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Home Enciclopedia Organizzazione Militare in Federiciana

CO ND IV ID I

ORGANIZZAZIONE MILITARE
Federiciana (2005)

di Giovanni Amatuccio

Organizzazione militare

Nel Regno di Sicilia Federico II ereditò in parte l'organizzazione militare già


delineata dai re normanni, apportandovi cambiamenti e modifiche relativi
soprattutto alla vocazione imperiale del suo governo, proiettata su scenari
geopolitici che andavano al di là dei confini del Regno, dalla guerra contro i comuni
ribelli, alla crociata, alle campagne contro i tartari.

Tali disegni furono sorretti da un'organizzazione di tipo imperiale che si fondava su


un esercito costituito da diverse componenti etniche, a loro volta caratterizzate da
specifiche qualità tecnico-militari. Queste erano unite dal vincolo di fedeltà
all'imperatore: fedeltà più di tipo personale che istituzionale, assicurata attraverso CATEGORIE
una politica economica d'imposizione fiscale e di retribuzione monetaria. Le
principali componenti furono i cavalieri del Regnum Siciliae, i tedeschi, i saraceni di MILITARIA in Storia

Lucera e le truppe dei comuni ghibellini. Esse si raggruppavano intorno alla figura STORIA MEDIEVALE in Storia

dell'imperatore secondo uno schema che potremmo definire ‒ usando una felice
espressione di John France (1999), riferita in generale agli eserciti medievali ‒ 'a
cipolla'. Secondo tale schema, attorno a un nucleo centrale, si raccoglievano per TAG
successive stratificazioni ‒ in base alle esigenze e alle disponibilità del momento ‒
bartolomeo capasso
vari gruppi d'armati di diversa provenienza etnica e sociale. Il nocciolo di tale
struttura era rappresentato dalla figura dello stesso Federico, il quale ‒ nella sua catalogus baronum
molteplice veste di imperatore, signore di Svevia, re di Germania e re di Sicilia ‒ era
dumbarton oaks
capace di esercitare sia il diritto di mobilitazione sui suoi sudditi delle tre realtà
politiche sia la facoltà di comando supremo nelle operazioni di guerra. sacro romano impero

Il primo strato di tale struttura era costituito dai familiares regis: al tempo stesso terra di lavoro

una sorta di guardia personale, presente in particolare nelle campagne dove


eta moderna
l'imperatore era impegnato in prima persona, e uno 'stato maggiore' formato dagli
esponenti più capaci e fidati della nobiltà filosveva. L'istituto, d'altra parte, già cortenova
esisteva nel Regno normanno di Sicilia, così come presso i normanni d'Inghilterra
(household). Subito dopo il nucleo centrale della familia regis, il primo posto era
occupato certamente dai cavalieri tedeschi, che costituivano il nerbo degli eserciti
imperiali, soprattutto per quanto concerne la combattività, il grado
d'addestramento e l'armamento. La maggioranza di loro non proveniva dalle fila
della grande nobiltà germanica. Si trattava in maggior parte di appartenenti alla
classe dei Mitterleute (ceto medio), o dei ritterlich lebende, i cosiddetti more milites
viventes: ministeriali mancati, ministeriali di conti o di feudatari ecclesiastici, milites
senza feudi, alloderi, ecc. provenienti dalle regioni della Svevia e dell'Alsazia, diretti
possedimenti della casa degli Hohenstaufen, quindi sudditi naturali dello Svevo, non
in quanto imperatore, ma in quanto possessor di quei territori.

Nella Germania del XIII sec. il numero dei cavalieri di condizione libera era
estremamente ridotto e si limitava ai grandi vassalli, mentre la stragrande
maggioranza dei cavalieri era di condizione servile, anche se di una servitù di
carattere particolare, che diede origine alla singolare figura dei ministeriales (v.
Feudalità ecclesiastiche e laiche, Regno di Germania). Molti di essi giunsero,
proprio sotto gli Hohenstaufen, a ricoprire cariche importanti dal punto di vista
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militare e civile, e basti qui ricordare il Gran Maestro dell'Ordine teutonico
Ermanno di Salza, ministeriale della Turingia, che tanto peso ebbe nelle vicende
belliche e diplomatiche di Federico.

Altro gruppo importante negli eserciti federiciani era sicuramente quello costituito
dai saraceni siciliani. Il loro impiego militare non comincia e non finisce con Federico
II: già i normanni li avevano largamente usati nei propri eserciti, così come faranno
in seguito gli Angioini. La novità di Federico fu di certo quella della fondazione di
Lucera quale riserva etnica dalla quale trarre, in cambio della libertà di culto e di
altre concessioni, l'apporto di una forza combattente che ricoprì un ruolo importante
nelle sue guerre. La loro presenza nell'esercito di Federico fu massiccia in tutte le
sue campagne, così come nei presidi dei castelli sia nel Regno che fuori, oltre a
costituire una sorta di sua guardia personale. Sul numero dei saraceni mobilitati
nelle campagne imperiali, le fonti riferiscono cifre considerevoli (fino a sette-
diecimila unità), tanto da suscitare dubbi circa l'effettiva possibilità che una sola
città, Lucera, per quanto popolosa, potesse fornire un così alto numero di
combattenti. In realtà, la risposta a tali dubbi può essere ricercata nel fatto che i
saraceni impiegati da Federico non provenissero in maniera esclusiva da Lucera,
bensì fossero reclutati anche tra quelli rimasti in Sicilia (v. Saraceni di Sicilia) dopo
la deportazione e altri assoldati direttamente in Africa. Il loro impiego tattico
consisteva principalmente nel supporto di 'tiratori' alla cavalleria pesante imperiale:
in quanto tali, dunque, principalmente fanti. Nelle testimonianze, tuttavia, appaiono
di tanto in tanto anche riferimenti ad arcieri montati, da non considerare tuttavia
quali arcieri a cavallo di tipo turco. Dalle fonti appare evidente, infatti, che essi
usavano il cavallo solo quale mezzo di trasporto, per giovarsi di una maggiore
mobilità e portarsi più velocemente sul posto di combattimento, dove, smontati,
combattevano a piedi. Essi erano armati alla leggera, solo del loro arco e della
faretra, forse di un pugnale o di una corta spada, armatura scarsa o del tutto
assente, qualche protezione per il capo e lo scudo rotondo di foggia orientale, che
erano in grado di maneggiare contemporaneamente all'arco. E l'arco era la loro
arma d'elezione, sia perché con esso erano addestrati a combattere, sia perché si
trattava di un tipo veramente efficace: di tipologia composita, assemblato con
tecniche speciali, la cui fabbricazione era patrimonio delle civiltà orientali e quindi
anche dei musulmani d'Ifriqiyya, antenati dei nostri saraceni. La sua efficacia
superava di gran lunga quella del comune arco di legno generalmente usato in
Occidente, e poteva egregiamente competere con la balestra in quanto a forza,
gittata e precisione, e senz'altro la superava in fatto di rapidità di tiro. Infatti, era
proprio dalle fila dei saraceni lucerini che Federico traeva una manodopera
specializzata nella costruzione di armi, macchine d'assedio e, in particolare, archi e
balestre.

