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Esteban Echevarría

Il mattatoio (prima edizione 1838)

Nonostante la mia sia storia, non la comincerò con l'arca di Noè e la genealogia dei sui antenati
come erano soliti farlo i vecchi storici spagnoli d’America, che dovrebbero essere i nostri modelli.
Io ho molte ragioni per non seguire quell’esempio, che taccio per non essere prolisso. Dirò
solamente che gli eventi della mia narrazione occorsero nell’anno dell’era cristiana 183... Si era,
inoltre, in quaresima, periodo in cui la carne a Buenos Aires scarseggia, perché la Chiesa, adottando
il precetto di Epitteto, sustine, abstine (patisci e astieniti), ordina veglia e astinenza agli stomaci dei
fedeli, poiché la carne è peccaminosa, e, come dice il proverbio, cerca la carne. E siccome la Chiesa
ha ab initio e per mandato diretto di Dio il dominio immateriale sulle coscienze e gli stomaci, che in
alcuno modo appartengono all'individuo, nulla di più giusto e razionale che vietare il male.

D'altra parte i fornitori, buoni federali, e per ciò stesso buoni cattolici, sapendo che la popolazione
di Buenos Aires possiede una singolare docilità per sottomettersi a ogni specie di precetto, nei
giorni di quaresima portano al macello soltanto i manzi necessari al sostentamento dei bambini e
delle persone ammalate dispensate dell'astinenza dalla Bolla, non certo perché possano sollazzarsi
taluni ereticoni, che non mancano mai, sempre disposti a violare i comandamenti della Chiesa in
fatto di carne e a macchiare la società col loro cattivo esempio.

Vi furono in quel periodo piogge assai abbondanti. Le strade furono allagate; le paludi divennero
laghi e le strade di ingresso e di uscita alla città traboccavano di acqua fangosa. Una tremenda
alluvione scese improvvisamente dal torrente di Barracas e distese maestosamente le sue acque
torbide fino alle pendici del dirupo di Alto. Il Rio de la Plata, in piena furiosa, spinse quelle acque
che stavano cercando il loro sbocco e le fece correre gonfie su campi, argini, boschi, villaggi fino a
stendersi come un lago immenso su tutte le pianure. La città, circondata da nord a est da una cintura
di acqua e fango, e a sud da un mare biancastro sulla cui superficie galleggiavano alla deriva alcune
barchette e spuntavano neri i camini e le cime degli alberi, gettava dalle sue torri e alture sguardi
attoniti all'orizzonte, come implorando misericordia all’Altissimo. Sembrava l’inizio di un nuovo
Diluvio. I bigotti di ambo i sessi piagnucolavano recitando novenari e preghiere incessanti. I
predicatori rintronavano il tempio e facevano cigolare il pulpito a suon di pugni. È arrivato il giorno
del giudizio, dicevano, la fine del mondo sta arrivando. L’ira divina traboccando si sparge come
un’inondazione. Guai a voi, peccatori! Guai a voi, empi unitari che vi fate beffe della Chiesa, dei
santi e non ascoltate con devozione la parola degli unti del Signore! Guai a voi se non implorerete
misericordia ai piedi degli altari! Arriverà l'ora tremenda del vano digrignare di denti e delle
maledizioni frenetiche. La vostra empietà, le vostre eresie, le vostre bestemmie, i vostri crimini
orrendi hanno attirato sulla nostra terra le piaghe del Signore. La giustizia del Dio della Federazione
vi dichiarerà maledetti.

Le povere donne uscivano scoraggiate e avvilite del tempio, dando, come era naturale, la colpa di
quella calamità agli unitari.

Tuttavia continuava a piovere a dirotto e l'inondazione cresceva accreditando i presagi dei


predicatori. Le campane cominciarono a chiamare la popolazione a preghiere pubbliche per ordine
del molto cattolico Restauratore, che sembra non le avesse tutte con se. I libertini, i miscredenti vale
a dire gli unitari, cominciarono a spaventarsi vedendo tanti volti compunti, sentendo una tale
sequela di maledizioni. Si parlava già, come di cosa definita, di una processione alla quale l'intera

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popolazione, a piedi nudi e a capo scoperto, avrebbe dovuto assistere accompagnando l’Altissimo
portato sotto un baldacchino dal vescovo fino all’altura di Balcarce dove migliaia di voci,
esorcizzando il demone unitario dell'inondazione, dovevano implorare la misericordia divina.

Fortunatamente, cioè sfortunatamente, perché era cosa da vedersi, la cerimonia non ebbe effetto,
perché scendendo il livello del Rio de la Plata, l'inondazione si placò a poco a poco fluendo
attraverso il suo immenso letto senza bisogno di esorcismi o preghiere.

Ciò che principalmente ha importanza per la mia storia è che a causa dell'inondazione il macello
della Convalescenza rimase quindici giorni senza vedere una sola testa bovina, e che in quattro e
quattr’otto, tutti i buoi di proprietà di acquaioli e contadini furono abbattuti per approvvigionare la
città. I poveri bambini e gli ammalati si alimentavano con uova e galline, mentre gli stranieri e i
gozzovigliatori reclamavano la bistecca e l'arrosto. L'astinenza di carne era generale tra la
popolazione, che mai fu più degna della benedizione della Chiesa, e così fu che su di essa caddero
milioni e milioni di indulgenze plenarie. Le galline arrivarono a costare sei pesos e le uova quattro
reales, mentre il pesce era carissimo. Non vi furono in quei giorni quaresimali promiscuità né
eccessi di gola; ma in cambio se ne andarono dritte in cielo innumerevoli anime e accaddero cose
mai neppure sognate.

