di
trasformazione di un gruppo latente (e, come vedremo, invisibile) in un gruppo
mobilitato che attua forme collettive di protesta. Qui l’attenzione è diretta a
individuare gli incentivi selettivi e le sanzioni – indipendenti dagli interessi –
che indussero molte migliaia di persone a partecipare al corteo del 14 ottobre
1980. Le ipotesi più frequentemente espresse, sovente in connessione con
qualche tipo di interpretazione cospirativa, hanno sostanzialmente considerato
due tipi di incentivi:

i. la retribuzione della giornata lavorativa, garantita o promessa dalla


direzione aziendale a tutti coloro che avrebbero preso parte alla
manifestazione;
ii. la minaccia, implicita o esplicita, di sanzioni a danno dei recalcitranti
che avrebbero potuto essere in seguito erogate dall’azienda10.

24 La prima ipotesi, a parte le smentite dell’azienda, non è in grado di spiegare


le motivazioni e gli incentivi degli impiegati esecutivi, degli operai e delle
persone estranee alla Fiat che pure parteciparono alla manifestazione. La
seconda ipotesi incontra la medesima difficoltà.
25 Pochissimi osservatori hanno fatto riferimento alla possibilità che molti tra i
partecipanti fossero convinti di difendere in questo modo il proprio posto di
lavoro. Nessun osservatore ostile alla manifestazione ha, a quanto mi consta,
osservato che anche una reazione morale negativa – in questo caso verso la
politica sindacale – possa costituire uno stimolo rilevante alla mobilitazione.
Nessuno, infine, ha ricordato che la partecipazione all’azione collettiva
presuppone l’esistenza di una rete di rapporti comunitari o associativi. Senza
legami emotivi di appartenenza, senza canali di comunicazione delle
informazioni, l’organizzazione dell’azione collettiva sembra impossibile. Anzi –
come suggerisce Pizzorno – l’appartenenza a reti di relazioni comunitarie o

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associative è la condizione che consente ai soggetti di calcolare le conseguenze


delle loro azioni, ed è quindi una condizione necessaria, anche se non
sufficiente, dell’azione collettiva11.

3.3. Un attore invisibile


26 L’esistenza di queste condizioni, nonché della capacità di mobilitazione
detenuta dal Coordinamento capi e quadri intermedi Fiat, era emersa con
notevole chiarezza in quella che può essere considerata la prova generale della
marcia dei quarantamila. Il 9 ottobre 1980, un corteo di 600-800 lavoratori
non manuali (a quanto sembra integrato anche da operai) sfilò di fronte ai
picchetti operai dello stabilimento di Rivalta. Esso rivendicò silenziosamente la
volontà dei partecipanti di riprendere il lavoro. Il corteo si sciolse solo quando
un gruppo di operai del picchetto si mise alla sua testa, con uno striscione della
Flm12.
27 Il cronista de «l’Unità» osservò con chiarezza la differenza esistente tra
questa manifestazione e i tentativi di sfondamento dei picchetti operai,
effettuati nei giorni precedenti da parte di gruppi di capi intermedi e, a quanto
riferiscono le cronache, di persone estranee all’azienda torinese. Ma non
sembra che questa osservazione abbia influito sulla tendenza, assai diffusa
nelle organizzazioni sindacali, a considerare ogni dichiarazione o azione
ispirata dal Coordinamento quadri e capi intermedi Fiat come un’attività voluta
o condizionata dalla direzione aziendale.
28 Quali sono le ragioni dell’apparente sottovalutazione del corteo di Rivalta da
parte della Flm? E come mai un’associazione professionale non viene ritenuta
capace di azioni autonome e resta per così dire invisibile agli occhi della
maggior parte degli osservatori che si richiamano al movimento operaio,
almeno sino al 14 ottobre 1980? La risposta a questi interrogativi può
probabilmente servire a comprendere i sentimenti di choc e le conseguenti
reazioni irriflesse dei militanti (e dei vertici) delle organizzazioni sindacali di
fronte alla marcia dei quarantamila.
29 È opportuno a questo proposito interpretare il conflitto dell’autunno 1980
con gli strumenti concettuali della teoria dei giochi. Ogni situazione decisionale
che comporta un conflitto di interessi con altri attori (in termine tecnico, un
gioco) presenta ai giocatori in competizione la risoluzione di un problema
essenziale e preliminare. Esso consiste nella riduzione dell’incertezza derivante
«dall’ignoranza di ciò che faranno gli altri»13. L’operazione che consente di
risolvere questo problema decisionale (e di trasformare così l’incertezza in una
situazione di rischio o di certezza) consiste tipicamente nell’assumere come
vere alcune proposizioni riguardanti le motivazioni dell’avversario e le
informazioni di cui egli può disporre. Ciò permette al giocatore di prevedere, in
qualche misura, i comportamenti più probabili del suo o dei suoi avversari,
anche in situazioni variabili. Utilizzando termini più precisi, la riduzione
dell’ambito di incertezza consente al giocatore di:

i. costruire una matrice di pay-off, ovvero di prevedere i risultati


parziali e finali del gioco derivanti dalla combinazione delle scelte e delle
sequenze di scelte sue e dell’avversario;
ii. stimare le probabilità associate al verificarsi di specifici risultati
parziali e finali del gioco;

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iii. scegliere, sulla base di queste conoscenze, il criterio di utilità


(maximin, maximin generalizzato, minimax regret) che meglio si adatta
al gioco considerato. A seconda di queste previsioni, in altri termini, il
giocatore può decidere di massimizzare i costi dell’avversario, di
minimizzare il suo guadagno minimo possibile ecc.

30 Un’analisi sommaria del «gioco» tra Flm e Fiat dell’autunno 1980 mostrava
con chiarezza che:

i.
◦ Verso la fine del mese di settembre la Fiat cambiò radicalmente
la sua decisione iniziale, presa probabilmente per stimolare una
risposta altrettanto radicale da parte della Flm. In quel periodo,
infatti, la direzione aziendale decise di sospendere i 14.000
licenziamenti annunciati.
◦ Al posto di una decisione temibile, appunto perché generica, la
Fiat rese nota un’altra decisione, questa volta specifica
(contenente cioè l’indicazione dei nomi) ma più «morbida» della
precedente: quella di mettere in Cassa integrazione guadagni
poco meno di 23.000 dipendenti. La forma in cui questa
decisione unilaterale venne presa e comunicata agli interessati
suscitò una forte reazione da parte della Flm, che parlò tra l’altro
di «lista di proscrizione».
◦ La discussione all’interno della Flm (e più in generale del
movimento operaio torinese) sulla risposta da dare alla decisione
della direzione della Fiat fu accesa e accanita. Alla fine prevalse la
decisione della segreteria locale e nazionale della Flm: «dare una
spallata» alla vertenza, costringere la direzione aziendale a
ritirare la decisione presa e adottare forme di rotazione
nell’applicazione dei provvedimenti di Cassa integrazione. Fu così
deciso di confermare le forme di conflitto adottate in occasione
dell’annuncio dei licenziamenti: picchetti alle porte degli
stabilimenti, blocco delle merci e delle attività ecc.