Proseguendo nell'esame della stratificazione dell'esercito, si ritrova il contributo


senz'altro importante fornito dalle truppe dei comuni a lui fedeli, nel corso delle
campagne condotte nel Nord Italia: in particolare, Pavia e Cremona. Tali truppe
erano costituite prevalentemente da fanti, ma non mancava il contributo di
cavalieri; esse costituivano la massa di manovra degli eserciti imperiali e venivano
impiegate, secondo le occasioni, sia da sole che integrate con le altre componenti.
Oltre che dai comuni fedeli, un contributo notevole proveniva dalle fila dei fuorusciti
ghibellini, esiliati dalle proprie città in mano al partito avversario: i cosiddetti
militesforestati. Le fonti registrano molti casi di questi cavalieri accolti
dall'imperatore e ricompensati della propria fedeltà con feudi e denaro. I contingenti
delle città erano ai diretti ordini dell'imperatore o dei suoi vicari; egli disponeva in
pieno del loro uso tattico e determinava i tempi e i modi del loro impiego sul campo.
In particolari occasioni, soprattutto nella fase più aspra della guerra lombarda, a
fianco di tedeschi, saraceni, italiani, tra le fila imperiali si registrò una partecipazione
'internazionale', e infatti le fonti c'informano circa la presenza di contingenti inglesi,
spagnoli, provenzali, greci nelle campagne contro Milano e le altre città guelfe. Tale
partecipazione fu voluta e ricercata dall'imperatore nel tentativo tutto politico di
coinvolgere re e popoli in nome dell'idea universalistica di una guerra combattuta
dal Sacro Romano Impero contro i ribelli dei comuni. Anche se tale politica non
produsse risultati cospicui in termini di partecipazione, pure fu ricercata dato il suo
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alto valore simbolico. Tuttavia, si può ritenere che all'aspetto politico-
propagandistico si accompagnassero più prosaiche esigenze di carattere
squisitamente tecnico-militare, che si manifestavano nella richiesta di truppe
'specializzate', in particolare 'tiratori', da integrare con i fanti saraceni.

Il quadro cosmopolita finora tracciato non deve tuttavia distogliere l'attenzione da


quello che fu sicuramente il contributo maggiore alla 'cipolla' imperiale, vale a dire
quello degli uomini del RegnumSiciliae. Esso si sviluppava a diversi livelli sia nella
difesa del territorio (castelli, difesa delle coste) sia nella conduzione delle campagne
offensive fuori del Regno (esercito di campagna, flotta), e veniva devoluto in uomini
(milites, servientes, marinai), in denaro (collette, adohamentum) e in mezzi (armi,
cavalli, navi, equipaggiamenti, viveri). Il primo cardine sul quale si fondava il
reclutamento delle truppe del Regno era la leva feudale. Numerosi esempi
dimostrano non solo che l'istituto del servitium militum era pienamente operante in
epoca federiciana, ma anche che esso veniva svolto di persona dai feudatari. Come
in epoca normanna, i detentori di feudi erano tenuti a prestare il servizio militare
per una durata che andava, secondo i casi, da quaranta giorni a tre mesi. L'unità di
misura per il rapporto tra servizio e feudo era costituita dal feudum integrum o
feudum unius militis, che prevedeva, cioè, la prestazione del servizio di un miles e
in alcuni casi anche di un balestriere per ogni 'feudo integro'. I feudi non integri
avevano valori diversi e si rapportavano all'unità di misura del feudum unius militis
in ragione di quantità espresse con i termini di "medium pheudum", "tres partes
militis", "quartum pheudum", "unius et dimidii", ecc. Il valore del feudo integro
oscillava tra le 15 e le 20 once di rendita annuali. L'imperatore pretendeva dai suoi
vassalli la prestazione del servizio e non tollerava imboscamenti e diserzioni. La
confisca dei beni era la minaccia più comune rivolta a tutti coloro che non
ottemperavano alla prestazione del servitium, che doveva essere anche adeguato
alle rendite di ognuno, senza che i feudi fossero diminuiti di valore attraverso
alienazioni e divisioni. Infatti, le Assise di Capua prima e le Constitutiones poi
sancivano il divieto di alienazione dei feudi, precisando che eventuali diminuzioni
della loro consistenza non avrebbero intaccato l'ammontare del servizio dovuto.
Appositi ispettori vigilavano sull'applicazione del servizio e, annualmente, dovevano
relazionare sotto giuramento ai giustizieri sullo stato della rendita dei feudi, se fosse
cioè diminuito o aumentato il valore dello stesso.