Non rimase nel macello neppure un solo topo vivo delle molte migliaia che là albergavano. Tutti
morirono di fame o affogati nelle loro tane dalla pioggia incessante. Turbe di negre raccoglitrici di
frattaglie, come avvoltoi si dispersero per la città come tante arpie per divorare tutto ciò che
trovavano di commestibile. I gabbiani e i cani, loro inseparabili rivali nel macello, emigrarono in
cerca di cibo animale. Numerosi vecchi male in arnese morirono di consunzione per mancanza di
brodo nutriente; ma la cosa più straordinaria che accadde fu la morte quasi improvvisa dei
gozzovigliatori stranieri che commisero l’insolenza di farsi una scorpacciata di salsicce di
Extremadura, prosciutto e baccalà e se ne andarono all'altro mondo a espiare il peccato commesso
per tale abominevole infrazione al precetto del digiuno.

Alcuni medici dissero che se la mancanza di carne fosse continuata, mezza città sarebbe caduta
sincope poiché gli stomachi erano abituati ai suoi succhi corroboranti; era notevole il contrasto fra
questi tristi pronostici della scienza e le maledizioni scagliate dal pulpito dai reverendi padri contro
ogni tipo di alimento di origine animale e di infrazione al precetto in quei giorni dedicati dalla
Chiesa al digiuno e alla penitenza. Ebbe qui origine una sorta di guerra intestina tra gli stomaci e le
coscienze, aizzata dall'appetito implacabile e dai non meno implacabili ammonimenti dei ministri
della Chiesa che, come è loro dovere, non transigono nei confronti di alcun vizio che tenda a
indebolire i costumi cattolici; a ciò si aggiungeva la condizione di flatulenza intestinale degli
abitanti, provocata dal pesce, dai fagioli e da altri cibi un po’ indigesti.

Questa guerra si manifestava con singhiozzi e grida sguaiate durante i sermoni e per dicerie e da
improvvisi rumori e fragori nelle case e nelle strade della città o là dove le persone si radunavano. Il
governo e il Restauratore, tanto paterno quanto previdente, si allarmò un poco, credendo che quei
tumulti fossero di origine rivoluzionaria e attribuendoli ai selvaggi unitari, le cui empietà, secondo i
predicatori federali avevano attirato sul paese l’ira divina e la conseguente inondazione; prese allora
provvedimenti sguinzagliando i suoi sbirri tra la popolazione, e infine, bene informato, promulgò
un'ordinanza per tranquillizzare le coscienze e gli stomaci, che si apriva con una deliberazione
molto saggia e compassionevole affinché in tutta fretta e a dispetto dell’acqua e di tutto il resto si
portasse del bestiame nei recinti del macello.

E in effetti, al sedicesimo giorno della carestia, vigilia del venerdì che precede la Domenica delle
Palme, entrò a nuoto attraverso la porta di Burgos e diretta al macello di Alto una mandria di

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cinquanta giovani torelli ben pasciuti; poca cosa in verità per una popolazione abituata a consumare
ogni giorno da 250 a 300 e di cui almeno la terza parte avrebbe goduto del permesso ecclesiastico di
mangiare carne. Cosa strana che esistano stomaci privilegiati e stomaci soggetti a leggi inviolabili e
che la Chiesa abbia la chiave degli stomaci!

Ma in fin dei conti non è troppo strano, dato che è con la carne che di solito il diavolo entra in corpo
e che la Chiesa ha il potere di esorcizzarlo: l’intento è ridurre l'uomo a una macchina il cui movente
principale non sia la sua volontà ma quella della Chiesa e del governo. Forse arriverà il giorno in
cui sarà proibito respirare l’aria, andare a zonzo e perfino conversare con un amico, senza il
permesso dell’autorità competente. Così era, più o meno, ai tempi felici dei nostri pii nonni che,
purtroppo, la rivoluzione di maggio è venuta a turbare.

Sia come sia, alla notizia del decreto governativo, i recinti del macello di Alto si riempirono,
nonostante il fango, di macellai, raccoglitrici di frattaglie e curiosi, che ricevettero con grandi urla e
applausi i cinquanta manzi destinati al macello.

“Pochi ma buoni” esclamavano. Viva la Federazione! Viva il Restauratore!


Perché devono sapere i lettori che in quel periodo la Federazione era dappertutto, financo tra le
immondizie del macello, e non c'era festa senza Restauratore così come non c’è sermone senza San
Agostino. Raccontano che udendo grida così sguaiate gli ultimi ratti che stavano morendo di fame
nelle loro tane si rianimarono e incominciarono a correre frenetici che stavano ritornando l’allegria
e la consueta gazzarra che preludono all'abbondanza.