31 Questa rigidità decisionale (che consente, tra l’altro, all’avversario di


migliorare la propria capacità di prevedere il comportamento della Flm) mi
sembra uno dei fattori causali più importanti della sconfitta del sindacato alla
fine della vertenza14. In particolare, la leadership sindacale non si rese
apparentemente conto che la comunicazione dell’elenco nominativo dei
lavoratori da mettere in Cassa integrazione guadagni ridefiniva radicalmente
gli interessi – e la propensione al conflitto – di gran parte dei suoi
rappresentati. Un ulteriore fattore della sconfitta sindacale è l’assenza
apparente nel suo gruppo dirigente di previsioni sulle possibili reazioni di altri
soggetti, diversi dalla direzione aziendale o dalla rappresentanza degli interessi
imprenditoriali. Non vi è alcun sintomo, prima del 9 ottobre, di ricerca da parte
della Flm di informazioni sulle preferenze e/o sulle propensioni ad agire di
impiegati, capi, quadri intermedi, dirigenti della Fiat. Quando l’associazione
dei capi e dei quadri intermedi si presenta sulla scena del conflitto, la reazione
immediata della Flm è – in assenza di qualsiasi conoscenza e aspettativa
precedenti – di assimilare il nuovo attore strategico all’avversario principale. In
attesa che emerga un bisogno cognitivo, l’ignoto viene così definito nei termini
del noto.
32

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Va ricordato che l’associazione dei capi e dei quadri intermedi della Fiat fu
fondata nel 1974. A partire da quella data, numerosi furono i sintomi di un
progressivo rafforzamento dell’organizzazione di rappresentanza, nonché quelli
di una sua crescente autonomia dalla direzione aziendale.

3.4. Rituali, simboli, significati


33 Come si è visto, il corteo di Rivalta del 9 ottobre è una sorta di prova generale
della manifestazione del 14 ottobre. In entrambi i casi, il corteo si svolge in
silenzio: forma di contegno «civile» contrapposto alle «intemperanze» tipiche
delle manifestazioni operaie; rituale utilizzato per richiedere la solidarietà
emotiva del pubblico. Un secondo carattere è il rifiuto di ogni tipo di violenza: a
Torino questo rifiuto verrà ripetuto più volte – nel volantino distribuito ai
partecipanti, nei cartelli esibiti durante il corteo, nel documento consegnato
agli esponenti del governo locale.
34 Un terzo elemento comune è il bersaglio della manifestazione: il picchetto
operaio. A Rivalta il corteo sfila di fronte agli operai del presidio; a Torino i
cartelli invocano il ripristino della legalità, del diritto al lavoro (ovvero del
diritto di lavorare malgrado lo sciopero), valori di nuovo contrapposti alla
violenza dei picchetti. A Torino compare inoltre un cartello che risponde alle
critiche sindacali nei confronti dei tentativi di sfondamento dei picchetti da
parte di capi e quadri intermedi15. L’elenco dei simboli potrebbe continuare.
35 Ogni azione, ogni rituale organizzativo, ogni manifestazione di emotività
viene costruito dai partecipanti alla marcia dei quarantamila in relazione
all’avversario, in diretta opposizione all’agente frustrante. L’ideologia, ancora
informe (valore accordato alla professionalità, tutela del diritto al lavoro,
attaccamento al proprio lavoro, esaltazione della produzione industriale in sé e
per sé), viene espressa non tanto per costruire o rafforzare l’identità collettiva,
quanto per negare legittimità ai valori dell’avversario e alle sue pretese di
usurpazione. In questa negazione ossessiva dell’ideologia, dei rituali, dei
simboli, dei valori e delle rivendicazioni dell’organizzazione sindacale dei
lavoratori esecutivi va ricercata la caratteristica saliente e distintiva della
marcia dei quarantamila – la sua forza e la sua debolezza.
36 Bersaglio principale del corteo è uno dei «principali simboli dell’azione di
classe nel mondo contemporaneo»: il picchetto degli scioperanti. Simbolo della
solidarietà operaia, il picchetto significa allo stesso tempo una richiesta di aiuto
ai lavoratori che svolgono altre occupazioni e la promessa di un sostegno futuro
in caso di analoghe rivendicazioni – il riconoscimento di un debito morale da
pagare in un futuro più o meno lontano16.
37 Ovviamente, il picchetto può essere – ed è spesso – definito come azione
illegale, o ai limiti della legalità. Ma la linea di distinzione tra ciò che è legale e
ciò che non lo è dipende, nei conflitti distributivi, più dall’equilibrio delle forze
contrapposte che da qualche principio o norma giuridica. Lo conferma, ancora
una volta, la singolare sollecitudine con cui il Sostituto Procuratore della
Repubblica di Torino si affrettò – la sera stessa del 14 ottobre 1980 – a
notificare alla polizia giudiziaria un’ordinanza affinché quest’ultima garantisse
«l’accesso a quanti si ripresenteranno in fabbrica per rientrare».
38 L’opposizione al picchetto operaio segna quindi la nascita del sindacalismo
dei colletti bianchi in Italia. È molto probabile che questo tipo di genesi ne
influenzerà in futuro le forme organizzative, il tipo di rivendicazioni, le forme
di lotta, i rapporti con le rappresentanze dei lavoratori esecutivi, manuali e

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non. Finché nella memoria collettiva di questi ultimi resterà traccia della
marcia dei quarantamila, a Torino e altrove, nessuna forma di solidarietà potrà
essere richiesta dalle rappresentanze dei quadri intermedi a quelle dei
lavoratori esecutivi, né queste ultime potranno far proprie (se non a scopi
tattici) rivendicazioni o pretese espresse dalle prime.

4. L’ipotesi della deprivazione


relativa

4.1. Le interpretazioni successive


39 Sulla base delle reazioni immediate all’azione collettiva organizzata dai
quadri intermedi ho cercato di ricostruire la sequenza di motivazioni dei tre
attori strategici impegnati nel conflitto dell’autunno 1980 alla Fiat: direzione
aziendale, rappresentanza e militanti sindacali, leadership del Coordinamento
quadri e capi intermedi dell’azienda. Ho cercato di individuare il significato
attribuito dagli attori alle proprie azioni e a quelle degli altri, nonché i risultati
parziali e finali del conflitto, derivanti dalla combinazione delle loro decisioni.
40 Si tratta ora di esaminare criticamente le interpretazioni della marcia dei
quarantamila, fornite successivamente alla ipotesi della cospirazione.
Quest’ultima venne infatti rapidamente abbandonata dalle rappresentanze
sindacali e sostituita dall’indicazione di almeno tre fattori causali, la cui azione
isolata o congiunta avrebbe provocato l’insuccesso del sindacato nella vertenza.
Essi sono:

i. le forme di lotta utilizzate nel corso della vertenza. Lo sciopero ad


oltranza e i presidi operai alle porte degli stabilimenti Fiat avrebbero
aumentato i costi a carico degli scioperanti e di coloro che, pur
volendolo, non potevano riprendere il lavoro. Questa circostanza
avrebbe disincentivato la propensione a prolungare lo sciopero e
attizzato reazioni contrarie;
ii. l’organizzazione dei processi decisionali all’interno del sindacato. Essa
avrebbe favorito l’affermazione della volontà di gruppi minoritari
combattivi, ma non rappresentativi degli orientamenti e dei bisogni dei
lavoratori, manuali e non, occupati alla Fiat. Da ciò l’affermazione di
decisioni (lo sciopero ad oltranza e il picchettaggio, soprattutto) che
avrebbero accentuato i cleavages esistenti e che invano alcuni
sindacalisti avrebbero tentato, nel corso della vertenza, di convertire in
azioni più caute e razionali (ad esempio, forme di sciopero articolato);
iii. l’«appiattimento» dei salari e degli stipendi, provocato dagli accordi
sindacali stipulati nel corso degli anni ’70 e, in particolare, quello
riguardante l’unificazione del punto di contingenza e quello relativo
all’introduzione del cosiddetto «inquadramento unico».