Il servitium debitum dei feudatari, in realtà, solo in casi piuttosto eccezionali si


svolgeva attraverso la partecipazione alle spedizioni fuori confine, più spesso si
concretizzava con l'apporto di milites e servientes per la difesa dei castelli demaniali
del Regno, soprattutto quelli di confine e di costa. Tale sistema difensivo su base
territoriale era stato articolato da Federico partendo dalla nuova impostazione già
conferitagli da Tancredi di Lecce. I feudatari dovevano garantire ‒ pena la confisca
dei propri beni ‒ la custodia, la manutenzione, il rifornimento e l'armamento dei
castelli demaniali. Il meccanismo era lo stesso del servitium militum: infatti si
prevedeva l'associazione dei feudi di rendita inferiore alle 20 once per assicurare il
servizio di un'unità (miles o serviens); esso poteva essere svolto di persona o
assicurando le spese di mantenimento di un serviente per ogni 20 once di rendita
feudale posseduta, equipaggiamento e vitto sufficienti per un anno. Nel 1239 furono
istituiti i provisores castrorum, le cui prime testimonianze risalgono al 1231,
dividendo il territorio del Regno in cinque grosse circoscrizioni (Abruzzo, Terra di
Lavoro e Principato, Puglia e Basilicata, Sicilia citra e Calabria, Sicilia ultra) a capo
d'ognuna delle quali era collocato un provisor. Costui aveva il compito di
provvedere, per la propria circoscrizione, al mantenimento della rete castellare,
raccogliendo i fondi necessari per l'approvvigionamento delle fortezze con tutto il
necessario, comprese le paghe delle guarnigioni. Inoltre, egli svolgeva compiti
ispettivi controllando con una periodicità trimestrale che i castellani ottemperassero
alle norme di difesa. I singoli castelli erano comandati dal castellano, coadiuvato da
scutiferi, mentre le guarnigioni erano composte di milites e servientes. Questi ultimi
non erano reclutati nel distretto castellare, ma dovevano provenire
obbligatoriamente da altre regioni del Regno. Il termine serviens si presta a diverse
interpretazioni e poteva identificare sia cavalieri armati alla leggera sia semplici
fanti. Nelle fonti federiciane, quasi sempre il termine era applicato alle forze
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destinate alla difesa dei castelli, nel qual caso non compare il termine pedites, che
veniva di solito riferito alla fanteria impiegata nelle operazioni campali. Per
procurarsi il proprio equipaggiamento, per quanto leggero ed economico fosse, i
servientes dovevano disporre di qualche forma di rendita, da qui l'ipotesi che
fossero dei piccoli proprietari. Probabilmente i servientes non erano obbligati, come
i milites, al servizio, ma potevano liberamente scegliere, in base all'offerta di
moneta, se partecipare o meno.

Il servizio militare dovuto dai feudatari era dunque obbligatorio, ma a partire da


questo periodo, e sempre più in epoca angioina, si riscontrano tracce di un
meccanismo sostitutivo, l'adohamentum, simile allo scutagium inglese, attraverso il
quale si consentiva al feudatario, in determinate circostanze, di sostituire il
servitium personarum con quello pecuniarum. Le prime testimonianze certe del
termine (riscontrabile anche nelle forme adoha, adduamentum, adoamento, ecc.)
risalgono alla seconda metà del regno di Federico e diventano più frequenti ed
attendibili solo nei documenti angioini. Precedentemente, sotto i re normanni, pare
che tale usanza fosse sconosciuta.

Evelyn Jamison (1971), infatti, ha messo in risalto la dubbia autenticità delle


evidenze del termine in epoca normanna e collocato a dopo il 1220 (Assise di Capua)
le prime testimonianze affidabili. Rispetto all'altra forma di imposizione fiscale a fini
militari, le collectae, va precisato che a quest'ultima contribuivano indistintamente
tutti i possessori di beni patrimoniali, fossero essi feudatari o meno, mentre i milites
infeudati dovevano contribuire sia alla colletta per gli eventuali beni patrimoniali
posseduti sia all'adohamentum per il servitium debitum. Molto si è discusso in
passato, a partire dai feudisti e giuristi di età moderna, sull'origine e il significato del
termine adohamentum. La tesi della derivazione da adunamentum è forse quella
più antica e che ha avuto più sostenitori, e trova le sue prime origini in Andrea
d'Isernia (1571). Attenendosi strettamente alle testimonianze d'epoca sveva si può
certamente affermare che l'imperatore esigesse da coloro che non raggiungevano la
quota prevista per il feudum integrum, di associarsi per raggiungere il valore di un
miles da fornire all'esercito. Tale associazione avveniva o tramite la consociazione di
più feudatari, i quali poi sceglievano tra loro chi dovesse prestare il servizio
personalmente, mentre gli altri si impegnavano a sostenere le spese; oppure con un
semplice pagamento sostitutivo. Al di là dell'aspetto etimologico, si può arguire che
l'adoha fosse un meccanismo adottato proprio in quei casi nei quali la prestazione
personale era tecnicamente impossibile. Tra questi c'era senz'altro il caso dei feudi
non integri, che non raggiungevano cioè la quota di un miles; in tal caso era d'obbligo
dover ricorrere ad un calcolo frazionario, che poteva rendersi fiscalmente solo
attraverso una quantificazione monetaria della quota dovuta; di qui la necessità di
ricorrere ad un accorpamento delle suddette quote per poter fornire il servizio
dovuto. Altri casi particolari erano costituiti dai feudi ecclesiastici, dove l'adoha
assume senz'altro un significato sostitutivo del servizio, così come nel caso di feudi
appartenenti a persone malate, anziani, donne e fanciulli. In conclusione si può
affermare che in epoca sveva, nel Mezzogiorno, si afferma il servizio sostitutivo in
denaro, che al tempo dei normanni era poco o per niente applicato: limitatamente,
però, a determinati casi, in particolare a quelli relativi all'unione delle quote di
feudo. Esso, tuttavia, non rappresentava un diritto del feudatario, del quale questi
potesse liberamente scegliere di usufruire, bensì una concessione che veniva fatta
dal sovrano in alcuni casi precisi e per ragioni tecniche. Del resto, anche la
definizione del valore di tale versamento ‒ che solo con gli Angioini apparirà
chiaramente fissato ad un ammontare pari a circa la metà del valore del feudo ‒ non
trova attestazioni certe nei documenti federiciani. Solo una superficiale estensione
della testimonianza in tal senso di Andrea d'Isernia, riferentesi genericamente "al
tempo degli Svevi e degli Angioini" ha spesso portato gli storici a ritenere valida
anche per la prima metà del Duecento le più tarde indicazioni dei documenti di
epoca angioina, quando l'istituto divenne stabile e consuetudinario fino a diventare
un vero e proprio strumento sostitutivo dell'obbligo del servizio personale.