Il primo torello che venne ucciso fu donato interamente al Restauratore, uomo molto amico
dell'arrosto. Una commissione di macellai andò a offrirglielo a nome dei federali del macello,
manifestandogli a voce la loro gratitudine per la decisone opportuna del governo, la loro fedeltà
illimitata al Restauratore ed il loro odio viscerale per i feroci unitari, nemici di Dio e degli uomini.
Il Restauratore rispose al panegirico insistendo sullo stesso tema e concluse la cerimonia tra gli
opportuni evviva e le grida degli spettatori e attori. Non c’è dubbio che il Restauratore avesse il
permesso speciale di sua Eminenza il vescovo per non doversi astenere dalla carne, perché essendo
così ligio al rispetto delle leggi, un così buon cattolico e un irriducibile protettore della religione,
non avrebbe altrimenti dato il cattivo esempio accettando un simile regalo in un santo giorno.

A ciò seguì la macellazione, e in capo a un quarto d’ora quarantanove torelli giacevano morti sulla
spianata del mattatoio, alcuni già scuoiati, altri pronti da scuoiare. Lo spettacolo che offriva in
quell’occasione era animato e pittoresco benché raccogliesse tutto l’orribilmente brutto, sporco e
deforme di una piccola classe proletaria tipica del Rio de la Plata. Ma affinché il lettore possa
percepirlo con un colpo di occhio, è necessario dare una descrizione del luogo.

Il mattatoio di Convalecencia o di Alto, situato nei pressi delle fattorie a sud della città, è una
grande spianata di forma rettangolare collocata all’estremità di due strade, una delle quali finisce,
mentre l’altra si prolunga verso est. Questa spianata che discende verso sud, è attraversata da un
fosso scavato dalla corrente delle acque piovane lungo le cui rive si vedono innumerevoli tane di
topi e il cui letto, durante le piogge, raccoglie tutto il sangue secco o fresco dell’intero macello.
Dove il fosso fa angolo verso ovest si trova ciò che chiamano il casotto, un edificio basso con tre
vani né alti né bassi con un porticato davanti che dà sulla strada e una palizzata per legarci i cavalli,
dietro il quale si notano vari recinti fatti di pali aguzzi e provvisti di porte robuste per rinchiudere il
bestiame.

Questi recinti durante l’inverno sono una vera palude in cui gli animali ammassati affondano fino al
collo restando come incollati e pressoché incapaci di muoversi. Nel casotto avviene la riscossione

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raccolta del noleggio dei recinti, si riscuotono le multe per la violazione dei regolamenti e ha la sua
sede il giudice del macello, un personaggio importante, capo dei macellai e che in quella piccola
repubblica esercita il sommo potere per delega del Restauratore. E’ facile immaginare che razza di
uomo si richieda per svolgere un simile incarico. Il casotto, d'altro canto, è un edificio talmente
malandato e piccolo che nessuno lo noterebbe fra i recinti se il suo nome non fosse associato a
quello del terribile giudice e se lungo le sue pareti imbiancate non campeggiassero le seguenti
scritte a caratteri rossi: "Viva la Federazione", "Viva il Restauratore e l'eroina doña Encarnación
Ezcurra", "Morte ai feroci unitari". Scritte assai significative, simbolo della fede politica e religiosa
della gente del macello. Ma alcuni lettori non sapranno che cotale eroina è la defunta moglie del
Restauratore, patrona assai amata dei macellai i quali, orami morta, la veneravano come fosse viva
per le sue virtù cristiane ed il suo federale eroismo nella rivoluzione contro il governo di Balcarce.
Accadde che in un anniversario di quella memorabile impresa della mazorca, i macellai celebrarono
l'eroina con uno splendido banchetto che si tenne nel casotto, banchetto al quale ella partecipò con
la figlia e altre signore federali; e che lì, in presenza di una grande folla, la donna offrì con un
solenne brindisi il suo patrocinio ai signori macellai, motivo per il quale essi la proclamarono
entusiasti patrona del macello, tracciando il suo nome sulle pareti del casotto, dove rimarrà fino a
quando sarà cancellato dalla mano del tempo.

Vista da lontano, la scena del macello era grottesca, piena di animazione. Quarantanove capi di
bestiame giacevano stesi sopra le loro pelli e circa duecento persone calpestavano quel suolo
fangoso bagnato con il sangue delle loro arterie. Attorno a ciascun animale spiccava un gruppo di
figure umane di carnagione e razza diverse. La figura più importante in ciascun gruppo era il
macellaio con il coltello in mano, braccia e petto nudi, capelli lunghi e scarmigliati, camicia,
chiripá e faccia imbrattati di sangue. Alle loro spalle si agitava, caracollando e seguendone i
movimenti, un corteo di monelli, di nere e mulatte raccoglitrici di frattaglie la cui bruttezza era
simile a quella delle arpie della mitologia, e frammischiati a loro vi erano dei mastini enormi che
annusavano, ringhiavano o si azzannavano per la preda. Quaranta e più carretti coperti da tendoni di
cuoio nero e spellato erano disseminate irregolarmente lungo tutta la spianata, e alcuni cavalieri col
poncho alla mano e il lazo legato al la pertica si aggiravano tra loro al passo, o allungati sul collo
dei propri cavalli lanciavano occhiate indolenti su uno di quei gruppi animati, mente più in alto,
nell'aria, un nugolo di gabbiani biancoazzurri, ritornati dall'emigrazione sentendo il profumo della
carne, volavano in circolo coprendo col loro stridere dissonante tutti i rumori e le voci del macello e
proiettando un'ombra chiara su quell’orribile carneficina. Questo si poteva osservare all'inizio della
mattanza.

