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Le note uscivano l'una dietro alle altre con una facilità incredibile, gli era normale.

Ormai suonava una variazione dietro l'altra senza nemmeno pensare a quale nota
suonare. Ne finiva una e subito c'era l'altra. Quando poi aveva finito la
preparazione si metteva a suonarle per piacere e passava dall'una all'altra
seguendo il suo piacere. Non l'avrebbe mai fatto in concerto, lì c'era bisogno della
perfezione. Non amava particolarmente Bach ma le variazioni Goldberg erano per
lui eccezionali, si era messo a studiarle per curiosità e poi erano diventate una
sua passione. Non aveva nemmeno bisogno di giustificarla. La sera avrebbe avuto
un concerto e avrebbe dovuto suonare proprio le variazioni Goldberg, era un'idea
del suo insegnante di pianoforte. Avrebbe preferito suonare Beethoven, Mozart,
Scarlatti ma aveva insistito per Bach. Aveva accettato alla fine, ma gli sembrava
di doversi confrontare con Gould, di cui aveva sentito qualche anno prima le
stesse variazioni e, sinceramente, non ne sembrava all'altezza. La sala di musica
era piena di gente ma non si sentiva intimorito, non riusciva nemmeno a
distinguere i volti, eppure c'erano i suoi genitori, gli amici, la sua fidanzata e la
sua famiglia, tanti conoscenti, tutti venuti ad ascoltarlo suonare il pianoforte.
Regolato lo sgabello, si mise al piano, attacca il primo pezzo. È la perfezione, le
note gli uscivano una dietro l'altra come se sgorgassero da una sorgente, le mani
scivolavano accarezzando quello strumento magico da cui uscivano, adesso, dei
suoni celesti, speciali, perché delle mani dotate di una certa magia sapevano farlo
cantare. Si rendeva conto che erano parole, che il talento era importante ma che
dietro a quella apparente facilità c'era del faticoso studio, del sacrificio di tempo e
di energie, quasi una devozione per quello strumento. Ma tutte queste cose gli
apparivano tenue, flebili, trasparenti. Era la musica che l'importava su tutto, che lo
portava via da quella sala, in un mondo sonoro in cui il tempo normale non
esisteva più e dove lo spazio era illusione. Poi, alla nona battuta della settima
variazione, dove si doveva sentire una banalissima semiminima di sol, esce un
suono terribile. Suona un altro tasto e esce lo stesso suono. In attimo lo
strumento si trasforma in un qualcosa che emette un solo suono terrificante.
Smette di suonare, in sale c'è un silenzio innaturale. Non guarda la gente, guarda
lo strumento, si sente tradito. Urla.
Parigi, quartiere di Belleville, 20° arrondissement. La sveglia suona sempre a
quell'ora tutte le mattine. Sei precise. Interrompe sempre qualcosa che non
saprebbe definire sogno o incubo. Sogno perché interrompe qualcosa che gli piace
ma, incubo, perché in un qualcosa tutto sbagliato. Non si ricorda mai che sogno
è ma è lì tutte le mattine quando la vecchia sveglia comprata dall'Abbe Pierre in
rue saint Blaise, si mette a suonare e di scatto s'alza senza nemmeno
domandarsi in che mondo si trova. Non serve a nulla del resto. Il sogno o quel
che è svanisce istantaneamente. Non è il momento di pensare a quello che sarà
la sua giornata, in effetti non ci pensa nemmeno dopo, è meglio non pensarci.
Già la giornata è difficile se poi ci pensa allora non passerà mai. In quello che
si ostina a chiamare bagno si lava il viso. Acqua fredda, da quando lo
scaldacqua elettrico ha smesso di funzionare, non può permettersi di ripararlo e il
padrone di casa, dopo aver riscosso l'affitto, diventa sordo sino al mese
successivo. L'acqua fredda fa bene, ha incominciato a pensare, la mattina ti
sveglia proprio bene. È più difficile trovare qualcosa di positivo a fare la doccia
fredda d'inverno e infatti va a farla da un'altra parte, a volte un altro affittuario, o
nei vari centri di accoglienza che offrono servizi simili. D'estate è ad acqua fredda,
basta abituarcisi. Si prepara un caffè con una moka italiana originale, arrivata
chissà come dall'Abbe Pierre, non adatta alla macinatura del caffè francese ma
con un risultato che vagamente somiglia ad un caffè. Di mattina l'importante è che
sia caldo e il fornelletto elettrico funziona decentemente. Si veste e dopo aver
controllato che tutto si a posto chiude la porta e scende una stretta scala a
chiocciola pressoché infinita che lo porta dall'ottavo piano al portone del palazzo.
In strada ci sono poche persone frettolose, è presto, anche lui ha un passo
veloce, quello di chi deve andare a lavorare, il metrò, Belleville, è qualche
centinaio di metri. Belleville, Colonel Fabian, Jaurés, Stalingrad, La Chapelle,
Barbés Rochechouart, cambio di linea, 4 direzione Porte de Clignancourt, Chateau
Rouge, Marcadet Poissonniere, Simplon, Porte de Clignancourt. Tutti i giorni della
settimana sale le scale di Clignancourt e dopo un quarto d'ora a piedi arriva alla
sede sociale della Heribert Dumont et Fils dove, da qualche anno si occupava
della pulizia dell'immobile per conto de La Grain de Poussière, la ditta per cui
lavorava. La mattina presto prima dell'apertura degli uffici lucidava e lustrava marmi
ottoni, stucchi, finestre dell'antico palazzo, sede da sempre della Heribert Dumont
et Fils. Heribert Dumont, il cui ritratto troneggiava nell'ingresso d'apparato dell'hotel,
era scomparso da tempo, come del resto i suoi figli, era rimasta la società che
nel corso degli anni era diventata una società per azioni di cui gli ultimi eredi
Dumont non possedevano che poche azioni. Se lo sguardo fermo e immobile di
Heribert era quello di un capitano d'industria di qualche secolo fa, che il pittore
aveva colto nel pieno della sua potenza economica e sociale, di cui l'hotel
parigino era un simbolo, se fosse tornato all'improvviso a vedere la sua azienda
avrebbe trovato immutato il nome e l'hotel, sede della società. Se lo immaginava
quando lucidava la balaustra più che centenaria di ferro battuto con ornamenti
floreali e passamano di legno esotico dello scalone d'onore, chef d'ouvre del
famoso, ma sconosciuto ai più, architetto che per conto di Heribert aveva costruito
l'hotel. Se lo immaginava a visitare gli uffici pieni di computer, stampanti,
arredamenti ultimo design, segretarie, direttori, collaboratori, impiegati che affollavano
le sue stanze centenarie. Heribert non avrebbe capito, forse. Aveva osservato
migliaia di volte il suo ritratto e gli sembrava che il pittore fosse riuscito a
afferrare un lato non troppo evidente della personalità di Heribert, c'era nel suo
sguardo un che di pungente, quasi ironico, ben differente da quelle espressioni di
borghesi arrivati al successo economico, sazie e mai sazie, che sanciscono il
culmine del successo personale di tanta ritrattistica ufficiale. Il pittore doveva
conoscere bene Heribert o era un artista eccezionale, anche se il nome sulla
targhetta non gli rammentava nessuno. Heribert, passato il primo stupore, si
sarebbe adattato subito, avrebbe compreso l'economia di oggi e ne avrebbe
sfruttato a pieno tutte le possibilità che poteva, come uomo di affari. Del resto
doveva essere un uomo veramente eccezionale se la sua impresa aveva resistito
per cosi tanti anni ai suoi concorrenti e ai suoi eredi.