41 Gli explananda a cui fanno riferimento questi argomenti sono almeno due:
lo svolgimento della marcia dei quarantamila e la scarsa partecipazione operaia
agli scioperi e alle assemblee, per lo meno a partire da uno specifico momento
della vertenza. Solo il primo e il terzo argomento riguardano l’oggetto di questo
lavoro. Per quanto attiene al secondo, singolarmente antileninista, mi limiterò
qui a sottolinearne la timidezza. Esso fa riferimento a un fenomeno noto – la

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 11 di 23

carenza di procedure democratiche all’interno delle organizzazioni sindacali –


senza indicarne le cause. Nulla è detto a proposito degli interessi che hanno
facilitato l’istituzionalizzazione di quei modi di formazione delle decisioni: e
nessun sospetto viene nutrito sulla possibilità che gli interessi e gli obiettivi di
diversi gruppi di operai possano essere antagonistici, e non semplicemente
diversi.
42 L’indicazione del picchettaggio e dello sciopero ad oltranza come cause
principali della demoralizzazione operaia potrebbe essere accettata solo se si
potesse dimostrare che questa è la conseguenza più frequente della loro
adozione da parte delle organizzazioni sindacali. La storia del movimento
operaio presenta, al contrario, numerosi esempi in cui quell’effetto è stato
prodotto. Più importante sembra essere stata, nel caso, la pubblicità data
dall’azienda all’elenco dei nomi dei lavoratori da mettere in Cassa integrazione
guadagni e la conseguente ridefinizione della posta del conflitto, degli interessi
dei partecipanti e della loro propensione allo sciopero.
43 Si può invece ammettere che picchettaggio e, soprattutto, sciopero ad
oltranza (o, più precisamente, la diffusa valutazione di un uso ingiustificato e
intempestivo di queste forme di conflitto industriale) furono tra le cause
immediate della reazione antisindacale dei capi e dei quadri intermedi, nonché
del consenso raccolto dalla loro iniziativa.
[…]

5. Alcune stime della composizione


sociale della marcia dei
quarantamila

5. 1. Solo capi e quadri intermedi?


44 Le considerazioni che precedono ci hanno allontanato dallo scopo principale
di questo lavoro: fornire una risposta agli interrogativi sollevati nel secondo
paragrafo a proposito della marcia dei quarantamila. In particolare, non
abbiamo ancora tentato alcuna stima della composizione sociale ed etnica del
corteo dei partecipanti alla manifestazione del 14 ottobre 1980. Questo sarà
l’oggetto del paragrafo che segue. Sulla base dei risultati ottenuti proporrò
un’ipotesi sulla natura del conflitto industriale svoltosi negli stabilimenti
torinesi della Fiat negli ultimi quindici anni.
45 Le informazioni rilevate nelle officine della Fiat (21 unità produttive nella
provincia di Torino), nel corso del sondaggio svolto all’inizio del 1980, non ci
consentono di pervenire a una stima attendibile della partecipazione rispettiva
di operai, qualificati e non, e capi intermedi. Potremmo ad esempio supporre
che i partecipanti operai siano stati anzitutto reclutati tra i non iscritti alla Flm
o tra chi di loro esprime critiche nei confronti del sindacato e della sua politica.
A questi criteri potremmo aggiungerne altri: ad esempio, la deferenza espressa
nei confronti della direzione aziendale o la preferenza espressa a proposito
della «professionalità» come criterio prevalente di allocazione delle risorse. Il
risultato tuttavia non cambierebbe: la stima sarebbe frutto di decisioni più o
meno arbitrarie.
46

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Ciò che si può ragionevolmente affermare, a proposito degli operai occupati


alla Fiat, è che la partecipazione di alcuni di essi alla marcia dei quarantamila
non dovrebbe meravigliare: tra gli operai occupati negli stabilimenti Fiat
esistono sintomi chiari e definiti di una diffusa alienazione rispetto alle
organizzazioni sindacali, e anche di insofferenza. Si può supporre che la
partecipazione di operai al corteo del 14 ottobre 1980 avrebbe potuto essere
superiore a quella che effettivamente fu, se la manifestazione fosse stata
organizzata in modo differente o meglio pubblicizzata.
47 Una stima più attendibile della composizione professionale del corteo può
essere invece formulata a proposito dei lavoratori non manuali occupati negli
uffici dell’azienda torinese. Una domanda del questionario somministrato nella
primavera del 1980 chiedeva all’interessato di indicare quale fosse l’azione
collettiva più efficace per tutelare i suoi interessi. Non sembra irragionevole
supporre che la maggior parte dei partecipanti alla manifestazione del 14
ottobre 1980 sia stata reclutata tra coloro che dichiararono di preferire l’azione
di un sindacato autonomo formato solo da impiegati ovvero quella di
un’associazione o di un ordine professionale (d’ora in poi «strategia autonoma»
di azione collettiva). La probabilità di partecipazione dovrebbe essere invece
radicalmente più bassa per coloro che scelsero l’azione di un sindacato comune
a operai e impiegati organizzati contro la politica padronale (d’ora in poi
«strategia operaia» di azione collettiva).
48 Assumo infine che la probabilità di partecipazione al corteo sia uguale a 0,5
per chi rispose che nessun tipo di azione collettiva sarebbe stato capace di
tutelare i suoi interessi, ovvero che contava anzitutto sulle proprie forze (d’ora
in poi «strategia individuale»). Questo gruppo di rispondenti presenta in realtà
maggiore affinità negli atteggiamenti e comportamenti, industriali e politici,
con i membri del primo gruppo piuttosto che con quelli del secondo.
49 La tabella 1 ci presenta le variazioni delle preferenze riguardanti l’azione
collettiva in relazione al livello di inquadramento formale e alla posizione nella
gerarchia aziendale.

Tab. 1. Preferenze riguardanti l’azione e la rappresentanza collettive ritenute più


efficaci per far valere i propri interessi, secondo il livello di inquadramento
formale e la posizione nella gerarchia aziendale (in percentuale). Lavoratori non
manuali occupati in 14 unità produttive della provincia di Torino.

Situazione di lavoro

(1) (2) (3) (4) Dirigenti

Strategia operaia 56,5 48,3 24,7 10,6 0

Strategia autonoma 23,5 37,8 62,5 72,6 42,4

Strategia individuale 19,9 13,9 12,8 16,8 57,6

100 100 100 100 100

N. (427) (369) (149) (57) (19)

Coefficiente di incertezza asimmetrico: 0,061

Note: (1) impiegati esecutivi, compresi tra il II e V livello; (2) impiegati tecnici e professionali, di V
livello super e VI; (3) capi ufficio o laboratorio, di VI e VII livello; (4) funzionari di VII livello.