Ma con il procedere delle operazioni la scena mutava: i gruppi si disgregavano, tornavano a


formarsi assumendo atteggiamenti diversi e di nuovo si disperdevano correndo come in mezzo a
loro cadesse qualche proiettile vagante o spuntasse il muso di qualche mastino inferocito. Mentre il
macellaio in un gruppo squartava a colpi d'ascia, in un altro appendeva i quarti ai ganci del suo
carro, in questo spellava, in quello estraeva il grasso, tra la marmaglia che adocchiava e afferrava
l’agognata frattaglia sbucava di tanto in tanto una mano sudicia ad assestare un fendente col coltello
al grasso o ai quarti della bestia, fatto che provocava grida ed esplosioni di collera del macellaio, un
continuo pandemonio fra gli assembramenti, parolacce e schiamazzi da parte dei ragazzi.

-Quella negra sta nascondendo il grasso fra le tette - uno gridò.

-E lui l’ha nascosto nei pantaloni – rispondeva la negra.

-Perdiana, vecchia strega di una negra, fila via di qui prima che ti dia una coltellata - esclamava il
macellaio.

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-Ma che male faccio, ‘gnor Juan? Non sia cattivo! Voglio soltanto la trippa e le frattaglie.

-Sono per quella strega là: alla m...

- Dagli alla strega! Dagli alla strega! - ripeterono i ragazzi – Si è presa i rognoni e l’esofago! – e a
quel punto caddero sulla sua testa pezzi di sangue raggrumato e tremende pallottole di fango.

Altrove, nel frattempo, due africane si portavano via trascinandole le interiora di un animale; là una
mulatta i allontanava con un gomitolo di trippe e scivolando improvvisamente su una pozza di
sangue, cadeva lunga distesa, coprendo col suo corpo l’agognata preda. Da un’altra parte ancora si
vedevano accoccolate in file quattrocento negre che srotolavano sulle loro gonne il gomitolo di
trippe strappando via uno ad uno i pezzetti di grasso che il coltello avido del macellaio aveva
lasciato, mentre altre vuotavano stomaci e vesciche riempiendoli con l’aria dei loro polmoni per poi
riporvi, una volta asciutti, le frattaglie.

Molti ragazzi, che si aggiravano da quelle parti a piedi e a cavallo, si prendevano a colpi di
vesciche o si tiravano pallottole di carne, allontanando con esse la gazzarra che faceva il nugolo di
gabbiani che dondolandosi nell'aria festeggiava strillando la macellazione. Spesso si udivano,
nonostante il veto del Restauratore e la santità del giorno, parole sconce e oscenità, espressioni
cariche di tutto il cinismo bestiale che contraddistinguono la marmaglia dei nostri macelli, e con le
quali non intendo deliziare i lettori.

Improvvisamente cadeva un polmone insanguinato sulla testa di qualcuno, che lo ritirava a


qualcun’altro, finché un mastino deforme se ne impadroniva e allora una banda di altri cani, a forza
di tira e molla, accendeva una tremenda zuffa a base di ringhi e morsicate. Una vecchia inseguiva
furiosa un ragazzo che le aveva sporcato la faccia col sangue, e alle sue grida e imprecazioni
accorrevano i compari del giovinastro che la circondavano e la istigavano come i cani con il toro e
su di lei piovevano pezzi di carne, pallottole di sterco, accompagnate da crasse sghignazzate e grida
frequenti, finché il giudice ordinava di ristabilire l'ordine e sgombrare il campo.

Da un lato, due ragazzi si esercitavano nell’uso del coltello tirandosi orribili fendenti e rovesci;
dall’altro, altri quattro, già adolescenti, si contendevano a coltellate il diritto a una trippa grassa e a
un esofago che avevano rubato a un macellaio; e non distante da loro, un gruppo di cani, già
smagriti dalla forzata astinenza, usavano gli stessi mezzi per decidere chi si sarebbe portato via un
fegato coperto di fango. Simulacro in scala ridotta era questo del modo barbaro con cui nel nostro
paese si dirimono le contese e i diritti individuali e sociali. Insomma, la scena che si rappresentava
nel mattatoio bisognava vederla, non poteva essere raccontata attraverso la scrittura.

Nei recinti era rimasto un solo animale, dalla testa corta e larga e lo sguardo feroce, sulla cui natura
degli organi genitali i pareri non erano unanimi, perché aveva aspetto sia di toro che di giovenca.
Arrivò anche la sua ora. Due enlazadores a cavallo entrarono nel recinto attorno al quale ribolliva la
marmaglia a piedi, a cavallo e seduta a cavalcioni sui pali nodosi. Pialadores e enlazadores a piedi
col braccio nudo e armati dell'infallibile laccio, la testa coperta con un fazzoletto scarlatto e indosso
gilet e chiripá rossi, formavano presso la porta il gruppo più grottesco e vario, mentre alle loro
spalle stavano numerosi cavalieri e spettatori dallo sguardo attento e smanioso.

