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«Nel mondo moderno, l’artista, lo scienziato, il filosofo vivono in un totale isolamento, sono individui dispersi. Entrano tutt’al più in classi professionali, ma non trovano nessuna comunità che li sostenga sin dalla giovane età. L’artista, il filosofo, così isolato, è preda del potere mondano e politico, oppure va incontro a un destino tragico». Quando Giorgio Colli scrisse queste parole (nel suo illuminante Dopo Nietzsche, del 1974, edito da Adelphi), sapeva — a malincuore, crediamo — che non avrebbe trovato alcun vero artista, filosofo o scienziato al mondo in grado di contraddirlo. Ma è stato forse così diverso nel passato? In un certo senso, sì, poiché non di rado l’artista poteva godere dell’appoggio e dei favori di qualche Principe ammaliato dal fascino dell’arte. Mentre oggi, benché vi siano centinaia di uomini sulla faccia della terra che hanno accumulato una ricchezza economica spaventosa, quanti tra essi dimostrano di avere quella signorile magnanimità, quella raffinata propensione artistica, quell’alto mecenatismo che induceva les Seigneuries d’antan a investire nella creazione di opere d’arte che potessero perdurare nei secoli, sopravvivendo alla loro piccola maschera (o persona, che dir si voglia)?
Titolo originale
UN DESTINO TRAGICO - CONSIDERAZIONI INATTUALI SU ARTISTI, FILOSOFI E SCIENZIATI
«Nel mondo moderno, l’artista, lo scienziato, il filosofo vivono in un totale isolamento, sono individui dispersi. Entrano tutt’al più in classi professionali, ma non trovano nessuna comunità che li sostenga sin dalla giovane età. L’artista, il filosofo, così isolato, è preda del potere mondano e politico, oppure va incontro a un destino tragico». Quando Giorgio Colli scrisse queste parole (nel suo illuminante Dopo Nietzsche, del 1974, edito da Adelphi), sapeva — a malincuore, crediamo — che non avrebbe trovato alcun vero artista, filosofo o scienziato al mondo in grado di contraddirlo. Ma è stato forse così diverso nel passato? In un certo senso, sì, poiché non di rado l’artista poteva godere dell’appoggio e dei favori di qualche Principe ammaliato dal fascino dell’arte. Mentre oggi, benché vi siano centinaia di uomini sulla faccia della terra che hanno accumulato una ricchezza economica spaventosa, quanti tra essi dimostrano di avere quella signorile magnanimità, quella raffinata propensione artistica, quell’alto mecenatismo che induceva les Seigneuries d’antan a investire nella creazione di opere d’arte che potessero perdurare nei secoli, sopravvivendo alla loro piccola maschera (o persona, che dir si voglia)?
«Nel mondo moderno, l’artista, lo scienziato, il filosofo vivono in un totale isolamento, sono individui dispersi. Entrano tutt’al più in classi professionali, ma non trovano nessuna comunità che li sostenga sin dalla giovane età. L’artista, il filosofo, così isolato, è preda del potere mondano e politico, oppure va incontro a un destino tragico». Quando Giorgio Colli scrisse queste parole (nel suo illuminante Dopo Nietzsche, del 1974, edito da Adelphi), sapeva — a malincuore, crediamo — che non avrebbe trovato alcun vero artista, filosofo o scienziato al mondo in grado di contraddirlo. Ma è stato forse così diverso nel passato? In un certo senso, sì, poiché non di rado l’artista poteva godere dell’appoggio e dei favori di qualche Principe ammaliato dal fascino dell’arte. Mentre oggi, benché vi siano centinaia di uomini sulla faccia della terra che hanno accumulato una ricchezza economica spaventosa, quanti tra essi dimostrano di avere quella signorile magnanimità, quella raffinata propensione artistica, quell’alto mecenatismo che induceva les Seigneuries d’antan a investire nella creazione di opere d’arte che potessero perdurare nei secoli, sopravvivendo alla loro piccola maschera (o persona, che dir si voglia)?
CONSIDERAZIONI INATTUALI SU ARTISTI, FILOSOFI E SCIENZIATI
di Tommaso Iorco (autore tutelato dalla S.I.A.E.)