I fondi derivanti dal pagamento dell'adoha e dalle collette portarono una notevole
disponibilità liquida per pagare, direttamente o indirettamente, gli uomini che

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dovevano sostituire coloro che non potevano prestare il servizio. Il fenomeno creava
una forte domanda di uomini in armi ‒ in particolare di milites, la parte migliore dei
combattenti dell'epoca ‒ alla quale rispondeva una conseguente offerta di braccia.
Tale offerta si concretizzava essenzialmente in due diverse categorie di uomini: da
una parte gli stessi milites infeudati, che prestavano a pagamento la loro opera per
un periodo eccedente il servizio legalmente dovuto, dall'altra i cosiddetti milites
stipendiarii, vale a dire quella massa di milites senza feudi e senza averi che
militava esclusivamente in cambio del denaro. Nel primo caso, va ricordato che i
milites infeudati venivano ricompensati col denaro quando prestavano la loro opera
oltre il servizio legalmente dovuto (quaranta o novanta giorni), cosa che avveniva
normalmente quando l'esercito era impegnato in campagne oltre i confini del Regno.
Nel secondo caso, avendo già visto quale fosse lo status sociale dei cavalieri tedeschi,
basti qui ricordare come essi fossero sicuramente retribuiti per la loro
partecipazione alle imprese d'Italia; ma anche i cavalieri del Regno non provenivano
tutti dalla leva feudale. Fondamentalmente, anche in epoca federiciana, per i milites
rimane valida la distinzione del periodo normanno: stando all'assise De nova militia,
infatti, nel Regno esistevano due categorie di cavalieri, quelli nomine militia e quelli
professione militia. Alla prima appartenevano coloro che prestavano il servitium in
cambio del beneficio ricevuto, alla seconda coloro che erano milites solo per status.
Questi ultimi non esercitavano la militia traendo il sostentamento dal possesso della
terra, ma venivano stipendiati dai signori che servivano. Tra loro erano compresi,
ad esempio, i cadetti delle famiglie baronali more Francorum viventes, esclusi dalla
successione feudale; più in generale essi vengono definiti dai documenti curiali
impotentes o pauperes, incapaci cioè di provvedere da soli al proprio armamento,
non potendo contare sull'apporto della rendita feudale e del contributo dei vassalli. I
milites stipendiarii del Regno, tuttavia, non possono essere etichettati
semplicemente come mercenari. Essi erano, infatti, pur sempre sudditi del re di
Sicilia e come tali prestavano servizio, anche se tale servizio per loro non era
obbligatorio e quindi veniva ricompensato col danaro. Dun-que, tutte le componenti
dell'esercito imperiale erano vincolate da un legame sovrano-sudditi, legame che
era regolato da una parte dalle consuetudini feudali, dall'altra attraverso la
retribuzione più o meno monetaria del servizio: ciò, tuttavia, non implicava
assolutamente un rapporto di mercenariato. In questo caso non v'era la condizione
principale affinché tale tipo di rapporto si realizzasse, vale a dire la libera offerta,
come accadrà più tardi, nel XIV sec., con le compagnie di ventura o condotte,
quando tra queste e i 'datori di lavoro' si stabilirà un vero e proprio rapporto di
libero mercato regolato dalla domanda e dall'offerta. I milites del Regno, infatti, non
potevano scegliere certo di servire un altro signore che non fosse il re di Sicilia e
qualsiasi gesto in tal senso era considerato tradimento. Inoltre, non potevano
rifiutarsi di rispondere alla chiamata alle armi ‒ tranne nei casi particolari per i
quali si pagava l'adoha ‒ e anche quando essi venivano pagati, non potevano
contrattare l'ammontare delle paghe (Thorau, 1999). La paga mensile media di un
cavaliere era di circa 3 once che potevano arrivare fino a 5, secondo
l'equipaggiamento (cavalli corazzati) e il seguito. La paga mensile di un serviente
oscillava tra i 3 e i 6 tarì, in alcuni casi si arrivava ad un quarto d'oncia (10 tarì); a
queste somme si aggiungeva il vitto. Gli stessi saraceni ricevevano compensi
monetari, forse in occasione di spedizioni prolungate. In generale la differenza di
paga tra servientes e milites era di uno a quindici. Le paghe corrisposte ai cavalieri,
siano essi feudatari o semplici stipendiarii, così come quelle dei servientes, fanti e
altri, rispondevano a criteri di 'mercato' che erano uguali per tutta l'Europa del
tempo.