L'animale, preso già al laccio con le aste, bramiva schiumando furioso e non si riusciva a farlo
uscire dal fango appiccicoso dove stava come inchiodato, così che era impossibile legargli le
zampe. La gente gli gridava contro, invano i ragazzi seduti sulle palizzate del recinto lo aizzavano

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con coperte e fazzoletti, e bisognava sentirla la baraonda di fischi, manate e voci rauche o acute che
si levava da quella singolare orchestra.

Le espressioni volgari, le esclamazioni spiritose e oscene passavano di bocca in bocca e ciascuno


faceva spontaneamente sfoggio del suo ingegno e del suo acume, eccitato dallo spettacolo o
stuzzicato dal pungolo di qualche lingua salace.

- Figlio di p... dagli al toro.

- Al diavolo i castrati del Azul.

- Dannato il mandriano che ci ha venduto gatto per lepre.

- Ma è una giovenca.

- Non vedi che è un toro fatto e finito?

- Che sia un toro ne dubito proprio. Fammi vedere dove ha i c... se ci riesci, c...o!

- Ce li ha lì tra le gambe. Non li vedi, amico, più grossi della testa del tuo cavallo; o sei diventato
cieco lungo la strada?

- Cieca sarà tua madre, che ha partorito un figlio simile. Ma non vedi che tutta quella massa è
fango?

- Ostinato e selvaggio come un unitario - e sentendo questa magica parola tutti ad una voce
esclamarono:

- Morte ai selvaggi unitari!

- Al guercio spettano i ...

- Sì, al guercio, che è un uomo c... per lottare con gli unitari.

- La pancetta a Matasiete, lo sgozzatore di unitari. Viva Matasiete!

- A Matasiete la pancetta!

- Ecco che scappa - gridò una voce roca interrompendo quelle manifestazioni di crudele
vigliaccheria - Il toro scappa!

- All'erta! Avvisate gli uomini della porta! Sta andando laggiù infuriato come un demonio!

E in effetti l'animale, aizzato dalle grida e soprattutto da due pungoli acuminati che gli straziavano
la coda, sentendo che il laccio era lasco, si scagliò sbuffando contro la porta, gettando da tutti e due
i lati uno sguardo rossastro e fosforescente. L’enlazador, in sella al suo cavallo, cercò di catturarlo:
scagliò il laccio dall'asta, che risuonò nell'aria con un sibilo aspro e, contemporaneamente, si vide
rotolare dall’alto di una delle palizzate del recinto, come se un colpo d’ascia l'avesse spiccata di
netto, la testa di un bambino, il cui tronco rimase immobile sul suo cavallo di legno, schizzando da
ogni arteria un lungo fiotto di sangue.

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- Si è rotto il laccio - gridarono alcuni - il toro scappa! Ma altri consapevoli e attoniti rimasero
senza parole perché tutto accadde in un lampo.
Il gruppo che stava alla porta si sparpagliò un poco. Una parte si gettò sulla testa e sul cadavere
palpitante del ragazzo decapitato dal laccio, manifestando orrore sui volti attoniti, mentre l'altra
parte, composta da uomini a cavallo che non ebbero modo di vedere la tragedia, si disperse in
diverse direzioni all’inseguimento del toro, urlando e gridando: - Ecco là il toro! Acciuffatelo!
Attenti! - Tira il laccio, Sietepelos! - Attento che ti prende, Botija! – E’ infuriato; non mettetevi
davanti! - Fermalo, Fermalo, Morado! – Dagli di sprone al ronzino! - Si è già infilato lungo una
strada solitaria! – Sì, che lo prenda il diavolo!

La folla e il vociare erano infernali. Alcune raccoglitrici nere di frattaglie che stavano sedute in fila
lungo il fossato, sentendo il tumulto si rifugiarono e acquattarono fra gli stomaci e le budella che
stavano districando e dipanando con la pazienza di Penelope, cosa che senza dubbio fu la loro
salvezza, perché l'animale vedendole lanciò uno sbuffo terrificante, fece uno scarto e proseguì la sua
corsa inseguito dagli uomini a cavallo. Si racconta che una di loro se la fece addosso, che un'altra
recitò dieci “salveregina” in due minuti, e due promisero a San Benito di non ritornare mai più
presso quei maledetti recinti e di rinunciare al mestiere di raccoglitrici di frattaglie. Non è dato di
sapere se mantennero la promessa.

Nel frattempo il toro si era diretto verso la città imboccando una strada lunga e stretta che inizia
dall’angolo più acuto del rettangolo sopra descritto, una strada che corre tra un fosso ed un filare di
fichi d’india e che chiamano solitaria perché non ci sono che un paio di case ai lati, e nel cui centro
paludoso ristagnava un profondo pantano che arrivava fino ai margini. In quel momento, un signore
inglese di ritorno dal suo salatoio, stava guadando passo a passo tale pantano in sella a un cavallo
un po’ ombroso, e senza dubbio se ne andava così assorto nei suoi calcoli che non udì la frotta di
cavalieri né il vociare se non quando il toro si stava scagliando nel pantano. Improvvisamente il suo
cavallo si spaventò dando un salto di lato e iniziò a correre lasciando il pover’uomo affondato nel
fango fino a mezza gamba. Questo incidente, tuttavia, non fermò né frenò la corsa degli inseguitori
del toro, ma, al contrario, scatenò le loro risate sarcastiche: - Si è irritato il gringo; alzati, gringo -
esclamarono, e attraversando il pantano ricoprirono con il fango sollevato dalle zampe dei loro
cavalli il suo miserabile corpo. Il gringo infine uscì come potè dal pantano raggiungendo la riva, più
con l’aspetto di un demonio bruciato dalle fiamme dell'inferno che di un uomo bianco dai capelli
biondi. Più avanti al grido di “al toro, al toro!” quattro donne nere raccoglitrici di frattaglie che si
ritiravano con la loro preda si gettarono nel fosso pieno d’acqua, l’unico rifugio che rimaneva loro.