All'apertura degli uffici il suo lavoro alla Heribert Dumont et Fils era finito e
riprendeva il metro a Porte de Clignancourt per andare al cinema. La Grain de
Poussiére aveva in appalto la pulizia di un cinema, tutte le mattine sino all'ora di
pranzo, poi nel pomeriggio altri luoghi di attività che in quel momento non erano
attivi. Si spostava nella città con il metrò, da un luogo all'altro. Sul lavoro era
preciso e affidabile. Ritornava a casa la sera tardi a Belleville, dopo aver pulito gli
ultimi uffici. Da lunedì a sabato. Non che fosse il suo mestiere, tutt'altro, ci si era
adattato, e per qualche scrupolo professionale faceva il suo lavoro con la massima
solerzia. Per questo aveva la fiducia del titolare. Ma anche se era un lavoro duro,
poteva permettersi un alloggio, se l'alloggio era indecente, beh andava bene lo
stesso, aveva conosciuto di peggio. Quando era arrivato a Parigi, qualche anno
prima, non aveva che pochi spiccioli. Gli altri li aveva spesi tutti viaggiando da un
città all'altra, senza sapere nemmeno lui dove andava e perché ci andava. Non
voleva ricordare le notti passate in locali, i soldi spesi con prostitute, le spese
inutili e i regali costosi. Non che avesse dilapidato un patrimonio, questa era una
delle cose che solo gli annoiati eredi di grosse fortune hanno la capacità di fare,
non aveva poi molto. Se si fosse domandato il perché di quella vita non avrebbe
avuto risposte, ma c'era un senso, da qualche parte. Arrivato a Parigi non aveva
che potuto ricominciare da zero. Era stato duro, lavori saltuari, alloggi di fortuna,
notte nei centri di accoglienza, pasti irregolari. La linea che separava la povertà
dalla precarietà era sottilissima dal lato della precarietà e pressoché invalicabile da
quello della povertà.
Perché era arrivato a Parigi. Tutti i posti del mondo sono uguali per andare
a incagliarsi, come aveva fatto lui. Non poteva pensarci, non voleva pensarci
affatto. Il lavoro in questo lo aiutava. L'aveva trovato perché non si era lasciato
andare con la bottiglia, perché aveva lottato per quel che gli rimaneva della sua
dignità, che in realtà, quella poca, se l'era dovuta riconquistare perché se l'aveva
avuta una volta, questa era solo nominale, di facciata, ma, anche se pensava di
averla non ce l'aveva più. Se n'era reso conto un giorno che aveva fatto di tutto
per dimenticare.
Perché era arrivato a Parigi. Forse perché a Parigi aveva avuto l'ultimo
momento felice. Se ci avesse pensato avrebbe sentito che non erano passati anni,
ma secoli, da quel momento, ma ormai erano ricordi di una vita che non era più
la sua e non ci pensava mai.

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