50 L’associazione tra le due variabili è relativamente forte. Quanto più elevato è


il livello di inquadramento formale e la posizione nella gerarchia aziendale, di

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tanto aumenta la propensione a preferire una «strategia autonoma» e


diminuisce quella verso la «strategia operaia». Va tuttavia osservato che circa
sei capi ufficio su dieci dichiarano di preferire forme autonome di azione e di
rappresentanza. Ciò significa che il consenso raccolto dal Coordinamento capi e
quadri intermedi della Fiat non era, nella primavera 1980, così consistente
come si sarebbe potuto supporre.
51 Possiamo ora, per così dire, rovesciare l’incrocio presentato nella tabella 1.
Supponiamo cioè che le preferenze espresse a proposito dell’azione collettiva
costituiscano la variabile indipendente (tab. 2).
52 Questa tabella ci permette di individuare il contributo percentuale fornito da
ciascun gruppo occupazionale al totale delle preferenze espresse in relazione a
ciascun tipo di azione collettiva. In particolare, la seconda colonna di questa
tavola di contingenza ci fornisce una stima della composizione professionale
della marcia dei quarantamila, per quanto riguarda i lavoratori non manuali
degli uffici. Ove questa stima si approssimasse alla realtà, solo il 36 % circa
degli impiegati di ufficio che parteciparono al corteo avrebbe occupato una
posizione di comando nella gerarchia aziendale. Il 64% dei partecipanti
avrebbe invece svolto mansioni subordinate.

Tab. 2. Variazioni del livello di inquadramento formale e di posizione nella


gerarchia aziendale, secondo le preferenze di azione e di rappresentanza
collettive (in percentuale). Lavoratori non manuali occupati in 14 unità produttive
della Fiat in provincia di Torino.

Strategie di azione collettiva


Situazione di lavoro
operaia autonoma individuale

Impiegati esecutivi 52,1 26,7 48,9

Impiegati tecnici e professionali 39,1 37,5 29,9

Capi ufficio e laboratorio 7,6 23,8 10,6

Funzionari 1,2 10,0 5,0

Dirigenti 0 1,9 5,7

100 100 100

N. (454) (385) (182)

Note: si veda tabella 1.

53 Questa stima dev’essere accolta con prudenza, dato che una dichiarazione di
preferenza di azione e di rappresentanza collettive non equivale affatto alla
partecipazione effettiva a una manifestazione, svoltasi tra l’altro sei mesi dopo
la rilevazione dei dati qui considerati. Non esistono tuttavia altri elementi che
limitino l’attendibilità della stima presentata. Possiamo quindi, sulla sua base,
avanzare qualche ragionevole congettura.
54 La prima considerazione è che l’espressione di «corteo dei capi» riferita alla
manifestazione del 14 ottobre 1980 può forse essere vera a proposito dei capi
intermedi delle officine; non lo è invece in relazione agli impiegati degli uffici.
Da quest’ultimo punto di vista l’espressione ricordata dovrebbe trasformarsi in
quella, più appropriata, di «corteo di capi e di aspiranti capi»17. Si fa, in
secondo luogo, apprezzare ancora una volta la razionalità (e, in parte,
l’opportunismo) dei comportamenti della leadership dell’associazione

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professionale dei quadri Fiat. Sulla base di un’unica manifestazione pubblica,


alla quale partecipò una percentuale assai rilevante di persone non
appartenenti al gruppo occupazionale rappresentato18, il Coordinamento dei
quadri e dei capi della Fiat riuscì a raccogliere un consenso sufficiente a
legittimare – in un periodo successivo – le sue pretese di esclusione e a
chiederne una sanzione legale. Pretese di esclusione, è opportuno sottolinearlo,
dirette precisamente a situare in una posizione subordinata tutti i lavoratori
non manuali che non dispongono di alcun titolo, se non la speranza, utile per
rivendicare a se stessi la «medaglia» di capo19. A consolazione degli operai e
degli impiegati esecutivi e tecnici che parteciparono alla marcia dei
quarantamila e che non riuscissero a realizzare in futuro quella speranza, si
può ricordare che non tutte le azioni apparentemente razionali permettono in
realtà di conseguire l’obiettivo preferito. Assai sovente, invece, sono proprio le
loro conseguenze a impedire al soggetto di raggiungerlo.

5.2. Una stima della composizione etnica del


corteo
55 Alcuni tra gli osservatori più attenti della vertenza alla Fiat del settembre-
ottobre 1980 rilevarono l’esistenza di una frattura etnica e linguistica tra gli
operai in sciopero (in particolare i militanti ai picchetti) e i partecipanti alla
marcia dei quarantamila. Tra i primi prevalevano infatti gli accenti del
Meridione d’Italia, tra i secondi il dialetto piemontese20.
56 Questa osservazione non è stata sviluppata come avrebbe meritato. La
sottovalutazione dei fattori etnici è largamente diffusa nella cultura politica e
sindacale italiana, così come – salvo alcune eccezioni – nella tradizione
sociologica del nostro paese. Si tratta, d’altro canto, di una credenza di nobili
origini, dato che essa è condivisa sia dalla tradizione marxista sia da quella
sociologica, da Marx come da Weber21. La fiducia incondizionata nel
dissolvimento dei legami comunitari e particolaristici, a seguito della
progressiva diffusione del mercato e della burocrazia, è stata – e, in molti casi,
è ancora – il problema sociologico par excellence; ed è riflesso nelle coppie
concettuali classiche della riflessione sociologica: comunitá/societá,
tradizione/modernità, particolarismo/universalismo, ascription/achievement,
status/ contratto. Questa convinzione radicata è stata incrinata e scossa dalla
persistenza e dalla attivazione – nelle regioni periferiche come in quelle
centrali del mondo contemporaneo – di conflitti etnici e razziali e, più in
generale, di diverse forme di solidarietà su base linguistica, culturale, etnica.
Questi fenomeni hanno favorito un processo, attualmente ai primi passi, di
revisione critica dell’ereditá intellettuale classica. Sempre più studiate sono le
cause e la fenomenologia del cosiddetto revival etnico, nonchè le complesse
connessioni esistenti tra divisioni etniche e disuguaglianze di classe, tra
conflitto comunitario e conflitto di classe22.
57 Quest’ultimo problema è uno dei puzzles più interessanti che ci presenta la
realtà sociale degli stabilimenti Fiat e della città di Torino. Una prima
ricognizione dei dati dei sondaggi svolti nel 1980 conferma che un problema
etnico – o, se si preferisce, culturale e linguistico – non soltanto esiste, ma ha
probabilmente un’importanza maggiore di quella generalmente attribuitagli.
58 Andiamo per ordine. Si tratta anzitutto di controllare se le impressioni
riportate dagli osservatori della marcia dei quarantamila siano o meno
confortate dall’evidenza disponibile. Nelle 21 unità produttive della Fiat di

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 15 di 23

Torino in cui si è svolto il sondaggio riguardante gli operai risulta che erano
nati in Piemonte (tra parentesi, la percentuale dei nati a Torino e il numero dei
casi):

i.
◦ il 25,5% degli operai comuni (71,3%; n=4177);
◦ il 37% degli operai semiqualificati (25,8%; n=1898);
◦ il 56,1% degli operai qualificati (37,3%; n= 1149);
◦ il 52,3% degli operatori e degli intermedi (37,2%; n=255);
◦ il 52,6% dei capi squadra di officina (32,2%; n =110);
◦ il 76% dei capi reparto e dei vice-capi di officina (57,2%;
n=142).

59 Le percentuali dei piemontesi e dei torinesi sono ancora superiori tra gli
impiegati delle 14 unità produttive campionate in provincia di Torino. Erano
nati in Piemonte o a Torino:

i.
◦ il 69% degli impiegati esecutivi (55,2%; n= 462);
◦ il 70,9% degli impiegati tecnici o professionali (55,7%; n=378);
◦ l’80,3% dei capi degli uffici o dei laboratori (58,9%; n=154);
◦ l’80,1% dei funzionari e degli ispettori (69,1%; n=59);
◦ il 78,3% dei dirigenti (73%; n=21).