«Nel mondo moderno, l’artista, lo scienziato, il
filosofo vivono in un totale isolamento, sono individui dispersi. Entrano tutt’al più in classi professionali, ma non trovano nessuna comunità che li sostenga sin dalla giovane età. L’artista, il filosofo, così isolato, è preda del potere mondano e politico, oppure va incontro a un destino tragico». Quando Giorgio Colli scrisse queste parole (nel suo illuminante Dopo Nietzsche, del 1974, edito da Adelphi), sapeva — a malincuore, crediamo — che non avrebbe trovato alcun vero artista, filosofo o scienziato al mondo in grado di contraddirlo. Ma è stato forse così diverso nel passato? In un certo senso, sì, poiché non di rado l’artista poteva godere dell’appoggio e dei favori di qualche Principe ammaliato dal fascino dell’arte. Mentre oggi, benché vi siano centinaia di uomini sulla faccia della terra che hanno accumulato una ricchezza economica spaventosa, quanti tra essi dimostrano di avere quella signorile magnanimità, quella raffinata propensione artistica, quell’alto mecenatismo che induceva les Seigneuries d’antan a investire nella creazione di opere d’arte che potessero perdurare nei secoli, sopravvivendo alla loro piccola maschera (o persona, che dir si voglia)? Tiranni questi uomini lo furono senza alcun dubbio, ma perlomeno albergarono propensioni artistiche, e anche grazie al loro sostegno sono giunti a noi capolavori unici, diversamente da quanto accade ai potenti di oggi, del tutto privi di slancio, di generosità, di autentica grandezza; e il cui dispotismo, peraltro, pur se abilmente camuffato, non è certo minore di quello dei loro più illustri predecessori. Celebri i versi di Ludovico Ariosto coi quali assolve Cesare Augusto: «L’aver avuto in poesia buon gusto | La proscrizion iniqua gli perdona» (Orlando Furioso, XXXV, 26). Non più così, oggi, nell’èra dei nanerottoli boriosi. E tuttavia, la questione va articolata in altre direzioni ancora. Innanzi tutto, è da vedere se il destino più tragico, per un artista, consista nel chiudersi in un isolamento più o meno forzato, come quello di un Van Gogh o di un Dino Campana, oppure nel farsi preda del potere mondano e politico cui Colli cennava. E, soprattutto, non dobbiamo dimenticare che, nel passato, l’artista — ponendosi sotto le ali protettive di un qualche signorotto — si trovava di fatto costretto a mettersi al servizio di un potere religioso o politico, con tutti i compromessi cui era costretto a sottoporsi. Con l’unica, capitale differenza, che quanto allora era un male necessario, oggi risulta essere mero servilismo, volgare prostituzione. Qualunque artista, nel mondo moderno, può sopravvivere senza doversi vendere — quando si inchina al potere costituito, è solo perché la parte più opportunista e mercantile della sua natura prende il sopravvento su quella più genuinamente artistica. Oltretutto, il mecenate del passato, in fondo in fondo, lo si poteva raggirare come si voleva: basti pensare al medioevo in Italia, in cui il Papa era così gretto da non accorgersi minimamente che le navate della basilica superiore di Assisi, dopo essere state affidate al pennello sublime di Giotto, hanno preso a tuonare un’aspra invettiva contro la corruzione e la ricchezza dei sedicenti vicari di Cristo (e la condanna, guarda caso, suona più forte a mano a mano che ci si appressa alla pala dell’altare!). Oggi, l’artista che crede farsi beffa del proprio protettore figura esattamente come una sgualdrina che pensa di essere più scaltra del proprio magnaccia, e che finisce per essere da questi strangolata. «Che volgarità essere qualcuno», recita un verso di Emily Dickinson. Solo i mediocri sgomitano a destra e a manca nella smania di diventare ‘qualcuno’. I veri, grandi artisti non hanno bisogno di dimostrare alcunché. Sul finire dell’800, Tolstoj scrisse un saggio magistrale e provocatorio (seppure fondamentalmente inaccettabile, ci pare) dal titolo «Che cos’è l’arte?». Oggidì, all’alba del III millennio, noi vorremmo sapere, piuttosto, chi è l’artista, dato che tutti quanti oramai — dalla soubrette Coscialunga al presentatore di Turno — si definiscono tali. Ora, quando si arriva a generalizzare in questo modo, è perché si è arrivati a raschiare il fondo della banalizzazione più grottesca, e le parole perdono tutto il loro valore. Una cosa è infatti enunciare una verità generale, come ad esempio fece Benedetto Croce nella sua Estetica, affermando che «la materia poetica corre nell’animo di tutti: solo l’espressione, cioè la forma, fa il poeta», ben altra concludere, come ridicola illogica conseguenza di un simile postulato, che anche il più insulso e pedestre scribacchino merita l’alloro. Come si sarà certamente notato, procedendo in questo nostro breve ragionamento, ci siamo concentrati sempre più esclusivamente sull’artista, tralasciando volutamente le altre due figure con le quali abbiamo iniziato il presente articolo, ovvero il filosofo e lo scienziato, poiché il discorso si farebbe evidentemente troppo complesso. Giacché, dopo Nietzsche, per l’appunto, «il filosofo moderno è simile a un giocatore di scacchi che giuochi una partita da solo, muovendo i pezzi dell’avversario in modo che sia utile (ma la cosa non deve trasparire) allo svolgimento del proprio giuoco», per usare nuovamente le parole argute e mordaci di Giorgio Colli (op.cit.), e chi si interessa di filosofia contemporanea sa quanto l’affermazione sia vera. Mentre gli scienziati «restringono il campo della loro indagine, circondano di steccati i loro terreni, e mettono poi in vendita i prodotti “utili” di loro proprietà» (ibidem). L’individuo rappresentativo di questo atteggiamento a dir poco mediocre è, per lo stesso Colli, «Cartesio: un impasto di basse passioni, di invidie e di risentimenti, pauroso, teso a reprimere e soffocare tutti gli ingegni brillanti intorno a lui, ipocrita e gesuitico nel mascherare l’eterodossia di certi suoi pensieri. Se si studia la storia della scienza moderna in connessione alla personalità dei suoi protagonisti, viene in mente la caratterizzazione data da Nietzsche ai filologi classici del suo tempo: creature deformi, sordidi pedanti, maledetti cristiani» (ib.). Così, pare non esserci salvezza per gli scienziati e i filosofi moderni. E, in tutta sincerità, quando vediamo artisti-cortigiani che si rodono il fegato alla notizia del Premio Nobel assegnato a Dario Fo, avremmo voglia di strappare a questi «poeti laureati» (per dirla con Montale) le loro onoreficenze accademiche, di escluderli da ogni agone poetico (seguendo in tal modo un consiglio di Eraclito) e di bandirli infine dalla Repubblica, come già fece Platone nella sua.