In un'epoca nella quale non esistevano strutture stabili quali caserme o accademie
militari, il luogo deputato alla formazione e all'addestramento del guerriero era
certamente il castello, la corte. Il Regno, infatti, era in grado di fornire un certo
numero di cavalieri armati pesantemente, pagati o soggetti al servitium feudale, ma
tutti provenienti dagli ambienti delle corti e dei castelli della nobiltà del Regno. In
tali strutture essi trovavano il sostentamento che permetteva loro di armarsi
adeguatamente, con criteri rispondenti alle esigenze della guerra del tempo, e
ricevevano l'adeguato addestramento all'uso delle armi sancito dal ricevimento del

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cingulum militiae. L'investitura a cavaliere, infatti, può essere considerata alla
stregua di un 'diploma d'accademia militare' concesso al termine del necessario
apprendistato, che attestava la raggiunta abilità del novizio, e veniva ricompensato
con uno speciale sussidio (auditorium), che ogni feudatario poteva riscuotere dai
suoi vassalli. Il sistema del reclutamento feudale rimaneva quindi ancora in auge,
perché era il solo capace di garantire l'equipaggiamento e la formazione dei
combattenti, no-nostante cominciasse ad essere superfluo dal punto di vista del
mantenimento e del sostentamento dell'uomo in armi, poiché, ormai, lo stato
centralizzato burocratico svevo e la fiorente economia monetaria erano in grado di
provvedere al reclutamento e al mantenimento di truppe attraverso il soldo. D'altra
parte, il contributo dato dalle comunità cittadine del Regno doveva avere il suo peso
anche se purtroppo esso è scarsamente documentato. Di certo gran parte dei
servientes, dei pedites, nonché degli addetti alle macchine e ai lavori ossidionali,
doveva provenire dalla popolazione delle città e del contado: i marinai della flotta
regia, in particolare, erano forniti dalle città di mare. In realtà, le città e il contado
meridionale non erano in grado di addestrare e armare reparti di fanteria autonomi,
salvo la presenza dei vari armigeri e scutiferi, che seguivano i cavalieri in battaglia.
Tutto ciò derivava dal fatto che sul piano militare, così come a livello sociale, politico
e amministrativo, le città meridionali non erano in grado di esprimere una
sostanziale autonomia, imbrigliate dalla pesante tutela dello stato burocratico-
amministrativo del Regno normanno-svevo. Lo sviluppo di strutture autonome, che
nelle città del Nord, causa la mancanza di un potere centrale, aveva portato alla
creazione delle milizie comunali, era mancato nel Sud, prigioniero dei
condizionamenti della struttura feudo-vassallatica da una parte e burocratica
centralizzatrice dall'altra. La situazione era diversa, invece, nelle città costiere, che
‒ forti di antiche tradizioni risalenti alle repubbliche marinare di Amalfi e Gaeta, o
alla marineria greca di Calabria, Puglia e Sicilia ‒ riuscivano a provvedere
egregiamente, oltre che all'allestimento delle navi per la flotta, anche alla
formazione degli equipaggi. In questo caso è evidente come l'esperienza specifica di
tali realtà poteva garantire la continua formazione con relativo ricambio di uomini
preparati alla bisogna. Il fenomeno delle fanterie scelte (milizie comunali italiane,
arcieri inglesi, svizzeri, fiamminghi, ecc.), che a partire proprio dalla metà del
Duecento ‒ e poi ancor di più nel Trecento ‒ caratterizzerà gli scenari bellici
europei, non trova riscontro nell'esperienza del Mezzogiorno italiano, con la sola
eccezione dei saraceni lucerini. Come si è visto tali truppe erano impiegate in larga
misura come arcieri; esse, infatti, avevano in Lucera il proprio luogo di
addestramento a tale tipo di arte bellica. Qui, appoggiandosi alle tradizioni culturali
e religiose del Corano e islamiche in generale, che facevano dell'arco un'arma
d'elezione, i saraceni erano in grado di sfornare uomini addestrati sin dall'infanzia a
tale tipo di combattimento.

Anche nel campo degli armamenti (v. Armi) la struttura feudale era la sola in grado
di fornire una soluzione valida. Nel Medioevo, infatti, l'armamento degli uomini, in
particolare dei milites, era a loro carico, non esistendo una struttura logistica in
grado di produrre e stoccare armi da distribuire ai soldati. I milites disponevano
dell'armamento individuale quale parte del proprio patrimonio, che poi lasciavano in
eredità ai figli. Tale costoso equipaggiamento poteva essere loro assicurato solo
grazie alle rendite garantite dal possesso terriero e dal contributo dei propri vassalli.
Questa era la prassi comune nel Medioevo carolingio e postcarolingio e di
conseguenza anche nel Regnum; ma nello 'stato modello' accentrato e burocratico
creato dallo Svevo non poteva di certo mancare una particolare attenzione verso il
problema della gestione dei mezzi per l'esercizio della forza, tendente anche in
questo campo a centralizzare a livello statale controllo e produzione. Infatti, quella
dell'armamento individuale era una regola che trovava parecchie eccezioni: in molti
casi la Curia regia gestiva direttamente la produzione e la distribuzione delle armi
attraverso le Camere reali (Ariano, Messina, Lucera, Palermo, Canosa e Melfi), le
quali svolgevano una funzione di centri di produzione e custodia delle stesse. Ma il
controllo statale sulle armi andava oltre l'aspetto della produzione e si estendeva a
una capillare sorveglianza sul loro uso da parte dei singoli sudditi, organizzata e
sancita dalle Costituzioni melfitane. Qui, infatti, si trovano molti punti che