L'animale, frattanto, dopo essere stato inseguito per una ventina di isolati in diverse direzioni,
facendo fuggire con la sua presenza ogni essere vivente, imboccò la staccionata di una fattoria dove
incontro la sua fine. Benché stanco, manifestava vivacità e un cipiglio collerico; ma lo circondava
un fosso profondo e una folta macchia di agavi, e non c'era via di fuga. I suoi inseguitori che si
erano dispersi si riunirono e decisero di portarlo scortato da una mandria di buoi affinché pagasse il
fio della sua colpa nel luogo stesso dove aveva commesso il crimine.

Un'ora dopo la sua fuga il toro era un'altra volta nel mattatoio, dove la poca marmaglia che era
rimasta non parlava altro che delle sue malefatte. L'avventura del gringo nel pantano suscitava
soprattutto le risa e il sarcasmo. Dal bambino decapitato dal laccio non rimaneva altro che una
pozza di sangue: il suo cadavere si trovava al cimitero.

L'animale che saltava impennandosi e lanciando rauchi bramiti fu assai prontamente preso al laccio
con le aste. Gli gettarono, uno, due, tre lacci per legargli le zampe ma senza successo: al quarto
rimase preso per una zampa; il suo vigore e la sua furia raddoppiarono; la sua lingua, allungandosi
in modo convulso buttava schiuma, il suo naso fumo, i suoi occhi sguardi di fuoco. - Sgarrettate

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quell'animale! - esclamò una voce imperiosa. Matasiete si lanciò tempestivamente del cavallo, gli
recise il garretto con una coltellata e saltando intorno a lui con il suo enorme pugnale in mano, alla
fine glielo affondò fino al pugno nella gola, mostrandola subito fumante e rossa agli spettatori.
Dalla ferita sgorgò un torrente, emise alcuni bramiti rochi, il superbo animale vacillò e cadde tra le
urla dalla marmaglia che proclamava Matasiete vincitore e gli conferiva in premio la pancetta.
Come in un gesto di orgoglio, Matasiete allungò per la seconda volta il braccio e con il coltello
insanguinato si chinò per scuoiarlo insieme ad altri compagni.

Rimaneva da risolvere il dubbio sugli organi genitali dell’animale morto, classificato


provvisoriamente come toro per la sua indomabile ferocia; ma erano tutti talmente stanchi del lungo
lavoro che per il momento la misero nel dimenticatoio. Improvvisamente però una voce aspra
esclamò: eccole qui, le palle - cavando fuori della pancia dell'animale e mostrando agli astanti due
enormi testicoli, segno inequivocabile della sua dignità di toro. Le risa e i discorsi furono lunghi;
tutti gli sciagurati incidenti si poterono spiegare facilmente. Un toro nel mattatoio era cosa molto
rara, e addirittura proibita. Per rispettare le norme di pubblica sicurezza, la carcassa dell’animale
avrebbe dovuto essere gettare in pasto ai cani; ma c'era una tale scarsità di carne e così tanti
affamati tra la popolazione che il signor giudice ritenne opportuno chiudere un occhio.

In quattro e quattr’otto il maledetto toro fu scuoiato, squartato e appeso nel carretto. Matasiete mise
la pancetta sotto la pelle che copre la sella e i finimenti e si preparò a partire. Alle dodici la
mattanza era finita e la poca marmaglia che era rimasta fino alla fine si disperdeva in gruppi a piedi
e a cavallo, o tirando per il sottopancia alcuni carretti carichi di carne.

Ma improvvisamente la roca voce di un macellaio gridò: - Ecco là che arriva un unitario! - e


all’udire una parola così carica di significato tutta quella marmaglia si arrestò come colpita da
un'impressione improvvisa.

- Non vedete che ha le fedine a forma di U? Non porta il distintivo sulla marsina né lutto sul
cappello.

- Cane unitario.

- È un bellimbusto.

- Monta in sella come i gringos.

- Con lui ci vuole la Mazorca.

- La forbice!

- Bisogna dagli una bella lezione.

- Ha delle valigette per dipingere.

- Tutti questi bellimbusti unitari sono pittori come mio nonno.

- Perché non gli dai una ripassata tu, Matasiete?

- E perché no?

- Dai, sì.

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Matasiete era uomo di poche parole e di molti fatti. Trattandosi di violenza, di agilità, di destrezza
con l'ascia, il coltello o il cavallo, non parlava e agiva. L'avevano punto sul vivo: diede di sprone al
suo cavallo e si lanciò a briglia sciolta verso l'unitario.