60 Sulla base di questi dati si può ragionevolmente escludere che nel corteo dei
quarantamila vi fosse una percentuale rilevante di capi e quadri intermedi nati
in regioni italiane diverse dal Piemonte. Lo slogan con cui un giornale di
sinistra intitolò, il giorno successivo alla manifestazione, l’articolo relativo
(Arrivano i piemontesi!) sintetizza con efficacia uno dei principali caratteri
dell’azione collettiva. Uno dei più importanti, perché difficilmente la
manifestazione si sarebbe svolta, e svolta nei modi descritti, se non fosse
esistito il cemento della comunanza culturale e linguistica. E se esso non avesse
favorito la formazione di una solidarietà di ceto, e dei relativi onori e rituali, tra
i capi e i quadri intermedi della Fiat.

6. Conflitto comunitario e conflitto di


classe
61 Possiamo considerare i dati riportati nel paragrafo che precede da un altro
punto di vista e porci una domanda differente. Essa è la seguente: negli
stabilimenti torinesi della Fiat la zona geografica di nascita dei lavoratori
dipendenti può o meno essere considerata una variabile che influenza
l’allocazione delle mansioni ovvero, in altri termini, un principio che governa la
stratificazione interna?
62 Confrontiamo anzitutto le distribuzioni di frequenza delle zone di nascita di
operai e di impiegati occupati negli stabilimenti torinesi considerati nella
ricerca.

Tab. 3. Origine regionale dei lavoratori manuali e non manuali occupati in


stabilimenti torinesi della Fiat situati in provincia di Torino. Distribuzioni
percentuali di frequenza: 21 unità produttive per gli operai; 14 per gli impiegati.

Zona di origine Operai Impiegati

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 16 di 23

Provincia di Torino 23,4 57,4

Altre province del Piemonte 11,2 15,5

Altre regioni del Nord Ovest 1,9 3,1

Totale Nord Ovest 36,5 76,0

Nord Est 11,1 8,9

Centro 3,0 4,1

Sud e isole 49,4 11,1

100 100

N. (8.006) (1.010)
63 La comparazione dei dati riportati nelle colonne della tab. 3 mostra, in
apparenza, come sia onorato – negli stabilimenti torinesi della Fiat – il
concetto sociologico di ascrizione. Si tratta tuttavia di un’impressione
superficiale. In realtà, i nati nella provincia di Torino dispongono – a parità di
livello di inquadramento o di posizione nella gerarchia aziendale – di livelli di
istruzione formale (misurata in anni di frequenza scolastica) e di tempi di
apprendimento delle mansioni superiori a quelli detenuti da operai nati in altre
regioni italiane e, in particolare, a quelli nati nelle regioni meridionali. In altri
termini, questi ultimi occupano le posizioni meno pregiate in quanto
dispongono di un saper-fare inferiore rispetto ai loro colleghi torinesi o
piemontesi (v. tab. 4).
64 Il problema è tuttavia più complesso di quanto non sembri in apparenza. Il
fatto che negli stabilimenti torinesi della Fiat vengano utilizzati criteri di
allocazione delle mansioni basati su attributi acquisiti e non ascritti può
trasformarsi di fatto, data la minor qualificazione e istruzione degli operai
meridionali, in una forma di esclusione comunitaria. La condizione di questi
lavoratori sarebbe così analoga a quella dei lavoratori industriali del secolo
scorso in Europa, i quali non erano ammessi al voto per difetto di istruzione o
di altre risorse23. Il singolo operaio istruito o possidente aveva allora il diritto
di votare, così come un operaio meridionale qualificato può ragionevolmente
aspirare a svolgere mansioni non esecutive alla Fiat. Il problema è che la
maggior parte del proletariato industriale era allora analfabeta o quasi né
disponeva di qualche tipo di patrimonio, così come la maggior parte degli
operai meridionali occupati negli stabilimenti Fiat negli anni 1960-80 era
scarsamente istruita e qualificata. Le probabilità di poter un giorno partecipare
a pieno titolo alla vita politica e quelle di poter migliorare la propria posizione
sono, per la stragrande maggioranza dei membri di questi due gruppi sociali,
ridotte o ridottissime.

Tab. 4. Valori medi del livello di istruzione (istruz, misurata in anni di frequenza
scolastica) e del tempo di apprendimento della mansione (tam, Misurato in giorni)
secondo la posizione nella gerarchia aziendale e il livello di inquadramento
formale e la zona geografica di nascita. I valori indicati con asterisco riguardano
un numero di casi inferiore a 40 (al minimo 8). Lavoratori occupati in 21 unità
produttive della Fiat nella provincia di Torino.

Zona di nascita (1) (2) (3) (4) (5)

Piemonte

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 17 di 23

TAM 61,3 246,1 467,6 345,9 451,8

ISTRUZ 7,0 7,3 8,2 8,2 9,4

Altre regioni
del Nord Ovest

TAM 46,5 228,4 396,2* 305,6* 309,8

ISTRUZ 6,7 6,8 7,4* 7,7* 10,2*

Nord Est

TAM 46,3 186,5 447,0 287,6 385,1*

ISTRUZ 6,4 6,6 7,5 7,2 9,7*

Centro

TAM 38,3 201,4 431,4* 256,3* 306,3*

ISTRUZ 6,3 6,7 7,6* 6,9* 10,1*

Sud

TAM 31,9 197,6 402,7 282,4 308,5*

ISTRUZ 6,6 7,2 8,0 7,8 9,8*

155,1 (TAM) con N = 7.940;


Medie generali:
7,05 (ISTRUZ) con N = 7.669.

0,37 (TAM dipendente);


Età quadrato =
0,10 (ISTRUZ dipendente).

Note: si veda tabella 1.

65 L’evidenza empirica relativa alla situazione degli stabilimenti Fiat di Torino è


presentata nelle tabelle 5 e 6. Esse riguardano la distribuzione delle prerogative
dell’esecuzione e del comando tra operai e impiegati nati in differenti zone
geografiche del nostro paese.
66 Quasi sette operai meridionali su dieci occupano negli stabilimenti torinesi
della Fiat le posizioni occupazionali meno pregiate. Oltre sei impiegati
meridionali su dieci svolgono mansioni non manuali esecutive. La linea che
separa le mansioni esecutive da quelle professionali e di comando e quella che
distingue i nati nel Piemonte (o, più in generale, nelle regioni dell’Italia
settentrionale) dai nati nelle regioni meridionali – tra i lavoratori manuali
come tra quelli non manuali – si sovrappongono quasi completamente negli
stabilimenti torinesi della Fiat.
67 Ci avviciniamo qui al tipo ideale dell’esclusione comunitaria, ovvero di
limitazione dell’accesso alle risorse più pregiate realizzato sulla base di criteri
collettivi. Il fatto che questa esclusione si fondi su attributi acquisiti anziché
ascritti è probabilmente insufficiente a eliminare, dalla mente dei lavoratori
meridionali occupati alla Fiat, il sospetto di essere esclusi dalle posizioni più
remunerate non già in base all’applicazione di qualche test universalistico di
accertamento delle loro abilità e capacità, bensì più semplicemente in relazione
al fatto che essi posseggono un attributo indipendente dalla loro volontà, il
luogo di nascita. Ove questo sospetto fosse generalizzato, non è difficile
immaginare le conseguenze politiche che ne potrebbero derivare.