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rimandano allo zelo con il quale l'autorità regia imponeva il divieto di porto d'armi a
tutti coloro che non fossero impegnati a servizio della Curia. In tali provvedimenti,
che si accompagnano a quelli che proibiscono i duelli, si coglie la volontà del
legislatore di voler imporre un monopolio sull'uso della violenza in quanto
prerogativa esclusiva del sovrano, da esercitare per fini direttamente politici e
ideologici (contro i ribelli, contro gli eretici e gli infedeli), non permettendo quindi
che i singoli sudditi, fossero essi anche nobili e potenti, usassero la violenza armata
in conflitti interni. In questo periodo, la prima metà del XIII sec., si producono
rilevanti cambiamenti, in special modo nell'armamento difensivo. Purtroppo le fonti
iconografiche sono alquanto lacunose. D'altra parte disponiamo di un esauriente
panorama per quanto riguarda la fine del XII sec., rappresentato dalle illustrazioni
del manoscritto del Liber ad honorem Augusti (Pietro da Eboli, 1994), risalenti ai
tempi di Enrico VI e quindi agli inizi del dominio svevo in Italia meridionale. Qui
l'armamento è ancora sostanzialmente simile a quello dell'XI-XII sec. raffigurato nel
ricamo di Bayeux, però si notano alcuni cambiamenti: oltre all'usbergo che copre il
tronco, la corazzatura di maglia copre anche le gambe e i piedi; il casco sembra più
arrotondato per deflettere meglio i colpi di spada e con nasale più grande; la lancia
presenta degli arresti orizzontali per evitare un'eccessiva penetrazione e, di
conseguenza, una più rapida estrazione dal bersaglio; lo scudo triangolare, infine, è
più piccolo anche se conserva la forma a mandorla di quello comunemente detto
'normanno'. Il dato degli scudi rappresenta, inoltre, un elemento molto interessante
in quanto per la prima volta su di essi appaiono effigiati segni e figure che non si può
esitare a definire araldici. Le testimonianze riprendono a partire dalla metà del XIII
sec., quando ormai l'evoluzione sembra pienamente compiuta verso un armamento
costituito da usbergo rinforzato con alcuni elementi a piastra di metallo o di 'cuoio
bollito', grande elmo integrale con feritoia orizzontale per la vista, sovrasberga con
le insegne araldiche, scudo triangolare piccolo, schinieri, paraginocchia, paragomiti,
alette. Allargando l'orizzonte d'indagine al resto d'Europa, si può notare che è
proprio a partire dalla metà del '200 che in tutta Europa compaiono i primi esempi
di corazze di piastra. In effetti si trattava, in origine, di rinforzi di metallo o di
cosiddetto 'cuoio bollito', che proteggevano i punti più vulnerabili quali ginocchia,
spalle, gomiti. Via via questi rinforzi divennero sempre più grandi ‒ e ciò accadeva
nella prima metà del Trecento ‒ fino a ricoprire intere parti del tronco e degli arti.
Nello stesso periodo si assiste al tramonto del classico casco conico con nasale
sostituito sempre più dall'elmo integrale con feritoia, tronco alla sommità. È da
notare che i primi esempi di tale evoluzione sono riscontrabili in varie testimonianze
figurative in ambito germanico e trovano un importante riscontro nelle cronache di
metà secolo, in particolare quelle che descrivono le battaglie epocali di Benevento e
Tagliacozzo. Stando, infatti, alle cronache di Andrea Ungaro (Descriptio victoriae a
Karolo Provinciae comite reportatae, a cura di G. Waitz, in M.G.H., Scriptores,
XXVI, 1882) e Guglielmo di Nangis (Guillelmi de Nangis et Primati operibus, a cura
di H. Brosien, ibid.) sulla battaglia di Benevento del 1266, le truppe sveve, e in
particolare i tedeschi, indossavano in tale frangente i primi esempi di corazze di
maglia rinforzate con piastre di metallo. Per quanto riguarda l'armamento dei fanti
e delle altre truppe ausiliarie, la voce delle fonti diventa ancora più sommessa. Le
poche notizie rimandano senza dubbio a un armamento leggero e alquanto
improvvisato. Si è visto come i fanti saraceni fossero definiti inermes, vale a dire
sprovvisti di armatura e spesso armati del solo arco; lo stesso vale per gli altri fanti
equipaggiati, nella migliore delle ipotesi, di panciera e cervelliera e armati di lancia e
scudo.

Accanto alle armi offensive e a quelle difensive, un altro aspetto importante


dell'equipaggiamento cavalleresco era costituito senz'altro dal cavallo. Le
cavalcature da guerra erano in generale molto costose ed erano appannaggio
esclusivo del feudatario, che poteva permettersi di allevarle e addestrarle nei propri
possedimenti, nonché di acquistarle alla bisogna. Anche per i cavalli vale quindi il
discorso fatto precedentemente per le armi: vale a dire che solitamente le
cavalcature erano procurate direttamente dal cavaliere, il quale doveva presentarsi
alla chiamata imperiale già montato e dotato di diversi animali; anche in questo
caso, quindi, la corte feudale era l'unica istituzione in grado di poter fornire le risorse

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necessarie al mantenimento degli animali da guerra. Tuttavia, pure in questo
campo, la politica dello Svevo fu senz'altro innovativa, tendente cioè a creare una
produzione 'statale' di cavalli da guerra, per soddisfare adeguatamente le esigenze
dei propri stipendiarii, nonché per far fronte al massiccio uso del 'ristoro', vale a dire
il risarcimento delle cavalcature perdute in battaglia dai milites che servivano
nell'esercito. Fu proprio Federico II ad iniziare in Italia meridionale la pratica
dell'allevamento massiccio dei cavalli: durante il suo regno furono istituite le
cosiddette aratiae, vere e proprie aziende zootecniche per l'allevamento degli
equini, con vaste superfici adibite a pascolo semibrado (v. Ippiatria), che
contenevano al loro interno le stalle (marestalle). Tali aziende erano di diretta
proprietà statale ed erano amministrate dai magistri aratiarum, i quali
sovrintendevano al lavoro dei senescalchi e degli scutiferi addetti alla cura dei
cavalli, ma il controllo generale era affidato alla sorveglianza di ufficiali militari, i
marescalli; e ciò dimostra la loro vocazione alla produzione esclusiva di cavalli da
guerra. Oltre che della produzione e dell'allevamento dei cavalli, l'amministrazione
sveva si occupava molto da vicino anche del loro commercio. I cavalli da guerra
erano considerati un settore strategico della difesa, e come tale il loro commercio
era regolato da ferree norme proibizioniste, che arrivavano a vietarne la vendita e
l'esportazione a mercanti stranieri, soprattutto negli anni che videro l'inasprirsi del
conflitto con il papato e i lombardi. La norma prevedeva che ogni miles avesse con
sé almeno tre cavalli di vario tipo, ma tale numero variava in base al suo rango. La
dotazione di più cavalcature per un singolo cavaliere rispondeva, oltre che al criterio
di avere un ricambio in caso di perdita in battaglia, anche a quello di una
diversificazione legata all'uso. Infatti, il miles era dotato di solito del dextrarium (il
vero cavallo da guerra), del palafridus (cavallo da parata) e del roncinus (cavallo da
trasporto). Oltre al numero e alla qualità dei cavalli, un altro elemento distintivo
dello status sociale del cavaliere era rappresentato dall'armatura del destriero.
Anche in questo caso pare che gli Svevi siano stati precursori nell'uso di bardare i
cavalli da combattimento con protezioni metalliche, uso che comincia proprio nei
primi decenni del XIII secolo. Il costo dell'intero equipaggiamento di un cavaliere
del tempo di Federico si può stimare in un valore complessivo di circa 30 once.
D'altra parte, come si è visto, il miles impegnato nel servizio militare straordinario
percepiva 5 once mensili, quindi con sei mesi di campagna (di solito divisi in due
anni) poteva ammortizzare la spesa del suo equipaggiamento.