Era questi un giovane di circa venticinque anni, di bell’aspetto e prestante, che mentre uscivano
gorgogliando da quelle bocche volgari le succitate esclamazioni stava trottando verso Barracas,
ignaro di dover temere pericolo alcuno. Ciononostante, notando gli sguardi eloquenti di quel branco
di cani di macello, mette meccanicamente la mano destra sulle fondine per pistola della sua sella
inglese, quando un colpo di lato ricevuto dal cavallo di Matasiete lo disarciona scagliandolo supino
a distanza lasciandolo immobile.

- Evviva Matasiete! esclamò tutta quella marmaglia gettandosi sulla vittima come i rapaci avvoltoi
sulla carcassa di un bue sbranato dal puma.

Lanciando un sguardo di fuoco su quegli uomini crudeli, il giovane, ancora stordito, fece per
raggiungere verso il suo cavallo che rimaneva immobile non molto distante per cercare nelle sue
pistole la vendetta e la riparazione del torto subito. Con un balzo Matasiete gli sbarrò la strada e con
il suo robusto braccio lo afferrò per la cravatta gettandolo a terra , estraendo al contempo il pugnale
della cintura puntandoglielo alla gola.

Una terribile risata e un nuovo evviva stentoreo lo acclamarono di nuovo.

Che nobiltà d’animo! Che coraggio mostravano i federali! Sempre numerosi quando si trattava di
gettarsi come avvoltoi sulla vittima inerte.

- Tagliagli la gola, Matasiete: voleva tirare fuori le pistole. Sgozzalo come hai fatto con il toro.

- Maledetto unitario. Bisogna conciarlo per le feste.

- Ha un collo buono per il violino.

- Suonagli il violino

- Meglio la Resbalosa.1

- Proviamo, disse Matasiete e sorridendo incominciò a passare il filo del suo pugnale sulla gola
dell’uomo caduto a terra, mentre col ginocchio sinistro gli schiacciava il petto e con la mano sinistra
lo teneva per i capelli.

- No, non sgozzatelo, esclamò da lontano la voce autorevole del giudice del mattatoio che si stava
avvicinando a cavallo.

- Al casotto, portiamolo al casotto. Che si preparino la mashorca e le forbici. A morte i selvaggi


unitari! Evviva il Restauratore delle leggi!

- Evviva Matasiete!

1
Detta anche”La Refalosa”; è una canzone ballabile dei federali che descrive le torture che
l’unitario subisce quando viene catturato. Famosa è la versione che ne dà Hilario Ascasubi.

9
A morte! Evviva! ripeterono in coro gli spettatori, e legandogli tra loro i gomiti, tra pugni sul naso e
strattoni, tra urla ed ingiurie, trascinarono l'infelice giovane al tavolo del supplizio come i carnefici
fecero con Cristo.

La sala del casotto aveva al suo centro un grande e robusto tavolo che non si usava per i brindisi o
per giocare a carte, bensì per eseguire le punizioni e le torture degli aguzzini federali del mattatoio.
Si notava inoltre, in un angolo, un altro piccolo tavolo con materiale per scrivere, un quaderno di
appunti e una certa quantità di sedie tra le quali risaltava una poltrona con braccioli destinata al
giudice. Un uomo, all’apparenza un militare, stava seduto su una di queste sedie cantando al suono
della chitarra la resbalosa, un motivo assai popolare tra i federali, quando la marmaglia entrò
disordinata nel corridoio del casotto scaraventando a spintoni il giovane unitario verso il centro
della sala.

- A te tocca la Resbalosa - gridò uno.

- Raccomanda la tua anima al diavolo.

- È furioso come toro selvatico.

- Lo addomesticherà il bastone.

- Bisogna suonargliele.

- Adesso verga e forbice.

- Oppure, la candela.

- Meglio la mazorca.

- Silenzio e sedetevi - esclamò il giudice lasciandosi cadere sulla sua poltrona. Tutti ubbidirono,
mentre il giovane, in piedi, di fronte al giudice esclamò con voce piena d’indignazione:

- Boia infami, che cosa intendete farmi?

- Calma! - disse sorridendo il giudice -, non c’è da arrabbiarsi. Adesso lo vedrai.

Il giovane, in effetti, era fuori di sé dalla collera. Il suo corpo sembrava scosso dalle convulsioni. Il
suo viso sbiancato e livido, la sua voce, il suo labbro tremante, rivelavano il movimento convulso
del suo cuore, l'agitazione dei suoi nervi. I suoi occhi di fuoco sembravano uscire dalle orbite, i
capelli nero e lisci si levavano ritti. Il suo collo nudo e la pettorina della sua camicia lasciavano
intravedere il battito violento delle sue arterie e la respirazione affannata dei suoi polmoni.

- Tremi? - gli disse il giudice.

- Di rabbia, perché non posso soffocarti con le mie braccia.

- Avresti la forza e il coraggio per fare ciò?

- Ho coraggio e volontà da vendere per te, infame.

- Vediamo un po’ le mie forbici per tosare il cavallo: tosatelo alla moda dei confederati.

10
Due uomini l'afferrarono, una per le ascelle, l’altro per la testa, e nel giro di un minuto gli rasarono
le basette che formavano la sua barba, tra le risa sguaiate degli spettatori.