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 18 di 23

68 In ogni caso, i membri di una comunità esclusa sono titolari di uno «status
negativo onnicomprensivo», in cui «la subordinazione viene esperita attraverso
una miriade di degradazioni personali e dirette, nonché di affronti alla dignità
umana»24. Essi formano tendenzialmente una classe sociale di riproduzione,
che offre ai suoi membri scarse possibilità di scappatoie individuali. Le uniche
vie d’uscita disponibili sono collettive. La prima è l’isolamento difensivo verso
l’ambiente esterno, fonte incessante di frustrazioni e di affronti. Esso viene in
genere realizzato mediante l’elaborazione di un modello di partecipazione
politica subculturale, inteso a fornire gli strumenti simbolici di acquisizione
dell’identità e di forme di solidarietà, nonché di qualche forma di protezione
dei membri nei confronti della società globale. La seconda è la partecipazione
politica a fini universalistici o, meglio, il tentativo di trasformare un conflitto
comunitario in un conflitto di classe, la subcultura in un movimento politico e
sociale. Quest’ultimo sembra essere appunto il caso degli operai meridionali
immigrati a Torino e occupati alla Fiat e in altri stabilimenti industriali della
città.

Tab. 5. Variazioni nella posizione nella gerarchia aziendale, secondo il luogo di


nascita (in percentuale). Operai e capi intermedi di officina occupati in 21 unità
produttive della Fiat, localizzate nella provincia di Torino.

Zona di nascita
Situazione di lavoro
Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud e isole

Operai comuni (1) 41,9 46,7 51,4 68,9

Operai semiqualificati (2) 26,1 28,7 28,2 21,4

Operai qualificati (3) 21,3 16,6 13,6 7,0

Intermedi e operatori (4) 4,8 4,8 3,3 1,6

Capi squadra, capi reparto,

vice-capi officina (5) 5,9 3,1 3,6 1,0

100 100 100 100

N. (2.892) (878) (233) (3.728)

Coefficiente di incertezza asimmetrico: 0,041

Note: si veda tabella 1.

Tab. 6. Variazioni della posizione nella gerarchia aziendale, secondo il luogo di


nascita (in percentuale). Lavoratori non manuali occupati in 14 unità produttive
della Fiat, localizzate nella provincia di Torino.

Zona di nascita
Situazione di lavoro
Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud e isole

Impiegati esecutivi 42,3 37,6 30,5 65,0

Impiegati tecnici 34,8 48,0 50,3 27,0

e professionali

Capi ufficio 15,1 9,8 9,6 5,1

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 19 di 23

Funzionari e dirigenti 7,7 4,6 9,7 2,9

100 100 100 100

N. (754) (94) (42) (120)

Coefficiente di incertezza asimmetrico: 0,017

69 Il conflitto comunitario non nasce spontaneamente. È una risposta, sovente


disperata e inefficace, a specifiche politiche di esclusione operate sulla base di
criteri collettivi. Essa si rafforza e si affina (in senso strategico) se trova a
disposizione ideologie, simboli, strumenti espressivi più sofisticati ed efficaci di
quelli prodotti all’interno della subcultura del gruppo escluso. Sarebbero da
questo punto di vista da studiare le forme e i modi di utilizzazione del
patrimonio culturale e politico del movimento operaio torinese da parte della
comunità operaia meridionale immigrata a Torino. Anche per sfatare il mito
della egemonia del primo rispetto alle tradizioni di lotta della seconda.
70 Non è difficile comprendere, da questo punto di vista, gli stimoli che hanno
alimentato, nel corso degli ultimi quindici anni, la ricerca di un’identità
collettiva, morale e politica, da parte degli operai meridionali immigrati a
Torino. Né sembra difficile da questo punto di vista, interpretare la particolare
intensità delle lotte operaie svoltesi in quegli anni negli stabilimenti torinesi
della Fiat. La loro specificità, rispetto alla mobilitazione industriale e politica di
altri gruppi di lavoratori manuali non qualificati occupati in altre regioni
italiane, sembra appunto connessa alla sovrapposizione di un conflitto
comunitario su un conflitto di classe. Il primo sembra influenzare tutte le
manifestazioni del secondo; esso non è infatti «soprattutto e innanzitutto
diretto a un’alterazione della struttura di potere e della deferenza, bensì
all’usurpazione del potere e della deferenza da parte di una sezione della
comunità a svantaggio di un’altra»25. Non si tratta qui semplicemente o solo di
un «eccesso di militanza» esibito dai lavoratori manuali o da un loro strato,
bensì di un tipo di militanza distintivo e peculiare.
[…]

7. Considerazioni conclusive
71 La marcia dei quarantamila rafforza un insieme di tendenze, già evidenti
nella società italiana alla fine degli anni ’70, verso una diversa distribuzione del
potere e del vantaggio sociale. Essa segna la fine della politica dell’uguaglianza
degli anni ’70, l’arresto di un processo di redistribuzione delle risorse a favore
delle classi subordinate e di delegittimazione delle tradizionali gerarchie di
status. Vista da questa prospettiva, la marcia dei quarantamila potrebbe essere
interpretata come un contributo offerto alle forze che operavano (e tuttora
operano) in direzione di un riequilibrio del sistema di stratificazione. Se si tiene
conto della storia delle disuguaglianze nel nostro paese e del peso che questa
tradizione ha nell’orientare decisioni, aspettative, credenze di singoli e di
gruppi sociali, l’esistenza di queste forze non può meravigliare26.
72 Il contributo specifico della manifestazione di Torino al successo di una
nuova politica della disuguaglianza fu quello di mostrare pubblicamente, per la
prima volta dopo dodici anni, l’entità delle forze disponibili a sostenerla e la
loro determinazione nel negare qualsiasi valore all’esperienza storica
precedente. Dando voce, identità e dignità a queste forze la marcia dei
quarantamila ha fortemente contribuito a legittimare le pretese di larghi strati

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della classe media a una considerazione distintiva e al riconoscimento della


loro superiorità relativa – questa volta sotto il vessillo della professionalità. […]
73 La storia delle vertenze sindacali successive al 14 ottobre 1980 e la crisi
profonda delle organizzazioni sindacali dei lavoratori esecutivi mostrano che le
probabilità di realizzazione di questi obiettivi sono, al momento attuale,
alquanto elevate.
74 È tuttavia difficile, se non impossibile, prevedere se la politica della
disuguaglianza avrà successo in un prossimo futuro. Essa può essere imposta
con la coercizione; formare l’oggetto di un’accettazione pragmatica da parte
delle classi subalterne; riuscire a persuadere almeno una parte di esse; essere
infine contrattata e realizzata gradualmente, nel rispetto dei diritti di
cittadinanza acquisiti dai lavoratori esecutivi nel corso degli anni ’70. Non è
detto che quest’ultima soluzione, in quanto più ragionevole nel breve-medio
periodo, abbia maggiore probabilità di realizzarsi delle altre27.