Il vertice della piramide del comando militare procedeva dalla figura stessa
dell'imperatore, in quanto, nel senso romano del termine, capo supremo
dell'esercito. Il comandante militare medievale doveva possedere necessariamente
una buona dose di carisma e di capacità di trascinare i propri uomini al
combattimento non disdegnando la prima linea. Che Federico possedesse tali
capacità è fuor di dubbio: parte dell'aura leggendaria della quale egli godette fu
dovuta senz'altro alle sue doti di capo militare, in grado di galvanizzare le sue truppe
e guidarle all'attacco. Dal diretto comando imperiale discendevano poi le figure
intermedie degli alti ufficiali. Tra i gradi più importanti dei comandanti militari vi
erano quelli di marescallus e di comestabulus. Il primo era il grado superiore del
comandante di un'armata, come nel caso di Riccardo Filangieri nella spedizione in
Terrasanta, il secondo un grado inferiore del comandante di compagnia. In
entrambi i casi, però, il termine veniva riferito anche ad alti funzionari dello stato
con compiti sia civili sia militari. In realtà, nel Regno non vi era una netta linea di
demarcazione tra funzioni di comando militari e giuridico-amministrative. I
giustizieri, ad esempio, in generale funzionari civili, ricoprivano anche compiti di
carattere militare legati principalmente al controllo del servitium e
dell'arruolamento degli uomini. La figura dei comandanti operativi (i 'generali') era
costituita dai capitanei. La differenza tra la carica di marescallus, nell'accezione alta
del termine, e quella di capitano è da individuare nel carattere d'istituzione
permanente della prima, contrapposto a quello temporaneo della seconda. Infatti, i
capitanei e i vicari generali svolgevano una funzione di comando operativo legata
alla regione e al tempo delle campagne ed esercitavano la propria autorità su 'corpi
d'armata' principalmente costituiti da truppe dei comuni ghibellini, e solo
parzialmente da unità del Regno; i marescialli, invece, rivestivano incarichi di

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carattere più duraturo e legati ad aspetti più istituzionali dell'organizzazione
dell'esercito del Regno.

Gli eserciti federiciani, in linea con quelli del tempo, non erano organizzati in unità
stabili. Essi si raggruppavano in base all'appartenenza etnica o al legame feudale,
guidati dai singoli capi della nobiltà. Essi venivano però divisi, durante le operazioni
belliche, in unità tattiche più o meno grandi. Queste erano sostanzialmente due:
quella superiore, detta acie, con termine che riecheggiava il latino classico, e quella
inferiore detta connestabilia (o compagnia o banderia). La prima non era composta
da un numero fisso di uomini, ma veniva formata dividendo in parti più o meno
uguali l'esercito in campo. In media queste formazioni potevano comprendere dai
trecento ai cinquecento uomini: la formazione inferiore (connestabilia) era di
carattere permanente e forse preesistente al momento vero e proprio della
campagna. Almeno, tale era il caso degli stipendiarii tedeschi. Costoro erano
organizzati secondo un preciso ordinamento basato su unità tattiche dette banderie
o connestabilie, di venticinque uomini ognuna, guidate da un connestabile e
raggruppate sotto un proprio vessillo.

Per quanto concerne l'apparato logistico, è difficile naturalmente rinvenire notizie


specifiche nelle fonti dell'epoca. Pur tuttavia, la rilevanza che l'apparato logistico
rivestiva negli eserciti imperiali traspare dal fatto che l'intero settore era sottoposto
al comando di uno dei più alti ufficiali militari del Regno, il marescallus, il quale, tra i
suoi compiti, aveva proprio quello di sovrintendere alla cura dei rifornimenti e al
controllo e alla sistemazione delle vie di comunicazione necessarie alla circolazione
degli stessi. Le guarnigioni dei castelli ‒ che comprendevano, accanto alla
guarnigione propriamente militare (castellano, servientes, vigiles), un personale
civile addetto ai servizi ‒ erano approvvigionate direttamente dalla Curia o dai
feudatari incaricati. Il rifornimento del vitto delle truppe di campagna, invece, era a
carico dei singoli milites, e ciò si spiega forse proprio con la scarsa capacità di
assicurare un servizio logistico in grado di trasportare grandi quantità di derrate;
tuttavia, in parte, pare che il servizio venisse anche assicurato dai mercanti al loro
seguito, che agivano in privato e vendevano a prezzo di mercato, salvo qualche
intervento di calmieramento o di repressione delle frodi da parte dei comandi
militari. Un altro aspetto importante dei servizi logistici dell'epoca era senz'altro
quello relativo agli uomini addetti alle costruzioni delle macchine, degli
accampamenti e degli altri dispositivi d'attacco e di difesa. Gli eserciti di Federico
erano accompagnati da folti gruppi di qualificati artigiani o di semplici manovali
addetti a tali scopi. Resta però da verificare in che misura questo personale fosse
parte integrante dell'esercito, seguendolo nei suoi spostamenti, oppure fosse
semplicemente reclutato mano a mano nei luoghi ove si svolgeva la campagna. Altro
interrogativo rimane quello della partecipazione diretta del personale militare a
questi tipi di lavori.