- Vediamo un po’ - disse il giudice -, dategli un bicchiere di acqua perché si rinfreschi.

- Te ne farei bere uno di fiele, infame.

Un nero tracagnotto gli si piazzò immediatamente davanti con un bicchiere d’acqua in mano. Il
giovane gli sparò un calcio nel braccio ed il bicchiere andò a frantumarsi sul soffitto, spruzzando il
volto attonito degli spettatori.

- Questo è incorreggibile.

- Lo domeremo noi.

- Silenzio - disse il giudice -, già ti hanno sbarbato alla moda dei confederati, mancano solo i baffi.
Badate bene a non dimenticarvi di ciò. Adesso facciamo un po’ i conti.

- Perché non porti il distintivo?

- Perché non voglio.

- Non sai che è un ordine del Restauratore?

- Il distintivo è per voi schiavi, non per gli uomini liberi.

- A quelli liberi lo si fa portare con la forza.

- Sì, la forza e la violenza bestiale. Queste sono le vostre armi, infami. Il lupo, il puma, la pantera,
anche loro sono forti come voi. Dovreste camminare come loro a quattro zampe.

- Non temi che il puma ti faccia a pezzi?

- Meglio così che finire ammanettato e che mi si strappino una a una le viscere come fa il corvo.

- Perché non porti il lutto sul cappello per l'eroina?2

- Perché lo porto nel cuore per la Patria, per la Patria che voi avete assassinato, infami!

- Non sai che così ha ordinato il Restauratore?

- Lo avete ordinato voi, schiavi, per lusingare l'orgoglio del vostro signore e tributargli il vostro
infame vassallaggio.

- Insolente! Ti sei scaldato parecchio. Se fiati ti farò tagliare la lingua.

- Tirategli giù i pantaloni a quel bellimbusto mentecatto e quando sarà a natiche nude e ben legato
sul tavolo, dategli con la verga.

2
Il riferimento è alla moglie di Rosas, morta nel 1838, personaggio che ebbe un ruolo attivo nella gestione del regime.

11
Appena il giudice disse ciò quattro aguzzini sporchi di sangue sollevarono di peso il giovane e lo
stesero sul tavolo bloccandogli tutti gli arti.

- Dovrete sgozzarmi prima di denudarmi, canaglie infami.

Gli legarono un fazzoletto alla bocca e incominciarono a tentare di levargli i vestiti. Il giovane si
divincolava, scalciava, digrignava i denti. Le sue membra assumevano ora la flessibilità del giunco,
ora la durezza del ferro e la sua spina dorsale era l'asse di un movimento simile a quello del
serpente. Gocce di sudore grandi come perle gli scorrevano sul viso; le sue pupille lanciavano
fiamme, la sua bocca schiumava e le vene del collo e della fronte risaltavano scure sulla sua pelle
bianca, come se traboccassero di sangue.

- Prima legatelo - esclamò il giudice.

- Sta ruggendo di rabbia - bofonchiò uno degli aguzzini.

In un momento lo misero prono e gli legarono le gambe a ciascuna zampa del tavolo. Siccome era
necessario fare la stessa operazione con le mani, gli sciolsero le legature che le tenevano ben ferme
dietro la schiena. Sentendole libere, il giovane, con un movimento brusco con cui sembrò esaurire
tutta la sua forza e vitalità, si sollevò prima sulle braccia, poi sulle sue ginocchia, poi crollò
improvvisamente mormorando: - Dovrete sgozzarmi prima di denudarmi, canaglie infami.

Le sue forze si erano esaurite; rimase quindi legato in croce e quelli incominciarono a spogliarlo.
Fu allora che un torrente di sangue incominciò a zampillare gorgogliante della bocca e dal naso del
giovane, ed estendendosi incominciò a cadere a fiotti lungo i due lati dal tavolo. Gli aguzzini
rimasero immobili e gli spettatori stupefatti.

- Il selvaggio unitario è schiattato di rabbia - disse uno.

- Aveva un fiume di sangue nelle vene - farfugliò un altro.

- Povero diavolo: volevamo soltanto divertirci con lui e lui ha preso la cosa troppo sul serio -
esclamò il giudice aggrottando il cipiglio da tigre. Bisogna riferire dell’accaduto, slegatelo e
andiamocene.

Verificarono che tutto fosse in ordine, chiusero chiave alla porta e subito dopo la marmaglia si
allontanò dietro il cavallo del giudice, che se ne andava a capo chino e taciturno.

I federali avevano portato a termine un’altra delle loro innumerevoli imprese.

In quel periodo i macellai sgozzatori del mattatoio erano gli apostoli che diffondevano a suon di
verga e pugnale la federazione di Rosas, e non è difficile immaginarsi che razza di federazione
sarebbe venuta fuori dalle loro teste e dai loro coltellacci. Essi chiamavano selvaggio unitario,
secondo il gergo inventato dal Restauratore, capo della confraternita, chiunque non fosse un
tagliagole, un macellaio, un selvaggio o un ladro; ogni uomo per bene e di cuore ben sistemato, ogni
patriota istruito amico della ragione e della libertà; e dalla vicenda che è stata raccontata si può
vedere chiaramente come l’anima della federazione risiedesse nel mattatoio.

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