Avvertenza metodologica
75 I dati presentati in questo lavoro sono tratti da due ricerche, svolte nel 1980,
in diverse unità produttive della Fiat – situate in Piemonte e in altre regioni
italiane. In ciascuna unità produttiva considerata (36 per gli operai; 17 per gli
impiegati) è stato estratto casualmente un campione (di squadre per gli operai,
di uffici per gli impiegati) a grappolo, stratificato per officina o per direzione e,
per gli operai, anche per turno. La percentuale di squadre campionata
corrisponde a circa il 20% degli occupati nelle unità produttive che contavano
più di 3000 dipendenti e al 30% nelle unità produttive di dimensioni inferiori.
Nelle unità produttive di medie o piccole dimensioni (sotto i 300 dipendenti) la
percentuale del campione è stata intorno al 50% dell’universo. In alcuni casi di
unità produttive assai piccole, il questionario è stato somministrato
all’universo. Questa decisione di variare le dimensioni dei campioni è stata
presa i) in relazione al tipo di oggetto campionato e ii) all’opportunità di
consentire analisi adeguate (cioè con un numero sufficiente di casi) anche nei
casi di unità produttive piccole o piccolissime.
76 I dati presentati in questo lavoro sono stati ponderati tenendo conto del
rapporto tra campione e universo, in relazione a ciascuna unità produttiva
considerata. Ciò per evitare errori dovuti al sovra- o sottocampionamento.
77 I dati percentuali ponderati differiscono tuttavia assai poco (al massimo 2
punti percentuali) da quelli non ponderati. Il numero dei casi riportato nel
testo e nelle tabelle corrisponde sempre a quello dei rispondenti.
78 Data la presenza di dati tratti da più campioni, nelle tavole di contingenza ho
preferito non indicare i valori del chi quadrato. Ho invece indicato i valori del
coefficiente di incertezza asimmetrico, che sono interpretabili in modo analogo
a quello di R2, ovvero come un rapporto tra varianza spiegata e da spiegare.

Note
1 Cfr. E. Scalfari, La cura Agnelli per l’Italia, «la Repubblica», 25 novembre 1982. La
frase è tratta dall’intervista all’avv. Giovanni Agnelli.
2 Qualcuno ha anzi affermato che gli oppositori ottennero, seppur di stretta misura, la
maggioranza tra i partecipanti alle assemblee. Accertare la verità sembra oggi pressoché
impossibile. Non risulta che sia stato effettuato un conteggio sistematico dei voti nelle
singole assemblee né che sia stata effettuata la somma dei voti, secondo le preferenze, in

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relazione a tutte le assemblee che allora si svolsero. In ogni caso, se esistono, questi dati
non sono mai stati resi pubblici. Sono invece disponibili, in relazione a molte assemblee,
le percentuali dei voti favorevoli e contrari. Manca tuttavia sovente l’indicazione del
numero dei partecipanti.
Osservatori privilegiati riferiscono che in molti casi furono effettuati errori nel
conteggio, a sfavore degli oppositori. «Fu una votazione analoga a quella del referendum
del 1946, quando si scelse tra monarchia e repubblica» – ha commentato recentemente
uno di essi.
3 Per la ricostruzione della cronaca dei cosiddetti «35 giorni», ho consultato i quotidiani
«Avanti!», «il manifesto», «il Sole - 24 Ore», «la Repubblica», «La Stampa», «l’Unità».
Resoconti successivi sono contenuti in Fiat: storia di una lotta, «Bollettino mensile di
documentazione della Federazione piemontese Cgil, Cisl, Uil», n. 36, monografico,
1980; P. Kemeny, Sindacato e lavoratori nella vertenza Fiat dell’ottobre 1980, Cesos,
Roma 1982; E. Mattina, Fiat e sindacati negli anni ’80, Rizzoli, Milano 1981; M. Bianchi
e L. Scheggi (con la collaborazione di P. Artemi), Un sindacato per i quadri, Editoriale
del Corriere della Sera, Milano 1982 (supplemento al n. 42, 1982, de «Il Mondo»); A.
Dina, Fiat: i «35 giorni» e dopo, «Classe», vol. XII, 1981, n. 19, pp. 5-36.
4 È molto probabile che l’opinione espressa da un operaio nel corso della discussione
dell’accordo tra Fiat e Flm, ovvero che i partecipanti fossero in prevalenza «gente venuta
dal di fuori, pagata dall’azienda con i nostri soldi», abbia goduto di un certo consenso
tra i partecipanti alle assemblee svoltesi a Torino alcuni giorni dopo la manifestazione.
La dichiarazione è riportata nel fascicolo citato di «Controinformazione», p. 82. Altri
osservatori affermano che al corteo si aggregarono lavoratori occupati in aziende del
cosiddetto «indotto Fiat», ovvero fornitrici dell’azienda torinese. Qualcuno, infine,
ritiene che al corteo parteciparono spontaneamente anche semplici cittadini, che
manifestarono così il loro consenso.
5 Un dirigente dell’Unionquadri, Corrado Rossitto, ha ammesso che la maggior parte dei
partecipanti al corteo non era costituita da capi o quadri intermedi: «Il 14 ottobre a
Torino agli ottomila quadri della Fiat si sono uniti trentaduemila operai, impiegati,
commercianti, cittadini in generale».
6 Un disegno comparso il giorno dopo davanti alle porte dello stabilimento di Mirafiori
raffigurava i capi come delle marionette o robots, il cui comportamento era regolato a
distanza dall’avvocato Agnelli.
7 Cfr. R. Gianotti, La risposta a quel corteo, «l’Unità», 15 ottobre 1980.
8 Questi antecedenti storici, teorici e ideologici, delle teorie sociologiche moderne
dell’azione collettiva sono stati ricostruiti ed esposti in A. Melucci, Classe dominante e
industrializzazione. Ideologie e pratiche padronali nello sviluppo capitalistico della
Francia, Angeli, Milano 1974.
9 Un giornalista di solito ben informato ha affermato: «Non che l’iniziativa mancasse di
mezzi e di appoggi autorevoli. Al contrario: dai piani alti di corso Marconi, dove ha sede
il quartier generale della holding, erano arrivati non solo incoraggiamenti verbali, ma
anche indirizzari per l’invio di 18 mila lettere ad altrettanti capi intermedi e telefonate a
tappeto dell’ufficio personale per rinnovare l’invito a essere presenti» (R. Chiaberge,
L’ora dei capi, «Il Mondo», vol. XXXI, 1980, n. 44).
10 L’ipotesi dell’«assemblea retribuita», dei «capi che avevano timbrato il cartellino»
prima di partecipare alla manifestazione è stata fatta propria da quasi tutte le reazioni
immediate degli esponenti sindacali e del Pci.
L’ipotesi delle possibili sanzioni aziendali è soprattutto presente nelle interpretazioni
sindacali. Si vedano le dichiarazioni di esponenti della V lega Flm di Mirafiori, riportate
nell’articolo di G. Compagna, A Torino 40 mila in corteo, «il Sole - 24 Ore», 15 ottobre
1980.
11 A. Pizzorno, Marché, démocratie, action collective, ms non pubblicato, Parigi 1975,
citato da Melucci, L’azione ribelle, cit.
12 La stima di 600 partecipanti è contenuta nell’articolo di G. Compagna, Silenzioso
corteo antisciopero davanti ai presidi di Rivalta, «Il Sole - 24 Ore», 10 ottobre 1980.
Quella di 800 nell’articolo di B. Ugolini, Intanto Torino vive nuove ore di tensione,
«l’Unità», 10 ottobre 1980. Il sottotitolo dell’articolo, in contrasto con il suo contenuto,
è il seguente: «La Fiat, facendo leva sul disagio dei capi, tenta di dividere e di
organizzare vere e proprie azioni squadristiche».
13 R. D. Luce e H. Raiffa, Games and Decisions, Wiley, New York 1957, p. 14.
14 Dello stesso parere è D. Gambetta in The FIAT-strike: Turin, September-October
1980, ms non pubblicato, Cambridge 1981.