La guerra medievale era in genere fatta di pochi episodi campali e molti assedi. In
circa vent'anni di guerra con i comuni una sola grande battaglia campale fu
combattuta, quella di Cortenuova; al contrario, molti sono gli episodi di assedi. Lo
scontro di Cortenuova ebbe una vasta risonanza in tutta l'Europa del tempo, non fu
però il solo della guerra lombarda. Questa si protrasse per circa quindici anni
durante i quali l'imperatore condusse varie campagne caratterizzate da una serie
d'episodi 'minori', definibili tali dallo scarso rilievo che essi trovano nelle cronache,
ma non per questo poco importanti dal punto di vista strategico. Nel corso di queste
vicende l'ingente sforzo bellico dello Svevo si scontrò con due insormontabili
ostacoli, uno politico, l'altro militare. Dal punto di vista politico, gli scopi della sua
guerra non erano tanto quelli di annientare i ribelli, bensì di assicurarsi la loro
devozione per imporre la pax imperiale, che avrebbe dovuto consentirgli di
riprendere i suoi grandi disegni universalistici di consolidamento del Sacro Romano
Impero e di lotta contro gli infedeli e i tartari. Dal punto di vista strategico, quindi, la
lotta si conduceva per assicurarsi la fedeltà del maggior numero di città, cercando di
isolare soprattutto Milano, capofila della resistenza guelfa, e tale scopo veniva
perseguito con mezzi di pressione diretta e indiretta, diplomatici e militari. Dal
punto di vista tattico, è chiaro che un tale tipo di guerra fosse segnato dalla

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specificità delle condizioni politiche e territoriali della regione teatro delle operazioni.
Nello scenario lombardo, una fitta rete di città-stato, con i propri fertili territori,
guadi, fiumi, ponti e strade, difesi da una serie infinita di castelli e fortificazioni,
costituiva un difficile terreno per le operazioni degli eserciti imperiali. La tattica dei
lombardi consisteva nel tentativo di ostacolare la manovra e il movimento del
nemico attraverso il controllo delle linee di comunicazione e di transito, ottenuto col
rafforzamento di difese artificiali e naturali. Da parte sua Federico tentava di
ovviare alla prudenza dei suoi avversari cercando di attirarli in campo aperto con
astuzie e imboscate. Il caso più eclatante è costituito proprio da Cortenuova, che
può configurarsi come un'imboscata in grande stile.

In tale contesto la guerra assumeva spesso le caratteristiche di guerra d'assedio.


Tre grandi assedi, Viterbo, Brescia e Parma, rappresentarono altrettanti insuccessi
imperiali, nonostante lo spiegamento di forze e di mezzi. Il loro fallimento
lascerebbe intravedere un'incapacità nel campo ossidionale da parte delle armate
sveve. Tuttavia, va rilevato che, a fronte di questi insuccessi, altri episodi
andrebbero ascritti a favore dell'imperatore nel campo della guerra d'assedio. Si
deve aggiungere, inoltre, che l'assedio delle città era sempre molto difficile: queste
rappresentavano un ostacolo ben più coriaceo ‒ per il loro retroterra di uomini e
risorse, e per il fattore morale ‒ dei singoli e isolati castelli, e poche furono le grandi
città catturate con gli assedi. D'altra parte esse rappresentavano allo stesso tempo
la posta più alta dello scontro in quanto gangli vitali del controllo sia militare sia
economico del territorio. Se ciò era vero nel panorama generale europeo, a maggior
ragione lo era nell'Italia centrosettentrionale del Duecento, la regione più
fortemente urbanizzata dell'Europa del tempo. L'imperatore aveva di fronte città
potenti e popolose, inespugnabili dietro le loro cortine di mura, capaci di armare
grandi eserciti che controllavano il territorio attraverso castelli e presidi militari dei
punti nevralgici. In occasione della guerra, queste, già di per sé sufficientemente
munite, si preparavano a fronteggiare gli assedi imperiali rafforzando ulteriormente
le difese delle proprie mura. Le stesse macchine da lancio, anche le nuove arrivate
quali i trabucchi a contrappeso, erano incapaci di provocare grandi danni alle città;
esse avevano soprattutto un ruolo di deterrente psicologico teso a fiaccare la
resistenza avversaria, ma difficilmente riuscivano a demolire le difese murarie (v.
Ingegneria). Le altre macchine d'attacco erano spesso neutralizzate dalle
contromisure degli assediati, così come le opere di minamento, che pure
costituivano uno dei migliori strumenti d'assedio contro le mura di una città. Ne è
un esempio il caso di Faenza, dove le mine erano state scavate tanto da portare
l'attacco all'interno stesso della cinta muraria. Per quanto riguarda le tecniche e le
tattiche ossidionali, le vicende dell'assedio di Viterbo forniscono il quadro esatto di
che cosa volesse dire l'assedio di una città popolosa e ben munita, e grazie
soprattutto a una relazione di parte papale si possono conoscere interessanti
elementi delle tecniche d'assedio e di difesa dell'epoca. In definitiva si può affermare
che nel campo delle tecniche ossidionali Federico era semplicemente figlio del suo
tempo, tempo nel quale, in attesa dell'avvento della polvere da sparo, la tecnica
degli assedianti doveva per forza di cose prevedere un uso accorto e bilanciato delle
varie forme di assedio: blocco delle vie di rifornimento, saccheggio del territorio, uso
delle macchine e degli uomini. Non quindi in una presunta incapacità nella gestione
della guerra d'assedio, né tanto meno in scarse attitudini tattico-strategiche
dell'imperatore, vanno ricercate le cause della sconfitta, o meglio della non-vittoria
imperiale nella guerra contro i comuni, bensì principalmente nel generale contesto
politico, sociale e istituzionale.

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