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La rigidità decisionale del sindacato dovrebbe essere spiegata, secondo questo autore, in
riferimento a due variabili: i) l’inerzia: «una volta messa in moto la macchina dello
sciopero a oltranza è difficile fermarla» (l’affermazione è del segretario generale della
Cgil, Luciano Lama), e ii) l’influenza del Pci, diretta a radicalizzare la vertenza per trarne
vantaggio a livello politico generale. Va ricordato che nel corso della vertenza, il governo
Cossiga fu costretto a dimettersi.
Il primo argomento, come riconosce lo stesso Gambetta, non ha senso alcuno, a meno
che non sia possibile spiegare perché quella macchina sia inarrestabile. Il secondo è
contraddetto dall’evidenza raccolta da chi scrive nel corso di alcune interviste a
testimoni privilegiati nel Pci, nella Flm e nella Cgil torinesi. Secondo questi informatori,
furono gli organi nazionali e regionali della Flm a insistere sull’opportunità di «dare una
spallata» alla vertenza, ovvero a cercare di costringere la Fiat, attraverso lo sciopero a
oltranza, a ritirare l’elenco dei 23.000 «cassa-integrati» e ad adottare forme di rotazione
dei lavoratori da mettere in cassa integrazione. È probabile che il grado di conoscenza
disponibile alla leadership della Flm sulle motivazioni e sulle propensioni ad agire dei
lavoratori manuali occupati alla Fiat fosse alquanto rozzo e approssimato. Chi vuole
dare una «spallata» deve in genere stimare non solo la natura dell’ostacolo, ma anche
l’entità delle sue forze.
15 Il cartello recava questa scritta: «Non siamo picchiatori». Va osservato, in proposito,
il brusco mutamento di atteggiamento della leadership del Coordinamento quadri e capi
intermedi della Fiat, avvenuto nella seconda decade di ottobre. Ci furono infatti esplicite
ammissioni di responsabilità dell’associazione nell’organizzazione dei numerosi
tentativi di sfondamento dei presidi operai avvenuti nei primi giorni di ottobre. Un
dirigente dell’associazione giustificò così queste azioni: «I capi sono di origine operaia e,
magari un po’ in ritardo, hanno imparato che in certi momenti un po’ di grinta non
guasta. Se ci sono i picchetti, chi è fuori legge: io che voglio entrare o chi non mi vuole
fare entrare?» (G. Compagna, I quadri intermedi rivendicano la libertà di lavoro, «il
Sole - 24 Ore», 10 ottobre 1980). È molto probabile che il successo della manifestazione
di Rivalta abbia indotto l’associazione dei capi e dei quadri a rivedere la propria
strategia di azione e a decidere le forme organizzative della manifestazione del 14
ottobre.
16 Cfr. F. Parkin, Marxism and Class Theory: a Bourgeois Critique, Tavistock, Londra
1978, p. 111.
17 La scelta dell’azione collettiva è influenzata, oltre che dalla situazione del lavoro, dalle
valutazioni dei soggetti in relazione alle proprie prospettive di carriera. A parità di
posizione nella gerarchia aziendale, infatti, sono anzitutto coloro che affermano che «la
carriera non interessa» a manifestare la più forte propensione a una rappresentanza
comune con gli operai, seguiti da coloro che affermano di avere prospettive «cattive» o
«pessime» di carriera e, infine, da coloro che ritengono di avere possibilità «ottime»,
«molto buone» o «abbastanza buone» di carriera. L’inverso è vero per chi preferisce una
rappresentanza autonoma da quella degli operai. La considerazione della variabile
interveniente nel modello provoca un aumento notevole dei valori dei tests di
associazione tra le variabili indicate nella tabella 1.
18 Si ricordi la dichiarazione riportata nella nota 5 di questo lavoro.
19 Questa è un’espressione tipica del gergo diffuso tra i capi intermedi occupati alla Fiat.
20 Si vedano, ad esempio, le dichiarazioni di A. Lettieri riportate da Chiaberge, L’ora dei
capi, cit., nonché gli articoli pubblicati su «Nuova Società», vol. VIII, 1980, n. 182, pp.
9-13.
21 Cfr. D. Lockwood, Race, Conflict and Plural Society, in S. Zubaida (a cura di), Race
and Racialism, Tavistock, Londra 1970, pp. 57-72 e, per una discussione critica della
letteratura più recente, Parkin, Marxism and Class Theory, cit.
22 Oltre ai testi indicati nella nota precedente si veda A. Smith, The Ethnic Revival,
Cambridge University Press, Cambridge 1981.
23 Cfr. F. Parkin, Strategies of Social Closure in Class Formation, in F. Parkin (a cura
di), The Social Analysis of Class Structure, Tavistock, Londra 1974, pp. 7-8.
24 Si veda Parkin, Marxism and Class Theory, cit., p. 64.
25 Cfr. Lockwood, Race, Conflict and Plural Society, cit., p. 64.
26 Si veda ad esempio R. Romano, Una tipologia economica, in Storia d’Italia, I. I
caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 256-308.
27 Poscritto (marzo 1984) La lunga marcia dei quadri e delle loro associazioni verso il
riconoscimento giuridico della loro distinzione rispetto agli impiegati esecutivi è

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La marcia dei quarantamila (1984) Pagina 23 di 23

proseguita in Italia nel periodo che intercorre tra il dicembre 1982 (data in cui questo
lavoro venne ultimato) e oggi. La contrattazione con i partiti politici e il Parlamento è
ancora aperta; i suoi risultati non sono per ora visibili.
Per quanto riguarda le pubblicazioni che non ebbi modo di consultare, vorrei segnalarne
almeno due. Luc Boltanski ha sviluppato in un libro notevole (Les cadres: la formation
d’un groupe social, Les Edition de Minuit, Parigi 1982) le idee contenute nell’articolo
del 1979 qui citato. Non è difficile prevedere che questo libro costituirà uno dei punti di
partenza obbligati per chi intenda studiare in futuro i problemi dei quadri e delle classi
medie – in Europa e in altri paesi industriali.
Nicola Negri (I nuovi torinesi: immigrazione, mobilità, struttura sociale, in G.
Martinotti (a cura di), La città difficile, Angeli, Milano 1982) ha fornito evidenza
empirica comparata sulle difficoltà di mobilità ascendente intra- e inter-generazionale
dei meridionali a Torino. Questi dati, raccolti ed elaborati in modo del tutto
indipendente, rendono più plausibile l’ipotesi di un’esclusione comunitaria nei confronti
degli immigrati meridionali a Torino negli anni ’60 e ’70 presentata nel par. 6 di questo
lavoro.

Per citare questo articolo


Notizia bibliografica
Alberto Baldissera, « La marcia dei quarantamila (1984) », Quaderni di Sociologia,
26/27 | 2001, 307-336.

Notizia bibliografica digitale


Alberto Baldissera, « La marcia dei quarantamila (1984) », Quaderni di Sociologia
[Online], 26/27 | 2001, online dal 30 novembre 2015, consultato il 05 juillet 2018. URL :
http://journals.openedition.org/qds/1608 ; DOI : 10.4000/qds.1608

Autore
Alberto Baldissera
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